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RELAZIONE DI “Augusto e Il Potere delle Immagini” - P.

Zanker

Il saggio in questione fornisce un interessante testimonianza sul ruolo rivestito dalle immagini, sia
pubbliche che private, durante il principato Augusteo. La nuova era, saeculum aureum, aveva posto fine a
decenni ininterrotti di guerre civili, carestie e scontri politici, proiettando Roma e il nascente Impero in una
nuova età di pace e prosperità. Tale percezione come vedremo fu notevolmente alimentata dalla longa
manus di Augusto, il quale influenzò direttamente le più grandi personalità artistiche dell’epoca affinché
facessero propri i parametri stilistici proposti dalla famiglia imperiale. Quando Ottaviano assunse il titolo di
Augustus , in seguito a senato consulto del 27 a.C., il processo raggiunse il suo apice: l’imperatore era ormai
identificato come un genium, un nume tutelare venerato agli angoli delle strade e a cui si offrivano sacrifici,
comprendendo la natura provvidenziale di un uomo che aveva posto fine alle incertezze della tarda
repubblica, proiettando Roma in una nuova età dell’oro. Tutto ciò, così come le campagne politiche, morali
e sociali del regime, doveva tuttavia essere rafforzato da un corredo di immagini artistiche che potessero
circolare liberamente da un capo all’altro dell’Impero, rendendo manifesti i programmi del regime. Monete,
statue, carmi encomiastici, bassorilievi divennero i principali mezzi di propaganda. Circoli
letterari come quello di Mecenate contribuirono alla diffusione letteraria di panegirici rivolti al nuovo
imperium populi romani e al suo provvidenziale creatore, Augusto. Orazio, Virgilio, Varo e - anche se con
velata ironia e giocosità – lo stesso Ovidio celebrarono la figura del princeps con molti dei propri versi. Lo
stesso Augusto fu autore di un’opera autocelebrativa nota con l’eloquente titolo di Res Gestae Divi Augusti.
Bisogna quindi incominciare a considerare come il denso linguaggio figurativo svolse un ruolo determinante
nell’ascesa al solio imperiale e nel mantenimento del potere nelle solide mani della gens Iulia. Quando
Ottaviano si trovò catapultato sulla scena politica romana nel 44 a.C. (adottato da Giulio Cesare, alla cui
morte divenne erede universale) la situazione era critica: il secondo triumvirato, stipulato in funzione anti -
cesaricida, incominciava già a presentare le prime fratture interne sull’asse Ottaviano-Antonio. Già nel 43
a.C. infatti si erano scontrati apertamente nella Guerra di Modena, dove il giovane Ottaviano, ertosi a
garante della Repubblica e del Senato cercò di impedire che gli ultimi seguaci di Cesare (tra cui lo stesso
Marco Antonio) istituissero la monarchia. Lo scontro decisivo di Filippi (42 a.C.) portò alla disfatta dei
cesaricidi Bruto e Cassio ma contemporaneamente alla rottura del secondo triumvirato. Le dispute fra
Ottaviano e il rivale Antonio culminarono con la Battaglia di Azio del 31 a.C., i cui riscontri simbolici
tratteremo più avanti. Prima della sua definitiva associazione al potere, Ottaviano si fece garante delle
antiche tradizioni repubblicane, i mores maiorum , contro ogni degenerazione di natura monarchica.

I rapporti con la Grecia e il mondo ellenistico

La cultura romana rimase profondamente segnata a partire dal II secolo a.C. da rapido processo di
ellenizzazione. La classe dirigente si divise fra conservatori, capitanati da Catone, soprannominato proprio
in questa occasione il Censore, i quali non tolleravano che gli antichi costumi albani venissero abbandonati
a vantaggio della luxuria , e moderati, molto più aperti alla commistione e al dialogo con l’arte e la cultura
greca. Al termine della Repubblica risultò palese che avesse prevalso la seconda corrente, mentre la prima
rimase fortemente annidata nella Curia e negli esponenti più illustri, ma decaduti, del patriziato. Lo stesso
Orazio nell’Epistola ad Augustum lascerà descrivere ai propri versi come “la Grecia conquistata abbia a sua
volta sottomesso il Lazio vincitore” con la propria cultura sublime. Lo scenario artistico-culturale dell’epoca,
da un punto di vista istituzionale, era molto legato alla tradizione arcaica: i nudi integrali erano raramente
utilizzati (diversamente dal canone alessandrino) per la composizione statuaria, riservati ai generali
vittoriosi o periti per la patria; il modello tipico prevedeva la classica immagine del cittadino togato (es.
Togato Barberini), anche la ritrattistica si serviva dei canoni della severità e della durezza negli ambiti
pubblici. Tuttavia l’aspetto privato sfuggiva al controllo del Senato, facendo in modo che la cultura
ellenistica dilagasse: tale contraddizione si manifestava prevalentemente nella tarda repubblica nell’ambito
sepolcrale, dove si manifestavano notevoli disparità (consoli morti in servizio venivano inumati in tombe di
dimensioni inferiori a quelle di liberti o ricchi professionisti) e nella sfera intima delle villae di campagna,
dove i ricchi cittadini potevano circondarsi di qualsiasi prodotto artistico. Anche la ritrattistica ebbe i suoi
primi cedimenti agli albori dell’ascesa della Gens Iulia: nel 60-50 a.C. all’altezza del primo triumvirato, le
immagini di Cesare e Pompeo presentavano espressioni più rilassate, quasi sorridenti, prive di quella
severità istituzionalizzata. I due, poi rivali in guerra e in politica, iniziarono un’intensa campagna edilizia
volta ad ottenere prestigio personale. Lo stesso Cesare, rampollo di una famiglia di antica origine albana
ormai decaduta, pose l’attenzione del pubblico sulla presunta origine divina della propria gens, che la
tradizione voleva discendere direttamente dal troiano Enea, figlio di Venere. La progettazione e la
ristrutturazione del tempio di Venere Genitrix è un chiaro esempio di questo processo legittimatorio. Alla
morte di Cesare la situazione raggiunse il massimo livello con l’apoteosi del Divus Iulius, fortemente voluta
dal popolo e dai seguaci del defunto generale. Le guerre civili però sancirono la massima frattura fra
tradizione-contegno e gusto ellenistico. Ottaviano si fece promotore della virtus repubblicana, dei valori
morali degli antenati, fedele - almeno esteriormente- ai progetti del Senato e al ruolo centrale di Roma;
Antonio invece, affascinato dal fatale monstrum Cleopatra, divenne il principale rappresentante della
cultura “asiana”, impregnata dei tratti ellenistici tipici delle monarchie macedoni. Così mentre il futuro
imperatore conseguiva successi militari, grazie all’esperienza del fedele M.V. Agrippa, a vantaggio di un
Senato sempre meno influente costruendosi la maschera propagandistica di difensore e salvatore della
Repubblica (restitutio rei publicae), dall’altro Antonio ormai risiedeva stabilmente ad Alessandria dove
conduceva la vita di un sovrano ellenistico all’insegna di sontuosi banchetti e riti orgiastici. Proprio intorno
alla luxuria, all’immagine del cittadino abbandonato all’otium e ai piaceri, completamente schiavo del vino
e degli istinti dionisiaci Ottaviano costruì la campagna diffamatoria nei confronti del rivale. Ad aggravare la
condizione di M. Antonio fu senza dubbio la tendenza di quest’ultimo a farsi ritrarre in ambito numismatico
cinto dalla tiara regale dei sovrani macedoni, alla tranquillità con cui un cittadino romano in vita si faceva
venerare come una divinità esigendo l’atto della proskynesis. Lo scontro incombente divenne per esteso la
lotta mortale fra due immagini: il razionale Ottaviano, garante della tradizione assunse i tratti dell’Apollineo
mentre il corrotto Antonio, dedito ai riti orgiastici divenne l’emblema del Dionisiaco. Con la sconfitta di Azio
e la conquista dell’Egitto nel 31 a.C. la tradizione asiana, ellenistica e dionisiaca venne simbolicamente
messa da parte. La vittoria della civiltà sulla barbarie venne apertamente celebrata a Roma dal princeps con
la costruzione del Tempio di Apollo Aziaco sul colle Palatino, eloquentemente collegato alla dimora di
Ottaviano. Come pegno per l’impresa il princeps vittorioso fece fondere tutte le statue in argento
tributategli dal Senato per i successi ottenuti prima di Azio, e con quanto ricavato fece realizzare diversi
crateri in oro, posti poi all’interno del tempio sul Palatino. La ritrattistica che incominciava a subire influssi
ellenistici, divenne sempre più standardizzata, con acconciature, fisionomie ed espressioni ufficiali basate
sulle forme classiche e sui canoni fissati dalla famiglia imperiale. Lo sguardo imperturbabile, quasi
inespressivo divennero i marchi di fabbrica della ritrattistica ufficiale.

I nuovi segni e il nuovo stile politico

Il principato di Augusto si circondò ben presto di una vasta e compatta simbologia volta dapprima a
sottolineare le mirabili vittorie conseguite in ambito militare (fino al 20 a.C. circa), successivamente per
legittimare ulteriormente un progetto politico già considerato come provvidenziale. La vita guerriera del
giovane Ottaviano fu segnata soprattutto da scontri navali al fianco dell’abile ammiraglio Agrippa, poi
marito di Giulia Augusta. Nauloco (36 a.C., contro Sesto Pompeo) ed Azio suggerirono ben presto
l’invincibilità marittima del nascente impero: proprio per questa ragione, il rostrum divenne simbolo di
vittoria e prestigio, comparendo nell’arte sacra, pubblica e privata. Lo stesso Agrippa a riconoscimento dei
meriti conseguiti, era spesso raffigurato cinto dalla corona rostrata. Stesso significato hanno i delfini, le
immagini riferite a Nettuno e i mostri marini. L’invincibilità del nuovo imperatore era costantemente messa
in risalto dalla simbologia di regime: la vittoria alata in posizione eretta sopra il globo, recante in mano le
insegne (probabilmente si riferisce alla restituzione dei vessilli persi a Carre da Crasso nel 53 a.C. ad opera
dei Parti, evento di cui il princeps farà largo uso a fini propagandistici), le composizioni statuarie loricate
come l’Augusto di Prima Porta ribadiscono le origini guerresche della nuova era. Anche da un punto di vista
istituzionale il nuovo regime volle porre in risalto la rinnovata potenza militare dell’Urbe, uscita duramente
provata da decenni di guerre civili. Vennero mantenute e riscoperte le antiche cerimonie dei Triumphi ,
importante risalto venne concesso alle “richieste di amicizia”- che sancivano la sottomissione a Roma-
formulate dalle popolazioni sconfitte attraverso l’atto della prostrazione. Anche il simbolo della corona
civica, o dalle fronde di quercia, proveniva dalla tradizione guerresca repubblicana. Attribuita ad Augusto e
ai suoi discendenti nel 27 a.C., tradizionalmente era assegnata a chi in battaglia avesse salvato un
concittadino (Ob cives servatos): Augusto in qualità di ricostruttore della Repubblica aveva contribuito alla
salvezza dell’intera civitas romana. Tuttavia le pratiche e le pose militari non godevano di un forte
consenso in una società ancora segnata dai conflitti intestini degli anni precedenti, pertanto furono presto
messe da parte a vantaggio di nuove simbologie, quali la sfinge (simbolo di attesa quasi messianica di una
futura età dell’oro) e il clipeus virtutis (scudo esposto nella curia, sulla cui superficie erano elencati le virtù e
i meriti della nuova guida). Scongiurata ogni minaccia, Augusto poté concentrarsi sulla formulazione di un
nuovo piano politico i cui pilastri erano la pietas, la publica magnificentia, i mores maiorum. Con il primo
termine si rappresenta un sentimento propriamente romano di totale venerazione al culto degli antenati,
alla patria e alla famiglia. Per ribadire la propria appartenenza alla gens Iulia, già dal 43 a.C. aveva utilizzato
la simbologia del siderus Iuli, la stella cometa che secondo la tradizione seguì la deificazione di Giulio
Cesare. In questo periodo il princeps si avvicinò molto alla religiosità: entrò a far parte dei principali collegi
sacerdotali della capitale, ricostituendone addirittura alcuni. Festività antiche da tempo dimenticate, come i
Lupercalia (antico rito di fertilità) vennero rifinanziate dall’erario ed addirittura il calendario tradizionale
venne modificato, con l’aggiunta di nuove giornate celebrative. La devozione del nuovo sovrano doveva
ulteriormente sottolinearne l’unicità, la natura provvidenziale, come se la sua persona non fosse altro che
la forza esecutrice di un progetto divino da tempo formulato ed ora in corso di svolgimento. Le molte statue
a capo coperto, come l’Augusto di Palazzo Massimo suggeriscono questa nuova aura di devozione costruita
intorno al sovrano. La politica religiosa ebbe notevole sviluppo in ambito edilizio con la ristrutturazione o la
riedificazione di templi e luoghi di culto abbandonati, secondo i parametri classici e tradizionali (Vitruvio,
De Architectura). Il sacerdozio divenne un importante discriminante di status, a cui aspiravano molti dei
rampolli dell’aristocrazia romana: le processioni di gruppi sacerdotali divennero un topos figurativo nelle
rappresentazioni allegoriche della pietas augustea, come mostra la famosa Ara Pacis del Campo Marzio. I
fregi sono ricchi di rimandi alla devozione del nuovo principato quali i bucrani (rappresentano l’offerta
rituale) e scene di sacrificio, festoni di quercia e alloro (piante sacre rispettivamente a Giove e Apollo),
bende rituali e lituus (pastorale simbolo del sacerdozio). La publica magnificentia
rientra in un progetto di più ampio respiro. Venendo meno ad una condotta edilizia della monumentalità
privata largamente impiegata nella tarda repubblica, Augusto e i suoi fedelissimi -primo fra tutti Agrippa- si
lanciarono in un programma di rivalutazione cittadina, finanziando pubblicamente o di tasca propria la
realizzazione di opere architettoniche straordinarie ed utili per la collettività. Vennero eretti nuovi templi
quale quello di Marte Ultore, venne ampliato il Foro (Porticus Liviae), realizzati nuovi acquedotti e
riorganizzata la planimetria della città. Gli edifici in condizioni disastrose vennero ristrutturati e ricoperti di
materiali pregiati, tanto che in punto di morte Augusto giunse a dire “di aver lasciato una città di marmo, lui
che l’aveva trovata di mattoni” (Svetonio). Il popolo poteva così ritrovare coesione e un senso comune di
moralità contemplando la magnificenza delle opere realizzate. Furono costruiti molti teatri, la cui presenza
era fondamentale per la politica culturale portata avanti dal princeps, volta alla riscoperta dei generi tragici
e comici del periodo arcaico. La struttura del teatro rispecchiava tra le altre cose la nuova organizzazione
sociale proposta dal regime, con una precisa gerarchia anche nella distribuzione dei posti a sedere.
L’immagine di una Roma brulicante di cantieri edili ci è indirettamente trasmessa da Virgilio nel libro I
dell’Eneide, quando Enea contempla Cartagine in costruzione. Il terzo e più importante dei punti simbolico-
politici fu la riscoperta dei mores maiorum, contro il lusso e la corruzione dei costumi dilaganti nell’urbe, e
ai quali non era immune neppure la stessa famiglia imperiale. Con le leggi del 18 a.C. Augusto diede inizio
ad una campagna sociale senza precedenti, volta al proposito astorico di ristabilire in una città cosmopolita
le antiche usanze degli antenati; collaborarono al movimento poeti e scultori. Il princeps con la sua
religiosità diveniva così il modello perfetto da seguire, secondo le caratteristiche di cui faceva sfoggio nella
sfera pubblica; per esteso anche la famiglia imperiale divenne il prototipo (tra l’altro puramente fittizio) del
nucleo perfetto, secondo una politica che vedeva nella fecondità il traguardo cui aspirare. Anche nel codice
vestimentario il regime si allineò alla tradizione arcaica dei Romani come “popolo togato”. Le
rappresentazioni pubbliche del potere saranno sempre rappresentati cinti, se non dalla lorica, dalla classica
toga, simbolo della cittadinanza. Per l’immaginario femminile si impone l’uso di acconciature di foggia
antica e della stola.

Potere e Mitologia: le origini divine di Roma e della Gens Iulia

Come abbiamo già detto in precedenza, il periodo successivo alle guerre civili, contraddistinto da pace,
stabilità politica e solidità economica venne percepita – e il regime ne condizionò l’interpretazione- come
una nuova età dell’oro voluta dagli dei, considerati gli artefici della venuta di Augusto. Dopo decenni di
carestie, espropri e indigenza la popolazione dovette credere davvero che la Pax Augusti fosse un dono del
cielo. La stessa comparsa della cometa all’avvento del principato augusteo era uno straordinario segno
premonitore. La gens Iulia inoltre sosteneva di discendere direttamente da Venere, attraverso la parentela
con Iulo-Ascanio, figlio di Enea. Le vicende epiche della caduta di Troia e dell’insediamento di Enea nel Lazio
vennero pesantemente riattualizzate: l’immagine dell’eroe troiano in fuga dalla città in fiamme, recante con
sé il figlio Ascanio, il vecchio padre Anchise e le sacre effigi dei Penati divenne l’emblema prediletto della
pietas. Associandosi alla civiltà troiana e alla natura divina di Enea, Augusto legittimava così il ruolo
egemone di Roma e rafforzava ulteriormente la propria leadership. Anche il mito delle origini, relativo a
Romolo e Remo venne riscoperto e adattato: la variante secondo cui Rea Silvia avesse concepito i due
gemelli in seguito ad uno stupro dello zio Amulio, venne sostituita dal filone più nobile per il quale i
fondatori della patria fossero figli di Marte, dio della Guerra. Anche in questo caso si cercava di rendere
legittima la forza dominatrice dell’Urbe sul resto del globo. Ne consegui che a Roma le divinità più venerate
sotto il principato augusteo furono Venus Genetrix e Mars Ultor. Lo stato stesso diventava così soggetto di
mito: la fecondità, la fertilità agreste, l’abbondanza divennero figure ricorrenti nella simbologia statale
attraverso figure allegoriche evocative. Lungo il fregio dell’Ara Pacis un ruolo estremamente importante è
rivestito dall’effige della dea Pax o Mater Tellus: in una composizione straordinaria compaiono tutte le
“cifre” simboliche proposte dal principato (es. la cornucopia, simbolo di abbondanza), esteticamente
riassunte dalla madre che allatta i suoi figli. Il fregio ornamentale presenta tralci di acanto usati in maniera
diffusa, in un ulteriore richiamo alla fecondità della terra e alla straordinaria coincidenza storica
rappresentata dal saeculum auereum. Nonostante le numerose allusioni Augusto non accettò mai – almeno
non in vita- l’accostamento della propria persona alla divinità, sebbene dopo la deificazione del padre
adottivo, pochi non ragionavano di conseguenza nei confronti del giovane Ottaviano. Il princeps era uno
straordinario calcolatore, che non cadde mai nella trappola che aveva condotto Cesare alla morte; al
contrario si appoggiò sempre al Senato, tributandogli massimi onori e privilegi ma privandolo di fatto delle
prerogative politiche (assume i massimi poteri nel 23 a.C.). Note sono alcune usanze, trasmesse dai poeti e
dagli scrittori, in cui venivano tributati sacrifici e concesse offerte ad effigi raffiguranti Augusto. Il fatto che
l’imperatore venisse venerato in queste edicole rionali non rappresentava tuttavia un’apoteosi, poiché il
popolo sembrava riconoscere l’unicità della persona in sé e quanto di straordinario aveva compiuto,
piuttosto che elevarlo al rango di divinità mentre era ancora in vita. In Occidente Augusto rifiutò
tassativamente la propria deificazione, pur tollerando la presenza di rituali apotropaici in cui veniva
invocato il suo nume o genium. Tutt’altro avvenne in Oriente: l’imperatore accettò sempre di essere
venerato dai sudditi asiatici, considerati inferiori rispetto ai cives della parte occidentale. Verso il 30-29 a.C.
una delegazione proveniente dalla Bitinia ottenne dal princeps il permesso di tributargli onori riservati agli
dei, a patto che venissero associati al culto della dea Roma: tuttavia l’evento non generò alcuno scandalo. Il
massimo grado di venerazione giunse con la costruzione di Cesarea, in Giudea. Eretta da Erode il Grande
come sommo tributo ad Augusto e al suo nascente impero, sull’illustre esempio delle Alessandrie
macedoni. Anche per la problematica questione della successione si ricorse all’inestimabile strumento
delle immagini. Ricordiamo che dopo la morte del prediletto Marcello nel 23 a.C., si susseguirono una serie
di decessi illustri all’interno della famiglia imperiale che portarono il potere nelle mani di Tiberio, figlioccio
di Augusto. Tuttavia le figure prescelte a succedere al trono erano i nipoti dell’imperatore, nonché figli del
defunto Marcello, Caio e Lucio. Prima della loro prematura scomparsa essi vennero spesso ritratti al fianco
del princeps, il quale sembrava proporli al popolo e al Senato come possibili eredi di una carica non nata
con carattere ereditario. Nel fregio dell’Ara pacis essi appaiono abbigliati secondo la foggia degli antichi
Troiani, come erano soliti vestirsi i giovani romani in occasione del lusus troiae, una competizione arcaica
che ripercorreva le vicende narrate nell’Iliade. Sia nella ritrattistica che nelle altre rappresentazioni
statuarie la fisionomia dei fanciulli sembra rispecchiare quella dell’illustre nonno. Con la loro morte lo
scettro cadde nelle mani di Tiberio, il quale non tardò, lui esterno alla gens Iulia, ad accostarsi alla figura
prossima alla deificazione di Augusto. Anche l’Eneide, concepita come sommo monumento letterario della
Romanitas ricostituita, non fu esente da tratti prettamente encomiastici, il cui fulcro è raggiunto nel libro
VI, con la celebrazione di Marcello.

La Prospettiva Bucolica nell’iconografia dell’età dell’oro

Abbaiamo già analizzato come il regime abbia adottato il ritorno alla classicità delle forme e delle immagini
per fornire un’idea di ordine, stabilità. Fra le altre cose importante risalto venne conferito alla prospettiva
bucolica. Già Catone il censore nel 160 a.C. dedicò un’intera opera didascalica all’ambito contadino, il De
Agri Coltura nella quale venne definito quello che rimarrà per secoli il prototipo della romanitas: il bonus
agricola, il buon contadino intento alla cura del proprio campo (“l’uomo che i nostri antenati lodavano era
chiamato buon agricoltore e buon colono” Proemio – De Agri coltura). Questo immaginario rivestirà un
ruolo fondamentale nella politica etico-religiosa del principato augusteo: lo stesso Virgilio con le Bucoliche
prima e successivamente con le Georgiche in maniera più programmatica. Il passato bucolico divenne il
simbolo della pietas, del rispetto dei mores. Armenti grassi condotti al pascolo da pastori divennero d’uso
comune per rappresentare la condizione di prosperità del secolo aureo. Per analogia la prosperità del
contadino è dovuta alla sua devozione, paragonabile a quella di Augusto stesso, nella dea Tellus. Allo stesso
modo la magnificenza dell’impero era da attribuirsi alla religiosità del sovrano e alla sua natura
provvidenziale. Tuttavia il contesto rimane fortemente irreale, dove le figure pastorali sono immerse in
spazi immaginari dove la vita dei campi pare idealizzata.

Non manca originalità nell’arte augustea: nonostante il regime fissi degli argini, dei parametri i quali devono
essere rispettati e costantemente messi in risalto, l’artista può ricorrere a diverse strategie iconografiche
per variare l’estetica.

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