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FORLIVESI, “Politica e scienza tra XVI e XVII secolo: gli


esempi di Cesare Cremonini e Galileo Galilei,” Atti e memorie dell’Accademia Galileiana
di Scienze, Lettere ed Arti già dei Ricovrati e Patavina, 125 (2012-2013), forthcoming.

POLITICA E SCIENZA TRA XVI E XVII SECOLO 1

MARCO FORLIVESI

Politica e scienza tra XVI e XVII secolo:


gli esempi di Cesare Cremonini e Galileo Galilei

Introduzione
Gli studi storici dedicati al sorgere della scienza moderna, e spe-
cificamente al ‘caso Galilei’, hanno dedicato molta attenzione alla
questione del rapporto tra scienza – o nuova scienza – e religione.
Un’attenzione un poco minore è stata invece dedicata alla questione
del rapporto tra scienza e politica. È questa, ovviamente, una questio-
ne strettamente connessa alla prima, nondimeno essa possiede anche
una propria specificità e rilevanza. Come scriveva Lorenzo Bellini a
Marcello Malpighi nel 1689,

Siamo uomini, ed alligati officiis. La maggiore, e miglior parte della naturale genia-
lità d’ognuno di noi s’ha da consumare e smarrire per le convenienze del mondo, le
quali, se ben sembrano vanità, pur son necessarie pel buon governo di questa scena
universale. Viva dunque la scena, e in questa scena facciam anche noi la parte nostra,
or da filosofi, or da zanni or da ciarlatani, e che so io qualis magistro probata fuerit.1

Il presente studio è dedicato al modo in cui il rapporto tra scienza


e politica fu affrontato e gestito da due personalità di spicco, oltre che
in relazione tra loro, del primo Seicento. La prima è quella di Galileo
Galilei; la seconda è quella di colui che è passato alla storia come una

(1) Lorenzo Bellini, lettera a Marcello Malpighi, 19 ottobre 1689, in Gaetano


Atti, Notizie edite ed inedite della vita e delle opere di Marcello Malpighi e di Lorenzo
Bellini, Bologna, Tipografia della Volpe, 1847, pp. 539-541: 541. Il testo è riportato e
commentato già da Maria Luisa Altieri Biagi, Introduzione, in Scienziati del Seicento, a
cura di M.L. Altieri Biagi - B. Basile, Milano - Napoli, Ricciardi, 1980, p. XV. Sul tema
dell’esigenza – o almeno del desiderio – degli uomini di scienza dello ‘stare al secolo’, cfr.
ad esempio Emanuele Zinato, Introduzione, in La scienza dissimulata nel Seicento, a cura
di Id., Napoli, Liguori, 2005, pp. 25-41, e la bibliografia ivi menzionata.
2 MARCO FORLIVESI

sorta d’immagine capovolta del grande scienziato: Cesare Cremonini,


docente di filosofia naturale in Padova dal 1590/91 al 1630/31. Non
ci si aspetti dal presente scritto notizie su fatti che non siano già noti:
una lunga serie di studiosi ha già fatto luce, benché non sempre senza
divergenze, sulle vicende di cui questi due pensatori furono protagoni-
sti. Semplicemente, si porrà al centro dell’attenzione quanto si è detto:
il loro rapporto con l’ambito della politica.
Ricapitoliamo innanzi tutto in breve le biografie dei nostri autori,
cominciando dal più anziano. Cremonini nacque da una famiglia di
origine cremonese a Cento, un paese tra Ferrara, Modena e Bologna
soggetto, al tempo della nascita del nostro autore, alla signoria degli
Este. Il giorno della sua nascita non è noto; è noto, invece, che fu
battezzato il 22 dicembre 1550. Dopo aver studiato lettere umane, in-
traprese lo studio del diritto, che però – secondo quanto scrisse molti
anni dopo – mosso dal desiderio di «veder lunge, e d’intender a dentro
la cagion de le cose»2 lasciò per gli studi filosofici. Lo Studio ove si
formò non è noto con certezza. Secondo quanto Cremonini stesso
scrisse, seguì le lezioni di Federico Pendasio (†1603) – che fu docente
di filosofia naturale a Padova dal 1565 al 1571 e a Bologna dal 1571
alla morte – e fu studente a Ferrara. È più che probabile che egli si sia
addottorato nello Studio di questa città.
In Ferrara frequentò il circolo degli intellettuali di corte e, entrato
nelle grazie del duca Alfonso II d’Este, nel 1578 fu nominato in quello
Studio docente straordinario di secondo luogo di filosofia naturale. Vi
tenne lezione dall’anno accademico 1578-79 fino al 1589-90 incluso,
in un crescendo d’incarichi e fama. Dal 1581-82 fu contemporane-
mente docente straordinario di primo luogo e docente ordinario di
secondo luogo di filosofia naturale. Dal 1584-85 al 1586-87 fu so-
lamente docente ordinario di secondo luogo di filosofia naturale, ma
dal 1587-88 divenne docente ordinario di primo luogo. Nel 1588-89
gli fu assegnata anche la cattedra di ‘Sfera ed Euclide’, ossia relativa al
Tractatus de sphaera di Giovanni da Sacrobosco e agli Elementi di Eu-
clide: una cattedra non priva d’importanza, a cavallo tra matematica,
astronomia e astrologia.
Nel 1590, forse anche a seguito di contrasti con altri docenti dello
Studio di Ferrara, Cremonini si trasferì allo Studio di Padova. Il 23
novembre 1590 fu nominato docente ordinario di secondo luogo di fi-
losofia naturale e il 27 gennaio 1591 tenne la sua prima lezione. L’am-
biente dello Studio di Padova non era più quieto di quello di Ferrara.

(2) Cesare Cremonino, Chlorindo e Valliero. Poema, atto 3, scena 5, Venetia, dal
Sarzina, 1624, p. 92.
POLITICA E SCIENZA TRA XVI E XVII SECOLO 3

Nel 1599 lo stesso Cremonini dichiarò che «inter legentes in Almo


Gimnasio Patavino ob aemulationem et alias graves contentiones sae-
pe saepius laqueos et insidias parari et instrui, et hoc malis artibus et
modis».3 Questo non significa che egli avesse un carattere rissoso; al
contrario, era affabile e capace di intrattenere buone relazioni persona-
li anche con pensatori assai lontani da lui sul piano speculativo, quali
Francesco Patrizi e lo stesso Galileo Galilei.
Negli ultimi mesi del 1591 Cremonini fu tra i protagonisti della
battaglia della Universitas Artistarum dello Studio di Padova contro il
concorrente Gymnasium Patavinum della Compagnia di Gesù. Con una
celebre orazione tenuta a nome di quella Universitas di fronte al Senato
della Repubblica Veneta il 20 dicembre 1591, egli ottenne la chiusura
pressoché immediata del Ginnasio dei Gesuiti. Quell’evento, collocato
all’interno del quadro del conflitto tra il papato e il partito della nobiltà
veneziana anticurialista (partito detto ‘dei giovani’) fu l’origine di uno
scontro politico che vide Cremonini inviso al partito della nobiltà veneta
curialista – ossia filopapale – e sotto processo presso il Sant’Uffizio dal
1598 per il resto della sua vita. Ciononostante, nell’anno accademico
1601-1602 fu nominato docente ordinario di primo luogo di filosofia
naturale e mantenne tale incarico fino alla fine dei suoi giorni.
Nelle successive tre decadi fu protagonista di numerose polemi-
che: con Galilei (ma attraverso Antonio Lorenzini) sulla natura dei
cieli (1605); con Giorgio Raguseo sulla natura degli elementi, sul va-
lore della storia delle interpretazioni di Aristotele e su questioni didat-
tiche (1613); con Alessandro Tassoni (ma attraverso Giuseppe degli
Aromatari) sul petrarchismo e su altri temi (1611-1613); con Pompeo
Caimo sul galenismo (1626-1627). Per molti anni fu il docente di filo-
sofia naturale più celebre d’Europa. Morì in Padova il 18 luglio 1631,
quasi certamente di peste polmonare.4

(3) Decreto della inquisitione dell’anno 1599, pubblicato in Antonino Poppi, Cremo-
nini, Galilei e gli inquisitori del Santo a Padova, Padova, Centro Studi Antoniani, 1993,
pp. 60-61: 61.
(4) Oltre ai saggi menzionati in seguito, si vedano: Antonino Poppi, Dispacci del
Sant’Ufficio di Roma all’Inquisizione di Padova (le carte sul Cremonini e Galileo), «Atti e
memorie dell’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti già dei Ricovrati e Patavi-
na», CXXIV, 2011-2012, pp. 43-75; Harvey e Padova, a cura di G. Ongaro - M. Rippa
Bonati - G. Thiene, Treviso, Antilia, 2006; Cesare Cremonini. Aspetti del pensiero e scritti,
a cura di E. Riondato - A. Poppi, Padova, Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed
Arti in Padova, 2000, 2 voll.; Antonino Poppi, La conoscenza di sé come fondamento del
filosofare nella prolusione accademica di Cesare Cremonini (Padova, 27 gennaio 1591), in
Sapientiam amemus. Humanismus und Aristotelismus in der Renaissance, a cura di P.R.
Blum - C. Blackwell - C. Lohr, München, Wilhelm Fink, 1999, pp. 181-190; Fer-
4 MARCO FORLIVESI

La vita di Galilei è nota in dettaglio anche ai non specialisti; ci


permettiamo pertanto di ricordare i soli dati essenziali. Nato a Pisa
il 15 febbraio 1564, nel settembre del 1581 si immatricolò nel corso
di ‘arti’ dello Studio di Pisa, senza però mai conseguire la laurea. Dal
1585 al 1589 visse insegnando privatamente a Siena e a Firenze. Nel
1589 ottenne la cattedra di matematica presso lo Studio di Pisa e nel
1592 quella di matematica in Padova, sulla quale nel 1609 fu confer-
mato a vita. Nell’ambiente veneto Galilei dovette la propria fama prin-
cipalmente alle proprie attività in ambito tecnico; viceversa, le lezioni
che tenne presso lo Studio ebbero, almeno fino al 1604, orientamento
e contenuti tradizionali.
Nell’anno accademico 1604-1605, tuttavia, vi fu una prima svol-
ta. A seguito della comparsa di una ‘stella nova’ nell’ottobre del 1604,
egli dedicò a quel fenomeno celeste tre lezioni, nelle quali sostenne che
la nuova stella era collocata al di là delle orbite dei pianeti. A quella
data, egli era già convinto da tempo della correttezza del sistema co-
pernicano. Tra il dicembre del 1609 e il febbraio 1610 Galilei compì
una serie di osservazioni telescopiche che lo portarono ad affermare
che la superfice lunare è coperta da monti e valli, che la Via Lattea è
composta di stelle e che Giove è dotato di satelliti; tesi che egli rese
pubbliche nell’opera Sidereus nuncius, stampata a Venezia nel marzo
dello stesso 1610.
Come conseguenza di numerosi contatti avuti fin dal 1605 con
la corte medicea, il 10 luglio 1610 Galilei fu nominato matematico
e filosofo granducale a vita e nel settembre dello stesso anno lasciò,
quasi furtivamente, Padova per Firenze. Nel marzo del 1611 Galilei si
recò a Roma, ove ottenne ampi riconoscimenti del valore delle proprie
osservazioni. Nel 1616, a seguito della condanna del copernicanesimo
da parte del Sant’Uffizio, fu in qualche modo ammonito dal card.
Roberto Bellarmino di non sostenere più tale dottrina nei termini di
una descrizione reale della struttura del cosmo. Nel 1633 il Sant’Uffi-

nando Fiorentino, Cesare Cremonini e il Tractatus de paedia (con la traduzione italia-


na del Tractatus), Lecce, Milella, 1997; Heinrich C. Kuhn, Venetischer Aristotelismus
im Ende der aristotelischen Welt. Aspekte der Welt und des Denkens des Cesare Cremonini
(1550-1631), Frankfurt a.M., Peter Lang, 1996; Id., Galileo Galilei come lettore di Cesare
Cremonini, Venezia, Centro Tedesco di Studi Veneziani, 1993; Cesare Cremonini (1550-
1631). Il suo pensiero e il suo tempo, Cento, Centro studi Girolamo Baruffaldi, 1990;
Charles B. Schmitt, Cesare Cremonini. Un aristotelico al tempo di Galilei, Venezia,
Centro Tedesco di Studi Veneziani, 1980; Maria Assunta Del Torre, Studi su Cesare
Cremonini. Cosmologia e logica nel tardo aristotelismo padovano, Padova, Antenore, 1968.
POLITICA E SCIENZA TRA XVI E XVII SECOLO 5

zio stabilì in modo esplicito – più esplicito di quanto avesse fatto nel
1616 – che il copernicanesimo era una dottrina eretica e sentenziò che
Galilei aveva contravvenuto all’ammonizione ricevuta da Bellarmino;
Galilei fu pertanto giudicato eretico e fu condannato ad abiurare la
dottrina che egli aveva in qualche modo difeso anche dopo la condan-
na del 1616. La pena al carcere venne commutata in una sorta di arre-
sti domiciliari a vita, che Galilei, dopo alcuni mesi trascorsi in Siena,
scontò nella propria casa in Arcetri. Morì l’8 gennaio 1642.5

1. Il caso Cremonini

1.1Una vulgata ingannevole


Secondo la comune vulgata, Cremonini fece parte di quella schie-
ra di seguaci di Aristotele che non solamente respinsero le scoperte
galileiane, ma si rifiutarono persino di accostare l’occhio al telesco-
pio costruito dallo scienziato pisano, impedendo così a sé stessi di
verificare personalmente la verità di quanto Galileo andava dicendo a
proposito delle montagne della Luna, delle fasi di Venere, dei satelliti
di Giove e, dunque, della vera natura dei cieli. Si tratta di una vul-
gata fortunatissima, che dona a Cremonini l’unica fama pubblica di
cui egli al presente goda: la fama del cattedratico miope, del nemico
del vero sapere, dell’esempio per eccellenza dell’ottusità accademica di
ogni tempo.
Benché essa affondi le sue radici in alcuni testi coevi al supposto
evento, si tratta di una vulgata ingannevole. Il 19 agosto 1610 Galilei,
che si trovava ancora a Padova ma che era ormai in procinto di tra-
sferirsi a Firenze, scriveva a Johannes Kepler una lettera in cui, oltre a
rispondere a una richiesta dello stesso Kepler, si lamentava dell’ostilità
e del silenzio con cui erano state accolte le sue osservazioni. In partico-
lare, a proposito dei docenti dello Studio di Padova così egli scriveva.

Che si dirà dei più celebri filosofi di questo Studio i quali, colmi dell’ostinazione
dell’aspide, nonostante più di mille volte io abbia offerto loro la mia disponibilità,
non hanno voluto vedere né i pianeti, né <la luna>, né il cannocchiale? […] Questo
genere di uomini ritiene infatti che la filosofia <naturale> sia un libro come l’Eneide

(5) Nella sterminata bibliografia sullo scienziato pisano in genere e sul ‘caso Galilei’ in
particolare, si vedano innanzi tutto gli esemplari contributi raccolti in Il processo a Galileo
Galilei e la questione galileiana, a cura di G.M. Bravo - V. Ferrone, Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura, 2010.
6 MARCO FORLIVESI

e l’Odissea e che le verità siano da ricercare non nel mondo o nella natura, bensì (per
usare le loro parole) nel confronto dei testi.6

In quel momento, Cremonini era già il filosofo più celebre dello


Studio di Padova; è dunque facilmente congetturabile che Galileo si
stesse riferendo anche a lui. Nella lettera a Kepler, Galilei non fa nomi;
il nome di Cremonini compare invece in due lettere di Paolo Gual-
do allo stesso Galilei, la più importante delle quali è datata 29 luglio
1611.

Fui uno di questi giorni dal detto S.r Cremonino, et entrando di ragionare di V.S.
[ossia di Galilei] io le dissi, così burlando: il S.r Galilei sta con trepidatione aspettan-
do ch’esce l’opra di V.S. [ossia di Cremonini; Gualdo si riferisce alla Disputatio de
coelo, che sarà però pubblicata solamente nel 1613]. Mi rispose: Non ha occasione di
trepidare, perché io non faccio mentione alcuna di queste sue osservationi. Io rispo-
si: Basta ch’ella tiene tutto l’opposito di quello che tiene esso. O, questo sì, disse, non
volendo approvare cose di che io non ho cognitione alcuna, né l’ho vedute. Questo è
quello, dico, ch’ha dispiacciuto al S.r Galilei, ch’ella non abbia voluto vederle. Rispo-
se: Credo che altri che lui non l’habbia veduto; e poi quel mirare per quegli occhiali
m’imbalordiscon la testa: basta, non ne voglio saper altro. Io risposi: V.S. iuravit in
verba Magistri; e fa bene a seguitare la santa antichità. Doppo egli proruppe: Oh
quanto harrebbe fatto bene anco il S.r Galilei, non entrare in queste girandole, e non
lasciar la libertà Patavina!7

Questo testo è usualmente portato come prova decisiva del fatto


che Cremonini si rifiutò di guardare attraverso il telescopio di Galilei:
come si legge in esso, «questo è quello, dico [Paolo Gualdo dice], ch’ha
dispiacciuto al S.r Galilei, ch’ella [cioè Cremonini] non abbia voluto
vederlo». Sennonché, come il lettore ha certo già inteso da sé, il senso
di quanto Gualdo scrive è altro. Si osservi la differenza tra ‘vedere’ e
‘mirare’. Dice Cremonini a Gualdo: «quel mirare per quegli occhiali

(6) «Quid dices de primariis huius Gimnasii philosophis, qui, aspidis pertinacia re-
pleti, nunquam, licet me ultro dedita opera millies offerente, nec Planetas, nec <lunam>,
nec perspicillum, videre voluerunt? […] Putat enim hoc hominum genus, philosophiam
esse librum quendam velut Eneida et Odissea; vera autem non in mundo aut in natura,
sed in confrontatione textuum (utor illorum verbis), esse quaerenda» (Galilaeus Gali-
laei, epistola ad Johannem Keplerum, Paduae 19 Augusti 1610, in Id., Le opere, sotto la
direzione di A. Favaro, vol. X, Firenze, Barbera, 1934, pp. 421-423: 423; d’ora in avanti
l’edizione sarà citata con la sigla GGO). Traduzione mia.
(7) Paolo Gualdo, lettera a Galileo Galilei, Padova 29 luglio 1611, in GGO, vol.
XI, p. 165. Cfr. anche Id., lettera a Galileo Galilei, Padova 6 maggio 1611, in GGO,
vol. XI, p. 100.
POLITICA E SCIENZA TRA XVI E XVII SECOLO 7

m’imbalordiscon la testa». Come avrebbe potuto Cremonini dir que-


sto se non avesse effettivamente guardato attraverso il telescopio di
Galilei? A rigore, non sappiamo se accettò – ed è pressoché certo che
non l’abbia fatto – di guardare oggetti celesti, se accettò di farlo più
volte – come sarebbe stato necessario fare per valutare le affermazioni
di Galilei – o se utilizzò lo strumento solamente per guardare oggetti
sulla Terra; nondimeno è chiaro che Cremonini, benché sessantenne,
non si era rifiutato di guardare oggetti per mezzo del telescopio. Ciò
che Cremonini si rifiutò di fare, dunque, non fu guardare; fu vedere.
Egli, cioè, si rifiutò di accogliere l’interpretazione che Galilei dava di
ciò che quest’ultimo sosteneva di vedere.
Se, dunque, non di guardare si tratta, bensì d’interpretare quanto
Galilei sosteneva di vedere, la posizione di Cremonini appare meno
ottusa di quella che gli viene comunemente attribuita. Non vi sono
dubbi che egli nutrisse una profonda ammirazione per Aristotele, che
ne abbracciasse le tesi e che la sua visione del cosmo fosse errata. Tut-
tavia va anche detto che a quella data, la fine di luglio del 1611, era
ancora in vasta compagnia e che nel momento in cui diceva a Gualdo
«credo che altri che lui [ossia Galilei] non l’habbia veduto» (ossia: cre-
do che solamente Galilei interpreti in quel modo ciò che sostiene di
aver veduto) non era mal informato. In effetti, a quella data solamente
i nemici storici di Cremonini, ossia i matematici gesuiti del Collegio
Romano e alcuni ambienti nobiliari e curiali, avevano dato credito alle
scoperte di Galilei; lo scetticismo di Cremonini aveva dunque solide
basi.
Non minore importanza ha la prospettiva epistemologica del no-
stro autore. Egli certamente aveva qualche conoscenza di matematica,
essendo stato docente di tale materia in Ferrara, tuttavia riteneva che
essa non potesse essere utilizzata proficuamente in ambito fisico. Da
questo punto di vista, la conoscenza scientifica di cui Cremonini era
fautore era, per alcuni importanti aspetti, strutturalmente diversa da
quella praticata da Galilei. A ciò va aggiunto il fatto, solo apparente-
mente ovvio, che egli riteneva che far scienza consistesse nell’indivi-
duare le cause dei fenomeni. Ciò significa che, posto un dato fenome-
no, fin quando non venga fornito un quadro interpretativo, coerente
in sé e con quanto già noto, che permetta di comprendere le cause
– formale ed efficiente – di tale fenomeno, non si possano fare corret-
tamente affermazioni circa la natura di quest’ultimo. Posta dunque, ad
esempio, la comparsa nel cielo di una luce puntiforme che occupi sem-
pre la medesima posizione rispetto alle altre stelle e priva di parallasse (la
‘stella nova’ del 1604), non si può affermare sulla base di questi soli dati
che vi sia stato un mutamento nei cieli al di sopra del cielo della Luna;
8 MARCO FORLIVESI

occorre piuttosto fornire una descrizione della natura dei cieli, coerente
in sé e con le conoscenze già acquisite, capace di dar ragione della pos-
sibilità di un mutamento siffatto. Di fronte a questa richiesta e a questo
problema lo stesso Galilei si mostrò incerto, talvolta rifugiandosi nel
suo compito di semplice ‘matematico’, e come tale non tenuto a fornire
spiegazioni circa la natura ‘fisica’ dei fenomeni, talvolta arrischiandosi
a proporre ipotesi circa tale natura non meno problematiche di quel-
le proposte dagli ‘aristotelici’. Questa impostazione, peraltro, fu tenuta
fermamente da Cremonini in occasione di ogni controversia di cui fu
protagonista; in particolare egli la fece valere contro i medici galenisti, i
quali ritenevano di poter utilizzare i dati osservativi senza aver l’onere di
collocarli nel contesto di una dottrina filosofico-naturale complessiva.8

1.2 Una figura complessa


Tra i non pochi profili biografici dedicati a Cremonini, risulta
ancor’oggi particolarmente suggestivo quello tracciato, a pochi anni
dalla morte di questo autore, dal medico vicentino Giovanni Imperia-
li. Uno scrittore che aveva conosciuto personalmente il Centese e i cui
giudizi sono al contempo profondi, pungenti e rispettosi.9

<Cremonini> – scrive Imperiali – fu di complessione armoniosa, slanciata e vigo-


rosa, di spalle larghe e curve, di fronte erta, sguardo penetrante, dai tratti affilati, di
portamento grave, capace di avvincere del resto, per il lindore del suo intero aspetto,
con ancor maggior piacere gli sguardi di coloro che lo osservavano.10
[…] accrescendosi <in Ferrara> la fama della sua somma virtù, allettato dai Veneti
[…] si trasferì alla cattedra di Padova, assegnato come collega e assistente a Francesco
Piccolomini, filosofo principale11 di quell’epoca. Lì, per l’ardere dell’acuto ingegno
e la perenne contesa della lode, in ossequio ai desideri dei giovani [ossia del partito

(8) Su questi temi si vedano Giulio F. Pagallo, Cesare Cremonini maestro di William
Harvey a Padova, in Harvey e Padova, cit., pp. 69-127; Giulio F. Pagallo, Alla ricerca dei
principi: ermeneutica e questioni di metodo nei primi scritti di Cesare Cremonini, in Cesare
Cremonini, cit., vol. I, pp. 43-81; Luigi Olivieri, Certezza e gerarchia del sapere. Crisi
dell’idea di scientificità nell’aristotelismo del secolo XVI. Con un’appendice di testi inediti di
Pomponazzi, Pendasio, Cremonini, Padova, Antenore, 1983.
(9) Per cenni su Imperiali si veda Antonio Gamba, Contributo all’iconografia di Ce-
sare Cremonini, in Cesare Cremonini, cit., vol. I, pp. 135-152. Imperiali si era laureato in
medicina a Padova avendo Cremonini come promotore.
(10) Ioannes Imperialis, Musaeum historicum et physicum, Venetiis, Apud Juntas,
1640, p. 174. Traduzione mia.
(11) Probabilmente l’espressione va intesa anche in senso tecnico: Piccolomini fu in
Padova docente in primo loco di filosofia naturale.
POLITICA E SCIENZA TRA XVI E XVII SECOLO 9

nobiliare anticurialista, detto ‘dei giovani’] meritò, defunto il Piccolomini, di sosti-


tuirlo sulla sua eminentissima cattedra, e fu per quarant’anni in quell’incarico12 con
sì grande fasto di consumata gloria da venir proclamato dalle voci di tutti spirito di
Aristotele, suo restauratore, e faro degli interpreti greci. Questo era, nell’insegnare,
il suo metodo. Dapprima dava parole e voce alle dottrine fisiche del Filosofo; de-
lucidava quelle più oscure o secondo il proprio intendimento, o secondo quello di
Alessandro di Afrodisia; il più delle volte troncava con passo risoluto le capziose di-
scussioni degli scolastici; le concezioni degli autori più recenti, o per l’innato ardore
d’emulazione, o per lo zelo di ridestare dall’Ade (come egli diceva) l’antica gloria, le
trascurava. Sul suo podio, illustrava ogni singolo punto con un’abilità declamatoria
e una profondità d’esposizione che i posteri guardano con sospetto, ma che noi
forse, in quest’epoca, rimpiangiamo <di non trovare> in altri. Donde quasi tutti i
re e i principi giunsero a porre nelle loro aule, lui ancora vivente, una sua imma-
gine, affinché fosse ammirata eternamente per merito di virtù, e a lui addirittura,
come all’oracolo di Delfi, chiedevano responsi per placare gli animi dei cittadini.
E difatti, come fu dotato dalla natura di insigne acume, così eccelse nel gravissimo
compito del giudicare. Non considerava nulla troppo alla leggera, nulla valutava
avventatamente, senza ponderazione. Sempre padrone di sé, sempre misurato nelle
sue decisioni; grazie al temperamento brillante affabile con tutti, a nessuno tuttavia
congiunto per un legame fidato d’animo puro.13

Se inteso come biasimo, quest’ultimo giudizio è contraddetto da


altre testimonianze.14 La ricercata e costante polisemia delle afferma-
zioni di Imperiali offre tuttavia la possibilità d’intenderlo sia come
un’accusa di mancanza di sincerità, sia come un’attestazione del fatto
che Cremonini fosse capace di guardare all’interesse generale, al di là
dunque dell’interesse di singole persone o gruppi. In ogni caso, il rap-
porto privilegiato del nostro autore con una precisa corrente politica è
riaffermato da Imperiali già nelle righe che immediatamente seguono.

(12) Se riferito alla cattedra in primo loco di filosofia naturale, il dato non è corretto:
Cremonini tenne quella cattedra per trent’anni.
(13) I. Imperialis, Musaeum, cit., pp. 173-174. Traduzione mia.
(14) Si veda, ad esempio, ciò che Tomasini scrive a proposito delle esequie, tenutesi
nel 1620, di un allievo di Cremonini e docente nello Studio di Padova, il ventottenne
Alessandro Borromeo: «Funus eius ingenti omnium moerore celebratum est, dixitque
tum de more Adrianus Grandis iunior, alumnus eius oratione gravi, talesque versus Cre-
moninus praeceptor in extinctum discipulum suum cum lachrymis effudit. Cedis Ale-
xander citius fatis, tua virtus / visura est longa posteritate diem. / De me agitur, poteram
post fata manere superstes / per te, tu ergo non; in te ego sed morior». (Iacobus Philip-
pus Thomasinus, Elogia virorum illustrium iconibus exornata, Patavii, Apud Donatum
Pasquardum et socium, 1630, p. 333).
10 MARCO FORLIVESI

Di ogni questione <Cremonini> parlava con i più giovani [ossia con una parte degli
esponenti del partito nobiliare ‘dei giovani’], ma non insisteva su nessun argomento
che si opponesse alle loro inclinazioni. Nelle riunioni private risaltava più la sua
cordialità che il suo sapere. Alimentava con i padovani, pur senza adoperarsi per
favorire l’una o l’altra delle loro fazioni, continui dissidi o, piuttosto, <li alimentava>
con quei singoli che sapeva essere meno accondiscendenti alle sue decisioni. Abile
nondimeno per natura a simulare di fronte a ciascuno con raffinatissimo artificio,
esercitava altresì le funzioni civili con apprensione e cura. Così grandi splendori di
versatile ingegno furono deturpati da una sola opinione instillatasi nell’animo degli
studenti, cioè che egli, riguardo alle dottrine fisiche, difendesse le concezioni peg-
giori e più biasimevoli con insistenza maggiore di quanto fosse lecito a un seguace
della vera fede. […] Se lo portò via, ottantenne, a Padova, la sciagurata pestilenza
del 1630. I monaci di Santa Giustina, eredi per testamento, <ne> accolsero la salma
nella Chiesa.15 Il mondo tutto si riunì nel compianto, di questo solo esultando, cioè
che come era stato ricetto a malapena degno del venerando nome, così lo sarebbe
stato anche delle spoglie gloriose.16

(15) Si noti che Imperiali scrive ‘in Ecclesia’, giocando forse sul doppio significato del
termine.
(16) I. Imperialis, Musaeum, cit., p. 174. Traduzione mia. Si riporta, per comodità del let-
tore, l’intero denso testo di Imperiali. «Caesar Cremoninus e Cento oppido Mutinensis agri
natus, floruit ubique nominis maiestate praefulgens. Ferrariae primun in diversorio Esten-
sium principum, iunior egit cum lectissimis ingeniorum Pigna, Patritio, Tasso, caeterisque
in illa totius Italiae celebritate; cuius etiam iudicio praeclarus doctrinae peripateticae sectator
habitus, publica docendi provincia ornatus est, quam a primo supra vigesimum anno usque
ad trigesimum octavum, foelicissime coluit. Inde vero increscente summae virtutis opinione,
ab acerrimis rerum aestimatoribus Venetis illectus ad Patavinum subsellium transmigravit,
Francisco Piccollomineo principi eius aevi philosopho consors datus. Ibi acris ingenii aestu,
perennique laudis contentione, haud elusis iuvenum votis, promeruit emortuo dehinc Pic-
collomineo, in eminentissima eius cathedra subrogari; tanto autem per quadraginta annos,
in eo munere consummatae gloriae fastu, ut Aristotelis genius, et graecorum lucerna inter-
pretum, omnium vocibus praedicaretur. Hic eius in docendo mos, physicas primum senten-
tias Philosophi aptare verbis: obscuriores vel sua, vel Alexandri Aphrodisaei mente enucleare:
scholasticorum morosas dissertationes sicco plerunque pede transigere: recentiorum dogma-
ta, vel ingenito aemulationis ardore, vel antiquae dignationis velut ab inferis (ut aiebat) vin-
dicandae studio negligere: singula vero in suggestu eo actionis ornatu, ac disserendi gravitate
proferre, quem posteri suspiciant, nos hac aetate in altero forsitan desideremus. Hinc omnes
prope reges, ac principes eius vel viventis depictam suis in aulis imaginem, virtutis merito ae-
ternitus admirandam locarunt, ex quo etiam responsa de componendis privatorum animis,
velut ex oraculo Delphico sciscitabantur. Vere enim, ut insigni fuit a natura dotatus acumine,
ita gravissimo iudicandi munerepraestitit: nihil levius expendere, nihil absque praemedita-
tione ineptius aestimare: sui compos in suis semper collectus consiliis: vivida cunctis indole
perblandus: nulli tamen fida sinceri animi coniunctione obstrictus: de rebus omnibus cum
iunioribus effari, at in nulla haerere diutius, quae vel ipsorum conferret animis: comitate
potius, quam doctrina privatis in congressibus fructuosus: quin et factionibus ipsorum
POLITICA E SCIENZA TRA XVI E XVII SECOLO 11

Una presentazione completa delle dottrine di Cremonini – spe-


cialmente nel contesto di un confronto con quelle di Galilei – do-
vrebbe dedicare spazio, ovviamente, alla logica, all’epistemologia e alla
fisica sviluppate dal nostro autore. Le sue posizioni in questi ambiti,
tuttavia, non sono gli unici aspetti degni di nota del suo pensiero e
della sua azione. La breve ma intensa biografia di Imperiali dedica pari
attenzione anche alle attività e posizioni del Centese in ambito civile
e politico. Su questi aspetti, come si è detto, si desidera ora richiamare
l’attenzione, nella convinzione che un loro esame permetta di meglio
comprendere il profilo e la statura di questo pensatore.

1.3 Un maestro di libertà


In due recenti saggi, Giulio Pagallo ha messo in luce che, almeno
in un’occasione, Cremonini affermò esplicitamente che, nei tempi e
nelle circostanze a lui presenti, i filosofi speculativi non avevano l’ob-
bligo di dedicarsi ad attività ‘civili’, quali sono la custodia dei costumi
e la diffusione della virtù. In altri tempi e circostanze, precisava il Cen-
tese, alcuni filosofi avevano giustamente esercitato, anche con com-
portamenti eccentrici, quei compiti; nondimeno, egli argomentava, i
filosofi speculativi non hanno, propriamente, quelle attività tra i loro
compiti, così che, nelle presenti condizioni della società e dello Stato

fovendis deditus, perpetua cum Patavinis alere dissidia, seu potius cum singulis, quos suo
minus indulgentes arbitrio nosceret: simulare tamen comptissima versutia cum singulis
natus, vel civilia anxius officia exercebat. Tanta versatilis ingenij decora, turpavit una
studentium animis imbibita opinio, quod is deteriores, et reprobatiores de rebus physicis
sensus tueretur acrius, quam orthodoxae fidei liceret alumno: olet enimvero morbosi
animi virus, divinos hominum spiritus cum brutis animantibus communes facere, cor-
ruptionique reddere obnoxios: vesano hercle rationis ausu, quando quisque nisi amens,
celatos percipiat in seipso igniculos mentis etiam ad posteros duraturae. Sed alias pariter,
de fato, de mundo, de caeli motoribus placita perperam interpretatus est. Illud nobis mi-
randum, quod elaborata ipsius opera typis cusa, in officinis hactenus evilescunt; scripta
vero Peripati more discipulis ab ipso deambulante dictata, sic excellunt, ut nihil arcana
philosophiae detegenda perfectius, ac suavius desiderari possit. Quod in aliis quoque
celeberrimis ingenijs adnotare licet, aequa prorsus naturae lance, ne uni duntaxat cuncta
caelitus lumina illuxisse videantur. Compage corporis fuit concinna, procera, vegeta,
latis, et curvis humeris, fronte subrigida, oculis acribus, carne aspera, incessu gravi: cae-
terum totius adspectus nitore intuentium acies iucundius perstringente. Octuagenarium
funesta pestis anni mdcxxx Patavij surrepsit. Monachi Sanctae Iustinae ex testamento
haeredes, cadaver in Ecclesia susceperunt. Orbis totus colluxit, eo tantum gestiens, quod
sicut verendi vix fuerat nominis, ita nobilium ultro foret ossium capax.» (I. Imperia-
lis, Musaeum, cit., pp. 173-174). A p. 172 è presente un ritratto inciso di Cremonini.
12 MARCO FORLIVESI

(ossia, implicitamente, nella Repubblica Veneta) essi sono legittimati


a occuparsi solamente della ricerca e dell’insegnamento della verità.
Ciò non toglie però, come ha osservato lo stesso Pagallo, che Cremo-
nini ebbe un indubbio ruolo nella storia politica dell’Università di
Padova.17 Precisamente di questo ruolo intendiamo qui occuparci; un
ruolo che, anticipiamo, il nostro autore giunse a descrivere in modo
esplicito, sebbene prudente.
La questione più celebre nella quale Cremonini fu coinvolto, e del-
la quale fu importante protagonista, è quella relativa alla chiusura del
Gymnasium Patavinum della Compagnia di Gesù. Negli ultimi decen-
ni del Cinquecento la Curia papale e i Gesuiti svilupparono un preciso
progetto politico-culturale di ‘riconquista’ della società e degli Stati
europei. Questo progetto era basato sulla messa in opera di un insie-
me di elementi concatenati: tra essi, in particolare, l’intervento diretto
della Curia su altri Stati (sia sul piano esterno, attraverso la creazione
di un sistema di alleanze, in particolare con la monarchia spagnola, sia
sul piano interno, attraverso l’affermazione di diritti giurisdizionali) e
il controllo delle istituzioni educative, in particolare di quelle destinate
alla formazione delle classi dirigenti. Di questo disegno faceva parte
anche la fondazione e lo sviluppo – per quanto dettati da vicende in
parte casuali – del Ginnasio di Padova della Compagnia di Gesù. Gra-
zie all’effetto trainante delle scuole gesuitiche di grammatica e retorica,
e alla struttura a collegio di questa istituzione, nella seconda metà degli
anni Ottanta del Cinquecento i corsi di filosofia tenuti dai Gesuiti nel
loro ginnasio padovano vennero seguiti da un numero crescente di
studenti laici, tra i quali molti rampolli di famiglie nobili veneziane
e padovane. Lo scopo dei Gesuiti era ben definito: fornire alla futura
classe dirigente della Repubblica una formazione conforme ai dettami
del cattolicesimo contro-riformista e finalizzata a creare soggetti obbe-
dienti alle direttive della Curia papale. Il fatto che il Collegio avesse
sede nella medesima città in cui aveva sede un celebre Studio pubblico
era considerato un elemento tatticamente vantaggioso, tuttavia nelle
intenzioni dei Gesuiti lo Studio pubblico di Padova avrebbe dovuto,
nel lungo periodo, essere svuotato di importanza e trasformato in una
costellazione di collegi controllati dai diversi ordini religiosi. Conse-

(17) Giulio F. Pagallo, Scienza della natura e ragioni della politica in Cesare Cremo-
nini (1550-1631), «Foedus», n. XXIX, 2011, pp. 65-74; Id., Riflessi politici e giudiziari
in una difesa della «naturalis contemplatio» di Cesare Cremonini, in Filosofia e storiografia.
Studi in onore di Giovanni Papuli, Galatina, Congedo, 2008, 3 voll., vol. I: Dall’Anti-
chità al Rinascimento, a cura di M. Marangio - L. Rizzo - A. Spedicati - L. Sturlese, pp.
359-402.
POLITICA E SCIENZA TRA XVI E XVII SECOLO 13

guentemente, la presenza di studenti protestanti – che ancora caratte-


rizzava Padova nella seconda metà del Cinquecento – avrebbe dovuto
cessare e Padova avrebbe dovuto divenire un polo di attrazione per la
nobiltà cattolica contro-riformistica transalpina.
Nel dispiegamento di questo progetto, la Compagnia di Gesù
commise un errore tattico: tentò di conferire la laurea agli studenti del
proprio collegio in Padova e di farlo sulla base di privilegi pontifici.
Precisamente a causa di tale fatto la Universitas Artistarum patavina
ruppe ogni indugio, incaricando infine Cremonini di presentare una
supplica al Senato della Repubblica; precisamente su tale fatto il neo-
docente di filosofia naturale richiamò diplomaticamente l’attenzione
dei senatori nell’orazione che tenne di fronte a essi il 20 dicembre
1591: i Gesuiti, rilevò Cremonini, tenevano senza alcun permesso le-
zioni pubbliche su materie insegnate nello Studio di Padova e confe-
rivano lauree sulla base di privilegi concessi da un’autorità straniera. Il
nostro autore ripeté più volte questa considerazione nel corso dell’ora-
zione ma da essa, accortamente, non trasse motivo per alcuna richie-
sta. Piuttosto, egli sostenne che il Ginnasio dei Gesuiti danneggiava
lo Studio pubblico diffamandolo, sottraendo a esso allievi e creando
occasione di scontri tra gli studenti; precisamente sulla base di questi
rilievi, e non di altro, chiese al Senato di proibire ai Gesuiti di tenere
in quella sede lezioni aperte al pubblico. L’orazione ottenne l’effetto
sperato: il 23 dicembre, dopo un’accesa discussione e un voto a stretta
maggioranza, il Senato ingiunse ai Gesuiti di cessare di impartire lezio-
ni a studenti diversi dai membri dell’ordine.18
L’operato di Cremonini in occasione dello affaire del Ginnasio
gesuitico di Padova costituisce certamente l’origine della successiva e
più che trentennale messa in stato di accusa del nostro autore, a partire
dal 1598, da parte del Sant’Uffizio. Fin dai giorni immediatamente
seguenti il voto del Senato veneto, i Gesuiti misero in atto nei con-
fronti di Cremonini una discreta ma capillare opera di diffamazione.
Nei loro scritti, egli divenne il «mercenario filosofo, tolto dal fango e
dalle cannuccie del pantano ferrarese, ingeritosi Iddio sa come, anzi
rendutosi per pochi fiorini a servire barbari concetti e piggior lingua

(18) Sulla vicenda si veda Maurizio Sangalli, Università accademie gesuiti. Cultura e
religione tra Cinque e Seicento, Padova - Trieste, lint, 2001. L’orazione di Cremonini contro
il Ginnasio patavino dei Gesuiti è ora ripubblicata, assieme alle altre orazioni di Cremonini
giunte fino a noi e con traduzione italiana, in Cesare Cremonini, Le orazioni, a cura di A.
Poppi, Padova, Antenore, 1998.
14 MARCO FORLIVESI

il Bò di Padoa»,19 che ha meritato che «da tutto il cristiano mondo


debba esser esterminato».20 L’opera dei Gesuiti, condotta innanzi tutto
tra la nobiltà curialista veneziana e poi presso la Curia papale, ebbe
conseguenze durature: precisamente in quegli scritti vi è l’origine della
fama di Cremonini come ateo dissimulato, negatore dell’immortalità
dell’anima e, conseguentemente, corruttore della gioventù.21
Tutto questo non implica che Cremonini non abbia tentato, a
più riprese, di mantenere buoni rapporti anche con il partito nobiliare
veneziano curialista e, addirittura, con la Curia papale, almeno per
qualche tempo. Il 27 maggio 1598 egli tenne l’orazione di fronte a
Clemente VIII in occasione della devoluzione del feudo di Cento allo
Stato della Chiesa e nel luglio di quello stesso anno fu nuovamente
dinanzi al papa, ancora su incarico della propria città natale, al fine
di chiedere per essa alcune concessioni, che ottenne.22 Al termine del
1599 Cremonini fu tra i membri fondatori dell’Accademia dei Rico-
vrati: un’accademia voluta da Federico Cornaro, un esponente di una
famiglia curialista. Il Centese partecipò attivamente alla vita dell’Acca-
demia fino alla fine del 1600, quando l’elezione di Agostinio Grade-
nigo dissipò ogni dubbio sull’indirizzo filopapalino che il Cornaro in-
tendeva dare alla sua creatura.23 Nel 1618 tenne l’orazione, per conto
della Universitas Artistarum, di fronte ad Antonio Priuli in occasione
della sua elevazione al dogado: un esponente di una famiglia filopa-
pale. Persino la lettera di Gualdo a Galilei del 29 luglio 1611 testimo-

(19) Giovan Domenico Bonaccorsi, Risposta al Cremonino per li Padri Gesuiti, in M.


Sangalli, Università, cit., p. 121.
(20) Paolo Comitoli, Risposta apologetica all’invettiva del Cremonino contra i Padri
Reverendi del Giesù per occasione del loro Studio in Padova, in M. Sangalli, Università,
cit., p. 110.
(21) Tra le innumerevoli testimonianze che si potrebbero portare a tale proposito, val-
ga per tutte il giudizio su Cremonini di Niccolò Sagredo, nobile veneziano di parte cu-
rialista, testimoniato dal figlio Giovanfrancesco Sagredo in una lettera a Galilei del 1615:
«La condota del S.r Cremonino non è stata rinovata fin hora. Il S.r Procurator mio padre
tiene pessimo conceto della sua persona, credendo che egli con la sua dottrina dell’anima
habbia impresso l’ateismo in molta gioventù; il qual conceto pare che sia divolgato assae
tra la nobiltà, onde molti lo giudichino huomo scandaloso, imprudente et indegno di
essere confirmato nello Studio di Padova. Uscirà nondimeno fra pochi giorni il S.r mio
padre, et si farà nuovo Riformatore in luogo suo.» (Giovanfrancesco Sagredo, lettera
a Galileo Galilei, Venezia 7 febbraio 1615, in GGO, vol. XII, pp. 138-140: 139).
(22) Dopo quell’occasione, tuttavia, non tornerà più nello Stato della Chiesa. Il fatto
non sorprende: dal giugno 1598 fu stabilmente sotto accusa presso il Sant’Uffizio.
(23) Su questo tema si veda Ezio Riondato, Cremonini e l’Accademia dei Ricovrati, in
Cesare Cremonini, cit., vol. I, pp. 9-18.
POLITICA E SCIENZA TRA XVI E XVII SECOLO 15

nia, indirettamente, che Cremonini era persona di grande compostezza


e cordialità, disponibile ad accogliere nella propria casa anche personaggi
che, come Paolo Gualdo, nutrivano per lui una palese e notoria disistima.
Nonostante la sua prudenza e accortezza, dal giugno 1598 il Cen-
tese, come si è già detto, fu oggetto di costanti ‘attenzioni’, e persino
di una condanna – nella forma della messa all’Indice, nel 1623, della
sua Disputatio de coelo –, da parte dell’Inquisizione romana. Le accuse
più gravi rivolte contro di lui furono quelle di sostenere la mortalità
dell’anima umana e l’eternità dei cieli. Queste accuse, unitamente ad
alcune testimonianze coeve, hanno generato una lunga discussione
circa il reale pensiero di Cremonini su quei temi. Gli studi condotti
negli ultimi tre decenni hanno mostrato che è probabile che egli rite-
nesse che la filosofia non abbia la capacità di dimostrare l’immortalità
dell’anima e l’esser creato del mondo; tuttavia, non meno degna di
nota è la natura politica sia dell’attacco portato dal Sant’Uffizio con-
tro Cremonini, sia della difesa di quest’ultimo. A partire almeno dal
1601, il nostro autore appare aver legato le proprie sorti a quelle del
partito dei senatori veneti anticurialisti. Si può ben ritenere che, giunti
a quel punto, la Curia papale – e i Gesuiti – intendessero colpirlo non
semplicemente come pensatore, ma anche come esponente dei circoli
anticurialisti. Solo questo intento, unitamente all’avversione nutrita
nei suoi confronti dal papa Paolo V in persona, può spiegare il fatto
che tra il 1614 e il 1619 il Sant’Uffizio respinse alcune proposte di
compromesso – ragionevoli e tutt’altro che di facciata – avanzate dallo
stesso Cremonini e spiega anche perché Cremonini si rifiutò tenace-
mente di accettare di ‘emendare’ l’opera, la Disputatio de coelo, su cui
si erano infine concentrate le attenzioni e le richieste dell’Inquisizione
romana.24 I documenti superstiti – ad esempio le dichiarazioni che egli
rese nel 1619 all’inquisitore di Padova – sono inequivocabili.
Quanto al mutar il mio modo di dire, non so come poter io promettere di trasformar
me stesso. Chi ha un modo, chi un’altro. Non posso ne anco retrattare espositioni
d’Aristotele, poiché l’intendo così, e son pagato per dichiararlo come l’intendo, e nol
facendo sarei obligato alla restituzione della mercede; così anco non posso retrattare
considerationi haute circa li interpreti, e refutationi ch’habia fatte delle loro esplica-
tioni: ci va l’honor mio, l’interesse della cathedra, e per tanto del Prencipe.25

(24) Su questi temi si vedano Leen Spruit, Cremonini nelle carte del Sant’Uffizio Ro-
mano, in Cesare Cremonini, cit., vol. I, pp. 193-204; A. Poppi, Cremonini, Galilei, cit.;
Id., Cremonini e Galilei inquisiti a Padova nel 1604. Nuovi documenti d’archivio, Padova,
Antenore, 1992.
(25) Cesare Cremonini, Risposta all’Inquisitor di Padova, [1619], in A. Poppi, Cre-
monini, cit., p. 105.
16 MARCO FORLIVESI

Si noti l’ultima riga della dichiarazione: la posta politica in gioco


è chiara a tutti; le questioni relative alla natura dell’anima e dei cieli
sono ormai divenute solamente parte di un quadro più vasto.26
Tutto questo non implica che le tematiche dottrinali non svolgano
un ruolo nelle vicende ora in esame. Esse, tuttavia, non sono confinate
all’ambito della filosofia naturale e vanno al cuore dell’impegno civile
e delle scelte politiche di Cremonini. Egli fu per decenni patrono del-
la Natio Germanica artistarum dello Studio di Padova, ossia il primo
referente per ogni questione disciplinare e politica dell’organizzazione
degli studenti ultramontani in filosofia e medicina; una natio, si noti,
nella quale erano presenti molti studenti protestanti. Egli promosse
attivamente l’istituzione, avvenuta nel 1616, del Collegio Veneto ar-
tista, ossia di un organo che permettesse agli studenti protestanti di
addottorarsi in Padova senza dover sottostare all’obbligo di far pro-
fessione di fede cattolica, e fu promotore della prima laurea tenutasi
in quella sede, il 1 giugno 1616. Il 22 aprile 1626, probabilmente in
risposta a un evento di cui diremo tra poche righe, la Natio Germanica
artistarum nominò Cremonini promotore perpetuo alla laurea per i
suoi membri. Non stupisce dunque vedere i senatori veneti curialisti
accomunare nei loro attacchi Cremonini e la Natio Germanica.27
(26) Cremonini aveva utilizzato questa argomentazione già nel 1604, in una sorta di
parte ‘perfettiva’ dell’apologia, diretta al doge e ai senatori della Repubblica Veneta, con
cui si era difeso dalla minaccia costituita dal procedimento inquisitoriale che si andava
istruendo contro di lui. In quella sede, Cremonini aveva posto l’accento sul fatto che egli
era «persona publica», «huom publico», e specificamente «huom publico per la Serenissima
Republica Venetiana», e aveva utilizzato questa considerazione per trarre due conseguen-
ze: la prima, per cui una sua imputazione (e, implicitamente, una sua condanna) sarebbe
stata un’imputazione (e dunque, implicitamente, una condanna) della stessa Repubblica;
la seconda, per cui lo stabilire il procedimento al quale avrebbe dovuto essere sottoposto e,
in definitiva, il formulare un giudizio di colpevolezza o innocenza spettavano alla Repub-
blica, non alla Curia papale o ai suoi organi (Cesare Cremonini, L’autoapologia presso la
Signoria veneziana (1604), in Id., Le orazioni, cit., p. 70). Nel giugno del 1604 il Consiglio
dei Pregadi della Repubblica Veneta si schierò infine in sua difesa (A. Poppi, Cremonini,
Galilei, cit., pp. 66-67) e la Serenissima mantenne tale posizione anche in seguito (cfr., ad
esempio, i documenti pubblicati in Domenico Chiodo, Informazione intorno al Dottore
Cremonino - ASV - Fondo Borghese (1608), «Lo Stracciafoglio. Rassegna di italianistica», n.
VII (rivista on-line, consultata il 4 gennaio 2013. URL: http:// www.edres.it/ pdf/ Nume-
ro7.pdf ), s.d., pp. 25-28). È precisamente questo ciò che permise a Cremonini, nel 1619,
di presentare come dati di fatto la dimensione istituzionale del proprio ruolo e l’aspetto
politico del procedimento inquisitoriale aperto nei suoi confronti.
(27) Per un’introduzione ai rapporti tra Cremonini e la Natio Germanica artistarum, si
veda Lucia Rossetti, Cesare Cremonini e la “Natio Germanica artistarum”, in Cesare Cre-
monini, cit., vol. I, pp. 131-134.
POLITICA E SCIENZA TRA XVI E XVII SECOLO 17

Caso esemplare è quello relativo alla fortuna in Padova di Pompeo


Caimo, già medico in Roma del card. Alessandro Peretti e docente, per
interessamento di quest’ultimo, alla Sapienza, e dal 1624 docente di
medicina teorica a Padova. Tra il 1624 e il 1629, ossia in un periodo
durante il quale prevalse in Venezia il partito senatoriale curialista,28
allo scopo di nuocere a Cremonini e alla Natio Germanica i senatori
filopapali dapprima accolsero la venale richiesta dello stesso Caimo,
che nulla sapeva di anatomia, di essere nominato docente (dall’anno
accademico 1625-26) anche di tale materia, poi, il 28 marzo 1626, tra
le crescenti proteste degli studenti, in particolare ultramontani, giun-
sero a nominare Caimo addirittura alla carica di presidente del Col-
legio Veneto. Per due anni accademici gli studenti che vollero seguire
lezioni di anatomia dotate di qualche fondamento furono costretti a
lasciare Padova. Quando, il 24 aprile 1629, a seguito del ritorno al
potere del partito senatoriale anticurialista, Cremonini fu nominato
presidente del Collegio Veneto e si tenne la prima laurea sotto la sua
presidenza, la Natio Germanica artistarum offrì al suo patrono un ri-
tratto inciso, che distribuì assieme a carmi gratulatori.29 Con ciò non
si deve credere che Cremonini avesse avuto definitivamente la meglio
sui propri nemici, o che il partito filopapale avesse subito una scon-
fitta decisiva. Non può essere un caso che il padovano, e vescovo di
Cittanova, Giacomo Filippo Tomasini, pubblicando nel 1644 gli Elo-
gia virorum literis et sapientia illustrium ad vivum expressis imaginibus
exornata, non abbia incluso Cremonini tra i personaggi ivi celebrati,
tra i quali compare invece Caimo.
Questi eventi portano alla luce il nucleo più stabile e storiogra-
ficamente certo del pensiero e dell’impegno civile di Cremonini. Se
in trent’anni d’indagini il Sant’Uffizio non riuscì a provare che Cre-
monini non era un ‘buon cristiano’, ben difficilmente vi potranno ri-
uscire gli storici, ammesso e non concesso che abbia senso dedicarsi

(28) Si può osservare che gli anni in questione furono particolarmente infelici per la
Repubblica Veneta. Non solamente il potere fu nelle mani del partito filopapale, ma a capo
della Repubblica fu un doge, Giovanni I Cornaro (1551-1629, doge dal 1625), che mise
in atto le medesime pratiche nepotistiche in uso presso i papi. Sulla storia dei rapporti tra
il partito curialista e il partito anticurialista, e tra la Repubblica Veneta e la Curia papale,
dalla metà del XVI secolo alla metà del XVII, si vedano Gaetano Cozzi, Venezia dal Ri-
nascimento all’Età barocca, in Storia di Venezia, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana,
1992-2007, vol. VI, pp. 3-125, e Paolo Prodi, Chiesa e società, ivi, pp. 305-339.
(29) Sulla vicenda si vedano G.F. Pagallo, Cesare Cremonini maestro di William Har-
vey, cit., e Giuseppe Ongaro, La controversia tra Pompeo Caimo e Cesare Cremonini sul
calore innato, in Cesare Cremonini, cit., vol. I, pp. 87-110.
18 MARCO FORLIVESI

a un compito siffatto. È invece certo e storicamente significativo che


Cremonini non fu un cristiano filopapale. Fin dal 1591 egli aveva
ben compreso quale fosse l’obiettivo dei Gesuiti, della Curia papale
e dei circoli curialisti in genere: il dispiegamento di un progetto di
egemonia culturale, l’instaurazione di un regime religioso dispotico e
intollerante.

Vennero questi Padri poveri in umilissima sembianza, incominciarono ad insegnare


la grammatica a’ fanciulli e così a poco a poco, così pian piano, io non so come accu-
mulando ricchezze, di mano in mano insinuandosi, sono pervenuti ad insegnar tutte
le scienze, con intenzione, cred’io, di farsi in Padova i monarchi di sapere, purché
anco si contentino di così poco, e trionfare dello Studio della Repubblica venetiana,
distruggendolo.30

Contro questo progetto di dispotismo politico-religioso Cremo-


nini si batté per quarant’anni. Operando con accortezza nel contesto
non semplice, ma potenzialmente favorevole, dello scontro, entro la
Repubblica Veneta, tra curialisti e anti-curialisti, Cremonini si attestò
sulla linea del fronte della tolleranza più avanzata tra quelle a quel
tempo effettivamente difendibili; una linea che tenne con fermezza,
grazie alla propria astuzia e a non poca fortuna, ma anche con corag-
gio.31 Così facendo egli non sacrificò, come altri fecero, la propria vita
in nome dei propri ideali, tuttavia formò generazioni di uomini di
cultura, anche ecclesiastici, avveduti circa la reale natura, ossia la natu-
ra politica, del cattolicesimo papalino. Si notino, ad esempio, i buoni
rapporti che egli ebbe con i monaci dell’Abbazia di Santa Giustina, ai
quali tenne regolarmente lezione per decenni nonostante l’opposizio-
ne della Curia papale. Si osservi anche il fatto che egli frequentava le
funzioni religiose nella chiesa del Santo, ossia nella chiesa del convento
ove risiedevano gli inquisitori di Padova, appartenenti tutti all’ordine
dei Minori Conventuali. In effetti, anche a proposito di quest’ulti-
mo dato storico si può ipotizzare una spiegazione di tipo ‘politico’.
Non può essere un caso che gli inquisitori patavini abbiano in almeno
un’occasione, ossia nel 1604, deposto a favore del ‘buon comporta-

(30) Cesare Cremonini, Orazione contro i gesuiti a favore dello studio di Padova, in
Id., Le orazioni, cit., p. 68.
(31) Sulle difficoltà in cui si trovò Cremonini, specialmente prima del 1600, e sulle
protezioni di cui godé, si veda, oltre al già ricordato volume di M. Sangalli, Università,
cit., anche il saggio del medesimo studioso sul tema Cesare Cremonini, la Compagnia di
Gesù e la Repubblica di Venezia: eterodossia e protezione politica, in Cesare Cremonini, cit.,
vol. I, pp. 207-218.
POLITICA E SCIENZA TRA XVI E XVII SECOLO 19

mento cristiano’ di questo autore, limitandosi successivamente, nei


momenti più critici, a riferire al Sant’Uffizio voci certo negative su di
lui ma generiche, comunque non prendendo contro di lui iniziative
efficaci. In effetti, una condanna di Cremonini non solo avrebbe posto
i Conventuali in cattiva luce presso una parte importante della nobil-
tà senatoria veneziana, ma li avrebbe anche esposti all’accusa di non
essere stati capaci di accorgersi del fatto che un eretico di tale fama e
importanza si celasse pressoché sotto il loro naso.
Tutto questo dunque è il ‘raffinatissimo artificio’ di cui parlava
l’Imperiali, o il ‘gioco dissimulato’ di cui scrisse Gabriel Naudé in un
suo celebre giudizio sul nostro autore:

Cremonini cachoit finement son jeu en Italie: nihil habebat pietatis et tamen pius
haberi volebat. Une de ses maximes étoit: intus ut libet, foris ut moris est.32

Naudé, tuttavia, deformò il significato dell’operato di Cremonini,


piegandolo ai propri intenti e alle proprie prospettive esplicitamente
libertine.33 A prescindere da ciò che Cremonini pensasse circa i dogmi
della religione cattolica e la loro dimostrabilità filosofica, e su cui ben
difficilmente gli storici potranno dire qualcosa con sicurezza, ciò che
è certo è che egli non intese essere maestro e fautore di irreligiosità;
intese essere maestro e fautore di tolleranza. Ancora nel 1637 la Natio
Germanica artista ottenne che uno stemma in pietra recante le armi
araldiche di Cremonini fosse collocato, non a caso, sopra la porta d’in-
gresso del Collegio Veneto. Possiamo a buon diritto vedere in esso un
simbolo di quel motto, «melius habere lentem religionem quam fer-
ventem», che esprime quanto gli studenti potevano apprendere in quei
decenni del Seicento a Padova. È di questa tolleranza che Cremonini
parla nell’esclamazione che chiude la già ricordata lettera del 1611
di Gualdo a Galilei, su cui torneremo anche in seguito: «Oh quanto
harrebbe fatto bene anco il S.r Galilei, non entrare in queste girandole,
e non lasciar la libertà Patavina!». Una libertà di cui il nostro autore

(32) Naudaeana et Patiniana. Ou singularitez remarquables, prises des conversations de


mess. Naudé et Patin, Amsterdam, François vander Plaats, 17032, pp. 56-57.
(33) Su questo punto, si vedano Jean-Pierre Cavaillé, L’athéisme des professeurs de
philosophie italiens dans les “Naudeana et Patiniana” et leurs sources, «Les Dossiers du Grihl»
(rivista on-line, consultata il 4 gennaio 2013. Articolo pubblicato on-line il 3 febbraio
2011. URL: http:// dossiersgrihl.revues.org/ 4542. DOI: 10.4000/ dossiersgrihl.4542);
Françoise Charles-Daubert, La fortune de Crémonini chez les libertins érudits du XVIIe
siècle, in Cesare Cremonini, cit., vol. I, pp. 169-191; Domenico Bosco, Cremonini e le
origini del libertinismo, in Cesare Cremonini (1550-1631), cit., pp. 249-289.
20 MARCO FORLIVESI

scrive numerose volte, anche con trasporto poetico e senza tralasciare


di indicare ai notabili veneti, compiacendoli, un ideale di Stato.

O bella libertà più pretiosa de l’oro, amabil sola più del cumulo intero dei beni che
dispensa fortuna, e sola degna d’esser posta in bilancia con l’aure onde si vive. Così
Bruto e Catone disdegnar, te perduta, d’esser romani; l’errar teco nei boschi e per
le rupi appresso l’alme grandi è di più pregio che lo star senza te ne gran palagi.
Felicissime adunque si reputin le genti a cui è dato, longe da quell’asprezza ch’ha
seco il nudo cielo del silvestre deserto, gentil soggiorno in libera cittade; e questa,
che qui regge veneta libertà, la scorga il fato lieta, che ben lo merta, a par co’ Sole.
Qui, purché non presuma disordinatamente, quanto ti piace, altrettanto ti lice. Qui,
a chiunque è nato partecipe d’humana società, vien permesso il ricetto, e n’è cia-
scun ugualmente protetto sotto il buon patrocinio d’incorrotta giustitia. Io ci venni
d’altronde, e n’ho fatto canuto il capo e ’l mento; m’è stato dolce albergo e soave
ricetto.34

2. Il caso Galilei

2.1 Galilei e Cremonini: importanti divergenze, molto in comune


Le divergenze tra Galilei e Cremonini in ambito fisico, astronomi-
co ed epistemologico sono universalmente note. Ciononostante, i due
autori avevano molto in comune. Essi furono colleghi presso lo Studio
di Padova per quasi diciotto anni, dal 1592 al 1610. Furono anche
tra i membri fondatori dell’Accademia dei Ricovrati, essendo presenti

(34) Cesare Cremonini, Le nubi, atto 3, scena 5, in Ugo Montanari, L’opera let-
teraria di Cesare Cremonini, in Cesare Cremonini (1550-1631), cit., pp. 184-185. Ma
si considerino almeno anche i seguenti due passaggi, già segnalati da Montanari, de Il
ritorno di Damone, overo la sampogna di Mirtillo. Favola silvestre, atto 4 (opera pubblicata
da Cremonini a Venezia nel 1622 ma la cui composizione sembrerebbe risalire al periodo
ferrarese della sua vita): «Tutti, nati che siamo, siamo vivi egualmente; e dovrebbe egual-
mente esser, nato ch’egli è, ciascun signore del suo proprio volere» (scena 1, p. 109); «S’a
me toccasse mai d’impor leggi a le genti, io vorrei ch’ogn’un fosse uguale a l’altro; e chi,
solo una volta, seguisse l’altrui voglia, fosse poi condennato a non ottener mai cosa veru-
na, che fosse di sua voglia» (scena 2, p. 110). Sulla libertas patavina si vedano i saggi di
Aldo Stella, in particolare Aldo Stella, L’Università di Padova al tempo del Cremonini, in
Cesare Cremonini (1550-1631), cit., pp. 69-82. Sull’opera letteraria di Cremonini, si ve-
dano principalmente Giovanni Pellizzari, Cesare Cremonini e Giorgio Raguseo, «Atti e
memorie dell’Accademia Galileiana di scienze lettere ed arti in Padova», CXI, 1997-1998,
pp. 17-32, ed Elena Bergonzi, Cesare Cremonini scrittore. Il periodo ferrarese e i primi
anni padovani. La pastorale Le pompe funebri, «Aevum», LXVII, 1993, pp. 571-593.
POLITICA E SCIENZA TRA XVI E XVII SECOLO 21

all’atto della sua costituzione il 25 novembre 1599.35 Entrambi erano


ben consapevoli delle peculiarità della ‘vita universitaria’. Se Cremoni-
ni aveva dichiarato, nel 1599, che «inter legentes in Almo Gimnasio
Patavino ob aemulationem et alias graves contentiones saepe saepius
laqueos et insidias parari et instrui, et hoc malis artibus et modis»,36 ne
Il Saggiatore (opera pubblicata nel 1623) Galilei così scriveva a propo-
sito del gesuita Orazio Grassi:

mi vo immaginando che il Sarsi [ossia Orazio Grassi] abbia dalla sua filosofia il poter
egualmente lodare e biasimare, confermare e ributtar le medesime dottrine, secondo
che la benevolenza o la stizza lo traporta: e fammi in questo luogo sovvenir d’un
lettor di filosofia a mio tempo nello Studio di Padova, il quale essendo, come talvol-
ta accade, in collera con un suo concorrente, disse che, quando quello non avesse
mutato modi, avria sotto mano mandato a spiar l’opinioni tenute da lui nelle sue
lezzioni, e che in sua vendetta avrebbe sempre sostenuto le contrarie.37

Nell’aprile del 1604 Cremonini e Galilei furono denunciati, quasi


contemporaneamente ma con procedimenti distinti, all’Inquisizione
in Padova. Com’è noto, il procedimento contro Galilei fu bloccato sul
nascere e nulla di esso fu trasmesso all’Inquisizione in Roma,38 tuttavia
si potrebbe pensare che negli ambienti curialisti veneti rimanessero
perplessità sulla fedeltà del Pisano ai dettami della Chiesa Cattolica
anche posteriormente alla sua partenza. Nel 1613, Bernardo Pisenti
– un personaggio legato a Niccolò Sagredo –, così scriveva a Ingolfo
de’ Conti.

Voglia Iddio che l’assolutione dell’Ecc.mo Cremonini li giovi più all’anima di quello
che fa la mathematica alle anime delli professori di essa, allontanati assai dal spiri-
tuale.39

(35) L’atto di fondazione dell’Accademia è pubblicato anche in GGO, vol. XIX, pp.
207-208; i nomi di Cremonini e di Galilei compaiono a p. 207.
(36) Si veda nota 3.
(37) Galileo Galilei, Il saggiatore, § 5, in GGO, vol. VI, p. 228.
(38) Cfr. i già ricordati lavori di Antonino Poppi: A. Poppi, Cremonini, Galilei, cit.;
Id., Cremonini e Galilei, cit.
(39) Bernardo Pisenti, lettera a Ingolfo de’ Conti, Venezia 3 maggio 1613, in GGO,
vol. XI, pp. 503-504: 504. Non è evidente che il giudizio di Pisenti si riferisca a Galilei,
tuttavia le nostre conoscenze della storia veneta di quegli anni non sono sufficienti per
individuare altri possibili obiettivi. Nel maggio del 1613 la cattedra di matematica in
Padova era ancora vacante. Giovanni Camillo Gloriosi, che avrebbe ricevuto l’incarico
per quella cattedra nell’autunno del 1613, era già a Venezia e personaggio ben noto, ma
non vi sono elementi per pensare che Pisenti si riferisca a lui.
22 MARCO FORLIVESI

Sul piano personale, i due pensatori furono legati per lungo tem-
po da una solida amicizia. Lo testimoniò nell’aprile 1604 Silvestro
Pagnoni, che per un anno e mezzo era stato copista di Galilei: all’atto
di denunciare quest’ultimo all’Inquisizione di Padova, alla domanda
«Con chi pratica familiarmente questo Galileo», Pagnoni rispose «Col
Cremonino quasi ogni giorno».40 Questa amicizia, si noti, non fu
spenta neppure dalla polemica del 1605 relativa alla stella nova appar-
sa nel 1604. Nel 1608 Cremonini agì da fideiussore a favore di Galilei
per la considerevole cifra di 520 fiorini; viceversa, allorché lasciò Pa-
dova Galilei prestò a Cremonini, senza formalità, l’altrettanto conside-
revole somma di 400 ducati. Ancora nel 1613, anno di pubblicazione
della Disputatio de coelo di Cremonini, Filippo Salviati scrisse a Galilei:
«Nel passar di Padova parlai al S.r Cremonino, che nel discorrere mi
pare molto amico e partiale di V.S., fuor che nella dottrina».41 Come
ha dimostrato Giulio Pagallo, la ragione – almeno contingente – del
raffreddarsi dell’amicizia tra i due pensatori risiedette in una questione
di ordine economico; una questione, peraltro, provocata da un com-
portamento poco elegante di Galilei e di Giovanfrancesco Sagredo,
non di Cremonini.42
Per quanto riguarda i rapporti tra i due autori sul piano scien-
tifico, nonostante le già ricordate divergenze si deve osservare che le
lettere a noi note di e a Galilei mostrano che egli, almeno fino al 1613,
non era indifferente all’opinione che Cremonini aveva di lui. In par-
ticolare, Galilei attendeva quasi ansiosamente la pubblicazione del De
coelo di Cremonini, nonostante che i suoi confidenti lo esortassero a
non prestare a quest’opera alcuna attenzione. In effetti, se Galilei aveva
forse nutrito qualche speranza di trovare nelle pagine di quel testo un
qualche riconoscimento delle proprie scoperte, sta di fatto che essa
andò delusa. Eppure, è anche un fatto che, per quanto ci è noto, dopo
lo scontro del 1605 Galilei non espresse giudizi sarcastici su Cremo-
nini, diversamente da quanto fece nei confronti di altri autori; pari-
menti, neppure Cremonini, dopo quell’anno, polemizzò con Galilei.
Segno di ottusità e di disinteresse del filosofo centese nei confronti
dello scienziato pisano, come tante volte si è scritto, o della consape-

(40) Il testo della denuncia è pubblicato in A. Poppi, Cremonini, Galilei, cit., pp. 51-
54: 53.
(41) Filippo Salviati, lettera a Galileo Galilei, Verona 13 novembre 1613, in GGO,
vol. XI, p. 595.
(42) Cfr. Giulio F. Pagallo, Giovanfrancesco Sagredo fra Galileo e Cremonini, per un
pugno di ducati, «Atti e memorie dell’Accademia Galileiana di Scienze Lettere ed Arti in
Padova», CXX, 2007-2008, vol. III, pp. 3-26.
POLITICA E SCIENZA TRA XVI E XVII SECOLO 23

volezza di Cremonini di non disporre delle competenze, innanzi tutto


matematiche, necessarie per confrontarsi con le posizioni di Galilei?
Certo è che i due autori condividevano alcune tesi epistemologi-
che di rilevanza non secondaria. Per entrambi la conoscenza scientifica
è una conoscenza del reale stato delle cose. Per entrambi essa ha come
punto di partenza l’esperienza compiuta per mezzo dei sensi. Per en-
trambi è necessario che l’esperienza compiuta per mezzo dei sensi sia
vagliata e correttamente interpretata dalla ragione. Ferme restando la
diversità delle rispettive concezioni della scienza, per entrambi le con-
clusioni cui giunge la ragione scientifica non sono coartabili dall’opera
della volontà, propria o altrui. Diversamente da quanto è stato spesso
scritto, dunque, nella ‘indisciplinabilità’ del metodo scientifico non
vi è nulla di specificamente moderno, trattandosi di null’altro che del
secolare tema della libertas philosophandi in naturalibus. Piuttosto, si
potrebbe osservare che su parte delle tesi che abbiamo ora ricordato la
posizione di Galilei fu più prossima a quella di Cremonini che a quella
che sarebbe poi stata di Descartes.
Da ultimo, ma fatto di qualche importanza, entrambi i nostri au-
tori nutrivano un vivo anelito di libertà. Abbiamo già ricordato quan-
to Cremonini scriveva ne Il ritorno di Damone.

dovrebbe egualmente esser, nato ch’egli è, ciascun signore del suo proprio volere[...].
S’a me toccasse mai d’impor leggi a le genti io vorrei ch’ogn’un fosse uguale a l’altro.
E chi, solo una volta, seguisse l’altrui voglia, fosse poi condannato a non ottener mai
cosa veruna che fosse di sua voglia.43

Così scriveva Galilei in una nota manoscritta e privata vergata


posteriormente alla condanna del 1633.

In materia dell’introdur novità. / E chi dubita che la nuova introduzzione, del voler
che gl’intelletti creati liberi da Dio si facciano schiavi dell’altrui volontà, non sia
per partorir scandoli gravissimi? / e che il volere che altri neghi i proprii sensi e gli
posponga all’arbitrio di altri / e che l’ammettere che persone ignorantissime d’una
scienza o arte abbiano ad esser giudici sopra gl’intelligenti, e per l’autorità concedu-
tagli siano potenti a volgergli a modo loro / Queste sono le novità potenti a rovinare
repubbliche e sovvertire gli stati<.>44

(43) Cfr. nota 34.


(44) Postille di mano di Galilei sul foglio di guardia della sua copia dell’edizione fio-
rentina del 1632 del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (Padova, Biblioteca del
Seminario, ms. 352), pubblicate in GGO, vol. VII, p. 540.
24 MARCO FORLIVESI

2.2 La politica culturale di Galilei


Come si è detto, non ci si occuperà qui delle tesi fisiche ed episte-
mologiche di Galilei; ci si concentrerà piuttosto sulla strategia e sulle
tattiche tramite le quali Galilei tentò di diffondere, se non addirittura
d’imporre, la propria visione del mondo.
La difficoltà di fondo che lo scienziato pisano tentò di superare era
costituita dalla resistenza opposta dai docenti universitari di filosofia
naturale alle sue dottrine epistemologiche e fisiche, in generale, e a
quelle astronomiche in particolare. Una volta constatata l’impossibili-
tà di portare sulle proprie posizioni questi cattedratici, egli cominciò
a contrastarne il potere e l’influenza. Come scrisse Federico Cesi allo
stesso Galilei, «non si pò se non pian piano ir togliendo di possesso i
Peripatetici».45 La strategia generale di Galilei per raggiungere questo
obiettivo fu duplice. Da un lato, tentò di far leva sull’opinione ‘pub-
blica’, intendendo qui per ‘pubblica’ quella dei notabili. Precisamente
a questo fine egli pubblico le proprie opere innanzi tutto in volga-
re italiano. A proposito delle opere Istoria e dimostrazioni intorno alle
macchie solari e loro accidenti e Discorso intorno alle cose che stanno in
su l’acqua o che in quella si muovono, così scriveva nel 1612 a Paolo
Gualdo.

Io l’ho scritta vulgare [si riferisce qui all’opera Istoria] perchè ho bisogno che ogni
persona la possa leggere, e per questo medesimo rispetto ho scritto nel medesimo
idioma questo ultimo mio trattatello [si riferisce qui all’opera Discorso]: e la ragione
che mi muove, è di vedere, che mandandosi per gli Studii indifferentemente i giove-
ni per farsi medici, filosofi etc., sì come molti si applicano a tali professioni essendovi
inettissimi, così altri, che sariano atti, restano occupati o nelle cure familiari o in altre
occupazioni aliene dalla litteratura […]; et io voglio ch’e’ vegghino che la natura, si
come gl’ha dati gl’occhi per veder l’opere suo così bene come a i filuorichi [ossia i
filosofi naturali], gli ha anco dato il cervello da poterle intendere e capire.46

(45) Federico Cesi, lettera a Galileo Galilei, Roma 30 novembre 1612, in GGO, vol.
XI, pp. 438-439: 439.
(46) Galileo Galilei, lettera a Paolo Gualdo, Firenze 16 giugno 1612, in GGO, vol.
XI, pp. 326-328: 327. Il testo così prosegue: «Contutto ciò vorrei che anco l’Apelle [ossia
il gesuita Christoph Scheiner (1573-1650)] e gl’altri oltramontani potessero vederla; e
qui, per esser io occupatissimo, haverei bisogno del favore di V.S. e del S. Sandeli [ossia
Martino Sandelli], il quale mi facesse grazia di trasferirla quanto prima in latino e man-
darmela poi subito, perchè in Roma è chi si è preso cura di farla stampare insieme con
alcune altre mie.»
POLITICA E SCIENZA TRA XVI E XVII SECOLO 25

Dall’altro lato, e più specificamente, Galilei tentò di convincere


delle proprie tesi quanti erano al vertice della Chiesa Cattolica. Per
conseguire questo obiettivo, lo scienziato pisano non lesinò sforzi. Le
sue conoscenze in ambito ecclesiastico furono notevoli: da cardinali
quali Cesare Baronio, Francesco Maria del Monte, Federico Borro-
meo, Maffeo Barberini (poi papa Urbano VIII), Alessandro Orsini,
Carlo de’ Medici, Francesco Barberini – e molti altri andrebbero ag-
giunti alla lista – fino a personalità meno in vista ma pur sempre con
buone entrature quali Paolo Gualdo, Piero Dini, Giovanni Ciampoli,
passando anche per esponenti importanti di ordini religiosi quali il ge-
suita Cristoforo Clavio (Christoph Klau?) e i domenicani Luigi Maraf-
fi, Giacinto Stefani, Niccolò Riccardi. Agli ecclesiastici vanno aggiunti
i nobili di parte curialista, o comunque in buoni rapporti con la Curia
papale o con l’ordine dei Gesuiti, quali Federico Cesi e Mark Welser.
Come efficacemente osservato da William Shea e Mariano Artigas, in
quattro delle sei occasioni in cui Galilei si recò a Roma lo fece non
solamente di propria spontanea volontà, ma precisamente per pro-
muovere le proprie tesi negli ambienti romani.47 Ogniqualvolta trovò
resistenze entro un ordine religioso, egli utilizzò due tattiche, suggeri-
tegli da Cesi e da Ciampoli: distinguere i singoli religiosi dall’ordine al
quale appartenevano e guadagnarsi, entro quell’ordine religioso, l’ap-
poggio degli oppositori di coloro che gli si opponevano.48
L’esito degli sforzi di Galilei è noto e altrettanto noti sono gli erro-
ri tattici che commise. In generale, egli fu vittima innanzi tutto della
forza delle proprie convinzioni. Scriveva Piero Guicciardini, ambascia-
tore di Toscana, il 4 marzo 1615, all’indomani della prima condanna
della dottrina copernicana.
Il Galileo ha fatto più capitale della sua opinione che di quella de’ suoi amici: et il Sig.or
Card.le dal Monte et io, in quel poco che ho potuto, et più Cardinali del S.to Offizio l’ha-
vevano persuaso a quietarsi, et non stuzzicare questo negozio; ma se voleva tenere questa
openione, tenerla quietamente, senza far tanto sforzo di disporre e tirar gl’altri a tener
l’istesso, dubitando ciascuno che la sua venuta qua gli fusse pregiudiziale et dannosa, et
che non fusse venuto altrimenti a purgarsi et a trionfare de’ suoi emuli, ma a ricevere un
fregio. […] Ma egli s’infuoca nelle sue openioni, ci ha estrema passione dentro, et poca
fortezza et prudenza a saperla vincere: tal che se li rende molto pericoloso questo cielo di

(47) William Shea - Mariano Artigas, Galileo a Roma. Trionfo e tribolazioni di un


genio molesto, Venezia, Marcianum Press, 2009.
(48) Si vedano Federico Cesi, Parere, allegato a Id., lettera a Galileo Galilei, Acqua-
sparta 12 gennaio 1615, in GGO, vol. XII, pp. 129-131, e Giovanni Ciampoli, lettera
a Galileo Galilei, Roma 2 agosto 1620, in GGO, vol. XIII, pp. 46-47.
26 MARCO FORLIVESI

Roma, massime in questo secolo, nel quale il Principe di qua [ossia Paolo V] aborrisce
belle lettere et questi ingegni, non può sentire queste novità nè queste sottigliezze, et
ogn’uno cerca d’accomodare il cervello et la natura a quella del Signore [ossia il papa]; sì
che anco quelli che sanno qualcosa et son curiosi, quando hanno cervello, mostrano tut-
to il contrario, per non dare di sè sospetto et ricevere per loro stessi malagevolezze. […]
se il Galileo aspetterà qua [ossia nell’ambasciata di Toscana in Roma] il Sig.or Cardinale
[ossia Carlo de’ Medici], et l’intrigherà punto in questi negozii, sarà cosa che dispiacerà
assai; et egli [ossia Galileo] è vehemente, ci è fisso et appassionato, sì che è impossibile
che chi l’ha intorno scampi dalle sue mani.49

Più specificamente, dapprima, tra il 1612 e il 1616, Galilei scon-


tentò parte dei domenicani e i teologi in genere, volendo rendere ac-
cetta l’interpretazione propria, o di alcuni suoi amici, collaboratori o
fautori, dei passi biblici che potevano essere invocati contro il coper-
nicanesimo.50 Poi, tra il 1619 e 1623, si alienò le simpatie dei Gesuiti
nella polemica con Orazio Grassi sulla natura delle comete.51 A ciò si
aggiunga che confidò sempre troppo nelle possibilità dei granduchi di
Toscana di resistere alle pressioni esercitate da Roma.52 Infine, nel Dia-
logo sopra i massimi sistemi del mondo presentò l’argomento a favore del

(49) Piero Guicciardini, lettera al granduca di Toscana [Cosimo II], Roma 4 marzo
1616, in GGO, vol. XII, pp. 241-242.
(50) Questo errore tattico fu condiviso da Cesi (cfr. Federico Cesi, Parere, allegato a
Id., lettera a Galileo Galilei, Acquasparta 12 gennaio 1615, in GGO, vol. XII, pp. 129-
131: 130, e Id., lettera a Galileo Galilei, Roma 7 marzo 1615, in GGO, vol. XII, pp.
149-150: 150), ma era stato acutamente ed esplicitamente segnalato da Ciampoli: «Il S.r
Card.l Barberino, il quale, come ella sa per esperienza, ha sempre ammirato il suo valore,
mi diceva pure hiersera, che stimerebbe in queste opinioni maggior cautela il non uscir
delle ragioni di Tolomeo o del Copernico, o finalmente che non eccedessero i limiti fisici
o mathematici, perchè il dichiarar le Scritture pretendono i theologi che tocchi a loro; e
quando si porti novità, ben che per ingegno ammiranda, non ogn’uno ha il cuore senza
passione, che voglia prender le cose come son dette; chi amplifica, chi tramuta; tal cosa
esce di bocca dal primo autore, che tanto sarà trasformata nel divolgarsi, che più non la
riconoscerà per sua.» (Giovanni Ciampoli, lettera a Galileo Galilei, Roma 28 febbraio
1615, in GGO, vol. XII, pp. 145-147: 146. Cfr. anche Piero Dini, lettera a Galileo
Galilei, Roma 7 marzo 1615, in GGO, vol. XII, pp. 151-152, e Giovanni Ciampoli,
lettera a Galileo Galilei, Roma 21 marzo 1615, in GGO, vol. XII, pp. 160-161: 161).
(51) Si veda quanto lo stesso Galilei scrive nel 1634 ad Elia Diodati: Galileo Galilei,
lettera a Elia Diodati, Arcetri 25 luglio 1634, in GGO, vol. XVI, pp. 115-119: 116-117.
(52) Dai tempi del tradimento di Pietro Carnesecchi in cambio del titolo granducale,
i Medici si erano posti in una condizione di subalternità allo Stato della Chiesa. Un vela-
to riferimento al Carnesecchi potrebbe essere contenuto nella stessa lettera, già ricordata,
di Guicciardini a Cosimo II del 4 marzo 1616.
POLITICA E SCIENZA TRA XVI E XVII SECOLO 27

geocentrismo formulato dal suo più importante protettore, Urbano


VIII, in modo così infelice da offendere il suo autore.
Resta aperta una domanda: se, oltre a questi errori tattici, Galilei
commise anche un errore strategico. Era veramente ipotizzabile, come
credette Galilei, che la Curia papale, la Chiesa Cattolica intesa come
struttura politico-istituzionale ormai fagocitata dal papato, potesse far
proprie le dottrine dello scienziato pisano e porsi dalla parte di quest’ul-
timo nella sua lotta contro i docenti universitari di filosofia naturale?
Nel 1633, come si è visto, Galilei si lamenta del fatto che «persone
ignorantissime d’una scienza o arte abbiano ad esser giudici sopra gl’in-
telligenti, e per l’autorità concedutagli siano potenti a volgergli a modo
loro». Ebbene, precisamente questa è la natura del potere al quale egli si
era rivolto. Le lettere degli ambasciatori granducali in Roma, Guicciar-
dini e Niccolini, concernenti quanto accadde a Galilei, rispettivamente,
nel 1616 e nel 1633 sono chiarissime in proposito: tutto in Roma, e
negli ambiti della Chiesa Cattolica che sono soggiogati al potere del
papa, è alla mercé del volere e dei capricci di un solo individuo, alle idee
del quale ognuno cerca di ‘accommodare’ le proprie.53 Il pensiero non
può non andare alle lucide parole con cui, pochi anni prima, Paolo Sarpi
aveva descritto la natura di questa struttura politica.
Nessuno che conosca l’antichità e la storia potrebbe negare il primato, anzi il prin-
cipato della Sede Apostolica. Ma questo, cui ora aspirano, non è un primato, ma
un ‘totato’, se è lecito inventare un vocabolo per indicare il fatto che, abolito ogni
ordinamento, si attribuisce completamente tutto a uno solo.54

(53) Cfr. Piero Guicciardini, lettera al granduca di Toscana [Cosimo II], Roma 4
marzo 1616, in GGO, vol. XII, pp. 241-242, e Francesco Niccolini, lettera ad Andrea
Cioli [segretario del granduca di Toscana Ferdinando II], Roma 5 settembre 1632, in
GGO, vol. XIV, pp. 383-385.
(54) «Apostolicae sedis primatum, imo et principatum nemo gnarus antiquitatis et
historiae negavit. Hic, quem modo affectant, non est primatus, sed totatus, si liceat voca-
bulum effingere ex eo quod abrogato omni ordine totum omnino uni tribuit.» (Paulus
Sarpius, lettera a <Jacobus> Gillotius [ossia: Jacques Gillot, prima canonico e poi decano
della cattedrale di Langres], Venetiis 15 septembris 1609, in Paolo Sarpi, Lettere ai Gal-
licani, a cura di B. Ulianich, Wiesbaden, Steiner, 1961, pp. 134-136: 134). Illuminante
anche il seguente passo: «Ne speres illos passuros se in ordinem redigi. Inter arcana illius
dominationis habent, idem esse toto imperio cedere, ac uno tantum atomo infinitam et
illimitatam illam potestatem minuere. Mihi crede, qui earum rerum sum conscius; ita
bellabunt, ut defendant papam esse supra omne ius, et errare non posse, ac neminem
ei obicere posse cur ita facis, ac pro aris et focis; et merito quidem, nam si eum aggerem
guttula aquae penetraret, iam integer fluvius ingrederetur.» (Paulus Sarpius, lettera a
<Jacobus> Gillotius, Venetiis 12 maii 1609, in P. Sarpi, Lettere, cit., pp. 131-133: 132).
28 MARCO FORLIVESI

Grazie a un limpido saggio di Giulio Pagallo,55 è ora facile indi-


care la radice dell’‘errore strategico’ di Galilei. Esaminando innanzi
tutto la minuta della lettera di Galilei a Vincenzio Vespucci, stesa nel
febbraio 1609,56 e la penetrante lettera inviata allo stesso Galilei da
Giovanfrancesco Sagredo nell’agosto del 1611,57 Pagallo mostra che,
a partire almeno dall’inizio del 1609, lo scienziato pisano espresse la
convinzione – che certamente andava sviluppando già da qualche
anno – secondo la quale la piena libertà di svolgere ricerca può essere
garantita solamente «nel rapporto diretto con il ‘principe assoluto’ e
all’ombra della sua protezione».58 Abbagliato dalla certezza dell’evi-
denza dei propri meriti e del valore della fama che poteva offrire ai
prìncipi,59 egli non fu capace di vedere i pericoli connessi al dipendere
dalla volontà di un uomo solo. In definitiva, Galilei soffrì precisamen-
te «la violenza di quel principio di autorità assoluta, cui aveva creduto
di poter confidare pienamente la libertà delle ricerche in cui andava
impegnando la propria vita».60
A quanto Pagallo scrive ci permettiamo di aggiungere che Galilei
non limitò la validità della propria convinzione al caso del patrona-
to del granduca di Toscana; al contrario, la estese al più assoluto dei
monarchi: il ‘tre volte re’ papa della Chiesa Cattolica romana. Questa
convinzione nasceva certamente da una notevole ingenuità; un’inge-
nuità sorprendente in un uomo di tanto ingegno, ma che ci ricorda
che non sempre la genialità in un ambito comporta acutezza di visione
in altri. Galilei pagò il fio di questo suo limite, intravedendo forse solo
al termine dei suoi anni che la libertà nasce dalla dialettica politica,
non dalla volubile protezione di un despota. Come egli stesso scrisse
nel 1640 a Fortunio Liceti,

(55) Giulio F. Pagallo, Galileo Galilei da Padova a Firenze (1609-1610): i ‘perché’


e il ‘percome’, «Atti e memorie dell’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti già
dei Ricovrati e Patavina», CXXIV, 2011-2012, pp. 3-42. Oltre che ai testi menzionati da
Pagallo e alle considerazioni da lui sviluppate, rinviamo anche alla ricca bibliografia cui
egli fa riferimento.
(56) Galileo Galilei, minuta di lettera a Vincenzio Vespucci, Padova febbraio 1609,
in GGO, vol. X, pp. 232-234.
(57) Giovanfrancesco Sagredo, lettera a Galileo Galilei, Venezia 18 agosto 1611,
in GGO, vol. XI, pp. 170-172.
(58) G.F. Pagallo, Galileo Galilei, cit., p. 26.
(59) Ivi, pp. 33-42.
(60) Ivi, p. 18.
POLITICA E SCIENZA TRA XVI E XVII SECOLO 29

Non senza invidia sento il suo ritorno a Padova, dove consumai li diciotto anni
migliori di tutta la mia età. Goda di cotesta libertà e delle tante amicizie che ha
contratto costì e nell’alma città di Venezia.61

Conclusione

Innumerevoli volte è stata citata la celebre esclamazione di Cremo-


nini a proposito della scelta di Galilei di lasciare Padova: «Oh quanto
harrebbe fatto bene anco il S.r Galilei, non entrare in queste girando-
le, e non lasciar la libertà Patavina!». Si noti il momento storico nel
quale fu pronunciata: il luglio del 1611. Galilei era da poco tornato a
Firenze da Roma, ove aveva ricevuto ampi plausi; cosa poteva spingere
Cremonini a ritenere così rischiose le scelte del suo amico? Un’ipotesi
plausibile è che fosse venuto a conoscenza del fatto che, nei medesimi
giorni in cui Galilei era riverito in Roma, il Sant’Uffizio aveva deciso
di chiedere all’Inquisitore di Padova se lo scienziato pisano fosse stato
coinvolto nel processo intentato contro il Centese.62 Se effettivamente
Cremonini ebbe notizia di questa richiesta, non gli fu difficile com-
prendere quali timori muovessero il Sant’Uffizio. Nondimeno, anche
se non ne venne a conoscenza, il suo fiuto politico e la sua esperien-
za furono sufficienti per intuire quali rischi correva Galilei. Vi è chi
ha ritenuto che il Sant’Uffizio, Bellarmino in primis, fosse spinto dal
presentimento delle capacità della nuova scienza di spezzare il ‘sapere
tradizionale’. Questo giudizio, però, non sembra ben calibrato. Gli
studi dedicati al cardinale gesuita hanno mostrato che ciò che gli stava
a cuore non era il ‘sapere tradizionale’ in genere; piuttosto, egli inten-
deva assicurare la stabilità della teologia soprannaturale e, soprattutto,
garantire il controllo del papato sulla cultura.63 Si noti la formulazione
(61) Galileo Galilei, lettera a Fortunio Liceti, Arcetri 23 giugno 1640, in GGO, vol.
XVIII, pp. 207-209: 209. Il testo è opportunamente riportato anche da Pagallo nella prima
pagina del suo saggio ora menzionato e riecheggia curiosamente un passaggio della lettera
del 18 agosto 1611 del Sagredo: «La libertà et la monarchia di sè stessa dove potrà trovarla
come in Venetia? principalmente havendo li appoggi che haveva V.S. Ecc.ma, i quali ogni
giorno, con l’accrescimento della età et auttorità de’ suoi amici, si faceva più considerabile.»
(62) S. Pagano, I documenti vaticani del processo di Galileo Galilei (1611-1741), Città del
Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 20092, p. 172.
(63) Cfr., ad esempio, Franco Motta, Bellarmino. Una teologia politica della Controrifor-
ma, Brescia, Morcelliana, 2005, e The Louvain Lectures (Lectiones Lovanienses) of Bellarmine
and the Autograph Copy of his 1616 Declaration to Galileo, a cura di U. Baldini - G.V. Coyne,
Città del Vaticano, Specola Vaticana, 1984.
30 MARCO FORLIVESI

della domanda posta dal Sant’Uffizio all’Inquisitore di Padova: non


semplicemente se esista un fascicolo su Galilei, bensì se questi fosse
coinvolto nel processo a Cremonini. Precisamente a quel controllo
Cremonini si sottrasse, grazie alla propria astuzia e alla Patavina liber-
tas; precisamente sotto quel controllo Galilei cadde, nella convinzione
di poter trarre il papato dalla propria parte e utilizzarne la forza per i
propri fini.
Tra i primi fautori della nuova scienza galileiana vi furono effet-
tivamente intellettuali di estrazione nobiliare filopapale, come il Sa-
gredo, ecclesiastici filogesuitici, come il Gualdo, e membri di ordini
religiosi, come il Foscarini. Fu questa, tra nuova scienza e alcuni circoli
ecclesiastici e curialisti, un’alleanza insufficiente a mutare gli orienta-
menti di fondo della Curia papale, tuttavia essa fece in tempo a proiet-
tare su Cremonini non solamente l’ombra dell’eresia, ma anche quella
della stupidità. Le ricerche storiche hanno invece messo in luce che,
per quanto meno geniale del suo collega, amico e (sul piano episte-
mologico e ‘scientifico’) avversario Galilei, egli fu un pensatore acuto.
Viceversa lo scienziato pisano, anche al fine di piegare i suoi ‘nemici’
universitari, confidò nel potere di un totatus, ossia di una struttura
politica caratterizzata dal dominio assoluto di un solo uomo, tanto
nella conduzione dello Stato che nel controllo delle coscienze. Questa
struttura non aveva interesse a promuovere attivamente nuovi saperi,
né, soprattutto, in essa si potevano dare spazi di libertà e dibattito
sgraditi al despota che ne è al vertice. Galilei restò dunque schiacciato
da quello stesso potere di cui sperava di servirsi. La posizione di Cre-
monini entro il mondo della cultura universitaria era certamente più
confortevole di quella di Galilei, sebbene lungi dall’essere tranquilla;
soprattutto, però, il Centese fu consapevole – diversamente da Galilei
– della peculiarità e dei fondamenti della ‘libertà Patavina’. Muoven-
dosi accortamente nei contesti creati dalla dialettica politica, interna
ed esterna, della Repubblica Veneta, si servì del proprio ruolo per di-
fendere e procurare spazi di libertà. Se molto dunque dobbiamo a Ga-
lilei, non meno dobbiamo a Cremonini, senza il quale probabilmente
non beneficeremmo di quella libertà di ricerca, per quanto incompleta
e sempre minacciata, di cui oggi godiamo.

Riassunto

La questione storica concernente le difficoltà incontrate da-


gli scienziati nelle prime decadi del XVII secolo è spesso affrontata
nei termini di un attrito tra scienza e religione, o tra scienza e ‘sa-
POLITICA E SCIENZA TRA XVI E XVII SECOLO 31

pere tradizionale’. Questa impostazione storiografica pone al centro


dell’attenzione aspetti certamente essenziali della questione, tuttavia
presenta anche limiti. Essa non esplicita il quadro delle dinamiche
specificamente politiche entro il quale i pensatori a cavallo tra XVI
e XVII secolo si trovarono ad operare. Inoltre, non porta alla luce la
natura poliedrica del cosidetto ‘sapere tradizionale’ e la complessità
dei rapporti che lo legarono ai differenti centri di potere politico, ol-
tre che alla stessa nuova scienza. Il presente saggio intende richiamare
l’attenzione su questi aspetti della questione, esaminando due casi em-
blematici di quel momento storico: Cesare Cremonini (1550-1631) e
Galileo Galilei (1564-1642). Entrambi questi pensatori svilupparono
strette relazioni con il potere politico al fine di garantirsi la possibilità
di formulare e divulgare le proprie dottrine; le loro strategie, tuttavia,
furono differenti. Il primo vide nel progetto politico e culturale della
Curia papale un pericolo per la libertà di pensiero ed espressione; un
pericolo che, grazie anche alla propria posizione accademica, contra-
stò attivamente. Al contrario il secondo, la cui posizione in ambito
universitario era più debole, tentò di trovare sostegno in poteri politici
assolutistici; in particolare, cercò l’appoggio precisamente della Curia
papale. La sua scelta si rivelò però controproducente, rimanendo egli
vittima, oltre che di proprie ingenuità, sia dello scontro tra le diverse
componenti politico-religiose della Chiesa Cattolica, sia dell’indispo-
nibilità della Curia papale di permettere la circolazione di tesi nate al
di fuori degli ambienti da essa almeno implicitamente accreditati.

Abstract

The historical issue concerning the difficulties encountered by


scientists in the early decades of the 17th century has often been ad-
dressed in terms of a friction between science and religion, or between
science and ‘traditional knowledge’. This historiographical approach
focuses on fundamental aspects of the question yet also has its limita-
tions. It does not express explicitly the framework of the specifically
political dynamics within which thinkers at the turn of the 16th cen-
tury had to work. Furthermore, it does not bring out the multifaceted
nature of so-called ‘traditional knowledge’ and the complexity of the
latter’s ties with the various centres of political power, besides with the
new science itself. This paper intends to draw attention to these aspects
of the question by examining two exemplary cases of that historical
age: Cesare Cremonini (1550-1631) and Galileo Galilei (1564-1642).
Both these thinkers developed close relations with political power to
32 MARCO FORLIVESI

ensure that they could formulate and divulge their doctrines, yet they
adopted different strategies. The former saw a danger to free thought
and speech in the political and cultural project of the Roman Catholic
Church, a danger he firmly opposed, which he was able to do partly
thanks to his position at Padua university. The latter, on the contrary,
whose position in the university system was weaker, attempted to gain
support among absolutist political powers, in particular the Roman
Catholic Church itself. His choice, however, proved counterproduc-
tive since he became a victim not only of his own maladroit tactics
but also of the clash among the diverse politico-religious factions in
the Catholic Church and of the unwillingness of the Roman Curia to
permit the circulation of theories that originated outside the circles
that were granted its approval.

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