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Gianni Pittiglio

A TAVOLA DALL’ANTICHITA’
AL RINASCIMENTO: CIBI,
STRUMENTI E TRADIZIONI
NELLE OPERE D’ARTE

in

aprile 2019

On line

https://www.spiweb.it/dossier/le-stagioni-del-cibo-aprile-
2019/gianni-pittiglio-arte-tavola-medioevo-rinascimento/
A TAVOLA DALL’ANTICHITA’ AL RINASCIMENTO: CIBI,
STRUMENTI E TRADIZIONI NELLE OPERE D’ARTE
Gianni Pittiglio

La tavola imbandita, nel nostro immaginario, ri-


manda immediatamente ad una concezione di casa
e familiarità o quantomeno di convivialità, come
testimoniano eloquentemente i prefissi di “con-
vivio” e “sim-posio”, termini che in latino e greco
indicano proprio quell‟idea di stare “insieme”. Se,
però, proviamo a pensare alla sua prima raffigura-
zione nella storia, l‟ovvietà si trasforma in un bel
quesito storico, che vale la pena scandagliare.
Tralasciando alcune raffigurazioni egizie ed etru-
sche, partiamo dall‟età classica e da quella fonte
iconografica pressoché inesauribile rappresentata
dagli affreschi di Pompei, che ci raccontano gli usi
e i costumi culinari degli antichi romani attraverso
le immagini. È lì, infatti, che troviamo scene di ban-
chetti che ci mostrano ricchi uomini in tunica, e
donne al loro fianco, adagiati su triclini, o tavole
ricche di stoviglie preziose (figg. 1-3). Siamo nel
primo secolo dopo Cristo – l‟incendio che devastò
ma allo stesso tempo permise di conservare quel
patrimonio in maniera così unica avvenne nel 79 – e
il vino è indubbiamente il grande protagonista di
queste scene. Anfore, boccali, coppe sono poggiati
sui tavoli o stretti tra le mani dei commensali, in
composizioni in cui le licenze bacchiche fanno da
contorno a quanto rappresentato.
Una testimonianza eccezionale, invece, è quella del
sito archeologico di Egnazia, in Puglia, a metà stra-
da tra Bari e Brindisi sul versante adriatico, dove
nel 1978 venne trovata una terracotta risalente al II-
III a.C. raffigurante una scena di Banchetto funera-
rio (fig. 4), altra consueta occasione nella Grecia
antica e nella Roma imperiale per simposi, durante i
quali si celebravano i defunti alternando al cibo,
canti, danze e dialoghi eruditi. Quelli che in epoca
pagana erano noti come parentalia vennero poi mu-
tuati dai cristiani e presero il nome di refrigeria,
stigmatizzati come retaggi pagani dai padri della
Chiesa, tra cui sant‟Agostino – «ebrietates et luxu-
riosa convivia» (Epistulae, XX, 6) –, furono sop-
pressi dal Concilio di Cartagine del 397.
Allo stesso tempo, però, la pittura classica ha con-
servato anche una serie di nature morte, diremmo
oggi, con un‟espressione seicentesca invalsa fino a
Figg. 1-3 - Pompei, Scene di banchetto e tavola noi, quelle still life degli inglesi o bodegàn per gli
imbandita, I d.C. spagnoli, che all‟epoca erano semplicemente degli
xenia, i doni di ospitalità scambiati vicendevolmen-
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Fig. 4 - Egnazia, Scena di banchetto, II-III a.C.
Figg. 5-6 - Pompei, Xenia con fichi e con pesci, I d.C.
Figg. 7-8 -Asaroton, I d.C., Musei Vaticani e Museo Nazionale di Aquileia

te tra chi accoglieva e chi veniva accolto, segno tangibile dell‟inclinazione spirituale del mondo
greco a riguardo. Ne restano vari esempi nelle pittura pompeiane, con ceste o vasi di fichi, noci,
pere, uva, formaggi e latte, ma anche con lepri, anatre, pesci, pane, castagne, ecc. (figg. 5-6).
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Fig. 9 - Banchetto, I d.C., Castello di Boudry

Fig. 10 - Caravaggio, Canestra di frutta, 1594-


98, Milano, Pinacoteca Ambrosiana

Rientrano nella stessa categoria i cosiddetti “pavimenti non spazzati”, gli ἀσάρωτονοἶκος, o
semplicemente ἀσάρωτον, mosaici pavimentali che riproducevano scarti di cibo per committenti
che in questo modo ostentavano la propria ricchezza. Risaliva al II a.C. quello che Plinio il
Vecchio descrive nella città di Pergamo, creato dall‟artista Sosos, purtroppo perduto, ma ce ne
restano altri due esempi: uno trovato a Roma nella Vigna Lupi, della stessa epoca, oggi ai Musei
Vaticani, in cui vediamo resti di pollo, ricci di mare, verdure, frutta secca e persino un topolino
che sta per mangiare una noce; l‟altro proveniente dal Foro di Cesare di Aquileia, del I a.C., oggi
al Museo Nazionale, con lische di pesce e molluschi oltre quanto già presente nell‟altro (figg. 7-8).
Un esempio di come durante un banchetto fosse pratica comune gettare i resti a terra è visibile in
un mosaico di III secolo, conservato nel castello di Boudry, in Svizzera, che mostra un gruppo di
commensali romani mangiare grossi tacchini e bere dalle bottiglie, rigorosamente sdraiati, mentre

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il pavimento è disseminato di ossi,
lische, ecc., per la felicità di un gatto che
si aggira nella sala (fig. 9).
Se di nature morte si tornerà a parlare
solo a partire dalla fine del Cinquecento
e, ancor meglio, nel Seicento, spesso con
riferimento alla vanitas insita nella
corruttibilità e deperibilità del cibo – si
pensi alla famosa Canestra di frutta che
Caravaggio dipinse per Federico
Borromeo (fig. 10) – il passaggio dal
paganesimo al cristianesimo come
religione dominante, naturalmente,
modificò profondamente i contesti
figurativi e, per vedere scene con tavole
apparecchiate e cibo, bisogna soprattutto
cercare nelle storie vetero e
neotestamentarie. Fatta, quindi,
eccezione per alcuni clamorosi affreschi
con i Banchetti degli dei (es. Raffaello a
Villa Farnesina, Giulio Romano a
Palazzo Te, i Carracci a Palazzo Farnese,
ecc.), la mente va a soggetti quali
l‟Ospitalità di Abramo, il Convito di
Baldassarre e quello di Assalonne, le
Nozze di Cana, la Moltiplicazione dei
pani e dei pesci, e, principalmente,
l‟Ultima Cena, il più frequente di tutti.
Le origini iconografiche della tavolata
più celebre della storia dell‟arte sono
riscontrabili nelle catacombe romane,
dove negli arcosoli di alcuni cubicoli si
ripete l‟immagine del “banchetto
celeste”, equiparato all’agape, parallelo
ebraico-cristiano del simposio pagano,
dal quale però si differenziava nel
consumo di vino. L‟immagine riprendeva
Fig. 11-13 - Cene, Roma, Catacombe dei SS. Pietro e Marcelli-
le parole evangeliche di Matteo, «il regno
no, Catacombe di San Callisto; Catacombe di Santa Priscilla
di Dio è simile a un re che fece un ban-
SS. Pietro e Marcellino
chetto di nozze per suo figlio» (22, 2), e
di Luca, «beato chi mangerà il pane nel
regno di Dio». Nelle catacombe dei SS. Pietro e Marcellino (fig. 11), infatti, alla mensa compaiono
tra gli altri Agape e Irene, due fanciulle i cui nomi, Amore e Pace in greco, fanno supporre per loro
una valenza allegorica di virtù nel Paradiso. Nelle catacombe di San Callisto e in quelle di Santa
Priscilla, invece, i commensali sono sette, un dettaglio che ha fatto ipotizzare sia rappresentata la
fractio panis effettuata da Cristo sulla riva del lago di Tiberiade, durante la terza apparizione suc-
cessiva alla Resurrezione, che i vangeli descrivono avvenuta proprio davanti a sette apostoli (figg.
12-13).
Ma cosa appare a tavola nelle raffigurazioni dell‟Ultima Cena?
La presenza di pane e vino è dominante per la loro connessione eucaristica al corpo e al sangue di
Cristo, ma il primo è spesso elemento basilare per evidenziare la figura di Giuda, cui è destinato il
boccone offerto da Gesù, che nei vangeli precisa «colui che mangia il pane con me, ha levato con-
5
Fig. 14 - Ultima Cena, Rossano Calabro, 550 ca., Muse-
o Diocesano, Codex Purpureus Rossanensis, f. 3r

Fig. 15 - Ultima Cena: Messale Nardini, 1462, Milano,


Biblioteca Capitolare

Fig. 16 - Ultima Cena, Maestro del Libro di Casa, Polit-


tico della Passione, 1480 ca., Berlino, Gemäldegalerie

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Figg. 17-18 - Ultima Cena:

Ravenna, Sant‟Apollinare Nuovo, inizio VI


secolo

Dittico delle cinque parti), Milano, Museo


del Duomo, fine V secolo

tro di me il suo calcagno» (Gv 13,18), oppure «colui che ha intinto con me la mano nel piatto,
quello mi tradirà» (Mt 26, 23; Mc 14, 17-20).
E non a caso proprio con la mano nel piatto è colto Giuda, non altrimenti riconoscibile, nella mi-
niatura del Codex purpureus di Rossano Calabro, capolavoro librario bizantino contente un vange-
lo illustrato (metà VI sec.), nel quale Gesù e i dodici apostoli appaiono sdraiati, un dettaglio che
testimonia ancora l‟abitudine di mangiare distesi tipica dell‟antichità (fig. 14).
Va detto, inoltre, che l‟apostolo traditore è identificabile, a seconda dei casi, anche perché privo di
aureola o caratterizzato da un nimbo scuro attorno alla testa; rosso di capelli, mancino e dal naso
adunco; seduto dalla parte opposta della tavola; con una sacca di denari in evidenza; vestito di
giallo, il colore dell‟infedeltà, o persino con l‟altrettanto “infedele” gatto nei suoi pressi, che tal-
volta cattura la sua attenzione più delle parole di Gesù.
In molti casi nel piatto principale posto davanti a Cristo c‟è l‟agnello, animale sacrificale per anto-
nomasia e, soprattutto, pasto tradizionale della Pasqua ebraica, il Pesach, festa che celebra la libe-
razione degli Ebrei dall‟Egitto grazie a Mosè (figg. 15-16), nonché occasione in cui si svolge
un‟altra famosa cena evangelica, quella in Emmaus. La pietanza che poi divenne l‟Agnus Dei nella
tradizione cristiana, però, non è l‟ultimo dei simboli posti sulla tavola dell‟Ultima Cena, perché,
soprattutto in età paleocristiana e altomedievale, non è raro che in quel piatto siano collocati uno o
più pesci. Rappresentano un caso esemplare di questa iconografia il mosaico del ciclo sulla vita di
Cristo nella basilica di Sant‟Apollinare Nuovo a Ravenna (fig. 17), dove Gesù e gli apostoli sono
sdraiati come nel codice di Rossano, e il precedente più immediato, anch‟esso bizantino, di queste
scene dette “a sigma”, per la loro conformazione a semiluna, l‟eburneo Dittico delle cinque parti
del Museo del Duomo di Milano, dove però i personaggi sono solo quattro (fine V sec.; fig. 18).
La presenza del pesce, però, non ha nulla di filologico, e va considerata in relazione alla paro-
la greca ιχθύς, usata dai primi cristiani come acronimo devozionale che sta per Ἰησοῦς
Χριστός Θεοῦ Υἱός Σωτήρ (Iēsous Christos, Theou Yios, Sōtēr = Gesù Cristo, figlio di Dio,
Salvatore), un‟equivalenza onomastica ben sintetizzata da sant‟Agostino nel De civitate Dei
(XVIII, 23): «se unisci le prime lettere delle cinque parole greche che significano “Gesù Cristo
Figlio di Dio Salvatore” risulterà ichthýs, cioè “pesce”: è il nome con cui si intende
simbolicamente Cristo, perché ha potuto rimanere vivo, cioè senza peccato, nell‟abisso della
condizione mortale come nella profondità delle acque».
Non deve invece sorprendere che, nel corso del Medioevo, la tradizione iconografica ormai
codificata permetterà l‟affermazione dell‟immagine dei commensali seduti e non più sdraiati o
l‟inserimento di pietanze diverse, mentre
sarà molto più ostica l‟introduzione tra le
posate, oltre che del consueto coltello,
della forchetta. Quest‟ultima, infatti,
verosimilmente inventata nell‟impero
bizantino intorno al IV d.C., si diffuse in
Occidente non prima dell‟XI secolo, epoca
in cui è testimoniata soprattutto in immagini
di banchetti profani illustrati nei manoscritti
(figg. 19-20), mentre è rarissimo trovarla
nelle Ultime Cene (fig. 21).
Per spiegare questa particolarità va
ricordato che quell‟oggetto, oggi ritenuto
assolutamente comune, venne fortemente
osteggiato dalla morale ecclesiastica
perché considerato strumento di mollezza
demoniaco. San Pier Damiani giunse
persino a considerare una punizione divina
per l‟uso della forchetta la morte della
principessa bizantina Teodora (497-548):
«Non toccava il cibo con le mani ma dagli
eunuchi lo prendeva in piccolissimi
pezzetti e subito dopo con una forchettina
d‟oro a due rebbi, lo avvicinava alla bocca
con fare schizzinoso». Ed è ancora più e-
splicativa, in tal senso, la descrizione di
una tavola imbandita da parte di Lotario
dei Conti di Segni, futuro papa Innocenzo
III che, sul finire del XII secolo, scrive nel
suo De miseria humanae condicionis:
«cosa c‟è di più vano che ornare la mensa
con tovaglie decorate, con coltelli dal ma-
nico d‟avorio, con vasi d‟oro, con ciotole

Figg. 19-20 - Banchetti, Abbazia di Montecassino, ms. Casin. 132 (Rabano Mauro, De Universo), ff. 408r, 515r, XI secolo
Fig. 21 - Cena con Cristo e 11 apostoli, già Strasburgo - Bibliothèque Municipale, Herrad von Hohenbourg, Hortus
deliciarum, f. 167r, 1175 ca.
Figg. 22-24 - Ultima Cena:
- Jacopo Bassano, 1546, Roma, Galleria
Borghese
- Duccio di Buoninsegna, 1308, Siena,
Museo dell‟Opera del Duomo
- Domenico Ghirlandaio, 1480, Firenze,
Ognissanti, part.

d‟argento, con coppe e bicchieri,


crateri e catini, con scodelle e cuc-
chiai, con forchette e saliere, con
bacili e orci, con scatole e venta-
gli?».
Tornando invece alle Ultime Cene
e ai cibi in esse rappresentate,
l‟agnello verrà talvolta ridotto a
sineddoche, ponendo nel piatto la
sola testa, come in un dipinto di
Jacopo Bassano (fig. 22), altre vol-
te al suo posto verrà preferito un
maiale da latte, come ad esempio
nel ciclo di Duccio da Buoninsegna
sul retro della sua Maestà senese
(fig. 23). Più avanti nel tempo, in-
vece, già in età rinascimentale, in
altri spazi della tavola ci sarà posto
per mele, in riferimento al peccato
originale, ciliegie, il cui colore ri-
manda alla Passione di Cristo: è il
caso di Domenico Ghirlandaio (fig.
24). Sono rossi anche i gamberi di
fiume che, soprattutto in area vene-
9
Fig. 25-26 - Antonio, Battista e Giovanni Baschenis, Ultime Cene,Carisolo e Rumo (Trento), 1461 e 1471

ta e lungo la dorsale alpina fino al Ticino, fanno la loro comparsa nella scena cristologica tra Quat-
trocento e Cinquecento, anche se un primo esempio risale al XIII secolo nella Francia settentriona-
le (figg. 25-26). Tale presenza è stata spiegata attraverso numerose interpretazioni: secondo alcuni
studiosi avrebbero un intento antisemita (i gamberi camminano a ritroso, così come fanno coloro
che rifuggono la verità di Cristo); per altri, al pari di altri crostacei – come con l‟aragosta nella Ce-
na in Emmaus di Giambattista Langetti a Milano (fig. 27) –, acquisiscono quel colore rosso dopo
la cottura, per alcuni mistici medievali
equiparabile al sacrificio di Cristo ri-
sorto rifulgente di luce che ha sconfit-
to la morte; infine, i gamberi sarebbe-
ro connessi al segno zodiacale del
Cancro (con Cancer / Karkinos può
essere indicato qualsiasi crostaceo),
segno del solstizio d‟estate e, quindi,
simbolo di Cristo Chronocrator signo-
re del tempo, secondo quanto stabilito
dalla teologia d‟età romanica.
È, inoltre, una summa di tanti elementi
simbolici, gamberi compresi, la straor-
dinaria cappella dedicata all‟Ultima
Cena del Sacro Monte di Varallo, le
cui sculture di fine „400 della bottega
lombarda dei De Donati, prevedono
sulla tavola anche diversi frutti e i pa- Fig. 27 - Giambattista Langetti, Cena in Emaus, 1660-75 ca., Mi-
leocristiani pesci (fig. 28). lano, Museo di San Fedele

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Figg. 28-29 - Bottega De Donati, Ultima Cena, fine XV secolo,
Varallo, Sacro Monte;
Quentin Metsys, Madonna col Bambino, 1500-10 ca,, Berlino,
Gemaldegalerie

La simbologia cristica, naturalmente, appare anche altrove, e in particolar modo nelle Madonne
col Bambino, in cui il rosso delle ciliegie, dei pettirossi, del corallo domina tra i dettagli delle
composizioni.
Almeno in un caso, inoltre, quello di Quentin Metsys di Berlino (fig. 29), vi troviamo, oltre a que-
sti elementi e al pane eucaristico, anche un inconsueto panetto di burro, da intendere come deriva-
to del latte materno.
Parlando ancora di Ultime Cene, invece, è imprescindibile affrontare alcune questioni di iconogra-
fia tipologica. Con questa espressione, infatti, ci si riferisce all‟associazione di passi veterotesta-
mentari e del Nuovo Testamento, di cui i primi sono considerati una diretta prefigurazione. Una
necessità che la dice lunga sulle difficoltà di mettere in relazione le due parti della Bibbia, di fatto
scritte per due religioni differenti.
Si pensi al clamoroso caso di San Giorgio Maggiore a Venezia, per il cui presbiterio tra 1592 e
1594 Jacopo Tintoretto dipinse la Raccolta della manna sulla parete sinistra e l’Ultima Cena su
quella destra, due soggetti che senza la conoscenza dell‟iconografia tipologica non avrebbero ra-
gione di essere accoppiati (figg. 30-31). L‟episodio della raccolta della manna, inserito sia in Eso-
do (16, 1-36) che in Numeri (11, 1-9), narra della miracolosa apparizione di questa sostanza depo-
sitatasi a terra durante la notte descritta come rugiada, sottile, bianca come il seme di coriandolo e
paragonata al bdellio, una gommoresina tratta da piante asiatiche e africane. Gli israeliti raccolse-
ro il dono che il Signore promise a Mosè per sfamare il suo popolo, lo lavorarono e l‟impastarono
ricavandone focacce dal sapore di pasta all‟olio, riuscendo a sopravvivere al periodo di carestia
durante il loro viaggio dall‟Egitto alla terra promessa.
A fare da contraltare alla tela, come detto, compare forse la più celebre delle Ultime Cene di Tin-
toretto, caratterizzata da una composizione diagonale fortemente innovativa, in una scena abitata
da molti più personaggi dei tredici tradizionali, e arricchita, nella lunga tavola, da numerosi piatti,
bottiglie e calici, che vanno ben oltre l‟essenziale pasto a cui siamo abituati. Il pittore veneziano,
infatti, inserì dei servitori intenti a portare o a rigovernare stoviglie; tra le pietanze, oltre al pane,
aggiunse una serie di piatti ricolmi di frutti e due con quelle che sembrano a tutti gli effetti delle
torte con candeline, a cui finora la critica non è riuscita a dare una spiegazione se non ipotizzando
semplici motivazioni luministiche, e che peraltro compaiono anche circa vent‟anni prima
nell‟Ultima Cena di Pomponio Amalteo dei Musei Civici di Udine (fig. 32).
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Figg. 30-31- Jacopo Robusti, detto Tintoretto, Raccolta della manna e Ultima Cena,1592-1594, Venezia, Chiesa di
San Giorgio Maggiore

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Fig. 32 - Pomponio Amalteo, Ultima Cena,1594, Udine, Musei Civici

Fig. 33 - Dierik Bouts, Polittico dell’Ultima Cena, 1464-68, Lovanio, Collegiata di San Pietro

Non è invece un caso che Tintoretto dipinga in primissimo piano anche un povero mendicante, ele-
mento basilare per i dettami controriformistici del tempo: la Chiesa cattolica, infatti, durante il
Concilio di Trento, attraverso la dottrina della giustificazione (1547), aveva stabilito che un buon
fedele doveva guadagnarsi la salvezza eterna attraverso opere e fede e non solamente con la secon-
da, come propagandato invece dai riformati, motivo per cui nei dipinti proliferarono scene come
questa, che mettevano in evidenza gesti caritatevoli.

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Fig. 34 - Leonardo da Vinci, Ultima Cena,1495-98, Milano, Santa Maria delle Grazie, refettorio

E agli stessi dibattiti religiosi rimanda anche il particolare di Giuda che indica, unico tra gli apo-
stoli, la bottiglia di vino, in un ennesimo dettaglio decisamente per i fedeli del tempo… Qui, infat-
ti, e in diverse Ultime Cene del secondo Cinquecento, attraverso questo espediente, il traditore per
antonomasia viene equiparato agli eretici riformati, che prevedevano la comunione per i laici sotto
le due specie (pane e vino), mentre il Concilio di Trento nel 1551 aveva stabilito per loro solo la
comunione sub specie panis.
Tornando all‟iconografia tipologica e al cibo, però, non si può tralasciare l‟ancor più complesso
caso del Trittico dell’Ultima Cena, capolavoro del fiammingo Dierik Bouts, allievo del più celebre
Rogier Van der Weyden, filologicamente ambientata nella stanza al piano superiore di un edificio,
in latino coenaculum (Lc 22, 12; Mc 14, 15; fig. 33).
Realizzato tra 1464 e 1468, per la collegiata di San Pietro a Lovanio (Leuven o Louvain a seconda
delle varie lingue), e pagato da una sottoscrizione popolare, oltre alla scena principale mostra sui
due sportelli quattro soggetti veterotestamentari che ben si accordano con la cena evangelica, qui
rappresentata col piatto vuoto, segno inequivocabile che l‟oggetto del sacrificio sarà Cristo: la
Raccolta della manna, di cui si è già detto; l’incontro di Abramo e Melchisedec, con quest’ultimo
che offre pane e vino al patriarca (Genesi 14, 18); la Celebrazione del Pesach, la già citata Pasqua
ebraica che commemora l‟uscita del popolo ebraico dall‟Egitto (Esodo), con a tavola agnello e pa-
ne; Elia nel deserto, che riceve del pane per intervento divino (1 Re 19, 4-8).
Come chiudere questo inevitabilmente parziale excursus se non con l’immagine più celebrata di
sempre tra le cene evangeliche? Il Cenacolo del refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano
(fig. 34) fu un esperimento mal riuscito di Leonardo che, amando dipingere con lentezza, evitò la
tecnica a fresco che lo avrebbe costretto ad essere rapido e lavorò a secco, con l‟intonaco asciutto,
usando troppo legante. Pertanto, proprio quello che per noi è solo un alimento, l‟uovo, fu probabil-
mente una delle cause maggiori del veloce deperimento del dipinto, che dopo vent‟anni aveva per-
so già gran parte della sua bellezza e che, ancora nel XXI secolo, costringe restauratori e addetti ai
lavori a fare miracoli per conservarne almeno qualche traccia ai posteri.
Non sono quasi più visibili i dettagli dell‟opera eppure, grazie a lacerti di intonaco e copie succes-
sive, sono stati identificati come pesci quelli contenuti nei piatti gli apostoli (leggi), in base a una
tradizione iconografica di cui si è già detto, e ancora una volta è Giuda il discepolo iconografica-
mente più interessante:è lui che nella sorpresa causata dalla frase di Gesù, «uno di voi mi tradirà»,
indietreggia colpevolmente e fa cadere la saliera, come avviene anche in altri dipinti omologhi
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(altro esempio lombardo è
nell‟affresco di pochi anni
dopo di Altobello Melone
nel Duomo di Cremona,
fig. 35).
Il sale nell‟Antico Testa-
mento ha un alto valore
simbolico, segno di lega-
me, amicizia e riconcilia-
zione, farlo cadere e spre-
carlo è, quindi, l‟esatto
opposto. Nel Levitico, 2,
Fig. 35 - La saliera rovesciata da Giuda (dettagli Ultime Cene): Giampietrino 13, «E ogni oblazione che
(copia da Leonardo), 1520, Oxford, Magdalen College; Altobello Melone, Ulti- offrirai, la condirai col sa-
ma Cena, 1516-18, Cremona, Duomo le, e non lascerai la tua
oblazione mancar di sale,
segno del patto del tuo Dio. Su tutte le tue offerte offrirai del sale»; oppure in Giobbe 6, 6, «Si può
egli mangiar ciò che è scipito e senza sale?». Anche in contesto evangelico, infine, Cristo dice ai
discepoli «voi siete il sale della terra…» (Mt 5, 13). Ancora oggi far cadere il sale è scaramantica-
mente un cattivo presagio, come d‟altronde essere in tredici a tavola.
Il Cenacolo di Leonardo, come tutte le opere d‟arte, è prima di tutto un documento storico e, in
virtù di questa funzione, veicolava significati di un contesto che spetta a noi ricostruire, consape-
voli che spesso quei significati si sono mantenuti integri fino ai nostri giorni.

Bibliografia:

Adele Campanelli (a cura di), Alle origini del gusto: il cibo a Pompei e nell’Italia antica, catalogo
mostra (Asti, Palazzo Mazzetti, 7 marzo - 5 luglio 2015), Venezia, Marsilio, 2015.

Valeria Cobianchi, Dal banchetto romano al desco barbarico, in «Forma Urbis», giugno 2015
https://lastoriaviva.it/dal-banchetto-romano-al-desco-barbarico-un-articolo-di-valeria-cobianchi-
per-forma-urbis/

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freschi delle chiese campestri delle Alpi e Prealpi orientali fra XIII e XVII secolo, in «Vultus ec-
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