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RIASSUNTO “LETTERATURA PER L’INFANZIA, FORME, TEMI E SIMBOLI DEL

CONTEMPORANEO”.

CAP. 1 – LIBRI E LETTURA 0 – 3: PAROLE E IMMAGINI IN GIOCO


Di Ilaria Filograsso

1.1: Prime alfabetizzazioni: libri, lettori e mediatori.


Peter Hunt, in uno dei suoi contributi teorici, riflettendo sulla complessità del compito di
leggere e interpretare la letteratura per l’infanzia, universo comunicativo plurale connotato
dalla diversità di forme testuali, linguaggi, generi, tipologie di destinatari, lo definisce come
un campo trasversale di studio per la libertà che essa può vantare rispetto ad approcci
culturali e intellettuali precostituiti e riconosciuti universalmente come canonici; un terreno
interattivo, propizio all’incontro e alla relazione tra competenze e metodologie di ricerca,
nell’ottica dell’integrazione e arricchimento reciproco. Eppure essa è stata storicamente
invisibile e alle donne è stato affidato il compito di scrivere, pubblicare ed interagire con le
storie dei bambini. Questa limitazione ha portato a dei vantaggi: per il suo basso profilo
culturale, la letteratura per l’infanzia non è diventata proprietà esclusiva di nessun ambito
scientifico e la sua natura polimorfa ha trapassato i confini tra le discipline e incontrato
categorie diverse di lettori. Essa rappresenta oggi uno dei settori più vitali e sperimentali tra
le arti, ma anche il luogo dello sfruttamento commerciale.
Studiare la letteratura per l’infanzia può significare abitare un crocevia, in cui la teoria
incontra la vita reale, rinnovando continuamente gli interrogativi su 2 questioni: perché
leggere? Per chi sono questi libri? Ogni testo, anche l’albo illustrato apparentemente +
semplice, può configurarsi come dispositivo cognitivo e metacognitivo sofisticato, un atto
comunicativo intricato che invita a sviscerare questioni problematiche di comunicazione e
relazione tra adulti e bambini, scrittore e illustratore, lettore e mediatore.
Se si analizzano i libri e i progetti editoriali per la 1 infanzia, le teorie dello sviluppo bio –
psico – sociale del bambino vanno intrecciate con i fattori individuali di ogni lettore, con le
caratteristiche del libro e con la dimensione contestuale del leggere, consapevoli del fatto
che la letteratura per l’infanzia, soprattutto se destinata ai pre – lettori, si inscrive nel
passaggio graduale dalla cultura orale a quella scritta, con la modificazione della vita
cognitiva ed emotiva del lettore, che va di pari passo con l’acquisizione di forme narrative
sempre + complesse e di un linguaggio sempre + letterario e decontestualizzato. Gli studi
sul cervello che impara a leggere, negli ultimi decenni, si sono concentrati sulla prospettiva
dell’emergent literacy in opposizione a quella precedente della reading readiness che negli
anni 30 del 900 indicava il momento in cui il bimbo era pronto alla lettura: i comportamenti,
le abilità e le competenze maturate nel periodo pre – scolare sono oggetto di analisi ora
nell’ottica dello sviluppo di capacità di lettura, scrittura e linguaggio orale fin dalla 1
infanzia, in conseguenza dell’esposizione dei bambini a interazioni ripetute nei contesti
sociali alfabetizzati. Dagli anni 80 del secolo scorso, molti studi di linguistica, psicologia
cognitiva, pedagogia e di letteratura per l’infanzia hanno dimostrato quanto l’uso precoce
dei libri sia fondamentale per l’acquisizione del linguaggio della visual literacy e della
literary literacy evidenziando la stretta connessione tra precoce accostamento al libro e
competenze di lettura e scrittura in adolescenza. L’obiettivo finale del percorso di
alfabetizzazione che inizia dalla nascita, è compendiato dal concetto di reading literacy,
espressione che allude alle abilità richieste per comprendere e usare testi scritti, riflettere
su di essi e impegnarsi nella loro lettura per raggiungere i propri obiettivi, sviluppare le
proprie conoscenze e le proprie potenzialità e partecipare attivamente alla società.
Kress introduce in questa direzione il termine “design” per indicare una competenza basica
e trasversale da insegnare presto nei contesti educativi formali ed informali perché in grado
di influenzare la partecipazione degli individui al modellamento del mondo sociale e
semiotico che li circonda: essa consiste nella capacità di esprimere i propri interessi
attraverso la selezione tra le risorse rappresentative disponibili, laddove il linguaggio non è
+ l’unico mezzo x significare, ma uno strumento che come gli altri, è dotato di grammatiche
e spesso sono mescolati in complessi modali concepiti perché ciascun modo assolva ad un
compito ed una funzione specifici. Quindi, il ruolo degli adulti e di un ambiente letterato si
esprime, nel favorire l’incontro precoce e costruttivo con un ricco repertorio di libri
accessibili e di materiali digitali sia per conseguire gli obietti dell’emergent literacy
sviluppando la consapevolezza delle convenzioni e delle funzioni della parola scritta, sia x
assecondare, attraverso la manipolazione, il gioco e l’immaginazione, una precoce
competenza simbolica intermediale.
I primi testi che i bambini incontrano sono albi illustrati, testi multimodali connotati da
almeno 2 codici comunicativi, 2 sistemi di costruzione del significato che richiedono
processi di decodifica complessi: per dare senso alle storie, i lettori interagiscono con le
parole (scritte sequenzialmente e in accordo con delle regole linguistiche) e le immagini
(che hanno la propria grammatica visuale). Kress e Van Leuwen hanno dimostrato come
anche le immagini apparentemente + chiare dei primi libri dischiudano precisi codici visivi,
che i bambini apprendono attraverso l’osservazione attenta dei testi e l’interazione con
l’adulto che incoraggia la verbalizzazione dell’esperienza e la concentrazione sulle figure, in
un processo di lettura dialogica. La visual litercy è connessa con l’acquisizione del
linguaggio perché il dialogo intorno alle immagini estende il 1 lessico dei bambini, ma anche
la conoscenza sintattica e pragmatica. L’adulto rappresenta quindi un modello di
interazione con le figure e la lingua scritta, e avvia il bimbo a forme di interrogazione e
elaborazione cognitiva dei segni, a partire dalle immagini dei libri – gioco proponendogli
una struttura di abitudini e pensieri con cui affrontare il testo che il bambino apprende e
interiorizza in modo informale. Invitare i bambini ad esplorare i testi, favorisce l’abitudine a
trattare con i simboli e a integrarne i significati in insiemi di rappresentazioni complesse e
obbedienti ai principi di coerenza e coesione. La padronanza delle componenti di base della
literacy va intesa come la piattaforma interattiva per costruire una capacità di lettura risolta
nella possibilità per i lettori di farsi sia narratori, captando la voce dell’autore e il suo punto
di vista, sia narratori ai quali la storia è rivolta e quindi devono interpretarla. In questa
direzione, l’abitudine all’interazione simbolica va costruita precocemente e stimolata dalla
presenza con l’adulto che guiderà il bambino con delle proposte alla scoperta dei segreti
della lettura profonda: libri immaginativi, sperimentali per le scelte linguistiche, le
illustrazioni, testi che giocano con le parole e le immagini, allo stesso modo con il quale i
bambini si muovono nel gioco di finzione trasformando la realtà in un universo ludico auto
– riflessivo che opera per rivelare ed eliminare le regole che lo sostengono. In questo
reframing contestuale, il bambino impara ad assumere il ruolo attivo di co – giocatore e co
– creatore delle storie.

1.2 ALL’INIZIO, UN GIOCO DI PAROLE


Durante le prime sessioni congiunte di lettura e storytelling, già nei primi mesi di vita del
bambino, l’adulto sostiene il suo coinvolgimento, incoraggiandolo a riprendere quello che si
è scoperto e condiviso nelle esperienze di lettura o di racconto precedenti, e invitandolo a
apportare nuovi significati dai testi prescelti. Jerome Bruner ha definito la costruzione del
significato come un accordo collaborativo in cui l’adulto permette al bambino di compiere
salti cognitivi più grandi di quanto altrimenti non gli sarebbe possibile: il riferimento è al
concetto di “zona di sviluppo prossimale” di Vygotsky, il gap, cioè tra ciò che il bambino può
fare e ciò che può acquisire grazie al sostegno degli adulti e dei pari. Le tecniche di
scaffolding dell’adulto includono domande, commenti, esclamazioni, ripetizioni di
conferma in risposta alle reazioni dei bambini. Il processo di facilitazione dello sviluppo
individuale funziona in 2 direzioni: come una struttura dell’adulto agli sforzi del bambino di
attribuire senso, e come insieme di grammatiche e copioni che i genitori mettono a
disposizione del bambino. L’esperienza dell’ascolto di una storia, letta o raccontata, per i
primi 9 mesi, difficilmente può essere distinta da una conversazione, un gioco con i genitori.
Per il bambino che sta imparando a distinguere il mondo esterno dall’esperienza interna,
l’ascolto di una storia sembrerà un’altra via con la quale gli adulti lo avviano al mondo
esterno.
Il bimbo risponde alla lettura e allo storytelling in modo simile a come reagisce ad altre
forme di comunicazione ludica, muovendosi al ritmo della voce del lettore, stabilendo il
contatto visivo, seguendo i suoi gesti mentre indica le immagini sulla pagina: in questa fase
la proposta di libri in bianco e nero permette al bimbo di alimentare la sua curiosità e di
aiutarlo ad essere concentrato per un tempo più lungo, favorendo l’interesse per
l’esplorazione di ciò che lo circonda. Dai 9 mesi in poi il bimbo capisce che ha tra le mani un
libro. Non appena le capacità di significato si diversificano e diventano + specializzate nella
creazione di mondi finzionali e nel gioco immaginativo, è frequente che i bimbi fingano di
leggere i libri che amano di più o che raccontano le storie che hanno ascoltato, a volte
coinvolgendo anche i loro giocattoli nel gioco, trasformando la narrazione originaria. Dai
18/24 mesi, l’incontro con le prime storie e con altri lettori competenti, può dare importanti
lezioni di lettura. Oltre che focalizzarsi sui nomi degli oggetti, i piccoli lettori iniziano a
compiere connessioni testuali, facendo domande su ciò che accade nella storia, facendo
osservazioni su oggetti assenti. Prendendo spunto dal gioco di finzione, diventano
consapevoli del confine tra mondo immaginario e quello reale, familiarizzando con il
processo di lettura, un gioco elaborato con le sue regole.
La costruzione del significato è un processo dialogico e interattivo che ha luogo in un
contesto storico – sociale, sin dalla prima infanzia. Dopo la nascita e prima di accedere al
linguaggio, comunicano attraverso il contatto visivo, le espressioni facciali, il tatto, la
gestualità e le vocalizzazioni. Le ricerche sui neuroni – specchio di Rizzolatti e Sinigaglia
aiutano a comprendere i meccanismi che permettono al cervello di elaborare gli stimoli
provenienti dall’espressione facciale altrui. Osservando il volto della mamma, i bambini
acquisiscono informazioni anatomiche, sociali e affettive, imparano a riconoscere le
emozioni, competenza che viene rafforzata dai libri delle facce, dalle rappresentazioni
fotografiche dei volti dei bimbi ai libri illustrati che includono la gamma delle emozioni del
viso all’interno di contesti + simbolici, come accade in ABC di boccacce di Alessandro Sanna,
leporello/abbecedario in cui le lettere dell’alfabeto sono inglobate nei volti dei bambini per
esprimere i diversi stati d’animo.
Ognuna delle routine ludiche tra genitori e figli supporta la certezza che i bambini siano
capaci di reciprocità comunicativa, di una comprensione attiva di relazioni reciproche: le
madri enfatizzano le regole dell’assumere il proprio turno nella conversazione e
massimizzano le opportunità per un’interazione verbale, mentre il discorso dei bambini nel
corso di questi scambi prevede espressioni ritmiche, varie intonazioni, gesti stilizzati ed
espressioni facciali per catturare l’attenzione e suscitare risposte. In questa fase, l’uso
inventivo di nonsense o la condivisione di giochi linguistici diventano centrali per la
comunicazione tra genitore e figlio e per l’apprendimento del linguaggio, soprattutto se il
ritmo dei versi è accompagnato dal contatto fisico di chi si prende cura dei bambini. In
Mammalingua, 21 filastrocche per neonati e per la voce delle mamme, Bruno Tognolini
sceglie le 21 lettere dell’alfabeto per dedicare ad altrettante parole brevi filastrocche
corredate dalle illustrazioni “fatate” di Pia Valentinis, per raccontare la scoperta di sé e del
mondo che mamme e bambini condividono ogni giorno, dando voce a emozioni e
sensazioni che collegano la fine della gravidanza ai primi contatti, agli sguardi e ai suoni
condivisi con il mondo dei nuovi arrivati.
Filastrocche al servizio dei bambini perché sperimentano la libertà del linguaggio e della sua
creatività, partendo da sensazioni e percezioni che si legano ai ritmi del corpo, al battito del
cuore, echeggiano le prime parole staminali, della lallazione e delle rime della culla,
riflettono la costruzione della relazione emotiva tra adulto e bambino.
Molte ricerche internazionali hanno dimostrato come i mattoni dell’educazione alla lettura
siano la consapevolezza fonologica, la capacità di individuare e manipolare i segmenti
sonori delle parole pronunciate, la fonetica, cioè il modo in cui le lettere sono collegate ai
suoni per formare corrispondenze lettera – suono e configurazioni di sillabazione. Dai 12
mesi la fase onomatopeica sollecita nei bambini l’interesse per i libri che simulano il verso
degli animali, allenando la modulazione della voce, l’acquisizione della corrispondenza tra
suono e oggetto, rimandando l’eco dei loro primi piccoli discorsi.
L’importanza dell’intonazione ritmica e della ripetizione è fondamentale, e ai suoni
dell’adulto il bambino risponde con lunghe sequenze di modulazioni vocali, di primi
tentativi di canti e melodie.
Il gioco linguistico tra adulto e bambino può diventare dal 1 anno di vita una piattaforma
interrogativa e dialogica che trasforma creativamente le parole, stimolando una precoce
consapevolezza metacognitiva sui possibili usi della lingua e attivando processi riflessivi che
+ tardi il bambino applicherà alla lettura. In questa direzione libri come Tiritere di Bruno
Tognolini, illustrato da Antonella Abbatiello, introducono ad un linguaggio ricco e
metaforico per raccontare l’esperienza quotidiana e la scoperta della realtà, con le parole
che giocano con le rime, il ritmo e il significato dei versi, mentre il testo e il segno lavorano
insieme, alludono l’uno all’altro e rinviano ad altre dimensioni. Le filastrocche infatti
rinviano alle tecniche ludiche del gioco linguistico, consentendo di familiarizzare e
trasgredire insieme le regole fonologiche, sintattiche o semantiche del discorso, attraverso
processi creativi di ripetizione, inversione, sostituzione, incastro, accumulo verbale.
In coincidenza con le prime forme di attenzione condivisa e con lo svilupparsi di gesti come
manipolare, indicare e dirigere l’attenzione dell’interlocutore o distendere la pagina, non è
casuale che molti libri dedicati ai bambini dai 9 mesi, chiamino in causa le mani, esortando i
lettori a muoverle e ad usarle in modo divertente o creativo. Nell’albo Animali a mano di
Teresa Porcella e Jorge Lujàn, illustrato da Giulia Orecchia, le mani sono fondamentali e
contribuiscono ad un’esperienza multisensoriale: senza la loro partecipazione alla
narrazione non si potrebbe mettere in scena un vero e proprio spettacolo teatrale per i
piccoli. Il bambino oltre alla voce, usa le mani, infilandole nella grande fustellatura centrale.
L’artificio di mettere in ciascuna doppia tavola, dove si fa una domanda, la cui risposta viene
svelata quando si volta pagina, un particolare della figura che si scopre dopo, spinge il
lettore a collegare, giocare, indovinare, a riconoscere, stimolando la sua produzione
verbale. Anche ne Il gioco delle vermidita di Hervé Tullet, il meccanismo suggerito dalla
pagina poggia sull’osservazione degli occhi di ciò che fanno le dita esplorando le fustellature
delle pagine: i buchi sono + grandi delle dita di un bambino e rappresentano un invito ai
genitori a condividere con i figli l’esperienza di gioco e di lettura. Nel volume 36 filastrocche
per giocare con le mani di Albena Ivanovitch – Lair, le mani sono il tema comune delle rime,
provenienti da tradizioni popolari di tutto il mondo, da cantare e mimare con i bambini.
Attraverso le assonanze e i ritmi delle rime, i bimbi prendono coscienza di sé e di una parte
del proprio corpo perché a ogni filastrocca o canzone è associato un gioco di movimenti.

1.3 LEGGERE, COL CORPO E CON LA MENTE.


Intorno ai 9 mesi, quando la maggior parte dei bambini sono in grado di gattonare e di
assumere nuove prospettive sul mondo e sulle cose in esso, un importante sviluppo si
verifica nella forma della reciproca condivisione del focus con un’altra persona.
L’introduzione di libri che rafforzano schemi di gioco e di interazione già sperimentati con
gli adulti è efficace a quest’età. In Cucù di Alessandro Sanna, libro in cartone fustellato con
gli angoli arrotondati, cuccioli di animali giocano con i loro genitori: nelle prime pagine gli
animali adulti sono nascosti sotto un lenzuolo bianco e sorpresi dai loro cuccioli, poi
nell’apertura finale i ruoli si invertono. Ogni pagina ha un suo buco che incornicia un
dettaglio dell’illustrazione, mosche, api, creando un effetto di varietà all’interno di uno
schema ripetitivo e prevedibile. Un libro che rispecchia il format dell’assunzione del turno e
della convergenza dello sguardo di adulto e bambino sullo stesso oggetto, uno scambio
sociale basato sulle attività fisiche del nascondere e trovare. Il tema del nascondere e
svelare del gioco del cucù, che aiuta il bimbo a contenere l’ansia da separazione e
nell’acquisizione della permanenza dell’oggetto, è la base su cui indovinelli e altre forme di
gioco linguistico sono fondati. L’indovinello è progettato per far sì che l’ascoltatore si perda
nel sentiero di associazioni o previsioni sbagliate, finché non riesce a trovare un nuovo
percorso di senso condiviso: su questo meccanismo sono costruiti molti libri, dai + semplici
cartonati come Cucù Miffy! Chi sei tu? O Giochiamo a nascondino, Miffy? Di Dick Bruna, in
cui copertina e pagine interne sono tutte fustellate con buchi che lasciano intravedere
particolari colorati della pagina successiva, fino ai + raffinati come Lupo lupo ma ci sei?, di
Giusy Quarenghi, illustrato da Giulia Orecchia: il gioco delle grandi finestre che si aprono
dietro i particolari del lupo rimanda all’illusorietà dell’apparenza, se dietro quelli che
sembrano gli occhi, la boccaccia, il naso peloso, le zampe del lupo, si nascondono oggetti e
personaggi spaventosi. In Apri la gabbia di Silvia Borando e Lorenzo Clarici, il gioco
interattivo prevede la semplice apertura, da parte del lettore, della porta di una gabbia
rappresentata su ogni doppia pagina, e la conseguente scoperta dell’animale prima
nascosto, fino alla sorpresa finale di un serpente che mangerà tutti gli animali appena
liberati, ringraziando il lettore per l’abbondante pasto.
A me gli occhi! Cucù chi sono? E Toc… Toc… Chi abita qui? Entrambi scritti da Maria Loretta
Giraldo e illustrati da Nicoletta Bertelle si inseriscono nel solco dei libri coi buchi, albi cioè
pensati per la prima infanzia e caratterizzati da fustellature che permettono ad una pagina
di affacciarsi sulla seguente, svelando particolari funzionali alla storia, accendendo la
curiosità e mettendo in moto il gioco del cucù. I buchi permettono inoltre di prevedere ciò
che verrà dopo, mettendo in moto delle funzioni di immaginazione e conferma che aiutano
a sviluppare capacità di astrazione e sostengono l’autostima e la percezione di sé.
A metà tra esperimenti e un gioco del cucù sono i libri attivi proposti dalla collana “Scorri e
gioca” dell’editore Gallucci, illustrati da Nathalie Choux che muovono da una domanda,
tramite il quale il piccolo lettore avrà la risposta, scoprendo qualcosa del mondo che lo
circonda o esplorando un concetto elementare.
Mentre i genitori assolvono un ruolo centrale nell’acquisizione delle competenze di gioco,
gradualmente i bambini sviluppano in modo sofisticato le proprie abilità ludiche, se a 24
mesi possono giocare alla sostituzione immaginaria di un oggetto (usando un oggetto come
se fosse un altro) e a 36 mesi sono in grado non solo di coinvolgere nella finzione oggetti
immaginari, altre persone o il mondo esterno degli oggetti inanimati, ma anche di tenere in
considerazione la relazione di altre persone verso il mondo e verso se stesse: è indubbio
che questa forma ludica di intersoggettività coincida con lo sviluppo della competenza
narrativa, perché collegata alla manifestazione più precoce dell’abilità umana di compiere
inferenze sulle menti degli altri e di prevederne il comportamento relativo. Già prima di
questa fase, i bambini dimostrano di essere in grado molto presto di pensare
ipoteticamente, possono immaginare un oggetto come se fosse un altro, o altri: Papero!
Coniglio! Di Amy Krouse Rosenthal e Tom Lichtenheld gioca, ad esempio, con una
rappresentazione figurativa proposta nel 1892 dallo psicologo Joseph Jastrow, per illustrare
una forma di illusione ottica. La figura è composta da un’unica immagine che,
alternativamente, può essere interpretata come la testa di un’anatra (che guarda verso
sinistra) oppure di un coniglio (che guarda verso destra): l’albo confronta su ogni doppia
pagina questa ambiguità e lascia al bambino l’osservazione e la scoperta di dettagli
sorprendenti. I libri adatti anche ai + grandi, punteranno sul ribaltamento dell’illusione e sul
confine tra ciò che sembra e ciò che è, come il libro – filastrocca scritto e illustrato alla fine
degli anni 60 del secolo scorso da Maria Enrica Agostinelli, Sembra questo, sembra quello.
Studi neuroscientifici sulla creativa immaturità del cervello del bimbo hanno dimostrato
come lo slittamento tra reale e immaginario, appartenga all’infanzia molto presto, insieme
alla capacità di immergersi in mondi inesistenti, immaginando ipotesi alternative per il
futuro e riflessioni su possibilità svanite nel passato, costruendo mappe causali del mondo e
del suo finanziamento, preparandosi alla possibilità di agire sulla realtà e intervenire
attivamente per trasformarla.
Dai 3 anni i bambini continuano a confrontarsi con testi connotati da una forte componente
ludica, che combinano la dimensione ipotetica con quella immaginativa e trasformativa,
complicando le convenzioni dello storytelling e della finzione narrativa, proponendo trame
multiple, giochi linguistici, parodie e configurandosi anche come testi metanarrativi: libri
che, proprio come accade nei testi digitali o nei videogiochi, trasgrediscono il confine tra il
lettore/osservatore e le pagine, mettendo in discussione elementi della storia, puntando
l’attenzione, con le scelte grafiche e materiali usati, sullo status del testo come opera di
finzione che prende vita e significato tra le mani del destinatario. Per diventare un lettore
competente, il bambino impara piano piano a riconoscere nel libro un sistema di strutture
di risposta – invito, un insieme di istruzioni di montaggio del significato da attivare per dare
senso alla narrazione, combinando prospettive multiple, stabilendo connessioni e
considerando i numerosi spazi bianchi e le indeterminatezze presenti nel testo, che
sollecitano a partecipare sia alla produzione che alla comprensione del significato,
interattivamente. L’esperienza di relazione con il libro inizia molto precocemente: lo
chiarisce il progetto Prelibri di Bruno Munari, 12 libri piccoli e di materiali diversi dedicati ai
bambini pre – lettori che vuole, attraverso la stimolazione ludica sensoriale, accendere
l’immaginazione e la socializzazione del bambino, incuriosito dalle sorprese che ogni libro
nasconde e a interagire in modo personale con il testo, soffermandosi sui dettagli,
esplorandone la materialità, immaginando storie, riconoscendo e collaborando con i
meccanismi narrativi di accumulo, sottrazione, estensione, variazione, esplorazione che i
Prelibri esemplificano in modo semplice e che più avanti libri più complessi attiveranno in
modo sofisticato.
Molti progetti editoriali per la 1 infanzia suggeriscono precocemente la dimensione
interattiva e trasformativa della lettura, potenziando, anche attraverso la materialità e il
coinvolgimento sensoriale effetti metanarrativi e autoreferenziali. È il caso di Questo libro
fa tutto, di Silvia Borando: il libro sta in piedi, a testa in giù, morde, ripara dalla pioggia,
nasconde, rinfresca. Il testo suggerisce al lettore le mosse da fare, e i suggerimenti
provengono anche dalle scelte cromatiche delle pagine, dalla disposizione grafica delle
parole, dalla loro grandezza, dalla posizione che occupano.
Dai 2 anni e mezzo i bambini hanno acquisito la funzione simbolica delle parole e il loro
vocabolario cresce; inoltre il gioco di finzione si sviluppa insieme alla capacità di leggere le
immagini, incoraggiando esperienze letterarie che consentono l’identificazione con i
personaggi, l’uso di frasi ed espressioni estratte dai libri pervade il loro linguaggio ed
influenza la capacità di racconto, mentre in qualità di lettori emergenti acquistano
flessibilità nella produzione di inferenze dalle illustrazioni e sensibilità verso il punto di vista
degli altri. Le metafore visive e linguistiche contribuiscono alla comprensione testuale e alla
conoscenza delle proprie e altrui emozioni, alla costruzione della propria identità, alla
ricchezza della dimensione esistenziale, dando voce e realtà ai dilemmi e ai pensieri della
vita interiore del bambino. Was ist das? Di Antje Damm incoraggia il bambino lettore a
partecipare al processo di produzione delle metafore attraverso un indovinello. La
domanda “che cos’è questo?” è riportata sulla pagina sinistra e l’aspetto delle lettere e
dello sfondo offre indizi per la risposta che viene rivelata nella pagina successiva (ad
esempio le piume sullo sfondo blu alludono ad un cigno). Questo gioco consente al
bambino di coltivare la dimensione immaginativa, metaforica, essenziale per produrre e
scambiare visioni del mondo. Anche Massimiliano Tappari, con le sue fotografie di oggetti
della quotidianità, vuole insegnare al bambino a decontestualizzare e dare altri significati
attraverso un uso creativo della parola e dello sguardo, sollecitando il lettore a diventare
esploratore di mondi possibili ed andare oltre la superficie delle cose. In ooh! Inventario di
fotografia, l’autore Tappari si diverte a scoprire personaggi e storie nascoste nei segnali
stradali, nelle facciate delle case o nel cielo, mentre in una foglia o in una manica di camicia
scorge animali improbabili. Lo stesso invito a soffermare lo sguardo, a darsi la possibilità di
vedere diversamente si rintraccia in Questa notte ha nevicato di Ninamasina, il quale è un
albo che mescola fotografia, disegno, parole per raccontare lo stupore dello sguardo
infantile, davanti ad un’alba in città, durante una nevicata che trasforma i luoghi abituali e
familiari. Il tragitto da casa a scuola della voce narrante si configura come un’avventurosa
scoperta, un percorso sorprendente fra presenze immaginate e reali, figure ritratte o
disegnate.
Già dai 2 anni e mezzo i lettori sono in grado di comprendere pienamente personificazioni
come quelle presenti nell’albo Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni del 1999, in cui i
protagonisti sono macchie di colore, e la metafora dell’incontro tra colori primari e la loro
trasformazione, aiuta ad afferrare questioni astratte e complesse da spiegare solo
attraverso il discorso verbale e logico, come la forza di un’amicizia che cambia, fa crescere e
può spaventare. Anche nell’albo Federico di Lionni, le metafore disegnate elevano la
possibilità di comprensione del lettore illustrando parole provenienti dal campo semantico
della teoria della mente, come il sogno, immaginazione, visione. In A che pensi di Laurent
Moreau, libro con le finestre adatto anche ai più piccoli, nella pagina di sinistra le parole
descrivono il pensiero, le emozioni o l’immaginazione di un personaggio ritratto sulla pagina
di destra. Alzando la finestra del suo volto è possibile osservare l’immagine variopinta e
intensa che sintetizza e dà forma al suo mondo interiore. A colpire non è solo la qualità
delle illustrazioni, ma la capacità di offrire concretezza alla complessità e alle sfumature
della vita profonda, che può celarsi dietro l’apparenza di chiunque. In Un pesce è un pesce
di Leo Lionni, la storia racconta di 2 grandi amici, un girino e un pesciolino. Il girino ormai
diventato rana, lascia lo stagno, ma torna un giorno per raccontare all’amico le meraviglie
del mondo nuovo che ha scoperto. Le sue parole ispirano a tal punto l’immaginazione del
pesce da spingerlo a desiderare di vedere con i suoi occhi quanto raccontato, saltando fuori
dallo stagno, e alla fine la rana riesce a salvare l’amico dalla morte certa, rigettandolo di
nuovo nell’acqua. La storia è costruita con molta accuratezza perché il bambino possa
seguire il dinamismo del motivo che ha spinto il pesce a fare quel gesto fino alla
conclusione, accompagnandolo attraverso diversi passaggi, in cui le parole e le immagini
definiscono la situazione del dialogo collegandolo allo stato d’animo del pesce. Nel 1
dialogo, quello in cui la rana racconta delle sue avventure, i pensieri dei 2 protagonisti sono
uguali e il testo presenta il parlare della rana e l’immaginare del pesce come attività
simultanee, piano piano il rapporto tra le parole e le immagini si fa + astratto e vago, poiché
le fantasie del pesce acquistano autonomia rispetto al discorso della rana e prendono il
sopravvento. La scena culminante, priva di parole, ritrae insieme le figure che ormai abitano
nella mente del protagonista, preannunciando l’ossessione che lo spingerà a rischiare la
vita.
Il piccolo lettore è invitato ad una decodifica non banale della metafora, ad una lettura
interpretativa dei dettagli dell’immagine, che assume connotazioni denotative e
connotative, esercitandosi a collegare e integrare elementi narrativi, iconici, verbali.

1.4 PER UN’IPOTESI DI CLASSIFICAZIONE


Quando un bambino incontra per la prima volta un albo illustrato, l’apprendimento delle
regole di comportamento del lettore è più lento e necessita dell’interazione con un adulto
mediatore. Gli studi accademici si soffermano sulla fascia di età che dalla scuola
dell’infanzia arriva fino alla primaria per vari motivi: i libri per la 1 infanzia spesso non
contengono testi o contengono poche parole che descrivono oggetti o scene rappresentate
dalle immagini, privi della relazione tra testo e illustrazioni che caratterizza la letteratura
per i bambini + grandi. Una certa sottostima accademica, connota un settore editoriale
composto più di giocattoli istruttivi che di letteratura, nonostante questi progetti editoriali
comunque introducono il piccolo lettore al formato del libro e ad una varietà di argomenti e
illustrazioni, stimolando la sua immaginazione, iniziandolo alla verbalizzazione e creando
una certa intimità tra adulto mediatore e bambino.
Non sono tutti d’accordo sulla possibilità di classificare i libri per bambini da 0 a 3 anni.
Tuttavia, ci si riferisce a tanti lavori di fiction e non – fiction, inclusi i libri sui primi concetti,
libri di stoffa, musicali, da colorare, libri pop – up. Il libro è inteso come oggetto ludico: in
alcuni casi dà la possibilità di sollevare linguette sulle pagine, in altri combina l’albo
illustrato con pupazzi di pezza, proponendosi come giocattolo. Altri libri illustrati
presentano inserti di stoffa o superfici lucide che invitano il bambino all’esplorazione tattile;
o bottoni che premuti riproducono versi di animali o assumono la forma di un oggetto che il
bambino conosce (automobile).
In un articolo del 2005, Kümmerling Meibauer ha definito come “early concept books” una
tipologia testuale specifica, che ha le sue radici nell’Orbis Sensualium Pictus di Jan Amos
Comenius, connotata da illustrazioni di singoli oggetti comuni, a supporto dell’acquisizione
lessicale e concettuale del bambino di 12/18 mesi. L’incontro con questa forma di
picturebook è congeniale in coincidenza con l’acquisizione del 1 vocabolario, costituito
intorno ai 18 mesi di 50 parole, di cui circa il 44% sono nomi. I libri sui primi concetti
rappresentano oggetti tratti dall’ambiente dei bambini, a volte appartenenti alla stessa
classe, giocattoli, animali o a categorie + astratte, come lettere, numeri, aggettivi.
Esaminando alcuni modelli esemplari di questa tipologia, come la serie dedicata al coniglio
Miffy di Dick Bruna, specifiche caratteristiche visive sono importanti e ricorrenti: gli oggetti
sono perlopiù ritratti singolarmente, + raramente in gruppi di 4 o 5 elementi raccolti in
riquadri nella stessa pagina; sono rappresentati nella loro interezza, contornati da una linea
nera, caratterizzati da colori primari, ricchi e brillanti; gli oggetti sono presentati come puliti
e intatti, circondati da sfondi bianchi o monocolore, isolati in uno spazio vuoto, privi di
movimento, di ombre o fonti di luce, in modo che la tridimensionalità ne risulti
ridimensionata. Gli oggetti sembrano tutti delle stesse dimensioni, anche se in realtà sono
diversi. Proprio le rappresentazioni essenzializzate e codificate, coerenti con un’idea
aggiornata di visual literacy che attribuisce alle immagini un ruolo indipendente e
strutturato nella costruzione del significato, rendono questi albi qualcosa di + di semplici
libri, ma una risorsa organizzata e condivisa tra adulti e bambini per creare testi, parlare
delle immagini, applicare specifici discorsi e scambiare interpretazioni.
Ai piccoli lettori sono richieste alcune abilità di base per comprendere a pieno le immagini:
la distinzione tra figura e sfondo, il riconoscimento di linee, punti, colori, come parti
inseparabili dell’oggetto raffigurato, l’intuizione che figure bidimensionali stiano al posto di
oggetti tridimensionali e la conoscenza di schemi visuali che rendono possibile la distinzione
tra componenti non fondamentali di un oggetto. L’immagine deve possedere elementi di
facile riconoscibilità.
Inoltre, la presentazione delle immagini al bambino piccolo non è solo importante ai fini
dell’acquisizione della visual literacy, ma anche per l’arricchimento lessicale dove un ruolo
importante è rivestito dall’apprendimento del significato delle parole, processo non
semplice e neppure automatico: i bambini devono imparare le caratteristiche prototipiche
che costituiscono una categoria o un concetto ed evitare sovraestensione e sottoestensione
lessicale. I prototipi, cioè gli esempi più efficaci di una categoria, sono importanti per la
categorizzazione della realtà. Una sedia appartiene alla categoria mobili più di una
panchina. Gli adulti, attraverso la proposta dei libri illustrati, offrono informazioni
prototipiche dal punto di vista infantile e di 1 interesse e quindi sono oggetti che
appartengono all’ambiente che circonda il piccolo. I libri di questa tipologia aiutano il
lettore emergente a costruirsi un vocabolario di base delle immagini, che attinge alle cose
più comuni viste quotidianamente, consolidando, attraverso il riconoscimento delle figure,
il rapporto tra forma e concetto, tra lessema (elemento immagazzinato in modo
permanente nel lessico del bambino) e concetto (inteso come insieme delle qualità di un
lessema che si riferiscono ad un possibile referente).
Inoltre, gli albi illustrati che rappresentano oltre a nomi o azioni, anche suoni onomatopeici
o aggettivi, sono tanti, pubblicati già dagli anni ’60. Spesso giocati sui contrasti
(pieno/vuoto), questi libri ritraggono oggetti con le rispettive proprietà o con i relativi suoni,
altrimenti difficilmente rappresentabili in sé e costituiscono una sorta di passaggio dal libro
sui concetti basici ad un’altra tipologia, i concept books. A differenza dei libri sui primi
concetti che presentano diversi elementi appartenenti a categorie diverse, il concept book
va oltre, perché rappresenta oggetti della stessa classe come giocattoli, animali, cibo: libri
che raffigurano piccole cose o oggetti della casa, che il bimbo può riconoscere facilmente
come Non ho sonno di Luigi Paladin e Desideria Guicciardini o ambienti esterni come il
parco, il giardino o categorie astratte come colori, forme, lettere, si pensi a Ten di Keith
Haring. Nella categoria rientrano testi come Il libro delle parole di Richard Scarry (2007), Il
grande libro delle figure e delle parole di Ole Könnecke (2011), libri cartonati anche di
grandi dimensioni che ritraggono nel dettaglio cose e ambienti dell’esperienza concreta del
piccolo lettore, consentendone l’etichettatura verbale.
Sebbene sia chiaro il contributo degli albi sui concetti di base per lo sviluppo della visual
literacy e del linguaggio, non è evidente quanto essi favoriscano il raggiungimento di altre
abilità basiche per l’alfabetizzazione letteraria. Questi libri non presentano plot o dialoghi,
né propongono una complessa relazione testo – immagine: sebbene testi descrittivi e
narrativi abbiano in comune la coerenza e la coesione, la grammatica delle storie prevede
che una narrazione sia definita da un climax, una discontinuità inserita nel corso della
storia, e da marcatori affettivi, che chiariscono gli scopi, la causa e gli effetti delle azioni,
oltre che la tendenza a influire sull’empatia del lettore e sul suo coinvolgimento emotivo.
Girando le pagine e guardando le figure nella doppia apertura, i bimbi sono introdotti al
principio di sequenzialità, aspetto fondamentale per la comprensione della letteratura: ogni
libro ha un inizio e una fine, spesso enfatizzati dalla mediazione dell’adulto.
In secondo luogo, l’idea che le immagini e le parole siano collegate è trasmessa
implicitamente, così come la percezione che gli oggetti presentati nella doppia pagina non
siano selezionati casualmente ma messi insieme tematicamente. Spesso gli oggetti sono
scelti secondo un criterio di somiglianza, oppure emergono per contrasto o per relazione,
talvolta stimolando nel lettore l’immaginazione nel comprendere il nesso di una particolare
combinazione: questi schemi consentono di superare la situazione dell’indicare e nominare
e attivano una sequenza domanda – risposta nell’esplorazione della relazione tra gli oggetti
o aiutano a formulare semplici storie. Nella collana “I Bohemini – Mini”, illustrate da
Paloma Canonica, gli ogetti + importanti sono rappresentati in singoli riquadri, in gruppi di 4
o 5, nelle doppie pagine iniziali e finali, a sottolineare per il lettore la loro appartenenza a
un contesto comune, o una piccola routine quotidiana, come la pappa, svolta dal
protagonista nella sequenza delle illustrazioni, accompagnate da brevi frasi che descrivono
le azioni compiute dai personaggi o dagli oggetti rappresentati. I tre importanti schemi
organizzativi, somiglianza, contrasto, relazione, confermano nei primi libri una struttura
sequenziale di concetti e provocano un senso di anticipazione in chi osserva, in attesa di
verificare se lo schema iniziale venga confermato ad ogni apertura di pagina. All’interno
dello stesso libro, poi, il rapporto che lega le immagini può cambiare, dal contrasto alla
somiglianza, ad esempio, e restare invariato fino all’ultima doppia pagina, in cui è svelato lo
schema di relazione, creando una sorta di climax. Attraverso il racconto orale, che può
segnalare la relazione tra un’immagine e un oggetto reale o costruire una connessione tra
le figure, i bambini saranno introdotti dal mediatore a una prima forma di narrativa.
In terzo luogo, i bimbi piccoli imparano che parole e immagini rappresentano oggetti
provenienti dal loro ambiente familiare. Questo processo è accompagnato da una crescente
abilità di produrre immagini mentali degli oggetti. Chi non ha acquisito questa capacità avrà
difficoltà a comprendere testi di finzione, poiché essi richiedono di immaginare personaggi,
azioni, scenari.
La situazione comunicativa è diversa se ci troviamo di fronte ad albi che si concentrano sugli
scripts narrativi, caratterizzati per la descrizione di un evento tipico, familiare ai bambini,
che denotano una relazione + articolata tra testi e immagini: dal punto di vista cognitivo
questi libri combinano diversi livelli concettuali, come la coerenza, la coesione, la
categorizzazione che riguardano sia il piano linguistico che quello visuale. La comprensione
di una storia scriptica richiede già una basica comprensione della teoria della mente perché
gli schemi concettuali/cognitivi, come le feste di compleanno, costituiscono un contesto
fattuale in combinazione con una intenzionalità, compresa dai bambini quando sono in
grado di ascrivere determinati scopi alle azioni svolte dai personaggi rappresentati negli
albi.
Mentre molti semplici libri scriptici sembrano vicini ai concept books, limitandosi alla
descrizione di ambienti e azioni familiari come Vado a dormire di Pippa Goodhart,
presentando talvolta accenni a elementi affettivi ed empatici e lievi climax narrative, è
altrettanto evidente che le prime narrazioni, anche nei libri per l’età pre – scolare,
includono passaggi descrittivi, e che la distinzione tra sezioni descrittive e narrative non è
sempre facile da individuare. Nella collana “I Bohemini”, brevi storie con lo stesso
protagonista riescono a collegare dimensione descrittiva e prime forme narrative,
alludendo alle emozioni dei protagonisti dovute a piccole alterazioni dell’equilibrio nella
trmaa. Ne Il bagnetto di Max, per esempio, il protagonista è presentato sulla doppia
pagina, a sinistra con le parole, a destra con l’illustrazione: Max è nella tinozza, il suo cane
lo guarda curioso mentre entra nell’acqua, per poi nella pagina successiva ritirarsi per
evitare gli schizzi. Dopo che il bimbo è entrato in acqua, il ritmo del racconto cambia,
l’illustrazione a tutta pagina è accompagnata dalla didascalia che descrive le azioni di Max,
con un linguaggio semplice, ripetitivo, risolto nell’elenco degli oggetti che riempiono la
vaschetta: l’enumerazione si interrompe con l’arrivo del cane che Max tratta come un
giocattolo, fino a cadere in acqua. La chiusura ristabilisce l’equilibrio dopo l’equivoco tra i
protagonisti, coinvolgendo il lettore nella condivisione di un momento divertente per il
bambino e il cane che si fanno il bagno insieme.
Una tipologia di albi illustrati senza parole, complessi, può fungere da efficace conforto per
lo sviluppo delle capacità di comprensione e interpretazione di storie: i wimmelbooks, i libri
per lo più cartonati e silenziosi, che mostrano scenari molto ampi e pieni di personaggi,
azioni, paesaggi, dettagli. Poiché incoraggiano l’osservazione attenta e invitano il lettore a
inventare storie sulle immagini, questi libri rappresentano una sfida per le capacità del
bambino, producendo un tipo di lettura infinita, tante sono le possibilità di gioco tra realtà
fisica e realtà disegnata, e le combinazioni di suggestioni, pensieri, parole evocate dalle
figure: i 5 albi di Rotraut Susanne Berner, 4 dei quali dedicati alle stagioni, esplorano la
relazione tra variabilità e costanza, proponendo il racconto per immagini della vita della
città Wimmlingen, con le attività, le persone che si snodano lungo la strada centrale,
attraverso le stagioni e in momenti diversi della stessa giornata.
L’interazione tra adulti e bambini di fronte a questi albi può risultare molto ricca e
diversificata, per fascia di età: dalla divisone delle pagine in quadri per facilitare
l’esplorazione, indicando oggetti e personaggi e nominandoli, spiegando le caratteristiche
degli ambienti e aggiungendo elementi acustici e dialoghi, fino alla discussione di cause e
conseguenze delle situazioni ritratte, riflessioni che possono spingere il lettore a costruire
storie indipendenti su un personaggio o su specifici dettagli e motivi secondari. Anche in
questo caso, il pre – lettore è sfidato a intraprendere un vero e proprio gioco simbolico, a
destreggiarsi tra simboli visuali e verbali, raccogliendo molto materiale per i suoi
esperimenti ludici di costruzione di mondi possibili, confrontandosi in modo creativo e
personale sia con il mondo reale che con la sua contropartita funzionale.

CAP. 2 : CRESCERE COME LETTORI IN ETÀ PRE – SCOLARE: DALLA


“MAMMALINGUA” AI PRIMI LIBRI.
Di Rossella Caso

2.1 “MAMMALINGUA”.
Bruno Tognolini narra in versi, nella sua raccolta di filastrocche per neonati e per la voce
delle mamme intitolata Mammalingua, l’avvio del processo di costruzione del lettore. Un
processo dovrebbe iniziare ancor prima della nascita e muovere dalla prima voce che il
bambino ascolta, ovvero quella materna.
“Ma la parolina dopo fa girare il mondo” scrive Tognolini, e in questo verso sono racchiusi il
senso e l’importanza che la lettura dialogica precoce può avere nel percorso di sviluppo del
bambino: la mammalingua, il mammese o il motherese è condivisione di esperienze e di
sentimenti, comunicazione, co – costruzione di significati; un movimento di emozioni e di
cognizioni che attraversa e nutre la relazione diadica primaria e nel contempo getta le
fondamenta per la costruzione dell’identità del bambino, non solo come lettore.
I primi mille giorni di vita, sono, in questa direzione, determinanti perché si tratta di “parole
di latte” e in quanto tali, nutrimento indispensabile sia per la dimensione cognitiva che per
quella emotiva del piccolo lettore. Le parole di latte raccontano al bambino il mondo e allo
stesso tempo gettano le basi per l’acquisizione delle competenze di emergent literacy, che
anticipano l’apprendimento della letto – scrittura e che potranno determinare il futuro
successo scolastico. Il bambino si sta appropriando del mondo e della lingua in maniera
inconsapevole, ma carica di emozioni. Questi discorsi fatti di toni ora alti ora bassi,
intervallati da pause o da improvvise accellerazioni, fatti di smorfie e di espressioni buffe
del viso, attivano le zone cerebrali collegate alle emozioni e consolidano il legame con la
madre iniziato nel periodo intrauterino.
Non sono troppo lontani i primi studi neuroscientifici sulle connessioni tra attaccamento,
voce materna e sviluppo in età neonatale. Pioneristica la ricerca condotta da Saito in
Giappone: a 20 bambini appena nati sono state fatte ascoltare le registrazioni delle voci
delle mamme che leggevano l’incipit della fiaba di Cappuccetto Rosso. Gli sperimentatori
avevano chiesto alle mamme di leggere lo stesso brano 2 volte: la prima pensando di avere
davanti il proprio bambino, la 2 pensando di rivolgersi a loro. Entrambe le registrazioni
erano state poi sottoposte ai piccoli che dormivano nella culla, in una stanza senza rumori,
in 2 momenti diversi. Durante l’ascolto, utilizzando una forma speciale di spettroscopia, era
stato misurato il flusso cerebrale e la concentrazione di ossiemoglobina, che ne viene
considerata un attivatore. È emerso che durante l’ascolto della 1 intonazione, il flusso
vascolare del cervello nella regione orbito – frontale, la cui maturazione dipende dalle
esperienze socio – affettive, è aumentato. Considerazioni che suggeriscono che il tono
emozionale della voce materna possa avere un ruolo importante nell’attivazione del
cervello del neonato, che è capace di processare la qualità del linguaggio anche in epoca
pre – linguistica, sia in direzione cognitiva, sia in direzione emotivo – affettiva. Se questo
fosse vero, l’esposizione precoce alla voce materna, ancora prima della nascita, potrebbe
avere degli effetti importanti non soltanto sull’acquisizione delle competenze di emergent
literacy, ma anche sulla capacità di regolazione emotivo – affettiva del neonato.
I discorsi o le filastrocche raccontate dalla mamma o dal papà, all’inizio saranno per lui un
susseguirsi di suoni e poi diventeranno le parole che userà per comunicare con il mondo.
Intorno ai 6 mesi, quando sarà in grado di stare seduto in braccio, sarà il libro,se si sceglie di
farlo entrare a far parte della routine della famiglia, attraverso la voce dell’adulto e i colori
delle immagini, a narrargli le storie. Mentre legge, l’adulto può sfogliare le pagine del libro,
mostrargli le figure o giocare con i suoni, facendo in modo che anche il bambino lo tocchi.
Esposto quotidianamente alla lettura ad alta voce, il bimbo intorno ai 9 – 12 mesi, inizierà
ad usarlo come oggetto, un giocattolo che sarà in grado di maneggiare in modo autonomo e
corretto: saprà sfogliarne le pagine da solo e nel verso giusto e indicarne le figure dalle quali
è attratto e che ai suoi occhi sono sempre + simili agli oggetti che vede intorno a sé. I libri
che gli piaceranno di più, saranno quelli in rima, soprattutto quando raccontano oggetti e
situazioni a lui note: la pappa, il bagnetto, ma anche il mondo della natura. Le storie si
faranno sempre più complesse e avranno sempre più spesso per protagonisti orsetti,
cagnolini e coniglietti. Intorno ai 2 – 3 anni, seduto sulle loro ginocchia, potrà ascoltare le
sue prime fiabe, ma anche altre storie, che serviranno a spiegargli le sue emozioni e a
rispondere alle sue domande. Ad un certo punto, una fra queste, lo colpirà e diventerà la
sua storia, che chiederà che gli venga letta sempre, fino ad impararla a memoria e a
ripeterla nella sua stanza, all’orsacchiotto o alla sua bambola del cuore.
Quello che si è definito “processo di costruzione del lettore” si gioca su questo terreno fatto
di condivisione, coccole, voci e suoni: forse la scuola storico – culturale lo avrebbe associato
alla “zona di sviluppo prossimale”.
La lettura richiede fatica e si apprende per imitazione: l’amore per la lettura nasce ancora di
più se il bambino vede i genitori leggere e leggergli con piacere. E può crescere se l’adulto è
abile nel far capire al bambino che le parole sono come finestre sulla fantasia e
sull’immaginazione, ma conferiscono anche un nome alle cose e quindi dalla fantasia
consentono di tornare più ricchi alla realtà. In questo continuo ondeggiare tra dimensione
reale e dimensione immaginativa, come scrive Bruno Tognolini, “il mondo viene” e il
bambino si lascia coinvolgere nella lettura personalmente perché la vive come un qualcosa
alla cui creazione partecipa direttamente.

2.2 IN PRINCIPIO LA VOCE: IL “GIROTONDO DELL’INCANTO CONDIVISO”…


La prima forma di contatto con il libro è la voce dell’adulto che legge, che trasforma i segni
alfabetici delle pagine scritte in segni sonori che arrivano alle orecchie del bambino e si
fanno storia. Tognolini scrive: “Quando si legge un libro ad un bambino la voce è storia: dà
corpo alla storia, la riempie come l’acqua riempie il letto di un fiume. La voce è la storia
come l’acqua è il fiume. È una voce che si infiltra nella storia e scorre dentro di lei.” All’inizio
mammalingua pronuncia parole che stanno nella memoria del cuore e sanno di gioco, di
tenerezza. Parole melodiose che si fondano nella magia di ninna nanne. Parole magiche da
dire al momento del bisogno per eliminare il mal di pancia. Parole in dialetto, parole di
cantilene, parole inventate che si impossessano di un significato rubandolo al suono. Parole
che diventano storie. E allora saranno le storie a prendere il comando e a governare con
forza il flusso di una voce che diventa quella del c’era una volta.
Parole capaci di evocare e di aprire le porte a mondi magici e a personaggi che solo l’adulto
conosce e dei quali il piccolo lettore vuole appropriarsi per condividerne con lui la
conoscenza segreta. È in questo spazio che si crea un “girotondo di incanto condiviso”, un
vero cerchio magico di voce e suono: è così che, sfiorato dalla magia, il piccolo lettore può
diventare un lettore forte per tutta la vita.
All’inizio il libro è per il bimbo un oggetto, un giocattolo: ha una forma, un colore, a volte un
sapore e un suono.
Il 1 approccio è tattile e sensoriale: un entrare in contatto fisico con il libro, usando tutti e 5
i sensi, sia dal diritto che dal rovescio, in un’esplorazione ludica, dove il libro diventa non
solo uno strumento di scoperta del piacere e della magia del leggere, ma anche del proprio
sé. Importante, in questo senso, la metafora poetica che Kristine O’Connell George
costruisce nel suo albo illustrato, intitolato “Libro!” per raccontare il rapporto che nasce tra
un bambino e il suo albo quando l’adulto gli fornisce occasioni per un contatto continuo e
prolungato con esso.
Pagina dopo pagina, l’autrice descrive la grammatica dei gesti che il piccolo lettore
acquisisce piano piano: dal movimento di apertura, all’atto dello sfogliare le pagine, a
quello di giocare con il libro inventandone usi sempre nuovi: far finta di leggerlo al gatto; di
leggerlo da sotto in su; usarlo come cappello e poi, ad un certo punto, ormai lettore,
leggerlo da solo.
È evidente l’importanza del ruolo dell’adulto: il libro e la lettura diventeranno parte
integrante della routine quotidiana del bambino se il genitore per primo lo avrà abituato a
viverli come tali; la dimensione affettiva della quale poi il bimbo farà esperienza nei
momenti di lettura condivisa, il “potere di umana magia” che potrà cogliere nella sua voce,
potranno rendere ai suoi occhi il libro un oggetto prezioso; l’adulto il detentore di un
potere, quello di leggere, che il bambino percepisce come magico perché permette a quelle
storie di lasciare i margini della carta stampata e di materializzarsi, con l’inchiostro davanti
ai suoi occhi, raccontandogli le loro avventure che poi scoprirà essere le sue. Poco dopo
desidererà di fare proprio quel potere e quindi di imparare a leggere. Cognizione e
immaginazione, logica e fantasia, secondo Rodari, viaggiano insieme mentre il bimbo
cresce.
La filastrocca di Tognolini serve a chi scrive per descrivere in maniera poeticamente
metaforica la ricaduta pedagogica del processo di costruzione del lettore che ha inizio dalla
promozione dell’emergent literacy. Dire “chiama ogni cosa, così il mondo viene” significa
affermare che l’adulto che racconta il mondo al bambino attraverso i libri e le storie, gli
fornisce gli strumenti per dare un senso alle proprie esperienze, per metterle in dialogo con
quanto già sa e per integrarle nel racconto della propria esistenza.
La tendenza a narrativizzare il mondo si manifesta già a 5 anni quando impara a distinguere
la realtà dalla sua rappresentazione. Infatti le prime filastrocche, fiabe e racconti aiutano il
bambino a comprendere meglio il reale. “Non credete alle fiabe, sono vere!” esortava
Calvino, alludendo al potere cognitivo e metabletico delle storie. Il senso di sicurezza
garantito dall’adulto e, gradualmente la certezza di essere in una dimensione di finzione,
aiutano il piccolo ascoltatore a penetrare nella storia, a immedesimarsi nel personaggio
principale e a viverne le vicende, sperimentandone emozioni e sensazioni e proiettando su
di esso i vissuti personali, per poi tornare alla realtà con un piccolo bagaglio di conoscenze
sul mondo e su di sé che sono le chiavi ermeneutiche per leggere e rileggere la realtà.
Gli studi di neuronarratologia condotti in ambito statunitense da Paul Harris, e riportati in
Italia da Stefano Calabrese, hanno fornito base scientifica all’intuizione che il bimbo, sin
dall’età pre – scolare, sia in grado di individuare il protagonista della storia che sta
ascoltando e di immedesimarsi in lui. Il protagonista rappresenta per il piccolo lettore il
fulcro della trama. È intorno a lui che avviene tutto ed è a lui che si avvicinano tutti gli altri
personaggi. Ogni storia, è agli occhi del bambino, un’autobiografia.
I processi di interpretazione e valutazione che si innescano ogni volta che ci si immerge
nella lettura, ci dicono gli studi di psicologia della lettura, fanno sì che il lettore possa trarre
dalla storia ciò che gli occorre per la propria personale costruzione di senso. Cognizione ed
emozione si accompagnano e si alimentano a vicenda, rendendo la lettura un viaggio
emozionante, un’esperienza della mente, un percorso personale di conoscenza e
interpretazione che il piccolo co – costruisce con l’adulto.
Il bambino, infatti, già dai 18 mesi, è capace di manipolare i contro fattuali, ovvero
costruzioni narrative di ciò che non esiste, di mondi inesistenti, sebbene realistici, ma che
potrebbe accadere o che in passato sarebbe potuto accadere.
Egli è in grado non solo di attribuire un significato alla realtà, ma anche di far nascere nuove
ipotesi, di immaginare mondi mai esistiti. Alison Gopnik dice che il cervello dei bambini crea
teorie causali del mondo, mappe del suo funzionamento che consentono di creare nuove
possibilità e di immaginare che il mondo sia diverso.
Nello spazio privilegiato di condivisione e creato dalla storia, adulto e bimbo attribuiscono
significati ai personaggi magici e agli eventi straordinari che vivono, alle immagini e ai
ricordi che evocano. Ciascuno porta dentro la storia il proprio mondo di significati e insieme
ne costruiscono uno nuovo.
È un dialogo che rassicura il piccolo lettore e che lo induce, quando incontra una storia che
si sintonizzi con il suo animo, perché interpreta e chiarisce la fase della vita che sta vivendo
o il problema che sta affrontando, a chiedere di riascoltarla di nuovo, per fare le stesse
domande e per farsi ripetere le stesse risposte o per il piacere di riascoltare le stesse parole,
gli stessi suoni, le stesse emozioni. Proprio le emozioni della lettura (interesse, curiosità,
empatia) determinano la decisione di continuare a leggere nei più piccoli, di continuare a
chiedere di riascoltare quella storia. La lettura si configura anche come una palestra per
sviluppare l’intelligenza emotiva, per comprendere le proprie e altrui emozioni.

2.3 DALLE BRACCIA DELLA MAMMA AL NIDO: LA PRIMA FORMAZIONE DEL LETTORE
Leggere è una pratica che non ha nulla di innato. È un processo che costa fatica sia al
bimbo, che deve intraprendere un’attività per la quale non esiste nessuna predisposizione
genetica; sia all’adulto che deve progettare, predisporre e promuovere occasioni di
incontro motivato e ragionato con il libro.
Il processo di costruzione del lettore richiede un’azione sinergica tra genitori e tutte quelle
agenzie che si occupano della cura e della formazione dell’infanzia. Un’azione motivata in
cui le attività laboratoriali sono inserite in un progetto rigoroso, guidato da un
professionista esperto, il promotore della lettura, e scandito da una programmazione
ragionata e attenta ai bisogni di crescita, cognitivi ed emotivo – affettivi dei bambini. Il che
implica un’attenzione particolare al fatto che la dimensione pedagogica e didattica non sia
mai prevalente in maniera assoluta su quella ludica e giocosa, che nella sua lievità, è da
sempre considerata seria.
È importante anche la scelta del libro: la migliore letteratura per l’infanzia è fatta di libri
difficili che solo l’occhio attento e formato dell’educatore può selezionare. I libri difficili
sfidano il lettore, senza che mai venga meno la dimensione dell’ironia e del divertimento,
nell’impegno cognitivo a decodificare, comprendere e interpretare le immagini e le parole e
in quello emotivo di identificarsi con il protagonista della storia e di viverne per interposta
persona le avventure, dando un senso alle proprie emozioni e scoprendo le infinite chiavi di
lettura della realtà. Ciò che i libri difficili sanno fare in più rispetto agli altri è dialogare
direttamente con il piccolo lettore perché narrano di storie di un’infanzia vera, alle prese
con i problemi quotidiani della vita e della crescita, e proprio per questo più vera. E in
questa direzione che va interpretato ciò che sostiene Tognolini quando dice che i libri per
l’infanzia sono utili e belli allo stesso tempo.
La realizzazione di un laboratorio di lettura richiede la compresenza di 4 elementi che,
intrecciati tra loro, ne determinano l’efficacia: il narratore, ovvero il promotore della
lettura; il libro; il setting, ovvero lo spazio, ma anche il tempo del leggere e il piccolo lettore.
Circa le competenze del promotore si è scritto molto sia in Italia che all’estero.
Possiamo ricondurle a 3 specifiche aree di intervento: teorico – scientifica, metodologico –
operativa e comunicativo – relazionale.
1. Le competenze teorico – scientifiche. Un bravo promotore della lettura, oltre ad
amare i libri, è un fine conoscitore della letteratura per ragazzi, nei suoi fondamenti
storici ed epistemologici. Sempre aggiornato sulle novità editoriali attraverso la
consultazione frequente di biblioteche, riviste e siti specializzati, sa scegliere i testi in
base ai propri destinatari. Conosce le teorie e le tecniche della lettura ad alta voce,
quindi la normativa di riferimento del proprio settore.
2. Le competenze metodologico – operative. Il promotore della lettura è un esperto
progettista: nessuna azione di promozione può essere totalmente separata dal
contesto in cui deve essere realizzata, ma va attentamente progettata, tenendo
conto della situazione di partenza, ma anche delle possibilità applicative del
programma e di quelle concrete di sviluppo da esso offerte. Il progetto di promozione
della lettura deve trovare il suo fondamento nell’analisi dei bisogni della realtà
infantile ed essere sufficientemente flessibile da poter essere sempre rimodulato in
base al loro variare, secondo la scansione analisi, progettazione, proposta e verifica.
Le competenze metodologico – operative non si fermano alla progettazione, ma
hanno a che fare anche con quelle più tecniche di costruzione del setting in cui
avranno luogo le attività laboratoriali e di conduzione delle stesse, nonché di gestione
del gruppo.
3. Le competenze comunicativo – relazionali. Comunicare significa non solo saper
trasmettere il libro, ma anche saper interagire con il bimbo attraverso esso, il che non
significa solo conoscere le tecniche più efficaci per leggere una storia, quelle legate
alla voce e al gesto e rispondere alle sue domande, ma anche sapersi disporre
all’ascolto, ancora prima di iniziare a leggere perché i testi andranno scelti a partire
dal mondo personale e quindi dai bisogni del piccolo lettore, e a partire da questo
ascolto creare l’atmosfera giusta, adatta a favorire il coinvolgimento nella situazione
di lettura, perché ciascun ascoltatore possa riconoscersi nel racconto e farlo suo.
La 1 fase della progettazione del laboratorio consiste nella scelta del libro: deve essere
adeguato all’età e ai gusti del piccolo lettore e deve essere difficile, adatto a suscitare
domande, riflessioni e discussioni, e dalle qualità del testo o dei testi, dipenderà il
guadagno esistenziale che il bambino potrà trarre dall’esperienza di lettura ad alta voce.
Il processo di ascolto è strettamente connesso, infatti, alla comprensione del contenuto
e la capacità di cogliere il significato del racconto dipende dall’interazione tra il libro e
quanto il bambino già conosce. La comprensione e l’elaborazione dei significati di ciò
che vede, sono fondamentali perché egli possa partecipare soggettivamente alla storia,
e quindi trarre piacere dal momento della lettura condivisa. In un laboratorio di lettura
ben progettato, i gusti e le esigenze del bambino si incontrano con quelli del promotore:
è importante modellare le proprie scelte narrative in base al destinatario, ma è
importante che il narratore usi testi che ama e che conosce bene: devono essere storie
dove sappia ritrovarsi facilmente e che non suscitino interrogativi ai quali non sappia
rispondere. È importante portare nella propria valigia di libri più di un testo, per evitare
di continuare a leggere una storia che potrebbe non incontrare i gusti del piccolo lettore,
tenendo sempre bene in mente l’avviso di Pennac, cioè che il verbo leggere non
sopporta l’imperativo.
Una questione di particolare importanza riguarda la costruzione del setting del
laboratorio che ha a che fare sia con lo spazio che con il tempo per leggere. Anche la
lettura ad alta voce dovrebbe avere uno spazio ben preciso: si tratta di allestire uno
specifico ambiente dedicato alla narrazione, che delimiti i confini della fabulazione e che
sottolinei il passaggio dal mondo reale a quello fantastico. Indicati la “tana delle storie”
per i più piccoli, lo spazio biblioteca o anche un altro luogo, purché sia riconoscibile
come il luogo dei libri, per i più grandi. Perché si possa creare l’atmosfera più giusta alla
situazione di lettura è sufficiente che il pavimento sia ricoperto di cuscini e tappeti
colorati, e che il bambino vi possa trovare anche dei giocattoli, i props che si rivelano
utili soprattutto quando si ricollegano ai contenuti del testo, poiché favoriscono la
correlazione visivo – tattile con quanto è presente nel libro. Particolare cura deve essere
rivolta all’illuminazione: dovrebbe essere sufficiente per vedere bene le illustrazioni e le
espressioni del volto dei lettori, di chi legge ma anche di chi ascolta, ma non
eccessivamente forte per non stancare la vista. E per consentire di trasformare il
cerchio, la disposizione circolare è quella ottimale, nel girotondo dell’incanto condiviso.
Dei testi che il promotore della lettura gli propone, forse il piccolo lettore farà suoi solo
quelli che gli parleranno dei suoi percorsi, delle sue scoperte, delle piccole e grandi sfide
della crescita. È il piccolo lettore che rende vive le pagine a lui destinate, e fa sue le
letture che incontra. Navigando tra le parole, i bimbi trovano tutti i sensi e i significati
che desiderano, cioè quegli indizi formativi che consentono di essere e di costruirsi come
persone autentiche e non, come avveniva in passato, di adeguarsi a un modello umano
predefinito e precostituito.
L’apprendistato del lettore, non consiste solo nella conquista delle competenze
strumentali della lettura, e quindi delle capacità di decodifica del testo scritto, ma anche
e soprattutto nel vivere infinite vite e storie, immergersi e riflettere empaticamente nelle
vicende virtuali dei personaggi e comprendere meglio noi stessi. L’apprendista lettore
costruisce attivamente sé stesso attraverso i libri e le storie dei quali si nutre. Non più
solo strumenti didattici, ma i libri diventano mattoni per diventare grandi.

2.4 I LIBRI “BELLI” E “UTILI”: LA VALIGIA DEL PROMOTORE…


Gli albi devono essere belli e utili. L’aumento costante della produzione di libri per
l’infanzia sta rendendo sempre più difficile distinguere quegli albi di qualità capaci di
dare un contributo essenziale allo sviluppo del bimbo, sia dal punto di vista cognitivo che
da quello estetico. Chi scrive ha provato ad elaborare una proposta utile a chi vuole
promuovere la lettura nella 1 infanzia: è stata fatta una piccola bibliografia ad uso del
promotore, finalizzata ad avvicinare i piccolissimi al mondo dei libri e delle storie
affinché diventino protagonisti critici, creativi e attivi dell’avventura del leggere, avendo
avuto modo di affinare il proprio gusto tra immagini e parole di qualità. Il filo rosso che
unisce tutti gli albi selezionati è che ciascuno di essi racconta le avventure di piccoli eroi
o eroine che come il piccolo lettore, si apprestano a diventare grandi:
- S. Bravi, L’uccellino fa, dai 6 mesi;
- J. Ashbè, Dov’è Meo?, dai 10 mesi;
- M. Ramos, Il più forte, dai 12 mesi;
- L. Clerici, Tutino e l’albero, dai 2 anni;
- G. Tessaro, I bestiolini, dai 3 anni;
- // //, Il circo delle nuvole, dai 4 anni;
- B. Waber, S. Lee, Chiedimi cosa mi piace, dai 5 anni;
- G. Tessaro, Pinocchio, dai 6 anni.
Sergio Guastini, in un’intervista dice che loro che lavorano con i libri hanno il compito di
costruire il sogno, l’amore per il libro e di creare la curiosità. A loro interessa che i libri
corrispondano anche alle aspettative dei bambini, in modo che ai bimbi successivamente
venga voglia di aprire un libro perché hanno visto loro giocare con i libri, rendendoli
simpatici. Per poi proseguire, fino a diventare lettori forti.

CAP. 3 – LA PAROLA POETICA PER L’INFANZIA TRA GIOCO ED ESPERIENZA


ARTISTICA
Di Chiara Lepri

3.1 – “LA POESIA DEI BAMBINI NON ESISTE”.


Introdurre un discorso sulla poesia per l’infanzia presuppone una riflessione sulla sua
definizione che corre lungo le convergenze parallele (quella della letteratura / dell’arte /
dell’esperienza estetica e quella della pedagogia) sulle quali si struttura la letteratura per
l’infanzia e che si lega con la sua storia, il suo canone, la sua fruizione, con il riconoscimento
di un’esistenza della poesia per / dei bambini.
Nel 1973, nell’articolo Infanzie, poesie, scuoletta, il poeta Andrea Zanzotto tornava sul
rapporto privilegiato tra infanzia e poesia riconoscendone le tensioni e le ambiguità a più
livelli che interessano sia l’idea di un’infanzia vagheggiata attraverso la poesia, sia
l’individuazione di un legame metaforico per il quale un termine simboleggia l’altro. Su
quest’ultimo piano si ottiene la poesia per l’infanzia più efficace perché fa uso di una lingua
musicale, tutta protesa a godere del gioco dei significanti ed evocativa come alcune
cantilene popolari. Ma subentra quell’inaridimento progressivo della creatività in cui
l’ambiente e le strutture della società hanno tanta parte, ma soprattutto la scuola –
scuoletta che spesso massacra, seppur con le più tenere intenzioni.
La responsabilità della scuola nella diffusione di un’idea di poesia come qualcosa di noioso,
malinconico, sembra essere condivisa da molti, soprattutto in riferimento agli effetti a lunga
gittata di quegli anni in cui veniva proposto il filone patetico volto ad affermare, nella poesia
per bambini, valori di affettività ed interiorità. Sono queste le premesse dalle quali ha
origine il libro di Donatella Bisutti, La poesia salva la vita del 1992, teso a sfatare il
pregiudizio di una poesia sciocca, permeata di buoni sentimenti, e la recente riflessione di
Enzensberger e Berardinelli, secondo i quali sarebbe opportuno dimenticare ciò che
abbiamo imparato a scuola per riappropriarci del piacere del ritmo e della musicalità delle
parole.
1972 – 1973. Zanzotto invitava a diffidare di coloro che volevano rivolgere al bimbo una
poesia che gli fosse adatta: la volontà di parlare al bambino nel suo linguaggio, di capirne e
rispettarne la specificità, doveva dare origina ad una produzione poetica non soltanto di
dubbio valore, ma anche incerta rispetto alla funzionalità. Infatti, restavano in campo gli
equivoci prodotti dalla buona volontà degli autori e dai fantasmi che la guidavano: primo
tra questi l’idea o il sentimento più o meno distorto della propria infanzia, sottintesa come
punto prospettico nel parlare ai bambini. Mentre affermava ciò, Zanzotto, guardava con
interesse all’impegno di Rodari che in quegli anni rivolgeva all’infanzia i suoi giocattoli
poetici, vivificando il dialogo con il bambino e introducendo temi di attualità su un
linguaggio giocato tra liberi procedimenti associativi e tensione utopica verso un socialismo
spontaneo prima che ideologico. Il riferimento è alle osservazioni che nel 1972 Rodari aveva
pubblicato in merito a I bambini e la poesia. In questo scritto, alla domanda se esista una
poesia per bambini, Rodari dice che esiste la poesia a prescindere dal destinatario del suo
messaggio. Certo, ci sono poesie che possono essere capite e vissute dai bambini
indipendentemente dal fatto che siano state create per loro oppure no. E ce ne sono altre
troppo lontane dal loro campo di esperienza. Ma non esiste quella cosa che possa essere
poesia per i bambini e non – poesia per gli adulti.
Con queste parole Rodari traccia un nuovo manifesto per la poesia per l’infanzia che si
sviluppa secondo alcuni punti di attualità: bisogna rivolgersi ai bimbi in versi per interessarli,
divertirli, per dare loro immagini stimolanti, per nutrire e formare la loro immaginazione;
l’ideale sarebbe che a scrivere poesie per bambini fosse sempre un poeta, a sottolineare il
valore di una letteratura per l’infanzia di qualità, non improvvisata; la scuola dovrebbe
facilitare l’incontro con la poesia, avvicinando il bimbo dalla poesia popolare e dal
giocattolo poetico di qualità alla poesia vera che è la più alta forma di conoscenza ed
esplorazione del linguaggio: anche a livello di gioco, di mediazione e di preparazione,
bisogna che essa si presenti con una sua capacità di emozione e sorpresa, che faccia salire il
bimbo sul piano dove anche le parole più semplici possono rivelare significati nuovi e le
immagini offrono una possibilità di lavoro alla fantasia; la poesia deve essere gratuita, libera
da forme didascaliche; deve rappresentare l’incontro con il linguaggio e la sua libertà. Deve
cancellare le parole che avrebbero creato grosse difficoltà ai lettori. Il cambio di paradigma
provocato è notevole ed è sostenuto da un impegno personale che dalla pubblicazione nel
1960 delle Filastrocche in cielo e in terra dà avvio ad un sistema poetico complesso, capace
di unire alla dimensione civile dei contenuti un progetto pedagogico di emancipazione e di
liberazione attraverso l’uso giocoso della parola.
1978. I poeti Antonio Porta e Giovanni Raboni curano per Feltrineli l’antologia Pin Pidin,
una raccolta di poesie scritte da autori come Giulia Niccolai, Edoardo Sanguineti, Nico
Orengo, Andrea Zanzotto e altri. La dichiarazione d’intenti presente nel proemio apre una
rinnovata concezione del diritto alla poesia nei bambini, una poesia in cui siano presenti le
caratteristiche di libertà inventiva e di profondità formale che la connotano: sulla linea di
Rodari, vi è un rifiuto della poesia per bambini come genere a sé stante, coltivato da
specialisti che non siano anche dei poeti. Porta e Raboni prendono le distanze da chi si
rivolge all’infanzia ponendosi al suo livello, trascurando la creatività e disponibilità
fantastica e linguistica dei bambini e la capacità della poesia di creare sempre nuovi stimoli
e reazioni al di là e a prescindere da una completa comprensione dei suoi contenuti logici.
Le poesie proposte presentano ritmo e aspetti ludico – linguistici, sono musicali, innovative,
invitano a pensare oltre gli schemi e segnano un iter complesso di rinnovamento del
canone della poesia per l’infanzia: sono poesie alte (per la forma libera e coerente e
significativa che includono), ma sono infantili perché parlando al bambino di quel mondo
fantastico, libero e nuovo che sente o è suo.
1985. Una voce discorde, provocatoria, si alza dal coro. Franco Fortini interviene su
“Riforma della scuola” con La poesia dei bambini non esiste. Queste le argomentazioni del
poeta: per lui, così come Benedetto Croce, la poesia per bambini non esiste e il più delle
volte è quel che gli insegnanti, gli educatori, i letterati credono sia la poesia per bambini e
che inducono in questi, proponendo dei modelli e non degli oggetti. La riflessione prosegue
criticando la riduzione della poesia a fatti grafici. Come Raboni, Fortini ritiene la poesia per
bambini un genere della poesia adulta, che come tale va studiato, ma teme il rischio già
individuato da Zanzotto, di un fantasma alla guida del poeta e dell’uso che fanno gli adulti
della poesia, spesso incapaci di liberarla da un’intenzionalità estranea al vero sentire
infantile. Per Fortini, la scuola, in questo processo, non si salva per l’eccessivo tecnicismo e
culturalismo che da sempre propone, per aver sostituito il commento alla lettura del testo e
per aver declinato, nel periodo del post – 68, verso una tendenza libero – associativa e
liberatoria. Su questo punto chiarificatrici risultano le argomentazioni di Cambi che
riconosce nel piacere del testo, sia esso alto o basso, un’opportunità, anche per l’infanzia,
di sperimentare l’arte come lingua sul piano analitico e creativo.
2011. Lo scarto temporale dalla precedente data – cardine ci consente di scorgere un’idea
rinnovata della poesia per bambini già a seguito degli effetti della cesura rodariana non solo
tra chi la poesia la propone, ma anche tra chi la scrive. Bruno Tognolini, ad un
atteggiamento snobistico teso ad associare alla poesia per l’infanzia il disimpegno, la
semplificazione, la banalizzazione dei significati e dei sensi, risponde che quello del poeta
per bambini è un mestiere. Essere poeta per è una presa di coscienza che reclama piena
dignità e diritto di cittadinanza in letteratura, soprattutto di fronte a chi, invece, restringe la
poesia a pochi eletti.

3.2 SUL CANONE DELLA POESIA PER L’INFANZIA


In letteratura, il canone è l’insieme delle norme che fonda una tradizione, ma anche dal
punto di vista della ricezione, l’insieme dei valori che costituisce l’identità culturale di una
comunità che in essi si riconosce. Nel contesto italiano, un modello di canone monolitico si
è imposto più a lungo che altrove per poter fare gli italiani dopo l’Unità.
Nella storia della poesia per l’infanzia possiamo individuare 3 momenti: tra la fine del 700 e
gli inizi dell’800 si diffonde, nella società borghese, una poesia didascalico – moraleggiante
che rasserena e guarda a un bambino ideale bloccandolo a un immaginario piano e
conforme; prende avvio quindi il modello del “fanciullino pascoliano” ancorato ai temi degli
affetti e della natura (Pascoli, Carducci, Gozzano, Mastri), poi sostituito dal bambino di
regime che Marinetti, nella prefazione al Manifesto della Letteratura giovanile (1938), volle
libero dalla retorica e dalle inutili frasi fatte ma incline a idealizzare gli ingranaggi
dell’artiglieria dei trimotori bombardanti dei mas e dei sottomarini. Nel periodo postbellico
rimane ancora un approccio alla poesia descrittiva e morale – conformistica con la
riproposizione di autori – chiave del primo trentennio del 900 (Novaro, Pezzani, Pastonchi)
ma qualcosa cambia: ai temi stagionali, domestici si affianca l’attenzione per la filastrocca di
derivazione popolare, carica di ritmo e brio, aperta al ludico, più vicina al linguaggio
infantile: questo nuove fronte della poesia per bambini parte da un’idealizzazione
dell’infanzia che tra Pascoli, Vamba, Tofano e Rubino ha rinnovato il suo identikit, mettendo
al centro la sensibilità, la scoperta del reale, la vita sentimentale del bimbo se pure
familiarizzato e conformato, pur infenzionandola con quell’habitus pedagogico tipico della
poesia tradizionale per ragazzi.
Bisogna attendere la svolta degli anni 50 che si individua nel contributo di Gianni Rodari e
Alfonso Gatto, per assistere alla nascita di una poesia per l’infanzia rinnovata nel suo nucleo
fondante, ma anche nei contenuti, nella forma, nelle intenzioni. Sulle orme del nonsense
anglosassone e dell’esperienza delle avanguardie storiche, Rodari pone al centro del
poetare la dimensione ludica, senza però trascurare una cura estetica. Ne esce una poesia
alta, intensa e leggera insieme, che introduce il piacere dello sperimentalismo linguistico
non separato da un impegno in direzione sociale: da un lato la poesia scardina i significati
conformi, allena il pensiero diverso e dà valore al sorriso e al gioco, dall’altro accoglie i
motivi universali della pace, della solidarietà, dell’uguaglianza.
Si fissa, da queste esperienze, un nuovo canone della poesia per l’infanzia, adesso originale
e efficace sui piani estetico, formativo ed etico – sociale, connotato dal trinomio “fantasia –
gioco – impegno” e destinato a consolidarsi e a lasciare il segno anche attraverso i
contributi di altri precursori come Bruno Munari (Alfabetiere), Maria Enrica Agostinelli
(Sembra questo sembra quello), Nico Orengo (A ulì – ulè), Emanuele Luzzati (3 fratelli, 40
ladroni, 5 storie di maghi e burloni): autori che si rivolgono ai più piccoli attraverso un
lavoro di recupero del materiale popolare e di riflessione non banale intorno alla creatività,
nella ricerca di un’esperienza originaria del linguaggio e della rappresentazione. Per
quest’ultimo aspetto bisogna guardare Toti Scialoja: egli, con i suoi bestiari fantastici, è
destinato a lasciare un’impronta duratura nei poeti per bambini d’oggi. Segnalato da
Calvino come 1 vero esempio italiano di nonsense, Scialoja si distinse per la forza espressiva
di una parola scomposta nei suoi semi sillabici, particelle brulicanti capaci di dare corso a
nuove aggregazioni sonore e di incrociare l’infanzia sul terreno di un linguaggio originario.
Prende così avvio un processo che interpreta sempre più efficacemente il sentire della
comunità dei bambini che sta dalla parte dei bambini sui fronti del ritmo/della sonorità,
della parola collegata al corpo e al suo movimento, del gioco, del messaggio che trasmette
contenuti e percezioni.
A sancire il nuovo canone si apre la stagione delle antologie poetiche per ragazzi, per lo più
ideate per un uso extrascolastico: queste, se da un lato propongono un testo per garantirne
la durata liberata da coordinate storiche, dall’altro esprimono una scelta critica che è
condizionata dal tempo in cui viene effettuata la raccolta. Per questo ci aiutano nella nella
ricostruzione di una storia della poesia per l’infanzia. Nel momento in cui vengono inseriti in
un’antologia, i versi entrano a far parte di una diversa operazione artistica e intellettuale,
acquisendo una nuova forma. È il caso di Pin Pidin, ma anche della raccolta di Donatella
Bisutti, L’albero delle parole: pubblicata nel 1979 da Feltrinelli contiene una scelta dei testi
dei grandi poeti del mondo uniti a partire dall’ottica infantile, ordinati per suggestioni e non
per temi per puntare sull’oggetto poesia e per mettere nelle mani di un bambino un libro
che può usare senza il bisogno di intermediari e delle coordinate culturali che non possiede,
in un rapporto diretto con la poesia, per interessarlo, divertirlo. Da allora, con gli stessi
propositi, si sono succedute molte raccolte come Poesie d’amore curata dalla scrittrice
Beatrice Masini; Terra gentile aria azzurrina e Tutto l’amore che c’è della scrittrice e critica
letteraria Daniela Marcheschi, entrambe ispirate da una lingua semplice, ma capace di
significati profondi, in cui Rodari, Quarenghi si alternano a Dante, Leopardi, Pascoli senza
distinzioni di alto e basso, nuovo e antico; poi La strada delle parole di Elio Pecora; infine
Bisutti con la recente raccolta ragionata La poesia è un orecchio e Masini, ideatrice
dell’antologia Silvia, rimembri ancora? Volta a riproporre le liriche amate e odiate, quelle
imparate a memoria a scuola, per riassaporarne il fascino e stabilire con esse un dialogo
pacificato. In questo lavoro antologico notiamo l’interesse nei confronti della parola poetica
intesa nella sua accezione più ampia per una lettura libera.

3.3 GLI ANNI 80 E 90.


Lo stemma rodariano apre la strada, negli autori che si affermano negli anni 80, a un fare
poesia rinnovato in cui prevalgono il gioco, il fantastico, la musicalità, il piacere scaturito dal
testo. A partire dai primi anni 80 del 900 e fino a oggi, Roberto Piumini è il poeta che si
distingue non solo per la sua fertile produzione letteraria, ma anche per la raffinatezza e la
qualità dei contributi che riconosciamo già nelle prime raccolte come C’era un bambino
profumato di latte, Io mi ricordo, Quieto Patato, Non piangere, cipolla, Sole, scherzavo.
Rispetto alla poesia d’impegno, con Piumini si perde ogni urgenza di sorta per lasciare il
campo all’ingegnosità inventiva e alla ricerca estetico – formale. Piumini dice che la sua
posizione nei confronti di Rodari si può descrivere in 2 divergenze – continuità. La 1
riguarda la scrittura. In prosa e in poesia la sua scelta non è come in Rodari, didattica o
animativa ma estetica e formale. Quello che la prosa e la poesia di Rodari stimolano e
sviluppano come “testo gioco”, “testo stimolo”, lui l’affida alla dinamica
estetico/emozionale dei testi. L’atto educativo in Rodari è didattico, in lui estetico. Entrambi
hanno cercato di dare la parola ai bambini o ragazzi. Ma mentre per Rodari il senso della
frase era di permettere di esprimersi, per lui è un senso più radicale e basilare: si tratta di
dare la parola come dare il pane, cioè come nutrimento espressivo fondamentale. In questo
atteggiamento non c’è un abbandono di responsabilità, né il rifiuto di un ruolo che ha
valenza pedagogica: “la semplicità e la chiarezza dei modi di Piumini non devono ingannare
perché in realtà i temi centrali di ogni esperienza letteraria giocata sull’infanzia sono tutti
presenti” e indirizzate sul piano emotivo a partire dalle occasioni del quotidiano. L’impegno
nel consegnare una poesia vera ai bambini ha già in sé un alto valore poiché riconosce
l’importanza ed il piacere dell’esperienza artistica nei più piccoli. Quanto alla vocazione di
dare la parola come nutrimento espressivo vitale, stabiliamo un collegamento tra
l’esperienza di Piumini e quella di un autore che negli anni 80 pubblica le sue prime raccolte
poetiche, ovvero Pietro Formentini, del quale ricordiamo la ricerca di sperimentazione e
libertà espressiva attraverso una poesia priva di finalità educative e connotata da una
tensionalità utopica che propone forme di comunicazione non subite passivamente, ma
costruite insieme seguendo i processi immaginativi ed emotivi. Poesiafumetto è la sua
opera d’esordio, più volte riveduta e ampliata negli anni. È una raccolta di poesie visiva,
sperimentale e provocatoria, capace di sollecitare più sensi grazie all’iconismo linguistico
che spiazza gli adulti, ma sembra chiamare i più piccoli, coinvolti nel godimento degli effetti
pirotecnici della parola e delle sensazioni percettivo – sensoriali che può evocare, come
testimonia la 1 strofa di Mi piace guardare le figure, una poesia ricca di sinestesie.
Con Parola mongolfiera, il lavoro poetico di Formentini si fa sempre più interattivo: dagli
incontri con i bimbi nelle scuole scaturisce una parola che è materia plastica, elemento
primario dell’espressione per esercitare la propria ragione, ma anche l’affettività. Su questi
procedimenti di ricerca intraverbale e sulla loro portata formativa, importanti sono le
osservazioni di Renato Barilli, che riconosce l’abbattimento della differenza tra poeta e
lettore. Le ricerche intraverbali non sono più da leggere, ma da praticare e ciò dovrebbe
diminuire le obiezioni di chi osserverà che appunto è difficile consumarle, leggerle: esse
costituiscono il prologo alla grande festa, quando lavoro onirico e poetico confluiranno,
quando non ci sarà più distanza tra una creazione dovuta al caso e una voluta, amministrata
per via di intelligenza e cultura. In questi termini, la poesia si avvicina sempre di più
all’infanzia: con essa, con le sue istanze, i suoi linguaggi, i procedimenti analogici, sembra
stabilire un dialogo e fondersi in modo naturale.
Il contributo di autori come Piumini e Formentini si afferma anche grazie a Gabriella
Armando, fondatrice delle nuove edizioni romane nel 1977, attraverso le quali saranno
tracciate nuove strade della poesia per l’infanzia. Di NER ricordiamo anche la raccolta
Rabbia Birabbia di Giuseppe Pontremoli, ricca di nonsense ma anche di testi più intimistici
come Silenzio.
E sempre da NER, nel 1996 esce La torta storta di Gina Bellot, una raccolta di libere
invenzioni poetiche che ricordano i limerick leariani, rivisitati seguendo il filo di
un’emozione, di una malinconia, mentre nel 1997 è la volta di Silvia Roncaglia con
Principerse e filastrane, un libro che intreccia narrativa e poesia giocando coi semi sonori
delle parole, le allitterazioni, la rima.
Ai versi d’autore, negli stessi anni si accosta un recupero della tradizione popolare: nel 1992
Einaudi Ragazzi, guidata da Orietta Fatucci, inaugura la collana “Storie e rime”: vi
troveranno spazio A – ulì – ulè e Canzonette di Orengo, Il libro degli errori, Prime fiabe e
filastrocche, Filastrocche in cielo e in terra di Rodari, C’è gatto e gatto e Nel bosco del
mistero. Poesie, cantilene, ballate per i bambini di Carpi, Ambarabà cicci coccò e An ghin
gò di Lella Gandini, Dall’ape alla zebra di Piumini, Cronache da pelate e altre storie in rima
e Quando il gatto non c’è i topi ballano di Antonella Ossorio. Nell’ottica della valorizzazione
dei materiali della tradizione, abbiamo anche Staccia buratta, la micia e la gatta di
Francesca Lazzarato e l’antologia La casa del sonno di Antonio e Anna Faeti. Questo elenco
ci mostra negli anni 90 una disponibilità e un’attenzione da parte dell’editoria verso la
poesia nonostante le difficoltà del mercato e la penuria di poeti che comunque con la loro
opera autoriale, contribuiscono a un’idea di letteratura per l’infanzia rinnovata sul piano
linguistico e tematico.
Si assiste ad una capacità originale di intrecciare le tante forme espressive derivate dalle
diverse esperienze artistiche e comunicative in un lavoro dalla parte dei piccoli lettori e
attento alle urgenze della contemporaneità. Piumini, Formentini, Andrea Molesini con
Tarme d’estate, ci portano verso il 2000 assestando il canone della poesia dell’infanzia sui
primati della pluridiscorsività, del gioco e del dialogo, del riso e del sorriso, del fantastico,
ma anche dei vissuti personali e del mondo interiore: il poeta insegue il piacere del poetare,
si libera dei vecchi schemi superando il pregiudizio di Croce che escludeva i bimbi dalla
possibilità di una fruizione estetica e artistica coinvolgendoli attivamente nel laboratorio del
fare poesia. In questo passaggio si deve citare l’opera di Guido Quarzo che dà inizio alla sua
avventura di scrittore e poeta negli anni 90. A contatto con i bimbi, da maestro, matura la
convinzione di porre la sua creatività e arte combinatoria al servizio dei piccoli, purché lo
scrivere adulto si accompagni ad un pensare bambino, altrimenti sopravviene la noia: tra le
poesie, ricordiamo la raccolta Pocosenso, un viaggio in limerick attraverso città fantastiche.
Il nonsense, componimento poetico che ha importanti predecessori, come la filastrocca e la
fiaba popolare, proviene da un’epoca arcaica, si diffonde attraverso l’oralità, evoca una
dimensione magica su un mondo surreale. Nonsense, filastrocca e fiaba ricorrono tra i poeti
dell’infanzia: essi ne propongono una forma ibrida che insegue il ritmo e la rima, riscritture
brevi o ballate che attualizzano i temi antichi con ironia e vivacità: da Rodari e Luzzati,
passando per La capra Caterina e le Fiabe per occhi e per bocca di Piumini, si arriva a
Chiaroscuro di Quarzo, libro dedicato a Tofano in cui si narrano le vicende comiche del
cavaliere di Frescobello e di Rosalice. Il racconto in rima, la canzone, la ballata d’autore si
configurano come un ulteriore approdo interessante.
UNO SGUARDO AGLI STRANIERI: Il profondo rinnovamento editoriale di questi anni e
l’aumento della sensibilità verso la poesia per l’infanzia hanno favorito un’intelligente
proposta dei poeti stranieri, le cui opere sono tradotte dai più importanti nostri scrittori e
poeti. Boero e De Luca ricordano come un evento la pubblicazione delle poesie dedicate
all’infanzia di Robert Louis Stevenson, Un giardino di versi; A letto, bambini! Di Sylvia Plath,
Sporche bestie e Versi perversi di Roald Dahl, due raccolte di rime tradotte da Roberto
Piumini. Negli stessi anni Salani pubblica Il libro delle poesie di Michael Ende, mentre
Motta Junior dà vita alla collana “Le piccole gioie” che include la vasta produzione in rima di
Corinne Albaut. Le storie in versi del Dr. Seuss, uscite in America dagli anni 30, grazie alle
traduzioni di Anna Sarfatti. È la pubblicazione di Racconti (di) versi di Rita Valentino
Merletti, esperta di letteratura per l’infanzia che si formò negli USA, che forse stimola, nei
primi anni 2000, la pubblicazione di raccolte di poesie di provenienza internazionale: Tante
rime per i bambini curato da Fiona Waters e Chiara Carminati, La borsetta della sirena di
Ted Hughes, 101 filastrocche e raccontini di campagna di Sophie Arnould, Gattacci di Roger
McGough. Si tratta di una scelta editoriale che privilegia da un lato il recupero dei classici
(Neruda, Garcia Lorca), dall’altro il gusto della musicalità delle parole, del gioco linguistico,
dell’umorismo offensivo, soprattutto di derivazione anglosassone.
3.4 LA POESIA DEI BAMBINI OGGI.
Se i poeti postrodariani oggi proseguono la loro ricerca letteraria con passione ed efficacia
formale e comunicativa, va rilevato un trend generale nella letteratura che decreta la crisi
della poesia e la sua scarsa visibilità, ma anche la diffusione di tanti diversi modi di
interpretare, definire e fruire la poesia stessa.
Con l’approdo al nuovo millennio osserviamo una poesia per l’infanzia connotata da
sperimentazione e dimensione ludica, ma al tempo stesso sempre più impegnata nel
ricercare e cogliere sul piano dei contenuti, oggetti e problemi dei bambini/ragazzi; sul
piano formale una varietà di linguaggi e modalità espressive. Siamo di fronte ad una poesia
alta, raffinata, ibrida che incrocia i diversi linguaggi artistici: la musica, il teatro,
l’illustrazione di qualità, in un percorso che avvicina la poesia da un lato alla performance e
dall’altro alla narrativa, all’affabulazione.
SONORITÀ E RIME. La ricerca sonora connota la poesia più giocosa. Con il Macchinario
bestiale di Quarzo, gli animali, protagonisti della favolistica antica fino ai nonsense di
Scialoja, si delineano nella postmodernità per mezzo di insoliti binomi fantastici o parole –
baule: la macchina ingloba la bestia in una raccolta che ricorda il Nonsense Botany, and
Nonsense Alphabets, etc. etc. di Lear: ci sono gabbiani a pedale, picchi digitali, capre
caffettiere, strappagalli, trinciapolli e ranarmoniche. Il gioco della rima, ancora connesso al
tema animalier, si ripropone con La rima è un rospo nella collana di poesie “Il suono della
conchiglia” di Motta Junior. Qui Guido Quarzo dichiara il suo tributo a Scialoja per poi
condurci attraverso suoni e sensi che giocano con l’immaginario proponendo calembour ma
anche lievi scorci riflessivi.
La rima è argomento caro anche a Tognolini, autore che ha impreziosito la sua produzione
narrativa e poetica di riflessioni sul suo lavoro. Dall’esperienza nel teatro e nella
Melevisione, giunge alla poesia per l’infanzia forte di alcune convinzioni che sono alla base
della sua officina creativa: servono dignità e orgoglio per praticare il mestiere di poeta per
l’infanzia; la ragione poetica è un equilibrio di suono e di senso: l’uno non deve prevalere
sull’altro; le rime sono mani invisibili che legano parole, ma non tutte le rime funzionano.
Tognolini ha composto molte rime, a partire da Mal di pancia calabrone e Rima rimani, che
ricordano alcuni rituali ancestrali a cui si deve ricorrere per far venire prima i compleanni,
contro il raffreddore, per fare la pace.
Sulla stessa linea si pone Rime di rabbia, raccolta vincitrice del Premio Andersen “Il mondo
dell’infanzia” 2011, che segna un momento importante: ci conferma che la poesia non
corrisponde solo ai buoni sentimenti, ma può dar voce alle emozioni più buie. Siamo di
fronte ad invettive radicali, estreme e intense, alcune delle quali meno buffe perché danno
voce a disagi autentici. Sono formule magiche: liberano, demistificano, ridimensionano con
l’ironia. E fa bene pronunciarle ad alta voce, come fa bene riconoscere le proprie emozioni
e disporre di parole per esprimerle.
Nel 2013 è la volta delle Rime raminghe: sono poesie d’occasione, scritte durante le
transumanze poetiche tra i bambini, nelle biblioteche e nelle scuole, nei festival letterari.
Un sodalizio è quello con Chiara Carminati, con la quale Tognolini dà vita alle Rime
chiaroscure, un esperimento poetico illustrato da Pia Valentinis in cui i 2 poeti giocano sulle
opposizioni dei loro nomi, si confrontano sul mondo, i mesi dell’anno, le coppie: le rime
sono di entrambi gli autori che hanno diversi stili.
Chiara Carminati è una figura importante nell’attuale panorama della poesia per l’infanzia,
non solo per l’impegno nella proposta metodologica del fare poesia come esperienza che
coinvolge tutti i sensi, ma anche come autrice e traduttrice di testi poetici efficaci.
Comprendiamo così che la buona letteratura per l’infanzia è una buona letteratura che a
fronte di uno speciale destinatario non semplifica né improvvisa, ma usa risorse stilistiche e
linguistiche elaborate in sintonia con il proprio sentire etico ed estetico. Un esempio di ciò è
presente già nella 1 raccolta che Carminati pubblica nei “Sassolini” di Mondadori, poi
ristampata con l’aggiunta di inediti e le illustrazioni di Valentinis da NER: scaturita da
esperienze laboratoriali in biblioteca, Il mare in una rima ci offre tanti registri, ora più
giocosi e sperimentali, ora più intimistici e lirici, ai quali il suono di parole opportune
restituisce immagini di notevole effetto e potenza.
Il gioco della rima in Carminati e in Sabrina Giarratana è più spensierato nelle opere
destinate ai più piccoli, mentre assume una dimensione più suggestiva e intimistica nelle
poesie rivolte agli adolescenti.
NIDI DI VERSI. I poeti di oggi riconoscono nella sonorità della parola giocata un elemento di
originarietà e di naturale prossimità al mondo della 1 infanzia, quando ancora il linguaggio è
in potenza e sperimenta vocalità per attribuire sensi. Un concetto affascinante è quello di
“parola staminale”, che per Tognolini è parola provvisoria, soggetta a estensioni e torsioni,
scaturita da ascolti frammentari o da percezioni alterate: è la parola dei bambini, che
ricorda il linguaggio onirico e che sta all’inizio del fraseggio. Dentro vi è una carica esplosiva
da coltivare già a partire da una frequentazione precoce con la parola poetica. La novità sta
nel proporre una poesia d’autore rivolta ai più piccoli, che Tognolini ha ideato ispirandosi ai
fonemi delle tiritere, delle ninnenanne, delle prime lallazioni: Mammalingua è il 1 risultato
di questo lavoro ed è una raccolta di 21 poesie per neonati da leggere a voce alta, ricche di
assonanze e allitterazioni, scaturite dalle lettere dell’alfabeto che lasciano affiorare una
lingua speciale, derivata dal lessico materno e destinata a valorizzare una relazione
d’intimità tra madre e figlio. Allora acqua, bocca, figlio, lingua, mamma, sono alcuni tra i
motivi che danno luogo a rappresentazioni intense restituite attraverso suoni e immagini.
Pochi anni più tardi lo stupore e la meraviglia dei primi anni di vita ritorna in una storia in
poesia di Roncaglia, Parole di latte, che evoca tutto l’immaginario legato al nutrimento
primario; Silvia Vecchini recentemente ha pubblicato i versi “di parole con latte, baci,
carezze”, Finalmente qui, mentre una raccolta coinvolge tutti insieme i poeti dei bambini:
Bordiglioni, Carminati, Formentini, Piumini, Quarzo, Tognolini sono chiamati da Rita
Valentino Merletti a comporre un testo sul tema del fiume, metafora della vita: nasce
Gocce di voce, un’antologia che percorre il cammino ora torrenziale, ora quieto dell’acqua,
dalla sorgente alla foce. L’intenzione e il risultato testimoniano una dedizione nel
coinvolgere piccolissimi e genitori/educatori in un percorso sensoriale attivato dalla parola.
Le Piccole conte di Sabrina Giarratana proseguono questo impegno con un libro fisarmonica
cartonato in cui sono ripercorsi in rima gli elementi del quotidiano (gelati, ferite, amici),
come Rime piccoline di Tognolini, a ulteriore conferma di un orientamento che vuole
tracciare misteriosi sentieri di parole.
Su questa linea si collocano molte proposte editoriali: la collana “Nidi” di Sinnos con le
raccolte divertenti di Janna Carioli, Dall’aereosol alla zeta: filastrocche contro la fifa e Un
nido di filastrocche, e la collana di cartonati “Zero Tre” di Panini, con filastrocche e canti
accompagnati da CD per stimolare gesti e movimenti del corpo. Nell’unire la musica al
piacere della filastrocca, queste ultime pubblicazioni danno corpo e tridimensionalità alle
parole, che si dilatano lungo un palcoscenico immaginario animato. Un esempio intrigante è
costituito da Nidi di note, un albo con testi di Tognolini, illustrazioni di Sanna e musiche di
Peana e Fresu in cui si incrociano più linguaggi: fiaba, immagine, musica, poesia.
La natura e il mondo interiore, le immagini. La natura e i sentimenti non sono scomparsi
dalla poesia per i bambini e ragazzi, anzi: il lavoro dei nostri poeti raggiunge oggi, nella
rappresentazione del mondo esteriore e interiore, punte di alto livello letterario. È questo
un trend che si è affermato negli ultimi anni e che vede protagonisti soprattutto le
poetesse, prima fra tutte Vivian Lamarque, autrice di alcune tra le più significative raccolte
poetiche per l’infanzia come Poesie di ghiaccio, Poesie della notte, ispirate ai Notturni di
Chopin, e Poesie di dicembre.
Altre poetesse ci consegnano versi affascinanti sulla natura: sono Sabrina Giarratana con
Amica Terra e la raccolta Poesie di luce.
Chiara Carminati con Poesie per aria, pubblicate nella collana “Parola magica” di
Topipittori. Qui l’autrice ripropone gli artifici della personificazione e della metafora per
dare corpo, immagine e voce agli elementi ambientali più comuni.
Il tema dell’identità e del vasto ventaglio di emozioni che affollano la vita interiore dei
ragazzi, dalla noia alla rabbia, etc… ultimamente si è manifestato con estrema efficacia
rompendo ogni divieto, a rimarcare la necessità di un’educazione sentimentale che può
compiersi anche nel riflesso di versi poetici. In questa direzione ricordiamo I sentimenti dei
bambini, Io cambierò il mondo e l’Alfabeto dei sentimenti di Janna Carioli.
Poi abbiamo Silvia Vecchini, autrice di Poesie della notte, del giorno, di ogni cosa intorno.
L’amore e l’amicizia sono temi toccati anche da Giusi Quarenghi in E sulle case il cielo che
rappresenta la testimonianza di un nuovo modo di esprimere il linguaggio poetico tenendo
conto di come è cambiata la sensibilità dei ragazzi.
La silloge di Carminati, Viaggia verso consegna agli young adults un libro che stabilisce con
essi una sintonia densa di sensazioni del quotidiano, colte con leggerezza e profondità,
anche quando tutto sembra correre sui social network o in chat.
Sul piano delle iniziative editoriali, per la cura e l’attenzione verso la poesia per i ragazzi,
bisogna segnalare la collana “Il suono della conchiglia” ideata da Teresa Porcella per Motta
Junior e vincitrice del Premio Andersen 2015 come Miglior Progetto Editoriale. La collana si
distingue per la scelta dei testi classici (anche stranieri) proposti ai giovani lettori di oggi
(Emily Dickinson, Non c’è nave che possa come un libro; Lewis Carroll, Ho una fata
accanto).
E la cura nella scelta dei testi in letteratura per l’infanzia non deve essere sganciata
dall’attenzione nei confronti della composizione grafica e delle illustrazioni. In anni recenti
abbiamo esempi in cui il testo poetico utilizza il linguaggio iconico e stabilisce con esso un
rapporto complementare. È il caso dei picture books in cui i 2 linguaggi artistici si
incontrano, come nelle Favole al telefonino e ne La lingua in fiamme di Fabian Negrin: qui
l’illustratore è anche poeta e i sensi fluttuano in un gioco di specchi tra parole e immagini.
Oppure si vedano gli albi di grande formato Raccontare gli alberi e Mare: il 1 di Valentinis
ed Evangelista, Superpremio Andersen 2012 come Miglior libro di divulgazione, affianca alle
diverse specie di albero poesie classiche di Omero, Montale, Leopardi; nel 2 Carminati
accosta alle illustrazioni di Lucia Scuderi poesie di grandi nomi della letteratura mondiale
come GarcÍa Lorca, Goethe, Neruda. Altri esempi sono l’Alfabeto delle fiabe di Tognolini
con illustrazioni di Abbatiello, la raccolta poetica di Elio Pecora Firmino illustrata da Farkas,
la traduzione poetica di Tognolini a Dianne White, Ciao Cielo, con le illustrazioni di Beth
Krommes. In tutti questi casi siamo di fronte a un prodotto letterario sofisticato e
potenziato nell’accostamento tra immagine materiale e concettuale.

3.5 LE PROSPETTIVE.
Quanto illustrato finora fa pensare che ci siano buone speranze per il futuro della poesia
per l’infanzia, anche se comunque essa non è preferita da chi acquista o prende in prestito i
libri. La bibliografia di base Almeno questi!, redatta ogni anno da LIBER, segnala un numero
limitato di novità alla voce “Poesia e Dramma” nelle diverse fasce d’età; piuttosto, molte
sono le riedizioni di ottimi libri. Va riconosciuta, tuttavia, nelle voci di poetesse e poeti del
nuovo millennio, una cifra di elevata qualità nella proposta di una poesia non minore, ricca,
capace di interpretare il presente nelle forme che letterariamente le sono proprie e
d’incontrare piccoli e giovani sul terreno di un linguaggio condiviso.
Pochi sono gli editori che si fanno promotori di poesia, poche le collane ad essa dedicate.
Rimane un pregiudizio e forse un mancato approccio positivo alla poesia nella scuola. Allora
bisogna promuovere con forza la recente poesia di qualità tra gli insegnanti, ma anche in
famiglia e nei contesti educativi per i + piccoli: il libro interattivo di Bernard Friot, 10 lezioni
sulla poesia, l’amore e la vita, si preoccupa di questo narrando la storia di 2 ragazzi
costretti a frequentare un laboratorio di poesia. Il lettore li accompagna lezione per lezione
approdando ad un luogo virtuale (un blog che esiste davvero indicato in prefazione) in cui
sperimentare in 1 persona il fare poesia. La tecnologia ci aiuta, solcando un sentiero già
tracciato da Rodari e poi negli anni 80 da Ersilia Zamponi e Roberto Piumini: quello del
frequentare le parole senza averne paura. La chiave di volta forse risiede nel comprendere
che il piacere di giocare con le parole, accessibile a tutti, può essere il 1 passo per avvicinare
la poesia e per innamorarsene.

CAP. 5 – LA PLURIDIMENSIONALITÀ DELLA VISUAL LITERACY. ALBI ILLUSTRATI


E ITINERARI EDUCATIVI
Di Marnie Campagnaro

5.1 – SULLA SUDDITANZA DELL’IMMAGINE, SUL PICTORIAL TURN E SULLA VISUAL


LITERACY
La civiltà occidentale ha dato molto spazio alla parola. Essa è da sempre considerata il
mezzo privilegiato attraverso cui far crescere la cultura di un popolo, le sue pratiche,
consuetudini e a lungo ha rappresentato la sede ideale e la forma più evoluta per
promuovere lo sviluppo del pensiero e della razionalità umana. Anche l’immagine è stata
capace di fecondare alcuni campi del sapere, ma in fondo, se la si riconduce agli spazi vitali
della conoscenza (filosofia, etica, scienza e letteratura), essa ha giocato un ruolo irrilevante
rispetto alla forza dominatrice della parola scritta e orale. Anche in campo educativo,
sebbene già dal 600, ci siano casi di declinazione della parola sul visivo, la parola ha sempre
goduto di un primato incontestabile nella mediazione educativa. Prima di tutto perché il
testo scritto è percepito come il vero luogo di produzione e di conservazione del sapere. Poi
perché, se l’immagine può essere un mezzo straordinario per dare forma a un corpo, ad un
oggetto reale o fantastico, ad una scena di vita (la bellezza di un volto, i colori di un
tramonto) o a fermare un istante storico o un concetto (la grandezza di un sovrano) solo la
parola è capace di incarnare e di raccontare la storia di una popolana o di un sovrano, il
divenire di un fenomeno, di un evento e di farne emergere significati e interpretazioni.
L’immagine è invasiva, intrusiva e suggestiva, dotata di una capacità comunicativa che non
ha bisogno di mediazione, perciò pericolosa per la forza di penetrazione di cui è portatrice,
soprattutto verso l’infanzia che è, al tempo stesso, disponibile e indifesa nei confronti delle
immagini. Il piacere visivo, la leggerezza, l’indicibilità e quel modo raffinato e pervasivo
dell’immagine di rendere, apparentemente, tutto così semplice, non si sposano con i
caratteri dell’operosità e della rigorosità dello studio e dell’apprendimento. Anzi, essi
privano l’infanzia di quel rapporto fondamentale con la parola e con il testo che è la vera e
propria “Pedagogia della lettura”.
Esisterebbe, secondo alcuni pensatori del passato, una strettissima correlazione fra la
fruizione del bello visivo e il rilassamento morale. La fruizione delle belle immagini e la
sensibilità estetica distolgono l’uomo da faccende intellettuali più elevate, portando con sé
attitudini e vizi pericolosi. Questo pregiudizio è antichissimo nella storia culturale
dell’Occidente: non appena le immagini vennero introdotte a Roma, la morale cominciò a
declinare. E così si è formata piano piano l’idea che le immagini belle distolgono e
degradano il pensiero, soprattutto quello del bimbo che viene allontanato dall’edificante
azione educativa della parola. Non è un caso se, ancora oggi, si preferisca coltivare
all’interno di molti contesti scolastici il mito dell’aniconismo, come veicolo di protezione e
salvaguardia della parola e dell’immaginazione infantile. Si tratta di una pratica inattuale
perché non permette ai bambini di imparare a fare ordine nel caos visivo in cui vivono: in
luogo di sviluppare adeguati percorsi di alfabetizzazione visiva capaci di introdurre anche
nei piccolissimi una rinnovata sensibilità estetica vitale per leggere e comprendere il mondo
in cui si cresce, si preferisce, invece, silenziare il codice visivo.
Questa storica subalternità dell’immagine sulla parola ha penetrato anche il 900, un secolo
che per molti decenni ha messo al centro della propria riflessione la superiorità della parola,
della testualità, del discorso linguistico, tant’è che alla fine degli anni 70, con riferimento
agli assetti di studio nelle scienze umane e della storia dell’arte, si è giunti a coniare, in
ambito anglofono, l’espressione linguistic turn. Si tratta di un condizionamento culturale
che ha pesato anche sul mondo dell’educazione, con ricadute anche sui conseguenti
investimenti didattici: si investe sulla parola perché essa è l’espressione di una cultura più e
alta e quindi meritevole di una maggiore centralità. L’immagine, invece, riconducibile a una
cultura più bassa, gioca un ruolo inferiore, dal momento che non è vitale nei processi di
costruzione della conoscenza. Essa, inoltre, porta con sé l’eredità di pratiche educative di
alfabetizzazione delle classi meno scolarizzate e più povere.
Chi riporterà al centro del dibattito epistemologico il ruolo dell’immagine, della cultura
visuale, tentando di ricucire l’antica frattura fra parola e immagine, sarà Thomas Mitchell,
introducendo il concetto di pictorial turn. Nella sua opera Picture Theory dimostra come, a
dispetto dell’avvento della fotografia, del cinema, della televisione e ora della tecnologia
digitale, il medium inteso nella sua dimensione visuale non sia mai esistito. Il pictorial turn
è un fenomeno che, con forme e intensità diverse, si è presentato più volte nel corso della
storia occidentale, come quando è stata creata la prospettiva nel 400 o con l’invenzione
della fotografia nell’800, a dimostrazione che l’immagine è un prodotto storicamente e
culturalmente collocato e che nasce sempre da una commistione di elementi sensoriali e
semiotici. La stessa visione non è mai unidimensionale: è il risultato di combinazioni ottiche
e sensoriale, dove la dimensione sociale del guardare è fondamentale.
Il pictorial turn è una riscoperta postlinguistica o postsemiotica dell’immagine intesa come
relazione complessa tra visualità, apparato, istituzioni, discorso, corpi e figuratività. Esso è
correlato alla consapevolezza che una persona posta di fronte ad un’immagine e alle sue
diverse modalità esperienziali (il colpo d’occhio, il guardare, l’osservazione, l’indagare, il
piacere visivo) si confronta con una modalità conoscitiva complessa come quella legata alle
diverse forme del leggere (la decifrazione, l’interpretazione, etc…). Per Mitchell le immagini
si nutrono di sguardi e frammenti legati al pensiero, all’immaginazione, alla memoria che si
sbrogliano secondo una logica stellare e reticolare e non lineare. Inoltre, nel prendere
forma le immagini trasportano le memorie di altre immagini o di altre esperienze visive. La
proliferazione delle immagini e delle pratiche visuali evidenzia l’esigenza di mettere a punto
adeguati sentieri di studio e di analisi capaci di accogliere e rilanciare un territorio
disciplinare come quello della visual literacy, che ha molto da offrire.
Per visual literacy si intende l’abilità di saper guardare alle immagini visive e di saper
produrre significati a partire da esse. È un campo di indagine pluridisciplinare vasto
all’interno del quale la letteratura per l’infanzia e le narrazioni visive possono configurarsi
come uno straordinario dispositivo pedagogico per coltivare questa competenza. La 1
formalizzazione del concetto di visual literacy è stata fatta negli anni 60 ed è ascrivibile a
John Debes che la definisce come un gruppo di competenze che permette agli essere umani
di discriminare e interpretare i dati visibili che incontrano nel loro ambiente di vita,
costituiti da azioni, oggetti, simboli naturali o culturalmente costruiti e di utilizzarle
creativamente nella comunicazione con gli altri e nella comprensione. A oggi non si è
ancora arrivati ad una definizione univoca del termine: la visual literacy è la capacità di
integrare la propria passata esperienza percettiva con i nuovi messaggi visivi ricevuti
dall’ambiente, in modo da essere in grado di capirne il significato; è la capacità di leggere,
interpretare e capire le informazioni presentate in immagini pittoriche o grafiche e di saper
trasformare varie tipologie di informazione in immagini, schemi grafici o forme di
comunicazione non verbale; è l’abilità di interpretare accuratamente messaggi visuali e di
crearne nuovi. Queste definizioni sembrano convergere su 2 aspetti: considerare le
immagini come oggetti e atti culturali che possono essere creati, fruiti, veicolati e riutilizzati
in ambiti diversi e, secondo aspetto, ritenere centrale e imprescindibile l’esperienza del
soggetto – spettatore posto di fronte ad esse.

5.2 PERCORSO DI ALFABETIZZAZIONE VISIVA: QUALI PROPOSTE METODOLOGICHE?


Nella vita di ogni giorno i ragazzi sono assorbiti dal mondo delle immagini. Imparare a
riconoscerle, analizzarle e usarle è diventato uno dei bagagli conoscitivi più significativi nel
3 millennio. I bambini della nostra società crescono interagendo con le immagini e gli
schermi visivi, prima di imparare a leggere. Nello sviluppo dell’età evolutiva,
l’alfabetizzazione visiva precede quella verbale: i bambini imparano a guardare e a
riconoscere persone, animali e oggetti, prima di imparare a nominarli. La frequentazione
assidua dei dispositivi digitali forma il loro modo di guardare al mondo, un modo in cui il
primato della ricezione delle informazioni è affidato all’immagine e non alla parola. Se vi è
consapevolezza educativa unita a competenze storico – letterarie, socio – culturali e
iconografiche, questa modalità di attingere alla conoscenza durante l’infanzia può essere
messaggero di felici esiti formativi. Da questo punto di vista, la letteratura per l’infanzia, in
particolare quella legata alla narrazione iconica, concorre alla formazione di queste
competenze. La lettura di un albo illustrato, se mediata da un adulto – insegnante,
educatore, genitore, permette di sviluppare sofisticate competenze di visual literacy.
Tante sono le possibili declinazioni e le modalità d’uso degli albi illustrati per coltivare
l’incontro e l’amore per la parola letteraria e le figure fin dall’infanzia sia in ambiti scolastici
che extrascolastici. Va precisato, però, che in campo educativo non esiste un metodo o una
pratica di fruizione dell’albo illustrato valida ed efficace di per sé. Secondo gli orientamenti
contemporanei della pedagogia della lettura, non è possibile disgiungere una proposta
metodologica dalla comunità di lettori a cui la si vuole rivolgere o dai contesti sociali,
culturali, geo – grafici in cui si decide di intervenire. Le variabili sono tante e il più delle
volte a fare da cartina di tornasole è proprio il ruolo dell’insegnante o educatore che
interpreta, declina, modifica e riorganizza i percorsi educativi in base ai bisogni narrativi e
alle esigenze dei bambini e ragazzi. Quello che segue è da considerare un orientamento
metodologico di lavoro che cerca di tener compresenti le possibili tappe di un percorso ben
strutturato di visual literacy. L’obiettivo è di veicolare l’importanza di saper costruire e
promuovere una cultura del visivo più critica e più consapevole, non sono nella scuola
dell’infanzia o in quella primaria ma anche in quella secondaria di 1 e 2 grado.
L’orientamento metodologico proposto, prevede lo sviluppo di un percorso caratterizzato
da 5 tappe:
1) Sensibilità percettiva;
2) Abitudine culturale a leggere immagini diverse;
3) Sviluppo della conoscenza critica;
4) Apertura estetica;
5) Eloquenza visiva.
La 1 fase consiste nell’aiutare i giovani lettori, in particolare quelli visivamente poco
acculturati, a comprendere e usare la propria sensibilità percettiva grazie a una lettura +
consapevole ed interattiva delle immagini negli albi illustrati. Il torpore cognitivo (2 fase) si
combatte avvicinando narrazioni iconiche meno descrittive e referenziali, leggendo albi in
cui le immagini sono più sfidanti, lontane da alcune abitudini visive.
Proporre una ricca varietà di narrazioni iconiche, dialogare intorno ad esse, cucirle intorno
al vissuto emozionale ed esperienziale del giovane lettore permette all’insegnante o
educatore di avviare con ragazzi e bambini veri e propri percorsi di analisi visiva e di
comparazione affrontabili attraverso la proposta di tante opere illustrate (3 fase):
abbecedari, alfabetieri, concept books, albi illustrati, silent book, imaginier, graphic novel,
poesie illustrate, etc….
L’uso di alcuni strumenti della critica estetico – letteraria (morfologia, lessicologia, sintassi,
semiotica e quindi la disponibilità dell’insegnante a spendere molte parole intorno al
rapporto dinamico immagine/testo/grafica, alle forme, alla composizione, allo stile, alla
prospettiva, etc…, permette di far vedere al giovane lettore anche il non evidente e di
comprendere come anche fra le righe di un testo visivo vi è molto di non detto.
Sta alla curiosità e alla capacità del fruitore (e alle sollecitazioni sussurrate dell’adulto che
gli sta accanto) di scoprire e individuare rimandi e altre possibili formule interpretative di
un testo. L’assimilazione di una grammatica del visivo e la maggiore dimestichezza con
l’analisi comparativa predispone il giovane fruitore alla possibilità di prendere in
considerazione orizzonti visivi poco frequentati (4 fase) come, ad esempio, nel caso di
illustrazioni + complesse, surreali, simboliche, astratte, orizzonti che spesso poi conducono i
bambini ad esprimere nelle proprie scelte estetiche e letterarie preferenze per linguaggi +
articolati, meno scontati, più liberi e personali rispetto all’appiattimento e all’omologazione
del gusto figurativo praticato a scuola e nell’extrascuola.
Questo lavoro sul visivo aiuta i bambini ad impossessarsi di un’eloquenza visiva (5 fase) che
in seguito darà loro modo di immaginare e evocare immagini in assenza. La libera
esplorazione degli immaginari visivi nei libri per ragazzi è un antidoto per difendersi da
pesanti gabbie culturali, è un percorso educativo per conquistare una propria autonomia
estetica e per iniziare a dare significanza a figure, oggetti, spazi, luci, forme grafiche e
suggestioni, usando diverse chiavi di lettura.
Questo ragionare e fantasticare dentro le figure e nella loro successione è anche una scuola
di fabulazione, di stilizzazione, di composizione dell’immagine che concorre a formare
l’immaginazione letteraria oltre a quella visiva. Notevoli i risvolti nel campo della pedagogia
della lettura. Nell’albo illustrato testo e immagini sono un tutt’uno inseparabile. Un lettore
che sa dialogare intorno alle immagini di una storia, ben presto si troverà a suo agio, se
ancora non ha maturato questa sensibilità, anche ad esprimere pensieri e riflessioni intorno
alla dimensione letteraria perché come ci ricorda Antonio Faeti, l’impoverimento del
lessico, si collega con ciò che riguarda il visivo e l’immagine. Il saper vedere si dimostra con
le parole, perché ogni opera di interpretazione si compie quando le parole si stringono alle
immagini che solo allora esistono, in quanto solo allora sono viste. Coltivare competenze di
visual literacy attraverso gli albi illustrati è un congegno pedagogico per incoraggiare sia
l’alfabetizzazione visiva che quella letteraria.

5.3 NELLA PELLE DEGLI ORSI E NEI MURI DELLE CASE: ICONOGRAFIA, SIMBOLOGIA E
INTERICONICITÀ NEGLI ALBI ILLUSTRATI
Nel percorso di costruzione della visual literacy di un bambino, le immagini e i simboli visivi
costituiscono rappresentazioni non verbali che precedono quelle verbali. Il bambino guarda
e riconosce un oggetto o una persona prima di essere in grado di parlare. E ciò lo dimostra il
fatto che già intorno ai 4 – 5 mesi, quando la vista del bimbo è diventata come quella di un
adulto e la capacità di allungare le braccia e di afferrare gli oggetti si è sviluppata, un
lattante è in grado di interagire in modo autonomo e significativo con la lettura delle figure,
come accade durante la lettura di cartonati con immagini in bianco e nero, con facce
disegnate o con ritratti fotografici di volti umani. Inoltre è il vedere che determina il nostro
posto nel mondo che ci circonda: quel mondo può essere spiegato a parole, ma le parole
non possono annullare il fatto che ne siamo circondati.
Le immagini possiedono qualità e valenze diverse: esse, come anche il testo scritto, possono
essere caratterizzate da contenuti mediocri, ma possono anche imporsi allo sguardo di un
fruitore attento e competente perché portatrici di un complesso intreccio di meccanismi
narrativi, simbolismi, rimandi intertestuali che affinano il pensiero critico, il senso estetico e
l’immaginazione. La scelta di un soggetto, di una composizione, il dialogo intericonico che si
instaura tra le figure e le parole di una storia, sono fondamentali nei percorsi di costruzione
della visual literacy.
Il “la” ci viene da un albo illustrato, Un orso sullo stomaco, di Noemi Vola che ha ricevuto il
Premio Nati per leggere 2018 (categoria 3 – 6 anni). Il libro mette al centro della narrazione
un’icona della letteratura per l’infanzia, l’orso. Una lunga tradizione accompagna la
presenza dell’orso nelle leggende, nei miti, nelle fiabe, nelle favole e nella letteratura per
l’infanzia. L’abilità di ergersi su 2 zampe, di correre, arrampicarsi lo rendono simile
all’uomo. Sebbene grande, grosso e selvatico, l’orso può essere addomesticato: può
imparare a ballare e giocare. È attratto dalle cose dolci, il miele. Si erge a simbolo delle forze
elementari suscettibili di evoluzione progressiva, ma capaci anche di regredire, una
condizione simile a quella del bambino durante l’infanzia. La possibilità di combinare lo
spirito libero e irruente di un animale selvaggio con alcune caratteristiche dell’uomo, ha
trasformato l’orso in un’icona del 900, tant’è che recentemente si è giunti a coniare
l’espressione “il secolo dell’orso”. È indubbio che alcuni dei più famosi capolavori
internazionali della letteratura per l’infanzia hanno per protagonista un orso: Il libro della
giungla, di Rudyard Kipling; Winnie – the – Pooh, di Alan Alexander Milne; La famosa
invasione degli orsi in Sicilia, di Dino Buzzati; Orso Paddington, di Michael Bond; A caccia
dell’orso, di Michael Rosen, illustrato da Helen Oxenbury, Orso, buco! Di Nicola Grossi e
Voglio il mio cappello!, di Jon Klassen. Spesso la figura dell’orso è associata alla dimensione
femminile: sovente, infatti, il ruolo della madre dolce, comprensiva e protettiva è
personificato da una grande orsa, simbolo del cuore. Anche in questo caso l’elenco dei titoli
di libri per bambini che hanno per protagonista una mamma orsa è lunghissimo.
L’albo illustrato Un orso sullo stomaco rappresenta un caso a sé nel panorama editoriale
dei libri per ragazzi. Scritto con l’io narrante in 1 persona e corredato da illustrazioni in
bianco e nero, l’albo racconta le surreali vicissitudini tra un orso, enorme e molesto ed una
bambina che un giorno se lo ritrova dentro casa. Non l’abbandonerà più. Sarà l’inizio di
disagi e fastidi quotidiani con i quali la protagonista dovrà fare i conti (una sorta di
ribaltamento dei ruoli rispetto a Masha e Orso). Scaturito da un’esperienza concreta di vita
dell’autrice, quest’albo rappresenta anche una palestra di educazione al visivo.
La narrazione si apre su una pagina bianca in cui spicca il breve testo che dà l’avvio alla
narrazione: “Non c’è niente da fare, quando un orso arriva…”. Nella pagina di destra il
lettore guarda una casina con porte e finestre barricate e 7 cartelli con simboli visivi e
scritte per scoraggiare e proibire l’ingresso in casa degli orsi.
Nella successiva doppia pagina l’incipit narrativo lasciato in sospeso, nella 1 pagina si
completa con l’affermazione: “Arriva e basta”. L’illustrazione, che riempie le 2 pagine, ritrae
l’arrivo dell’animale.
Queste 2 doppie pagine hanno la capacità di immergere subito il lettore nel mood narrativo
della storia e di sollecitarne la partecipazione. In questo prologo sono già contenuti molti
degli ingredienti che rendono questa narrazione molto intrigante. Spicca il protagonista,
l’orso, un personaggio animale molto amato dai bambini. Poi abbiamo il registro
tragicomico che sollecita un naturale coinvolgimento emozionale. Anche il ritmo frenetico
delle sequenze narrative e la contrapposizione tra gigantesco / minuscolo e pieno/vuoto
aiuta il climax narrativo, spingendo il lettore verso un finale inaspettato. Significativa è la
presenza di particolari forme espressive che danno maggiore efficacia e un particolare
effetto ad una descrizione, una sensazione, un’emozione come l’uso attento del gradiente
sonoro (presenza di onomatopee e varie trascrizioni foniche legate al rumore degli oggetti,
al verso dell’orso, al suono di un’emozione) o l’uso di figure retoriche (la metafora,
l’analogia, l’iperbole) efficaci soprattutto nella 1 infanzia per comprendere e custodire
l’intreccio narrativo.
L’uso di questi meccanismi narrativi è una modalità di lavoro molto diffusa sia nella prosa
che nella poesia per ragazzi. In questo lavoro è originale la valorizzazione visiva scelta
dall’autrice per veicolare gli elementi più gustosi della storia. Gli elementi più caratterizzanti
infatti sono traghettati da una costruzione illustrativa ingegnosa. Le figure sono ricche di
rimandi semantici e giocano un ruolo fondamentale per la comprensione del testo.
La storia è ben riuscita perché l’autrice ha amalgamato creativamente gli elementi in una
soluzione visivo – narrativa del sapere quasi misterioso. Sulla 2 doppia pagina, quella che
registra l’arrivo dell’orso. Un’enorme massa nera (metafora visiva di una valanga, di una
frana, di uno tsunami) abbatte la porta d’ingresso (onomatopea “Sbam!”), nonostante la
presenza delle barricate esterne e, con la forza di un tornado (ritorna l’allegoria di una
catastrofe naturale) entra in casa. Pare chiaro al lettore che quest’arrivo sarà pericoloso. In
questa fase non è dato sapere quali siano le conseguenze, ciò che è chiaro è l’impatto che
esse avranno sulla vita del protagonista: saranno grosse, commisurate alla dimensione del
bestione. Per raccontare ciò, Vola ricorre di nuovo al linguaggio iconico: non rappresenta
l’intero animale, ma ne illustra solo una parte, quella + piccola, ovvero la testa e la parte
anteriore; quella + grossa, ovvero la parte posteriore dell’orso, rimane fuori dalla porta di
casa (per poco tempo viste le crepe che si stanno creando attorno alle mura della porta).
Questa soluzione grafico – visiva è molto efficace perché rende ancora + grande e molesta
la figura del protagonista. Questo arrivo è amplificato dalla relazione visiva di contrappunto
che l’autrice costruisce con gli altri piccoli abitanti della casa che si trovano nell’atrio
quando arriva l’orso, ovvero il gatto sul tappetino d’ingresso, il pesce sulla boccia d’acqua e
il topolino sul buco nel muro. Il lettore dell’orso coglie l’enorme massa nera catramata e 2
occhi che guardano un punto lontano, fuori dalla pagina. Non ci sono parole, non c’è bocca.
Al contrario Dei fragili animali domestici, tratteggiati con campiture di grigio esili, ci
rimangono impressi solo la loro bocca esageratamente spalancata in un lungo urlo di
disperazione (reminiscenze artistiche munchiane?) che vediamo: gli occhi dilatati e fuori
dalle orbite, grandi quasi quanto quelli dell’orso, in una rappresentazione iperbolica della
paura (3 trattini di panico ripetuti, come in una sorta di allitterazione visiva, sopra gli occhi
di ciascun animale, persino nell’uccello a cucù, ai 2 lati della porta abbattuta, vicino al vaso
di creta e a quello di vetro, che stanno precipitando dai rispettivi tavolini). L’autrice ha
usato in modo rinnovato le linee diagonali e a zig zag. Esse si incrociano continuamente
nella pagina: i quadri in posizione obliqua, che stanno cadendo, le gambe dei tavolini, le
linee del pavimento che diventano una sorta di labirinto. Tutto diventa instabile. Ad
accentuare la sensazione di un’imminente battaglia tremenda fra l’orso e la protagonista, vi
è l’uso ironico dell’intertestualità visiva o interpictionally che emerge dalle raffigurazioni
rappresentate nei quadri appesi alle pareti e agli oggetti artistici posati sui mobili. Vola
costruisce tante piccole parodie di guerra e di conflitti, ricorrendo ad alcune opere
importanti nella storia dell’arte: Paolo Uccello, San Giorgio e il drago, Perseo con la testa di
Medusa, Herakles in lotta contro il leone Nemeo. Anfora.
Questa dettagliata analisi visiva di una singola doppia pagina di un albo illustrato è un
esempio di quanti e quali rimandi visivi e semantici un’illustrazione per l’infanzia, sia in
grado di sollecitare. Nell’orientamento teorico di chi scrive, la lettura è sempre intesa come
il risultato di una donazione il cui obiettivo è quello di favorire l’incontro tra il giovane
lettore, che può accettare o meno la profferta, e una storia. Tuttavia, ci aiuta anche a far
emergere le potenzialità educative che l’illustrazione per l’infanzia è capace di veicolare,
oltre al coinvolgimento emozionale. Grazie al loro elevato grado di narratività, infatti, le
figure stimolano le potenzialità intellettive di comprensione e interpretazione dei bambini,
feconde per lo sviluppo di competenze ermeneutiche e inferenziali.
Un altro aspetto riguarda l’interesse, da parte dei giovani lettori, soprattutto quelli
visivamente più colti, per albi che hanno fatto un uso creativo e originale delle soluzioni
artistiche messe a punto nell’arte, non solo del 900. Ci si riferisce ai paesaggi brugheliani di
Roberto Innocenti, ai ritratti in chiave espressionista dei personaggi di Armin Greder, ai
protagonisti astratti, capaci di coniugare astrazione ed empatia, come in Piccolo blu e
piccolo giallo, di Leo Lionni. Riattualizzazioni artistiche e iconografiche di movimenti artistici
come il cubismo, il dadaismo, la pop – art, l’arte concettuale, etc… le ritroviamo nelle
reinterpretazioni serigrafiche di Blexbolex, nell’uso della frammentazione, della
scomposizione (Il puzzle infinito, di Diego Bianki), nella smaterializzazione (Cappuccetto
bianco, di Bruno Munari) o nella riorganizzazione compositiva di alcune ambientazioni,
usando il collage, ma anche altri materiali alternativi alla carta, come le corde (Saremo
alberi, di Mauro Evangelista), funi, fili di ferro, piccoli oggetti domestici (La carezza della
farfalla, di Christian Voltz) fino a giungere ad una ricreazione digitale dei papiers collés
nella trilogia di Stian Hole, pubblicata da Donzelli. Anche la miniaturizzazione o la
gigantificazione (I giganti e le formiche) sono meccanismi narrativi efficaci nell’illustrazione
per l’infanzia. Sovente poi accade che gli illustratori ripropongano nei loro paesaggi visivi,
icone e simbologie della nostra storia culturale e artistica. Prendiamo in considerazione, per
esempio, l’albo illustrato, I 5 malfatti di Beatrice Alemagna. L’albo racconta la storia di un
incontro provocatorio tra un tipo perfetto e 5 amici malfatti, uno bucato, uno piegato in 2,
uno molle, uno capovolto e uno… una catastrofe che vivono serenamente in una casa
sbilenca (al centro dell’immagine). In questa narrazione, Alemagna fa dialogare personaggi,
oggetti e scenari dalle forme geometriche e regolari con altri più sproporzionati, in un gioco
di decostruzione e ricostruzione identitaria dei personaggi efficace ed empatico sia per i
grandi che per i piccoli lettori. Tutto si svolge in una casa che sembra modellata sulle
attitudini e sulle peculiarità dei personaggi. In questa storia di ribaltamento dei punti di
vista, non sfugge al lettore attento il rimando visivo della casa alla villa di Santa Monica di
Frank O’Gehry, uno dei massimi esponenti del decostruttivismo: una casa strana, ma vera,
fatta di materiali di recupero e vetri storti. Ecco allora che, dal senso di una storia e dalla
fruizione di un’illustrazione, si possono attivare percorsi educativi per riflettere con i bimbi
in modo più ampio sul significato e sul valore della parola “decostruire”, un processo vitale
nella pratica pedagogica, non solo con riferimento all’identità ma anche in un’ottica di
educazione alle differenze, alla lotta agli stereotipi e ai pregiudizi sociali e culturali. La
decostruzione dei 5 personaggi e della loro casa sbilenca permette di avviare un confronto
rispetto al valore delle differenze nelle geometrie, nelle forme, negli spazi fino a giungere
agli esseri umani per svelare e comprendere ciò che opera al di sotto all’interno di alcune
categorie di pensiero, un percorso educativo.

5.4 CONCLUSIONI
Le figure scontano una sorta di “peccato originale” a scuola. Essendo legate ad
un’esperienza sensoriale che produce piacere visivo, mal si addicono ad un setting didattico
improntato alla sfera del dovere. Inoltre la capacità del soggetto di porsi, inizialmente, in
dialogo con le immagini in maniera diretta senza l’acquisizione di un alfabeto, ha alimentato
una falsa credenza circa i fabbisogni formativi di alfabetizzazione visiva di un soggetto dal
momento che l’immagine sembra non imporre nulla al proprio lettore, né una grammatica,
né una sintassi visiva, lasciandolo libero di trovare i propri significati. Pur immerso in una
cultura dell’immagine, i bambini spesso non hanno gli strumenti adeguati per poter leggere,
comprendere e scegliere in libertà l’universo iconico dei libri per ragazzi.
La costruzione di percorsi di educazione alla lettura con gli albi illustrati, si sviluppa lungo
percorsi multiformi, soggetti a forti variazioni tematiche ed esperienzali: dalla tipologia
delle immagini (immagine singola o in sequenza, referenziale o polisemantica) alla valenza
estetica della narrazione, dalla situazione di lettura (lettura dialogata, ad alta voce) fino al
ruolo e alle competenze dell’adulto mediatore. Inoltre, la capacità di stimolare il pensiero
critico non è l’unica caratteristica che definisce le qualità di un albo illustrato. Oltre al
coinvolgimento del bambino, spicca la qualità di un testo, sia esso visivo o verbale, e la sua
capacità di sollecitare nel lettore il godimento, il piacere visivo, l’esplorazione immaginifica
della storia, la ricerca di senso.
Questa proposta metodologica insieme all’analisi visiva di alcuni albi illustrati, hanno
dimostrato come la decodifica di un’immagine sia un’operazione difficile e come
l’apparente facilità di lettura di un’illustrazione possa in realtà nascondere una complessità
semantica diversa. Da questo punto di vista, gli insegnanti e gli educatori sono spesso
impreparati e non attrezzati per affrontare un mercato editoriale in continua
trasformazione. Il problema diventa più complesso se si considera la natura ibrida dell’albo
illustrato, a cavallo fra letteratura, estetica ed arte. Essere formati ed attrezzati a
riconoscere, ampliare e valorizzare in campo educativo le tante possibilità di fruizione di un
albo illustrato, può diventare per insegnanti ed educatori una strategia vincente per la
costruzione di efficaci percorsi di educazione alla lettura e di costruzione del pensiero critico
sin da piccoli.

30 ANNI DI ILLUSTRAZIONE IN ITALIA (1987 – 2017).


NOTE ERRANTI SU ARTISTI, LIBRI, LINEE DI TENDENZA, TECNICHE ESPRESSIVE.
Di Martino Negri

6.1 LA PROFESSIONE DELL’ILLUSTRATORE OGGI: TRA COMPLESSITÀ, FACILI SEDUZIONI E


INSIDIE.
L’illustratore non è più, da diversi decenni, un artigiano dell’immagine ben costruita e
seducente, o rispettosa del testo verbale al quale è legata, come avveniva al tempo dei
figurinai cantati da Antonio Faeti in Guardare le figure fino alla metà del 900.
Oggi il ruolo dell’illustratore è diventato più complesso e articolato, non solo nell’ambito
degli albi o picturebooks, ma anche nei libri illustrati e in quelli di divulgazione scientifica o
umanistica: la forza seduttiva e persuasiva del linguaggio iconico, nelle varie declinazioni in
cui può darsi, sembra aver sopraffatto quella del linguaggio verbale, non solo per la capacità
di colpire con maggiore immediatezza e nella dimensione emotiva il fruitore, ma per le
funzioni semantiche e narrative che le figure assolvono.
Fin dall’inizio del 900, la professionalità dell’illustratore comprendeva anche il mondo della
grafica, esplosa negli anni 50 con Munari e Leo Lionni, caratterizzandosi per un’attenzione
al libro in quanto complesso oggetto narrante, dispositivo narrativo verbo – visuale
connotato da vari elementi, non solo iconici e grafici, ma anche materiali: dal formato alla
tipologia del o dei supporti adottati fino alla presenza di fustellature, buchi, inserti di varia
natura e con tante funzioni di ordine semantico e non solo estetico.
Uno dei più talentuosi illustratori emersi negli ultimi 20 anni, Shaun Tan, sintetizza il nuovo
spirito sul quale si fonda oggi il lavoro dell’illustratore, mettendo in discussione il termine
“illustrazione”. La parola “illustrazione” suggerisce qualcosa di derivato, l’eleborazione
visiva di un’idea governata dal testo. Qualcosa incapace di avere un significato
indipendente, qualcosa che può essere solo descrittivo.
Se da un lato il termine “illustrazione” che deriva dal verbo latino illustrare, rendere chiaro,
letteralmente “luminoso”, in senso figurato “comprensibile”, non sembra più rispondere
alle funzioni che le figure nei libri sono chiamate a rivestire in un’epoca sempre più
dipendente dalla dimensione dell’iconico, aprendosi a ruoli più complessi, va anche rilevato
come questo mutamento abbia riguardato non solo le funzioni assolte dalle immagini ma
anche la professione in sé e lo status sociale dell’illustratore. Con l’esplosione del
picturebook è apparso sempre più qualificante essere un illustratore.
La questione, per Negrin, avrebbe a che fare con la perdita, da parte di molti colleghi
contemporanei, di un amore vero per il disegno, della capacità artigianale di costruire le
figure con pazienza attraverso gli antichi ferri del mestiere.
È ovvio che il problema più grande che sta facendo danni anche alla formazione del gusto
infantile, riguarda soprattutto quella parte di picturebooks fatti senza nessun tipo di gusto,
consapevolezza e cura.
L’affermazione del picturebook in quanto specifico e affascinante medium verbo – visuale
rivolto ai lettori di diverse età è un fatto ormai svelato e dipende da tanti fattori storico –
culturale tra cui, a livello nazionale, anche lo slancio progettuale di editori nati negli ultimi
20 anni come Babalibri, Orecchio acerbo e Topipittori: ma sono tanti gli editori che si sono
spesi e si spendono in questa direzione, anche grazie ad una maggiore e + facile circolazione
delle idee, degli autori e delle opere alimentata dalla crescita dell’importanza
internazionale della fiera del libro per ragazzi di Bologna, compresi alcuni grandi editori
storici come Mondadori, Rizzoli, Adelphi e Donzelli. Questa affermazione, che ha favorito
l’aumento di prodotti editoriali e il nascere di un mercato promettente, anche per la sua
natura transgenerazionale, non è priva di ombre, perché alla crescita della produzione di
materiali editoriali non sempre ha corrisposto un’attenzione alla qualità estetica e letteraria
dei prodotti stessi, spesso concepiti nell’ottica di una ripetizione di formule fortunate,
garanzia di immediato successo commerciale. Lo scenario editoriale contemporaneo in
Italia è interessante e complesso, costellato da voci molteplici di illustratori, ora più
tradizionalisti, ora + originali e innovativi, e da una vasta gamma di stili e idee, non solo
rispetto a come può essere costruita un’immagine e alla sua funzione in relazione al testo
verbale che accompagna e con il quale dialoga, quando presente, ma anche rispetto alle
tecniche di realizzazione delle tavole.
6.2 L’ILLUSTRAZIONE NEI LIBRI DI DIVULGAZIONE
L’accezione più classica e letterale del termine “illustrazione” (rendere più chiaro ciò di cui
un testo verbale parla o che non è in grado di esprimere) è rappresentata al suo massimo
grado dalle figure presenti nei testi di natura non narrativa come i manuali tecnici, i libri di
divulgazione scientifica, gli abbecedari.
Tale funzione illustrativa delle immagini, testimoniata da una tradizione editoriale che ha
nell’Orbis Sensualium Pictus di Jan Amos Comenius il capostipite e nelle grandi opere
enciclopediche per ragazzi dei secoli XVIII e XIX alcuni degli esempi più noti e celebrati, ha
continuato a nutrire un’ampia fetta dell’editoria rivolta a bambini e ragazzi per tutto il 900,
sfruttata nei diversi campi del sapere, incontrando negli ultimi anni un momento di
particolare fioritura grazie alle capacità inventive dimostrate da alcuni artisti, sul piano
visivo, concettuale e in alcuni casi, anche narrativo, e al loro desiderio di sperimentazione
alimentato dalle nuove opportunità espressive garantite dall’evoluzione delle tecniche di
stampa.
Uno dei campi applicativi più tradizionali nell’ambito della divulgazione scientifica è quello
dei libri tassonomici che illustrano un determinato insieme di elementi (gli animali, le
piante, i dinosauri), attraverso la presentazione di un certo numero di esemplari del gruppo,
organizzati nello spazio della pagina e accompagnati da brevi testi verbali. Attivi in questo
ambito, negli ultimi anni, sono stati gli editori milanesi Electa Kids e L’Ippocampo, che
hanno pubblicato in Italia i volumi di Katie Scott e Jenny Broom, Animalium, Botanicum e
gli Inventari di Virginie Aladjidi ed Emmanuelle Tchoukriel su animali, piante e ambienti
naturali.
L’Ippocampo ha portato in Italia anche i lavori di autori come Guillaume Duprat e
Cruschiform. Mentre il 1 ha messo la sua arte pittorica al servizio della divulgazione
scientifica in Zoottica. Come vedono gli animali? E della storia delle idee nel Libro delle
terre immaginate e nei meno noti Zodiaco. Una storia del cielo, al 2 si devono A tutta
velocità! E Colorama. Il mio campionario cromatico, libro semplice che mostra come il
visivo possa fronteggiare le deficienze espressive del verbale.
A Elettra Kids va riconosciuto il merito di aver portato in Italia il talento di Aleksandra
Mizielinska e di Daniel Mizielinski, autori del volume Mappe, dove sono sfruttate le
potenzialità del visivo nell’ambito della geografia, in tavole che evocano quelle realizzate da
Vsesevold Nicouline negli anni 50 nel suo Atlante delle regioni d’Italia, e in
Sottacqua/Sottoterra, dove il loro tratto essenziale conduce il lettore alla scoperta delle
profondità marine e della terra.
Dal punto di vista della sperimentazione tecnica vi è il lavoro di Francesco Rugi e Silvia
Quintanilla che lavora sulle potenzialità della stampa in tricromia costruendo immagini con
figure tratte da stampe scientifiche sette – ottocentesche disposte su più livelli, ciascuno dei
quali rivelato da un adeguato filtro cromatico che rende visibile in maniera più o meno
nitida a seconda del colore, figure che altrimenti sono intrecciate e stranianti sulla
superficie della pagina. I libri a stampa realizzati finora con questa tecnica, editi da La
Margherita sono 2: Naturalia, dove i diversi colori svelano gli animali del giorno e della
notte e la flora, e Il corpo umano dove i 3 livelli della visione riguardano lo scheletro, i
muscoli e gli organi.
Nel campo dell’editoria divulgativa di matrice storica incentrata sull’intreccio tra precisione
documentaria e abilità narrativa, gioca invece un ruolo di 1 piano l’illustratore Peter Sís, uno
storyteller che costruisce figure e ambienti con fitti morbidi puntini e tratteggi, vagamente
onirici, grazie ai quali ha saputo raccontare a un pubblico di lettori giovani e giovanissimi
l’avventura di Charles Darwin a bordo del Beagle e la nascita dell’idea dalla quale si sarebbe
sviluppata la sua teoria dell’evoluzione, in L’albero della vita, e la rivoluzione scientifica
innescata da Galileo Galilei, in Messaggero delle stelle, intrecciando il racconto in 3
persona alla citazione di passaggi tolti dagli scritti dei 2 scienziati. Lui si è dedicato anche al
racconto del mondo contemporaneo, come nell’autobiografico Il muro. Crescere dietro la
Cortina di Ferro, cimentandosi anche con l’illustrazione di testi narrativi e poetici di varia
provenienza culturale ed epoca, tra i quali il romanzo di Pam Munoz Ryan, Il sognatore.
Storia del ragazzo che diventò Pablo Neruda.
Tra gli artisti emergenti nel campo della divulgazione di ambito storico, importante è Peter
Goes che ha pubblicato per Mondadori, recentemente, il volume La storia del mondo che
racconta la storia del nostro pianeta e delle diverse civiltà che lo hanno abitato e
trasformato in 40 grandi tavole piene di figure umane, edifici, paesaggi e parole che, messe
in sequenza una dopo l’altra, danno vita ad una linea del tempo (infatti il titolo originale del
volume era Timeline). La peculiarità dello stile di Goes riguarda il sistema di segni usato,
fondato sul dominio della linea chiusa, morbida e pulita, e sull’abilità a comporre le
immagini, dove le figure e i riferimenti si affollano e si compenetrano l’uno nell’altro dando
all’osservatore l’idea di essere di fronte ad una materia fluida e dinamica: la quasi totale
assenza di ombreggiature e la stesura a campiture piatte del colore, favoriscono l’atmosfera
un po’ fumettistica delle sue tavole, in una sorta di rivisitazione neobarocca della tradizione
franco – belga della ligne claire.

6.3 LE FORME DEL REALISMO


Dopo la ventata di rinnovamento nell’ambito della produzione editoriale rivolta ai bambini
legata alla rivoluzione grafica degli anni 50 che avrebbe inciso sul lavoro di molti illustratori
fino agli anni 70, gli anni 80 e 90 sono stati anni di apparente ritorno al figurativo e al
realismo.
Emblematica è la figura di Roberto Innocenti, l’unico italiano a cui è stato conferito, dopo
Gianni Rodari, il premio Hans Christian Andersen. Attivo in Italia dai primi anni 70, con
illustrazioni per opere di autori classici e contemporanei, si è affermato negli Stati Uniti alla
fine degli anni 80, forse anche per la facilità con la quale il suo linguaggio è stato
interpretato nel contesto della tradizione americana dell’iperrealismo; ma è solo dagli anni
90, grazie alle edizioni C’era una volta, La Margherita, che l’illustratore è diventato famoso
anche in Italia. Nel corso dei decenni non ha molto cambiato il suo modo di costruire scene
e figure con precisione, ponendo i suoi pennelli ora al servizio della storia (Rose Blanche),
ora del fantastico (Pinocchio), muovendosi nell’ambito di un realismo etico: il rispetto della
verità e il desiderio di dare visibilità e carne non solo ai fatti, ma anche alle idee e alle
emozioni, sono un tratto fondamentale del suo stile e rappresentano un esempio di fusione
tra dimensione etica ed estetica, sfociando nell’amore per la costruzione delle immagini.
Alla tradizione dell’iperrealismo americano è possibile accostare anche Chris Van Allsburg e
David Wiesner. Mentre il 1, affacciatosi in America alla fine degli anni 70 con The garden of
Abdul Gasazi predilige il disegno a matita con il quale ottiene effetti di luce: i morbidi
modellati e le atmosfere sospese che contraddistinguono i suoi albi, usciti in Italia per
Salani, Il Castoro e Logos (Polar Express; La scopa della vedova), il 2 si distingue per l’uso
dell’acquerello con il quale compone albi senza parole dove l’abilità tecnica e la bravura nel
montaggio delle immagini nello spazio della pagina sono poste al servizio di narrazioni in cui
il quotidiano si apre al fantastico, come avviene negli albi pubblicati anche in Italia (Art e
Max, Martedì).
Gli esempi di quanto la bravura tecnica al servizio dell’iperrealismo fantastico possa
nell’ambito delle illustrazioni nei libri per bambini è testimoniato dalle opere di importanti
autori come Norman Messenger, che esplora giocosamente i territori sterminati di un visivo
che mette in scacco la logica (Il paese che non c’è; Immagina…) e come Rebecca
Dautremer, che dà corpo e presenza a personaggi della tradizione fiabesca classica e
moderna in tavole impeccabili sia nella costruzione delle figure attraverso il disegno, sia
nell’uso del colore e della composizione delle immagini, spesso ridotte da singolari punti di
vista che esaltano cinematograficamente la dinamicità dell’insieme (Cyrano, Diario segreto
di Pollicino); né vuole sperimentare nell’ambito di una narrativa concepita per bambini e
ragazzi, come testimonia il suo lavoro di illustrazione di testi biblici rinarrati da Thierry
Lenain: un lavoro dove, come già nella sua versione di Alice nel paese delle meraviglie, il
suo contributo riguarda anche la concezione grafica dell’insieme.
In modo simile, ma con altri mezzi, lavorano gli illustratori russi Ol’ga Dugina e Andrej
Dugin, che pongono il loro talento nell’uso del disegno e dei colori, per lo più stesi ad
acquerello, al servizio del fantastico e del fiabesco di matrice grimmiana, come nel caso dei
2 volumi pubblicati da Adelphi di Arnica Esterl, Il sartorello coraggioso e Le penne del
drago, dove i riferimenti alla tradizione pittorica fiamminga, da Hieronymus Bosch a Pieter
Bruegel il Vecchio, sono evidenti e investono non solo le tavole a piena o mezza pagina, ma
anche gli elementi grafici a corredo del testo che contribuiscono, fin dal frontespizio, a
connotare l’atmosfera del racconto.
Tra gli autori che si muovono nell’ambito di un figurativo che parte dal dato reale per
trasfigurarlo sfociando nella dimensione del surreale, dell’allusivo e del simbolico, va
inserito Anthony Browne che arrivò in Italia negli anni 70 con Emme edizioni, rilanciato da
Kalandraka (Il maialibro; Nel bosco), Donzelli (King Kong; La mia mamma/Il mio papà),
Orecchio Acerbo che ha pubblicato Gorilla e Camelozampa che ha pubblicato Voci nel
parco che riguarda i diversi punti di vista.
Un ragionamento diverso riguarda autori come Armin Greder e Maurizio A.C Quarello i
quali, pur muovendosi all’interno di un discorso figurativo che trascende il dato mimetico
per farsi critica sociale e politica, come in Greder, o testimonianza visiva volta a servire la
memoria storica, come in Quarello, hanno il coraggio, nei loro lavori più interessanti, di una
crudezza espressiva difficile da dare per scontata nell’universo dell’editoria rivolta
all’infanzia. Illustratore svizzero emigrato in Australia all’inizio degli anni 70 e lanciato in
Italia da Orecchio Acerbo, Greder insiste nei suoi libri, sul tema della migrazione e
dell’incontro/scontro tra culture e prospettive nella storia recente in opere come L’isola.
Una storia di tutti i giorni, Gli stranieri e Mediterraneo che mettono il lettore di fronte alla
drammaticità della situazione sociale e politica occidentale attuale e delle questioni
esistenziali e filosofiche che ne derivano, anche a livello di coscienza personale, sfruttando il
libro in quanto oggetto narrante, dove ogni elemento ha un ruolo, anche semantico, e
facendo ricorso a un segno vivo, consapevole della tradizione della satira politica incarnata
da Honoré Daumier, con le sue figure fluide ed espressivamente cariche, non rinunciando
alle citazioni prese dalla pittura europea, da Goya a Munch.
Artista eclettico torinese, Quarello ha esordito nel mondo della letteratura per l’infanzia con
Babau cerca casa, ma è dalla collaborazione con Irene Cohen – Janca che sono nati i libri
dove il racconto di una storia individuale, anche fantastica, diventa occasione di incontro
con la Storia e la sua violenza, come avviene in L’albero di Anne, L’ultimo viaggio. Se la
messa in scena della storia e dei suoi drammi, universali e personali, rappresenta una parte
significativa della sua produzione, si pensi a L’autobus di Rosa, con testo di Fabrizio Silei,
Quarello ha messo i suoi pennelli anche al servizio dei classici, da Stevenson a London, e del
divertimento, come nel Taccuino di un animalista, pubblicato da Logos.
La felicità di una mano è quella che emerge nei lavori di alcuni artisti che hanno fatto della
matita, del carboncino o dell’inchiostro lo strumento privilegiato per la messa in forma
delle proprie fantasie narrative come Einar Turkoswski, il cui nero ottenuto con matite di
grafite è impressionante per la profondità che dischiude allo sguardo del lettore, o come
Brian Selznick, a cui si devono libri innovativi sul piano del dialogo tra linguaggio iconico e
verbale nel racconto di una storia come La straordinaria invenzione di Hugo Cabret, La
stanza delle meraviglie. È però Shaun Taun uno dei campioni contemporanei del disegno a
matita: ha realizzato le tavole de L’approdo che mette a tema nel segno del fantastico,
senza parole e senza retorica, la migrazione.
Sempre per quanto riguarda il disegno a china, e solo in alcuni casi colorato ad acquerello,
va ricordato François Place, a cui si devono le illustrazioni di alcuni romanzi di Timothee de
Fombelle (Tobia) e di opere architettate da solo come La figlia delle battaglie. Place è
anche l’inventore di un mondo, raccontato nel romanzo illustrato a due voci Il segreto
d’Orbae, intorno al quale ha costruito tanti disegni pieni di persone, cose, ambienti e colori
raccolti in 3 volumi di etnografia fantastica, non ancora usciti in Italia, che evocano il il
brivido vitale che attraversa i Manga di Hokusai, protagonista di uno dei libri ideati da Place,
Le vieux fou de dessin.
Non è neanche morta, nell’ambito dell’illustrazione di matrice realista, una linea più classica
e visivamente rassicurante, fondata su una sicura competenza nell’arte del disegno e della
stesura del colore, spesso ad acquerello. Per motivi diversi sono esemplari Helen Oxenbury,
Lisbeth Zwerger ed Erin E. Stead. Alla 1 va riconosciuto il merito di aver realizzato le
illustrazioni di uno dei pochi classici contemporanei per l’infanzia, A caccia dell’orso, con
testi di Michael Rosen, preceduto e seguito da tanti altri lavori come 3 piccoli pirati e 1
storia che cresce. La 2 ha saputo offrire interpretazioni visive solo apparentemente pulite e
solari, che ad uno sguardo più attento si rivelano invece attraversate da ombre segrete
capaci di cogliere la natura ambigua e un po’ sinistra di molti classici per l’infanzia tra i quali
spiccano alcune opere di Hoffmann, Lo schiaccianoci e Il bimbo misterioso pubblicate da
C’era una volta, e Alice nel paese delle meraviglie di Carroll, uscito per Nord – Sud. Il tratto
grafico della 3 che rinnova con il marito la tradizione del 900 della collaborazione tra marito
e moglie, è delicato, ricco di dettagli ed essenziale, contraddistinto dal dialogo tra il disegno
che delinea forme, ombre e volumi e il colore steso ad acquerello o con matite e pastelli,
alternando i pieni ed i vuoti nello spazio della pagina.
Tra coloro che usarono la matita e i colori, abbiamo anche Alexis Deacon di cui Settenove
ha pubblicato Cip & Croc. Lui è stato autore di albi di altissima qualità estetica ma anche
capaci di parlare a lettori piccoli o piccolissimi come Slow Loris e Beegu.
Chiude questa rassegna sulle forme contemporanee del realismo nell’illustrazione per
bambini la figura di Fabian Negrin, sperimentatore di tecniche e strumenti di costruzione
delle immagini, che negli ultimi anni si è dedicato al recupero delle istanze del realismo al
quale si devono alcuni degli albi italiani più interessanti degli ultimi anni come In bocca al
lupo, In riva al fiume oltre ad un corpus di tavole realizzate per illustrare copertine di
volumi, ad esempio della collana “Gli Istrici” della casa editrice Salani, le fiabe classiche
edite da Donzelli e tutti i volumi di una collana di racconti di grandi autori lanciata da
Orecchio acerbo, le “Pulci nell’orecchio”.

6.4 I MOLTI VOLTI DELLA STILIZZAZIONE.


L’artista che meglio di tutti esprime la curiosità per la varietà dei tratti che l’illustrazione
può assumere nei racconti contemporanei per bambini è Tan, autore che ha fatto della
sperimentazione di diverse tecniche espressive, impiegate su diversi supporti, uno dei tratti
distintivi della sua poetica: dalla matita di grafite alle tempere e agli oli, dai colori acrilici ai
pastelli, dalla china al collage, fino all’argilla, dipinta a mano e alla fotografia (L’approdo,
The Rabbits). La scelta di usare diverse tecniche espressive deriva da precise intenzioni
espressive – estetiche e comunicative, imposte dalla natura di ciascun racconto, come
testimonia Piccole storie di periferia, composto da 15 storie illustrate, ciascuna con uno
stile diverso.
Una delle principali forme di stilizzazione dell’immagine è quella garantita da un uso
sapiente della linea grafica, che consente la rappresentazione di personaggi, ambienti e
scene caratterizzate da un grado intenso di aderenza rispetto alle forme e ai colori del reale.
Nonostante le tradizioni stilistiche nazionali nell’epoca della globalizzazione, che ha favorito
la circolazione delle idee e delle suggestioni visive, si siano indebolite, le tradizioni artistiche
che hanno fatto della linea grafica un vero e proprio marchio di riconoscimento sono la
scuola inglese del tratto grafico e quella franco – belga della ligne claire.
La scuola inglese affonda le sue radici nel XIX secolo, quando nasce l’idea moderna di
picturebook grazie ad artisti come Randolph Caldecott, Kate Greenaway e Walter Crane e si
sviluppa per tutto il 900, attraverso figure come quella di Edward Ardizzone arrivando ad
Helen Oxenbury, Quentin Blake e Tony Ross. Blake, attivo dagli anni 60, ne incarna lo
spirito, unendo semplicità nel numero e nella tipologia dei segni adottati ad un’efficacia
espressiva che a che fare con la capacità di cogliere vita e dinamismo di personaggi, scene e
situazioni con tratti aperti dal sapore bozzettistico. Ha lavorato sia come illustratore di
opere altrui (si pensi alla collaborazione con Roald Dahl, del quale ha illustrato Le streghe,
Matilde), sia come autore o co – autore di picturebooks, tra cui Mostri, I fantastici 5.
Philippe Corentin, Claude Ponti e Gilles Bachelet sono invece riconducibili alla tradizione
della “linea chiara” di cui fu iniziatore e maestro, negli anni 20 del XX secolo, il fumettista
francese Hergé: una tradizione che ha nel segno netto, pulito e chiuso, il suo tratto
distintivo. Mentre gli albi di Philippe Corentin mettono spesso a tema, seppur attraverso
trasfigurazioni metaforiche, divertenti e rispettosi, la vita quotidiana e le emozioni dei
bambini lettori come in Papà, I 2 golosoni, Claude Ponti ha esordito nel 1986 con L’album
di Adele, libro grande nelle cui pagine vi sono tante figure di ogni genere non vincolate tra
loro da un univoco filo conduttore narrativo, per poi non fermarsi più, dando vita a tanti
volumi che rivelano agli occhi del lettore mondi meravigliosi e personaggi bizzarri (La mia
valle), affrontando anche temi spinosi come nel Catalogo dei genitori. Anche Bachelet
punta, come Corentin e Ponti, sull’umorismo e sul piacere di far divertire il lettore con le
proprie fantasie visive, ma i suoi giochi sono + raffinati e sembrano rivolgersi ad un pubblico
colto, capace di coglierne i riferimenti storico – artistici e letterari: sono esemplari, in
questo senso, Napoleon Champignon, pieno di citazioni e La signora coniglio bianco, dove i
rimandi ad Alice nel paese delle meraviglie costellano e reggono la narrazione, invitando
l’occhio del lettore a percorrere le tavole a doppia pagina per ricercare dettagli rivelatori.
Anche gli illustratori italiani Guido Scarabottolo e Sergio Ruzzier possono essere considerati
tra i maestri contemporanei della linea pulita: una linea spesso aperta, incline alla
metafisica e fecondata dalla stesura del colore in campiture piatte, nel caso di Scarabottolo
(Di notte sulla strada di casa); più morbida e chiusa nel caso di Ruzzier che riesce a dare
corpo a mondi fantastici pieni di realismo, delicati e crudi, cui la coloritura ad acquerello dà
un tono ed un’atmosfera inconfondibili (Una lettera per Leo).
Altri artisti, pur essendo anche grandi disegnatori, puntano sulla potenza espressiva del
colore e della sua matericità. Spiccano, tra questi, Negrin, soprattutto in opere come
L’amore t’attende dove la pennellata non si nasconde sotto le forme cui dà vita, ma
soprattutto Federico Maggioni e Lorenzo Mattotti. Federico Maggioni proviene dal mondo
dei periodici per ragazzi e del fumetto, di cui offre una testimonianza divertente Là nel
selvaggio West, con testi di Tiziano Sclavi, per arrivare a collaborare con i maggiori autori
ed editori italiani del secondo 900, che lo porteranno a realizzare opere visivamente potenti
che in un sapiente uso del colore hanno uno dei tratti distintivi: risultano esemplari, a tal
proposito, le illustrazioni realizzate per Il cavaliere inesistente di Calvino e quelle per i
Promessi Sposi di Manzoni dove punta su un nero materico, allusivo rispetto al tema della
peste, di grande efficacia drammatica. Disegnatore e colorista, Mattotti proviene dal mondo
del fumetto e il suo lavoro di illustratore solo a volte è rivolto ai bambini, come nel caso di
Pinocchio o Hansel e Gretel dove riesce a catturare tutta l’oscurità della fiaba dei Grimm in
tavole cupe in cui il nero è chiamato a costruire il discorso visivo in ampie doppie pagine
che si alternano alla chiarezza di quelle in cui è stampato su uno sfondo bianco, con ampi
margini, il testo verbale.
Tra i maestri della linea e del colore, spicca l’illustratrice anglo – belga Kitty Crowther per
l’uso delle matite colorate con le quali dà vita a storie di trasfigurazione magica del
quotidiano, in albi come Storie della notte, o ad avventure visuali dove le linee e i colori
generano flore e faune insolite dando forma all’invisibile in albi che toccano questioni che
pochi hanno il coraggio di affrontare con i bambini (Dentro me).
Una sensibilità particolare rispetto alle potenzialità espressive del colore e della sua
matericità caratterizza il lavoro di una generazione di illustratori nati negli anni 70 come
Beatrice Alemagna, Alessandro Sanna, Mara Cerri e Maja Celija. Attiva dal XXI secolo, la
Alemagna è diventata famosa con Che cos’è un bambino e con 1 leone a Parigi, già
caratterizzati da figure e scenari ammiccavano allo sguardo e al disegno infantile, nella
stilizzazione poco rispettosa delle proporzioni degli elementi che usa per dare forma al
proprio discorso, anche ricorrendo all’uso del collage, prediligendo nelle opere successive
come Il meraviglioso Cicciapelliccia l’uso di una tecnica mista dove il dialogo tra matite
colorate, pastelli ed acquerello rende le tavole + pastose, vive di colore. Sanna, usando solo
l’acquerello, ha trovato una sua via di interpretazione del ruolo di illustratore/narratore, in
lavori senza parole dove il racconto è affidato all’articolarsi di morbide sfumature e violenti
contrasti cromatici che, senza puntare ad una riproduzione mimetica del reale, sembrano
coglierne la sostanza più profonda con semplicità, Moby Dick e Fiume lento. Un viaggio
lungo il Po con cui è stato consacrato dalla critica. La matericità delle tavole di Mara Cerri e
di Maja Celija è di matrice pittorica: mentre la Cerri che aveva già rivelato doti tecniche e
facilità inventiva in A 1 stella cadente, pubblicato nella collana “Millemillimetri” dall’editore
Orecchio acerbo, ha dato sempre maggiore attenzione al dialogo tra le forme, idee e
impasti cromatici (Il nuotatore), Maja Celija semplifica le forme rifacendosi alla tradizione
della pittura naïf e al modello del doganiere Rousseau, dal quale deriva anche una tendenza
all’evocazione di una dimensione surreale ad alto tasso simbolico (Filastrocca acqua e
sapone per bambini coi piedi sporchi) in modo simile ad un’altra illustratrice italiana attiva
nel mondo dell’illustrazione per ragazzi dalla metà degli anni 90, Simona Mulazzani (Vorrei
avere). Anche Antonella Abbatiello e Arianna Papini hanno contribuito a connotare
l’editoria italiana degli ultimi 30 anni, semplificando le forme, in modo che anche i lettori
più piccoli potessero avvicinarsi con curiosità all’esperienza del racconto verbo – visuale:
mentre la tensione fantastica che attraversa l’opera della Papini è rappresentata da Il sogno
delle stagioni, l’inquietudine espressiva e la voglia della sperimentazione tecnica della
Abbatiello trova nell’Alfabeto delle fiabe, realizzato con la tecnica del decoupage, uno dei
suoi esiti + interessanti perché condensa in pochi elementi, cromaticamente omogenei ed
essenziali nella composizione, significati densi e rimandi simbolici.
Il fascini per la tecnica del collage, attraversa l’opera di molti sperimentatori visivi degli
ultimi decenni, da Chiara Carrer, illustratrice e raffinata autrice (La bambina e il lupo), a
Cveta Pacovska che ha portato le istanze espressive delle avanguardie primonovecentesche
nel mondo dell’illustrazione per l’infanzia (Cappuccetto Rosso) guardando anche agli
illustratori rivoluzionari degli anni 60, tra cui Heinz Edelman, dal quale avrebbe ripreso e
rielaborato alcuni tratti, aprendo la strada a illustratrici di generazioni successive come
Emmanuelle Houdart.
Tra gli illustratori che si sono imposti muovendosi nell’ambito di particolari interpretazioni
della tecnica del collage vanno ricordati anche l’irlandese Oliver Jeffers, autore di Chi trova
un pinguino…, che gioca sul contrasto tra carte di colori, texture e qualità diverse per dar
corpo a scene e ambienti in albi come L’incredibile bimbo mangia – libri e il norvegese
Stian Hole che ha interpretato in maniera visivamente innovativa e cromaticamente
esplosiva l’idea del collage, inteso come orchestrazione eterogenea di elementi
digitalmente rielaborati, dando vita ad una trilogia di albi incentrata sul personaggio di un
ragazzino, Garmann, che deve affrontare temi spinosi come il passaggio d’età, il senso della
vita e il lutto (L’estate di Garmann, Il segreto di Garmann, Il paradiso di Anna). Sarà Wolf
Erlbruch uno dei + raffinati sperimentatori del collage, per il rigore essenziale delle sue
composizioni dove le figure essenziali, connotate ed espressive, tracciate con matite di
grafite colorate, dialogano con frammenti di altri discorsi visivi fatti altrove, dando vita a
racconti verbo – visuali di intensità poetica e spessore filosofico (La grande domanda); cosa
che non gli impedisce di costruire albi divertenti anche per bimbi molto più piccoli come nel
caso di Chi me l’ha fatta in testa?
La costruzione di figure semplici attraverso tagli, fustellature e pieghe che esaltano le
qualità materiali, evocative e narrative del supporto al quale si affida il racconto o che lo
costruisce, è esplorato dal giapponese Katsumi Komogata, autore di molti oggetti narranti
di vario formato che sfruttano le proprietà intrinseche delle diverse carte di cui si serve per
dare forma a racconti elementari ma sorprendenti in cui l’evocazione delle forme naturali e
delle emozioni umane ha un ruolo centrale: è esemplare il libro pop – up Little tree/Petit
arbre, dove ad ogni doppia pagina, in stretta relazione con il tipo di carta usato, si rivela agli
occhi del lettore uno spazio di luce diversa, sul quale interferisce anche il tipo di luce al
quale le pagine sono esposte. Sfrutta tutte le potenzialità del taglio al laser di carte e
cartoncini Antoine Guilloppé, autore di molti albi cinematografici che solo in parte sono
arrivati in Italia (Pieno sole).
Tra i libri che sfruttano i progressi della tecnica in ambito editoriale vi è Piccolo teatro di
Rebecca della Dautremer, miracolo di cartotecnica in cui vengono presentati l’uno dopo
l’altro, di pagina in pagina, come personaggi su una scena teatrale mutevole e ritagliata al
laser, i protagonisti e le figure minori dei suoi libri, a ciascuno dei quali è affidata una frase
sull’amore, fino all’immagine di chiusura che non ha bisogno di parole a supporto; e Jim
Curious di Matthias Picard, psichedelico viaggio nelle profondità marine da godersi in 3D.
Una semplificazione estrema delle forme spesso consente di aprire un dialogo con i lettori
più piccoli, avvicinandoli alla lettura senza rinunciare a quella qualità estetica che solo
alcune scelte ponderate consentono di garantire, come avviene nei lavori di Joelle Jolivet
(365 pinguini), Laurent Moreau (Dopo); Matthieu Maudet (Buongiorno dottore) e Jon
Klassen (Voglio il mio cappello!). Bisogna ricordare Altan, padre di Pimpa: nata nel 1978, la
cagnolina bianca a pallini rossi definita da marcati contorni neri e colori danzanti è ancora
viva nell’immaginario comune, anche grazie alle serie televisive, con la surreale atmosfera
delle sue storie.

6.5 CONCLUDENDO: NUOVI STRUMENTI, QUESTIONI DURATURE


Questo viaggio nell’universo dell’illustrazione degli ultimi 30 anni in Italia è iniziato
evocando una trasformazione nel mestiere dell’illustratore sviluppatosi nel segno di un
maggiore riconoscimento sociale e di una complessità e articolazione del suo ruolo nella
costruzione dei libri e degli albi illustrati. Questa trasformazione si è nutrita anche
dell’evoluzione delle tecniche di costruzione e stampa delle immagini.
Anche il mondo dell’arte digitale consente di realizzare tavole bellissime e di realizzare
opere a stampa geniali, altrimenti non realizzabili.
Se l’opera di Gianni De Conno, il quale dagli olii e acrilici passò alla pittura digitale, dimostra
le possibilità offerte dal mezzo tecnico nuovo nell’elaborazione di immagini d’impianto
tradizionale che hanno il calore della pittura vera, preservando l’atmosfera sospesa delle
sue tavole dove regna il silenzio (L’ultimo viaggio), sono Richard MacGuire e Blexbolex ad
averci dato opere dove le risorse della grafica digitale sono state poste al servizio
dell’immaginazione e dell’intelligenza progettuale.
I libri di Blexbolex, pubblicati in Italia da Orecchio acerbo, sono caratterizzati da eleganza
formale che simula l’effetto della stampa serigrafica, ponendola al servizio di forme di
testualità verbo – visuale molto diverse tra loro, andando da libri non narrativi come
Immaginario e Stagioni, dove gli elementi presentati sono disposti secondo un ordine di
pagina in pagina tematico o formale, con elementi di scarto rispetto alla struttura
tradizionale di questo tipo di opere non – fiction, fino a Ballata e Vacanze. Mentre nel 1 è
narrata una fiaba moderna dove il dialogo tra iconico e verbale non è scontato,
pretendendo l’attenzione da parte del lettore per essere inteso e gustato, Vacanze è un
racconto visivo e senza parole sul tempo dell’estate, dilatato, carico di promesse e desideri,
destinato a finire: qui ogni doppia pagina è calibrata, tessuto visivo che rimanda a un
mondo visivo retrò, esaltato dalla simulazione della stampa serigrafica applicata ad un uso
dello spazio della pagina che evoca formule narrative proprie del fumetto e del graphic
novel, ed è ottenuta mediante un lavoro di elaborazione digitale.
In Qui Richard McGuire sfrutta l’idea classica di catturare il senso del tempo che scorre
attraverso una successione di tavole che presentano sempre la stessa inquadratura in
diversi momenti: ciò che rende straordinario il suo lavoro è il fatto che l’arco temporale
all’interno del quale la sua immaginazione si muove è ampio, dando una misura della
brevità della storia umana, anche grazie alla scelta di una narrazione che sfrutta l’aprirsi, il
chiudersi e il sovrapporsi di diverse finestre temporali nello spazio visivo della doppia
pagina, ciascuna delle quali rispondente a un diverso stile espressivo che dà all’insieme una
natura musicale e polifonica, per l’accavallarsi di motivi narrativi che emergono, si
sviluppano e poi scompaiono, di pagina in pagina, commuovendo e divertendo, ma sempre
stimolando il lettore alla riflessione sulla propria fragilità e piccolezza nel flusso inarrestabile
del tempo.
Lo scenario riguardante il mondo dell’illustrazione al servizio di giovani e giovanissimi lettori
è vario ed in continua evoluzione, dando spazio a diversi modi di intendere la costruzione di
immagini, ma soprattutto dimostrando come siano sempre l’occhio e la mano dell’artista, a
prescindere dagli strumenti usati, a consentirgli di trarre fuori dalla sua immaginazione
presenze dotate di un’intima coerenza e necessità.

CAP. 7 – L’ALBO ILLUSTRATO: UNA PANORAMICA TRA STORIA, STORIE,


VISIONI E CONTEMPORANEITÀ
Di Marcella Terrusi

7.1 INTRODUZIONE
Esiste il tempo dei primi incontri del lettore con quegli oggetti destinati a segnare e
costruire il rapporto personale e futuro di ogni bimbo con la lettura, le immagini, il libro. Si
tratta di un tempo ideale, costituito dallo scaffale dei primi libri di quel lettore, da quella
memoria personale del libro che cura la personalità e il gusto del lettore.
I libri di immagini riveleranno la loro potenza comunicativa, insieme alla voce e al racconto
delle narrazioni orali, alla relazione che si costruisce intorno al libro nella 1 infanzia, alle
caratteristiche fisiche del libro che a volte rimangono fissate nella memoria insieme al
colore della copertina, un dettaglio di una figura, l’emozione suscitata da immagini
perturbanti e complesse, che nel tempo continuano ad essere misteriose. Prima che l’albo
illustrato divenisse una categoria editoriale evoluta in progetti destinati ai bambini, cosa
che accadde dalla fine dell’800 in Inghilterra con i picturebooks pensati per bambini
borghesi del tempo da artisti come Walter Crane, Randolph Caldecott e Kate Greenaway, i
bambini, come molti lettori illetterati, si sono nutriti di fogli volanti portati dai venditori
ambulanti nelle piazze, immagini di santi e storie popolari illustrate o di immagini, prima
dell’avvento della stampa, che stavano sui muri. Per consolidarsi nel nostro paese come
categoria editoriale rivolta alla 1 infanzia, l’albo illustrato deve aspettare la 2 metà del 900.
La parentela dell’illustrazione per l’infanzia con l’iconografia e l’editoria popolare è stata
messa in luce da Antonio Faeti nel suo saggio del 1972 Guardare le figure, il 1 studio
dedicato alle illustrazioni nei libri per bambini, alla cultura dei creatori di immagini,
illustratori o figurinai italiani a cavallo fra 800 e 900, al complesso mondo iconografico dei
loro riferimenti e universi immaginativi.
Nell’infanzia dei nostri genitori o nonni, quando in Italia ancora gli albi illustrati per
bambini, intesi come libri brevi, narrativi, costituiti perlopiù di immagini, non erano diffusi,
ma si trovavano libri di narrativa o di scienza corredati di figure, i bambini trascorrevano
molto tempo sui dizionari illustrati, sulle figurine allegate dal marketing, a prodotti
merceologici di tutt’altra collocazione, oppure a sfogliare un’edizione di un classico della
letteratura illustrato, guardando soprattutto le figure.
Il rapporto privilegiato dell’infanzia con le immagini è stato studiato a partire dal lavoro di
Jan Amos Comenius, il quale non solo nella Didattica Magna, osserva quanto interessanti
possano essere le immagini per i bimbi, ma poi nell’Orbis Sensualium Pictus, progetta il
libro con le figure per bambini, il 1 concepito con questa intenzione, progenitore dei
sussidiari didattici, ma anche dei moderni albi illustrati. Nell’Orbis Sensualium Pictus il
“mondo dipinto” di Comenius prende forma, insieme all’intenzione pedagogica e didattica,
di raccontare il mondo ai bambini in molte tavole illustrate, dotate di brevi didascalie,
anche l’impossibilità di rappresentare il mondo senza inventarlo, interpretarlo e ricrearlo.
Un progetto che oggi si direbbe di non – fiction, un progetto di divulgazione della
conoscenza, nella forma del libro di immagini e parole, una forma breve, adatta
all’attenzione di lettori bambini, diventa un progetto artistico e letterario complesso, in
ragione della sua rapidità ma anche della sua intenzione poetica. Comenius vuole
rappresentare il mondo delle cose sensibili. L’ottimismo di Comenius si basa su una
profonda fiducia nell’essere umano, e l’immaginazione assume per lui la funzione di
mediare e conciliare la costruzione del pensiero sulle cose, di incoraggiare e trasformare
una nuova concezione di natura e di relazione. La rappresentazione sensibile del mondo in
lui si converte in una trasformazione etica della vita quotidiana.
Il codice multiplo della forma letteraria breve dell’albo illustrato nasce da una ricerca di
incontri insoliti fra linguaggi e lettori, e da un rapporto speciale con la visibilità del mondo e
la sua dicibilità. Rapidità e visibilità sono le caratteristiche fondamentali dell’albo illustrato,
capace di rivolgersi anche a lettori illetterati e molto giovani. Nell’albo illustrato si trova
anche un rapporto speciale fra immagini e parole, che si configura in un’infinita varietà
combinatoria, che accoglie gli esiti + diversi, dall’abbecedario all’albo illustrato senza
parole, in una continua ricerca di sperimentazione portata avanti da autori che in questa
forma trovano una libertà di espressione artistica e letteraria.
L’albo illustrato è una forma compositiva, un contenitore elastico ma con sue
caratteristiche, una forma metrica e fisica e viene attraversato continuamente dai generi,
dalle intenzioni, dalle continue sperimentazioni sui limiti della sua forma. Proprio per
questa complessità e per le sfide poste dalla sua apparente semplicità, attrae il designer, gli
illustratori e gli artisti che portano nelle pagine di un libro breve di immagini e parole il
dialogo continuo con la cultura visuale internazionale, con i linguaggi della letteratura e
dell’arte, della poesia, del fumetto, del cinema e della musica. Il dialogo possibile con i
giovanissimi lettori, nell’albo illustrato, si configura con il valore pedagogico e politico di un
benvenuto nella cultura visuale e nella letteratura, e nella riflessione poetica sul mondo, in
forma di libro, a costituire non solo una 1 galleria d’arte per i lettori, ma anche un
coinvolgimento, fin dalla 1 infanzia, al racconto della complessità del mondo. Gli albi
illustrati prendono varie forme sensibili e propongono alfabeti combinati invitando al gioco,
all’esercizio del linguaggio, alla scoperta della bellezza e della potenza della visione, alla
conoscenza, alla relazione che è alla base di ogni racconto o narrazione.
Gli albi illustrati o picturebooks sono dei libri brevi con tante immagini e poche parole,
anche se non sempre, costituiti da 32 pagine.

7.2 SPERIMENTAZIONI DI METÀ 900


Se si può affermare che in Italia sia solo dalla seconda metà del secolo scorso che l’editoria
per l’infanzia comincia a dedicare uno spazio specifico agli albi illustrati, bisogna soffermarsi
su quali sono state le esperienze di sperimentazioni decisive in questo senso a cavallo fra la
metà del 900. Le esperienze originali e di rottura contraddicono e anticipano tendenze e
filoni dominanti; ci sono anche riprese tardive delle esperienze iniziali e sviluppi che
riprendono intuizioni visionarie molto antiche. Oggi chiamiamo “classiche” esperienze che
al loro tempo sono sembrate estreme.
Bruno Munari, progettista, artista, sperimentatore del visivo, già dagli anni 40 rivolge la sua
attenzione al libro per bambini. Gioca con la forma delle pagine e la cartotecnica, con le
fustelle, cioè i tagli e i buchi delle pagine, toglie e aggiunge parole e immagini fino a
progettare “libri illeggibili” oggi esposti al MOMA di New York, le cui pagine sono fogli di
carta colorata, con un angolo mancante, con tagli diversi ma senza testo e senza segni.
Progetta libri che contengono pagine più piccole, in forma di porta o pacchetto, da aprire e
scartare come regali, come Toc toc. Riflette sul fatto che per un bimbo il libro è prima di
tutto un oggetto di design, cioè da esplorare con i sensi, per vivere un’esperienza tattile,
ludica. Gli anni 50 e 60 sono anni in cui la riflessione sul design e sulla cultura del progetto,
fra Milano e New York, nutre il dialogo e la sperimentazione di progettisti curiosi delle
diverse forme, capaci di passare dal progetto di un mobile a quello di un libro per bambini
con lo stesso rigore progettuale. Interrogarsi sulla percezione visiva e totale dell’infanzia
significa andare alla ricerca di una verità iniziale sul rapporto con le cose, con la loro forma
e il loro senso. Interrogarsi sul libro per bambini è interrogarsi sulle ragioni stesse del libro e
della letteratura, sullo sviluppo della percezione estetica. L’albo illustrato è un laboratorio e
osservatorio delle ragioni dell’arte, della letteratura e del design.
Nell’ambito dell’editoria per l’infanzia italiana, riguardo alla storia degli albi illustrati, se
vogliamo segnare una svolta sulla linea del tempo, dobbiamo aspettare il 1967, data in cui
Rosellina Archinto avvia a Milano l’impresa editoriale Emme Edizioni. Una casa editrice
piccola che oggi ci appare come un’esperienza che segna un prima e un dopo non solo nella
produzione editoriale dei libri per piccoli, ma anche nella consapevolezza critica che ha
accompagnato e sostenuto sempre questo progetto editoriale che ha dato spazio agli albi
illustrati e alla riflessione sui libri e sulle immagini destinate ai bambini.
Rosellina Archinto svecchia l’editoria pubblicando in Italia gli albi illustrati che ha visto negli
Stati Uniti, convinta di dover offrire cultura di 1 livello ai bimbi italiani, in quanto a storie,
figure e riflessioni connesse, nella forma del libro per piccoli, brevi e con molte immagini.
Accoglie le sperimentazioni dei grafici milanesi come Iela ed Enzo Mari, sente il bisogno di
accompagnare il suo catalogo editoriale con ragionamenti critici che motivino e aiutino gli
adulti ad accogliere la nuova concezione del libro per bambini.
Rosellina Archinto offre non solo un catalogo di albi illustrati progettati, scritti e illustrati da
grandi artisti e intellettuali, ma pubblica in altre collane studi di pedagogisti, critici, pediatri,
con il progetto moderno di formare ed educare i genitori, gli insegnanti e di fornire loro
strumenti per avvicinarsi anche ad un nuovo modo di intendere la cultura per e della 1
infanzia.
50 anni dopo la sua operazione appare storica, e gli albi pubblicati da Emme Edizioni oggi si
sono consolidati come classici: si tratta degli albi di Maurice Sendak, Leo Lionni, Iela ed Enzo
Mari, Tomi Ungerer, Altan, Mordillo, Lastrego e Testa. Oggi alcuni di questi sono ripubblicati
da Babalibri, marchio editoriale di Rosellina e Francesca Archinto, ma anche da altre case
editrici storiche come Einaudi Ragazzi, Mondadori, Rizzoli.
Nell’albero genealogico degli albi illustrati pubblicati in Italia da Emme Edizioni, gli antenati
moderni sono albi fra loro molto diversi, che ci consentono di tracciare alcune
caratteristiche comuni di una grammatica dell’albo illustrato, insieme semplice e
complessa, e di interrogarci sulle derivazioni contemporanee.
Ai libri di Iela Mari, inizialmente progettati con il marito designer Enzo, dobbiamo
l’esperienza dello sviluppo di progetti di albi senza parole per la 1 infanzia. Sono albi che
rappresentano visivamente, in formato quadrato, metamorfosi, inseguimenti e variazioni
visive su temi naturali. Il 1 pubblicato nel 1960 da Bompiani e poi ripubblicato in forma
modificata e perfezionata da Emme di Rosellina Archinto, è La mela e la farfalla, oggi
ristampato per Babalibri e rappresenta la metamorfosi da bruco a farfalla di un piccolo
uovo deposto in una mela. Il libro è circolare (all’inizio era rilegato a spirale). Il progetto
mostra la metamorfosi e le vuole dedicare un omaggio visivo poetico. L’albo senza parole,
detto anche silent book, vivrà in Italia a partire dalle sperimentazioni di Munari, ma
soprattutto da quelle di Iela Mari, un’evoluzione lenta e discontinua che vede, nell’ultimo
decennio sia in Italia che nel contesto internazionale, una nuova spinta progettuale e
culturale, riconosciuta dall’attribuzione di importanti premi internazionali ad albi silenziosi,
dalla nuova attenzione critica dedicata a questi libri e da diversi progetti internazionali.
Il discorso critico sugli albi illustrati è maturo ormai ed infatti distingue poetiche e modi di
guardare di albi diversi. Il saggio Meraviglie mute. Silent book e letteratura per l’infanzia,
ha dedicato un ampio riconoscimento storico, estetico e pedagogico a questi libri,
raccogliendo ed elaborando esperienze che hanno coinvolto lettori migranti, bambini e
adulti in una lettura condivisa e proponendo alcune categorie interpretative possibili per
ragionare in termini di “poetica”, cioè della visione del mondo che l’autore affida a un libro,
e di pedagogia dello sguardo. Il fatto che Carocci abbia confezionato un libro con più di 100
tavole illustrate e che abbia dedicato a una categoria di libri minore, all’interno di una
letteratura per l’infanzia considerata invisibile, dimostra che il lavoro scientifico portato
avanti in luoghi accademici e non, abbia dato oggi la possibilità di un nuovo confronto,
interdisciplinare e internazionale e che abbia forse anche incoraggiato nuovi spazi editoriali.
Oggi tra gli albi illustrati pubblicati in Italia, vi sono anche libri senza parole tradotti da altri
paesi ma anche progettati in Italia. Si ricorda il lavoro della casa editrice Minibombo, che
progetta albi illustrati con e senza parole, in un formato quadrato che dichiara la parentela
con gli albi di Iela Mari. La grammatica visiva è caratterizzata da colori piatti, linee di
contorno nette, forme pulite. La poetica dà attenzione alla sensibilità e al mondo della 1
infanzia, e gli albi di Minibombo giocano con i meccanismi della sorpresa, del gioco, del riso,
del riconoscimento, dell’esercizio di un’intelligenza che considera le figure come parte di un
indispensabile tirocinio alla lettura del mondo, e la forma albo come la forma privilegiata di
narrazione sequenziale a misura di bambino. Il catalogo di Minibombo accoglie non solo
albi illustrati per piccolissimi, ma anche applicazioni, legate ai libri stessi, che si rivolgono a
bambini della 1 infanzia: attualizzazione della sperimentazione della migliore editoria per
bambini e l’affermazione della continua penetrabilità fra mezzi, linguaggi e contenuti dei
testi destinati ai bimbi. Rosellina Archinto voleva ricercare albi illustrati con segni nuovi e
storie stravaganti.
7.3 NUOVA CONSAPEVOLEZZA CRITICA INTORNO ALL’ALBO ILLUSTRATO
L’albo illustrato può ospitare una varietà infinita di trattamenti grafici, stili e tecniche di
illustrazione, di scelte iconografiche e progettuali. È spazio per narrazione di infinite
domande, risposte, prospettive sul mondo, storie, strutture narrative che vanno dalla lista
al racconto, dalla poesia alla variazione su un tema visivo. Una caratteristica fondamentale
è la sua brevità e il fatto di essere costruito da un codice multiplo di immagini e parole e
progetto. Il testo può essere assente, breve, in rima, costituito da una sola parola x pagina o
da un racconto che le attraversa. Può interrompersi lasciando lo spazio solo alle immagini o
prendere tutto lo spazio in una pagina bianca o vuota. Ha un ritmo rapido; l’albo illustrato
funziona come una sequenza; ha un verso di lettura; è progettato per molte letture. Il
rapporto fra le parole e le immagini può essere simmetrico (l’immagine rappresenta
qualcosa che le parole descrivono) o ironico (l’immagine rappresenta qualcosa che il testo
contraddice) ma più spesso si configura come un rapporto di completamento e dilatazione
reciproca, che costruisce lo spazio dell’esperienza della lettura, insieme al formato del libro.
L’albo illustrato è lettura possibile per ogni età.
Se una letteratura critica dedicata alla teoria dell’albo illustrato, che vede fondamentali i
contributi nati soprattutto nei paesi anglosassoni, si è sviluppata a partire dagli anni 70 e 80
in poi, in Italia ha raggiunto maturità scientifica solo recentemente. Quasi 40 anni dopo,
l’editore Donzelli ristampa il saggio di Antonio Faeti Guardare le figure che, pur essendo
dedicato agli illustratori italiani dei libri per ragazzi, illustratori che devono lavorare su testi
narrativi e non autori di albi illustrati, ha posto le basi metodologiche per lo studio delle
figure dei libri per bambini, soprattutto invitando a riconoscere parentele, derivazioni e
rimandi fra i testi e a considerare i libri per bambini nella rete di relazioni, narrative,
iconografiche, pedagogiche, culturali in cui sono inseriti e a interpretarli e studiarli secondo
chiavi di lettura interdisciplinari che includono la storia dell’arte e delle idee, la psicologia, la
storia, l’iconografia, la letteratura, lo studio dell’immaginario collettivo. Dal 2011 in poi
vengono pubblicati anche in Italia contributi dedicati agli albi illustrati in cui vengono
esaminate la storia e la storia critica degli albi, le grammatiche e i riferimenti teorici al loro
studio, classici e alcuni interventi di Antonio Faeti in consigli internazionali alla fiera del libro
per ragazzi di Bologna. A distanza di alcuni anni da quel volume, che traccia uno stato
dell’arte degli studi sull’oggetto, con particolare riferimento alla tradizione critica
anglosassone, si può osservare come oggi sono diversi gli studi dedicati in ambito nazionale
e internazionale agli albi illustrati, e come un certo lessico critico si sia consolidato anche in
Italia. Ci sono anche pubblicazioni divulgative che mostrano il crescente interesse del
pubblico nei confronti del tema. La cultura degli albi illustrati si nutre nel dialogo reciproco
di diversi soggetti, istituzioni accademiche e non, in diverse occasioni nazionali e
internazionali, fra cui occupa un posto importante il salone della Bologna Children’s Book
Fair, appuntamento annuale non solo dedicato al mercato internazionale del libro per
l’infanzia, ma anche alla sua cultura. Istituzioni come il Bologna Ragazzi Award, premio
annuale assegnato da una giuria internazionale ai migliori albi illustrati dell’editoria
mondiale, sono occasioni in cui il libro per ragazzi diventa un osservatorio prezioso del
dialogo internazionale, dello stato delle culture per l’infanzia, delle tendenze pedagogiche.
Se si ripercorre la storia del premio, si possono trovare albi illustrati premiati soprattutto
per l’originalità e la qualità di progetto, cioè per la qualità di un libro che è costituito da un
progetto visuale e insieme letterario, poetico e culturale. Ci sono albi di grandi autori ed
editori che hanno costruito la storia e la cultura dell’albo illustrato, il cui formato, con
poche variazioni, è contenitore per narrazioni e trattazioni di infinita varietà. Sono albi
pubblicati in vari paesi del mondo e non sempre poi vengono proposti tradotti in Italia, ma
comunque mostrano un panorama ricco e vivace che nella forma dell’albo illustrato dà voce
e spazio a temi, linguaggi, visioni e narrazioni ricchissime.

7.4 L’ALBO ILLUSTRATO MESSAGGERO DI PACE


Dalle iniziative e dai premi internazionali viene sempre di più l’impulso a pubblicare anche
da noi albi illustrati sperimentali e innovativi e quindi esiste una forte penetrabilità, in
questo campo, tra competenze e saperi diversi, dallo studio pedagogico alla cooperazione
internazionale, dalla grafica alla storia della letteratura per l’infanzia. Nel 2016 viene
istituita una categoria speciale annuale del premio destinata a libri legati al tema della
disabilità. Questa istituzione viene anche stimolata dal fatto che la Fiera di Bologna è uno
dei soci fondatori della sezione italiana di IBBY (International Board on Books for Young
People) la no – profit mondiale impegnata per monitorare il diritto all’accesso ai libri per
bambini e ragazzi. IBBY ha creato dal 1985 un centro di documentazione internazionale su
libri per bambini, oggi con sede a Toronto, dedicato al tema della rappresentazione delle
disabilità e ad aspetti ad essa collegati, e ogni 2 anni cura una selezione bibliografica e una
mostra internazionale che segnala e raccoglie soprattutto albi illustrati ma anche romanzi di
tutto il mondo che appartengono a categorie diverse: libri che raccontano la condizione di
persone disabili, libri in linguaggi speciali che vanno incontro ad esigenze specifiche, libri
dove si hanno bambini e ragazzi con diverse abilità. Il premio viene dato ad un albo molto
speciale, con un formato insolito, a partire dal numero delle pagine che sono 144. Si tratta
di una specie di diario illustrato che un padre, il disegnatore Gusti, dedica al racconto della
nascita e della 1 infanzia di Mallko, che nasce con la sindrome di down. Il libro, incluso in
una mostra e in una pubblicazione dedicata, Un altro sguardo che viene pubblicata un anno
dopo per Rizzoli.
L’albo illustrato è da sempre caratterizzato da una particolare possibilità di circolazione
internazionale e questo è dovuto prima di tutto al fatto che è un testo breve. Nella storia
del 900 esiste, poi, una vicenda che ha impresso in Europa in particolare, un forte impatto
sulla consapevolezza del ruolo degli albi illustrati non solo nell’educazione ma nella
cooperazione internazionale e nell’educazione alla cittadinanza. Si tratta della storia di Jella
Lepman, fondatrice del comitato mondiale IBBY. La sua storia è narrata in un’autobiografia
edita da Sinnos. Dopo la 2 guerra mondiale, in Germania, questa giornalista ebrea tornata
da Londra ricevette l’incarico di creare un progetto dedicato ai bimbi tedeschi, devastati
dagli orrori della guerra e dell’olocausto. I regimi totalitari erano stati molto attenti
all’editoria per l’infanzia ed eliminarono dalle biblioteche i libri non graditi, cosa che
accadde anche con Hitler. Jella Lepman pensò di partire dalla restituzione della varietà
internazionale dei libri per bambini ai bambini tedeschi. Il progetto all’inizio consisteva nella
creazione di una mostra bibliografica internazionale e di albi illustrati, con poco testo o
senza. Gli stati europei dovevano mandare i loro migliori albi per bambini, trasformando la
guerra che vi era fra loro in amicizia. Da quella prima collezione internazionale allestita nel
palazzo di Monaco, nacque poi la collezione che oggi si può visitare alla International Youth
Library a Monaco di Baviera e il comitato internazionale che si impegnò dal 1953 a
controllare lo stato della circolazione e della qualità dei libri per bambini come termometro
di pace e convivenza pacifica; comitato che oggi vede coinvolti 77 paesi.
Gli albi illustrati sono caratterizzati da questa facilità di circolazione, facilità di creare ponti
fra lettori e fra lettori diversi: sono mediatori di relazione fra adulto e bambini, di sovvertire
gerarchie pedagogiche e produrre nuove relazioni di senso. Quando sono bilingui, come nel
caso degli albi in italiano e arabo editi da Gallucci e Kalimat, sono veri ponti fra lingue e
culture. I libri consentono di soffermarsi sul linguaggio delle figure con un tempo adatto
all’attenzione dei lettori, di creare occasioni adatte alla costruzione di alfabeti visivi, ovvero
dispositivi prodotti da una educazione estetica e da una pedagogia dello sguardo.
Nel 2017 e nel 2018 la Fiera di Bologna istituisce una speciale categoria per i libri che
raccontano l’arte, l’architettura e il design e dà visibilità ad albi illustrati che invitano a
scoprire biografie di artisti, fra segni e riscritture, fra progetto architettonico e cartotecnico,
linguaggio visivo e corpo del libro. In questo progetto, che rientra in un più ampio insieme
di iniziative e in 2 volumi, emerge come l’albo illustrato sia un dispositivo capace di dare
voce e visibilità ad aspetti dell’arte e quindi di indicare vie possibili anche per i destini
personali, e come l’offerta di uno scaffale eccellente possa assumere un’importanza che ha
oggi forti connotazioni pedagogiche e politiche.
Si possono costruire progetti tematici, bibliografie o mostre o percorsi a tema solo a patto
di non sottoporre il libro ad un esame che analizzi gli aspetti, in virtù di tesi che precedono il
libro stesso e che considerano un libro come un contenuto espresso poi in una forma
disgiunta: il mezzo è il messaggio, la forma è il contenuto, il libro è un oggetto di visual
design, cioè progettato per essere guardato: non sceglieremo libri su un certo argomento
ma, andremo ad osservare quando temi, situazioni narrative, poetiche, elementi specifici
ricorrano nei libri, per costruire scaffali critici che poggiano su ipotesi interpretative. Non
esistono libri sulla paura, sull’amicizia, esistono narrazioni e storie che contengono e sono
attraversate da elementi dell’uomo e del mondo che si intrecciano, senza essere mai
separati: ogni storia racconta la realtà, l’umano, l’incontro con l’altro, con ciò che non
conosciamo e questo vale anche per il fantastico. La letteratura è il luogo per eccellenza
dell’ascolto e dell’incontro con l’altro, la letteratura per l’infanzia racconta sempre la
complessità umana. Racconta di noi, del nostro essere in continuo cambiamento,
attraversatori di un mondo in divenire di cui possiamo cogliere ombre, figure, forme, per
meravigliarci della loro vitalità.
Non esiste, negli albi come in ogni altra forma d’arte, un contenuto separato da una forma,
ma esiste una forma poetica complessa che è molto difficile da realizzare. Le tentazioni
didatticiste, che hanno caratterizzato la letteratura per l’infanzia fino e oltre il XIX secolo,
trovano nell’albo una scorciatoia e possibile traduzione di “messaggi” preconfezionati.
L’editoria contemporanea per l’infanzia possiede antidoti all’uso del libro come ricetta
preconfezionata per un presunto bisogno educativo: gli antidoti sono il dialogo
internazionale, il dialogo con gli esperti, librai, bibliotecari, e il confronto con i bambini che
sono lettori esigenti. In biblioteca gli albi più consumati rimangono i classici che non
rispondono ad esigenze esterne, ma solo alla poetica dei loro autori. Ciò è possibile
ravvisare parentele, citazioni, allusioni che da un albo all’altro rimbalzano un discorso
collettivo. La rappresentazione dell’infanzia negli albi risponde alla prospettiva degli autori e
alla percezione delle condizioni infantili contemporanee. L’editoria per l’infanzia è in grado
di rappresentare e affermare l’importanza del rapporto fra bambini e ambiente; la varietà
delle relazioni affettive e delle forme familiari e di cura; la bellezza dei legami d’amicizia e di
scoperta; la meraviglia dell’arte, della musica; la centralità dell’esperienza del silenzio nelle
relazioni e nella crescita; la possibilità di trovare nelle narrazioni un senso che dia ragione
anche agli esseri minimi del loro diritto ad esistere.
L’albo illustrato è restituito ai lettori per guardare insieme le immagini del mondo e
motivare il linguaggio, la voce, l’ascolto reciproco, nell’incontro con i segni, perché il mondo
richiede di leggere i segni e trovare la propria voce, ascoltare quella degli altri, orientare lo
sguardo a bellezza e speranza per le generazioni future.
Nel 2017 vince il BolognaRagazzi Award un libro che nasce da un incontro di mondi, un
autore di albi e illustratore, con un tipografo e grafico. Il libro si intitola La bambina dei libri
ed è un saggio illustrato sul potere dei libri. Le immagini sono costruite a 4 mani dai 2 autori
e il paesaggio visivo del libro è caratterizzato da elaborazioni tipografiche che riportano
citazioni di libri classici che formano montagne e orizzonti, mentre la storia principale
dell’albo è l’incontro fra 2 bimbi.
L’albo mette in pagina l’immersività del libro illustrato che è introduzione e benvenuto a
ogni forma multipla del racconto artistico.
Nel 2018 si consolidano alcuni albi senza parole del BolognaRagazzi Award. Gli albi senza
parole esprimono al massimo la capacità comunicativa dell’albo illustrato come dispositivo
capace di attraversare barriere: non più necessaria la traduzione del testo, davanti al lettore
si spalanca la possibilità di leggere libri per immagini pubblicati in tutto il mondo. Una
nuova complicità è possibile nelle pagine, quando a scuola o in biblioteca si propone la
lettura collettiva e condivisa di una storia per immagini. Questo accade non perché il
linguaggio visivo non sia naturale; esso è un linguaggio culturale che si apprende e che deve
essere insegnato ed educato. I silent book invitano all’incontro e alla condivisione,
evocando parole e conversazioni; chiedono ai lettori di costruire ipotesi, negoziare e co –
costruire il senso, rimanere sospesi fino a conferme, rimanere anche in silenzio per poi
trovare le proprie strade e parole di senso nelle riletture o nel confronto con altri lettori.
Dopo decenni di promozione della lettura che ha portato alla diffusione di pratiche virtuose
come la lettura a voce alta, in particolare nella fascia da 0 a 6 anni (per es. il progetto “Nati
per leggere”) gli albi senza parole invitano a rivedere anche quella pratica, e la gerarchia
educativa fra adulto e bambino, voce narrante e uditore, lettore alfabetizzato e lettore
illetterato. Il libro senza parole chiede di andare insieme, usando ognuno i propri sensi e le
proprie competenze, nel rispetto della voce dell’autore, nell’incontro con il racconto per
immagini. Gli autori di libri senza parole, fra cui spiccano David Wiesner, Alessandro Sanna,
ma anche gli albi progettati da Minibombo, affidano alle pagine di questi albi una lezione
pedagogica importante che invita al silenzio e a riflettere sulle immagini, all’ascolto
reciproco e all’esperienza estetica e poetica dello spaesamento. Il lettore bambino cercherà
coerenza narrativa e senso nella sequenza delle pagine; troverà in diversi albi un discorso
metatestuale sulla circolazione delle immagini e della cultura visuale, un invito a immergersi
oltre la superficie delle cose, un gioco dello sguardo che deve allenare sorpresa e
meraviglia, riconoscimento, attenzione al dettaglio e all’attraversamento delle distanze.
Dall’Italia, anche grazie a progetti internazionali come “Silent book per Lampedusa”
promosso da IBBY Italia e dal palazzo delle esposizioni di Roma, progetto che ha portato alla
formazione della 1 biblioteca sull’isola, si sta diffondendo una spinta internazionale allo
studio e alla circolazione dei migliori albi illustrati senza parole.
Si spera che lo studio di questi libri possa costituire un antidoto all’ansia contemporanea
come augurato da Paul Hazard nel 1944, a favore di una pedagogia della lettura, dello
sguardo, del tempo lento e del silenzio capace di far immaginare e produrre parole nuove, a
partire dalla 1 infanzia, per tutto il tempo metamorfico della vita, anche grazie ad un albo
illustrato.

CAP. 9 – LE NUOVE FRONTIERE DEL FUMETTO: DAI CLASSICI AL GRAPHIC


NOVEL
Di Emilio Varrà

9.1 INTRODUZIONE
Negli ultimi 20 anni si è assistito ad un cambiamento radicale del panorama fumettistico
italiano, e quindi non è facile dare conto con chiarezza della sua natura e dei suoi confini.
È un grave errore considerare il graphic novel come l’unico esponente del fumetto
contemporaneo. Bisogna riconoscere la coesistenza di 5 regioni che non solo confinano, ma
spesso si contaminano l’una con l’altra: da una parte c’è il fumetto che vive della serialità
sia portando avanti, e anche rinnovando, radicate tradizioni, sia offrendo nuove proposte
che, pur proponendosi per un pubblico ampio, spesso si rivelano sofisticate, come accade
con le attuali serie televisive. Dall’altra c’è una grande attenzione verso il recupero del
passato, attraverso ristampe curate dal punto di vista filologico che rendono disponibili in
libreria o con collane allegati ai quotidiani in edicola, opere integrali di autori e personaggi
che hanno fatto la storia del fumetto. C’è poi il fenomeno dei webcomics, creati per una
fruizione in rete e che hanno una loro peculiarità per formati narrativi, periodicità delle
uscite, rapporto con i lettori, possibilità di diffusione. Un settore più di nicchia è quello delle
autoproduzioni: albi e volumi pubblicati da singoli e più spesso collettivi senza l’appoggio di
1 realtà editoriale strutturata e veicolati autonomamente attraverso una distribuzione in
librerie indipendenti o nelle fiere e festival del settore. Infine il Graphic novel, che negli
ultimi anni ha conosciuto un maggiore interesse e visibilità, tale da importo, erroneamente,
come la forma per antonomasia del nuovo fumetto.

9.2 TENTATIVI (VANI) PER UNA DEFINIZIONE DEL GRAPHIC NOVEL


Non è facile dire cosa sia un graphic novel. 2 saggi si contrappongono: in The graphic
Novel. An introduction Jan Baetens e Hugo Frey affermano che per le specificità formali, di
contenuto, di formato editoriale e di sistema produttivo e distributivo, il graphic novel può
essere considerato un medium a parte, distinguibile dal fumetto che l’ha preceduto. Andrea
Tosti, al contrario, nel suo Graphic novel, si mostra polemico contro qualsiasi tentativo di
distinguerlo dalla precedente tradizione dei comics.
Il graphic novel non ha uno specifico contenuto che lo definisce come tale e che lo distingue
dal fumetto. Può raccontare ogni tipo di storia con un tono che può essere serio, comico,
impegnato o leggero, per adulti, bambini o ragazzi. È possibile riconoscere la prevalenza di
alcuni contenuti e approcci narrativi, ma per quanto si possano distinguere temi ricorrenti e
sottogeneri (l’autobiografia, il reportage, l’indagine storica, il romanzo di formazione),
rimane il fatto che essi derivino da tendenze culturali contemporanee o da mode, e non da
caratteristiche connesse al medium.
Il graphic novel è una forma recente con cui il linguaggio fumetto si è sviluppato. Abita lo
stesso spazio e lo stesso linguaggio, dei vecchi classici: si tratta sempre di fumetto.
Si possono far emergere alcune caratteristiche: la 1 riguarda l’oggetto concreto, l’aspetto
materiale con cui si mostra: un libro che può avere dimensioni variabili, ma tende ad
alludere ad altre forme di scrittura, siano esse il romanzo o il saggio. Non è una cosa
scontata perché nella sua storia il fumetto è stato capace di esprimersi su supporti diversi
che ne hanno modificato stili e contenuti: dai primi decenni del 900 si è imposto come arte
popolare e di massa attraverso le strisce e le pagine domenicali sui quotidiani; dagli anni 40
si è sviluppato come comic book autonomo; dalla metà degli anni 60 fino agli anni 80 ha
trovato nelle riviste antologiche lo spazio privilegiato per un rinnovamento di artisti, stili,
contenuti, pubblico di riferimento. Il graphic novel in quest’ottica è una tappa ulteriore del
percorso che non va visto in termini evolutivi, perché le migliori strisce sui giornali di inizio
secolo non hanno nulla da invidiare alle migliori opere contemporanee (che spesso
recuperano la lezione del fumetto delle origini).
Non si deve pensare che concentrarsi sull’aspetto oggettuale e di formato del fumetto sia
limitato alla materialità perché esso va ad influire sulle trasformazioni del linguaggio e sui
contenuti, e sull’immaginario di chi si appresta a creare e di chi si accosta per leggere. Il
graphic novel nel suo porsi come libro, comunica delle informazioni: di essere oggetto
culturale integrato ad altre forme editoriali e ai loro meccanismi produttivi e distributivi (le
librerie di varia e non più le edicole e le fumetterie), di essere autoconclusivo (anche se
esistono narrazioni in + volumi), e di essere unitario nella sua concezione. È un formato
concettuale più che materiale a fare la differenza. Non importa che tra i primi graphic novel
a imporre questa nuova categorizzazione ci fossero una raccolta di racconti, o un memoir
autobiografico e storico che era in parte uscito già su rivista: conta che gli autori
pensassero, nel momento della creazione, ad un’opera unica, retta da logiche narrative e
strutturali interne e coerenti. Questo differenzia il graphic novel dalla tradizione
precedente, che si pensava in termini di serialità produttiva, procedendo per singoli episodi.
Questa caratteristica spinge Baetens e Frey a sostenere il graphic novel come opera
d’autore, come espressione di un ingegno individuale più svincolato dalla catena
industriale. Questa tesi rischia di sottovalutare l’editoria come industria in sé e il fatto che
anche il romanzo nella sua forma tradizionale risenta di una serie di passaggi e
condizionamenti a cui l’autore deve sottostare. Il rischio altrimenti è quello di contrapporre
la purezza artistica ed intellettuale del graphic novel con altre tradizioni fumettistiche,
creando una gerarchia di valori difficilmente condivisibile. Il fatto che un fumetto esca in
forma di libro non depone di per sé a favore né del suo valore intrinseco né della sua
autenticità, come succede per i romanzi, film, dischi. Tanto più se si considera il successo
che il graphic novel si è guadagnato nel campo delle vendite.
Quella commerciale e merceologica è un’altra ottica con cui si può definire il nostro oggetto
di ricerca. Non c’è dubbio che questa denominazione e le opere che la usano, abbiano
ricevuto una crescente attenzione fino ad una piena affermazione sia nell’ambito della
comunità culturale che relegava il fumetto a una fruizione infantile o popolare, sia da parte
di un pubblico più ampio rispetto a quello degli appassionati di fumetto (con un aumento
della presenza femminile). Le librerie hanno ampliato i settori dedicati al fumetto; sono
nate nuove realtà editoriali specializzate e altre non che si sono lanciate nell’impresa; gli
autori di fumetto sono spesso ospiti di festival culturali e letterari; le vendite sono
aumentate. L’arricchimento delle proposte, con produzioni inedite, traduzioni e recuperi
dall’estero, ha favorito anche una certa crescita nell’uso del termine che è iniziato ad
apparire su fascette di pubblicazioni che avevano poco a che fare con quanto dichiaravano
o su pubblicazioni a fumetti appartenenti a diverse tradizioni (raccolte di albi
precedentemente editi). Anche i media generalisti hanno contribuito a creare confusione:
sintomatica è la dicitura graphic novel di cui si fa bello il supplemento culturale “La lettura”
del Corriere della sera da quando pubblica 1 o 2 pagine a fumetti autoconclusive, che
difficilmente per la loro brevità potrebbero essere riconosciute come romanzo, ovvero
novel.
Mai come ora la presenza del fumetto e la sua dignità culturale hanno penetrato
l’immaginario comune. Non è la prima volta che accade in Italia, grazie all’intervento di
intellettuali come Calvino, Eco e ad una rivista come “Linus” che si rivolgeva ad un pubblico
colto e adulto, inaugurando una nuova considerazione. Eppure mai si era raggiunto un tale
certificato di qualità. A questa nuova affermazione, non corrisponde però ancora una
conoscenza diffusa della specificità linguistica ed espressiva del fumetto e dei modi con cui
il graphic novel interviene mantenendo e rinnovandone la storia. Questa acquisizione di
consapevolezza, insieme ad un ampliamento del bacino dei lettori, è l’imperativo
pedagogico al quale tutti dobbiamo rispondere, ancora di più se abbiamo una funzione
sociale che ha a che fare con la trasmissione culturale. La speranza è che in futuro si possa
evitare la paternalistica condiscendenza a cui dà voce Panequotidiano dopo alla
candidatura di unastoria, primo romanzo a fumetti e essere selezionato nel 2014 per il
Premio Strega. Di fronte a vari interventi dell’autore che invitano a considerare il suo libro
come fumetto, l’intervistatrice dice che il suo è un fumetto fatto bene. L’obiettivo futuro
deve essere quello di Riconoscere e far conoscere i fumetti fatti bene per la capacità di
usare il linguaggio a disposizione e per lo spettro di contenuti, emozioni e riflessioni che con
esso possono veicolare.

9.3 UN POCO DI STORIA


La difficoltà che esiste nel catturare i confini del graphic novel aumenta se si considera che
ogni tradizione ha sviluppato una propria specifica storia. Ci limiteremo ad accennare agli
Stati Uniti che hanno dato il via alla dicitura di graphic novel: si fa risalire al 1978, e all’uscita
di Contratto con dio di Will Eisner, la 1 vera affermazione di tale nome. Forte di una fama
internazionale conquistata sul campo negli anni 40 grazie al suo personaggio seriale The
Spirit, l’artista americano ritornò sulle scene con questa antologia di 4 racconti di vita
quotidiana, volle che in copertina fosse evidente l’etichetta “graphic novel” e lottò affinché
il libro circolasse nelle librerie di varia. L’impatto di questo gesto si può comprendere solo
se si considera che negli USA il fumetto viveva solo di una produzione seriale, rivolta
perlopiù ad un pubblico giovanile e retta da un sistema di produzione industrializzato che si
fondava sulla riconoscibilità di personaggi e di generi. Diverso sarebbe stato il discorso in
Francia, dove da prima si era avviato un processo di riconoscimento del fumetto come
narrazione anche per adulti, degna di una piena considerazione culturale e già identificata
nel formato del libro. Il 1986 è la 2 tappa importante perché in quell’anno uscirono 3 opere
fondamentali per la loro qualità intrinseca e per l’eco che crearono nel dibattito culturale. Il
ritorno del Cavaliere oscuro, a opera di Frank Miller è il recupero di un’icona tradizionale
come Batman, che conosce qui una drammaticità, un approfondimento psicologica, una
tensione politica sconosciuti leggittimando il genere super-eroistico a un pubblico maturo.
Lo conferma Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons: la mitologia dell’eroe in
calzamaglia si interroga sulla sua valenza simbolica e politica e disegna un mondo cupo e
malinconico, che fa sentire gli echi dell’Inghilterra tatcheriana. Infine il 1 volume di Maus di
Art Spiegelman che con mezzi poveri (un disegno al tratto in bianco e nero, l’uso di topi,
gatti, maiali antropomorfi) dà vita ad un’opera complessa, capace di costruire una
stratificazione tra memoir dell’esperienza dei genitori ad Auschwitz, l’indagine storica,
l’autobiografia, la riflessione sul medium fumetto e sulla responsabilità etica dell’artista. Fu
Spiegelman a segnare la 3 tappa del percorso: nel 1992 con il 2 volume di Maus vinse il
Premio Pulitzer, primo autore di fumetti a conquistare questo riconoscimento. Il mondo
culturale americano si rese conto che il fumetto aveva bisogno di una diversa
considerazione: il dibattito sul graphic novel interessava la critica specializzata ma anche
quella letteraria fino ad entrare nelle università. Nel corso degli anni 90 e poi 2000, nuove
generazioni di autori si imposero con le loro opere, di cui si riconobbe il valore letterario:
Chris Ware, Alison Bechdel, David Mazzucchelli.
In Italia da una parte viviamo un ritardo rispetto al modello americano se pensiamo che la
piena affermazione del graphic novel non data neanche 10 anni. Dall’altra però abbiamo
una grandissima tradizione che ha sperimentato forme del linguaggio e approccio al
racconto e che non ha nulla da invidiare a un confronto internazionale: nel 1967 uscì La
rivolta dei Racchi di Guido Buzzelli, un volume autoprodotto, affermazione della visione di
un autore. Nello stesso anno La ballata del mare salato di Hugo Pratt, uscito a puntate ma
coerente come un’opera unitaria, inaugurò la nascita di Corto Maltese, protagonista di tanti
altri episodi della letteratura disegnata. Nel 1969 Dino Buzzati diede vita a Poema a fumetti,
lanciano un ponte dalla letteratura verso il mondo dei comics. Dalla metà degli anni 60 e
per tutto il decennio successivo, furono al tavolo da disegno degli autori che per tensione
sperimentale, forza stilistica, capacità narrativa, reinvenzione del linguaggio diedero vita a
un periodo importante per fertilità ed esiti artistici: Dino Battaglia, Sergio Toppi, Gianni De
Luca, Guido Crepax, Altan, Magnus, Munoz e Sampayo (argentini ma residenti in Italia),
senza dimenticare Jacovitti. Il motivo per cui questa generazione non è riuscita ad imporre
una diversa visione del fumetto in Italia è dovuto all’impreparazione del nostro immaginario
nell’accogliere questa possibilità. Abituati da decenni a considerare il fumetto come lettura
infantile, mal sopportata dalla scuola e dalle voci più significative della cultura e della
pedagogia, simili autori lavoravano su testate rivolte ai ragazzi o su riviste specializzate e
solo raramente sono riusciti a travalicare i confini dei lettori appassionati. Un’occasione
sprecata perché questa concentrazione di creatività avrebbe meritato un importante
riconoscimento nazionale e internazionale. A questa seguì una nuova generazione di autori
che tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 riuscì a costruire un dialogo molto + intenso
con la società attraverso un’identificazione generazionale con i giovani di allora e con i
movimenti politici e culturali di cui questi ultimi si facevano attori. Riviste come “Il Male” e
“Frigidaire” o gruppi come i Valvoline sono icone di quei tempi, ma qui interessa
considerare la tensione sperimentale che animava autori come Tamburini, Mattioli,
Pazienza, Mattotti. Dalla 2 metà degli anni 80 questa propulsione si spense, scandita dalla
chiusura di tutte le riviste che di essa era stata spazio e testimonianza. Seguì un decennio di
stasi, dove non mancarono nuovi autori, ma in cui si è perso il rapporto privilegiato con
bimbi e ragazzi e anche il senso di appropriazione e rispecchiamento da parte del mondo
giovanile. Ed è in questo decennio che si prepara il terreno fertile per l’affermazione del
graphic novel anche in Italia.
Si possono distinguere 3 fasi cronologiche nel considerare il fenomeno: la 1 risale alla 1
metà degli anni 90 e vide alcuni tentativi pioneristici che, nonostante l’ottima qualità delle
proposte, fallirono: si pensi alla collana “I Canguri” di Feltrinelli che nel 1992 si aprì al
fumetto con il romanzo di Lorenzo Mattotti e Lilia Ambrosi, L’uomo alla finestra (ma
l’avventura si chiuderà dopo un 2 titolo). A partire dalla metà degli anni 90 prende inizio la
2 fase con la pubblicazione di autori e volumi che nel decennio successivo iniziano ad essere
introdotti nelle librerie di varia: la Phoenix Enterprise di Daniele Brolli pubblicò, oltre a
romanzi e saggi, autori che divennero graphic novel (Daniel Clowes, Joann Sfar). Nel 2000
inaugurò la sua attività Coconino Press che fu la voce + importante di quel periodo per
l’impatto sul pubblico e sui media. Grazie alla guida e alla capacità comunicativa di Igort,
alla cura editoriale dei volumi e all’importazione di capolavori internazionali ancora
sconosciuti da noi, Coconino fu la 1 a imporsi all’attenzione di una comunità culturale che
non interessava solo gli appassionati di fumetti e non è un caso che il Gruppo Editoriale
l’Espresso nel 2006 cercò la sua collaborazione per proporre una collana di allegati in
edicola intitolata “Graphic Novel”, operazione che può essere considerata come la chiusura
di questo periodo, che nel frattempo vide nascere nuove realtà editoriali: Canicola Edizioni
propose opere e autori con una forte vocazione sperimentale nella strutturazione della
narrazione (Andrea Bruno, Giacomo Nanni). L’ultima fase di questo percorso si può far
iniziare nel 2010 con la nascita di Bao Publishing, oggi il marchio editoriale più forte nel
settore grazie a una produzione molto varia nella proposta e importante sul piano
quantitativo. L’offerta attuale, arricchita da nuove presenze editoriali, incarna la condizione
del graphic novel oggi: la sua piena accettazione, l’esplosione di alcuni fenomeni (Gipi e
Zerocalcare), la maggiore disponibilità verso giovani autori, la candidatura a premi
importanti, l’aumento di attenzione e vendita. A questa crescita positiva bisogna accostare
alcune ombre: se c’è un prodotto culturale o meno che vende o meglio, che fa tendenza, è
normale che si cerchi di moltiplicarne la presenza. La quantità di nuove realtà editoriali e di
libri pubblicati aumenta, se ne velocizza la lavorazione, si cercano nuovi talenti anche per la
loro più facile sottomissione ad alcune richieste, si fa più pressione agli autori sui temi, stili,
modi di creazione e sono gli autori stessi che ancora più frequentemente cercano di
adattare la loro creatività al nuovo contesto. Ne risulta una dialettica che esiste da quando
si è affermata la cultura di massa: un fenomeno che nasce come forma di esplorazione e
sperimentazione artistica tende a fissarsi in canone una volta raggiunto il successo. Questo
è un invito ad educare la consapevolezza di lettore propria e degli altri, che sia capace di
godere della specificità di un linguaggio, degli esiti espressivi che può raggiungere e magari
anche delle forme in cui più si mette in gioco, delle frontiere che piano piano riesce a
varcare.

9.4 ALCUNE CARATTERISTICHE


Rimane da chiedersi se effettivamente sia possibile riconoscere alcune specificità formali e
narrative all’interno di un universo così misto. La trasformazione dello statuto del
personaggio è una delle direzioni da indagare. La pubblicazione di Contratto con Dio può
essere presa a simbolo anche per questo discorso: non c’è in quest’opera un personaggio
eroico, c’è piuttosto la vita di una varia umanità che ha il comun denominatore di abitare
nel Bronx ebraico della New York nella 1 metà del 900. Le opere realizzate da Buzzelli tra gli
anni 60 e 70 hanno sempre personaggi diversi, Sergio Toppi darà vita alle avventure del
collezionista, ma per gran parte del suo lavoro non sentirà la necessità di un eroe fisso,
Magnus abbandona a metà degli anni 70 il successo delle avventure di Alan Ford per dare
vita ad opere ogni volta diverse. Se in passato era possibile stilare una storia del fumetto
come genealogia di icone (tanto che spesso un personaggio era mantenuto in vita da diversi
sceneggiatori e disegnatori che si succedevano), piano piano è l’autore a richiedere una sua
riconoscibilità, a diventare la firma e a porsi come unico motivo d’acquisto per i lettori.
Questa trasformazione si compenetra con una sorta di de – eroificazione dei personaggi. Un
processo simile si era già visto nella letteratura con la nascita del romanzo, ovvero il declino
dell’eroe epico, segnato da una speciale elezione e votato a un destino di eccezionalità, a
favore dell’uomo qualunque, senza qualità, costretto a fare i conti con una realtà esterna
mobile e non controllabile e con una realtà interiore in cui prevalgono la fragilità, il dubbio,
la possibilità del fallimento. La trasformazione da parte di Frank Miller di un’icona come
Batman ne Il ritorno del cavaliere oscuro può essere esemplificativa. L’eroe è ancora
riconoscibile e capace di farsi temere, ma deve combattere con nemici che prima non aveva
incontrato: l’età e il decadimento fisico, un’ossessione interiore che può portare al limite
della follia, la televisione e i mezzi di comunicazione che ne seguono le vicende,
interrogandolo, mettendolo in scena per orientare l’opinione pubblica. Si vive un tempo in
cui è sempre meno possibile pensare in eroi solidi, privi di ombre, capaci di ergersi sopra le
nostre vite e di proteggerle. La capacità d’azione si assottiglia sempre di più e lascia spazio
alla contemplazione dei fatti, a un senso progressivo di impotenza. Un processo che inizia
prima dell’affermazione del graphic novel: Corto Maltese è un viandante romantico e
disilluso che viaggia tra storia, geografia e illusioni letterarie: ha ancora tutta la
riconoscibilità dell’icona ma ha perso la funzione di deus ex machina. Il graphic novel porta
all’estremo questo processo, raccontando personaggi comuni, quando non fallimentari,
spesso neppure capaci di agire, se non di osservare, interrogare sé e la realtà intorno, o la
storia, di dare testimonianza. Forse è proprio il testimone l’unico eroe ancora riscontrabile
nel graphic novel: un occhio che si guarda attorno, una voce che narra dall’esterno, un
corpo che si mette sulla pagina ma non è più in grado di occuparne la posizione centrale,
piuttosto si perde nell’accumulo di segni, sono fili rossi che sembrano creare una silenziosa
parentela tra i diversi sottogeneri via via definitisi. Prima di tutto c’è l’approccio
autobiografico, che ha le sue radici nel fumetto underground americano degli anni 60 e
trova in Maus di Spiegelman la sua paradigmaticità, dando vita a diverse opere importanti
(da Il grande male di David B. a Persepolis della Satrapi, da Fun home di Alison Bechdel a S.
o LMDM di Gipi). Gli autori qui si autorappresentano e si mostrano nella loro fragilità, nel
tentativo di trovare un capo nella matassa del reale, mostrandosi vuoti. Ma quello che più
conta è la strategia narrativa messa in campo: l’autore come protagonista non vive in
diretta, davanti ai nostri occhi le vicende, ma è quasi sempre accompagnato dall’eco
dell’autore come narratore, come voce esterna presente nelle didascalie che fa di sé stesso
e del proprio passato l’oggetto della testimonianza. Si crea così un corto – circuito
temporale per cui il lettore continuamente oscilla tra tempi diversi, il passato che vede, il
presente che legge, e spesso immagini e parole non combaciano, producono slittamenti di
senso fino ad esplicitare le contraddizioni. La solidità della testimonianza viene meno e
questo produce da una parte un effetto di straniamento nel lettore, dall’altra lo induce a
riflettere sui meccanismi sempre instabili della memoria, della visione, della percezione del
reale. Anche nel racconto biografico il mondo diventa incerto, rimane fertile per gli
interrogativi che provoca. Non muta l’approccio neanche in un altro sottogenere
riconoscibile, ovvero quello del fumetto di realtà, sotto la quale si intendono le opere che
sono veri reportage giornalistici, biografie, indagini storiche. Nei migliori esempi di questa
corrente (Palestina di Joe Sacco) la centralità di dare testimonianza, la messa in dubbio
della capacità di leggere ciò che si vuole raccontare, rimangono in 1 piano. Non è un caso
che + volte anche in questo caso l’autore si autorappresenti nella storia, si disegni durante
la ricerca, mostrandosi in tutte le sue incertezze e contraddizioni. La possibilità di far
dialogare insieme l’individuale e il collettivo, il presente e la storia, il sé e il fuori da sé e di
farlo convivere sulla stessa pagina è davvero una delle grandi risorse del linguaggio
fumettistico. Per la sua natura di assemblaggio tra le figure e l’ambiente all’interno di ogni
singola vignetta, tra i disegni delle diverse vignette, con la struttura compositiva della
pagina e la compresenza di immagini, parole e visualizzazione di suoni, il fumetto sembra
uno dei linguaggi privilegiati per raccontare la confusione del presenta, la nostra difficoltà a
leggerlo, l’affollamento degli stimoli che ci guidano e ci fanno smarrire. A prevalere allora è
la percezione di una scissione del reale, l’impossibilità di sentirci interi nell’atto di agire.
Non è un caso che gran parte dei titoli con cui il graphic novel si è affermato non
appartengono davvero al modo romanzesco, a cui il sostantivo novel dovrebbe far pensare.
Perché sono perlopiù opere spurie, che rientrerebbero nelle categorie della non – fiction e
dell’autofiction. Ci sono ancora storie intese nel loro senso narrativo tradizionale e molte si
inseriscono nel sottogenere del romanzo di formazione o di ricerca di sé, sia che abbia
protagonisti giovani (Non mi sei mai piaciuto di Chester Brown), sia che metta in scena
adulti in crisi, vittime di un trauma che sta cambiando la loro vita (La magnifica desolazione
di Paolo Bacilieri). Ma anche in queste opere difficilmente ci immergiamo solo nello
svolgersi delle vicende: spesso è presente una voce che continuamente compromette la
finzione narrativa, la trama non procede fluida ma conosce crepe continue per le allusioni o
i vuoti di senso tra una vignetta e l’altra, per la non aderenza tra immagini e parole, per la
continuità temporale continuamente sollecitata e impedita nella sua fluidità.
La temporalità, come oggetto di riflessione e di sperimentazione nel tentativo di
rappresentarlo, è un’altra chiave interpretativa per indagare il graphic novel. Da una parte
quest’ultimo ha introdotto la maggiore libertà di estensione e di paginatura. In gran parte
della sua storia il fumetto è stato costretto in un numero di pagine fisso e ciò influenzava la
necessità narrativa. Ora questo impedimento è in parte decaduto e c’è quindi + spazio per
dare respiro al racconto. Il tempo abbandona sempre di più le necessità dell’intreccio per
aprirsi in parentesi dove è solo l’atto dello sguardo o il fluire dei pensieri ad essere in primo
piano. Questo processo ha permesso sempre più ad alcuni autori di fare del tempo e della
sua rappresentazione il vero protagonista. È il caso di Qui di Richard McGuire: un volume
che riproduce sempre lo stesso angolo di salotto ma in anni diversi, anche lontanissimi tra
loro, e senza una linearità cronologica. Dove ora vediamo uno schermo ultrapiatto, poteva
esserci una radio. Ma il fatto è che non c’è una sola immagina per ogni pagina, ma, secondo
la convenzione fumettistica delle vignette, porzioni di immagini appartenenti a diverse
epoche coesistono nello stesso spazio. La sequenzialità è sovvertita dalla simultaneità
grazie alla capacità del fumetto di dover dar forma spaziale al succedersi del tempo. La
struttura compositiva che si costruisce accostando una vignetta all’altra non serve solo a far
procedere l’azione e il racconto, ma è anche un’apparecchiatura del tempo. Autori nostrani
come Gianni De Luca o Sergio Toppi avevano già sperimentato le risorse di questa
caratteristica, ma con il graphic novel questa tensione è aumentata. Jimmy Corrigan di
Chris Ware è la storia di un personaggio alla ricerca del padre, e con un montaggio
alternato, l’infelice infanzia del nonno, ma anche una riflessione sul tempo, su come la
percezione della sua linearità sia una convenzione che accettiamo per comodità, mentre ha
una natura labirintica dove convivono sempre vissuto e memoria, presente e storia, la
rappresentazione del dato oggettivo e la percezione.
La realtà si sfilaccia e il fumetto può cogliere questo processo, rivelandosi capace non solo
di mettere in scena il nostro annullamento di fronte alla complessità della realtà esterna,
ma anche di dare corpo e immagine alla stratificazione che viviamo dentro di noi
continuamente, alla mescolanza di pensieri, percezioni, ricordi, fantasticherie che sono il
nostro vivere istante dopo istante. L’invisibile diventa visibile e ciò può accadere perché da
sempre il fumetto gioca su questa dialettica: forse è visibile e invisibile allo stesso tempo ciò
che accade nello spazio vuoto tra una vignetta e l’altra.

9.5 INSEGNARE IL FUMETTO?


Rispetto al cinema, il fumetto non ha avuto molta fortuna a scuola. Fin dal suo apparire in
Italia all’inizio del 900, ha attirato critiche e censure dovute a pregiudizi culturali nei
confronti del linguaggio (l’immagine è sempre stata considerata inferiore alla scrittura, al
massimo utile come decorazione, ma per il resto dannosa) e dei contenuti (ritenuti troppo
semplici, ripetitivi, pericolosi nel condizionare alcuni comportamenti devianti). Alla fine
degli anni 60 e nel decennio successivo c’è stata un’apertura a interessanti formule di
sperimentazione, ma sono poi scomparse. Il fenomeno del graphic novel apre forse una
nuova occasione: la diversa considerazione culturale che si respira, inizia a sollecitare
l’interesse di docenti, bibliotecari, etc.. il rischio maggiore è che questa curiosità si scontri
con 2 problemi: da una parte la difficoltà a orientarsi in un panorama sconosciuto e in
crescita per numero di titoli, novità, realtà editoriali e ancora povero di strumenti
(manualistici, metodologici, bibliografici); dall’altra la difficoltà e l’insicurezza che molti di
noi vivono quando si devono approcciare ai linguaggi visivi perché in questo campo c’è un
analfabetismo radicato. La soluzione più semplice rischia di essere la più dannosa:
accostarsi al fumetto e alle sue forme contemporanee per l’utilità didattica immediata di
alcuni contenuti, vicini a temi in programma, a figure o periodi storici, alle problematiche
della contemporaneità. Obiettivi nobili ma che invalidi se il linguaggio si usa solo come
veicolo. L’editoria a fumetti oggi alimenta questo pericolo perché, per aumentare le
vendite, ricorre spesso all’utilità degli argomenti di cui tratta. Ma non sono gli argomenti a
fare la qualità dell’opera. Prima di proporre il fumetto a scuola o in altre occasioni
educative, dovremmo leggerlo noi. Dovremmo percorrere la sua storia, esplorare la
complessità del suo linguaggio, apprezzare le opere per noi e non perché sono utili agli altri.
Quando ci saremo innamorati, e se ci innamoreremo, allora saremo pronti perché la nostra
conoscenza e il nostro entusiasmo passeranno con naturalezza a chi vogliamo.

CAP. 10 – LETTERATURA PER L’INFANZIA, FIABE E NUOVE FORME DEL


FIABESCO
Di Susanna Barsotti

10.1 LA FIABA TRA “PERSISTENZA” E “TRANSGENERICITÀ”


Tra i tanti studi sulla fiaba, quelli condotti da Jack Zipes, si concentrano sul contenuto
sociale di questo tipo di narrazione, sottolineandone l’irresistibilità e la persistenza. Lo
studioso americano rintraccia in quel tipo di contenuto un elemento di costanza e di
irresistibilità del fiabesco. Nel suo volume sulla “fiaba irresistibile” lui assimila questa forma
di racconto ad una “specie biologica” che si diffonde in modo epidemico, all’inizio
attraverso la tradizione orale, poi con la stampa e i nuovi media. Secondo Zipes, che si rifà
agli studi di memetica di Richard Dawkins, la fiaba costituisce un caso emblematico di
“replicazione culturale”. Il concetto di “meme” aiuta a individuare quello che uomini e
donne hanno cercato di comunicare attraverso le epoche storiche per aiutarsi fra di loro
nell’adattamento ad un ambiente mutevole.
Secondo l’interpretazione di Zipes, la fiaba letteraria deriva dalle narrazioni orali diventate
poi convenzionali e codificate all’interno di una comunità di parlanti che se ne sono
appropriati per dare voce ai desideri, per esplorare le componenti sociali delle comunità,
per rappresentare le diverse istanze di civilizzazione attraverso simboli e metafore. Per
questo la fiaba come meme determina la sua autoperpetuazione adattandosi
irresistibilmente ai cambiamenti e ai conflitti sociali.
Zipes attribuisce alla fiaba tratti di “irresistibilità” individuati in parte in quell’aspetto di
fascinazione che lega il racconto fiabesco alla storia dell’umanità. Il genere fiaba si configura
come un congegno metaforico, attraverso il quale si racconta un’unica storia, ovvero il
fluire dell’esistenza, per sollecitare in chi ascolta o legge, non un’imitazione delle vicende
descritte, ma un percorso di straniamento dal dato contingente: un’uscita da sé, dallo
spazio e dal tempo della propria vicenda, grazie alla quale il lettore o l’ascoltatore può
vivere altre storie, altre dimensioni esistenziali e qualitativamente diverse da quelle in cui è
calato ogni giorno. La fiaba però è anche racconto e nel legame tra fiaba e narrazione, tra
fiaba e voce, individuiamo un altro aspetto importante della sua irresistibilità che è
connesso al bisogno di storie che da sempre l’umanità dimostra. Come ricorda Jerome
Bruner, le storie, grazie alla loro struttura fatta di un inizio, una parte centrale e una fine,
aiutano a mettere insieme i frammenti della nostra esperienza con quella di chi ci ha
preceduti e ce l’ha narrata. Il bisogno di meraviglioso, il bisogno di fiaba e di illusione vivono
accanto al desiderio di ascoltare, leggere storie che siano collocate nell’altrove, delle quali
si sa che non sono vere ma che, tuttavia, sono accettate e vissute come vere nello spazio
del racconto. Così, attraverso la metafora, la fiaba permette di dire ciò che non si può dire,
di mettere in scena ciò che altrimenti non sarebbe possibile raccontare. La storia diventa
territorio del “come se” e consente di accogliere il nascosto, l’oscuro, il doloroso e
attraverso il viaggio nell’inverosimile e nell’indicibile, il soggetto accede a nuove forme di
conoscenza di sé, del proprio mondo e della propria esperienza emotiva. Per questo la fiaba
continua a persistere e a proiettare la sua ombra sulle narrazioni contemporanee, ancora di
più se si tratta di racconti rivolti ai bambini, manifestando così la sua valenza formativa.
A tale proposito vale la pena fare accenno a 2 saggi recenti: Non per fare profitto di Martha
Nussbaum e L’utilità dell’inutile di Nuccio Ordine. Nella loro difesa della cultura umanistica,
le tesi di entrambi possono essere ricondotte a ciò che scriveva Gianni Rodari in un articolo
sul “Giornale dei genitori”. In una società in cui domina la logica del profitto e
dell’immediatamente spendibile, in cui si mira a formare tecnici e scienziati, l’utilità dei
saperi inutili, come dice Nuccio Ordine, si contrappone all’utilità dominante che, in nome di
un interesse economico, sta uccidendo la memoria del passato, le discipline umanistiche, le
lingue classiche, l’istruzione, la libera ricerca, la fantasia, l’arte, il pensiero creativo e
l’orizzonte civile che dovrebbe ispirare ogni attività umana. Eppure come afferma Mario
Vargas Llosa un mondo senza letteratura si trasformerebbe in un mondo senza desideri,
ideali e disobbedienza, un mondo di automi privati di ciò che rende umano un essere
umano: la capacità di uscire da sé stessi e trasformarsi in un altro, in altri, modellati
dall’argilla dei nostri sogni. Se il discorso di Nuccio Ordine si riferisce alla necessità di
coltivare la letteratura, la filosofia nell’ottica della formazione di uomini e donne completi,
Martha Nussbaum lega le sue considerazioni sulla cultura umanistica alla salvaguardia delle
odierne democrazie. La democrazia, per vivere, ha bisogno di uomini e donne libere che
sono capaci di pensare criticamente, di oltrepassare i localismi e di raffigurarsi
empaticamente la categoria dell’altro. Se una nazione vuole promuovere questo tipo di
convivenza deve sviluppare nei propri cittadini la capacità di figurarsi la varietà dei problemi
della vita umana così come essa si svolge, di pensare l’infanzia, l’adolescenza, la malattia, la
vita, tenendo in considerazione un ampio spettro di storie personali. Filosofia, pedagogia,
arte, immaginazione sono fondamentali per formare i cittadini di oggi. Tutto ciò ha a che
fare con la fiaba. La fiaba è narrazione, letteratura, filosofia, ha un legame profondo con il
diverso. La fiaba è il luogo di tutte le ipotesi, apre alla possibilità, pensa l’impensabile e offre
le parole per dire l’indicibile. Ha una componente filosofica profonda perché risponde alle
grandi domande dell’esistenza, quelle domande che i bimbi fin da piccoli si pongono. Per
questo motivo e per il suo carattere migratorio, la fiaba arriva fino a noi disperdendo le sue
tracce in forme nuove di narrazioni. La fiaba ha una propria “transgenericità” che determina
la migrazione dei suoi temi e delle sue icone non solo tra le epoche storiche ma anche tra i
generi e le tecniche narrative. Il fiabesco rimane come struttura testuale, come narrazione
della storia dell’umanità, come sintesi e metafora del bisogno di sogni, di utopia e essa
cambia, tuttavia, quando entra in contatto con le culture e le società che attraversa.
Permanenza e cambiamento, struttura e contenuti che ritornano quasi identici nel tempo e
costante contaminazione tra i generi. La fiaba passa quindi dai primi narratori orali ai
trascrittori prima e autori poi, fino al teatro di narrazione, alla pagina illustrata, al cinema,
alle rivisitazioni, alle rappresentazioni degli artisti contemporanei; tuttavia, nelle riscritture
del fiabesco, l’elemento narrativo rimane centrale anche nel passaggio a media diversi.
Negli albi illustrati, per esempio, viene spesso usato il personaggio del narratore che
introduce a un doppio piano narrante come a suggerire un rimando all’originaria oralità di
quel racconto. Aaron Frisch e Roberto Innocenti ce ne danno un esempio nella loro
riscrittura illustrata della storia di Cappuccetto Rosso con Cappuccetto Rosso, una fiaba
moderna. Il punto di partenza è la fiaba classica, una bambina, un bosco, un lupo, una
nonna. L’albo si apre con l’immagine di una stanza che potrebbe essere un’aula scolastica o
uno scantinato, un grande tavolo intorno al quale ci sono dei bambini/e e sul tavolo, al
centro della scena, vi è la figura della nonna, a metà tra personaggio fatato e giocattolo, che
lavorando a maglia una sciarpa a strisce colorate, racconta una storia. Il sipario si apre, si
entra nell’Altrove, la protagonista è Sofia, una bambina con una mantellina rossa che in un
giorno di tempesta si inoltra nel bosco di una città contemporanea, tra le luci di un centro
commerciale e le periferie degradate, dove cacciatori – lupi cercano di mangiarsi la
bambina e la nonna. Il lieto fine non è garantito. È una storia cruda, drammatica con il
narratore esterno, in 1 cornice simbolico – metaforica che offre una distanza di sicurezza
che permette di vivere la storia senza viverla, di attraversare il bosco – città con Sofia,
provare la paura per l’incontro con il lupo attraverso il sipario sicuro del “c’era una volta”.
La storia è quella da cronaca nera, il finale è tragico, la scena finale ritrae i bimbi/e che
l’hanno ascoltata piangendo, la nonna è ancora lì al centro ed ha finito sia il suo racconto
che il lavoro a maglia (la sciarpa è + lunga), il sipario si chiude e il lettore deve tornare al
Qui. La nonna dice che le storie sono magia. E possono avere più finali. E quindi si apre al
lieto fine di grimmiana memoria.
Anche il cinema, nelle sue trasposizioni del fiabesco, utilizza spesso il personaggio del
narratore; è come se la storia ci venisse portata da qualcuno che l’ha vissuta o a cui qualcun
altro l’ha raccontata e che può ricongiungere, intrecciando insieme i mondi immaginari,
accompagnando nei continui passaggi tra il Qui e l’Altrove. La cornice narrante entra così
nel racconto filmico dove mondo reale e mondo altro scorrono sullo schermo mantenendo
viva la credibilità dell’incredibile. Nel cinema la fiaba trova i suoi spazi di racconto, si insinua
tra i fotogrammi di storie che sembrano non appartenerle o delle quali ne è la protagonista.
L’industria cinematografica ha fatto e fa ancora oggi molto uso della fiaba; oltre alle
trasposizioni in lungometraggi animati, da Disney in poi, o in film per bimbi e ragazzi, tracce
di fiaba sono disperse in pellicole non dedicate espressamente ad un pubblico di giovani e
non esplicitamente costituite da rifacimenti di fiabe classiche.
Jack Zipes, con i suoi studi ha analizzato il rapporto tra fiaba e cinema, in particolare quello
di animazione. Nel suo Spezzare l’incantesimo dice che nella nostra società, nel passaggio
all’infanzia, la fiaba e i racconto popolari sono diventati sempre di più prodotto
commerciale e che nel mondo occidentale la loro ricezione è influenzata molto dalla Disney
Corporation e da aziende dello stesso tipo, al punto che le persone tendono ad avere
nozioni precostituite su ciò che una fiaba è o dovrebbe essere. Zipes critica questa
produzione sottolineandone vizi e virtù.
Sebbene oggi vi siano trasposizioni del fiabesco di tutt’altro valore, la fiaba è spesso
sottoposta a operazioni di annullamento degli ingredienti che ne costituiscono invece la
specificità di genere: l’aspetto metaforico e repertuale, il legame stretto con i bisogni e i
desideri dell’umano, l’impertinenza, la paura, il viaggio anche pericoloso verso l’Altrove, il
contatto con i sentimenti più profondi e inconfessabili. Questo aspetto legato alle
contemporanee riscritture di fiabe è ripreso anche in un articolo recente sulla rivista
“Hamelin” dove, a partire dalla contestazione del grande ritorno in auge della fiaba, in
particolare nelle sue trasposizioni per il cinema e la televisione, se ne analizzano le criticità.
Le nuove fiabe sono destinate ad adulti e non più a famiglie e bambini e questo comporta
un cambiamento nella caratterizzazione dei personaggi che da “icone fiabesche” diventano
“personaggi verosimili” in cui gli spettatori possono immedesimarsi in un’ottica di
divertimento del grande pubblico di massa e quindi di grande profitto. Da Cappuccetto
Rosso Sangue a Biancaneve a Biancaneve e il cacciatore, la fiaba originale di partenza
viene svuotata dei suoi significati più profondi e indicibili, delle metafore dell’esistenza di
cui narrazione e personaggi sono portatori, per lasciare spazio allo strato di un gotico horror
quanto basta. Nella 2 trasposizione segnalata della fiaba di Biancaneve vale la pena
prestare attenzione alle 2 protagoniste femminili: la strega malefica Ravenna che domina la
1 parte del racconto e che è condannata da un incantesimo materno a mantenere
inalterata la sua bellezza (unica fonte di potere) e quindi è costretta a nutrirsi del sangue e
del cuore di giovani ragazze rapite; Biancaneve che occupa la 2 parte del film in cui i toni, da
cupi e gotici, diventano + chiari. La figura di Biancaneve, soprattutto nella scena chiave del
film, quando, scortata dai nani e dal cacciatore, entra nel santuario delle fate nella Foresta
Oscusa, segnala un cambiamento dell’immaginario che si trova nella nuova produzione
cinematografica rivolta ad adolescenti e giovani adulti, ma non solo, ovvero l’affermarsi
della vergine guerriera, più vicina a una regina come Elisabetta I d’Inghilterra che non a
Giovanna D’Arco. Non è più la stagione dei vampiri, ma dei guerrieri e delle guerriere.
Tracce di fiaba compaiono in storie e forme narrative diverse; anche in questo modo la
fiaba si rigenera di epoca in epoca, di cultura in cultura, ristabilendo sempre il dialogo con le
proprie potenzialità di storia del meraviglioso e dell’indicibile.

10.2 LETTERATURA PER L’INFANZIA CONTEMPORANEA E TERRITORI DEL FIABESCO:


ALCUNI ESEMPI.
La fiaba impregna delle proprie caratteristiche anche la contemporanea letteratura per
l’infanzia e non solo nelle riscritture di fiabe classiche. Essa offre ai piccoli il ruolo di
protagonisti, ed essi, nell’identificazione narrativa e grazie al meraviglioso, possono pensare
di ribaltare il proprio destino. Inoltre, custodisce l’illusione, l’utopia, la possibilità di vivere
più storie e quindi più vite e, allo stesso tempo, attraverso i linguaggi della metafora, offre
la capacità di decifrare la realtà e quindi di guardare la morte, la sofferenza, la solitudine,
l’esclusione. Le fiabe intrecciano aspetti universali del nostro essere al mondo e del nostro
rapporto con la vita e la morte, ci commuovono, ci coinvolgono, ed insieme ad altre forme
letterarie rispondono al bisogno di meraviglioso. Ecco perché la fiaba continua ad
affascinare e a transitare nelle narrazioni di tutte le epoche storiche.
Essa intrattiene con l’infanzia un rapporto privilegiato. Dieter Ritcher dice di interpretare la
fascinazione che la cultura alta prova, in un certo momento della sua storia, nei confronti
della cultura popolare, come frutto di un sentimento di estraneità che coinvolge anche
l’infanzia, percepita come altra e incomprensibile e quindi deve essere educata, idealizzata
e al tempo stesso controllata. Come il popolo e i bambini, anche la loro poesia è il risultato
di una separazione culturale; il fiabesco è ritenuto sciocco dalla gente colta che pone
popolo, infanzia e fiaba al gradino culturale più basso. Allo stesso tempo però, ne riconosce
una sua collocazione culturale e restituisce al fiabesco una valenza alta consegnandolo
all’infanzia attraverso il libro, salvaguardando così, anche se sotto il controllo borghese, la
sopravvivenza della fiaba.
Milena Bernardi ci invita ad osservare la natura del rapporto tra infanzia e fiaba da questo
punto di vista in quanto consente di interpretare i mutamenti del testo fiaba incrociandoli
con le loro trasformazioni sociali in atto. L’infanzia riceve la fiaba come fosse uno scarto, ma
la trattiene nello scaffale dei libri più cari, dove anche gli adulti possono ritrovarla grazie alla
mediazione salvifica e indulgente dei bambini. Come se l’adulto attraverso la fiaba volesse
riallacciare un legame con l’infanzia trascorsa. Infanzia che, nel racconto fiabesco, si
caratterizza per la sua piccolezza, motivo salvifico perché è grazie ad essa che bimbi e
bimbe riescono ad affrontare situazioni drammatiche e rischiose. Allo stesso tempo, però,
questa loro caratteristica ne rivela la loro fragilità: i “pollicini” delle fiabe, infatti, rischiano
sempre di essere divorati o calpestati perché non visti e la loro sopravvivenza è sempre in
pericolo. Quindi la fiaba, attraverso la metafora della piccolezza straordinaria, narra i
rapporti di forza e di potere esercitati dal mondo adulto, le sue scelte inconfessabili verso
bambine e bambini, restituendo una storia dell’infanzia fatta di maltrattamento, violenza,
abbandono. Un mondo adulto che diventa raffigurazione del mondo intero percepito come
grande agli occhi dell’infanzia.
Il viaggio iniziatico, il bosco in cui si perde un’infanzia minuscola, astuta ma messa sempre
in pericolo dal mondo adulto, sono alcune delle tracce fiabesche che percorrono anche la
letteratura per l’infanzia contemporanea. Partiamo dal viaggio, una delle caratteristiche
costitutive della fiaba fin dalla sua origine come racconto popolare orale, che assume qui i
caratteri dell’iniziazione: la fiaba parla di un eroe che si mette in viaggio, attraversa delle
esperienze che lo mettono alla prova, lo espongono ai pericoli per poi arrivare al traguardo
prefissato. A questo livello la fiaba trattiene, facendole passare nell’immaginario, le pratiche
di passaggio all’età adulta.
Cercando di spiegare le radici storiche della fiaba di magia, Popp mostra come il “potere
informatore centrale” di questo genere letterario si trovi nel “rituale dell’iniziazione” che
consisteva in una partenza verso la foresta, dove si compivano le prove iniziatiche e in un
ritorno nello spazio iniziale della comunità. La fiaba si articola come racconto di un
cammino nello spazio e nel tempo, all’interno del quale il viaggio si pone come percorso di
formazione: conoscere il mondo, l’altro da sé per conoscere meglio sé stessi. Il viaggio
fiabesco si configura come passaggio da una situazione squilibrata e insoddisfacente di
partenza a un punto di arrivo di equilibrio e soddisfazione e si innesta su un percorso che
dovrà determinare la crescita del protagonista. A questa trasformazione si arriva alla fine
del viaggio, conquistando ricchezza, trovando moglie o marito e diventando genitori; nelle
società arcaiche, infatti, l’ingresso nell’età adulta è sancito dal matrimonio e dalla nascita
dei figli. L’equilibrio perso all’inizio si ricompone con il ritorno a casa o con la chiamata
presso di sé dei genitori e dei fratelli perché siano partecipi delle ricchezze acquisite. Se
rileggiamo gli intrecci letterari e i cammini intrapresi dai protagonisti dei classici per ragazzi,
possiamo notare che spesso il modello narrativo ricorrente può essere riassunto nella
formula “casa – lontananza – casa”. Tuttavia, nei viaggi avventurosi non sempre il
protagonista ritorna alla casa di origine, allora il modello si declina come casa – lontananza
– nuova casa. In ogni caso, si parte quando la casa non è più accogliente o non soddisfa più
il proprio desiderio di conoscenza di sé e del mondo.
Forse è questo il motivo che spinge il protagonista dell’albo illustrato Dentro me a mettersi
in cammino; il suo è un vero viaggio iniziatico per costruire l’identità personale. Il viaggio ha
inizio e alla 3 doppia pagina è svelato l’oggetto della ricerca del protagonista. Vuole
conquistare la propria città, sconfiggere i nemici, riportare la luce in un regno buio,
riprendere possesso di sé ed imparare a governare il proprio cuore. A questo punto
l’avventura si manifesta in un crescendo di emozioni forti e si arricchisce di simboli
fiabeschi: il labirinto in cui ci si perde, parente stretto del bosco, l’attraversamento
dell’Altrove, la paura e la sua personificazione nell’orco, la ricerca, il coraggio, il fascino di
ciò che spaventa, l’astuzia, il divoramento, il ritorno a casa. A questo punto il protagonista
incappucciato, nella doppia tavola finale si toglierà il cappuccio con un omaggio a Max di
Nel paese dei mostri selvaggi di Maurice Sendak che, tornato a casa, si toglie il cappuccio
del suo costume da lupo. Il libro racconta la storia del cammino, intrapreso con coraggio e
determinazione, alla ricerca e alla conquista della propria identità, con i dubbi, le paure, gli
scoraggiamenti e le lotte che accompagneranno il protagonista al lieto fine. Per le sue
connotazioni fiabesche, questo racconto riesce ad animare la vita interiore dei bambini (e
non solo), perché narra della possibilità di accedere al regno dell’oscuro per raggiungere la
ricompensa finale, la possibilità di riscattarsi.
Anche le immagini più forti, dal punto di vista visivo, come quella del protagonista che urla
fiamme per rompere il silenzio del deserto dentro di sé, o quella in cui decide di farsi
mangiare dall’orco, presentano sempre una delicatezza nella composizione delle tavole e
del linguaggio da non risultare mai paurose o angoscianti per il bimbo. C’è sempre una
costruzione catartica che conduce il bimbo verso il lieto fine per diventare padrone di sé
stesso accettando di guardare l’orco e di farsi mangiare.
Anche quello intrapreso dal protagonista de La città di Armin Greder è un cammino di
crescita che si esplica attraverso il progressivo distacco dalla figura materna. La città
rappresenta lo scenario di partenza del racconto dove alla fine il protagonista farà ritorno,
per quel movimento circolare messo in atto dalla narrazione del viaggio iniziatico. Nell’albo
di Greder, una madre rimasta vedova, lascia la città, luogo per lei di morte, dolore e terrore,
portando con sé il figlio neonato e inizia a cercare un luogo dove andare. Arrivò in un posto
dove, prima di lei, poche persone c’erano state. Non c’erano campi, ponti, strade. Si costruì
una casa e visse lì con il figlio. Un giorno arrivarono dei viaggiatori che si erano persi e che
cercavano la città e la donna mostrò loro la strada. Questo è ciò che dice il testo, ma
l’immagine mostra il volto della donna contrariato e diffidente nei confronti degli
“stranieri”. Il bambino li vede e chiede alla mamma se un giorno porterà anche lui in città.
Lei non rispose, ma lo abbracciò forte e da quel giorno lo amò sempre più. In quella casa
nido e ventre materno, collocata in un luogo desolato, circondata da una foresta, il bimbo
cresce finché un giorno la mamma muore e lui rimane lì solo. La casa, da luogo protetto e
sicuro, diventa gabbia, prigione; il protagonista deve partire da quella casa, attraversare il
bosco con le ossa della madre per seppellirle, per poi andare verso la città.
Al centro, la casa: è al suo interno che quell’ambivalenza prende forma, da lì inizia il
percorso d’iniziazione che rende possibile il ritorno alla città. All’alba seppellì le ossa sotto
un cespuglio di rovi. Poi andò a cercare la città. La storia è finita, ma la tavola finale, chiara e
luminosa, con tracce di colore nella parte alta, colore che fin qui il lettore aveva individuato
solo nei vestiti e nelle maschere dei viaggiatori e nella copertina, apre alla speranza, quella
del ragazzo che va verso la città, luogo di partenza e di ritorno, inizio di una nuova storia.
Come sosteneva Rodari, ogni fiaba una volta conclusa apre sempre al dopo, lascia spazio
alla costruzione di nuove storie possibili e ogni lettore, di fronte alla tavola di chiusura di
questo albo, può immaginare la storia che da quel momento in poi il protagonista,
diventato ragazzo, costruirà per sé.
Spesso, nei racconti contemporanei, a compiere il viaggio sono nuove figure di bambine e
ragazzine, coraggiose, forti, spesso disobbedienti, artefici del proprio destino. Anche in
questi percorsi iniziatici le tracce del fiabesco sono evidenti. Protagonista che esce dallo
stereotipo della bambina per bene che vive in una casetta, Dakota è violenta, dice
parolacce, ama gli insetti e vive tra i supermercati, inquinamento e condomini fatiscenti. È
una bambina coraggiosa e determinata, odia i deboli e ama l’avventura. Compirà il suo
viaggio alla ricerca delle sue origini e salverà la madre. La descrizione spietata della realtà
contemporanea e del suo degrado si alterna, si mescola diventando unica cosa con quella
della fantasia, dell’immaginazione e della fiaba. Il viaggio di Dakota alla scoperta del padre e
al ritrovamento dell’essere fatato (la tartaruga il cui guscio è ricoperto di gemme preziose)
è un viaggio fiabesco che della fiaba richiama molti elementi. Ritroviamo gli esseri speciali
(Dakota e la sua amica Medusa, una strega buona della fiaba popolare, il drago, l’isola), il
mistero, la magia, tutto calato nella realtà contemporanea. Dakota è colei che sarà in grado
di compiere il viaggio e raggiungere la meta come gli eroi maschili. Anzi, qui le figure
maschili sono tutte deboli e negative. La magia irrompe anche nello squallore delle bianche
dimore e Dakota, una dura, ci crede ed è questo che la rende speciale. Lei deve riportare ad
una vecchia diva del cinema una tartaruga in cui si è convertito il suo antico amore per via
di un incantesimo. Il tesoro, ovvero la tartaruga e il ricco padre di Dakota sono tenuti
nascosi (il padre per sua volontà) su un’isola e Dakota deve attraversare molti pericoli (un
fiume inquinato e anguille micidiali) per raggiungerla; ma l’isola nella letteratura per ragazzi
è il topos dell’avventura per eccellenza, di un’avventura che però diventa metafora di
formazione solo al maschile e da cui le bimbe sono escluse. Dakota, invece, sull’isola
ritroverà il padre come Pinocchio, eroe maschile, ritrova Geppetto sull’isola – pescecane.
Il viaggio intrapreso da Coraline, eroina dell’omonimo romanzo di Neil Gaiman è un viaggio
fiabesco di cui vengono rispettati tutti i simboli: l’ingresso nell’Altrove, gli antagonisti, gli
aiutanti, gli oggetti magici, gli animali parlanti messaggeri e traghettatori tra questo mondo
e l’Altrove. Come nella fiaba, aiutanti e oggetti magici sono umili e proprio nella loro
apparenta insignificanza, nascondono poteri meravigliosi. Coraline ha tutte le
caratteristiche dell’eroe fiabesco maschile: è curiosa, coraggiosa, astuta e si definisce più
volte un’esploratrice. L’altro mondo si apre solo a lei, ha bisogno del viaggio: la porta che
Coraline varcherà e che darà inizio al suo percorso, secondo i genitori ha al di là solo dei
mattoni.
Alla base del viaggio della protagonista c’è una sorta di incomprensione tra adulti e
bambini: i genitori sono troppo presi dal lavoro e dalla vita frenetica per ascoltare Coraline;
ma a differenza dei genitori di altre eroine, come la Matilde di Roald Dahl, quelli di Coraline
la amano davvero e lei lo capirà. La partenza da casa assume in questo caso la metafora
dell’allontanamento dell’eroe dal nucleo di origine: come nella fiaba, il viaggio della
protagonista si presenta come passaggio da una situazione squilibrata e insoddisfacente di
partenza ad un punto di arrivo di equilibrio e soddisfazione. Ora, l’unità e l’ordine si
rompono con l’adolescenza; è in quel periodo che infatti i buoni genitori cambiano aspetto
agli occhi dei figli, i quali manifestano nuove pulsioni e aspettative. Il viaggio si innesta su un
passaggio che dovrà determinare la crescita del protagonista; esso segna il distacco dalla
situazione protetta delle origini e dell’infanzia e getta il giovane nel mondo favorendone la
maturazione e l’ingresso nel gruppo degli adulti. È ciò che accade a Coraline che oltre la
porta troverà l’altra madre con lunghi artigli e i bottoni invece degli occhi. Ma alla fine del
viaggio Coraline riconoscerà i veri genitori, il lettore la ritroverà cambiata e matura; con la
presa di coscienza della realtà inizia il cambiamento che porterà la protagonista a
sconfiggere l’altra madre e il suo falso mondo.
Come in tutte le fiabe, anche la protagonista di questo romanzo compie il suo viaggio
attraversando il bosco, un elemento fiabesco importante insieme a quello del viaggio
iniziatico. Esso rappresenta spesso il passaggio verso l’altro mondo, è paesaggio dell’ignoto;
qui regnano paesaggi contrastanti legati al selvaggio, all’incolto, all’invisibile. La foresta, il
bosco stabiliscono una diversità rispetto al mondo abitato, opponendosi al dentro delle
case che ci rassicura.
Colui che si addentra in questo territorio, come ci dice Robert Harrison, sperimenta una
perdita di confini temporali che determina lo stato di disorientamento del viandante
smarrito in spazi aperti e tempi dilatati, in contrasto con la chiusura, la protezione cui gli
abitanti delle aree urbane e del villaggio sono abituati. Il bosco della fiaba è territorio di
affascinanti opposizioni: in esso infatti si rischia sempre di smarrirsi perdendo sé stessi, ma
allo stesso tempo, lo si percorre per ritrovarsi e definire la propria identità; nei boschi si
possono incontrare mostri, ma solo così si può ritornare trasformati da quei luoghi
dell’ignoto. Nel caso di Coraline il bosco in cui la protagonista si perde è rappresentato dalla
casa stessa, o meglio da un Altrove parallelo che si spalanca oltre la porta chiusa. Un bosco
domestico, con i lupi, quello che attraverserà Lucy, protagonista di un altro racconto di Neil
Gaiman, I lupi nei muri, un albo illustrato da Dave McKean che restituisce le atmosfere di
straniamento e inquietudine del testo. Vera “pollicina” metaforicamente abbandonata dai
genitori, che come quelli di Coraline non l’ascoltano, Lucy salverà la propria famiglia
riconquistando il possesso della casa invasa dai lupi. La protagonista sospetta che nei muri
della casa si nascondano dei lupi pronti ad uscire; avverte i genitori e il fratello della sua
sensazione ma questi non solo si rifiutano di crederle (da qui il senso di abbandono di
fronte al pericolo come per Pollicino, Biancaneve), ma si oppongono a quella affermazione
con un’obiezione tutt’altro che rassicurante: la mamma dice alla bimba che forse ha sentito
dei topi e che si dice che se i lupi escono dai muri, allora è finita. Lo stesso ripeteranno il
papà e il fratello quando lei esprimerà le sue paure. L’inquietante risposta conferma che
provano la stessa paura della bambina, ma la rimuovono, incapaci di ammetterlo anche a sé
stessi. Questa incapacità costringerà la bambina a farsi carico del destino della famiglia e a
lottare per rimpossessarsi della casa.
Un bosco metaforico e contemporaneo è rappresentato dalla metropoli e dalle sue
attrazioni per Sofia, protagonista dell’albo illustrato Cappuccetto Rosso. Una fiaba
moderna. In questo caso le tracce del fiabesco sono esplicite perché siamo in presenza
della riscrittura di una fiaba classica. La mamma raccomanda a Sofia di attraversare il bosco
senza fermarsi e senza abbandonare la strada principale. Sofia si mette in cammina tra le
strade della grande città con manifesti pubblicitari ed elettorali, macchine che sfrecciano da
una parte all’altra, i rifiuti per terra e i graffiti sui muri. Le immagini di Roberto Innocenti ci
fanno quasi sentire il rumore della metropoli, i nostri occhi sono feriti dalle luci scintillanti
delle pubblicità e delle insegne luminose. Sofia, con la sua mantellina rossa cucita dalla
nonna, si muove veloce tra la folla, e la si deve cercare tra i mille personaggi e i dettagli del
paesaggio. Quella qui descritta è l’avventura di una bambina all’interna della foresta che è
la città moderna che dei più piccoli non tiene conto e forse nemmeno degli adulti. Il bosco
che Sofia deve attraversare è il grande centro commerciale chiamato The Wood. La grande
tavola che ne raffigura l’ingresso ce lo mostra quasi fossero le fauci aperte di una bestia
feroce (lupo?) o l’ingresso spaventoso di un bosco che inghiotte Sofia ritratta sul lato destro
della pagina, mente corre lungo il marciapiede, minuscola, di fronte al sovrastare del
grande centro commerciale. Sofia passa invisibile tra la folla, nessuna la nota e quindi
nessuno può salvarla. La bambina è affascinata dalle luci, dalle vetrine, in particolar modo
da quella dei giocattoli e quindi si ferma e fa tardi, come la bambina della fiaba classica che
si ferma nel bosco a cogliere i fiori. Per recuperare il tempo, Sofia esce da un’uscita
secondaria del centro commerciale che non conosce e si perde. Incontrerà un lupo, come il
bosco diverso da quello della fiaba, che divorerà lei e la nonna. Il finale non è scontato e
l’albo li propone entrambi: quello tragico di Perrault per cui non vi è salvezza e quello lieto
della fiaba Grimm, con la bambina e la nonna salvate dal cacciatore che qui diventa una
squadra di polizia.
Si compie invece in un bosco reale il viaggio del protagonista di Nel bosco di Anthony
Browne, tradotto in Italia 10 anni dopo la sua pubblicazione nel Regno Unito. Qui i simboli
delle fiabe, immersi nel bosco (simbolo di smarrimento per eccellenza), sono usati per
rappresentare lo sgomento di un bambino di fronte all’abbandono, una delle paure più forti
dei bambini.
Il punto di vista è quello del protagonista, voce narrante dell’intera vicenda, e questo
permette ai lettori una maggiore immedesimazione. Il ragazzino, dopo una notte
movimentata, resa insonne dal temporale, si sveglia e non trova a casa il padre. Chiede
spiegazioni alla madre, che sta facendo colazione con lui. Nel tavolo dove sono, è evidente
la sedia vuota che racconta il peso dell’assenza. La mamma non sa dare una riposta al figlio
e quindi gli dice di andare a portare un cestino di dolci alla nonna malata,
raccomandandogli di evitare il sentiero che passa per il bosco. Ma il bambino vuole fare
veloce per tornare a casa ed aspettare il papà e quindi si incammina per il sentiero proibito.
Entra nel bosco e improvvisamente le tavole perdono colore per assumere delle tonalità di
grigio, mentre solo il bimbo conserva i colori vivaci dell’abbigliamento e dei capelli, unico
elemento reale nell’esperienza psicologica dell’attraversamento del bosco.
Tra i rami fitti e intrecciati di un bosco fiabesco, si annidano importanti dettagli che fanno
da controcanto al racconto che spiegano là dove le parole tacciono. Anthony Browne a
questo punto della storia mette in atto un gioco visivo cui invita il lettore. A ogni doppia
pagina si incontrano personaggi delle fiabe e se chi legge non avesse capito chi è il bambino
con una mucca legata alla corda che il protagonista incontra subito, una pianta di fagioli che
emerge dal bosco e sembra salire fino al cielo e una mazza chiodata da gigante appesa a un
ramo forniranno la risposta. Il lettore non ha dubbi su chi siano i 2 ragazzi che piangono
mentre aspettano i genitori che li hanno lasciati soli per andare a tagliare la legna. Se poi ci
sono dubbi, questi vengono messi in fuga dalle barre di una gabbia che si può scorgere tra
gli arbusti e il profilo lontano di una casa che sembra fatta di dolciumi. Un viaggio, quello
del protagonista, nell’immaginario fiabesco di tutti i tempi che diventa poi immersione e
immedesimazione, quando il ragazzo trova appeso ad un albero un cappotto rosso con un
cappuccio: i lettori più attenti scorgeranno dietro di esso un piccolo muso di lupo. La fiaba è
svelata. Dopo aver indossato la mantella, il protagonista, si sente inseguito e quindi inizia la
sua fuga e si perde nella foresta, o almeno così crede lui. Il mondo della fantasia e
dell’inquietudine ha preso il sopravvento; durante la corsa del protagonista appaiono dai
disegni altri oggetti conosciuti come una zucca, un fuso, una scarpetta, un gatto con i suoi
stivali. Il bambino è ormai un eroe dei racconti che deve confrontarsi con le paure e gli
eventi dolorosi che in essi si narrano. E proprio quando l’arrivo alla casa della nonna sembra
preludio all’incontro con il lupo, lo scenario cambia. Tornano i colori, gli interni sono quelli
rassicuranti di una casa conosciuta e nel letto non c’è alcuna bestia travestita da nonna, ma
la nonna vera sorridente. Il bambino viene riaccolto nella sua realtà, tornata ora luminosa e
allegra, da quel papà dal quale si era temuto di essere stati abbandonati all’inizio. Adesso,
protagonista e padre ritrovato possono tornare a casa e trovare la mamma il cui volto
sorridente occupa l’intera doppia pagina finale. Nel bosco, attraverso le sue tracce di fiaba,
racconta il viaggio nel bosco di un pollicino: viaggio che diventa espressione potente di un
passaggio emotivo.
Le metafore del viaggio iniziatico, del bosco e dei pollicini, tornano anche nel romanzo di
Beatrice Masini, Bambini nel bosco. Il libro presenta molti spunti di riflessione e di
approfondimento: il valore delle storie, la funzione della lettura, l’importanza della
memoria, di avere parole e quella delle relazioni, dell’essere insieme anche se non si sa
dove si sta andando, il rapporto tra adulti e bambini. Ciò che interessa ai fini del nostro
discorso è rilevare come la fiaba si manifesti attraverso una nuova trama. Il richiama alla
fiaba non è esplicito, come invece nel caso dei 2 albi appena analizzati, tuttavia la fiaba
lascia qui indizi di sé e si conserva in profondità. Su un altro pianeta e dopo lo scoppio di
una bomba atomica, sorge una base dove a gruppi, i Grumi, sono riuniti dei bambini che
vivono accampati in Gusci. Sono lasciati a sé stessi: giocano, litigano e ricevono una
medicina che toglie i ricordi. I ragazzi sono Avanzi o Dischiusi. I primi sono i ragazzini
sopravvissuti allo scoppio della bomba, hanno perso i loro genitori che a volte tornano a
cercarli, e hanno ancora dei ricordi della vita precedente che fanno male. I Dischiusi sono
invece i bambini del frigorifero nati dalle cellule conservate e privi di ricordi e conoscenza
del mondo. Alla Base si obbedisce a regole severe, dettate dal duro Grimo: non ci si può
allontanare, non si deve andare nel bosco, non si possono avere segreti. Quando però il
Grumo 13, capitanato dall’aggressiva Hana, scopre che uno di loro, Tom, un Avanzo, ha un
segreto, tutto cambia. Infatti il ragazzo ha trovato un libro di fiabe in una valigia persa al
limitare del bosco e lui, essendo un Avanzo, è in grado di leggerlo. Ascoltando quelle storie,
ascoltando di boschi, mamme e di papà, di principesse, etcc.. grazie alla magia e al potere
della narrazione, si fa strada nei ragazzi una nuova idea: provare ad allontanarsi, ad
addentrarsi nel bosco per avere una vita tutta loro. Una sfida al Grimo, alla Base, ma
soprattutto a sé stessi. La sfida di ritrovare la memoria e ricordare per gli Avanzi e quella di
spiegare e insegnare ai Dischiusi tutte le parole e i concetti che non hanno mai conosciuto.
Tutto sotto il controllo di un aiutante magico, un mago dell’informatica che, monitorandoli,
cerca di favorire la loro fuga. Bambini e ragazzini girano a vuoto nel bosco e si allontanano
di pochi metri dalla Base. Quando rientreranno alla Base, nulla è come prima.
Il racconto La regina nel bosco prende il via da qualcosa di già noto per i suoi lettori/rici.
Un’epidemia di sonno sta colpendo tutti gli abitanti del regno di Dorimar irradiandosi dal
castello al centro della foresta di Acaire, dove una principessa dorme da 100 anni vittima di
un malefico sortilegio. Molti per cercare di svegliarla sono morti. Quando il contagio del
sonno rischia di raggiungere il regno di Kanselaire, poco oltre le montagne, la giovane
regine prende le armi per raggiungere il luogo dove l’incantesimo ha origine, nonostante sia
alla vigilia delle sue nozze. Accompagnata dai suoi nani, decide di attraversare il reame dei
dormienti e di raggiungere il castello protetto da rovi. I nomi scarseggiano e non si parlerà
mai esplicitamente di Biancaneve, ma il lettore la riconosce in questa regina che ha
sostituito la matrigna sul trono, è amica dei nani e che in passato ha dormito per un anno
intero. Allo stesso modo, sarà semplice individuare la Bella addormentata nella fanciulla
che dorme da 100 anni. Fin qui le fiabe classiche, si possiamo individuare anche tracce di
fiabe classiche nel richiamo a La storia infinita di Michael Ende, del 1979, in quel Sonno, al
posto del Nulla, che si sta diffondendo da un regno all’altro, e che la giovane protagonista
vuole fermare. Chi legge diventa parte del racconto nel suo farsi, colmando con i propri
ricordi di lettore gli spazi lasciati vuoti dalla scrittura (nomi omessi e vicende taciute ma
note), mentre l’autore mescola le storie, i temi, i generi con tecniche ad incastro dando vita
ad una narrazione originale. Gaiman trasforma in scenari nuovi situazione conosciute e, dal
materiale che l’immaginario fiabesco offre, riesce a far emergere nuove trame che
sembrano essere state incastonate da sempre in quella materia. In questo lo affianca Chris
Riddel con le illustrazioni che accompagnano il testo e ne cambiano il ritmo; anche in
questo caso i dettami dell’iconografia fantastica sono rispettati, ma nuove inquietanti
immagini si generano sotto la superficie, fatte di simboli macabri e ombre di nero intenso
che si lasciano intravedere alle spalle dei personaggi.
La regina del titolo è Biancaneve. Sarà lei l’eroina che con un bacio risveglierà la Bella
addormentata, la quale, alla fine, scopriremo essere una figura matrignesca, artefice
dell’incantesimo messo in atto per assorbire, dormendo, le vite dei suoi sudditi e alimentare
la propria giovinezza. L’unica a non dormire e quindi ad invecchiare, vittima di un maleficio,
è colei che nella fiaba classica è la principessa protagonista. Il bacio tra le 2 figure femminili
che, senza testo, occupa un’intera doppia pagina, ha destato molte critiche da parte degli
adulti preoccupati che una simile immagine fosse riprodotta in un libro per ragazzi. Con
quel bacio, però, la regina, svolge la funzione del principe, qui ridotto a comparsa iniziale.
D’altra parte, la fanciulla risvegliata che cerca di sedurre la regina rappresenta l’incanto del
potere, rifiutato dall’altra. A essere sconvolgente, in questa storia, è il fatto che una giovane
donna decida da sé il proprio destino; la protagonista rientra nella schiera di quelle eroine
della letteratura per ragazzi contemporanea che non rimangono al castello in attesa che
qualcun altro compia gesta eroiche al posto loro. E così sceglie di non tornare nel suo
regno, a ovest, per sposare il principe, ma di andare ad est, verso terre sconosciute con i 3
nani.
La figura di Biancaneve, negli ultimi anni, è stata spesso rievocata anche nelle rinarrazioni
fiabesche al cinema e in televisione. Quelle raccontate oggi sono soprattutto storie al
femminile; sono ragazze le protagoniste, sono donne le antagoniste. In questo modo
sembra che le fiabe, siano occasione per raccontare questioni del femminile che altrimenti
non troverebbero parole.
La figura di Biancaneve in queste storie ha assunto i tratti specifici dell’eroina che
ristabilisce la giustizia nel regno. Claudia Chellini nel suo articolo sulla rivista LIBER analizza
questa figura nella serie televisiva C’era una volta e nel film Biancaneve e il cacciatore.
Biancaneve viene designata dal padre come legittima erede al trono, ma la matrigna, dopo
la scomparsa del re, lo usurperà riducendo il regno alla fame presa dal proprio piacere e dal
desiderio di uccidere la ragazza. In questo modo la protagonista non dovrà solo riuscire a
sopravvivere al tentativo della matrigna di ucciderla, ma avrà anche il compito di riportare
nel regno la giusta legge. Ecco che Biancaneve assume su di sé un ruolo riservato al
personaggio maschile e lo fa affrontando una figura materna. Inizialmente la protagonista
riuscirà a sfuggire alla matrigna finendo nel bosco; qui però, invece di imparare le attività
donnesche che la fanciulla della fiaba classica apprende nella casa dei 7 nani, imparerà a
nascondersi, a cacciare, a rubare e ad usare le armi. Nella serie televisiva C’era una volta,
infatti Biancaneve armata di arco e frecce, vive nella Foresta Incantata, cacciata da Regina,
la matrigna, in attesa di riprendersi il trono; nel frattempo si improvvisa novella Robin Hood
e ruba alla regina per dare da mangiare al popolo. Prima di poter regnare, però, deve
affrontare varie avventure, tra cui la classica morte per avvelenamento e resurrezione
grazie al bacio del suo principe. Il lieto fine però, nella serie, è rimandato a discrezione: un
sortilegio rimescola le carte e si dà così la possibilità di nuove imprese e nuovi incontri. Non
è scontato quindi che si concluda con il matrimonio con il principe proprio come la regina,
protagonista del racconto di Gaiman.
Riappropriarsi del trono che le spetta è anche il compito che si assume la protagonista di
Biancaneve e il cacciatore. Biancaneve è riuscita a sfuggire alla spia della matrigna e a
rifugiarsi nella Foresta Oscura. La regina però invierà un cacciatore a cercarla, il quale, dopo
varie vicende, le insegnerà a difendersi diventando il suo compagno di viaggio. Sarà lui a
svegliarla con un bacio, consentendole di combattere la sua guerra, di sconfiggere la
matrigna e salire al trono. Tuttavia, lo spettatore si chiede se quello rappresentato nella
scena finale sia proprio il lieto fine, se lo si possa definire tale, secondo la canonica
interpretazione. In quella scena, infatti, Biancaneve, incoronata e acclamata dal suo popolo,
scambia un lungo e intenso sguardo con il cacciatore, che la osserva dal fondo della sala. Se
è vero che la matrigna è morta e non può più fare danno e che Biancaneve ha preso in
mano le redini del regno, è anche vero che questa neo – regina non si sposa con il suo
principe, anzi la storia ci mostra che non è neanche sicura di averlo trovato. Quello che
nella fiaba classica è unito in un intreccio indistricabile dove l’amore è causa e conseguenza
della liberazione dalla matrigna, in questo film invece è separato. Biancaneve o pensa a
riprendersi il regno o pensa all’amore. E forse, ancora una volta, questa Biancaneve volgerà
il suo cammino verso est, come la giovane regina senza nome di Gaiman.
CAP. 11 – LE RISCRITTURE DEI CLASSICI NELLA LETTERATURA PER L’INFANZIA
Di Lorenzo Cantatore

11.1 LE RISCRITTURE FRA PREGIUDIZI E NUOVE TENDENZE


La riscrittura dei testi classici è un genere letterario molto diffuso nel settore della
letteratura per l’infanzia e può essere concepita in modi diversi. A lungo giudicata come un
prodotto letterario deteriore e di consumo (a causa del suo uso improprio che ne ha fatto
molta editoria commerciale), la riscrittura può invece mettere in luce aspetti importanti
della ricerca letteraria dell’autore che vi si dedica e non bisogna valutarla solo per la sua
fedeltà all’originale. Per questo motivo la riscrittura è stata anche definita come “la forma
più corretta di invenzione”. Strumento educativo importante per mettere in contatto i
giovani con autori, opere e storie del passato, le riscritture sono anche in grado di aprire al
lettore scenari emotivi e conoscitivi originali e degni di una specifica attenzione critica.
Anche allargando lo sguardo agli altri media, ci accorgiamo che ogni adattamento è una
“indigenizzazione” grazie alla quale tutto sembra nativo e originario: dando luogo a una
adaptation economy in cui i videogiochi, i siti web, le opere liriche, i graphic novels, oltre ai
film e ai romanzi sembrano al tempo stesso consolidare un archetipo comune e inquinarlo
alla radice, attraverso manomissioni, ampliamenti e deviazioni.
Nella sua Teoria degli adattamenti Linda Hutcheon parte dal presupposto che essere
secondi non significa essere secondari. Eppure persiste una svalutazione degli adattamenti
in quanto modalità secondarie, tardive e quindi derivative. Questa affermazione trova
terreno fertile nel campo della letteratura per l’infanzia dove riscrivere, adattare, ridurre,
trasporre, far rivivere i grandi classici in altre forme sono state e sono pratiche diffuse ma
che identificano gran parte della produzione che rientra in quest’ambito della creatività e
della fruizione letterarie. Riusare, attraverso il tempo e lo spazio, le storie già scritte
comporta un rimaneggiamento linguistico, stilistico, della sintassi, del genere letterario, dei
contenuti, dei caratteri dei personaggi e delle illustrazioni che ubbidisce al tentativo di
catturare l’attenzione dei giovani. È difficile stabilire un discrimine netto fra una riscrittura
legata alle esigenze espressive di chi la pratica, e una riscrittura determinata da obiettivi
pedagogici, didattici e scolastici: il dovere di far leggere un classico. Si deve costruire un
rapporto costruttivo, produttivo, fra un capolavoro letterario antico e bambini – ragazzi di
oggi. Un vero campo minato della critica letteraria, dove, da sempre, si azzuffano
diffamatori e sostenitori delle varie pratiche di riscrittura dei classici.
Si può prendere spunto da una riflessione di don Lorenzo Milani del 1964, ma ancora
attuale per quanto riguarda le distinzioni tra le varie modalità di riscrittura e per la
definizione del rapporto fra scrittori di ieri e giovani di oggi.
Questi ultimi leggerebbero volentieri i Promessi sposi, ma solo se un’edizione ritoccata. I
grandi scrittori sono immortali e ciò è vero per le categorie privilegiate. Ma per le categorie
più umili, essi sono morti dopo 100 anni. Milani propone di curare una prefazione che ne
spieghi i motivi e che presenti le adesioni del mondo dell’insegnamento, dell’arte, della
politica. Un’insegnante ne dovrebbe curare la traduzione. Il testo resterebbe integrale. Solo
un diverso carattere tipografico indicherebbe le parti che un lettore più umile o svogliato
potrebbe saltare senza perdere il filo del racconto. Il libro integrale però gli resta a casa in
modo che se un giorno gli verrà voglia di rileggerlo, potrà provare ad immergersi nelle parti
prima tralasciate. Questo è più rispettoso delle edizioni ridotte o riassunte.
Le modifiche lessicali sarebbero poche e vengono fatte per rendere più facile e piacevole la
lettura e per imprimere una lingua viva che risulta più utile ed essenziale al povero che non
una morta.
L’intervento di don Milani pone 2 questioni apparentemente contrastanti: da una parte
l’esigenza di soddisfare un pubblico che non ha più le caratteristiche del pubblico
contemporaneo all’autore e all’opera che si propone di leggere, dall’altra c’è la persistenza
dei tabù dell’opera integrale che induce a condannare le riduzioni. Si finisce con il proporre
un’edizione che pur mettendo in atto un limitato e indispensabile ritocco linguistico, non
compromette l’integrità formale dell’opera e si limita a modulare i caratteri tipografici,
dando la possibilità di una lettura parziale più rapida, più comunicativa, pur conservando,
nello stesso oggetto – libro, la possibilità di leggere l’originale integrale.
Effettivamente l’atteggiamento di Don Milani è ancora molto diffuso. Spesso da adulti ci
accostiamo alle riscritture dei classici come fossero figlie di un dio minore, con il pregiudizio
che si riserva al falso, all’inganno nei confronti dell’autore del passato? Oppure, quante
volte da bambini o da adulti inesperti ci avviciniamo ad un libro che presenta il titolo di un
grande classico e non sappiamo che in realtà è diverso da come è stato concepito dal suo 1
autore?

11.2 LEGITTIMITÀ CULTURALE E LETTERARIA DELLE RISCRITTURE.


Le 2 opposte reazioni appena indicate, a favore o contro le riscritture, richiedono sia a
livello teorico che a livello di storia e critica della letteratura per l’infanzia, approfondimenti
e precisazioni. Quanti autori può avere una storia? E se questi possono essere più di uno, è
anche possibile che vivano a secoli di distanza l’uno dall’altro? Farsi questa domanda è già
un modo per capire se, riflettendo sulla categoria di palinsesto proposta da Gerard Genette,
è possibile attribuire la dignità, l’autorevolezza, il prestigio di autore a chi riscrive un
classico del passato rivolgendosi al pubblico giovanile a lui contemporaneo. Riscrivere un
classico adattandolo allo sguardo dei più piccini delle nuove generazioni è un modo per
farlo continuare a parlare, a dire quello che ha da dire. A salvare una storia che altrimenti
sarebbe per sempre ignorata. In un certo modo la pratica della riscrittura sottopone i
classici, le storie conservate nei testi degli autori considerati classici di una tradizione a ciò
che per secoli e secoli hanno subito le fiabe e i racconti popolari: patrimonio collettivo, per
sopravvivere erano sottoposti alla reinvenzione di ogni narratore orale che le proponeva al
suo uditorio. Il nucleo centrale restava intatto, cambiavano i particolari, adattandosi ai
contesti, alle circostanze, alla memoria e alla cultura di chi, di volta in volta, tornava a
raccontarle e ad ascoltarle.
In questa prospettiva devono essere considerate l’originalità creativa e il valore pedagogico
degli autori contemporanei che, in un passaggio della loro esperienza artistica, sentono il
bisogno di ripercorrere il passato in cerca di testi e storie su cui esercitare la propria vena
creativa, accettando i rischi della riscrittura (il confronto a volte schiacciante con i miti della
letteratura) e dando vita a quell’incontro stupefacente tra voci narranti di epoche diverse,
capace di educare i bambini sia al senso e al sentimento del passato, all’emozione
dell’eternità delle storie, al gioco combinatorio infinito tra storie, parole e immagini. Sarà
diverso un discorso storico sulle riscritture, là dove censura, ideologia e intenti pedagogico
– edificanti possono aver condizionato e strumentalizzato gli esiti testuali. Diverso è il caso
di autori riscrittori di loro opere per renderle disponibili ad un pubblico più vasto.
In base a queste considerazioni si può valutare la riscrittura (operazione sia critica che
creativa) come un vero e proprio genere letterario, generatore di cambiamenti linguistici e
testuali che sono in grado sia di mantenere in vita un testo – storia – autore del passato, sia
di produrre qualcosa di nuovo. Nella riscrittura possono esprimersi qualità e difetti di un
autore non meno che in un’opera originale come un romanzo o una poesia. Walter
Benjamin diceva che l’arte di narrare storie è sempre quella di saperle rinarrare ad altri e
Hutcheon aggiunge che l’arte deriva da altra arte, le storie nascono da altre storie. Questo
vale anche quando la derivazione è dichiarata in forma di riscrittura nelle sue varie
declinazioni (adattamento, riduzione, parodia, trasposizione in un altro genere letterario o
in un altro linguaggio artistico come arte figurativa, cinema).
Nella riscrittura per l’infanzia, all’interno del genere riscrittura, bisogna distinguere fra
riscritture di testi del passato già originariamente destinati ad un pubblico di bimbi e ragazzi
(Carroll, Stevenson) e riscritture di grandi classici della tradizione per adulti (Dante,
Boccaccio). In entrambi i casi ci troviamo di fronte a testi che, concepiti e scritti in tempi
lontani da noi, devono essere riscritti affinché i giovani possano incontrare situazioni e
personaggi in una veste linguistica, stilistica, narrativa, iconografica che risulti adeguata ai
tempi correnti, pur non seguendo alti livelli qualitativi.
Entriamo così nell’area del canone degli Auctores, i veri monumenti della letteratura. Siamo
nel campo inviolabile della tradizione, stabilita e tutelata da secoli e secoli di pratiche
culturali ed educative. Infatti la parola “tradizione”, oltre ad indicare un insieme di norme e
codici certificati (pensieri, nomi, oggetti) che dal passato sono giunti fino a noi intatti e
tutelati dal vincolo del rispetto, vuole esprimere anche l’azione del “trasmettere”. In latino,
la radice comune di queste parole (tradere) significa anche “tradire”. Ne deriva l’ambiguità
concettuale e morale degli oggetti letterari con cui ci confrontiamo. Quindi riscrivere un
classico significa tramandarlo ma anche tradirlo. C’è già un giudizio morale nella parola
“tradire” che svaluta il prodotto letterario d’arrivo, lo fa percepire come deteriore. Su
questo punto bisogna riflettere per arrivare non solo a rivalutare i procedimenti di
riscrittura, la loro possibile originalità estetica e la potente identità autoriale di molti
scrittori che li mettono in atto, ma anche ad amplificare l’idea di classico e della/e forma/e
in cui questo può giungere fino a noi senza che si gridi allo scandalo dell’abuso, della
violenza praticata sull’oggetto di partenza, sull’archetipo. Bisogna anche evidenziare l’utilità
culturale del mettere in rapporto i più giovani con opere letterarie che anticipano in modo
elegante nomi, titoli e storia in cui si imbatteranno quando canone e tradizione caleranno
dall’alto dei programmi scolastici o nelle pratiche quotidiane della loro vita culturale. Si può
considerare la parola “tradizione” anche in funzione degli apporti che il genere della
riscrittura può offrire alla sua valorizzazione, all’incremento della rete di conoscenze
possedute da un lettore competente, ovvero la cultural literacy, ovvero l’alfabetizzazione
culturale. Il rapporto che ognuno di noi costruisce con un autore del passato e con la sua
opera, con i personaggi e i luoghi da lui creati, trae vantaggio da tutti i testimoni che
contribuiscono ad arricchirne la tradizione e l’immaginario a essa connesso. Per le
riscritture destinate ai bimbi e ragazzi si può parlare di primo autore (archetipo) e di altri
autori (testimoni) di un’opera solo se all’idea di opera attribuiamo una forma flessibile e
mobile, liquida, che insiste più sulla storia che sulla sua forma autoriale originaria e che, di
volta in volta, fa emergere ora alcuni, ora altri tratti specifici del testo di partenza, a
seconda dell’energia creativa e della carica pedagogica che esso eccita nel nuovo autore. La
valorizzazione degli altri autori presuppone un esame qualitativo severo e selettivo delle
loro riscritture (che, mentre nel caso delle esperienze artistiche destinate a un pubblico
adulto tendono a prodotti fin troppo sofisticati, nel caso della letteratura per l’infanzia
scadono di frequente in quella banalizzazione ai limiti dell’indecenza) per valutare il ruolo e
la responsabilità che queste possono ricoprire nel rafforzamento di una tradizione culturale
presso lettori molto giovani o di altre origini culturali, perché una funzione della riscrittura
di testi della cultura alta per bimbi è di rendere popolari o più accessibili quei valori culturali
che vengono incarnati nei testi. Questi classici della letteratura rappresentano anche un
capitale culturale. Roberto Denti dice che non ci sono linee guida determinanti per la
divulgazione di testi classici scritti per adulti e offerti alle possibilità di comprensione dei
bambini: conta il modo con il quale questo assunto viene realizzato.
Certo, maggiore sarà la forza esercitata dalla riscrittura sull’immaginario del giovane lettore,
più sarà alta la probabilità che questi, una volta venuto a conoscenza dell’archetipo, si senta
attratto da essa e lo voglia leggere senza la mediazione di altri testimoni, o facendo nuove
scoperte attraverso la comparazione fra archetipo e testimoni. Quest’ultimo è un obiettivo
importante della riscrittura dei classici, perseguibile, ma che non deve escludere la
possibilità di un’altra esperienza culturale (la lingua, la caratterizzazione dei personaggi e
degli ambienti) anche per il lettore che non riesce ad effettuare questo passaggio dal
testimone all’archetipo e che vive il rapporto con il testimone attribuendogli la fiducia e la
responsabilità culturale che solitamente si attribuiscono ad un’opera d’arte originale.
11.3 LE RISCRITTURE OGGI IN ITALIA.
I dati prodotti da LIBER Database, una delle più importanti bibliografie italiane dedicate al
libro per bambini e ragazzi rivelano che, tra le novità di narrativa degli ultimi 5 anni su circa
4200 titoli le riproposizioni di classici in nuove edizioni integrali o in nuove versioni che non
alterano in modo rilevante la forma e il contenuto, rappresentano circa il 5%. Analoga, ma
in crescita l’incidenza di riscritture, adattamenti e riduzioni. I dati quantitativi confermano
l’incidenza del fenomeno nei cataloghi degli editori contemporanei di letteratura per
l’infanzia. Marchi di sicura fama come Mondadori, Edizioni EL – Einaudi Ragazzi, o editori
più recenti, ma già affermati come Biancoenero, Erickson hanno collane dedicate a questo
genere letterario. La novità è la fedeltà al genere riscrittura da parte di alcuni autori già di
successo per le loro opere originali. Scrittori come Pierdomenico Baccalario, Roberto
Piumini, Guido Sgardoli, hanno negli ultimi anni prodotto un gran numero di riscritture,
ubbidiendo a criteri diversi e personali. Recentemente Sgardoli e Baccalario hanno chiarito
la natura di questo tipo di operazioni. Secondo Sgardoli la riduzione è un’operazione sul
corpo del testo; adattamento un’operazione sul linguaggio e/o sul contenuto; riscrittura la
reinterpretazione da parte di un autore di un testo classico attraverso la sua voce, il suo
stile, la sua cultura. Quest’ultimo passaggio presuppone una rielaborazione, una
soggettività che nella riduzione o adattamento è meno importante. Questa soggettività può
variare. Più infatti la voce del riscrittore è forte, maggiori saranno la reinterpretazione e il
rischio di allontanarsi troppo dall’originale, offrendo qualcosa che è altro rispetto al classico
considerato.
Baccalario invece dice che non hanno ridotto i testi che sono stati affidati loro, ma li hanno
raccontati di nuovo per non perderli, avendoli sempre presenti. Alcuni libri sono
monumenti con testi e stile invecchiati benissimo, in particolare quelli anglo – americani.
Altri sono come quei cocci di vaso straordinari per chi sa apprezzare, ma inaccessibili,
quando non ridicoli, per gli altri. Per questo motivo si devono ri – raccontare. E gli autori per
ragazzi ne devono sentire la responsabilità.
Dalle parole dei 2 scrittori emergono prospettive diversa, anche se resta l’urgenza di salvare
alcune storie che, lasciate nella forma originaria, potrebbero sparire dall’attenzione dei
lettori di oggi. Una posizione che emerse anche nell’ambito di un progetto importante come
“Save the Story” della Scuola Holden, 11 capolavori della letteratura riscritti e illustrati per
bambini da grandi autori contemporanei e venduti in edicola dal 2010 sotto il marchio del
Gruppo Editoriale L’Espresso.
Si potrebbe svolgere un esercizio di comparazione fra le diverse versioni di un classico, a
partire dalla sua forma originale, definito archetipo. Prendiamo in considerazione le prime
righe del romanzo I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift del 1726, prima nella traduzione
integrale di Attilio Brilli, poi in quella di Jonathan Coe con illustrazioni di Sara Oddi, di
Alessandro Gatti con illustrazioni di Andrea Castellani e Guido Sgardoli con illustrazioni di
Cecco Mariniello.
1 versione: il padre aveva una tenuta nel Nottinghamshire e lui era il 3 di 5 figli. A 14 anni il
padre lo mandò a Cambridge dove studiò per tre anni. Ma siccome al padre non bastavano i
soldi per poterlo mantenere, lo mise come apprendista da James Batesi, rinomato chirurgo
di Londra, dove restò 4 anni. I soldi che il padre gli inviava li usava per imparare l’arte della
navigazione e altri rami della matematica, poiché voleva navigare.
2 versione: 300 anni viveva un uomo, Lemuel Gulliver, dottore a bordo delle grandi navi che
salpavano l’Inghilterra e giravano il mondo per comprare e vendere merci. Il mare era a
volte agitato e le navi attraccavano in porti che spesso non erano segnati sulle mappe. In
Inghilterra aveva moglie e figli. Ma doveva imbarcarsi per guadagnare per vivere e perché
voleva esplorare nuovi posti.
3 versione: nel 1699, il 4 maggio, partì per i Mari del sud. In un sobborgo di Londra aveva
una famiglia ed una casa. Aveva già esperienza in mare: per sei anni aveva fatto il medico di
bordo di 2 navi, guadagnando poco.
4 versione: nel 1699 si trovava a bordo del vascello Antilope, diretto nei Mari del Sud,
quando fece naufragio. Raggiunse una spiaggia dove perse i sensi. Al risveglio scoprì di
essere legato con delle piccole funi sottili. Vide una cosa simile ad un essere umano, basso,
che lo osservava mentre era in piedi sul suo petto.
Le differenze che si possono cogliere subito riguardano l’adozione della 1 persona nel caso
di Coe e il taglio della ricostruzione degli antefatti biografici del personaggio, presenti in
forma distesa nella versione originale, solo accennati in quella di Coe e Gatti, assenti in
quella di Sgardoli che si sviluppa lungo uno spazio limitato di neanche 10 pagine. Le 3
versioni a noi contemporanee adottano un ritmo più veloce, segnato dalla paratassi,
rispetto ai periodi lunghi, lenti e articolati dell’originale. Ma l’elemento caratterizzante del
personaggio, cioè l’attrazione – passione per il mare e per i viaggi, è subito evidente in tutte
le versioni qui presentate. Si tratta del tratto distintivo di quest’avventura che è
un’avventura per acqua. È questa caratteristica che fa del romanzo un classico avvincente
ed è questa caratteristica che i riscrittori di oggi mettono in evidenza fin dalle prime battute,
per creare quell’atmosfera immersiva per catturare l’attenzione e la fantasia del bambino
ascoltatore – lettore. La presenza dell’acqua, della nave e dello spostamento è ciò che
questa storia deve subito mostrare di sé. Sgardoli che prende subito le mossa dal naufragio
e dal risveglio di Gulliver circondato dai Lillipuziani, non può indagare le origini e il carattere
del protagonista, sull’antefatto. Si concentra sui fatti. Ciò che accade nella versione di
Sgardoli risponde alla necessità di contrarre la storia in poco spazio. La possibilità di
elaborare una narrazione dell’ambiente, della cultura e della psicologia dei personaggi è la
1 cosa che si perde, il più delle volte, in riscritture (che, come in questo caso, sono anche
forti riduzioni) destinate ai bimbi. Si salvano i fatti e le azioni importanti, si tralasciano
passaggi dedicati alla storia interiore dei personaggi. Tutto questo ha conseguenze anche
sul piano linguistico, nell’uso delle parole. Poche parole devono restituire il ritmo frenetico
delle azioni e offrire al lettore indizi sulle emozioni dei personaggi. In Coe molte
caratteristiche di Gulliver sono riassunte nella parola “curiosità”, in Gatti c’è l’opposizione
tra l’aggettivo “tranquillo” riferito alla vita di terra e la parola “destino” che apre la mente
del lettore verso l’avventura che lo aspetta. Per Sgardoli ci sono “sorpresa” e “accidenti”,
che aiutano a calarsi nello stato d’animo del naufrago prigioniero. È proprio sull’uso di
singole parole, sulla loro qualità/varietà e sul ritmo del periodare che deve concentrarsi la
nostra attenzione quando valutiamo queste riscritture e non sulla fedeltà quantitativa
all’originale. Dobbiamo essere certi di trovarci di fronte a opere distinte, un archetipo e una
riscrittura. Esse hanno in comune solo una storia ed anche essa è la forza del classico. Una
forza che può prescindere dalla forma originaria che il 1 autore ha dato a quella storia che
lui stesso ha inventato. Gli autori del passato ci hanno lasciato forme testuali ma anche
storie e riscrivere un classico è un’azione che fa tesoro della storia più che della sua forma
archetipica, anche se può in vari modi riusarne singoli segmenti. Le storie inventate dai
grandi scrittori hanno un valore immenso ed è per questo che meritano di essere riscritte in
forme nuove e di qualità, che ne tramandino i tratti unici, veri e propri passaggi obbligati
nella costruzione della cultura e dell’immaginario dei posteri.
Concentriamoci ora sulle 3 scritture de L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson. Si parte
dall’originale, nella traduzione in italiano di Piero Jahier, e confrontiamola con le tre
riscritture: la 1 di un autore anonimo, con le illustrazioni zoomorfe di Tony Wolf, quella di
Baccalario con illustrazioni di Matteo Piana e quella di Sgardoli, illustrata da Cecco
Mariniello. Soffermiamoci sull’incipit della storia, riportando di ciascun testo l’entrata in
scena di Billy Bones, fino a quando recita il ritornello. (leggere versioni sul manuale pag.
260/261/262).
Ciò che più colpisce è la facilità con cui i primi periodi delle pagine iniziali dell’archetipo
vengono contratti, conservati e rielaborati. Ci troviamo di fronte a forme testuali diverse. Si
può notare l’andamento paratattico delle 3 riscritture. Il confronto può concentrarsi sulla
descrizione fisica di Billy, diversa da versione a versione, priva della cicatrice nella riscrittura
di Baccalario che indugia nella ricostruzione dell’atmosfera creata dall’ingresso del
personaggio nella locanda. Baccalario posticipa la citazione del ritornello che, insieme alla
cicatrice è il segno distintivo di Billy Bones e anche nell’originale dà il suo contributo non
secondario all’identità del personaggio. Il ritornello, che nel testo di Stevenson è una
vecchia canzona marina, diventa in Dami una buffa canzone marinara, mentre accentua i
suoi tratti inquietanti in Baccalario che ne fa una lugubre canzone, ed infine è una strana
canzone nella versione di Sgardoli che ci restituisce un romanzo di 200 pagine in 8 pagine.
In quest’ottica, la vicinanza della riscrittura all’archetipo diventa solo uno dei più importanti
parametri critici applicabili a questo genere letterario, in un ridimensionamento di quel
fidelity criticism che per decenni ha sottovalutato l’approccio creativo degli scrittori per
l’infanzia alle opere canoniche della nostra tradizione letteraria.
Lo sguardo critico dell’esperto di letteratura per l’infanzia si deve soffermare sulle
caratteristiche linguistiche, stilistiche e narrative nelle riscritture non facendosi
condizionare dalla fedeltà all’archetipo, ma tendendo a mente la coerenza e il
funzionamento della riscrittura al suo interno e nella sua autonomia, e considerando la
sede editoriale, il taglio della collana in cui viene inserita, il profilo dei possibili destinatari, il
corredo iconografico con il quale condivide il racconto e la qualità della scrittura. Se salvare
una storia significa offrire la possibilità a un bravo scrittore contemporaneo di produrre la
sua versione dei fatti (come si fa da sempre nella tradizione della fiaba) dandogli la
possibilità di esercitare la sua creatività narrativa, ben vengano le riscritture, purché il
confronto con l’archetipo serva solo a esercitare ragionamenti filologici utili perlopiù agli
studiosi per valutare le forme e i modi del cammino delle storie attraverso il tempo, per
arrivare a un giudizio e ad una selezione delle riscritture a disposizione del pubblico
giovanile. Infatti fare pregiudizialmente il confronto fra originale e riscritture, per sostenere
il valore dell’originale, è un’operazione sbagliata. Non ci può essere sfida tra oggetti
morfologicamente e storicamente diversi che hanno obiettivi diversi. Bisogna esaminare e
valutare i prodotti di una tradizione narrativa iniziata da un archetipo la cui qualità non
deve entrare in competizione con testi che possono amplificarne la fama e il pubblico dei
lettori. Nel peggiore dei casi il lettore si sarà fermato a una buona riscrittura, rinunciando a
forme letterarie antiche ma non a trame e personaggi immortali rivisitati con un linguaggio
ed una tecnica narrativa che può offrirgli la possibilità di accrescere il suo bagaglio
fantastico e linguistico. Il nostro lavoro si deve concentrare sull’esame e sulla valutazione
delle riscritture, sulla comparazione fra di loro, condannando alcune di essere per la
sciatteria formale e banalizzazione della storia originale, e non per la distanza dal classico di
riferimento.

CAP. 13 – C’ERA UNA VOLTA… IL LIBRO. DAI LIBRI – GAME ALLE APP
Di Anna Antoniazzi

13.1 LA CORNICE DI RIFERIMENTO


La diffusione delle tecnologie informatiche a partire dagli anni 80 del secolo scorso, ha
portato ad una revisione del modo di raccontare storie, anche nell’editoria rivolta
all’infanzia e all’adolescenza. Come ogni cambiamento di prospettiva culturale, anche
quella informatica interessa ogni ambito sociale, civile, immaginativo e tutti i media sono
coinvolti nel processo di definizione, conoscenza e assimilazione delle nuove tecnologie.
È l’immaginario, inteso come l’universo di simboli, metafore, narrazioni, miti, concezioni e
credenze nel quale siamo immersi, a mostrare i segni più evidenti di questa trasformazione
iniziata in sordina decenni prima, ma esplosa all’inizio degli anni 80 con la diffusione sempre
più capillare, a partire dagli USA, del PC nelle case: i computer diventati più piccoli e più
economici, cominciano a diventare personal, cioè destinati ad un’utenza sempre più ampia,
variegata ed eterogenea.
Arte, letteratura, cinema, serie TV, prima del mondo della divulgazione scientifica, iniziano
ad occuparsi del fenomeno, a porlo all’attenzione del grande pubblico, da un lato
provocandolo, ma dall’altro portandolo a riflettere sulle implicazioni che il cambiamento di
cornice di riferimento comporta. Tutto accade contemporaneamente.
Tra il 1982 e il 1983 quella parte dell’immaginario e della narrazione interessata dalle
trasformazioni in atto, si muove verso la sperimentazione tecnologica: in Italia viene
fondato Studio Azzurro, una delle realtà più importanti nell’ambito delle videoinstallazioni
interattive, al cinema escono pellicole come Tron di Steven Lisberger, negli USA Bruce
Bethke pubblica il racconto Cyberpunk che darà il nome alla corrente artistico – narrativa.
Le tv pubbliche e private italiane, dalla fine degli anni 70 trasmettono serie animate
giapponesi dove le tecnologie informatiche e non, sono fondamentali: Mazinga, Gundam
trasformano i palinsesti televisivi dedicati ai più giovani e anche il loro modo di guardare il
mondo. Anche il panorama musicale risente dell’influsso delle nuove tecnologie: alla fine
degli anni 70, generi come Techno e House music e band come i D.A.F rappresentano vere
e proprie avanguardie nell’ambito della sperimentazione elettronica.

13.2 IL LIBRO – GAME


Anche la letteratura rivolta ai più giovani a partire dagli anni 80 non rimane estranea alle
trasformazioni. Mentre gran parte degli uomini continua e continuerà a raccontare le storie
in modo tradizionale, altri iniziano a guardare alle nuove tecnologie come ad uno
strumento importante per rinnovare modo di narrare e temi.
Sono 2 gli ambiti coinvolti nel cambiamento: da un lato si assiste alla modificazione della
struttura del racconto che sembra perdere la propria linearità per una nuova configurazione
e forse una nuova funzione; dall’altra si modifica il soggetto della narrazione e delle
metafore di riferimento.
Il 1 segnale che qualcosa sta cambiando la letteratura per l’infanzia arriva con il diffondersi
del libro – game. Il fenomeno, di vaste proporzioni anche in Italia, sembra un evento
autonomo, scollegato dall’avvento delle tecnologie informatiche, ma ne rappresenta la
diretta conseguenza. Per comprenderlo bisogna ripercorrere la storia del videogame o
quella dei suoi esordi legati al pc e alla necessità di raccontare storie anche attraverso quel
nuovo medium.
All’inizio non si tratta di videogiochi come li intendiamo oggi, ma di adventure – games in
grado di connettere, narrativamente e ludicamente, uomo e macchina. All’inizio
appartenevano a 2 categorie distinte: Text progettati per i pc e Graphic, legati alle consolle
e ai macchinari da sala giochi. Una volta attivato il gioco, attraverso comandi a tastiera
meno immediati e intuitivi di quelli attuali, sullo schermo compaiono la breve descrizione
testuale di un ambiente, dei personaggi e degli oggetti con i quali l’utente può interagire e
una domanda su come procedere. Il giocatore risponde digitando comandi composti da un
verbo (es. go) e un oggetto (es. take sward: prendi la spada) o un’indicazione direzionale
(es. go left). Il computer lentamente calcola l’effetto del comando, propone una nuova
descrizione, pone una nuova domanda e così il gioco, quasi sempre in inglese, procede,
permettendo al giocatore di esplorare caverne, labirinti oppure di tentare la soluzione di
enigmi più o meno complessi, o di ricercare oggetti utili, fino a raggiungere lo scopo o, in
caso di sconfitta, alla morte del protagonista. Mete frequenti sono la ricerca di un tesoro, lo
smascheramento di un complotto e la fuga dal carcere.
Questa tipologia di videogame, anche se arcaica, riesce a creare, attraverso la tastiera,
un’interazione uomo – macchina, mirando ad una partecipazione il più possibile soggettiva
del giocatore. Anche se i percorsi sono prestabiliti e limitati dalla scarsa flessibilità di
apparecchiature e programmi, forniscono a chi gioca la sensazione di padroneggiare la
storia, di poterne gestire da soli la trama. Della stessa natura sono i libro – game.
Non si sa di preciso se la paternità di questa rivoluzione narrativa spetti al libro – game o
all’adventure – game, ma per un quinquennio, queste 2 modalità così affini di raccontare
storie, procedono su binari paralleli; sono competitor e si contendono il primato di
lettori/giocatori. Anzi, per un po’ di tempo il libro – game riscuote più successo del suo
antagonista.
Il libro – game non è un libro nel senso tradizionale del termine, ma è un tentativo di
rendere interattive le storie impresse sulla carta, di far partecipare attivamente il lettore
allo svolgimento della trama, dandogli la possibilità di fare scelte autonome all’interno del
testo. Anche se oggi, abituati a un’interattività di altro livello, questo atteggiamento sembra
ingenuo e a tratti poco pregnante dal punto di vista del racconto, quei libri permettono alla
narrazione di diramarsi lungo vari percorsi, solitamente con l’uso di paragrafi e pagine
numerate.
L’incipit del 1 volume di una collana di grande successo come “Lupo solitario” di EL, I Signori
delle Tenebre, ci permette di entrare direttamente all’interno della dimensione narrativa
dei libro – game.
Seguono le istruzioni che il lettore deve seguire per impostare e intraprendere il proprio
percorso dentro al libro (leggere pag. 291).
Viene dato per scontato, come accade nei videogame, che il lettore possa riprendere e
ripetere l’esperienza quando vuole.
Poi ci sono delle indicazioni più tecniche su come gestire il punteggio e l’avventura, singola
o collettiva che è un’altra novità introdotta dal libro – game perché si può giocare da soli o
con gli altri, può iniziare.
La rottura dello schema narrativo e l’uso della 2 persona permettono al lettore che è anche
giocatore, un’identificazione immediata ed efficace con il protagonista e un’insolita
partecipazione alla trama.
13.3 NUOVE METAFORE
Quello esplorato dai libro – game, dai videogiochi testuali e dai role – games che negli anni
80 cominciano ad avere una diffusione capillare attraverso i supporti e le tecnologie
informatiche, è un territorio nuovo; segna un confine da indagare e da superare per
approdare a sconosciute dimensioni narrative che la tecnologia informatica è in grado di
accompagnare e supportare. Una dimensione narrativa che prevede un particolar modo di
raccontare storie che, pur avendo al loro interno una propria organicità, vedono la trama
frantumarsi e spingono il lettore a ricostruirla secondo le proprie priorità e le proprie
esigenze. Le strutture narrative e i temi delle narrazioni informatiche, hanno già fatto la loro
incursione all’interno della letteratura per l’infanzia.
Ma se da un lato questa incursione nell’immaginario e nella scrittura implica la rottura delle
strutture narrative tradizionali e la loro ricomposizione in forme nuove e distintive, c’è un
altro aspetto che bisogna indagare, ovvero la trasformazione del soggetto del racconto e
delle metafore di riferimento. E questo accade prima che i videogiochi destinati ai personal
computer si trasformino da testuali a quelli che conosciamo oggi.
La nuova editoria per ragazzi mantiene anche in questa occasione la caratteristica di essere
una sorta di cartina di tornasole dei cambiamenti in atto nella società. Così gli scrittori per
ragazzi hanno guardato alle innovazioni introdotte dall’informatica come ad una occasione
per riflettere, e far riflettere, sul presente e sul futuro dell’umanità. E sono in particolare il
movimento cyberpunk e i suoi prolungamenti mediatici a rappresentare un modello
narrativo dal quale trarre temi e suggestioni, soprattutto per quanto riguarda la capacità
che le tecnologie informatiche, in particolare la Realtà Virtuale, hanno di permettere a chi
ne usufruisce di accedere ad una sorta di “seconda natura” complementare a quella umana.
I protagonisti del cyberpunk hanno a disposizione 2 corpi e 2 esistenze, vissuti in 2 mondi
temporanei e non sovrapponibili e proprio per questo sono ritenuti emarginati, persone il
cui ruolo sociale è secondario, la cui vita è precaria, il cui habitat naturale è il suburbio, la
cui prassi quotidiana è l’espediente. L’editoria rivolta alle generazioni più giovani ha però,
piano piano, trasformato il nucleo di quel movimento culturale, evidenziandone il carattere
iniziatico: il viaggio nell’altrove diventa l’espediente principale per esplorare i problemi
legati ai processi di crescita e per proporre alternative ad una realtà in declino.
In questo senso se gli autori del mainstream del cyberpunk, almeno all’inizio degli anni 80,
mostrano le contraddizioni, le paure e le angosce legate al rischio dell’annullamento morale
dell’umanità all’interno del Metaverso, l’editoria rivolta ai più giovani esprime come
l’ambiente virtuale possa trasformarsi da altrove seducente, ma insidioso e pericoloso, a
luogo di solidarietà e di formazione.
È vero che in Italia, rispetto ai Paesi anglosassoni, l’editoria per ragazzi inizia con ritardo a
presentare testi legati alla rivoluzione informatica in atto e al cyberpunk, e solo negli anni
90 vengono pubblicati testi e fondate collane dedicate a quel tema, ma quando lo fa, le
proposte sono eclatanti e volte a permettere una riflessione sulle grandi trasformazioni in
corso.
A spalancare le porte dell’editoria italiana per bambini e ragazzi ai temi dell’altrove
simulato dai pc è il romanzo Bit di Ermanno Gallo. L’avventura è ambientata in un futuro
distopico dove il potere è nelle mani dei Serraturai: terribili tecnocrati che hanno imposto il
proprio controllo su un’umanità standardizzata che ha eliminato dalla propria esperienza
qualsiasi tipo di iniziativa personale e ha rinunciato alle storie. L’unico diversivo sono i
videogiochi. Molti di questi sono freddi, ma accanto ad essi ci sono altri in grado, come le
fiabe, le storie fantastiche e i libri magici, di proiettare chi gioca in un universo fatto di
emozioni, scoperte meravigliose. Da uno di questi videomilgame Bit, il protagonista del
romanzo impara non solo a guardare la realtà con uno sguardo diverso, ma ad
intraprendere il cammino che lo porterà a salvare il suo mondo.
In un mondo che ha dimenticato le storie, è un potente pc a restituirle in tutta la loro
valenza al protagonista, e con lui ai lettori, indicandogli anche un crocevia di possibilità per
liberare il suo mondo dall’oppressione. Solo la via più difficile e pericolosa può portare alla
salvezza.
Nella letteratura dedicata alle generazioni più giovani, la tecnologia informatica diventa
occasione di riscatto, di liberazione, di trasformazione e di crescita.
Il tema viene esplorato in tante direzioni. Collane come “Realtà Virtuali” edita da Sonda dal
1994 o “The Web” di Mondadori, permettono di approfondire aspetti e situazioni
particolari. Prima di tutto, il fatto che, sebbene siano apparentemente separate e
inconciliabili la realtà umana e quella virtuale che i protagonisti attraversano, presentino
connessioni profonde e gli scambi tra l’una e l’altra siano intensi ed efficaci in entrambi le
direzioni. Bisogna poi rilevare come il carattere, le emozioni, i sentimenti dei protagonisti
non cambino nel passaggio tra i mondi, ma si dilatino in direzioni inaspettate: la necessità di
trovare sé stessi e ribadire la propria umanità è più forte dei mostri e delle seduzioni
prodotti dalla simulazione. Anzi, in Corpo virtuale di Pat Cadigan che rappresenta la
derivazione più avanzata della narrazione cyberpunk per ragazzi, la RV rappresenta
l’occasione anche per chi, come il protagonista, è costretto a vivere immobile in un letto, di
sperimentare, di vivere e di mettersi in gioco. Attraverso l’uso delle tecnologie più avanzate,
Max non può solo saggiare, grazie alla connessione con Sarah Jane, le sensazioni legate alle
esperienze del mondo reale a lui precluso, ma può entrare nel web: un altrove dove anche
chi è paralizzato può camminare, dove chi non è felice della realtà in cui vive può trovarne
una adatta alle sue aspirazioni. Qui Max e Sarah conoscono nuovi amici e nemici, ma
soprattutto sé stessi.
Con il romanzo di Pat Cadigan le tecnologie informatiche non rappresentano solo un
momento di fuga e di riscatto da una dura realtà, ma si fanno occasione di vita: possibilità di
vita che si estendono oltre il dato fisico e biologico.
Più drammatica la posizione di autori come Scott Westerfeld: l’attentato alle Torri Gemelle
di New York e l’imminente crisi finanziaria mondiale influenzano questi settori
dell’immaginario più sensibili e attenti a ciò che accade nella realtà. Nella saga Beauty lo
scrittore introduce da un lato il tema del controllo della mente per sottomettere le
generazioni più giovani, dall’altro quello della contaminazione tra umano e componenti
cibernetiche, rendendo i cyborg una reale presenza nella letteratura per l’adolescenza. Da
sempre, e la figura di Pinocchio ne è l’emblema, la letteratura per l’infanzia propone figure
artificiali come protagoniste della narrazione.
Nei romanzi Brutti, Perfetti, Specials, Extras, Scott Westerfeld narra di un futuro remoto
dove la società impone la perfezione estetica e comportamentale come regola
imprescindibile. Se durante l’infanzia e la prima adolescenza a ciascuno è concesso il diritto
di essere normale o brutto, alla fine dei 16 anni diventa obbligatorio sottoporsi a interventi
chirurgici per diventare perfetti.
La perfezione fisica si lega alla passività caratteriale, dal momento che le operazioni
estetiche riguardano anche la manipolazione dei ricordi e della personalità. L’utopia
palesata dalla civiltà dei Neoperfetti dove ogni differenza, fisica e mentale, deve essere
cancellata, nascosta sotto il velo della perfetta uguaglianza, la drammatica distopia
dell’annientamento di sé, dell’omologazione dello stordimento finalizzato ad addormentare
ogni capacità creativa e critica.
Gli innesti cibernetici e le operazioni migliorative per rendere speciali i perfetti, introducono
il tema della tensione insensata verso il superamento dell’umano attraverso espedienti
tecnologici pervasivi e sterili, piuttosto che attraverso una reale tensione verso un fine
diverso dalla mera apparenza. Ma il tema relativo ai cyborg porta a riflettere non solo
nell’ambito della filosofia, dell’etica, dell’antropologia e dell’epistemologia della scienza.
Anche in ambito narrativo molti autori si muovono in quella direzione, spingendo la ricerca
di senso oltre i limiti posti dalla riflessione filosofica. Così la pubblicazione di Genesis di
Bernard Beckett porta la narrazione, questa volta rivolta ai giovani adulti, a un livello
speculativo altissimo, trasformando il tema della contaminazione tra umano e artificiale
nella metafora della rivalità tra un mondo adulto predisposto al mantenimento dello status
quo e una generazione di giovani preparati, pronti a rilanciare la sfida della conoscenza e a
portare avanti le istanze in cui crede, mettendo a rischio la sua vita. Tra loro c’è Anax, la
protagonista che vive in una società malata, versione rivista e corretta dell’utopia politica di
Platone. Per essere ammessa al più alto organo di governo della Repubblica, ovvero
l’Accademia, deve dialogare con una commissione di saggi sulla differenza che vi è tra
umano e artificiale.
Anax scopre durante l’interrogatorio di vivere in una società dove la conoscenza e
l’autonomia di pensiero sono considerate rivoluzionarie perché l’idea è un avversario
pericoloso; balza da una mente all’altra riprogrammando tutto ciò che tocca. Il virus può
scatenarsi in qualsiasi momento. Ogni tanto affiora qualcuno che è particolarmente
suscettibile a pensieri di distruzione. I contagiati sono studenti brillanti che sono aggressivi
nella loro ricerca del sapere e quindi vanno eliminati. Ma il virus non si può sopprimere e
forse un giorno riuscirà a liberarsi. E la liberazione avviene grazie ai cyborg: mutanti
inconsapevoli di esserlo, come Anax.

13.4 TRA DISTOPIA E UTOPIA


Il cyborg come metafora della necessità, per il genere umano, di cambiare prospettiva
esistenziale, nella letteratura rivolta ai più giovani, dà spazio al bisogno di riaffermare
l’umano attraverso la fondazione di una nuova civiltà sulle rovine di quella occidentale
contemporanea.
Così, nelle grandi saghe distopiche per ragazzi, a partire da Beauty di Scott Westerfeld,
passando per Hunger games di Suzanne Collins, The Maze Runner di James Dashner e
Divergent di Veronica Roth, senza dimenticare le creature ibride come i ragazzi uccello
narrati da James Patterson nella serie Maximun Ride, realizzate attraverso la manipolazione
genetica, la tecnologia non rappresenta più il centro dell’interesse narrativo: è talmente
penetrante e implicita da non essere quasi menzionata, ma rappresenta e in qualche modo
garantisce la stabilità del sistema sociale, civile ed economico. Aiuta a mantenere lo status
quo: lo controlla e lo colloca. Anche se dalle pagine di quelle saghe solo raramente emerge
il fatto che le tecnologie informatiche abbiano un potere di controllo sulla società,
comunque tutto lo fa pensare.
La necessità dei giovani protagonisti di liberarsi da società così diversi tra loro, ma simili
nella necessità di omologare e conformare le nuove generazioni alle proprie esigenze,
presuppone però la necessità di superare il timore psicologico, sociale e culturale e un
rapporto più maturo con le tecnologie.
Così da strumento di contenimento e di seduzione della libertà personale, nelle storie
dedicate alle generazioni per giovani, le tecnologie informatiche diventano l’occasione per
sovvertire l’ordine stabilito e pianificare la fondazione di una nuova civiltà.
Nella saga Divergent, ad esempio, grazie ai protagonisti, la tecnologia informatica passa da
strumento repressivo e costrittivo del pensiero a mezzo di liberazione. È cambiato
l’atteggiamento di chi usa quello strumento: questo cambio di prospettiva è epocale nel suo
rivelare potenzialità inespresse. A livello immaginativo si può ipotizzare di aver avviato un
cammino verso un nuovo, più consapevole, approccio alle tecnologie.
Nel corso dei 3 decenni che sono intercorsi tra la svolta della letteratura per l’infanzia e la
contemporaneità narrativa, il libro per bambini e ragazzi ha subito a contatto con
l’informatica, nuove trasformazioni strutturali rispetto a quelle rilevate a proposito dei libro
– game.
Il primo cambiamento non riguarda le pubblicazioni per l’infanzia, ma l’intero complesso
editoriale ed è associato alla produzione e alla diffusione di testi in formato elettronico.
L’idea di libro digitale nacque nel 1971 grazie all’informatico Michael Hart e ad una sua
iniziativa chiamata Progetto Gutenberg. L’obiettivo di questo progetto era quello di
costruire una libreria usando versioni elettroniche dei libri stampati, quelli che oggi
chiamiamo ebook. L’idea era quella di fare una copia elettronica delle opere cartacee più
famose e di pubblico dominio presenti nelle varie biblioteche in modo da non perderle con
il passare degli anni, o in caso di furti o incendi. Il 1 libro trascritto in versione elettronica fu
La Dichiarazione di Indipendenza che poteva essere letto solo con il pc.
Dal 1998 si producono dispositivi portatili di lettura, ma solo nel 2007, con l’introduzione
nel mercato americano dell’e – reader Kindle di Amazon, gli e – book cominciano a
diffondersi velocemente. Si tratta di una svolta epocale.
I libri elettronici offrono la possibilità di accedere in qualsiasi momento a banche dati
online, dizionari, social network, siti di condivisione di filmati. Ciò che prima stava fuori o a
margine del testo (citazioni, rimandi, bibliografie), ora è parte integrante del testo stesso,
consultabile contemporaneamente, per approfondire concetti. L’idea poi di condividere con
altri lettori ciò che si legge e di potersi confrontare con loro, offre anche alle comunità
scientifiche scambi immediati che fino a un decennio fa erano impensabili.
È con la diffusione di smartphone e tablet che avviene però la vera rivoluzione: nelle
applications software (app) la narrazione acquista un’autonomia diversa, per alcuni aspetti
insolita. Lo stesso libro digitale, da trasposizione da cartaceo a digitale (e – book) si modifica
adattandosi ai touch – screen device e alle loro potenzialità narrative, attraverso l’aggiunta
di funzionalità interattive e di elementi ludici (app – books). Gli app – books permettono al
lettore di accedere dietro le quinte del racconto, di superarne la linearità e la
consequenzialità, di smontare e rimontarne a piacere le sequenze, ma anche la possibilità
di animare le immagini o di interagire con quelle, sfiorandole con un dito, offre la
sensazione di appartenere alla storia, di partecipare attivamente al flusso degli eventi e di
avere un’immedesimazione coinvolgente. Se le illustrazioni che accompagnano il testo
scritto sono da sempre percepite come narrazione nella narrazione, come apertura verso
altre dimensioni di senso, come indicazione di percorsi alternativi, nelle app esse
amplificano la loro portata avendo la possibilità di acquistare completa autonomia. Le
immagini, la musica, il testo, le interazioni, diventano singole unità di senso e di narrato che
ogni fruitore può gestire in modo personale. Eppure, questi linguaggi, nelle app possono
essere colti in modo identico in una forma partecipativa coinvolgente che usa il tatto come
accelleratore di conoscenza e di apertura al possibile.
L’esempio della versione digitale dell’albo illustrato I fantastici libri volanti di Mr. Morris
Lessmore (Joyce) è sintomatico. È un capolavoro crossmediale dal momento che la storia è
stata concepita e progettata, contemporaneamente, nelle versioni cartacea, animata e
digitata, ma è nelle app che le potenzialità narrative della storia assumono dimensioni
eclatanti.
Il digitale non si oppone alla scrittura o alla stampa, ma permette di esplorarne i margini, di
ampliarne i confini, di approfondirne i contenuti. Ciò porta a rivedere il concetto di libro,
anche di quello stampato al quale comincia a stare stretta la stabilità della carta. Sempre
più spesso, infatti, il libro cartaceo trova un proprio prolungamento ideale nei media
digitali: alcuni romanzi sono collegati a blog, siti web, social network, ma anche quando la
narrazione non supera i confini del testo, in molti casi si avverte il rimando ad altre forme di
linguaggio e in particolare a quello videogiocabile. Negli esempi più significativi di questa
nuova editoria per ragazzi, l’elemento più interessante è dato dall’amplificarsi della figura
del lector in fabula che non solo può perdersi nel flusso della narrazione, ma sperimentare
sul campo la profonda connessione tra i vari media.
Ci troviamo di fronte ai libri “ibridi”, ovvero libri che al loro interno hanno rimandi e
connessioni ad altri media in grado di creare un legame tra più piani e strumenti narrativi.
Se già l’albo illustrato o un libro con figure rappresentano un incrocio tra codici diversi
all’interno di uno stesso supporto, l’inserimento nel test del link di collegamento a internet
o di QR Code, permette un’apertura nuova.
Interessante è l’operazione attuata da Patrick Carman nella saga Skeleton Creek. Quello
che dà inizio alla serie non è il primo romanzo a contenere link che rimandano a blog, ma
rappresenta un tentativo riuscito di incrocio tra editoria a stampa e internet. I protagonisti
della storia, i sedicenni Ryan e Sarah, vanno alla ricerca dell’assassino e, non potendo
comunicare direttamente tra loro a causa della momentanea malattia del ragazzo e del
divieto dei genitori a farli incontrare, trovano, e i lettori con loro, in internet un alleato. Il
web diventa per loro non solo uno snodo di informazioni, ma luogo nel quale rielaborare
idee, formulare ipotesi, individuare strategie. Sarah conduce le sue ricerche sul campo,
riprendendo le sue azioni con la videocamera e inviando a Ryan la password per accedere al
sito dove carica i filmati. Anche il lettore può usarle e guardare i video in rete. In questo
modo chi legge non solo può seguire l’evolversi della vicenda attraverso la lettura del diario
di Ryan (il libro) e la visione dei filmati caricati da Sarah, ma può anche partecipare
attivamente alla ricerca di indizi e prove.
I protagonisti permettono al lettore di varcare la soglia del racconto attraverso il web, di
entrare nella storia. Una storia ibrida sia perché contiene generi diversi (diario, horror e
thriller), sia perché sconfina continuamente dalla scrittura ad altri media; senza forzature,
usando Internet come prolungamento della pagina.
Il finale della storia lascia la scrittura: il diario di Ryan si conclude rimandando all’ultimo
video caricato sulla pagina web di Sarah, accessibile tramite la password indicata.
Altri esempi di ibridazione sono la graphic novel Golem di Lorenzo Ceccotti e la saga Berlin
di Fabio Geda e Marco Magnone. Golem contiene tantissimi contenuti nascosti attivabili
tramite tecnologia NFC. Ogni copia del volume contiene un chip in grado di attivare la
connessione tra libro e smartphone. Funziona come una lente d’ingrandimento magica.
Sfogliando il libro e guardando attraverso lo schermo del device, alcuni disegni attivano
collegamenti a pagine segrete. Sono contenuti interattivi, audio, video e fumetti.
La saga Berlin di Fabio Geda e Marco Magnone è un progetto narrativo complesso che
prevede molti prolungamenti narrativi della pagina scritta. I romanzi che compongono la
serie sono corredati, all’interno del sito web di riferimento, di documenti che permettono al
lettore di approfondire la conoscenza dei personaggi, della storia, della geografia, degli
aspetti antropologico – sociali che sottendono il mondo dove quelli si muovono.
Nonostante ci si trovi in una narrazione ambientata in una realtà dove la storia ha seguito
un corso diverso rispetto a quello che conosciamo, la ricostruzione di avvenimenti,
situazioni, caratteri e il loro approfondimento attraverso i diari dei protagonisti, le mappe
della città e gli archivi del giornale dove sono conservate le tracce di ciò che è accaduto a
Berlino prima che il virus uccidesse tutti gli adulti, lasciando l’umanità più giovane e
inesperta in balia di sé stessa e degli eventi, permette al lettore di abbracciare l’intero
mondo. Tendenza che si integra all’interno di un movimento narrativo che, grazie alla
crossmedialità, può esplorare ogni realtà, anche quelle più inquietanti e imprevedibili.
La paura che le tecnologie informatiche appiattiscono la narrazione e la scrittura e ne
banalizzano i contenuti, si scontra con opere capaci di cogliere le potenzialità della
contaminazione tra linguaggi, strumenti e media. Non tutte le produzioni sono eccellenti,
ma neanche le proposte dell’editoria a stampa tradizionale lo sono e lo sono mai state, ma
quando l’alchimia funziona, i risultati sono straordinari. La convivenza e il supporto che si
danno a vicenda tanti contesti narrativi, offre alle storie la possibilità di essere lette in modo
nuovo e più complesso, allargando il concetto di lettura non solo alle nuove tecnologie
digitali, ma a tutti quegli strumenti che, come la scrittura, per essere compresi e amati
devono essere codificati.

CAP. 16 – IL FANTASTICO E LA LETTERATURA PER L’INFANZIA: TRACCE E


PRESENZE NEGLI ULTIMI 3 DECENNI.
Di William Grandi

16.1 INSEGUENDO UNA BARCHETTA DI CARTA


Il 1987 è stato un anno importante per le narrazioni fantastiche in Italia. E per narrazioni
fantastiche si intendono tutte quelle storie (romanzi, fumetti e film) il cui carattere
prevalente è determinato dalla magia, dal meraviglioso, dall’orroroso.
Nel 1987 uscì in Italia la 1 traduzione di It, uno dei romanzi di Stephen King. È un libro
complesso, pieno di rimandi storici e riferimenti letterari. È molto apprezzato dai giovani
lettori che da subito sono diventati i principali fruitori delle storie di King. Si tratta di una
lotta tra una presenza assassina e un gruppo di ragazzini del New England che giurano di
combatterla, mantenendo questo patto anche quando diventano adulti. It non è solo un
racconto di una vera guerra tra un mostro alieno e alcuni bambini – adulti che vogliono
distruggere quell’abominio, ma è soprattutto la rappresentazione del potere dello sguardo
di alcuni ragazzini i quali, a differenza della maggior parte degli adulti, vedono gli orrori che
spesso caratterizzano la vita umana. E questo dato, dal punto di vista pedagogico, ci fa
riflettere. Il protagonista del romanzo è un essere informe e antichissimo chiamato “It”,
ovvero entità senza nome e forma. Quando it si rivela, assume aspetti vari e inafferrabili:
famosa è la sua apparizione sotto forma di clown. Probabilmente il suo aspetto più vero è
quello di un mostruoso aracnide che vive nascosto e dormiente nelle fogne sotterranee di
Derry nel Maine, l’immaginaria cittadina in cui si svolgono le vicende del romanzo, salvo
risvegliarsi a 28 anni per mangiare bambini, seminando lutti e timori che la popolazione
vuole dimenticare per quieto vivere fino alla strage successiva. Il romanzo inizia con il
mostro mascherato da clown che, nascosto nelle fogne, abbindola e agguanta un bimbo che
sta recuperando la sua barchetta di carta trascinata dall’acqua piovana in uno scarico lungo
la strada. It è parte dell’orrore quotidiano di bambini costretti a vivere nell’America della
Guerra Fredda tra razzismo, ipocrisia, conformismo, povertà e violenze. It è l’altra faccia
della medaglia di un’America apparentemente ricca che dagli anni 50 fino agli anni 80, in
parallelo con la trama del romanzo, nasconde molti orrori tra le pieghe serene e ricche della
Storia ufficiale. It, infatti, dal suo nascondiglio sotterraneo non si nutre solo di bimbi, ma
anche delle paure, degli inganni, degli abusi commessi dagli uomini di superficie. Paure,
inganni e abusi che avvelenano la vita degli adulti e dei bimbi: per uscire da questa
sofferenza, il romanzo dice che l’unica via è l’amicizia sincera tra pari, capace di resistere
agli anni e ai distacchi. L’efficace impianto narrativo horror del romanzo di King ha
inaugurato un filone nuovo nella letteratura per ragazzi, poiché It si propone come libro
crossover capace di rivolgersi sia agli adulti che agli adolescenti: entrambi i fruitori trovano
nel romanzo molti elementi narrativi in grado di tenerli avvinti alle pagine: da un lato King
sa dare alle sue storie un ritmo frenetico che genera curiosità, inquietudine; da un altro i
continui rimandi nella trama tra i personaggi bambini e le loro controparti diventate adulte,
invitano il lettore a riflettere su sé stesso, sulle sue paure, sulle sue attese, sui suoi ricordi. Il
romanzo It è un congegno letterario che funziona grazie ad una sottesa intuizione
pedagogica implicitamente espressa da King: un’intuizione secondo la quale le inquietudini
e le speranze dell’infanzia contribuiscono a dare forma ai percorsi e agli smarrimenti che
ritroviamo da adulti. Inoltre King obbliga lo scrittore adolescente o adulto a un bagno di
realismo: i mostri, di cui It è metafora, minacciano sempre l’esistenza e quindi l’unico modo
per affrontarli non è volgere lo sguardo altrove, fingere, ma avere consapevolezza degli
orrori quotidiani, affrontandoli con l’amicizia.
It è stato il discendente di una forma di narrazione horror che dagli anni 90 del 900 è
arrivata fino ai giorni nostri, influenzando l’immaginario collettivo e incontrando il favore di
diverse generazioni: prodotti televisivi di grande successo come la serie Twin Peaks o la
recente Stranger Things recuperano la lezione narrativa di King, incrociando temi horror e
contenuti fantascientifici e mostrando il rapporto contorto, spesso doloroso, che lega una
quotidianità apparentemente banale alle conseguenze penose del conformismo, della
bugia, del quieto vivere. In tutti e 3 la cornice rassicurante delle villette con il giardino e del
sogno americano nasconde a fatica lo spavento e la crudeltà che aspettano l’uomo appena
svolta l’angolo. E si tratta di pericoli che incombono sempre di più sui giovani e sugli
indifesi.
Ma l’immaginario fantastico – horror dall’ottobre del 1986 può contare anche su un’altra
figura che per alcuni versi riassume in sé tutte le sfaccettature delle narrazioni di paura: si
tratta del fumetto italiano Dylan Dog, creato da Tiziano Sclavi e pubblicato dalla casa
editrice Bonelli. Il fumetto dedicato all’investigatore dell’incubo è un prodotto raffinato,
capace di inaspettati rimandi letterari e di sottili ironie: tra zombie, mostri, morti e macabre
situazioni, il personaggio creato da Sclavi risolve i casi sui quali indaga con fine umorismo,
distacco e commozione. L’originalità di questa serie consiste nell’aver saputo far vedere che
la mostruosità e l’orrore non sono solo tra gli abitanti della notte (spettri o vampiri), ma tra i
normali che spesso nascondono inconfessabili verità, tristi passioni o pregiudizi.
Sotto molti punti di vista gli anni che ci separano dal 1987 hanno conosciuto diverse
stagioni di fantastico horror, si pensi alla saga cinematografica inquietante di Saw,
l’enigmista, molto seguita dagli adolescenti nei primi anni del 2000: eppure, almeno in
Italia, le invenzioni di King e i personaggi di Sclavi hanno continuato ad accompagnare e a
nutrire l’immaginario collettivo, mescolandosi anche con altri generi narrativi di tipo
fantastico. Infatti Stephen King ha esplorato dagli anni 80 anche il fantasy con il ciclo de La
torre nera, mentre Dylan Dog ha intrecciato più volte le sue avventure con quelle di Martin
Mystere, l’esperto di archeologia misteriosa, fate, alieni, leggende. Il genere che più di tutti
ha per molti versi caratterizzato questi ultimi 30 anni è stato quello fantasy.

16.2 OLTRE LE NEBBIE, UN INCANTO FEMMINILE


Attorno al 1986 viene pubblicato in Italia la traduzione di un grande romanzo fantasy uscito
negli Stati Uniti nel 1983: si tratta de Le nebbie di Avalon di Marion Zimmer Bradley.
Questo romanzo, di grande successo anche in Italia, ha rappresentato uno spartiacque nel
campo della letteratura fantasy, in quanto ha segnato una sorta di confine tra un prima e un
dopo all’interno di questa particolare tipologia di narrativa fantastica. Le nebbie di Avalon
sono una sorta di libro – sigillo che sembra completare e chiudere una stagione fantasy
precedente, mostrando diversi elementi della successiva fase di sviluppo di questo genere
letterario. Una fase in cui siamo ancora immersi.
Il romanzo racconta le storie e le vicende di Re Artù e del suo mondo, concentrandosi sul
trapasso delle vecchie credenze pagane incentrate sul culto della Grande Madre, della
magia e della natura, verso la nuova fede cristiana radicata sulla devozione verso il Dio
Padre, sulla paura del peccato e sulla condanna di incantesimi e riti ancestrali. L’antitesi tra
questi 2 diversi ordini di valori attraversa tutto il romanzo, segnando la vita dei protagonisti:
Artù e sua moglie Ginevra, per vari motivi, sentono su di loro il peso del peccato, mentre
Morgana, sacerdotessa del culto antico, avverte con malessere e ribellione la progressiva
disgregazione delle credenze pagane e del suo mondo di magia e meraviglie. Morgana
diventa grazie Marion Zimmer Bradley un’antagonista delle presenze cristiane e delle
tendenze patriarcali che sono avvertite come repressive, maschiliste e punitive. Questa
opposizione tra paganesimo e matriarcato, tra fede e magia aveva una derivazione
precedente, definitasi tra gli anni 60 e gli anni 80 del 900 grazie a scrittrici fantasy come
Sylvia Townsend Warner, Mary Stewart e Ursula Le Guin. Queste scrittrici produssero in
quel periodo diversi romanzi fantasy (e alcune di loro, anche fantascientifici) dove veniva
rivendicato l’importanza delle dimensioni magiche, intuitive, femminili e sensuali
dell’esistenza e della natura. Spesso in loro vi era la rivalutazione del paganesimo rispetto al
cristianesimo. Esse ribaltarono molti degli indirizzi tematici che avevano caratterizzato i
primi libri di questo genere: con Marion Zimmer Bradley e le altre autrici siamo lontani dal
machismo di Conan il barbaro che negli anni 30 era stato inventato da Howard; siamo
lontani dall’immaginario feudale, patriarcale, casto e solenne pensato da Tolkien per il
Signore degli Anelli pubblicato negli anni; e lo siamo anche dalle suggestioni evangeliche
presenti in tutte Le Cronache di Narnia di Lewis, sempre degli anni 50. Nei loro scritti essi
parlarono di magia in modo sorvegliato, prudente, arrivando a condannarla: ciò è
sorprendente se si pensa che senza magia un’avventura fantasy è impossibile. In Tolkien,
per esempio, quasi tutti gli incantesimi sono formulati da personaggi malvagi e gli oggetti
magici sono sempre maledetti. Da molti punti di vista le scrittrici si oppongono ai loro
predecessori.
Se chiediamo oggi ad un giovane lettore di libri fantasy di indicare quali racconti e quali
autori predilige, sicuramente citeranno Howard, Tolkien e Lewis, mentre difficilmente
citeranno Marion Zimmer Bradley e le altre. Tuttavia, qualcosa di queste ultime non è
scomparso nella produzione fantasy più recente: se infatti da un lato proprio Marion
Zimmer Bradley segna la fine di un’epoca con Le nebbie di Avalon, dall’altro lato quelle
istanze narrative legate al femminile, alla sensualità, all’intuizione, alla magia e al
paganesimo compaiono nelle storie fantasy che dagli anni 90 del 900 verranno proposte ai
giovani lettori con grande successo editoriale: non è un caso se nella saga di Harry Potter
viene ostentato un rapporto con la magia molto più naturale rispetto a quello più prudente
mostrato nei romanzi di Tolkien; allo stesso modo, non è un caso se Lyra, la protagonista de
La bussola d’oro di Pullman, parteggia per coloro che si oppongono all’oscurantismo
ecclesiastico del Magisterium. Non è un caso se le scene di sensualità disinibita e i temi
amorosi siano così importanti nella saga recente de Il trono di spade di Martin.

16.3 RIDERE DELLA MAGIA


Per quanto riguarda la differenza tra il fantasy precedente agli ani 90 e quello
contemporaneo, si provi a pensare all’epopea del Mondo Disco dello scrittore Terry
Pratchett: nel 1983 fu pubblicato il 1 romanzo, The Colour of Magic, di questa serie fantasy
composta di oltre 40 libri. Nel 1989 questo volume fu tradotto in italiano, aprendo ai lettori
italiani i cancelli per accedere ad un Altrove fantastico affascinante, comico e
sconclusionato. L’ultimo volume della saga è uscito nel 2015, qualche mese dopo la morte
dell’autore. Le prime caratteristiche letterarie evidenti sono l’umorismo grottesco, la satira
incalzante, il comico sfrenato. La serie del Mondo Disco è una parodia della solennità del
fantasy di Tolkien con i suoi eroi immacolati, i suoi discorsi aulici, le sue atmosfere elfiche.
Questo rovesciamento fatto da Pratchett sulla tradizione del fantastico tolkieniano
rappresenta un atto sovversivo, rivoluzionario, ma nonostante ciò è stato appoggiato anche
dai lettori che comunque continuano ad apprezzare anche Tolkien. Pratchett ha preso in
giro il manifestarsi di avventure del fantasy più tradizionale per ridere delle stupidità umane
e dell’apparente insensatezza del mondo. L’altrove di Pratchett è, come nei miti dell’India
antica, una terra piatta i cui bordi sono sostenuti da grandi elefanti che si appoggiano su
una grande tartaruga che viaggia nello spazio: si tratta di un mondo bizzarro, ma coerente
con le sue premesse leggendarie. Su quell’altrove così stranamente composto si muovono
personaggi buffi, goffi, non proprio puri, ma a volte capaci di slanci di eroismo e altruismo: i
suoi eroi, anche quando sono in grado di lanciare incantesimi o di duellare come guerrieri,
hanno debolezze, peccati o ingenuità da farsi perdonare, ma sanno anche essere generosi.
Quello che affascina il lettore di questi libri, spesso adolescente, è il tono umoristico,
scherzoso usato da Pretchett: un tono derisorio che porta l’autore a definire “miracoli
biologici” i piccoli draghi di palude, oppure a descrivere con felice realismo uno sporco bar
di troll con orchestrina e cocktail improbabili.
Con Pratchett siamo lontani dai guerrieri impeccabili e virtuosi di Tolkien e dalle
melanconiche e contemplative maghe – sacerdotesse di Marion Zimmer Bradley. Eppure gli
eroi di Mondo Disco hanno una loro serietà: sono spesso capaci di atti generosi, di bontà, di
amore e attenzione. Sotto alcuni aspetti sono proprio questi personaggi innocenti e incapaci
a dare un senso compiuto a un mondo che sembra avere poco senso. La tenerezza e lo
slancio dei buoni offrono al Mondo Disco di Pratchett frammenti importanti di realismo e
umanità.

16.4 UNO SCOMODO TRONO.


Uno dei fenomeni narrativi fantasy di più ampio successo in questi ultimi anni, sia da un
punto di vista editoriale, sia televisivo, è la saga de Il trono di spade dello scrittore George
Martin. Questa serie di libri ha visto la luce nel 1996, con diverse uscite di altri volumi negli
anni successivi: l’ultimo romanzo intitolato A Dance with Dragons è stato pubblicato nel
2011, ma l’autore sta scrivendo altri seguiti.
Rispetto al mondo di Pratchett, quello di Martin è molto più cupo, pericoloso, e sotto tanti
aspetti, tragico. L’altrove narrativo inventato dall’autore ricorda l’Inghilterra medievale
della guerra delle 2 rose, quando nel 400 alcune famiglie nobili si fronteggiarono per tanti
anni in un sanguinoso scontro per il possesso della corona inglese: anche nella saga de Il
trono di spade molte casate aristocratiche e potenti si sfidano, si alleano e si tradiscono in
una continua serie di conflitti, complotti e rovesciamenti per occupare il trono composto di
spade su cui si siedono i sovrani di Westeros (il continente – isola dove abitano le casate in
guerra). Ma questo mondo fantastico di Martin sembra fatto anche di frammenti di altri
eventi storici: il continente su cui avvengono gli scontri è separato dal mare da un altro
grande continente che ricorda l’Asia dell’antichità dove popoli nomadi feroci e predatori
convivevano accanto a raffinate e astute città – stato, dove l’immenso territorio
nascondeva pericoli e meraviglie, dove i commerci e le religioni si incrociavano e si
diffondevano lungo le rotte mercantili.
Martin ama le descrizioni attente e particolareggiate: nei suoi libri i dettagli sono spesso
definiti con una precisione che, tuttavia, aiuta il lettore a immergersi nella trama. Il
contorno di una spada, la forma di un castello vengono descritti in modo così convincente,
da rendere concreti i mondi fantastici in cui avvengono le avventure narrate.
La trama si snoda come una rete o una spirale, attorno alla lotta per il potere che le famiglie
aristocratiche più importanti sostengono l’una contro l’altra: sintetizzare questo affresco
narrativo è impossibile perché accanto alla storia delle battaglie e della politica, si
intrecciano le piccole storie umane e individuali dei singoli personaggi che soffrono, amano,
impazziscono, si arrabbiano, cercano sé stessi e muoiono.
Martin, tra i nuovi autori fantasy, è forse quello più erudito: i rimandi ai classici della
letteratura sono tanti, raffinati e sorprendenti per la loro perfetta corrispondenza con gli
episodi della trama della sua saga. Nelle sue pagine ci sono i riferimenti a Eschilo, Scott,
Machiavelli, Shakespeare.
È anche lo scrittore più originale e audace del panorama fantasy di qualità degli ultimi anni
proprio perché riesce a spiazzare il lettore: i suoi personaggi muoiono anche ingiustamente,
pur essendo buoni, anche se sembrano essere i protagonisti principali della trama. Essi non
ritornano più, una volta morti e quindi si contrappone al rassicurante ritorno dalla morte
che Tolkien ha inventato per il suo Gandalf dopo il duello mortale con il demone Balrog
nelle aule minerarie di Moria. Dei buoni di Martin, una volta morti, resta solo il ricordo, il
rimpianto e il desiderio di vendetta dei sopravvissuti. I buoni sono spesso condannati senza
pietà, i fanciulli possono essere mutilati da adulti insensibili, le profezie benevole non si
avverano, mentre le magie e le preghiere conseguono l’effetto richiesto in modo triste e
deforme, lasciando i mendicanti addolorati. Ma non per questo l’universo di Martin è
indulgente con i cattivi, perché anche i suoi personaggi malvagi vanno incontro a morti
crudeli, a umiliazioni, a perdite. In questo Altrove anche i cinici, i distaccati e gli opportunisti
non hanno una vita facile e devono ricorrere alla loro furbizia, a volte anche alla loro
umanità, per salvarsi. L’assenza di facili moralismi e il convincente realismo magico dei
racconti di Martin (trasposti recentemente in tv da alcuni sceneggiatori) toccano in modo
profondo l’immaginario di molti adolescenti che si immergono in questa saga.
16.5 GIOVANI EROI: HARRY POTTER E LYRA BELACQUA
Il piccolo mago uscito dalla penna di Joanne Rowling è il personaggio fantasy più noto a
livello globale degli ultimi decenni. La saga di Harry Potter, pubblicata tra il 1997 e il 2007, è
uno dei più vistosi esempi di crossover, ovvero di narrazione che interessa lettori e
spettatori di generazioni e culture diverse; tuttavia i romanzi di Rowling possono essere
intesi come crossover anche perché le loro trame attraversano e mescolano generi letterari
diversi, in quanto ogni avventura fantasy del piccolo mago ha sempre qualche elemento
tratto dall’’horror, dal giallo e dalla sit – com.
Lyra Belacqua è anch’essa un personaggio narrativo noto poiché è protagonista della
trilogia fantasy di successo pubblicata da Philip Pullman, Queste oscure materie: il 1
volume della serie, La bussola d’oro, uscì in lingua originale nel 1995 (l’anno dopo fu
tradotto in italiano) per poi essere trasposto in un film nel 2007.
Harry e Lyra hanno molte cose in comune: entrambi vivono le loro avventure in un Altrove
parallelo al nostro mondo, contrastano potenti e fanatiche fazioni tiranniche, intuiscono i
lati contradditori della magia e della vita, lottano per la salvezza degli amici, imparano a
conoscere la morte. I due personaggi, inizialmente a loro insaputa, sono entrambi sia dei
bambini salvifici, sia dei re nascosti: sono bambini salvifici perché sono gli unici in grado di
contrastare i piani dei cattivi e salvare il mondo dalla tirannide del Male; ma sono anche re
nascosti perché pur vivendo entrambi inizialmente in situazioni umili e grigie (Harry vive nel
sottoscala degli zii, Lyra abita in una stanza fredda di un college severo), in realtà essi sono
figli di persone importanti e quindi avranno ruoli di primo piano nel corso dello svolgimento
degli eventi. Con loro siamo lontani dalle solennità elfiche e cavalleresche di Tolkien, dal
maschilismo muscolare di Conan o dal feudalesimo tragico di Martin. Con le storie di
Rowling e di Pullman assistiamo ad un’originale rielaborazione dei “re bambini” di Narnia
creati da Lewis, ma osserviamo anche un recupero della magia intuitiva, naturale, pervasiva
descritta da Marion Zimmer Bradley nei suoi romanzi: come accade ai giovani principi –
bambini di Narnia, anche Lyra e Harry sono coinvolti in una lotta tra Bene e Male dai confini
incerti e a tratti metafisici; come accade alle maghe di Avalon create dalla Bradley, anche
Harry e Lyra imparano a gestire una magia che pare scorrere dalla natura e dalle passioni
umane. Richiamare immagini come quelle dei bambini salvifici, dei re nascosti, dei re
bambini, significa affidarsi a simboli antichi e suggestivi che evocano figure potenti.
Harry, Lyra e le antiche figure di infanzie divine hanno in comune la capacità di intrecciare il
loro destino con il meraviglioso, di combattere i malvagi, di affrontare la morte e di salvare
gli amici. Da un punto di vista pedagogico, è importante vedere la permanenza di queste
rappresentazioni antiche nell’immaginario collettivo e nell’immaginario giovanile odierno:
la narrazione fantasy infatti è una delle poche forme di racconto che parla all’infanzia e
all’adolescenza di temi perenni e ancestrali con una fluidità che li rendono ben accetti e
fruibili; viene quindi il sospetto che siano proprio quelle presenze antiche a decretare
l’odierno successo del fantasy tra i lettori più giovani. Guardando il panorama della
letteratura per l’infanzia degli ultimi 3 decenni, i libri che hanno indagato di più la morte,
tema molto sentito dall’infanzia, sono stati quelli fantasy. Il tema della morte si intreccia
con quelle presenze simboliche antiche: i bambini salvifici dei miti e delle religioni sono da
sempre portatori di un messaggio contro la morte. Oggi l’infanzia vive con la morte un
rapporto paradossale: da un lato viene negata dagli adulti che vogliono proteggere
l’infanzia, dall’altra i bambini incontrano facilmente la morte nei media dove viene
presentata in modo violento e spettacolarizzato. Ora, le imprese di Harry e le avventure di
Lyra sembrano offrire delle metafore comprensibili circa la morte che non può essere
negata e banalizzata. Nelle trame a volte ridondanti e un po’ stereotipate di questi romanzi
si possono spesso intravedere storie e metafore più complesse e coraggiose che danno
all’infanzia parole e immagini importanti che altrove non vengono offerte correttamente.
Duranti i primi anni del 2000 sono emerse importanti autrici italiane di fantasy per ragazzi
che hanno contribuito a rifondare questo genere narrativo, arricchendolo di contributi
importanti. Scrittrici come Silvana De Mari con il romanzo L’ultimo elfo del 2004 e Licia
Troisi con le Cronache del mondo emerso, uscite tra il 2004 e il 2016, hanno conosciuto un
grande successo internazionale: le loro opere hanno suscitato interesse anche da parte
della critica specializzata e sono state tradotte in molte lingue straniere (cosa rara nei libri
italiani per l’infanzia). Il piccolo elfo buono e magico di Silvana De Mari e l’indomita
guerriera di Licia Troisi sono re nascosti e fanciulli salvifici che vogliono conoscere il proprio
destino e salvare il mondo. La presenza costante di queste rappresentazioni metaforiche
anche nell’immaginario che scaturisce dal fantasy contemporaneo fa riflettere.

16.6 IL DISINCANTO E LA SPERANZA


Nel fantastico trovano spazio anche i racconti sul futuro e sulle prospettive preparate da
scienza e tecnologia. Quando si specula sul tempo futuro, l’immaginazione diventa
protagonista. La fantascienza è nata nella 2 metà dell’800 grazie alle fantasie fondate su
seri assunti scientifici di Jules Verne e di Herbert Wells: dal viaggio sulla luna immaginato
dall’autore francese fino all’invasione di marziani raccontato da Wells, molti dei principali
temi narrativi della fantascienza odierna sono stati proprio inventati da loro. Nei decenni
successivi la fantascienza ha conosciuto scrittori di diverso valore: accanto ad autori di
grande qualità e complessità come Lovecraft o Asimov, ce ne sono altri che ripropongono
sempre storielle stereotipate di alieni e astronauti per i lettori ragazzini che tra gli anni 30 e
50 del 900, negli Stati Uniti compravano le riviste pulp a poco prezzo, leggendone i fumetti
e i racconti fantascientifici lì contenuti. Dagli anni 60, forse in seguito al forte impatto
immaginativo che ebbero i filmati delle esplorazioni lunari, la fantascienza della carta si è
trasferita anche sullo schermo con serie televisive di grande successo (i primi telefilm di
Star Trek risalgono al 1966) e con saghe cinematografiche di grande impatto (il 1 film del
ciclo di Star Wars uscì nel 1977).
Dai primi anni del 2000 la fantascienza è rientrata nella carta stampata con un tema
specifico che caratterizza la maggior parte dei romanzi fantascientifici odierni, ovvero quello
della distopia. Con questo termine si indica una forma di racconto che immagina il futuro in
modo pessimistico e non consolatorio. Esempi di questa forma narrativa sono i romanzi
Hunger Games di Suzanne Collins, Divergent di Veronica Roth, Feed e Paesaggio con mano
invisibile di Matthew Tobin Anderson. Questi libri raccontano di un futuro disperato. Tutti
narrano in forme diverse la stessa storia: il futuro che ci aspetta non sarà il paradiso
promesso da politici, economisti e scienziati, ma sarà un inferno di fame, di degrado, di
infelicità. La città grigia e disperata del romanzo Divergent, l’America inquinata e
consumista di Feed e il mondo del 2 romanzo di Andersen, invaso da alieni – mercanti che
comprano i sentimenti umani di ragazzi costretti dalla miseria a fingere amori impossibili in
assurdi reality – show: queste sono le immagini distopiche dei possibili futuri che ci
aspettano; si tratta di metafore inquietanti che sembrano avere il compito di avvertire le
giovani generazioni di lettori a non dare per scontata la libertà che hanno, a essere pronti a
ribellarsi. Questi impliciti inviti che i romanzi fantascientifici e distopici odierni rivolgono ai
giovani lettori hanno un forte connotato pedagogico: Antonio Faeti ci dice che pedagogia e
fantascienza sono molto vicine perché entrambe oscillano tra pessimistici avvertimenti e
ottimistiche progettualità.
Il fantastico è una delle presenze narrative più importanti di questi ultimi 3 decenni: dal
1987 con It di Stephen King fino al recente romanzo di Anderson, passando per Harry Potter
e Hunger Games, questa tipologia di racconto ha attraversato in modo intenso gran parte
delle narrazioni per le giovani generazioni: per alcuni versi si tratta della tipologia di fiction
più radicata nell’immaginario contemporaneo. Sono racconti in grado di presentare
metaforicamente le paure, i pericoli, i desideri che più ci riguardano. E forse sono proprio
queste allusioni a consentire una più decisa presa di coscienza dei problemi attuali. Come
diceva Chesterton, si raccontano fiabe per insegnare che i draghi possono essere sconfitti.

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