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Le Canzoni: la prima sezione dei Canti

I Canti di leopardi si aprono con un blocco di 9 canzoni, composte fra l’autunno del 1818 e quello
del 1823. Nella raccolta, le canzoni di Leopardi mantengono sostanzialmente lo stesso ordine nel
quale Leopardi le aveva pubblicate in opuscolo nel 1824: l’unica differenza rilevante è che
nell’opuscolo le canzoni erano 10 e qui diventano 9 perché l’ultima, Alla sua donna, viene posposta
all’intera serie degli ‘idilli’. L’ordine rispetta, con un sola leggera infrazione, la cronologia della
loro composizione.

Il blocco delle Canzoni di Leopardi è compatto sia dal punto di vista metrico (il modello è quello
classico della canzone, risalente già ai primordi della nostra letteratura) sia da quello stilistico (un
tono elevato e una lingua dotta e arcaicizzante) sia da quello ideologico.

Nella loro successione, infatti, le canzoni disegnano il percorso compiuto dalla riflessione di
Leopardi sull’uomo e sulla storia dagli esordi fino al silenzio poetico degli anni 1824-28, un
percorso che registra, quasi in tempo reale, la caduta dei miti infantili e degli slanci
dell’adolescenza e il sorgere di una disincantata e oggettiva visione dell’esistenza, collocata sotto il
segno dell’infelicità, personale e universale.

Metrica e stile

La canzone era fin dai tempi di Dante e di Petrarca il metro retoricamente più elevato della poesia
italiana. Adottandolo, Leopardi compie una scelta di tipo classicista, intende cioè ritornare alla
nobiltà delle origini della poesia. Ma con ciò non si adegua né alle convenzioni né agli usi
tradizionali che ne erano stati fatti, anzi: Leopardi rinnova la canzone tanto nei contenuti, quanto
nelle forme, operando una costante forzatura delle regole dalla quale scaturiscono sia una forte
complicazione metrica, sia una scrittura ardua e perfino desueta.

È lui stesso, nelle Annotazioni che accompagnavano l’edizione in opuscolo, a far notare come le sue
canzoni si allontanino decisamente dal modello tradizionale, non essendo né amorose né di stile
petrarchesco né di altro stile presente nella lirica italiana.

Lo stile arduo e difficile delle canzoni di Leopardi rimanda a una concezione classicistica delle
poesia, ma il dettato poetico, cioè l’aspetto formale del testo, è caratterizzato da una sintassi
complessa, da una densità retorica e da una originalità di immagini che non hanno termini di
paragone in nessun poeta classicista.

Temi

La riflessione delle canzoni di Leopardi è incentrata sul tema dell’infelicità umana, più
precisamente del suo inarrestabile dilagare nella storia. Esse infatti tracciano un percorso che
comprende l’intera storia dell’umanità: dapprima l’infelicità è sentita come problema dell’uomo
contemporaneo, poi è individuata come condizione dell’uomo moderno e infine è riconosciuta come
propria della storia umana fin dai primordi.

Nelle prime due, All’Italia e Sopra il monumento di Dante, composte nel 1818 e dette anche
‘patriottiche’, Leopardi medita sulla decadenza civile, politica e culturale dell’Italia nell’età della
Restaurazione, un’Italia serva e ignava, dimentica della grandezza del passato, sulla quale grava una
cappa mortuaria di rassegnazione. Ricorre all’esempio del valore eroico dei greci antichi per
incitare i giovani e ridestare in loro l’amore per la patria. Lo anima l’idea che la poesia possa
svolgere un ruolo ‘politico’, possa incidere cioè sul presente negativo e suscitare un movimento di
riscatto.

Ma è una fase positiva che dura poco: la svolta si ha già con quella Ad Angelo Mai, dei primi del
1820. Essa mette in scena in successione grandi figure dell’Italia del passato, da Dante a Petrarca,
da Cristoforo Colombo a Ludovico Ariosto, da Torquato Tasso a Vittorio Alfieri, figure nelle quali
sono ancora vive la virtù italica e una forte immaginazione. Eppure – ed è questa la scoperta
drammatica della canzone – proprio quegli eroi del pensiero e dell’azione sono stati causa di
infelicità. Colombo ne è l’esempio più evidente: le sue scoperte non hanno ampliato il mondo, ma al
contrario, lo hanno rimpicciolito, avendolo reso conosciuto e avendo limitato, di conseguenza, lo
spazio della fantasia, la quale si alimenta dell’ignoto.

Appare qui per la prima volta il tema fondamentale per Leopardi della conoscenza che uccide
l’immaginazione, del progresso che genera infelicità. È l’attività umana, anche nelle manifestazioni
più nobili ed elevate, a generare l’infelicità e dunque l’infelicità contemporanea non è frutto delle
circostanze storiche del presente ma nasce dalla storia del passato. Di conseguenza, la poesia non
può svolgere un ruolo di stimolo all’azione politico-patriottica.

E infatti le due canzoni successive, Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel pallone,
dette anche ‘civili’, si concentrano sull’educazione alla virtù individuale abbandonando la più
ampia prospettiva nazionale. Se la storia moderna è dominata dall’infelicità, resta ancora un’epoca
nella quale gli uomini potevano esprimere la loro virtù individuale e collettiva, vivere grandi
passioni vitali e godere di una vivida immaginazione: quella dell’antica Roma repubblicana.

Ma ecco che il Bruto minore, scritta circa un anno dopo la canzone al Mai, mette in scena Marco
Giunio Bruto, l’uccisore di Cesare, che, sconfitto a Filippi da Ottaviano e Antonio, si uccide. Prima
di uccidersi Bruto maledice gli dèi e proclama la vanità della virtù: con quelle parole Leopardi
denuncia la fine di quella civiltà antica che era stata uno dei suoi modelli ideali e, nello stesso
tempo, l’incapacità della virtù umana di modificare in meglio il corso della storia.

Se anche i tempi della repubblica romana furono infelici, il passato non è più un modello a cui
guardare per costruire un presente migliore. Pervenuto a questa certezza, non resta a Leopardi che
arretrare ancora nel tempo e rivolgersi all’antichità greca alla ricerca di una possibile felicità
perduta: nasce così Alla primavera o delle favole antiche, che per l’appunto parla dell’antica Grecia.
Qui il discorso non è più sulla storia, come nella prima canzone che evocava gli eroi caduti alle
Termopili per difendere la patria dall’invasore persiano, ma sulle favole, cioè sulla mitologia. È il
vagheggiamento di una età nella quale l’uomo viveva in sintonia e in fusione con la natura e
affidava la conoscenza alla fantasia. Ma è una fusione che si colloca prima della storia, in un’epoca
indefinita e non definibile. Sarà l’Inno ai patriarchi a sancire una volta per tutte che l’infelicità è
nata insieme alla società e quindi la felicità non è mai esistita nella storia dell’uomo. È esistita
solamente nelle aggregazioni preistoriche che vivevano in simbiosi con l’ambiente naturale. Nei
tempi moderni resiste tra le popolazioni primitive delle lontane Americhe non toccate dalla civiltà;
tuttavia anche lì la sua sopravvivenza sarà di breve durata, perché il progresso le incalza e non si
acquieterà finché non le avrà colonizzate rendendole infelici.

Il pessimismo leopardiano fino al 1823 scaturisce da una visione sconsolata della storia, potremmo
dire da una filosofia della storia, anche se la negazione dei valori storici non è ancora la negazione
di ogni valore. Sullo sfondo, come mito, e pur minacciata da vicino, la natura, depositaria di tutti i
veri valori, è ancora vitale, è ancora la «saggia natura». Ma nell’Ultimo canto di Saffo la poetessa
greca si uccide accusando la natura di averla resa infelice, senza sua colpa, avendole negato il dono
della bellezza e dell’amore corrisposto. Bruto aveva svelato l’inganno della virtù, Saffo, innocente,
mette in dubbio la ‘saggezza’ della natura e con ciò insinua che, forse, non è l’uomo il colpevole
della sua storia infelice.

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