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Giulio Cesare (nave da battaglia)

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La Giulio Cesare fu una nave da battaglia tipo dreadnought della Regia Marina italiana, entrata in
Giulio Cesare (1911)
servizio nel giugno 1914 come seconda unità della classe Conte di Cavour. Marginalmente impegnata in
azione nel corso della prima guerra mondiale e del periodo interbellico, tra il 1933 e il 1937 fu sottoposta
a estesi lavori di ricostruzione e ammodernamento per prolungarne la vita operativa; all'entrata
dell'Italia nella seconda guerra mondiale nel giugno 1940, la Cesare era una delle sole due navi da
battaglia della Regia Marina immediatamente pronte all'impiego.

Nel corso del secondo conflitto mondiale la Cesare fu impegnata in varie azioni della battaglia del
Mediterraneo contro le forze della Royal Navy, in particolare durante i primi anni di guerra; danneggiata
dal tiro nemico alla battaglia di Punta Stilo, la corazzata fu inoltre presente alla battaglia di capo Teulada
e alla prima battaglia della Sirte, ma dalla primavera 1942, visto il suo stato di obsolescenza, fu di fatto
ritirata dal servizio attivo e dislocata a Pola con funzioni di addestramento. Dopo l'annuncio della stipula La nave nel 1914 durante le prove di
dell'armistizio tra l'Italia e gli Alleati l'8 settembre 1943, la Cesare obbedì agli ordini e lasciò Pola per velocità
consegnarsi agli Alleati con il resto della flotta; un tentativo di ammutinamento da parte di elementi
dell'equipaggio, che desideravano autoaffondare la nave piuttosto che consegnarla agli ex nemici, rientrò Descrizione generale
dopo poche ore grazie a trattative con il comandante della nave, e la Cesare si riunì a Malta con il resto
della flotta italiana. Rientrata in Italia nel giugno 1944, non vide più alcuna azione e fu posta in disarmo.
Tipo Nave da battaglia
Per effetto del trattato di Parigi fra l'Italia e le potenze alleate del 10 febbraio 1947, la Cesare fu
consegnata come preda di guerra all'Unione Sovietica, entrando in servizio con la Voenno-morskoj flot Classe Conte di Cavour
sotto il nuovo nome di Novorossijsk; assegnata alla Flotta del Mar Nero, svolse principalmente In servizio con Regia Marina
funzioni di unità d'addestramento. Nelle prime ore del 29 ottobre 1955, mentre si trovava in porto a
Costruttori Ansaldo
Sebastopoli, la Novorossijsk fu scossa da un'imponente esplosione che ne causò in poche ore il
rovesciamento e l'affondamento: più di 600 marinai sovietici perirono in quello che fu il peggior disastro Cantiere Sestri Ponente
navale in tempo di pace di tutta la storia della Russia. La commissione d'indagine individuò poi come Impostazione 24 giugno 1910
causa dell'affondamento la detonazione sotto lo scafo della nave di una mina navale, un residuato bellico
Varo 15 ottobre 1911
Completamento 14 maggio 1914
dell'occupazione tedesca di Sebastopoli sfuggito alle operazioni di sminamento del dopoguerra; le cause Entrata in 7 giugno 1914
dell'affondamento furono poi oggetto, negli anni seguenti, di numerose teorie del complotto che tiravano servizio
in ballo un presunto e mai provato sabotaggio per opera degli italiani. Radiazione 12 maggio 1928
Destino finale Ricostruita tra il
1933 e il 1937
Indice
Caratteristiche generali
Caratteristiche Dislocamento standard:
Scafo e propulsione 23 088 t
Armamento
a pieno carico:
Servizio nella Regia Marina 25 086 t
Prima della ricostruzione
Entrata in servizio Lunghezza 176,1 m
Prima guerra mondiale e primo dopoguerra Larghezza 28 m
La ricostruzione Pescaggio 9,4 m
Scafo Propulsione 24 caldaie, 3
Protezione turbine Parsons e
Propulsione 4 assi motrici;
Armamento 31 000 hp
Dopo la ricostruzione (23 000 kW)
Rientro in servizio Velocità 21,5 nodi
La battaglia di Punta Stilo (39,82 km/h)
Operazioni nel 1940
Autonomia 4 800 miglia a
Operazioni tra il 1941 e il 1943
10 nodi (8 890 km
L'armistizio a 18,52 km/h)
Il trattato di pace
Equipaggio 1 000
Servizio nella Marina sovietica
Armamento
Entrata in servizio
Artiglieria Alla costruzione:
Ammodernamenti
L'affondamento 13 cannoni Mod.
1909 da
L'inchiesta
305 mm
Speculazioni e teorie del complotto
La Giulio Cesare nella cultura di massa 18 cannoni Mod.
Note 1909 da
Annotazioni 120 mm
Fonti 16 cannoni Mod.
Bibliografia 1909 da 76 mm

Voci correlate Siluri 3 tubi lanciasiluri


Altri progetti da 450 mm

Collegamenti esterni Corazzatura Massima 280 mm


(verticale)

111 mm
Caratteristiche (orizzontale)
Note
Scafo e propulsione Motto Ad quamvis vim
perferendam

Le tre unità della classe Conte di Cavour rappresentarono le Dal 1920: Caesar
prime navi da battaglia tipo dreadnought della Regia Marina, adest
dopo la sperimentale Dante Alighieri varata il 20 agosto 1910.
Basate su un progetto firmato dal generale del genio navale Fonti citate nel corpo del testo
Edoardo Masdea,[N 1] le tre unità furono impostate tra il giugno
e l'agosto 1910 e varate poco più di un anno più tardi. Per voci di navi da battaglia presenti su
quanto rispondessero ai requisiti della Regia Marina al Wikipedia
momento della loro progettazione, e benché fossero state
Profilo e pianta della Cesare prima della varate appena cinque anni dopo l'entrata in servizio della
ricostruzione capostipite di tutte le dreadnought mondiali (la britannica HMS Dreadnought, appunto), le Cavour non
furono giudicate come unità particolarmente innovative e, soprattutto, accusarono un rapido
scadimento qualitativo nei confronti delle corazzate di poco successive entrate in linea con le marine
delle maggiori potenze globali, finendo con il diventare obsolete già pochi anni dopo la loro immissione in servizio. Nondimeno, con la classe
Duilio, le Cavour rappresentarono il nucleo della flotta da battaglia italiana dalla prima guerra mondiale fino alle soglie della seconda.[1][2]

Alla costruzione le tre navi erano leggermente differenti. La Giulio Cesare presentava un dislocamento di 23  088[3]/23  183[4] tonnellate con la
nave in carico normale e di 24 801[4]/25 086[3] tonnellate a pieno carico di combattimento. Lo scafo della Cesare raggiungeva una lunghezza fuori
tutto di 176,1 metri e una larghezza di 28 metri, per un pescaggio massimo di 9,4 metri. Il ponte principale era caratterizzata da una tuga centrale
e da un castello di prua, mentre le sovrastrutture erano rappresentate da due blocchi a prua e poppa composti ciascuno da una torre di comando,
un fumaiolo e un albero.[3][4]
La protezione verticale era costituita una cintura corazzata continua, posta attorno ai fianchi della nave, e da un ridotto che si estendeva dalla
torretta sopraelevata di poppa fino a prua. La cintura, alta 2,8 m di cui il 57% sopra la linea di galleggiamento, aveva uno spessore massimo di
250 mm e si assottigliava fino a 100 mm a prua e a 120 mm a poppa. Il ridotto centrale della nave era protetto da una corazza di 220 mm di
spessore. La protezione orizzontale era data da un ponte con due strati di corazzatura spessa 12  mm, che nelle parti inclinate raggiungeva i
40 mm di spessore totali. Le torrette dei cannoni principali avevano una corazzatura frontale spessa 280 mm.[3][4] La torre di comando di prua
aveva una blindatura spessa 280  mm, che scendeva a solo 160  mm per la torre di comando di poppa.[5] I pezzi da 120/50  mm avevano una
protezione da 130 mm.[6] Le 5 150 tonnellate (pari a circa un quarto del dislocamento) di acciaio al nichel che formavano la corazzatura erano
fornite da ditte statunitensi e britanniche e sottoposte a cementazione, secondo il processo Krupp, presso le acciaierie di Terni.[7] Le unità furono
dotate anche di un sistema di reti parasiluro che venivano tese da un sistema di bracci buttafuori intorno alla nave quando questa era all'ancora;
il sistema non si rivelò particolarmente utile e fu eliminato già nel 1916.[8]

L'apparato motore era costituito da quattro gruppi indipendenti di turbine a vapore della Parsons, collegati a quattro assi portaeliche e alimentati
da ventiquattro caldaie a tubi d'acqua tipo Babcock, di cui dodici con combustione a nafta e dodici con combustione mista carbone e nafta.[9] Le
turbine sviluppavano una potenza complessiva di 23 000 chilowatt (30 843,51 hp), che consentiva all'unità di toccare una velocità massima di
21,5 nodi; la riserva di combustibile ammontava a 1 450 tonnellate di carbone e 850 tonnellate di nafta, il che garantiva un'autonomia di 4 800
miglia alla velocità di 10 nodi.[3][4][10]

Armamento

L'armamento principale si componeva di tredici cannoni da 305/46 Mod. 1909, capaci di sparare un
proietto dal peso di 452 chilogrammi alla velocità alla volata di 840 m/s, a un rateo di fuoco di due colpi
al minuto; con un alzo di 20°, la gitta massima raggiungibile era di 24  000 metri.[11] I pezzi erano
ripartiti tra cinque torri d'artiglieria collocate sul ponte principale lungo l'asse centrale della nave, tre
triple e due binate: una torre tripla era collocata al centro dello scafo nello spazio tra i due blocchi di
sovrastrutture, mentre altre due torri triple e le due torri binate erano disposte a prua e a poppa con le
torri binate sopraelevate rispetto a quelle triple.[4][10]
La nave in costruzione
[12]
L'armamento secondario era costituito da diciotto cannoni da 120/50 Mod. 1909, collocati in
casematte singole lungo il bordo della tuga centrale. In funzione di contrasto alle siluranti veloci erano
poi disponibili un certo numero di pezzi a tiro rapido da 76/50 Mod. 1909, disposti in impianti singoli non protetti distribuiti tra il ponte
principale e il tetto delle torri dell'artiglieria principale: benché fossero state previste le montature per complessivi 30 pezzi esse non furono mai
tutte occupate e, generalmente, il numero delle bocche da fuoco da 76/50 si aggirava sui 13[4][10], 14[13] o 16[3] pezzi; nel 1920 sei di questi impianti
singoli furono poi occupati da altrettanti cannoni da 76/40 Mod. 1916 R.M. in funzione di armi antiaeree.[4][10][13] Come tipico nelle dreadnought
dell'epoca, la Cesare montava anche un armamento silurante composto da tre tubi lanciasiluri da 450 mm posti in impianti singoli sotto la linea
di galleggiamento, uno fisso a prua e uno lungo ciascuna fiancata.[3][4][10]
Servizio nella Regia Marina

Prima della ricostruzione

Entrata in servizio

La nave fu impostata il 24 giugno 1910 nel cantiere navale di Sestri Ponente della Ansaldo e varata il 15
ottobre 1911 con il nome di Giulio Cesare, in onore dell'omonimo condottiero romano. Benché fosse
stata la prima delle corazzate classe Cavour a essere impostata, la Cesare fu l'ultima di esse a essere
varata, scendendo in mare un giorno dopo la gemella Leonardo da Vinci e più di due mesi dopo la
capoclasse Conte di Cavour.[4] I lavori di allestimento furono completati il 14 maggio 1914; la bandiera
di combattimento e il cofano portabandiera della nave, acquistati con una colletta fra le scuole, furono
consegnati il 7 giugno 1914 a Napoli alla presenza del duca Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta e di oltre
mille invitati da un comitato, alla cui guida vi era il preside del Liceo ginnasio statale Terenzio Mamiani
di Roma. La bandiera in seta era stata ricamata a mano a Torino dalle orfane dei militari mentre il
cofano, in bronzo e con linee ispirate all'arte classica romana, fu opera dell'architetto Manfredi.[14]
Il varo della Giulio Cesare a Sestri Ponente
Nel corso della sua storia l'unità ebbe assegnati diversi motti ufficiali. Il primo fu Ad quamvis vim
perferendam («Per sostenere qualsiasi urto» in lingua latina), una citazione del libro III del
Commentarii de bello Gallico dove Cesare, commentando l'avanzata terrestre delle sue legioni contro i Galli e avendo inviato parte delle sue forze
via mare con una flotta, descriveva le navi di questa flotta come «naves totae factae ex robore ad quamvis vim et contumeliam perferendam»,[15]
ovvero «navi costruite interamente in rovere per sostenere qualsiasi urto e ogni percossa». Tale motto fu cambiato nel 1920 in Caesar adest
(«Cesare è qui»), tratto da un'epigrafe in distici latini scelta in seguito a un concorso pubblico e composta da Vito Vaccaro di Palermo,[16] e quindi
in Guai agli inermi! dopo la ricostruzione degli anni 1930. Sulla nave comparivano altre scritte latine: esposta su una targa di bronzo raffigurante
un trionfo di Cesare vi era la dicitura Sit romana potens itala virtute propago («La discendenza romana sia forte di italica virtù»), citazione
tratta dal Libro XII dell'Eneide di Virgilio, mentre sotto l'aquila di bronzo esposta all'estrema prua compariva, fino al 1922, il celebre motto Veni,
vidi, vici con cui, secondo la tradizione, Cesare annunciò la vittoria riportata il 2 agosto del 47 a.C. contro l'esercito di Farnace II del Ponto nella
battaglia di Zela.[14][16]

Prima guerra mondiale e primo dopoguerra

All'entrata dell'Italia nella prima guerra mondiale era al comando della Cesare il capitano di vascello Pio Lobetti Bodoni; essa era inquadrata
nella I Divisione del contrammiraglio Camillo Corsi di base a Taranto, comprendente la gemella Leonardo da Vinci e la Dante Alighieri.[17] Anche
a causa della condotta prudente assunta dal nucleo centrale della flotta austro-ungarica, la Cesare non fu impegnata in alcuna azione bellica di
combattimento durante il conflitto, limitandosi a qualche uscita in mare di addestramento e di
infruttuosa ricerca del nemico nel mar Ionio e nel mare Adriatico meridionale;[3] oltre che a Taranto, la
nave fu dislocata anche, nel corso del 1916, a Corfù in appoggio alle operazioni degli Alleati sul fronte
macedone.[18]

Il 10 novembre 1918 la Cesare, la Duilio e l'Andrea Doria, raggiunsero Corfù per un periodo di
esercitazioni. Dal 1º luglio 1919 le tre corazzate furono inserite nella "Squadra del Levante" al comando
del viceammiraglio Emilio Solari,[19] dislocata nel mar Egeo per sostenere militarmente le rivendicazioni
italiane sui territori dell'Impero ottomano (ormai avviato alla dissoluzione), così come sancite nel patto
di Londra del 1915;[20] in settembre, in particolare, la Cesare rilevò a Smirne la Duilio, qui presente per
appoggiare le operazioni del corpo di spedizione italiano sbarcato in Anatolia.[21] La corazzata alla fonda a Taranto nel 1917

Nel 1923 la Giulio Cesare prese parte agli eventi della crisi di Corfù. Il 27 agosto 1923 una missione
militare italiana, presieduta dal generale Enrico Tellini e incaricata dalla Conferenza degli Ambasciatori alleati della delimitazione del confine tra
Regno di Grecia e Albania, fu trucidata in un'imboscata in territorio greco nei pressi di Giannina da irregolari locali, in circostanze mai chiarite
del tutto. Benito Mussolini, da soli undici mesi insediatosi alla guida del governo italiano, ritenne responsabile dell'eccidio il governo greco e
pretese scuse ufficiali, un risarcimento e l'immediato avvio di un'inchiesta formale; davanti al tergiversare di Atene ordinò quindi alla Regia
Marina di bombardare e occupare per ritorsione l'isola di Corfù. Dopo che una divisione navale guidata dalla Cavour e dalla Cesare ebbe
bersagliato, il 29 agosto, il vecchio forte di Corfù coprendo il successivo sbarco delle truppe italiane, il governo greco dovette accettare le
imposizioni di Mussolini; come parte degli accordi per ricomporre la crisi, il 30 settembre la squadra navale italiana ricevette dai greci davanti al
Falero (uno dei porti presso Atene) gli onori alla bandiera.[22]

Con la perdita della Leonardo da Vinci durante la prima guerra mondiale e la radiazione per obsolescenza entro la fine degli anni 1920 della
Dante Alighieri e delle ultime pre-dreadnought ancora in servizio, nel corso del periodo interbellico la Cesare rappresentò, con la gemella Cavour
e le due classe Duilio, il nucleo centrale della flotta da battaglia della Regia Marina. La corazzata ricevette alcuni limitati ammodernamenti nel
corso degli anni 1920 tra cui, oltre all'installazione dei sei cannoni antiaerei da 76/40 mm, l'imbarco di due cannoni automatici da 40/39 Vickers-
Terni come ulteriore protezione antiaerea. Nel 1926 fu dotata di una catapulta per il lancio di un idrovolante da ricognizione Macchi M.18,
collocata sul cielo della torre d'artiglieria centrale in un'apposita sella brandeggiabile per poter orientare il velivolo secondo la direzione del
vento.[4]

Le ristrettezze economiche dell'Italia postbellica impedivano di mantenere in servizio permanente una squadra di quattro navi da battaglia e, il 12
maggio 1928, la Cesare fu quindi passata in riserva a Taranto; per i successivi cinque anni l'unità servì unicamente nel ruolo di nave
d'addestramento per gli artiglieri.[23] La consistenza della linea da battaglia non era vista con particolare preoccupazione dai comandanti della
Regia Marina, visto che il principale avversario dell'Italia nel Mediterraneo, ovvero la Francia, allineava negli anni 1920 una squadra di sole sei
navi da battaglia (le tre superstiti unità classe Courbet e le tre più moderne classe Bretagne), tutte degli anni della prima guerra mondiale
parzialmente modernizzate. In vista della cessazione, nei primi anni 1930, del divieto di nuove costruzioni navali imposto dal precedente trattato
navale di Washington, la Marina italiana iniziò a stendere progetti anche ambiziosi per una nuova classe di navi da battaglia di moderna
concezione; il comando della Regia Marina rimase però spiazzato dalla decisione dei francesi di mettere in cantiere, nel 1932, la prima unità di
una nuova classe di navi da battaglia moderne, la futura classe Dunkerque. Come risposta immediata e più economica alla mossa francese, il
governo italiano autorizzò l'avvio di una radicale modernizzazione delle unità classe Conte di Cavour: nell'ottobre 1933 la Cesare lasciò Taranto
per essere messa in cantiere a Genova.[4][24]

La ricostruzione
Giulio Cesare (1933)
Scafo

I lavori sulla Cesare furono affidati ai Cantieri Navali del


Tirreno Riuniti negli stabilimenti di Genova e andarono avanti
dal 25 ottobre 1933 al 1º giugno 1937. L'intervento andò ben
oltre una mera modernizzazione dell'unità e si concretizzò
piuttosto in una radicale ricostruzione e trasformazione della
nave: solo il 40% della struttura originale, in pratica solamente
Profilo e pianta della Cesare dopo la lo scafo e la corazzatura di murata, uscì inalterato dai lavori; le
ricostruzione modifiche cambiarono il profilo della nave e ne aumentarono le
capacità di combattimento come pure il dislocamento a pieno
carico, salito a 29  100 tonnellate.[25] Pur successivamente Descrizione generale
criticati sotto il profilo della convenienza economica e strategica, i lavori furono visti con favore
all'epoca, con soluzioni di architettura navale giudicate dai più come positive e un effettivo
prolungamento della vita operativa di un'unità ormai piuttosto obsoleta.[1][4][25] Tipo Nave da battaglia
La lunghezza della nave fu aumentata di 10,3 metri mediante la sovrapposizione di una nuova prua alla Classe Conte di Cavour
vecchia, al fine di aumentare il coefficiente di finezza dello scafo e contribuire così ad aumentare la In servizio con Regia Marina
velocità dell'unità; la nuova prua fu dotata di un bulbo. Il castello di prua risultò più allungato e allargato
nella parte poppiera per proseguire nella sovrastruttura centrale, ma la parte poppiera dello scafo non fu Costruttori Cantieri Navali del
modificata e i due timoni rimasero gli stessi. Invece tutte le sovrastrutture originarie furono demolite e Tirreno Riuniti
modificate: i due fumaioli furono abbassati e collocati al centro dello scafo in posizione ravvicinata; fu Cantiere Genova
eliminato l'albero che si trovava immediatamente dietro al torrione di prua, mantenendo solamente
Impostazione Ricostruita dal 25
quello poppiero che, in conseguenza dell'aumento di lunghezza della nave, risultò più arretrato rispetto
alla posizione originaria. Il torrione corazzato di poppa fu eliminato, mentre quello di prua, la cui ottobre 1933
blindatura era di 260 mm, fu completamente ricostruito secondo una forma tronco-conica: non molto Completamento 1º giugno 1937
elevato, aveva alla sommità una torretta rotante con due stereotelemetri aventi una base di 7,2 metri per Entrata in 1º ottobre 1937
il calcolo della distanza dei bersagli, oltre alle apparecchiature per la direzione tiro dei calibri
servizio
principali.[26] Il torrione ospitava la direzione di tiro che tramite l'A.P.G. (apparecchio di punteria
generale) assegnava il bersaglio e comandava il fuoco delle batterie principali. La direzione di tiro era Radiazione 15 dicembre 1948
direttamente connessa con la centrale di tiro, posta alla base del torrione; nel caso di avaria della Destino finale Ceduta all'Unione
stazione di tiro sul torrione il fuoco dei cannoni principali poteva essere diretto dalla torre di prua
Sovietica il 6
superiore o da quella di poppa, che ospitavano ciascuna un telemetro da 9 metri di base.[4][25][27][28]
febbraio 1949
Caratteristiche generali
Protezione
Dislocamento standard:
La protezione subì solamente pochi ritocchi: aspetto che 28 800 t
rappresentò, oltre a quello relativo all'armamento principale, la a pieno carico:
principale critica ai lavori di ricostruzione. La cintura verticale,
29 100 t
al galleggiamento, mantenne lo spessore originario, risultando
però assolutamente insufficiente per un'unità che avrebbe Lunghezza 186,4 m
probabilmente dovuto sostenere combattimenti con navi Larghezza 28 m
armate di cannoni dal calibro più pesanti di quelli della Cesare
stessa.[29] Tenendo conto degli avanzamenti tecnologici in atto Pescaggio 10,4 m
La nave in cantiere a Genova durante i all'epoca e delle esperienze dell'ultimo conflitto, fu invece Propulsione 8 caldaie Yarrow, 2
lavori di trasformazione aumentata la protezione dagli attacchi aerei e subacquei:[29] turbine
furono applicati sul ponte, e in particolare a centro nave in Belluzzo/Parsons
corrispondenza dei locali dell'apparato motore, due strati da e 2 eliche;
12 mm di spessore di lamiere di acciaio. La protezione orizzontale era quindi costituita da un ponte di
93 000 hp
corridoio blindato da 80  mm di spessore, uno di coperta da 13  mm e uno di sovrastruttura da
(69 000 kW)
18+24 mm, con spessori inferiori a prora e a poppa. Inoltre intorno ai basamenti cilindrici delle torri di
grosso calibro fu applicata una corazzetta di 50 mm di spessore, sistemata a una distanza di 50 cm dalla Velocità 28 nodi
protezione vera e propria, per cui le torri si presentavano poggiate su basamenti più massicci conferendo (51,86 km/h)
all'unità, dal punto di vista estetico, una sensazione di maggior potenza e sicurezza.[4][25][26] Autonomia 3 100 miglia a
La difesa dalla minaccia dei sommergibili fu demandata al sistema dei cilindri assorbitori modello 20 nodi (5 741 km
"Pugliese": tale protezione consisteva in due lunghi cilindri deformabili che, posti lungo la murata a 37,04 km/h)
all'interno di una paratia piena, avevano il compito di assorbire l'onda d'urto provocata dall'esplosione Equipaggio 1 236 uomini
di un siluro o di una mina navale, disperdendola all'interno del cilindro stesso. Il sistema, adottato tanto
Armamento
sulle Cavour quanto sulle Duilio,[N 2] non si rivelò molto efficace a causa delle dimensioni piuttosto
limitate dello scafo delle unità, ma diede risultati più positivi una volta installato sui più ampi scafi delle Artiglieria 10 cannoni
nuove corazzate classe Littorio.[29] OTO/Ansaldo da
320 mm
Propulsione 12 cannoni Mod.
1933 da
Il sistema di propulsione fu completamente ricostruito. I nuovi motori da 75  000  hp (56  000  kW) 120 mm
svilupparono nelle prove a tutta forza ben 93 000 hp (69 000 kW) e una velocità di punta di 28 nodi; in 8 cannoni da
condizioni operative la velocità massima si aggirava sui 26[10]/27[29] nodi, valori comunque nettamente
100 mm
superiori ai 21 nodi originari. La produzione del vapore per le turbine era assicurata da otto caldaie a
tubi d'acqua con surriscaldatori del tipo Yarrow, con bruciatori a nafta che alimentavano due gruppi 8 cannoni Breda
indipendenti di turbine Belluzzo azionanti due assi con eliche tripale. Furono eliminati due dei quattro da 37 mm
assi originari, mentre caldaie e gruppi turboriduttori trovarono posto in posizione centrale a poppavia 12 cannoni
del torrione comando. Ogni gruppo di turbine era composto da una turbina di alta pressione, da due Breda Mod.
turbine di bassa pressione con incorporata la marcia indietro e da un riduttore; i due gruppi furono 1935 da 20 mm
rispettivamente disposti in un locale a poppavia delle caldaie di sinistra e in un locale a proravia delle
caldaie di dritta.[4][29] Corazzatura Verticale 280 mm

Orizzontale
La riserva di combustibile era di 2 500 tonnellate di nafta, il che garantiva un'autonomia di 3 100 miglia 135 mm

a una velocità di 20 nodi[25] o di 6 400 miglia a una velocità di 13 nodi:[4] valori in generale non molto Artiglierie 280 mm

elevati, anche se sufficienti per un'unità destinata a operare nel ristretto bacino del mar Mediterraneo.[29]
Torrione 260 mm
Note
Armamento
Motto Guai agli inermi!
I lavori di ricostruzione comportarono una radicale modifica
dell'armamento della Cesare. Le originarie cinque torri per i Fonti citate nel corpo del testo
cannoni dell'armamento principale furono ridotte a quattro
(due binate sovrapposte a due triple nelle originarie posizioni a voci di navi da battaglia presenti su
prua e poppa) mediante lo sbarco della torre tripla centrale. I Wikipedia
pezzi da 305/46 mm, calibro ormai più che superato per delle
navi da battaglia, furono rimpiazzati da dieci cannoni
OTO/Ansaldo 320/44:[30] questi ultimi non erano altro che il risultato della ritubazione e ricalibramento
dei cannoni originari, intervento reso possibile dalla buona fattura e dal largo margine di resistenza alle
La nave in accostata dopo i lavori di sollecitazioni delle bocche da fuoco. In aggiunta, le torri dell'artiglieria furono dotate di organi di
ricostruzione manovra elettrici invece che idraulici come in origine, di migliori sistemi di caricamento automatico e di
un aumentato alzo massimo di 27°.[4][28] Queste modifiche rappresentarono uno dei punti più criticati
dei lavori di ricostruzione:[28] i nuovi cannoni da 320/44 mm potevano sparare un proiettile perforante
dal peso di 525 chilogrammi alla velocità alla volata di 830 m/s, con una gittata massima di 28 600 metri e un rateo di due colpi al minuto,[31] con
un aumento di circa il 30% della potenza dei pezzi.[28] Le prestazioni dei nuovi pezzi si rivelarono però nel concreto alquanto mediocri, sia per la
vita relativamente ridotta delle canne (da sostituire in media ogni 150[31]/200[28] colpi sparati) sia per l'eccessiva dispersione delle salve, dovuta
anche ad altri fattori tecnici e addestrativi. Fu molto biasimata pure la scelta del calibro di 320 mm, già in partenza inferiore al 340 mm delle
corazzate francesi rimodernate e al 330  mm delle nuove Dunkerque, e nettamente superato dal 381  mm portato dalle più vecchie navi da
battaglia in servizio con la Royal Navy.[28]

L'armamento secondario fu totalmente rivisto: tutti i pezzi da 120/50 mm in casamatta furono sbarcati
e sostituiti con dodici cannoni 120/50 Mod. 1926 della OTO, di più moderna fattura e già adottati come
armamento principale per le classi di cacciatorpediniere costruite negli anni 1930. I pezzi furono
collocati in sei torrette chiuse binate, collocate a centro nave tre per lato intorno ai fumaioli. I nuovi
pezzi erano buone armi per il contrasto alle siluranti veloci, ma con un alzo massimo di 33° non
potevano essere impiegati nel tiro antiaereo.[28][32]

Al contrasto degli attacchi dall'aria furono invece demandati otto cannoni da 100/47, collocati in quattro
torrette binate disposte singolarmente sui due lati del torrione di comando e dell'albero poppiero. I
pezzi, che potevano svolgere anche compiti antinave, si rivelarono ben presto insufficienti nella loro Due delle torri di cannoni OTO 120/50
primaria funzione, in particolare per via dell'aumento della velocità dei velivoli e delle nuove forme di Mod. 1926 della Cesare
attacco in picchiata, rivelandosi utili solo nel tiro di sbarramento.[28][33] Più efficienti nel ruolo di armi
antiaerei, in particolare contro gli aerosiluranti e in generale i bersagli in volo a bassa quota, si
rivelarono gli otto[10][25] - dodici[4][28] cannoni automatici Breda 37/54,[34] distribuiti in impianti binati sul ponte e le sovrastrutture, a cui si
aggiungevano sei impianti binati di mitragliatrici pesanti Breda Mod. 31 da 13,2  mm.[4][28] L'armamento antiaereo leggero a tiro rapido fu poi
potenziato negli anni della seconda guerra mondiale: nel 1940 i sei impianti binati di mitragliatrici Breda da 13,2  mm furono sbarcati e
rimpiazzati con altrettanti impianti binati di cannoni automatici Breda 20/65 Mod. 1935,[35] e nel 1941 furono aggiunti altri due impianti binati di
Breda da 37 mm e due impianti binati di Breda da 20 mm[4][28] (oppure otto impianti binati di Breda 20/65 mm secondo altre fonti).[10]

I tubi lanciasiluri da 450  mm furono completamente eliminati e comparvero due catapulte per il lancio di idrovolanti da ricognizione; queste
ultime però, dopo i primi collaudi successivi al rientro in servizio nel 1937, furono rimosse.[4][28]

Dopo la ricostruzione

Rientro in servizio

Terminata la trasformazione il 1º giugno 1937, il 3 la Cesare raggiunse La Spezia per completare il ciclo delle prove e dei collaudi, conclusi il 1º
ottobre: entrò in squadra raggiungendo il 3 ottobre la propria base operativa di Taranto.[25] Gli ultimi mesi prima dell'inizio della seconda guerra
mondiale furono spesi dalla nave in compiti di rappresentanza, ad esempio con la partecipazione il 5 maggio 1938 alla parata navale nel golfo di
Napoli, in onore della visita del cancelliere tedesco Adolf Hitler[36] e con lo svolgimento di qualche visita diplomatica nei porti del Mediterraneo
centrale.
All'inizio di aprile 1939 la nave partecipò all'invasione italiana dell'Albania. Nell'occasione la Regia
Marina schierò davanti alle coste albanesi una squadra navale al comando dell'ammiraglio Arturo
Riccardi, con insegna sulla Cavour, composta dalle due corazzate classe Conte di Cavour, dai quattro
incrociatori pesanti della classe Zara, dagli incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi,
Giuseppe Garibaldi, Giovanni delle Bande Nere e Luigi Cadorna e dalle loro scorte di
cacciatorpediniere e torpediniere: la squadra proteggeva un corpo di spedizione composto da circa
11 300 uomini, 130 carri armati e materiali di vario genere.[37] Nonostante l'imponente spiegamento di
forze, l'azione delle navi italiane nei confronti dei timidi tentativi di reazione albanesi si limitò soltanto
ad alcune salve sparate a Durazzo e a Santi Quaranta. Le forze italiane incontrarono scarsissima
resistenza e in breve tempo tutto il territorio albanese fu sotto il loro controllo, con il re Zog I di Albania
La nave ritratta al rientro in servizio dopo i
costretto a recarsi in esilio.[38]
lavori di ricostruzione

La battaglia di Punta Stilo

Al momento dell'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale il 10 giugno 1940, la Cesare era
inquadrata con la gemella Cavour nella V Divisione navi da battaglia della I Squadra navale di base a
Taranto, ricoprendo il ruolo di ammiraglia della flotta e alzando l'insegna dell'ammiraglio Inigo
Campioni:[39] al momento dell'entrata in guerra la Cesare e la Cavour erano le sole due navi da battaglia
della Regia Marina in servizio attivo, visto che le due classe Duilio stavano completando l'allestimento
dopo i lavori di ricostruzione e le due nuove corazzate classe Littorio erano ancora impegnate con i
collaudi.[40] Al comando del capitano di vascello Angelo Varoli Piazza, il 7 luglio la Cesare prese il mare
in compagnia della Cavour e di gran parte della I Squadra (18 incrociatori e 36 cacciatorpediniere) per
scortare a distanza un convoglio partito da Napoli il 6 luglio e diretto a Bengasi; il 9 luglio la Cesare si
La sezione centrale della Cesare annerita trovò quindi coinvolta, nelle acque del mar Ionio a sud della Calabria, negli eventi della battaglia di
dagli incendi causati dal colpo sparato Punta Stilo: il primo e unico scontro della guerra che vide direttamente contrapposte le corazzate della
dalla britannica HMS Warspite a Punta Regia Marina alle loro equivalenti della Royal Navy.[1][41]
Stilo
Le forze italiane entrarono in contatto con una squadra navale della Mediterranean Fleet britannica
intenta a proteggere la partenza di due convogli da Malta: dopo un primo scontro senza esito tra le
opposte formazioni di incrociatori, furono le navi da battaglia a entrare in contatto balistico e, alle 15:52, la Cesare aprì il fuoco dalla distanza di
26  400 metri (la Cavour addirittura da 30  000 metri) sulle britanniche HMS Warspite e HMS Malaya, armate di cannoni da 381  mm. Lo
scontro a fuoco durò solo pochi minuti: una salva della Cesare finita lunga esplose in mare nelle vicinanze dei cacciatorpediniere britannici HMS
Hereward e HMS Decoy, causando loro lievi danni da schegge; alle 15:59, invece, un proiettile da 381  mm della Warspite sparato da più di
24 000 metri di distanza raggiunse la Cesare sul lato sinistro della zona centro-poppiera della nave.[N 3] Perforando il fumaiolo più a poppa, il
proiettile esplose sul ponte di tuga alla base del fumaiolo stesso mentre l'ogiva proseguiva la sua corsa perforando il ponte di castello e alcuni
locali interni, prima di andare a fermarsi contro il lato interno della cintura corazzata; l'esplosione causò la deflagrazione secondaria della
riservetta di munizioni della torre da 120/50 mm numero 4 e un incendio alimentato dai giubbotti di salvataggio e altri materiali infiammabili
ammassati sul ponte, che fece a sua volta detonare le munizioni di pronto impiego di un impianto antiaereo da 37/54 mm.[42][43][44]

Subito dopo aver incassato il colpo, la Cesare accostò in fuori per allontanarsi dalla formazione
britannica, continuando a fare fuoco sul nemico con le torri di poppa[N 4] e proteggendosi con una
cortina fumogena alzata dai suoi impianti di nebbiogeni. I ventilatori della nave risucchiarono il fumo
degli incendi in alcuni locali caldaie, che dovettero essere evacuati dal personale dopo aver provveduto
allo spegnimento degli impianti; ciò provocò uno scadimento della velocità massima della Cesare da 27
a 18 nodi, cosa che spinse il prudente ammiraglio Campioni a ordinare alle 16:01 lo sganciamento
dall'azione delle due corazzate, proteggendo la manovra con attacchi siluranti dei suoi
cacciatorpediniere ai danni delle navi britanniche. La manovra riuscì perfettamente e, alle 16:30, la
Cesare poté riprendere un'andatura di 20 nodi dopo che le squadre di sicurezza avevano provveduto a
estinguere gli incendi a bordo e ripristinare il funzionamento di parte delle caldaie prima spente. La
L'ogiva del proiettile che colpì la Cesare a
Cesare fece quindi il suo ingresso, alle 21:00, nel porto di Messina: le ispezioni confermarono che i
Punta Stilo, recuperato all'interno dello
danni riportati nello scontro non erano gravi né incapacitanti, anche se la nave dovette lamentare
scafo dopo la battaglia
sensibili perdite umane tra il suo equipaggio ammontanti a 66 morti e 49 feriti.[45] Come riconoscimento
per la sua partecipazione allo scontro, la bandiera di combattimento della Cesare fu insignita della
medaglia d'argento al valor militare.[25]

Operazioni nel 1940

Dopo una breve sosta a Messina per effettuare i primi raddobbi d'emergenza, il 13 luglio la Cesare si
trasferì con l'incrociatore pesante Bolzano (anch'esso danneggiato nella battaglia dal tiro britannico) a
La Spezia per sottoporsi ai lavori di riparazione, proseguiti dal 15 al 31 luglio seguenti; dopo una sosta a
Genova per i collaudi, il 10 agosto la Cesare raggiunse Taranto per rientrare nei ranghi della squadra da
battaglia.[46] Il 31 agosto la nave ebbe ordine di prendere il mare con gran parte della flotta italiana per
contrastare una serie di movimenti navali britannici attorno a Malta, operati tanto dalla Mediterranean
Fleet da Alessandria d'Egitto quanto dalla Force H da Gibilterra (operazione Hats). La Cesare, in realtà,
salpò alle 03:30 del 1º settembre a causa di problemi minori mentre mollava gli ormeggi e si riunì alla
squadra da battaglia in mattinata: tuttavia vari motivi, tra cui il rapido peggiorare delle condizioni
La nave fotografata a Taranto nel 1940 meteo nello Ionio, impedirono l'entrata in contatto delle forze contrapposte e la flotta italiana rientrò a
Taranto nel pomeriggio del 1º settembre.[47][48] La Cesare si trovava in porto a Taranto quando, nella
notte tra l'11 e il 12 novembre, gli aerosiluranti britannici attaccarono la flotta italiana ferma all'ancora,
causando gravi danni alle corazzate Cavour (mai più rientrata in servizio), Duilio e Littorio; con la Doria ancora impegnata nella messa a punto
dopo la ricostruzione, la Regia Marina poté schierare per qualche mese solo la Cesare e la nuova Vittorio Veneto. Le due grandi unità, insieme
alla I Divisione incrociatori e alla X, XI e XIII Squadriglia lasciarono Taranto il 12 su ordine di Supermarina e si ormeggiarono a Napoli.[49][50]

Il 16 novembre una squadra navale italiana con la Cesare e la Vittorio Veneto (ora ammiraglia di Campioni) lasciò Napoli per dirigere
all'intercettamento di una formazione navale britannica segnalata a sud-ovest della Sardegna; questa era uno scaglione della Force H diretto a
lanciare dei velivoli di rinforzo per Malta (operazione White): l'uscita in mare delle navi italiane obbligò i britannici a ritirarsi dopo aver lanciato i
loro velivoli prima del previsto, e la maggior parte degli apparecchi non riuscì a raggiungere Malta.[51] Pochi giorni dopo Campioni uscì
nuovamente in mare da Napoli con la Cesare e la Vittorio Veneto per contrastare nuovi movimenti navali della Force H al largo della Sardegna,
volti a coprire l'invio di un convoglio a Malta: l'incontro tra le due formazioni portò all'inconcludente battaglia di capo Teulada, nel corso della
quale la Cesare non ebbe parte alcuna poiché si ritrovò troppo lontana dalle unità avversarie. Il fugace cannoneggiamento tra le due squadre fu
interrotto dopo poco dai due prudenti ammiragli in comando, fatto che costò poi a Campioni l'esonero dalla guida della squadra da battaglia e la
sua sostituzione con l'ammiraglio Angelo Iachino.[52][53]

Il 14 dicembre bombardieri della Royal Air Force britannica colpirono duramente il porto di Napoli, danneggiando gravemente l'incrociatore
Pola; ciò spinse il comando italiano a trasferire il 15 dicembre la Cesare e la Vittorio Veneto nell'ancor più lontana base de La Maddalena in
Sardegna, consentendo nei giorni seguenti ai britannici di svolgere senza contrasto una serie di movimenti navali nello Ionio. Le corazzate
italiane tornarono a Napoli solo il 20 dicembre, una volta che le difese antiaeree della città furono rafforzate.[54]

Operazioni tra il 1941 e il 1943

L'8 gennaio 1941, per proteggere una serie di complessi movimenti navali britannici attorno a Malta
(operazione Excess), la RAF tornò a martellare il porto di Napoli: varie bombe esplosero nelle vicinanze
della Cesare ferma all'ancora causando infiltrazioni di acqua nella carena e l'avaria di una delle turbine
della nave, mentre le schegge generate dalle esplosioni uccisero cinque membri dell'equipaggio e ne
ferirono altri 20. Per evitare ulteriori rischi, nel pomeriggio del 9 gennaio il comando italiano ordinò alla
Cesare e alla Vittorio Veneto di trasferirsi a La Spezia, rinunciando a farle intervenire contro le
formazioni britanniche; la Cesare proseguì poi per Genova, nei cui cantieri fu sottoposta a
riparazioni.[55][56] Riunitasi al resto della squadra navale a La Spezia alla fine di gennaio, l'8 febbraio la
Cesare prese il mare con il resto delle navi di Iachino dopo segnalazioni della ricognizione circa
movimenti della Force H britannica a occidente della Sardegna; per una serie di ritardi della Una salva delle artiglierie principali della
ricognizione, disguidi nelle comunicazioni e negligenze nell'inoltro di rapporti e avvistamenti, le unità Cesare durante un'esercitazione di tiro
italiane non riuscirono a entrare in contatto con le navi britanniche, che il 9 febbraio poterono quindi
bombardare impunemente Genova (dove ritenevano si trovasse ancora la Cesare) per poi ripiegare
senza danni.[57][58] La Cesare e le altre unità della squadra da battaglia di Iachino diressero quindi su Napoli la mattina dell'11 febbraio in attesa
che i dragamine ripulissero le entrate alla rada di La Spezia, minate dai velivoli britannici in concomitanza con il bombardamento di Genova,
facendo rientro nella base ligure più tardi quel pomeriggio.[59]
La Cesare trascorse gran parte del 1941 in maniera inoperosa, visto che il progressivo scadimento della
sua velocità massima, dovuto all'usura del suo datato apparato motore, non le consentiva più di operare
al fianco delle corazzate classe Littorio nel contrasto alle formazioni da battaglia britanniche[10]. Un
possibile suo impiego nel quadro dell'assalto aviotrasportato tedesco a Creta, a fianco della Doria, fu
escluso da Supermarina visto che le altre quattro corazzate erano tutte ferme per lavori e la recente
disfatta di Matapan.[60] Solo il 16 dicembre 1941 la Cesare tornò a partecipare a un'azione, quando lasciò
Taranto in squadra con la Littorio e la Doria per scortare a distanza un convoglio di rifornimenti urgenti
diretto a Tripoli (operazione M42); la Cesare e la Doria erano state richiamate in forza alla squadra
La nave con la colorazione mimetica dopo che la Vittorio Veneto ebbe riportato danni in un siluramento per opera del sommergibile HMS
adottata nel 1942 Urge il 14 dicembre precedente. La formazione italiana fu distaccata nel pomeriggio del 17 dicembre per
intercettare navi britanniche segnalate come in avvicinamento al convoglio, in realtà esse stesse un
piccolo convoglio diretto a Malta: il contatto tra le due formazioni diede luogo a un breve scontro (la
cosiddetta prima battaglia della Sirte), nel quale la Cesare non ebbe parte e che si concluse senza risultati dopo pochi minuti, per il
sopraggiungere della notte. Completato il trasferimento del convoglio a Tripoli, le navi italiane rientrarono quindi senza danni alla base.[61][62]

Il 3 gennaio 1942 la Cesare, sempre in squadra con la Littorio e la Doria, lasciò Taranto per essere nuovamente impiegata come scorta a distanza
per un grosso convoglio di rifornimenti diretto a Tripoli (operazione M43); l'operazione fu portata a termine il 6 gennaio seguente senza che si
fosse registrato alcun contatto con il nemico, e la formazione rientrò quindi a Taranto.[63] L'azione rappresentò l'ultima missione di guerra per la
Cesare: in ragione della complessiva obsolescenza dell'unità e della sempre più grave carenza di carburante che affliggeva la flotta italiana si
decise di ritirare la corazzata dalle operazioni di prima linea.[64] Passata in "tabella di armamento ridotto"[N 5] dopo il marzo 1942,[65] la Cesare
rimase alla fonda a Taranto svolgendo unicamente attività di addestramento; il 30 dicembre 1942 la corazzata ricevette ordine di trasferirsi a Pola
in vista di un turno di grandi lavori di modernizzazione da svolgersi nei cantieri di Trieste: questi lavori non iniziarono mai e nel gennaio 1943 la
nave fu posta in riserva, rimanendo all'ancora a Pola e venendo impiegata unicamente come nave caserma e d'addestramento statico per gli
allievi delle locali scuole equipaggi. Con l'entrata in servizio della terza e ultima corazzata della classe Littorio, la Roma, l'utilità bellica della
Cesare venne meno e gran parte del suo equipaggio fu sbarcata e destinata alle unità leggere per la scorta del traffico navale, di cui vi era
maggiore necessità.[10][66]

L'armistizio

La Cesare si trovava ancora ferma a Pola quando, la sera dell'8 settembre 1943, fu annunciata la stipula di un armistizio tra l'Italia e gli Alleati.
Più tardi quella sera stessa, il ministro della Marina Raffaele de Courten comunicò a tutte le basi della Regia Marina che, in ottemperanza alle
clausole dell'armistizio, tutte le unità in grado di muoversi dovevano lasciare gli ormeggi e trasferirsi a Malta o in altri porti controllati dagli
Alleati; nonostante de Courten si premunisse di comunicare che l'armistizio non prevedeva in alcun modo una cessione delle navi agli Alleati e
l'abbassamento dell'insegna italiana su di esse, la notizia generò confusione e discussioni anche accese tra comandanti e marinai, per quanto gli
episodi di aperta opposizione all'ordine furono contenuti.[67] Il comandante della flotta da battaglia riunita a Genova e La Spezia, ammiraglio
Carlo Bergamini, ebbe uno scambio animato con de Courten la sera dell'8 settembre,[68] ma pur proponendo l'autoaffondamento delle unità si
convinse infine a salpare la mattina del 9 settembre per La Maddalena;[69] la vicenda si concluse
tragicamente quel pomeriggio, quando la corazzata Roma fu attaccata e affondata al largo della
Corsica da velivoli tedeschi con la morte di Bergamini e di gran parte dell'equipaggio:
l'ammiraglio Romeo Oliva, subentrato nel comando della squadra, condusse poi le navi a Malta
l'11 settembre. A Taranto, dove erano dislocate le corazzate Duilio e Doria e un gruppo di
incrociatori, il contrammiraglio Giovanni Galati (comandante degli incrociatori) si rifiutò di
ottemperare all'ordine ed espresse il desiderio di autoaffondare le sue navi, venendo per questo
sbarcato e posto agli arresti con alcuni ufficiali inferiori dall'ammiraglio Brivonesi suo superiore;
le navi della squadra di Taranto, agli ordini dell'ammiraglio Alberto da Zara, lasciarono quindi la La Cesare lascia Pola il 9 settembre 1943
base la mattina del 9 settembre e raggiunsero Malta il 10, dopo che alcune pacate proteste degli
equipaggi erano rientrate grazie alla rassicurazione che le unità non sarebbero state consegnate
agli anglo-statunitensi.[70] I comandanti delle torpediniere Pegaso e Impetuoso, Riccardo Imperiali e Giuseppe Cigala Fulgosi, dopo aver soccorso
i naufraghi della Roma trasportandone i feriti alle Isole Baleari decisero di autoaffondare le loro unità invece di raggiungere Malta con il resto
della flotta.[71]

I più gravi episodi di indisciplina legati alle concitate fasi dell'armistizio si verificarono sulla Giulio Cesare. La nave, che si trovava nel Cantiere
Scoglio Olivi di Pola, fu rapidamente riarmata reintegrando la scorta di munizioni prima sbarcata per ragioni di sicurezza e, dotata di un
equipaggio ridotto, salpò alle 16:00 del 9 settembre senza incidenti con le truppe tedesche dislocate a Pola e senza che il suo comandante, il
capitano di fregata Vittorio Carminati, facesse trapelare quale fosse la destinazione e la sorte a cui l'unità andava incontro.[72] La Cesare lasciò
Pola con la scorta della torpediniera Sagittario e della corvetta Urania; poco fuori dall'uscita dal porto un sommergibile tedesco si era
posizionato all'agguato delle unità italiane, ma fu avvistato dalla Sagittario che gli si lanciò contro per speronarlo: il battello tedesco dovette
immergersi repentinamente e il siluro lanciato ai danni della Cesare finì fuori bersaglio.[73] Le tre unità discesero quindi l'Adriatico con l'ordine di
recarsi a Cattaro in Dalmazia per rifornirsi di carburante, dato che la nafta che si trovava nei serbatoi della Cesare era insufficiente per
raggiungere Malta; giunsero notizie circa il fatto che Trieste e Fiume erano state occupate dai tedeschi e, presto, ogni comunicazione con il
comando regionale di Venezia fu interrotta. Secondo fonti tedesche, all'imbrunire del 9 settembre una motosilurante della Kriegsmarine riuscì ad
avvicinarsi abbastanza da tentare un lancio di siluri ai danni della corazzata, senza però colpirla e senza che da bordo delle navi italiane si avesse
avuto cognizione dell'attacco.[72][74]

Lo stato di incertezza totale su quale fosse il destino dell'unità stava spingendo molti membri dell'equipaggio a temere che la Cesare sarebbe stata
consegnata agli Alleati una volta giunta a destinazione, circostanza che molti ufficiali e comuni erano decisi a impedire, anche autoaffondando la
nave se necessario. Gli elementi che si pronunciarono con più decisione per questa soluzione risultarono essere il maggiore del genio navale
Fornasari (direttore di macchina), il capitano del genio navale Spotti e il guardiamarina Tentoni. Alle 22:30 del 9 settembre, mentre la Cesare e la
sua scorta si trovavano a navigare all'altezza di Ancona a circa 70 miglia dalla costa, il secondo capo Filipponi prese l'iniziativa di chiedere, per
tramite del capitano Spotti, al comandante Carminati di chiarire le sue intenzioni sul destino della nave; alla risposta evasiva di Carminati su cosa
sarebbe successo dopo lo scalo a Cattaro, scattò la ribellione. Alle 02:15 del 10 settembre gruppi di uomini armati si impossessarono della nave
senza spargimento di sangue: il comandante fu rinchiuso nella sua cabina e piantonato, gli altri ufficiali rimasti a lui fedeli furono messi agli
arresti nel locale timoneria a poppa. Fornasari dispose di aumentare la velocità facendo rotta verso Ortona e iniziarono i preparativi per
l'autoaffondamento[75] con la sistemazione di cariche esplosive intorno alle "prese a mare" e nei locali caldaia. Carminati, dopo una notte di
trattative, riuscì tuttavia a riprendere il controllo della situazione, assicurando che la sosta a Cattaro sarebbe stata solo tecnica e dando la parola
d'onore che, in caso di consegna a una potenza straniera, avrebbe dato l'ordine di autoaffondare la nave. Alle 09:15 del 10 settembre il
comandante parlò all'intero equipaggio assicurando che la nave sarebbe restata con la bandiera e sotto comando italiani, e promettendo di non
fare parola dell'ammutinamento per non esporre a conseguenze gli uomini coinvolti.[72][74]

La Cesare così proseguì in direzione di Cattaro, venendo avvistata nella mattinata da un


ricognitore della Luftwaffe; intorno alle 12:15 la piccola formazione italiana si ricongiunse con la
nave appoggio idrovolanti Giuseppe Miraglia, fuggita fortunosamente da Venezia: il comandante
della Miraglia capitano di vascello Gaetano Correale, superiore in grado di Carminati, assunse la
guida della formazione. Un'ora più tardi, alle 13:15, cinque bombardieri in picchiata Junkers Ju
87 "Stuka" si lanciarono all'attacco delle navi italiane, forse nella convinzione che le armi
antiaeree della disarmata Cesare fossero per gran parte inattive. Al contrario, la nave scatenò un
violento fuoco di sbarramento ai danni degli attaccanti, scompaginandone la formazione e
obbligandoli a sganciare senza precisione i loro ordigni che finirono tutti in mare; nel corso
La Giulio Cesare ormeggiato a Taranto nel 1944
dell'azione il guardiamarina Tentoni, che era stato uno dei più determinati nel corso del
precedente ammutinamento, si distinse nell'organizzare il fuoco contraereo.[72][73] Dopo l'attacco
giunse via radio dal comando di Brindisi l'ordine di annullare la sosta a Cattaro, ormai prossima
a cadere in mano ai tedeschi, e la formazione fece quindi rotta per Taranto via canale d'Otranto; bruciando le ultime tonnellate di nafta nei
serbatoi, la Cesare raggiunse la base pugliese alle 14:00 dell'11 settembre, trovando Taranto già occupata dalle truppe britanniche sbarcate il 9
settembre.[74] A dispetto delle iniziali assicurazioni di Carminati, una volta a Taranto gli elementi individuati come i principali istigatori
dell'ammutinamento del 10 settembre furono denunciati, sbarcati e posti agli arresti. Nel giugno 1945 una commissione di inchiesta sui fatti
verificatisi a bordo della Cesare contestò al maggiore Fornasari, al capitano Spotti e al guardiamarina Tentoni una serie di addebiti; considerando
i nobili ideali che avevano ispirato la ribellione, la Marina ebbe tuttavia un atteggiamento molto comprensivo verso i protagonisti
dell'ammutinamento e il procedimento si concluse il 9 novembre 1946 per tutti gli imputati con la pena della sospensione di 12 mesi dal servizio,
provvedimento però subito condonato.[72][73][74]

Dopo aver fatto rifornimento di nafta, la Cesare ripartì per Malta alle 14:00 del 12 settembre insieme alla Miraglia. Alle 07:25 del giorno
successivo le due unità incontrarono nei pressi di Capo Passero una squadra britannica formata dalla nave da battaglia Warspite e quattro
cacciatorpediniere: dopo essersi messe in linea di fila dietro alla corazzata britannica, le unità italiane raggiunsero Malta alle 12:00 dello stesso
giorno riunendosi al resto della flotta, il cui comando era stato assunto dall'ammiraglio da Zara. La Cesare fu ormeggiata quindi a Marsa Scirocco
e, in piena ottemperanza delle clausole armistiziali, la bandiera italiana non fu ammainata e l'equipaggio italiano rimase a bordo.[72] Dopo accordi
tra il comando della Regia Marina e le autorità alleate, le navi italiane internate a Malta iniziarono a rientrare a Taranto nei primi giorni di
ottobre 1943, a eccezione delle corazzate: le due superstiti classe Littorio furono inviate in Egitto e rimasero internate ai Laghi amari fino alla
conclusione della guerra, mentre la Cesare e le due Duilio furono autorizzate al rientro solo il 17 giugno 1944; la Cesare gettò l'ancora a Taranto il
28 giugno dopo un sosta di dieci giorni ad Augusta.[75] Una volta a Taranto, la corazzata fu ancora una volta posta in "tabella di armamento
ridotto" e non svolse più alcuna attività fino alla fine della guerra.[76]
In totale, durante il conflitto, la Cesare aveva portato a termine 38 missioni di guerra, delle quali 8 per ricerca del nemico, 2 per scorta ai convogli
e protezione del traffico nazionale, 14 per trasferimenti e 14 per esercitazioni, per un totale di 16  947 miglia percorse e 912 ore di moto
effettuate.[25]

Il trattato di pace

Anche dopo la conclusione delle ostilità la Cesare rimase ormeggiata a Taranto senza più uscire
in mare. Dopo aver temporaneamente ospitato a bordo la sede dell'Ispettorato delle Forze
Navali, nonché alcuni corsi della locale scuola equipaggi, nel dicembre 1946 la nave fu posta in
condizione di "disponibilità" e l'equipaggio imbarcato fu ulteriormente ridotto in numero. Il 10
gennaio 1947 fu infine posta in disarmo mantenendo a bordo solo poco personale in funzione di
guardia.[76] La Giulio Cesare con la colorazione della
cobelligeranza a Taranto nel 1947, affiancata al
Nel frattempo erano in pieno corso le trattative tra gli Alleati circa le condizioni di pace da
cacciatorpediniere Augusto Riboty
infliggere all'Italia, riguardanti anche la cessione di parte della flotta. Già nell'ottobre 1943,
durante la terza conferenza di Mosca tra i ministri degli esteri delle tre principali potenze alleate,
l'Unione Sovietica aveva formulato la richiesta di una immediata consegna a suo favore di una consistente quota di naviglio mercantile e militare
italiano, tra cui una delle corazzate; alla richiesta si era opposto il primo ministro britannico Winston Churchill, desideroso di non guastare i
rapporti da poco ripristinati con il governo italiano, e la questione era stata infine risolta con la cessione temporanea ai sovietici di un
quantitativo di unità anglo-statunitensi, compresa l'anziana corazzata HMS Royal Sovereign,[N 6] rimandando al trattato di pace finale la
definizione della spartizione della flotta italiana.[77][78][79] Subito dopo la conclusione delle ostilità i governi alleati si orientarono progressivamente
verso la formulazione di un trattato di pace punitivo dell'Italia sconfitta, sebbene a condizioni migliori di quelle riservate alla Germania nazista o
all'Impero giapponese; il testo dell'accordo, reso noto al governo italiano il 30 luglio 1946, fu poi concretizzato nel trattato di Parigi fra l'Italia e le
potenze alleate siglato il 10 febbraio 1947, ratificato dall'Assemblea Costituente il 31 luglio e quindi entrato in vigore il 15 settembre dello stesso
anno. Circa le clausole navali, all'Italia fu concesso di trattenere in servizio 147 unità da guerra per complessive 151  722 tonnellate di
dislocamento, ma dovette cedere agli Alleati 165 unità per complessive 198 759 tonnellate; i trasferimenti principali erano disposti a favore di
Unione Sovietica e Francia, con aliquote minori destinate invece ad altre potenze (Stati Uniti, Regno Unito, Jugoslavia, Grecia e Albania).[80]

L'Italia poté trattenere le due navi da battaglia classe Duilio, le altre tre superstiti unità furono assegnate a Stati Uniti, Regno Unito e Unione
Sovietica; la richiesta di Mosca di ottenere una delle moderne Littorio fu rifiutata dagli anglo-statunitensi[81] e ai sovietici fu quindi assegnata la
Cesare, unitamente ad altre unità tra cui l'incrociatore Emanuele Filiberto Duca d'Aosta, la nave scuola a vela Cristoforo Colombo, sei tra
cacciatorpediniere e torpediniere, due sommergibili e naviglio minore.[78] La comunicazione dell'ammontare delle cessioni da effettuare scatenò
forti proteste in seno agli ambienti della Marina e l'ammiraglio de Courten si dimise dalla carica di capo di stato maggiore; trattative bilaterali tra
l'Italia e i governi alleati consentirono poi di ridurre l'ammontare dei trasferimenti di navi a favore delle potenze occidentali, ma non ebbero
alcun esito con i sovietici che pretesero la pronta consegna di tutta la quota loro spettante (salvo poche unità minori, giudicate come troppo
usurate). La cessione all'URSS di due unità dall'alto valore simbolico come la Cesare e la Colombo portò alla formulazione, da parte di esponenti
di movimenti giovanili di estrema destra estranei alla Marina, di piani di sabotaggio delle navi in questione, da attuarsi nel gennaio 1949 poco
prima della loro consegna: tali piani furono prontamente sventati dalle autorità italiane, anche
sulla base del fatto che, a norma del trattato di pace, qualunque unità perduta per sabotaggio
prima della consegna doveva essere sostituita da una corrispondente unità scelta tra quelle
rimaste all'Italia.[82]

Le norme del trattato imponevano che l'Italia cedesse le navi «in condizioni operative», ovvero
pronte all'impiego con tutti gli apparati funzionati e le dotazioni di bordo complete, non oltre tre
mesi dall'entrata in vigore del trattato stesso. Questo termine si rivelò impossibile da rispettare,
sia per la riluttanza della Marina a collaborare sia, più oggettivamente, per la situazione di
profondo dissesto in cui si trovavano i cantieri navali e il bilancio statale dell'Italia postbellica: al
giugno 1948 su nessuna delle unità spettanti ai sovietici erano iniziati i lavori di ripristino. Le
trattative tra Italia e Francia avevano nel frattempo portato all'adozione della cessione delle navi
La Cesare nel 1948 poco prima del trasferimento «nelle condizioni in cui si trovavano», con l'obbligo per gli italiani di approntare solo quegli
all'Unione Sovietica interventi tecnici necessari a un loro trasferimento in sicurezza nei porti previsti per la cessione;
desideroso di chiudere al più presto la questione della cessione delle navi, il governo sovietico
acconsentì, nel luglio 1948, ad adottare questa formula anche per la sua quota di naviglio. Ferma
in porto da cinque anni praticamente senza equipaggio, la Cesare si trovava in condizioni di efficienza più che mai ridotte, e nel settembre 1948
fu quindi sottoposta a un ciclo di lavori nei cantieri di Taranto: gli interventi si concentrarono principalmente, con una generale parsimonia di
spese, sul ripristino e controllo dell'apparato propulsivo, dei sistemi di sicurezza e degli organi di governo della nave, oltre che sull'imbarco delle
normali dotazioni dell'unità.[83]

Dopo una prima uscita in mare per prove al largo di Taranto nell'autunno 1948, il 9 dicembre, senza che ne fosse data notizia alcuna, la Cesare
lasciò la base per recarsi ad Augusta, dove era attesa una missione di ufficiali sovietici incaricata di ispezionare la nave prima della consegna. Una
volta a destinazione, il 15 dicembre 1948 la Cesare fu ufficialmente radiata dai registri della Marina Militare italiana e assunse la denominazione
Z.11:[N 7] come per tutte le altre unità di cui era previsto il trasferimento agli Alleati, la nave avrebbe navigato verso il porto di destinazione sotto la
bandiera della Marina mercantile italiana e con un equipaggio composto da marittimi civili. Il porto prescelto per la consegna delle navi italiane
ai sovietici era Odessa ma, visto che la convenzione di Montreux del 1936 non consentiva il passaggio attraverso i Dardanelli di navi da battaglia e
sommergibili appartenenti a Stati privi di sbocchi sul Mar Nero, per la Cesare e i due sommergibili Marea e Nichelio fu indicato Valona come
porto di consegna. Imbarcata la commissione di osservatori sovietici[N 8] e una dotazione completa di 1  100 proiettili da 320  mm (oltre al
munizionamento per le armi secondarie, antiaeree e a 32 siluri da 533 mm appartenenti alle dotazioni dei sommergibili), la Z.11 lasciò Augusta il
2 febbraio 1949 in compagnia dei due sommergibili e del trasporto militare italiano Stromboli. Al comando del capitano di lungo corso Enrico
Dodero la nave intraprese una difficile traversata del mar Ionio in tempesta, con una velocità che non superava i 13-16 nodi, subendo alcuni
danni in coperta a causa delle ondate. Il verbale di consegna della Z.11 fu firmato a Valona il 6 febbraio dal comandante della commissione
sovietica, contrammiraglio Gordej Ivanovič Levčenko. I marittimi italiani rientrarono in patria a bordo dello Stromboli, mentre l'equipaggio
sovietico prese possesso della nave alzando su di essa la bandiera della Voenno-morskoj flot.[78][84]
Servizio nella Marina sovietica
Novorossijsk

Entrata in servizio Новороссийск

La corazzata, sempre accompagna dai due sommergibili e assistita da una nave ausiliaria sovietica, salpò
da Valona il 20 febbraio e toccò Sebastopoli il 26. La cerimonia ufficiale di ingresso in servizio della nave
con la Marina sovietica si tenne il 5 marzo 1949, dopo che il bastimento era stato sottoposto a lavori
minimi di riassetto dei danni subiti nel trasferimento e di pitturazione con le tinte adottate per le unità
sovietiche; alla nave fu assegnato il nome di Novorossijsk (in russo: Новороссийск ? ) in onore
dell'omonimo centro abitato della Russia meridionale, teatro di una dura battaglia nel 1943. Alla
corazzata fu assegnato il ruolo di nuova nave ammiraglia della Flotta del Mar Nero.[85]

La propaganda sovietica diede ampio risalto al fatto che la nave era stata consegnata come "bottino di
guerra",[N 9] ma il valore effettivo dell'unità era alquanto modesto. Le autorità sovietiche rimarcarono che La corazzata a Sebastopoli dopo
la nave era stata consegnata in condizioni generali discutibili e con numerose inefficienze come la l'entrata in servizio nella Marina
presenza di un'unica girobussola funzionante, l'occlusione di un gran numero di tubature dei sistemi sovietica
ausiliari e del sistema antincendio, la ruggine affiorante un po' ovunque, il cattivo stato di Descrizione generale
funzionamento delle armi antiaeree (soddisfacente fu giudicata invece l'operatività delle armi principali
e secondarie), l'inoperatività di molti sistemi come i generatori Diesel d'emergenza, le pompe, i
proiettori e gran parte delle cucine di bordo. Tali deficienze erano essenzialmente dovute allo scorrere
del tempo su un bastimento obsoleto, per anni privo di equipaggio e non sottoposto a interventi di Tipo Nave da battaglia
manutenzione fatto salvo il frettoloso raddobbo effettuato poco prima della consegna. Il personale Classe Conte di Cavour
italiano ebbe modo di rimarcare che, tanto la commissione di controllo sovietica arrivata ad Augusta
In servizio Voenno-morskoj
quanto l'equipaggio imbarcato a Valona, si erano concentrati principalmente nel controllare la
consistenza delle dotazioni di bordo e nel verificare che non vi fossero stati atti di sabotaggio nei locali con flot
interni della nave.[85][86] Entrata in 6 febbraio 1949
servizio
Nonostante l'evidente obsolescenza dell'unità, la Novorossijsk rappresentava nel 1949 la nave di
Destino finale Affondata per
superficie più pesantemente armata della Marina sovietica, che in fatto di corazzate schierava solo due
unità dell'obsoleta classe Gangut della prima guerra mondiale armate con cannoni da 305  mm;[87] incidente il 29 ottobre
l'entrata in servizio della nave da battaglia italiana, di concezione più moderna rispetto alle equivalenti 1955
unità in servizio nella Marina sovietica, avrebbe dovuto servire a preparare e addestrare gli equipaggi in Caratteristiche generali
attesa dell'entrata in servizio delle nuove corazzate e incrociatori da battaglia la cui progettazione era
Dislocamento standard: 26 400 t
iniziata negli anni immediatamente seguenti alla seconda guerra mondiale.[85][86]
a pieno carico:
29 300 t
Ammodernamenti Lunghezza 186,4 m
Larghezza 28 m
Dal 12 maggio al 18 giugno 1949 la corazzata fu
sottoposta a un primo ciclo di lavori di riassetto, volti Pescaggio 10,4 m
alla riattivazione degli apparati fuori uso, all'imbarco di Propulsione 8 caldaie Yarrow per
strumentazione moderna (come radar e apparati di 2 turbine Kharkov su
telecomunicazione) e alla coibentazione dei locali
2 eliche; 93 000 hp
equipaggio, progettati per una nave destinata a operare
(69 000 kW)
La corazzata dopo i lavori di ammodernamento nel Mediterraneo ma inadeguati alle rigide temperature
effettuati dai sovietici invernali del Mar Nero. Fu anche messa in bacino di Velocità 27 nodi (50 km/h)
carenaggio per una generale riparazione e pulizia della Autonomia 6 400 miglia a
carena, attività a cui non era più stata sottoposta
13 nodi (11 850 km a
dall'aprile 1942. Nell'estate 1949 la Novorossijsk partecipò alle manovre annuali della Flotta del Mar
24,08 km/h)
Nero, svolgendo un ruolo più propagandistico che effettivo visto che l'equipaggio non aveva ancora
avuto sufficiente tempo per familiarizzare con la nave. Nel luglio 1950 entrò nuovamente in bacino di Equipaggio 68 ufficiali

carenaggio per un turno di lavori di modifica e manutenzione straordinaria, a cui seguirono altre due 243 sottufficiali

soste in bacino nell'aprile-giugno e nell'ottobre 1951 seguite da una terza sosta nel giugno 1952. In effetti, 1231 marinai
l'attività operativa svolta nei primi anni fu alquanto modesta, funestata da frequenti avarie al sistema di
Equipaggiamento
propulsione.[86][88]
Sensori di Radar Volley-M
Nel 1953 la nave fu sottoposta a lavori di ammodernamento più radicali che in passato: l'apparato bordo
motore e le caldaie furono completamente revisionati e furono installati al posto dei turboriduttori Armamento
originali dei nuovi impianti Karkov, capaci di una potenza di 93 000 hp (69 000 kW); questi interventi
consentirono di riportare la velocità massima della nave su valori superiori ai 27 nodi. Furono Artiglieria 10 cannoni
completamente sostituiti i generatori Diesel di emergenza e molti altri apparati ausiliari, l'albero di OTO/Ansaldo da
trinchetto fu modificato per alloggiare nuovi sistemi radar Zalp-M sovietici, e il torrione di comando fu 320 mm
modificato per consentire l'installazione di nuovi apparati di comunicazione radio e di una nuova 12 cannoni Mod.
direzione di tiro per i calibri principali. Tutte le mitragliere Breda dell'armamento antiaereo originale 1933 da 120 mm
furono sbarcate e sostituite da armi sovietiche: in particolare furono imbarcate trenta bocche da fuoco
da 37 mm M1939, ventiquattro impianti tipo V-11 (binati e raffreddati ad acqua) con una cadenza di tiro 8 cannoni da
di 320-360 colpi al minuto e sei impianti tipo 70-K (singoli e raffreddati ad aria) con una cadenza di tiro 100 mm
di 150 colpi al minuto.[88][89][90] 24 cannoni V-11
da 37 mm
Nuovi interventi di manutenzione e ammodernamento si svolsero anche nel novembre 1954 e tra il
febbraio e il marzo 1955: per quanto economicamente piuttosto costosi, avevano effettivamente 6 cannoni 70-K da
migliorato le prestazioni generali di un bastimento varato ben 44 anni prima. Fu registrato un aumento 37 mm
del dislocamento nell'ordine di circa 200 tonnellate con conseguente leggero calo dell'altezza Corazzatura Verticale 280 mm

metacentrica della nave, senza che però questo influisse più di tanto con la stabilità trasversale. Anche in Orizzontale 135 mm

ragione della maggiore dimestichezza acquisita dall'equipaggio (salito a 1 542 uomini di cui 68 ufficiali e Artiglierie 280 mm

243 sottufficiali), nel corso della campagna di esercitazioni della flotta della primavera 1955 la Torrione 260 mm
Novorossijsk giocò un ruolo più funzionale. Il problema principale che comprometteva l'operatività della
nave era la scarsa dotazione di munizionamento per i cannoni principali, ridotta a quella consegnata Note
dagli italiani nel 1949 visto che né la Marina né l'Esercito sovietico avevano in uso bocche da fuoco di Dati riferiti al 1953
calibro 320  mm. Vista l'impossibilità, in piena guerra fredda, di acquistare il munizionamento
necessario direttamente dall'Italia (Paese ora membro della NATO), furono studiate alcune soluzioni tra Fonti citate nel corpo del testo
cui la sostituzione dei pezzi originari con i cannoni da 305 mm delle corazzate classe Gangut ormai in via
di dismissione; alla fine, si optò per far produrre specificamente all'industria sovietica un lotto di voci di navi da battaglia presenti su
munizioni calibro 320 mm.[91] Wikipedia

Visto che il nuovo proiettile da 320  mm della Novorossijsk sarebbe risultato la munizione di maggior
calibro mai entrata in servizio nelle forze armate sovietiche fino a quel momento, furono formulate speculazioni circa il fatto che questi proiettili
potessero essere dotati di una testata nucleare, a modello del "cannone atomico" a impiego terrestre M65 in quel momento in sviluppo negli Stati
Uniti, trasformando così l'anziana corazzata in un assetto strategico di un certo valore. È tuttavia alquanto incerto che una simile possibilità sia
mai stata presa in considerazione dai vertici della Voenno-morskoj flot, visto che la tecnologia sovietica dell'epoca non era ancora capace di
miniaturizzare le testate nucleari fino alle dimensioni richieste per un proiettile d'artiglieria. In ogni caso, la produzione dei nuovi proiettili da
320 mm sovietici non risulta sia mai stata avviata in concreto, stante l'improvvisa perdita della Novorossijsk.[91]

L'affondamento

Nel tardo pomeriggio del 28 ottobre 1955 la Novorossijsk gettò l'ancora nella baia di Sebastopoli
dopo un'esercitazione in Mar Nero con le altre unità della flotta, pronta a partecipare alle
celebrazioni per il centenario della fine dell'assedio della città nel 1855. Con l'ancora di sinistra
affondata in mare assieme a un tratto della sua catena, l'unità si ormeggiò "alla boa", ovvero
legandosi con cavi d'acciaio a due grosse boe poste a prua e poppa dello scafo; le boe erano
saldamente fissate al fondo del mare con catene d'acciaio. La corazzata occupava il posto
d'ormeggio numero 3, situato nella parte centrale della baia a circa 300 metri a nord della riva
meridionale, davanti a un ospedale; in quel tratto il mare raggiungeva una profondità di 17-18
metri, di cui circa 10 erano occupati dallo scafo della nave; il fondale era formato da uno strato di
fango piuttosto spesso (anche 15 metri) ma poco consistente. Varie altre unità di grosso
tonnellaggio della Flotta del Mar Nero si trovavano in quel momento ormeggiate alla boa nella
La nave fotografata a Sebastopoli nel 1950
baia di Sebastopoli: le unità più vicine alla Novorossijsk erano gli incrociatori Molotov a ovest,
Mihail Kutuzov a est e Frunze a nord-est. Circa 240 membri dell'equipaggio erano scesi a terra in
licenza subito dopo la cena, ma 200 allievi dell'accademia navale si erano appena imbarcati
unitamente ad alcuni tecnici civili, portando a 1  530 le persone a bordo della nave al momento del disastro; anche il comandante della nave,
capitano di 1º rango Aleksandr Pavlovič Kuchta, e il suo secondo ufficiale, capitano di 2º rango Khurshudov, erano scesi a terra, lasciando il
comando dell'unità al terzo ufficiale di bordo, capitano di 2º rango Sebulov.[92]

Alle 01:31 del 29 ottobre la Novorossijsk fu scossa da una violenta esplosione verificatasi sotto lo scafo, sul lato di dritta della sezione di prua
della nave; l'esplosione, registrata anche dai sismografi della stazione di rilevamento tellurico della vicina città di Sinferopoli, fu stimata avere
una potenza di 1 000-1 200 chilogrammi di tritolo. L'esplosione non sollevò una colonna d'acqua particolarmente rilevante, segno che l'energia
dello scoppio era stata assorbita in massima parte dalle strutture dello scafo; fu rilevata solo una modesta fiammata e un breve incendio sulla
superficie dell'acqua, attribuiti alla completa distruzione nello scoppio di due imbarcazioni di servizio ormeggiate a fianco della corazzata. L'onda
d'urto dell'esplosione si propagò principalmente in verticale, poco a dritta della linea della chiglia, provocando una falla della lunghezza di circa
22 metri nel fasciame e perforando tutti i ponti fino a sfogare in alto nel ponte di castello attraverso una fenditura di 14 × 4 metri slabbrata verso
l'esterno, posta di poco davanti alle bocche dei cannoni della torre tripla di prua. L'area interessata dall'esplosione era costituita dalla sezione di
prua del vecchio scafo (a cui era stata collegata la nuova prua durante i lavori negli anni 1930) ed era all'epoca occupata da locali di alloggio
dell'equipaggio, apparecchiature ausiliarie e alcuni depositi; si stima che tra 50 e 100 marinai persero immediatamente la vita nell'esplosione.[93]

Lo scoppio scardinò gran parte delle strutture stagne, in tre minuti la nave accusò un appruamento di 3-4 gradi e un inizio di sbandamento sul
lato di dritta. Il comandante in capo della Flotta del Mar Nero, il viceammiraglio Viktor Aleksandrovič Parkhomenko, fu informato alle 01:40 e
una ventina di minuti più tardi raggiunse il luogo unitamente a diversi altri ufficiali di comandi locali: la presenza di un gran numero di ufficiali
superiori generò una certa confusione nell'impartire gli ordini durante le operazioni di soccorso. Nonostante l'immersione a prua stesse
continuando ad aumentare anche piuttosto rapidamente, Parkhomenko fu rassicurato dalla notizia che, stando ai calcoli del servizio di sicurezza
della nave, lo scafo aveva imbarcato solo 1 200 tonnellate di acqua; in realtà, come fu poi ricalcolato, nonostante tutte le pompe in funzione a
mezz'ora dall'esplosione la nave aveva già imbarcato circa 3  500 tonnellate di acqua, pari al 15% del suo dislocamento. Intorno alle 02:00 il
comandante delle operazioni della Flotta, capitano di 1º rango Ovčarov, ordinò alla Novorossijsk di mollare gli ormeggi e farsi trainare dai
rimorchiatori in un punto di basso fondale dove far adagiare la prua; il bordo del ponte di castello si trovava ormai al livello del mare, mentre il
bulbo di prua aveva iniziato a strusciare sul fango del fondale. Il personale delle sale macchine stava tentando di rimettere in pressione le caldaie
della nave, spente per la sosta, mentre altri marinai si davano da fare per puntellare le paratie attorno alla zona interessata dall'esplosione; gran
parte dell'equipaggio non era però coinvolto nelle operazioni di soccorso e si era raccolto in coperta.[94]

Alle 03:00 il contrammiraglio Nikolaj Ivanovič Nikol'skij, capo di stato maggiore della Flotta del Mar Nero, suggerì di evacuare dalla nave i circa
800 membri dell'equipaggio raccoltisi inoperosi sul ponte, ma Parkhomenko respinse l'idea sostenendo che essa sarebbe servita solo a scatenare
il panico; il viceammiraglio non riteneva la corazzata in pericolo di capovolgersi, visto che in quel punto sotto la chiglia si trovavano solo 7 metri
d'acqua a fronte di una larghezza massima dello scafo di 28 metri. L'appruamento della nave stava intanto continuando, con l'acqua che lambiva
la barbetta della torre tripla di prua e iniziava a penetrare anche dall'alto attraverso lo squarcio nel ponte aperto dall'esplosione; con la prua
sempre più affondata nel molle fango del fondale i rimorchiatori faticavano nel cercare di trainare lo scafo verso sinistra: il tiro dei rimorchiatori
e la resistenza dello scafo provocarono un abbattimento della nave sulla sinistra e un progressivo passaggio dello sbandamento dal lato di dritta a
quello di sinistra, segno inequivocabile di una pericolosa perdita di stabilità trasversale. Alle 03:30 lo sbandamento verso sinistra aveva ormai
raggiunto i 12°; un quarto d'ora più tardi Nikol'skij tornò a rivolgersi a Parkhomenko chiedendo di evacuare il personale non necessario, solo per
ottenere un nuovo rifiuto. Alle 04:15, due ore e quarantacinque minuti dopo l'esplosione, con
circa 7 000 tonnellate di acqua imbarcate lo sbandamento dello scafo toccò i 20° e la nave iniziò
rapidamente a capovolgersi sul lato di sinistra, arrestandosi solo quando le alberature e le
sovrastrutture iniziarono a immergersi nella molle fanghiglia del fondo, che oppose solo una
modesta resistenza: la rotazione riprese seppur più lentamente. Alle 22:00 del 29 ottobre,
diciotto ore dopo l'esplosione e con uno sbandamento che ormai era arrivato a 172°, anche la
parte inferiore dello scafo scomparve sotto il livello del mare.[95][96][97]

Il rovesciamento della Novorossijsk fu il peggior disastro navale in tempo di pace della storia
della Russia: quando lo scafo iniziò a ruotare il personale presente in coperta si gettò in mare e fu
soccorso dai battelli di salvataggio nelle vicinanze, ma molti marinai furono travolti dalle
sovrastrutture della nave che si rovesciava. Dopo il completo rovesciamento solo poche speranze
Il monumento ai marinai della Novorossijsk a
di sopravvivenza rimanevano per gli uomini rimasti all'interno dello scafo: sette marinai furono
Sebastopoli
tratti fuori dai sommozzatori delle squadre di salvataggio entro cinque ore dall'incidente e altri
due a ben 50 ore dal rovesciamento, prima che i soccorsi fossero sospesi il 1º novembre dato che
non si udiva più alcun rumore provenire dall'interno dello scafo. In totale, nel disastro della Novorossijsk si contarono 609 morti e 48 feriti,
appartenenti anche alle squadre di soccorso inviate da altre navi della flotta.[86][98][99]

La Novorossijsk fu ufficialmente cancellata dai registri navali sovietici il 4 febbraio 1956. Le complesse operazioni di recupero del relitto presero
il via nell'aprile 1957 e, già il 4 maggio seguente, lo scafo capovolto fu riportato in galleggiamento. Il relitto fu poi portato in una insenatura
laterale, raddrizzato e avviato alla demolizione; uno dei pezzi da 320/44 fu conservato come memoriale e rimase esposto presso la scuola
equipaggi di Sebastopoli almeno fino al 1971.[86][98][100]

L'inchiesta

Per indagare sulla perdita della Novorossijsk, il 1º novembre 1955 fu nominata una commissione d'inchiesta composta da tecnici navali di lunga
esperienza; la commissione era presieduta da Vjačeslav Aleksandrovič Malyšev, generale del corpo ingegneristico, vicepresidente in carica del
Consiglio dei ministri dell'Unione Sovietica e, fino al 1953, ministro dell'industria cantieristica. Malyšev, che durante la seconda guerra mondiale
aveva ricoperto la posizione di commissario del popolo per l'industria pesante, aveva avuto modo di consultare già nel 1946, durante le trattative
di pace con l'Italia, la documentazione tecnica dell'allora Giulio Cesare: in quella occasione Malyšev si era espresso contro la cessione dell'unità,
ritenuta superata come strumento bellico, ma le sue rimostranze erano state messe da parte per ragioni di prestigio diplomatico. La commissione
si servì delle strutture del KGB per interrogare tutti i superstiti dell'equipaggio, nonché i testimoni che avevano assistito all'esplosione da terra e il
personale di servizio nella base navale di Sebastopoli; furono inoltre inviati gruppi di palombari e sommozzatori a ispezionare il relitto della
corazzata e i fondali del posto d'ormeggio numero 3.[101]
Il 17 novembre 1955 la commissione presentò le sue conclusioni al Comitato Centrale del PCUS, subito
accettate e approvate. Si ritenne che la perdita della Novorossijsk non fosse da attribuire ad alcuna esplosione
interna, accidentale o meno, ma a un'esplosione subacquea esterna, avvenuta sul fondale e senza contatto con
la carena. Furono prese in considerazione quattro possibili cause dell'esplosione: un siluro lanciato da un
sommergibile; l'attacco di sommozzatori muniti di cariche esplosive; un'azione di sabotaggio; una mina
navale posata sul fondo del posto d'ormeggio. Le prime due ipotesi furono ritenute possibili in teoria, visto lo
stato di trascuratezza delle difese subacquee della base,[N 10] ma furono entrambe scartate per varie ragioni: la
conformazione della falla aperta nello scafo era incompatibile con l'impatto di un siluro, mentre il
quantitativo di esplosivo normalmente trasportabile da una squadra di assaltatori subacquei era di gran lunga
inferiore a quello necessario per generare l'esplosione che aveva affondato la nave (stimato in 1  000-1  200
chilogrammi di tritolo). L'impiego di sommergibili e sommozzatori d'assalto richiedeva poi l'attuazione di
procedure complesse, come l'utilizzo di basi intermedie o di navi d'appoggio e la raccolta di informazioni di
intelligence sulle difese del porto, tutti fattori difficili da occultare (a maggior ragione nelle vicinanze di una
base navale di prim'ordine come Sebastopoli, ben sorvegliata dai servizi di controspionaggio sovietici) e
comunque necessitanti del coinvolgimento diretto o indiretto di uno o più governi stranieri, inclusi quelli
degli Stati affacciati sul Mar Nero: fu ritenuto del tutto inverosimile che un governo potesse rischiare di
Vjačeslav Aleksandrovič Malyšev, scatenare una guerra con l'Unione Sovietica, una potenza nucleare, solo per affondare una nave obsoleta e di
presidente della commissione ridotto impiego bellico. L'ipotesi del sabotaggio, eventualmente tramite una carica esplosiva nascosta nello
d'inchiesta che indagò scafo prima della consegna dell'unità ai sovietici, fu scartata perché avrebbe necessariamente comportato
sull'affondamento della Novorossijsk un'esplosione interna, quando l'analisi del relitto indicava chiaramente un'esplosione esterna.[100][102]

L'affondamento della Novorossijsk fu quindi attribuito alla detonazione di una mina navale abbandonata sul
fondo del posto d'ormeggio numero 3, un residuato dell'occupazione tedesca di Sebastopoli durante la seconda guerra mondiale e sfuggita alle
pur numerose operazioni di sminamento condotte dai sovietici dopo la liberazione della città il 9 maggio 1944. Gli esperti della commissione
identificarono l'ordigno come una mina tedesca tipo RMH, posabile da mezzi di superficie e contenente una carica di 800 chili di tritolo con
l'aggiunta però di additivi che ne aumentavano il potere esplodente a quello corrispondente a 1  000-1  100 chilogrammi di tritolo, oppure una
mina tedesca tipo LMB, anche aviolanciabile e dotata di una carica di 705 chilogrammi di tritolo parimenti arricchiti. Entrambe le armi, già
rinvenute in passato dai sovietici nella baia, erano attivate da acciarini a induzione magnetica (capaci cioè di rilevare il campo magnetico
generato dallo scafo ferroso di una grande unità navale) o acustica. L'ipotesi della mina presentava alcuni punti non chiari: tutt'e due erano
alimentate da batterie della durata massima stimata di 9 anni, ma erano passati almeno 11 anni dall'ultima occasione in cui i tedeschi avevano
potuto minare la baia di Sebastopoli; prima del 29 ottobre 1955, inoltre, il posto d'ormeggio numero 3 era stato utilizzato senza alcun incidente
almeno 134 volte da unità navali anche di grosso tonnellaggio, inclusa la stessa Novorossijsk in dieci occasioni diverse. Tra le varie ipotesi prese
in considerazione per spiegare questi fenomeni, la più convincente fu ritenuta quella del blocco dell'"orologio degli scatti" degli ordigni: le mine
erano infatti dotate di un congegno che le faceva detonare solo dopo un numero prefissato e variabile di attivazioni o ad alcune ore di distanza
dall'attivazione, in modo da renderne più difficile l'eliminazione tramite strumenti di dragaggio magnetico; si suppose che nella mina in
questione il congegno si fosse bloccato al momento della posa o subito dopo, lasciando l'ordigno silente per anni finché non era stato risvegliato
dall'urto con un'ancora o la sua catena, ad esempio durante le ultime operazioni di ormeggio della Novorossijsk.[103]
Furono trovate alcune prove indirette a sostegno dell'ipotesi della mina. Campagne di dragaggio effettuate subito dopo l'incidente portarono al
rinvenimento di 19 mine tedesche ad attivazione magnetica affondate nel fango della baia di Sebastopoli, di cui tre poste nel raggio di 50 metri
dal posto d'ormeggio numero 3, per quanto non sia chiaro quante di queste armi fossero ancora in qualche modo attive. Tecnici sovietici
simularono poi in due occasioni l'esplosione di una mina, equivalente per caratteristiche a quelle tedesche, contro scafi di navi in disuso e nelle
stesse condizioni della Novorossijsk: i danni rilevati sui relitti delle navi impiegate per i test furono considerati del tutto analoghi a quelli
rinvenuti sulla corazzata.[103]

Esaurita l'indagine sulle cause dell'affondamento, la commissione passò quindi a esaminare le vicende e i
comportamenti degli ufficiali in comando al momento del disastro. Tanto il comando di bordo quanto il
comando della Flotta del Mar Nero furono indicati come responsabili delle poco efficaci misure di sicurezza
adottate per contrastare l'affondamento della nave: furono criticati in particolare il ritardo con cui era stato
ordinato il rimorchio della corazzata su bassi fondali e la lentezza con cui erano state condotte le manovre
medesime, oltreché l'atteggiamento noncurante e superficiale tenuto dal viceammiraglio Parchomenko, in
particolare circa la mancata evacuazione dell'equipaggio e la conseguente grave perdita di vite umane. In
ragione di questi rilievi, l'8 dicembre 1955 Parchomenko ricevette un rimprovero solenne e fu sollevato dal
comando della flotta; retrocessi di grado e dimessi dal servizio attivo furono inoltre il contrammiraglio
Nikol'skij, il comandante della nave Kuchta, il suo secondo Khurshudov (assenti al momento del disastro) e il
contrammiraglio Anatolij Aleksandrovič Galickij, comandante della 24ª Divisione tutela delle acque e
responsabile delle operazioni di dragaggio a Sebastopoli.[86][96][104]

Altra vittima illustre del disastro fu l'ammiraglio della flotta Nikolaj Gerasimovič Kuznecov, comandante in
capo della Marina sovietica: eroe dell'Unione Sovietica e alla guida delle forze navali ininterrottamente dal
1939 (salvo una breve parentesi di caduta in disgrazia tra il 1946 e il 1951), Kuznecov aveva curato i piani di L'ammiraglio Nikolaj Gerasimovič
riarmo navale e di nuove costruzioni dell'URSS durante la prima fase della guerra fredda, scontrandosi spesso Kuznecov; comandante in capo
con gli orientamenti tenuti dall'allora ministro della difesa, il potente maresciallo Georgij Konstantinovič della Marina sovietica, fu costretto
Žukov, e dal nuovo segretario generale del PCUS Nikita Sergeevič Chruščëv. In particolare, pur non alle dimissioni a seguito della
opponendosi allo sviluppo di una moderna forza subacquea, Kuznecov aveva propugnato strenuamente la perdita della corazzata
contemporanea realizzazione di grandi navi da combattimento di superficie come portaerei, navi da battaglia
e incrociatori armati di cannoni. Il disastro di Sebastopoli fu subito usato a pretesto dalla dirigenza sovietica
per sbarazzarsi di Kuznecov: l'8 dicembre 1955 Žukov obbligò l'ammiraglio a lasciare la guida della Marina, contemporaneamente fu retrocesso al
grado di viceammiraglio e avviato al pensionamento anticipato. Sotto il suo nuovo comandante, l'ammiraglio Sergej Georgievič Gorškov, la
Marina sovietica cambiò immediatamente orientamento: nel corso del 1956 le rimanenti navi da battaglia, gli incrociatori più vecchi e le unità di
preda bellica furono ritirate dal servizio e avviate alla demolizione, mentre i programmi di costruzione navale virarono decisamente verso la
realizzazione di una grande forza di sottomarini a propulsione nucleare e unità navali leggere armate di missili; trascorsero quasi venti anni
prima che l'Unione Sovietica mettesse in cantiere unità da combattimento di superficie dal dislocamento superiore alle 20  000 tonnellate.
Ritiratosi a vita privata, Kuznecov fu riabilitato solo nel 1988, ben 33 anni dopo l'affondamento della Novorossijsk e 14 anni dopo la sua morte,
avvenuta nel 1974.[105]
Le risultanze della commissione Malyšev non furono divulgate all'opinione pubblica e il governo sovietico fece scendere su tutta la vicenda una
cortina di silenzio. Ufficialmente, la perdita della corazzata fu attribuita a un'esplosione causata dallo scoppio a bordo di un incendio accidentale,
una delle ipotesi circolate nell'immediatezza dei fatti e poi continuamente riproposta dalla dirigenza sovietica negli anni a venire; benché l'ipotesi
della mina fosse stata apertamente formulata da molte pubblicazioni specializzate nel settore navale edite in Occidente, la versione dell'incendio
accidentale rimase in vigore in Unione Sovietica almeno fino alla fine degli anni 1980. Ai superstiti del disastro fu imposto di mantenere il
silenzio sulla vicenda e, nonostante la segnalazione di diversi atti di coraggio durante le operazioni di soccorso, nessuno dei soccorritori ricevette
un'onorificenza per questo; solo nel 1996 l'allora Presidente della Federazione Russa Boris Nikolaevič El'cin decorò sette marinai superstiti della
corazzata.[106]

Speculazioni e teorie del complotto

Dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica nel 1991, presero a fiorire in merito all'affondamento della Novorossijsk una serie di teorie
"alternative" che rifiutavano le conclusioni della commissione Malyšev e tentavano di dare una diversa spiegazione delle cause dell'incidente;
queste ricostruzioni, riprese e diffusesi sui mezzi di comunicazione di massa tanto in Russia quanto in Italia, si incentravano sull'attribuire
l'affondamento della corazzata a un atto di sabotaggio, generalmente a opera di incursori italiani desiderosi di "vendicare" l'onta della cessione
della nave all'Unione Sovietica. Nessuno degli autori di queste ipotesi alternative è mai stato in grado di produrre prove documentali di alcun tipo
a sostegno delle sue tesi, e pertanto queste ricostruzioni sono considerate come mere teorie del complotto o speculazioni fantasiose.[107]

L'ipotesi dell'atto di sabotaggio operato dagli italiani, se si escludono alcune dicerie non controllate sorte negli ambienti navali sovietici già nel
1964, sembra abbia avuto origine da un volume, Il mistero della fine del "Novorossijsk", pubblicato nel 1991 da B. A. Karzhavin, un ex ufficiale
della Voenno-morskoj flot: riesaminando criticamente le ricostruzioni della commissione Malyšev, l'autore tentò di smontare la tesi
dell'affondamento a opera di una mina (che per ammissione della stessa commissione presentava alcuni punti non del tutto chiari) e ripropose
quella di un attacco da parte di sabotatori subacquei; Karzhavin formulò una ricostruzione, completamente priva di fonti documentali a suo
supporto, secondo cui la missione di sabotaggio sarebbe stata portata a termine da un gruppo di ex membri della Xª Flottiglia MAS, comandati
da Junio Valerio Borghese e condotti sul posto da alcune navi mercantili italiane che in quel periodo si erano recate nei porti della Crimea. La
ricostruzione di Karzhavin non era convincente né sul piano tecnico né tantomeno su quello politico-strategico, ma fu comunque ripresa dallo
storico russo Nikolaj Čerchašin in un articolo per la rivista Soveršenno sekretno, pubblicato nell'aprile 1992 e ripreso anche dalla stampa italiana.
Čerchašin elencò anche i nomi dei membri del presunto commando che, agli ordini di Borghese, avrebbe condotto il sabotaggio: Gino Birindelli,
Elios Toschi, Eugenio Wolk e Luigi Ferraro, tutti veterani della Xª Flottiglia MAS. Oltre a non portare prove a sostegno, la tesi di Čerchašin
presentava notevoli incoerenze: come il fatto che, nel 1955, Birindelli aveva ormai più di 45 anni, età poco compatibile con gli sforzi necessari per
condurre una prolungata operazione di sabotaggio subacquea. Lo stesso Birindelli, intervistato dal Corriere della Sera, smentì categoricamente le
ricostruzioni di Čerchašin.[108][109]

L'ipotesi del sabotaggio subacqueo condotto dagli italiani fu varie volte ripresa dalla stampa russa, citando anche il presunto coinvolgimento di
altre nazioni straniere e, segnatamente, del Regno Unito, visto che la Royal Navy era la sola forza navale all'epoca dotata delle conoscenze
tecniche necessarie per condurre una simile operazione. Nel 1999 il quotidiano Segodnia sostenne che l'azione rientrava in un più ampio piano di
invasione dell'Unione Sovietica, bloccato dalla NATO all'ultimo momento. Nel 2005 invece, in occasione del cinquantenario del disastro, la
rivista russa Itoghi sostenne in un articolo, poi ripreso dal quotidiano Il Secolo XIX, che il sabotaggio della Novorossijsk fu attuato dai servizi
segreti italiani (sempre tramite reduci della Xª Flottiglia MAS) per conto della NATO, al fine di impedire che la corazzata potesse essere
equipaggiata di armi nucleari. La rivista sostenne che l'unico tra i protagonisti di quell'impresa ancora in vita, di cui tuttavia non veniva fornita
l'identità, avrebbe raccontato i particolari dell'azione a un ex-ufficiale sovietico conosciuto casualmente durante una vacanza in Florida.[108][110]

Nell'ottobre 2013 l'ammiraglio in pensione Nikolai Titorenko pubblicò un volume dedicato nuovamente al tentativo di smontare la "teoria della
mina" e sostenere quella del sabotaggio. Riprendendo la ricostruzione già fatta dalla rivista Itoghi nel 2005, dettagliata ma completamente priva
di fonti a supporto, Titorenko sostenne che l'affondamento fu opera di una squadra di otto sommozzatori italiani, reduci della Xª Flottiglia MAS e
reclutati da una non meglio specificata organizzazione anticomunista appoggiata dal governo italiano dell'epoca: la squadra sarebbe arrivata nel
Mar Nero nascosta su un mercantile italiano, sarebbe arrivata sottocosta a bordo di un minisommergibile e avrebbe stabilito una piccola base
d'appoggio a terra da cui condurre il sabotaggio, tornando poi a operazione conclusa a bordo di un nuovo mercantile di passaggio. Alla teoria del
sabotaggio italiano fu dedicato anche il volume Il mistero della corazzata russa. Fuoco, fango e sangue, pubblicato nel 2015 dal giornalista
italiano Luca Rebustini: l'autore tentò di dare solidità alla teoria sia citando un'intervista rilasciata nel 2013 da Ugo D'Esposito, un
ultranovantenne reduce della Xª Flottiglia MAS che sosteneva la tesi del sabotaggio pur dichiarando di non aver fatto parte della presunta
squadra di sabotatori, sia riferendo della presenza sui mercantili in navigazione nel Mar Nero di personale della Marina Militare impegnato in
attività di monitoraggio delle comunicazioni sovietiche, fatti già noti agli storici e comunque non riferibili temporalmente all'epoca del disastro di
Sebastopoli.[108]

La Giulio Cesare nella cultura di massa


Le vicende del trasferimento della corazzata da Pola a Malta nel settembre 1943 sono rievocate in forma romanzata nel film italiano Fantasmi del
mare del 1948, regia di Francesco De Robertis.[111]

Note

Annotazioni
1. ^ Masdea fu autore dei progetti di diverse classi di incrociatori corazzati della fine del XIX secolo nonché di quello della Dante Alighieri, ed è
considerato come uno dei "padri" della moderna architettura navale italiana; vedi Da Frè, p. 274.
2. ^ Parimenti sottoposte a ricostruzione alla fine degli anni 1930.
3. ^ A causa della concitazione dell'azione fu riportato, in un primo momento, l'impatto di due colpi nemici in rapida successione, circostanza poi
smentita.
4. ^ Nei primi rapporti venne riferito di un colpo di grosso calibro messo a segno dalla Cesare ai danni della Warspite, circostanza rivelatasi poi
mai avvenuta. Vedi Bragadin, p. 44.
5. ^ Ovvero con un equipaggio imbarcato inferiore alle dotazioni organiche normali per un'unità operativa.
6. ^ La corazzata fu restituita ai britannici il 4 febbraio 1949, il giorno dopo che i sovietici ebbero ricevuto dall'Italia la Cesare.
7. ^ Le unità cedute all'Unione Sovietica ricevettero una designazione convenzionale composta dalla lettera Z seguita da una cifra compresa tra
11 e 20.
8. ^ Il primo comandante designato della corazzata, il capitano di 1º rango Jurij Zinov'ev, morì d'improvviso per un attacco cardiaco il 19 gennaio
1949 mentre si trovava ad Augusta; fu quindi sostituito dal pari grado Boris Beljaev, che si imbarcò sulla nave a Valona.
9. ^ Formula pretesa dai sovietici stessi negli accordi con l'Italia in luogo della più diplomatica "cessione in conto riparazioni spese di guerra",
applicata invece ai trasferimenti a favore della Francia.
10. ^ La porta di accesso attraverso le ostruzioni che chiudevano l'entrata della baia di Sebastopoli doveva essere tenuta chiusa nelle ore
notturne, ma in realtà era spesso lasciata aperta per consentire il transito delle unità impegnate nei lavori di dragaggio del fondale; inoltre, gli
idrofoni della rete di vigilanza erano di tipo obsoleto e spesso fuori uso per avaria.

Fonti
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Bibliografia
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Voci correlate
Leonardo da Vinci (nave da battaglia)
Benedetto Brin (nave da battaglia)
Imperatrica Marija
Mutsu (nave da battaglia)

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Collegamenti esterni
Giulio Cesare (ante ricostruzione), su marina.difesa.it.
Giulio Cesare (dopo ricostruzione), su marina.difesa.it.
Navi da battaglia classe Cavour, su regiamarinaitaliana.it (archiviato dall'url originale il 17 maggio 2008).
Corazzata Giulio Cesare, su digilander.libero.it.
(RU) “Чезаре” становится “Новороссийском”, su battleships.spb.ru.
(BE) Новоросийск, su ship.bsu.by.
(RU) Загадка Севастопольской бухты, su lenta.ru.

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