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Storia Economica

La Storia Economica come Scienza Autonoma


01 La Storia Economica: Oggetto e Metodo
Definizione: la storia economica studia il succedersi degli avvenimenti economici e delle politiche
economiche dei diversi paesi e delle diverse aree geo-economiche mondiali nella loro evoluzione nel
tempo e nello spazio.

Se l’economia è l’arte di combinare le risorse disponibili per soddisfare le proprie esigenze, la storia
economica studia come nel corso del tempo sono cambiate le modalità di rispondere queste esigenze.

Quindi: la Storia Economica studia le caratteristiche, i processi, le modalità evolutive dei sistemi economici
di cui gli uomini e le donne si sono dotati nel corso del tempo.

La Storia Economica aspira dunque a una lettura integrata dei processi economici-sociali e della loro
complessità.

Questo tipo di analisi può essere svolta attraverso due principali modelli interpretativi:
1. le analisi di breve periodo (congiunturale);
2. le analisi di lungo periodo (strutturale).

Analisi delle fluttuazioni a partire non da un dato temporale, ma da una lettura dei processi produttivi e
delle loro caratteristiche.

Le interpretazioni storiche per essere efficaci devono essere sempre rapportate al lungo periodo (laddove il
sistema economico conosce una modificazione nell’organizzazione della produzione e nei rapporti tra i
fattori della produzione).

Il Metodo:
 Analisi di breve, medio e lungo periodo;
 L’economia mondo (Braudel);
 Il dualismo tradizione/modernità;
 I concetti di catching up e di arretratezza economica (Gerschenkron);
 Il concetto di “differenziale della contemporeanità” (Pollard);
 Il concetto di lotta per il primato;
 ….

La storia economica (disciplina autonoma) nasce dall’applicazione del metodo induttivo dell’economia
politica.

02 Il sistema Economico: Caratteristiche e funzioni


Il sistema economico può essere spiegato come quell’organizzazione sociale, storicamente definita, di cui
gli uomini e le donne si servono per soddisfare le proprie esigenze tramite la produzione e consumo di beni
e servizi.
Esistono bisogni primari e secondari, maggiore è il loro grado di integrazione maggiore è la complessita del
sistema economico.

Il sistema economico esiste e vive in base alla propria capacità di corrispondere alle esigenze/bisogno, per
farlo deve ottemperare a quattro funzioni:
 Produzione;
 Distribuzione;
 Scambio;
 Consumo;

Produzione:
Scopo: Produrre beni e servizi.
Come: attraverso la combinazione dei fattori della produzione.

 Terra
 Capitale
 Lavoro

La combinazione dei fattori della produzione determina:


1. La capacita di produzione di un sistema;
2. La sua modalità attraverso i rapporti della produzione;

Distribuzione:
La partecipazione degli individui al sistema economico è legato alla recezione del reddito, ovvero alla
remunerazione dei fattori della produzione.

 Terra = Rendita
 Capitale = Profitto
 Lavoro = Salario
(Fattore = Remunerazione)

Non esiste una distribuzione possibile, ma diverse modalità. Anche la distribuzione è una delle funzioni
peculiari per interpretare l’evoluzione di un modello economico nel medio periodo o nel lungo periodo.

Scambio:
Il sistema economico è un organizzazione sociale, quindi la divisione sociale del lavoro, determina la
necessità di un mercato di beni e servizi.

Maggiore è il tasso di divisione del lavoro, maggiore è il volume degli scambi.

Il mercato porta alla nascita del rapporto tra domanda ed offerta; ogni bene è valutato in base al valore
d’uso (utilità) o valore di scambio (prezzo).

Nascono cosi il mercato monetario e il mercato del credito.

Funzioni della moneta:


 Misura del valore;
 Accelleratore degli scambi;
 Riserva di valore;
Consumo:
Consumo Diretto: utilizzazione immediata di un bene

Consumo Indiretto: utilizzazione differita nel tempo (risparmio/investimento)

Nasce cosi il rapporto tra tasso di risparmio e tasso di investimento.

Caratteristiche evolutive di un sistema economico:


 Sistema statico o dinamico (processo riproduttivo);
 Mutamenti del sistema: inter-sistemici e intra-sistemici;
 Trasformazioni del sistema: Graduali o rivoluzionarie; Endogene o esogene.

03 L'evoluzione dei principali sistemi economici


Il sistema economico può essere definito come: L'insieme delle forme istituzionali, dei rapporti giuridici,
delle relazioni sociali ed economiche, storicamente determinate, di cui gli individui si servono per
corrispondere ai bisogni.

Sistemi economici:
 Feudale
 Mercantile
 Capitalismo industriale

Economia medioevale Mercantilismo Capitalismo industriale


Periodo dopo il V secolo XVI e XVIII secolo dopo XVIII secolo
Fattore centrale Terra Capitale Capitale
Principale Profitto
Profitto (derivato dalla
remunerazione (derivato dalla compra
Rendita produzione di beni e
vendita di beni sui
servizi)
mercati mondiali)
Rapporti di Terra/Lavoro,
Capitale/Lavoro, Capitale/Lavoro,
riproduzione tra i il lavoro è in una
il lavoro è il lavoro è
fattori (terra, condizione semi-libera,
tendenzialmente libero tendenzialmente libero
capitale, lavoro) più raramente libera
Sistema di Industria a domicilio o
Artigianale Industrie
produzione manifatture
Apertura del Modello coloniale Espansione dei commerci
sistema Scarsa (commerciale o mondiali; economia
imperiale) dinamica

04 Cicli Economici
Il ciclo economico si presenta in una prima lettura come l’alternarsi di fasi di crescita a momenti di
recessione o contrazione del sistema; questo movimento a onde dell’economia è composto da due
momenti principali:

1. la Fase “A” del ciclo economico, detta di espansione del sistema;


2. la Fase “B” del ciclo economico, detta di caduta del sistema.
Ciascuna di queste due fasi è a sua volta suddivisa in altri due momenti: crescita e crisi per la Fase “A”;
caduta e ristagno per la Fase “B”.

Nella Fase “A” del ciclo economico, detta anche di espansione, il sistema registra una crescita della
produzione e della ricchezza di carattere quantitativo e/o qualitativo. Affinché pero si possa parlare di
sviluppo è necessario che la crescita (intesa come dato quantitativo) sia accompagnata da un incremento
del contributo fornito da ciascun fattore della produzione. È necessario cioè che vi sia un incremento di
produttività. Si ha maggiore produttività laddove a parità di condizioni (ad esempio la stessa estensione di
terreno) con la medesima quantità di un fattore (ad esempio il lavoro di un contadino) si riesce ad ottenere
una maggiore quantità di prodotto (ad esempio il raccolto annuale). In questo caso, infatti, il sistema
registra non soltanto un aumento quantitativo della produzione, ma anche un incremento (più o meno
variabile e significativo) della produttività marginale.

La Fase “A del ciclo si conclude con l’inizio della crisi economica: il sistema ha raggiunto la sua massima
capacità espansiva e interviene quindi un momento di sospensione o rottura della sua crescita sino ad
allora registrata.

La Fase “B” del ciclo si registra quando, con lo scoppio della crisi economica, il sistema registra prima una
caduta degli indici quantitativi ed entra poi nel ristagno produttivo, cioè quando non è più conveniente per
gli imprenditori avviare nuovi investimenti industriali.

Prime interpretazioni dei cicli economici:


 Clement Juglar, 1862, cicli economici brevi 5/10 anni basati sulle evoluzioni delle crisi commerciali e
dalle fluttuazioni finanziarie legate all'espansione del credito e del tasso di interesse;
 Joseph Kitchin, 1923, ipocicli 40 mesi;
 Nikolai Kondrat’ev, 1925, cicli lungo periodo 40/60 anni, determinati da un incremento della
quantità di oro e materie prime e da una crescita dei prezzi;
 Joseph Schumpeter, 1939, teoria organica dei cicli di lungo periodo.

05 I Cicli Economici del Capitalismo Industriale

Il «ciclo economico» può essere quindi definito come l’espressione nel tempo dell'alternanza di fasi di
fluttuazioni delle variazioni della crescita (o dello sviluppo) di un determinato sistema.

La «scoperta» da parte degli studiosi del concetto di ciclo coincide con la nascita e, soprattutto, con
l’espansione del capitalismo industriale nell’Europa della metà dell’Ottocento.
I cicli della prima rivoluzione industriale: 1780-1890
Primo ciclo economico : 1780 – 1850

 Fase “A” 1780 – 1815, binomio carbone/vapore ; monopolio britannico internazionale;


 Fase “B” 1815 – 1850, crisi prezzi del grano, guerre napoleoniche;

Secondo ciclo economico : 1850 – 1890

 Fase “A” 1850 – 1870, metalli della California, rivoluzione dei trasporti;
 Fase “B” 1870 – 1890, caduta prezzi beni primari, guerre di indipendenza in Europa;

Il ciclo della seconda rivoluzione industriale: 1890-1945


Fase “A” 1890 – 1915:

 Diffusione seconda rivoluzione industriale in Europa;


 Nuovo colonialismo europeo;
 Nuovi giacimenti in Africa e Nord America;
 Elettricità e petrolio;
 Industria pesante;
 Industria meccanica e militare;

Fase “B” 1915 – 1945

 Prima guerra mondiale e crisi degli scambi commerciali e finanziari;


 Crisi post-bellica;
 Difficoltà anni 20 ed iperinflazione tedesca;
 Crisi del ’29;

Il ciclo dell’età dell’oro: 1945-1989


Fase “A” 1945 – 1973:

 Età dell’oro del capitalismo mondiale;


 Ricostruzione sistema politico, economico e finanziario mondiale;
 Piano Marshall;
 Neo-Keynesismo (stato attore dello sviluppo economico);
 Comunità Europea;
 Miracolo economico in Italia, Germania, Giappone;

Fase “B” 1973 – 1989

 Guerra del Vietnam e crisi del sistema monetario di Bretton Woods (valore del dollaro agganciato
all’oro con valore fisso stabile);
 Crisi petrolifera;
 Stag-flazione (crisi di incapacità produttiva);
 Ristrutturazione industriale e crescita disoccupazione;
 Dal Neo-Keynesismo al Reaganomics (Privatizzazioni);
 Il crollo del Socialismo;

Il ciclo della terza rivoluzione industriale: 1989-


Fase “A” 1989 – 2007:

 innovazione delle Information Technologies;


 fine del sistema comunista con il crollo del muro di Berlino nel 1989;
 La Cina, l’India, la Russia e il Brasile diventano protagonisti della fase di sviluppo economico;
 Globalizzazione, basata sul progressivo abbattimento delle barriere doganali;
 Riorganizzazione e nuovo ruolo UE;

Fase “B” 2007 – tuttora

06 Teorie della crisi e teorie dello sviluppo


La costruzione di una concezione dinamica dell'economia e dei processi di sviluppo si afferma in particolare
con l'avvio dell'industrializzazione e con la cesura storica determinata dalla prima rivoluzione industriale.

La costruzione di una concezione dinamica dell'economia è basata, tra le altre cose, sullo stretto
collegamento tra le “f teorie dello sviluppo” e le “teorie della crisi” come parte dell'alternanza di fasi
cicliche di crescita e caduta del sistema economico e come categorie utili a spiegarne i movimenti di fondo.

Secondo l'approccio di Marx allo studio dei processi di sviluppo Il materialismo storico e la “dinamica
capitale/lavoro” sono alcuni degli elementi che consentono di indagare i meccanismi di funzionamento del
capitalismo industriale.
La costruzione del pensiero marginalista si basa su un approccio metodologico di tipo deduttivo-normativo,
ovvero sulla ricerca di quelle norme teoriche di funzionamento del sistema di carattere universale che
consentono di spiegare i meccanismi fattuali storicamente determinati.

Secondo il pensiero marginalista il sistema economico è dotato di un unico punto di equilibrio quale
espressione della piena efficienza del sistema e dei fattori della produzione.

Secondo la teoria keynesiana della domanda effettiva, non esiste un solo punto di equilibrio del mercato;
L'intervento temporaneo e congiunturale dello Stato può sostenere un maggiore utilizzo dei fattori
portando il sistema a un nuovo punto di equilibrio.

Secondo la teoria organica dei cicli economici elaborata da Schumpeter è l'innovazione tecnologica a
consentire la crescita quantitativa e qualitativa della produzione; L'innovazione può presentarsi attraverso
varie forme, come l'applicazione su scala industriale dell'invenzione scientifica o una modificazione delle
modalità di gestione della produzione.

07 Elementi dello sviluppo del Capitalismo Industriale: La Demografia


Contemporaneamente all'avvio della prima rivoluzione industriale si registra una rottura nel modello
demografico pre-industriale e si avvia il processo di «dualismo demografico».

08 Elementi dello sviluppo del Capitalismo Industriale: L‘Energia


L’energia è la principale risorsa dello sviluppo economico.

Il paradigma energetico può essere letto come il predominio di una certa fonte di energia in un dato
contesto spazio-temporale.

E’ un paradigma soggetto a fasi di evoluzioni e transizione anche in virtù delle esigenze del sistema è dei
mutamenti tecnologici.

Economia preindustriali:
 Energia umana o animale;
 L’uomo è cacciatore di energia;

Economia industriali:
 Processo di sfruttamento su vasta scala di fonti di energia per mezzo di convertitori inanimati;
 L’uomo è produttore di energia;

Fino al XVIII secolo: le civiltà del legno materia prima energetica e meccanica.

Inghilterra del 1600: trasformazione del calore in energia meccanica.

Progressiva introduzione del carbone come succedaneo del legno:


 Minori costi di trasporto;
 Maggiore potere energetico a parità di peso;
 Rompe la rigidità dell’offerta di legno;

Inizio del XVIII secolo: Innovazioni tecniche portano a un migliore sfruttamento del carbone.

Il paradigma del carbone : dal XIX secolo fino alla meta del ‘900.
Il ciclo virtuoso del carbone:
 Materia prima di energia e suo utilizzo nella produzione industriale;

Le innovazioni che ne sostengono l’espansione:


 Macchina a vapore per l’estrazione dell’acqua dalle miniere;
 Fusione del minerale di ferro;
 Macchina a vapore per uso meccanico;
 Uso mobile della macchina a vapore (ferrovie e battelli);

Il paradigma dell’elettricità:

Il paradigma del petrolio: Il carbone rimane paradigma energetico fino alla meta del ‘900 quando viene
progressivamente sostituito dal petrolio.

09 Elementi dello sviluppo del Capitalismo Industriale: Stato e Istituzioni


Stato minimale:
 Garanzia minima del “law and order”;
 Beni pubblici essenziali (moneta, poste, infrastrutture, etc.);

Economia mista:
 Interventi dello stato minimale;
 Beni pubblici e welfare (istruzione, sanità, etc.);
 Supplenza del privato (monopoli naturali, imprese pubbliche, etc.);
 Programmazione economica.

Stato massimale:
 Proprietà pubblica dei mezzi di produzione;
 Controllo della distribuzione funzionale al welfare;

Mercantilismo : politiche economiche degli stati nazione.

I classici e il “laissez faire”.

L’espansione della rivoluzione industriale e la diffusione di un pensiero “interventista”.

Secondo ottocento: divisione tra il modello europeo e quello Atlantico.

10 Elementi dello sviluppo del Capitalismo Industriale: La Tecnologia


Tecnologia: applicazione della conoscenza ai mezzi di produzione per incrementare la produttività del
sistema.

In ogni caso è possibile dire che: ogni fase di espansione economico è stata caratterizzata dall’ingresso di
nuove tecnologie e dall’adozione di uno o più paradigmi economici:
 Prima rivoluzione industriale abbiamo: macchina a vapore ed il binomio carbone/vapore;
 L’utilizzo mobile della macchina a vapore;
 Innovazioni della chimica, acciaio, motore a scoppio, aereonautica, etc.
11 Elementi dello sviluppo del Capitalismo Industriale: Sistemi Finanziari
Obiettivi delle prime banche di emissione: titoli del debito e moneta. Nel corso della seconda metà dell’800
avviene il passaggio tra la banca di emissione e la banca centrale.

Banche centrali moderne:


 Interventi macroeconomici (tassi di sconto, gestione riserve, interventi su titoli di stato, prestatore
di ultima istanza);
 Interventi microeconomici (Fino alle crisi di fine ‘800 crediti ed anticipazioni);

Sistemi Market Oriented: Modello di libero mercato di raccolta diffusa delle risorse sul mercato borsistico e
degli intermediari finanziari.

Sistemi Bank Oriented: Mercati della Borsa scarsamente sviluppato o solo complementare, le imprese
tendono a ricorrere al credito tramite operatori bancari pubblici o privati.
I fatti e le interpretazioni
01 La prima espansione europea
Le origini della crisi del modello feudale risiedono nei limiti stessi di quel sistema che non consente di
incrementare oltre una certa misura i livelli di produttività, in particolare della terra, a causa della scarsa
capacità di innovazione tecnologica.

Tuttavia, sotto un profilo di carattere sistemico, il vero punto di rottura con i precedenti modelli economici
si registra dal XV e XVI secolo, quando l’ingresso del vecchio continente nella cosiddetta età moderna è
caratterizzato da due elementi principali che mutano gli equilibri economici, politici, sociali e geografici
prima presenti:

1. l’ascesa degli Stati nazionali unitari moderni (attraverso, ad esempio il completamento o il


consolidamento dell’unificazione politica e territoriale di Paesi come Francia, Spagna, Portogallo,
Inghilterra, Paesi Bassi);
2. le nuove scoperte geografiche che permettono di avviare la prima fase di espansione coloniale
europea in tutto il mondo, modificando strutturalmente gli equilibri all’interno del continente,
favorendo l’ascesa di nuovi settori economici e commerciali, agevolando la diffusione di nuovi
modelli in particolare in quelle realtà maggiormente predisposte ad accettare le nuove sfide e,
soprattutto, sostenendo, indirettamente, l’espansione dei nascenti Stati nazionali

Lo spostamento del baricentro economico del vecchio continente dall’area del Mediterraneo (tipica del
periodo basso medioevale) all’Europa centro-occidentale (tipica dell’età compresa tra il XV e il XVII secolo)
non dipende da semplici ragioni geografiche. Il vantaggio competitivo di Francia, Inghilterra o Paesi Bassi
rispetto alle città italiane non deriva dall’essere i primi Paesi che si affacciano direttamente sull’Atlantico.
Tecnicamente, i veneziani erano perfettamente in grado di superare lo stretto di Gibilterra e di navigare in
mare aperto. Quello che consente, invece, il salto di qualità ai Paesi dell’Europa centro-settentrionale e che
determina il passaggio di consegne tra le due zone del continente sono le diverse capacità presenti nei vari
sistemi-Paese di sapere cogliere le opportunità presenti dal nuovo contesto. Lo Stato nazionale moderno,
per sua stessa costituzione è maggiormente in grado di sostenere lo sviluppo di un sistema commerciale
coloniale quale è quello che determinato dalle nuove scoperte geografiche della fine del 1400 e dell’inizio
del 1500.

Tabella: La prima espansione coloniale europea: principali protagonisti, periodizzazioni e aree di


espansione

Paese Secoli Aree


Spagna fine XV - fine XVIII Meso America; Nord America sud-occidentale; Florida; Sud
America; Guyana francese.
Portogallo Inizio XVI - inizio XIX secolo Brasile; coste del Golfo di Guinea; Angola; India occidentale;
Macao; isole dell'Atlantico.
Francia Inizio XVII secolo - Québec; Nord America (Grandi Laghi, Mississippi, Louisiana);
Congresso di Vienna Santo Domingo; Guyana; isole caribiche; India occidentale.
Olanda XVII - XX secolo Indonesia; Piccole Antille; New Amsterdam.
Inghilterra XVII - XVIII secolo Nord America; Nuova Scozia; Bahamas; Giamaica; Piccole
Antille.
Figura: La prima espansione coloniale europea

Nel corso del Settecento, le guerre interne ai Paesi europei determineranno il passaggio di molti territori
coloniali favorendo ulteriormente l’espansione inglese, soprattutto in Nord America. Allo stesso tempo, si
registra una profonda differenza tra i modelli di colonizzazione dei paesi iberici con quelli che saranno i veri
protagonisti dell’espansione mercantile del Seicento e Settecento come Francia, Olanda e Gran Bretagna.
Questa differenza tra un modello di controllo coloniale definito “imperiale” (Spagna e Portogallo) con uno
più di carattere “commerciale” (Olanda e Gran Bretagna) contribuirà a determinare profonde differenze tra
i modelli e le capacità di sviluppo economico dei diversi Paesi europei nei secoli successivi.

Il cosiddetto colonialismo imperiale è praticato da Spagna e Portogallo soprattutto nel corso del XVI
secolo5. Esso si basa su alcune caratteristiche peculiari:

1. l’occupazione militare del territorio da parte dell’esercito, che diventa così parte integrante della
“madre patria”;
2. l’imposizione sulle popolazioni e sui territori sottomessi della cultura, delle istituzioni e della
religione della “madre patria”;
3. uno sfruttamento estensivo delle risorse naturali presenti nella colonia a tutto e unico vantaggio
della “madre patria”;
4. l’utilizzo dello schiavismo e dello sfruttamento forzato della mano d’opera attraverso la
sottomissione delle popolazioni native;
5. la diffusione di metodi di conduzione della terra più legati al modello latifondistico;
6. la ricerca di metalli preziosi e materie prime che vengono inviati in madre patria senza creare forme
di organizzazione della produzione in loco;
7. il controllo dei commerci da parte dello Stato, direttamente o tramite monopoli e privative elargite
a Compagnie commerciali.
Lo sfruttamento delle risorse coloniali consentì alla Spagna di accumulare una importantissima quantità di
beni preziosi (oro e argento su tutti) che le permisero di rimanere per tutto il XVI secolo il Paese più ricco e
potente del vecchio continente. Tuttavia, sotto un profilo sistemico, l’errore compiuto dagli spagnoli fu
quello di non utilizzare le risorse importate in madre patria per incentivare investimenti produttivi, ma per
incrementare i consumi interni attraverso anche l’acquisto di prodotti importati. In questo modo, di fatto,
non solo la Spagna determinò un trasferimento di ricchezze dal proprio interno ai Paesi produttori dei beni
importati, ma, soprattutto, perse l’occasione di sostenere la nascita di una moderna manifattura interna in
grado di sviluppare processi innovativi. Esattamente il contrario di quanto fece, un secolo dopo la Gran
Bretagna.

Il modello coloniale commerciale anglo-olandese si basa dunque:

1. su un sistema maggiormente diretto a favorire gli scambi commerciali e meno all’occupazione


territoriale, favorendo lo sviluppo anche di un’economia interna della colonia (tipico il caso dei
possedimenti inglesi in Nord America);
2. su un utilizzo delle risorse importate in madre patria per favorire investimenti produttivi e non solo
l’incremento dei consumi interni;
3. sulla costruzione di un “ciclo integrato” tra colonia e madre patria.

Questo modello garantì non solo l’ascesa della forza commerciale ed economica di Olanda e Gran Bretagna,
ma anche il superamento nella capacità di ripresa e innovazione nei confronti di Paesi virtualmente più
ricchi come la Spagna. Gli alti investimenti finanziari nello sviluppo del colonialismo commerciale
consentirono da un lato la crescita delle prime manifatture (pubbliche e private), destinate a sfruttare nel
ciclo integrale le risorse estere; dall’altro, favorirono il passaggio verso il modello del cosiddetto capitalismo
mercantile, nel quale cioè il fattore capitale diviene l’elemento centrale per la riproduzione del sistema.

02 Mercantilismo
Le politiche economiche del mercantilismo, sistema rimasto in vigore sostanzialmente sino all’avvio della
prima Rivoluzione Industriale alla fine del Settecento, sono strettamente collegate al contesto politico e
all’ideologia dell’epoca. Se la condizione normale dei rapporti internazionali è quella della rivalità e dello
scontro per l’egemonia (continentale o commerciale), allo stesso modo lo sviluppo dei commerci deve
essere basato non sulla concorrenza competitiva ma sull’acquisizione, anche militare, dei mercati e delle
materie prime. Lo Stato, o meglio il Sovrano assoluto, utilizza il monopolio della forza militare (sono questi i
secoli nei quali si formano gli eserciti statali) per contrastare l’espansione delle nazioni rivali.

Si accompagna a questa visione, una logica della ricchezza ancora di carattere preindustriale, legata a due
aspetti principali:

1. il profitto non deriva dalla produzione di merci, come nel moderno capitalismo industriale, ma dai
ricavi ottenuti dalla compravendita di beni sui mercati mondiali;
2. presente una visione quantitativamente statica del benessere per la quale – quasi fossimo in una
sorta di vasi comunicanti – alla crescita della ricchezza da parte di uno Stato corrisponde
necessariamente un calo di prosperità del proprio rivale.

La rivalità internazionale e lo scontro armato tra grandi potenze per il controllo delle rotte mondiali
diventano un fattore propedeutico (e quasi inevitabile) per incrementare la prosperità dello Stato. La lotta
per l’egemonia mondiale tra il XV e il XVIII secolo fu giocata, infatti, da ciascuna nazione attraverso
l’applicazione di quel determinato modello coloniale che ognuno di essi riteneva più funzionale alla propria
crescita economica e attraverso lo scontro tra le grandi flotte navali.

Allo stesso tempo, il passaggio di consegne nell’egemonia mondiale tra la Spagna di Filippo II e l’Inghilterra
della Regina Elisabetta, si affermò e consolidò con la sconfitta subita dalla prima nella guerra anglo-
spagnola del 1585-1604; sconfitta sancita dalla disfatta della flotta iberica (la “Invincibile Armata”) nel
Canale della Manica. Da quel momento la marina inglese avrebbe sostanzialmente ottenuto il controllo
delle rotte internazionali per i successivi tre secoli.

In conclusione, è possibile affermare che, in un’ottica di lungo periodo, il capitalismo mercantile consentì di
segnare un cambio di passo importantissimo rispetto alla società feudale e ai sistemi economici precedenti.
Sotto un profilo politico esso contribuì a consolidare l’affermazione dei grandi Stati nazionali europei e a
segnare un profondo mutamento non solo negli equilibri continentali ma anche nelle relazioni mondiali.

Sotto un profilo più propriamente economico, l’inedita centralità del fattore capitale permise di sbloccare
un sistema a lungo arenato su vecchie modalità di funzionamento e permise di fare crescere un nuovo ceto
mercantile e imprenditoriale destinato a segnare, nel lungo periodo la storia d’Europa.

03 La prima Rivoluzione Industriale: le precondizioni


Alla luce dunque della sua centralità economica mondiale e delle modificazioni intervenute nel modello
commerciale tra la fine del Seicento e la metà del Settecento, l’Inghilterra conosce nella seconda metà XVIII
secolo una progressiva trasformazione del suo sistema produttivo. Il passaggio dall’industria a domicilio al
modello manifatturiero è causa e al tempo stesso effetto della progressiva affermazione del nuovo modello
di carattere proto-industriale.

Il carbone fu la materia prima per eccellenza della Rivoluzione Industriale, questo era presente sia in
Inghilterra che in molte zone della Germania, del Belgio o della Francia. Tuttavia, solo in Inghilterra erano
presenti quelle altre precondizioni che, sommate alla presenza del carbone, permisero al Paese di avviare
per primo lo sviluppo del capitalismo industriale: un contesto politico, sociale ed economico in grado di
recepire e sostenere le innovazioni apportate dal nuovo processo di industrializzazione.

E’ possibile riassumere sei principali tipologie di precondizioni che, tutte insieme, permisero l’avvio
dell’industrializzazione:
1. Commercio Internazionale: il controllo dei commerci internazionali garantiti dall’espansione inglese
dei secoli precedenti che aveva consentito da un lato, un importante accumulazione di capitali da
reinvestire nell’industria, e dall’altro, l’afflusso di materie prime a basso costo;
2. Rivoluzione Agraria: la rivoluzione agraria, cominciata nel Cinquecento, che permise uno sviluppo
intensivo delle terre e garantì alti profitti da reinvestire in attività imprenditoriali, finanziarie o
commerciali;
3. Commercio Interno: lo sviluppo dei commerci interni, dovuto all’incremento della popolazione e
delle vie di comunicazione;
4. Sviluppo del sistema bancario: lo sviluppo di un moderno sistema bancario basato sull’aumento
della circolazione cartacea, sulla crescita di Londra quale piazza finanziaria mondiale, sul ruolo della
Banca d’Inghilterra e su una piccola e media banca di credito all’industria diffusa sul territorio;
5. Sistema politico e istituzionale: un sistema politico che già dalla fine del Seicento, al termine della
“gloriosa rivoluzione inglese”, si era avviato sul sentiero di un progressiva parlamentarizzazione
della monarchia, assegnando maggiori poteri ai rappresentanti del ceto imprenditoriale presenti
nella Camera dei Comuni;
6. Energia e tecnologia: la presenza di materie prime, soprattutto energetiche (ad esempio il carbone),
a basso costo su tutto il territorio.

04 La prima Rivoluzione Industriale: caratteristiche e processi


La “rivoluzione” risiede, invece, negli effetti della trasformazione. A partire dai primi decenni
dell’Ottocento, infatti, la piena affermazione del modello industriale determina un cambiamento
assolutamente radicale e repentino negli stili, nelle condizioni e nelle aspettative di vita degli uomini e delle
donne. Cambiano, nel volgere di pochi anni, la stessa concezione dello spazio e del tempo e del ruolo
dell’individuo nell’universo. Un passaggio senza ritorno sia per la rapidità dei mutamenti che per la velocità
della loro estensione su scala globale.

A partire dall’insieme delle precondizioni sopraricordate e dai vantaggi forniti dal passaggio al sistema
manifatturiero, la prima Rivoluzione Industriale inglese fu trainata inizialmente dallo sviluppo di due settori
strategici:
1. il settore tessile, e in particolare attraverso la lavorazione del cotone importato dalle colonie;
2. il settore siderurgico, tramite lo sfruttamento dei giacimenti di ferro e carbone presente sull’isola.

Alla base della capacità di sfruttamento di questi settori vi erano alcuni elementi comuni di base, primo fra
tutti l’utilizzo del cosiddetto “circolo virtuoso del carbone”.

Il circolo virtuoso del carbone consisteva nello sfruttamento di questa materia prima (facilmente rinvenibile
sull’isola e quindi a basso costo) sia come strumento di produzione energetica, per fare funzionare la
macchina a vapore, sia come strumento di lavorazione per essere utilizzato insieme al ferro nell’industria
siderurgica e riuscire così a produrre qualità sempre più raffinate di acciaio.

Il circolo virtuoso del carbone si accompagna all’altro elemento caratteristico della prima Rivoluzione
inglese, ovvero il “binomio carbone-vapore”. Fu infatti l’utilizzo congiunto di questi due elementi a
permettere quel salto di qualità sotto il profilo energetico che permisero una rottura con i modelli di
produzione del passato.

La macchina a vapore divenne dunque lo strumento chiave della Rivoluzione Industriale, rimanendo il
principio di funzionamento valido sostanzialmente per tutto l’Ottocento pure in presenza di ovvi mutamenti
e miglioramenti qualitativi sotto il profilo tecnologico.

La crescita del settore tessile fu concentrata soprattutto sul comparto del cotone che in pochi anni superò
la più antica e tradizionale industria della lana. Questo per diverse ragioni:
1. si trattava di un settore nuovo e come tale più facilmente recettivo alle innovazioni e meno legato
ai vincoli tradizionali e corporativi;
2. il cotone si prestava più facilmente della lana alla manipolazione meccanica, agevolando una serie
di innovazioni a grappolo, del tipo botta-e-risposta, nei campi della filatura e della tessitura;
3. si trattava di una materia prima di importazione coloniale, a basso costo e in grande quantità,
quindi più adatta a una produzione industriale di massa;
4. incontrava il favore dei consumatori sia nel mercato interno che internazionale.

Se il settore del cotone trainò sin dagli ultimi tre decenni del Settecento lo sviluppo industriale britannico, a
cavallo tra la fine del secolo e i primi anni dell’Ottocento cominciò ad affermarsi di pari passo la crescita del
comparto siderurgico. Giovandosi del binomio carbone-vapore e del circolo virtuoso del carbone, il suo
sviluppo fu possibile grazie a una serie di innovazioni empiriche tese a migliorare i tempi di produzione e la
qualità del prodotto.

Inoltre, se è vero che dal 1814 l’Inghilterra divenne la prima esportatrice di manufatti di ferro nel mondo, è
altrettanto vero che lo sviluppo del settore si giovò della crescita costante della domanda interna. Si pensi,
ad esempio, al ruolo giocato dalla realizzazione del sistema ferroviario britannico che sin dalla prima metà
dell’Ottocento poteva dirsi, quanto meno per rapporto tra chilometraggio ed estensione territoriale del
Paese, tra i più sviluppati d’Europa.

05 Teorie e modelli di diffusione della rivoluzione industriale sul continente


A partire dai primi decenni del XIX secolo, il processo di industrializzazione avviatosi alcuni anni prima
nell’Inghilterra centro meridionale cominciò progressivamente ad allargarsi in ampie zone dell’Europea
centro settentrionale.

Il successo del percorso di diffusione del modello industriale sul continente può essere definito:
 rapido;
 intenso;
 diversificato.

Il concetto di modernizzazione si sposa così a quello di industrializzazione anche in virtù di altri due fattori
che caratterizzano la diffusione del capitalismo e segnano una netta discontinuità rispetto al passato:
1. la velocità del processo, ovvero la rapidità con cui una volta intrapresa la strada
dell’industrializzazione è possibile ottenere i risultati sperati inserendosi in un favorevole contesto
internazionale;
2. l’irreversibilità, ovvero il fatto che una volta avviata la fase di industrializzazione si segna una
rottura con i precedenti modelli sociali e con le società contadina da cui è sostanzialmente
impossibile tornare indietro, a meno di fenomeni rivoluzionari.

A partire dunque da questo insieme di elementi, gli storici economici hanno tentato di fornire diverse
interpretazioni delle modalità con cui il processo di industrializzazione si diffuse in Europa per capire quanto
i diversi Paesi assunsero pedissequamente il modello inglese e quanto invece se ne discostarono per
trovare una propria strada autonoma. Seguendo sempre l’impostazione data da Vera Zamagni, è possibile
suddividere i diversi studi prodotti in tre macro aree principali, oggetto di approfondimento nelle prossime
pagine:
1. gli studiosi che hanno letto nell’industrializzazione dell’Europa un processo imitativo della Gran
Bretagna, senza differenze significative rispetto al modello inglese (Teorie dell’imitazione senza
differenze);
2. coloro i quali hanno invece intravisto un processo imitativo della Gran Bretagna, segnalando
tuttavia alcune sostanziali differenze (Teorie dell’imitazione con differenze);
3. infine, gli storici che hanno sottolineato come questo processo di diffusione abbia assunto una
valenza top-down, ovvero sia stato favorito “dall’alto” e in particolare dal ruolo e dai cambiamenti
delle istituzioni (Le teorie delle istituzioni).

06 La seconda Rivoluzione Industriale


La “seconda Rivoluzione Industriale” inizia, dalla seconda metà del XIX secolo ed è basata su paradigmi
energetici, tecnologie, modelli di diffusione, strategie nazionali e localizzazioni geografiche molto differenti
rispetto al passato. Il processo di industrializzazione è diventato patrimonio comune dei principali Paesi del
continente europeo e del nord America. Se la Gran Bretagna rimane ancora almeno fino alla prima guerra
mondiale il principale protagonista degli scenari economici internazionali, contemporaneamente si afferma
il graduale ma sostenuto processo di aggancio dei Paesi concorrenti3. Germania, Italia, Francia, Stati Uniti
sono i principali concorrenti che realizzano, con fortune e risultati anche molto differenti, un processo di
rincorsa al Paese leader.

Da questa fase storica che il capitalismo industriale non solo cambierà definitivamente volto, ma assumerà
cambiamenti talmente repentini da risultare non solo irreversibili, ma anche strutturali e di lungo periodo.
Mutamenti che interesseranno:

1. il modo di produrre (l’aumento dell’intensità tecnologica e delle scoperte scientifiche necessarie


alla produzione modifica il rapporto tra scienza e industria e tra i fattori della produzione);
2. i diversi aspetti del funzionamento del sistema economico (si modifica progressivamente,
soprattutto nei second comers, il ruolo dello Stato, del sistema finanziario, si accresce la mobilità
mondiale dei capitali, ecc.);
3. i rapporti di forza tra i Paesi (viene messa in discussione la supremazia britannica);
4. gli equilibri internazionali (il colonialismo e la corsa agli armamenti, due elementi fortemente
sostenuti dall’industrializzazione e dall’industria bellica, rappresentano sotto alcuni punti di vista
anche il tentativo di ridefinire le relazioni da decenni consolidate sul continente europeo, allora
considerato il centro del mondo).

La fase di espansione del nuovo ciclo si registra dunque a partire dalla fine dell’Ottocento ed è basata su
una pluralità di fattori come:
1. la scoperta di nuovi giacimenti di materie prime e di oro in Alaska e in Transvaal;
2. la nascita del gold standard come strumento di regolamentazione degli scambi monetari mondiali;
3. l’apertura internazionale dei commerci;
4. lo sviluppo dell’industria pesante;
5. lo sviluppo della meccanica e della motoristica;
6. l’ascesa dell’industria chimica;
7. l’utilizzo dell’elettricità e del petrolio non soltanto come possibili settori di investimento ma anche,
nel medio-periodo, quali possibili paradigmi energetici che nel volgere di alcuni decenni andranno a
sostituire l’impiego del carbone come materia prima di riferimento;
8. la nuova espansione coloniale europea in Africa.

Centrale, in questi anni, è il nuovo rapporto tra scienza e sviluppo economico basato su alti investimenti in
tecnologia e ricerca scientifica, funzionali alla crescita di settori come chimica, meccanica ed elettricità.
Anche in virtù della successiva entrata in guerra dei principali Paesi europei, delle conseguenze della guerra
stessa e, soprattutto, degli effetti della crisi del ’29, comincerà a mutare progressivamente e sempre più
intensamente il ruolo dello Stato e la sua capacità di intervento nell’economia.

07 La sfida dei Second Comers: Francia, Belgio e Germania


Nel corso del “lungo Ottocento” la Gran Bretagna, grazie al vantaggio competitivo accumulato prima
nell’epoca del capitalismo mercantile e poi durante la prima Rivoluzione Industriale, assunse pienamente il
ruolo di leader (First Comer)del mondo sotto il profilo politico, economico e militare.

Nel lungo periodo – come si avrà modo di vedere nelle lezioni successive – il mantenimento della
leadership oltre a produrre evidenti vantaggi politici ed economici determina anche un costo
estremamente alto: si pensi alla necessità di mantenere una marina militare in perfetta efficienza e che sia
sempre la prima nel mondo o ancora al costo di mantenere il corso della Sterlina, moneta degli scambi
internazionali fino al secondo dopoguerra, in un regime di gold standard.

I Second Comers:

 Il Belgio presentava molte similitudini con il caso inglese sia per la dotazione di risorse e materie
prime, sia per la tradizione marittima (si pensi all’importanza del porto di Anversa per tutta l’età
moderna), sia per un retroterra commerciale e proto-industriale (soprattutto nelle Fiandre).
Malgrado politicamente il Paese fu oggetto durante i secoli di diversi “passaggi” e sconvolgimenti
(tra gli Asburgo, i Paesi Bassi, Il Regno di Francia) e ottenne l’indipendenza solo nel 1830, esso riuscì
comunque a mantenere un proprio profilo di carattere manifatturiero o proto-industriale, segno
questo della validità delle tesi già ricordate di Pollard circa la regionalizzazione dei processi di
sviluppo economico.
Tra la fine del Settecento e i primi anni del XIX secolo furono particolarmente importante le
industrie della lana e del cotone (in particolare nella zona di Gand). Seguì l’ascesa di industrie
vetrarie, dello zucchero e, con l’affermazione del processo di industrializzazione della metà
dell’Ottocento, cominciarono ad affermarsi la chimica (con la Solvay, nata nel 1862) e della
siderurgia per costruire la rete ferroviaria e sostenere il settore della cantieristica. Particolarmente
decisivo, oltre al ruolo delle miniere di carbone fu quello delle banche di affari che nacquero sin dai
primi decenni del XIX secolo, parallelamente di fatto, alla Banca del Belgio che assunse quasi subito
una funzione per alcuni aspetti paragonabile alle moderne banche centrali.

 Nella Francia della fine del Settecento erano, infatti, presenti molte delle precondizioni che
avevano consentito all’Inghilterra di avviare la propria Rivoluzione Industriale: una crescita
sostenuta della popolazione, un agricoltura produttiva e intensiva, alcune manifatture (in parte
pubbliche in parte private) un regime coloniale (per quanto ridotto rispetto ai suoi concorrenti).
La domanda, quindi, è perché non fu la Francia la prima ad avviare il processo di industrializzazione.
La risposta, per quanto complessa e articolata essa sia, può essere rinvenuta (molto semplificando)
in quelli che furono i possibili elementi di freno: una minore diffusione di una cultura scientifica
utile a sostenere i processi innovativi nell’industria, una maggiore polarizzazione della ricchezza,
solo parzialmente intaccata dalla rivoluzione del 1789, il controllo dello Stato saldamente nelle
mani della nobiltà e della monarchia, le crisi interne seguite all’instabilità post ’89, gli effetti delle
campagne napoleoniche che, se da un lato permisero un allargamento degli scambi sul continente,
di fatto segnarono una separazione con le aree allora più innovative come la Gran Bretagna,
ritardando la capacità di diffusione delle informazioni e dei metodi di produzione.
Il Congresso di Vienna e la Restaurazione del 1815 segnarono poi non solo la fine dell’egemonia
continentale, ma un parziale ritorno dell’ancien regime. Questo determinò un rallentamento delle
potenzialità di espansione mondiale del Paese, inaugurando, oltretutto, un periodo di grandi
disordini interni culminati con i moti rivoluzionari del 1848 e la Comune di Parigi.
È quindi sostanzialmente a partire dalla metà del secolo, con l’età di Napoleone III che si avvia il
processo di industrializzazione vero e proprio. Quei prodromi già presenti a cavallo dei due secoli,
caratterizzati dai settori della seta, del cotone e delle prime manifatture, che non erano riusciti a
esprimersi pienamente per le ragioni sopra esposte, trovano nel ventennio di stabilità avviato
prima con la II Repubblica e poi con l’Impero di Napoleone III la possibilità di esprimersi
pienamente in quel contesto di mutamento del capitalismo internazionale sopra ricordato.
Un ruolo decisivo viene assunto dalla nascita dei grandi istituti mobiliari, come il Crédit Mobilier,
che si occupano di collocare sul mercato i titoli e le azioni funzionali a raccogliere i capitali necessari
per gli investimenti infrastrutturali, innanzitutto quelli ferroviari, trainando così lo sviluppo
dell’industria siderurgica, meccanica ed elettrica.
Un percorso che trovò alla fine delXIX secolo un’ulteriore accelerazione con lo sviluppo della Belle
Époque, caratterizzata dalla nascita, anche in Francia, della grande impresa attiva nei settori
meccanici, motoristici, siderurgici e, soprattutto, elettrico (non a caso Parigi veniva e viene ancora
chiamata oggi la ville lumiére).
In questo modo, come si può notare dalla figura 1 sopra esposta, anche la Francia riuscì nel periodo
1870-1913 a superare i tassi medi annuali di crescita della Gran Bretagna.

 Lo sviluppo economico in Germania è la storia di un “successo non annunciato”. Paese


relativamente giovane, unificato solamente nel 1870 a seguito della politiche di espansione dello
Stato Prussiano, aveva conosciuto secoli di divisioni per tutto il medioevo e l’età contemporanea in
decine e per alcuni periodi in centinaia di piccoli regni o stati.
La crescita economica del Paese, arrivato a contendere all’inizio del Novecento, direttamente e più
di altri second comers, il primato britannico, ha coinciso da un lato con la diffusione del modello di
industrializzazione sul continente alla metà del secolo e dall’altro con il processo di unificazione
nazionale e di affermazione di un inedito ruolo paritetico con le altre potenze in Europa.
Nel 1815, dopo il Congresso di Vienna, quello che diventerà il secondo Reich era suddiviso in 39
stati tra loro indipendenti; un puzzle di territori ricchi di risorse ma ancora poco capaci di
comunicare tra loro e di costruire sinergie comuni. Tra il 1818 e il 1833, grazie all’impulso della
Prussia, il Paese più importante sotto il profilo economico e, soprattutto, dotato di un esercito
formidabile, si avviò la costituzione di un’unione doganale, lo Zollverein, in grado di rappresentare il
primo passo verso una maggiore collaborazione e unificazione dei popoli tedeschi.
Fu grazie anche alle difficoltà presenti nel resto d’Europa, attanagliata dall’epoca delle “rivoluzioni”
(i moti degli anni Venti, Trenta e del Quarantotto) che la Prussia riuscì a costruirsi uno spazio di
autonomia e di avviare un progressivo processo di unificazione con gli altri stati appartenenti
all’unione doganale. Un processo che si concluse, inevitabilmente, con una guerra aperta con la
Francia, preoccupata della possibile ascesa di un nuovo competitor in grado di mettere in
discussione la propria egemonia in Europa.
La Battaglia di Sedan (1° settembre 1870) segnò la vittoria del nuovo Reich tedesco e la sconfitta
della Francia di Napoleone III, costretto, poco dopo, ad abdicare e a dare vita a quella che sarà
chiamata come la III Repubblica francese.
Non solo, la sconfitta francese permise alla Germania di acquisire il controllo di importanti territori,
come l’Alsazia e la Lorena, al confine tra i due Paesi e da lì in avanti sempre oggetto di contesa,
ricchi di giacimenti minerari e di materie prime.
Lo sviluppo industriale della Germania si avviò in maniera sostenuta a partire dall’ultimo trentennio
dell’Ottocento, intercettando quelle che abbiamo visto essere le caratteristiche principali della
seconda Rivoluzione Industriale e che vedevano nella struttura tedesca le migliori precondizioni per
potersi esprimere compiutamente.
In questo contesto, dunque, la crescita tedesca tra il 1870 e il 1913 fu favorita da:
1) lo sviluppo di settori ad alta intensità tecnologica e ad alta intensità di capitale come il
siderurgico, la chimica, il meccanico;
2) il ruolo della banca mista (in grado cioè di raccogliere anche il piccolo risparmio e di
indirizzarlo in impieghi produttivi) per allocare i capitali necessari agli investimenti
industriali;
3) a differenza del caso britannico, da un forte ruolo dello Stato, sia attraverso le politiche
protezionistiche, sia per sostenere lo sviluppo di alcuni settori industriali tramite la
domanda pubblica (si pensi all’industria militare);
4) a differenza della prima rivoluzione inglese, basata principalmente sull’industria
cotoniera, lo sviluppo tedesco, basandosi immediatamente sulla crescita dei grandi settori
siderurgici, meccanici e chimici, richiede la strutturazione di grandi industrie che si
occupano di tutte le fasi del processo produttivo, a monte e a valle, formando spesso
accordi di cartello con i propri concorrenti.

Per questo insieme di ragioni la Germania riuscì a sfruttare pienamente tutte le sue potenzialità
superando, agli albori della prima guerra mondiale, i tassi di crescita inglesi.

08 La formazione degli Stati Uniti d’America


A causa della politica di occupazione inglese, basata sulla volontà di mantenere in madre patria il
monopolio industriale impedendo lo sviluppo autonomo delle colonie. I primi scontri scoppiarono nel 1774,
tuttavia, dopo la riunione del Congresso continentale di Philadelphia del 1775 che richiese maggiore
autonomia economica per le colonie, ovviamente rifiutata dalla corona britannica, gli scontri militari
presero effettivamente corpo. La sigla della Dichiarazione d’Indipendenza del 4 Luglio 1776, nella quale si
riconobbero i rappresentanti delle tredici colonie ribelli alla madre patria britannica, è l’atto fondativo degli
Stati Uniti d’America.

La fine della guerra di indipendenza americana si accompagna a un lungo periodo di espansione territoriale
che prosegue per tutto il primo Ottocento, incrociando il secondo ciclo della prima Rivoluzione Industriale
(1850-1890), e in particolare la cosiddetta “rivoluzione dei trasporti” che, con “l’uso mobile della macchina
a vapore” porterà alla nascita delle ferrovie e dei battelli a vapore, stravolgendo i concetti di tempo e di
spazio, e portando da un lato allo sviluppo interno del sistema ferroviario americano e dall’altro alla
crescita delle esportazioni del grano americano in Europa grazie all’abbattimento dei costi di trasporto
garantiti dai battelli a vapore.
Sarà tuttavia durante la seconda Rivoluzione Industriale, tra il 1890 e il 1945, che il Paese conoscerà il
vero e proprio decollo economico, superando il livello di crescita degli altri Paesi industrializzati.

La forza della crescita americana della metà tra il Settecento e l’Ottocento risiede da un lato certamente
nelle sue condizioni naturali, ovvero l’essere un territorio vastissimo, ricco di materie prime,
particolarmente fertile, sostanzialmente inesplorato e privo di un regime sociale preesistente con cui
doversi confrontare per potere ad esempio acquisire un terreno o un filone di una miniera.

La forza dello sviluppo americano risiede nell’aver mantenuto - anche nei decenni e nei secoli successivi - lo
spirito dei padri fondatori. Già nella guerra d’indipendenza e nella Dichiarazione di Philadelphia del 1776,
sono presenti, infatti, cinque elementi peculiari della società americana:
1. democrazia;
2. liberismo;
3. responsabilità sociale;
4. partecipazione;
5. opportunità.

Acquisita l’indipendenza, lo sviluppo del Paese nel primo sessantennio dell’Ottocento, vale a dire fino allo
scoppio della guerra civile, fu possibile soprattutto grazie a una serie di fattori:
1. Una crescita demografica senza precedenti, grazie alla quale la popolazione passò da 4 a 31 milioni
di abitanti;
2. La crescita della domanda interna e l’espansione a ovest;
3. la conquista del west (e la parallela espansione dalla costa californiana verso est) portano alla
nascita di nuovi stati che vengono progressivamente uniti alla federazione americana e porta allo
sviluppo del settore ferroviario;
I miti fondativi americani (il mito della frontiera, il mito della ferrovia, dell’opportunità, del self made man)
nascono dunque in questo contesto e sono destinati a rimanere nella cultura e nell’immaginario collettivo
americano per i secoli successivi, segnando così nettamente una profonda differenza culturale con il
capitalismo e il sistema di vita di stampo europeo.

In un Paese che cresce vorticosamente nel volgere di pochi anni, la guerra civile americana può essere
intrepretata non solo come l’importantissima lotta per la liberazione degli schiavi neri dal giogo dei
proprietari terrieri del sud, ma anche come il momento apicale della fase di sviluppo economico del primo
sessantennio del XIX secolo. Un momento nel quale entrarono in gioco le contraddizioni e i contrasti di
diversi fattori che rischiavano di rimettere in discussione le potenzialità di crescita del Paese.

Gli Stati Uniti, infatti, erano all’epoca caratterizzati (molto schematicamente) dalla compresenza di quattro
principali modelli economici:

1. un nord-est fortemente industrializzato, nel quale si segnalava la presenza di città dall’origine e


dallo stile di vita marcatamente europeo e certamente vicino al processo di diffusione del
capitalismo industriale allora in atto;
2. un Mid-West caratterizzata da grandi campi di cereali a da una parziale industrializzazione
dell’agricoltura;
3. un ovest dove si segnalava la presenza soprattutto di piccoli agricoltori autonomi e di grandi
allevatori;
4. un sud segnato da coltivazioni specializzate (ad esempio il cotone) ma basato su un modello
prettamente schiavistico di carattere preindustriale.

Dopo la fine della guerra civile (1861-1865) e la vittoria del modello liberale-capitalistico del nord, gli Stati
Uniti avvieranno la propria fase di sviluppo che li porterà al centro del sistema e a superare dopo la prima
guerra mondiale la stessa Gran Bretagna, per diversi secoli leader del mondo.
09 Lo sviluppo economico americano dalla guerra civile al primo conflitto mondiale

A partire dunque dall’insieme di considerazioni sopra esposte, è possibile affermare che il take off (decollo
industriale ed economico) americano è stato possibile dalla seconda metà dell’Ottocento a causa di una
pluralità di fattori e condizioni di carattere interno e internazionale, di tipo economico, politico e sociale,
che consentono al Paese di sfruttare pienamente l’avvio del ciclo della seconda Rivoluzione Industriale.

Tra i tanti, è possibile in particolare individuarne cinque:


1. Una società aperta;
2. L’estensione e l’accesso alla terra da parte dei contadini;
3. Crescita del mercato interno;
4. Risorse (tra cui il petrolio);
5. Società dei consumi di massa.

Lo sviluppo economico americano prosegue ininterrottamente dalla fine della guerra civile americana
(1865) sino alla crisi del 1929, superando anche quella che viene chiamata in Europa come la “depressione”
degli anni Settanta dell’Ottocento (la fase B del ciclo economico iniziato nel 1850).

Le precondizioni sopra esposte si tradussero nella fondazione e nello sviluppo di una pluralità di settori
industriali che trainarono la crescita del PIL.

Tra questi è bene ricordare:

1. il settore meccanico, applicato sia su scala industriale che all’agricoltura;


2. il settore siderurgico;
3. l’industria chimica;
4. l’industria energetica, soprattutto grazie alla scoperta di grandi giacimenti petroliferi che, come si è
visto, assunsero una funzione fondamentale dopo la prima guerra mondiale;
5. lo sviluppo di un’agricoltura di tipo capitalistico;
6. una produzione di massa che segue la crescita della popolazione e della domanda interna;
7. la nascita del modello della grande impresa, per venire incontro alla necessità di coprire un
mercato estremamente vasto abbattendo i costi di produzione e producendo economie di scala;
8. la nascita dell’organizzazione scientifica del lavoro (taylorismo) applicata per esempio all’industria
Ford per incrementare la produttività e, di conseguenza, i profitti e i salari;
9. un modello di finanziamento delle imprese di tipo market oriented, legato quindi alla capacità di
convincere gli investitori tramite i risultati dell’impresa che si traducono nei dividendi distribuiti a
fine esercizio;
10. una legislazione antitrust che mira a bloccare da subito gli accordi di cartello tra grandi imprese e a
garantire la libera concorrenza sul mercato e i diritti dei consumatori.

10 La rivoluzione industriale in Italia: dalla periferia al centro del sistema economico


Lo sviluppo economico italiano di lungo periodo, tra il momento dell’Unificazione (1861) fino ai giorni
nostri, rappresenta sotto molti punti di vista la storia di uno straordinario e assolutamente peculiare
successo.

Se è vero, infatti, che il processo di industrializzazione e di aggancio al centro del sistema economico non è
riuscito a comporre alcune criticità storiche, come ad esempio il divario nord-sud, allo stesso tempo appare
innegabile lo straordinario percorso di un Paese sostanzialmente povero al momento dell’Unificazione, che
conosce una prima fase di take off durante la seconda Rivoluzione Industriale e l’età Giolittiana e che, pur
uscendo da vent’anni di dittatura autoritaria fascista e avendo perso la seconda guerra mondiale, nel
volgere di due decenni, tra il 1950 e il 1970 diventa non solo un Paese pienamente industriale, ma anche
una delle principali potenze economiche e manifatturiere del pianeta.

Volendo dunque adottare in uno sguardo di lungo periodo una lettura delle principali caratteristiche dello
sviluppo economico italiano degli ultimi centocinquant’anni è possibili dire che si è trattato:

1. della storia di un successo economico e sociale, della trasformazione di un paese povero in un


Paese ricco, con un innalzamento complessivo (malgrado le differenze sociali e territoriali pure
presenti) dei livelli di vita delle popolazioni;
2. di un percorso che ha prodotto risultati non scontati; altri Paesi, con strutture sociali analoghe alle
nostre, non sono riusciti a compiere lo stesso salto di qualità anche in virtù delle scelte che le classi
dirigenti, intese nella loro accezione più ampia, compiranno nel secondo dopoguerra;
3. di un percorso non lineare, ma segnato da momenti di accelerazione e di compressione; ad
esempio, dopo l’età giolittiana, il ventennio fascista determina un allontanamento complessivo dal
centro del sistema economico, mentre nel secondo dopoguerra si compirà definitivamente, con la
nascita della Repubblica democratica, l’aggancio al centro del sistema;
4. di un percorso che, almeno fino agli anni Novanta del Novecento, cioè quando si è avviata la nuova
rivoluzione delle Information Technologies e della globalizzazione, ha sempre aderito agli
andamenti dei cicli mondiali dell’economia;
5. un percorso che è riuscito a trovare maggiori spinte propulsive quando è stato inserito all’interno di
un contesto internazionale di riferimento (il secondo dopoguerra, o l’età giolittiana) e non quando
se n’è allontanato (l’epoca fascista).

Sostanzialmente, il lungo Ottocento italiano, può essere riassunto, dagli anni successivi all’Unificazione
nazionale, in tre fasi principali:

1. 1861-76, il periodo della destra storica: L’Italia ancora non guarda al centro del sistema
economico ma tenta di risolvere i problemi dell’Unificazione; bisogna completare l’Unità
territoriale, bisogna raggiungere il pareggio di bilancio (aumentando le tasse ad esempio
attraverso l’odiosa imposta sul macinato); si combatte il fenomeno del brigantaggio che nel sud
è diventato, sotto alcuni aspetti, anche una forma di vera e propria resistenza all’annessione al
Regno d’Italia. Le politiche economiche dei governi sono di tipo marcatamente liberista ed
espongono alla concorrenza internazionale quei settori dell’industria e dell’agricoltura
meridionale prima riparati dal protezionismo del Regno delle Due Sicilie. Manca, soprattutto,
l’idea di un possibile futuro industriale per l’Italia come prospettiva di medio-lungo periodo
nella quale investire.
2. 1876-1896, il periodo della sinistra storica: È il momento in cui la nuova classe dirigente
(anch’essa appartenente al partito liberale) comincia a guardare al centro del sistema
economico. L’industrializzazione diventa l’obiettivo da raggiungere attraverso politiche
protezionistiche sul grano e sui prodotti industriali (nel 1876 e nel 1887) e tramite il sostegno
alla nascita dell’industria siderurgica e meccanica direttamente o indirettamente (tramite
commesse pubbliche). Il governo vara inoltre un ingente piano di investimenti pubblici
infrastrutturali per la riqualificazione delle città che sostiene lo sviluppo dell’industria edilizia e
del sistema bancario di piccola e media grandezza. Un modello che, con lo scoppio della bolla
edilizia della fine degli anni Ottanta, è destinato a crollare mettendo in crisi l’intero sistema
bancario. Per uscire dalla cosiddetta “crisi di fine secolo”, nel 1894 nascono la Banca d’Italia,
come istituto centrale e di controllo del sistema e le prime grandi banche miste sul modello
tedesco (Credito Italiano, Banca Commerciale) per sostenere lo sviluppo delle grandi industrie
siderurgiche, chimiche e meccaniche.
3. 1900-1913, l’età giolittiana: È il momento nel quale il Paese si avvicina al centro del sistema
economico tramite il cosiddetto take off. Le riforme seguite alla” crisi di fine secolo” e la nascita
delle nuove banche miste hanno permesso di sostenere lo sviluppo della grande industria in un
contesto di ripresa generale internazionale. Si comincia a realizzare la cosiddetta fratellanza tra
banca e industria, in cui cioè le banche concedono prestiti ottenendo in cambio eventualmente
anche titoli azionari dell’azienda come garanzia. Tuttavia, continua ad accentuarsi il divario tra il
mezzogiorno e il triangolo industriale del nord ovest.

Altrettanto complesse sono le diverse fasi presenti nel corso del Novecento, caratterizzate in una prima
fase da un momento di allontanamento dal centro del sistema, quindi, dopo la seconda guerra mondiale,
da una ripresa sostenuta e infine, dagli anni Novanta dall’avvio di una crisi di sistema riconducibile alla
cosiddetta “transizione incompiuta” italiana.

1. 1915-1918, l’economia di guerra: Lo scoppio della prima guerra mondiale porta, soprattutto in una
prima fase, a un’accelerazione della produzione di alcuni settori industriali (industria pesante,
alimentare, tessile, meccanica, armamenti in generale). La guerra modifica le abitudini di vita: gli
uomini lasciano le campagne o le fabbriche per andare al fronte e sono spesso sostituiti dalle donne
che per la prima volta entrano in maniera sostenuta nel mondo del lavoro. Ma è soprattutto la fine
della guerra a lasciare il segno sotto diversi profili:
a) la crisi di riconversione dell’industria dalla produzione bellica a quella civile richiede il
blocco della produzione e il licenziamento degli operai;
b) aumenta esponenzialmente l’inflazione poiché lo Stato dopo avere aumentato il debito
pubblico e le tasse ha dovuto finanziare i costi della guerra con la stampa di nuova carta
moneta;
c) si afferma il problema del reducismo, ovvero gli uomini andati al fronte che ritornano
nelle città o nelle campagne e in virtù della crisi non trovano il proprio lavoro;
d) la classe media è falcidiata dall’aumento dell’inflazione e impaurita dai conflitti sociali
che scoppiano come, ad esempio, l’occupazione operaia delle fabbriche del biennio rosso
del 1920-1921 o l’occupazione da parte dei contadini dei grandi latifondi meridionali.
2. 1922-1943, il ventennio fascista: Questa condizione di forte instabilità politica e sociale (le elezioni
del 1919 avevano visto la contemporanea buona affermazione, oltre che del partito popolare,
anche del partito socialista) diventa il retroterra sul quale Mussolini, riesce a farsi dare dal Re
l’incarico di formare il governo, promettendo sicurezza e ordine. Il nuovo Presidente del Consiglio si
rivolge agli industriali del nord, ai grandi latifondisti del sud che avevano viste le loro terre occupate
dai contadini e alla classe media impaurita dagli scontri sociali.
Gli anni del fascismo sono caratterizzati, dopo una prima breve fase liberale, da politiche di
carattere dirigista e autartico; inoltre, dopo la crisi del 1929 nascerà, grazie alle scelte del regime, lo
stato imprenditore e proprietario di una parte del sistema bancario e industriale.
Nel complesso, durante il ventennio si registra una crescita graduale della produzione industriale,
ma un allontanamento complessivo dal centro del sistema economico mondiale.
3. 1945-1950: ri-avvicinamento al centro del sistema economico: Dopo le distruzioni e le perdite di
vite umane provocate dalla guerra, negli anni della ricostruzione il Paese pone le condizioni per
tornare a guardare al centro del sistema economico. A partire dalle eredità politiche, economiche e
sociali della seconda guerra mondiale, la nuova classe dirigente repubblicana, di ispirazione
democratica e antifascista, riesce a comporre le differenze presenti in Parlamento - ad esempio tra i
partiti social-comunisti e democristiani - per dare vita alla Carta costituzionale. In questo modo, la
Repubblica democratica può avviare, nel nuovo contesto internazionale del secondo dopoguerra, la
propria ricostruzione politica, sociale, infrastrutturale e industriale.
Decisivo, in questo contesto, fu il ruolo assunto dagli Stati Uniti e l’utilizzo dei beni del Piano
Marshall per riattivare il circuito industriale del Paese. Negli anni Cinquanta due sono le grandi
scelte che la classe dirigente compirà e che segneranno la crescita italiana negli anni del miracolo
economico:
a) l’atlantismo, nel rapporto diretto e di alleanza con gli Stati Uniti;
b) l’europeismo, come chiave per costruire la pace sul continente e per avviare una nuova
prosperità economica.
4. 1950-1969, l’Italia raggiunge il centro del sistema: Finalmente, negli anni del miracolo economico il
Paese raggiunge il centro del sistema. Grazie allo sviluppo dell’industria privata e della parallela
grande impresa pubblica, rimasta in vigore anche dopo la fine della guerra. Sono anni di grandi
cambiamenti sociali di emigrazioni interne e internazionali. Di un Paese che da povero scopre nel
giro di un ventennio il benessere diffuso.
5. 1969-anni Ottanta, tra crisi e consolidamento: Malgrado la crisi degli anni Settanta, l’Italia riesce a
consolidare il raggiungimento del primato. La fine del miracolo economico si accompagna allo
scoppio della crisi di stagflazione internazionale, dovuta, come vedremo, al contemporaneo
aumento dei prezzi del petrolio che bloccano la produzione rendendone troppo alti i costi
(stagnazione) e all’aumento del costo della vita in virtù del conseguente aumento generale dei
prezzi (inflazione).
Le strutture tipiche del modello fordista-keynesiano che avevano portato alla crescita italiana del
miracolo economico mutano rapidamente; questo porta a una contrazione del ruolo della grande
industria, a una esternalizzazione delle funzioni e all’ascesa del modello della piccola e media
impresa. Parallelamente si manifesta nel Paese una fortissima crisi politica accompagnata anche da
elementi di estremismo di marca terroristica. Il consolidamento del primato durante gli anni
Ottanta è favorito dalla svalutazione competitiva della moneta e dall’incremento del debito
pubblico che, nel medio-lungo periodo diventerà un agente patogeno che rallenterà gli stimoli al
rinnovamento del sistema politico e industriale. In questo senso, la crescita della seconda metà
degli anni Ottanta apparirà, a posteriori, come un fuoco di paglia.
6. 1992-2010, crisi di sistema: A partire dai primi anni Novanta, le contraddizioni e i nodi irrisolti della
crescita distorta degli anni Ottanta vengono al pettine. La crisi politica-giudiziaria che travolge la
classe dirigente durante “tangentopoli” si inserisce in un contesto di mutamento complessivo del
sistema economico e politico internazionale (nuova globalizzazione, caduta del muro di Berlino,
crescita dei BRICS, ecc..). L’Italia entra in una “crisi di sistema” che, incrociandosi con la crisi
economica mondiale cominciata nel 2008 ha accentuato gli attuali elementi di difficoltà del
sistema-Paese.
11 Lo sviluppo economico dell’Italia liberale

12 Modelli interpretativi dello sviluppo economico in età liberale

E’ possibile suddividere le principali interpretazioni dello sviluppo economico dell’Italia liberale in sei
modelli:
1. Proto-modello liberista: Proposto in particolare dall’interpretazione di Gino Luzzatto, vede
nell’inserimento internazionale dell’Italia la chiave per comprendere il passaggio dal modello
prevalentemente agricolo, all’industria domestica e quindi alla manifattura. La rottura di questo
modello si sarebbe registrata tuttavia con l’avvio del protezionismo doganale.
2. Modello marxista: Il modello marxista è stato sostenuto in Italia soprattutto da Antonio Gramsci,
filosofo e fondatore del Partito Comunista Italiano, che nei suoi quaderni dal carcere si scagliò
contro gli effetti del Risorgimento (la cosiddetta “rivoluzione mancata”), accusando la classe
dirigente liberale di non aver liberato i contadini dalle condizioni di dipendenza semi-schiavistica
dalle classi padronali. Più ampia, alcuni anni dopo, l’analisi di Emilio Sereni, storico di formazione
marxista, per il quale l’Unificazione politica imprime un’accelerazione allo sviluppo capitalistico con
la creazione di un mercato interno, mentre permangono e in alcuni casi si accentuano i limiti
presenti nei regimi preesistenti come i residui feudali, il latifondo, dualismo nord-sud.
3. Modello Romeo: L’interpretazione di Rosario Romeo, basata sulla lettura delle serie storiche
dell’Istat, evidenzia come nel primo ventennio postunitario si sia registrata un’accumulazione di
capitale dovuta a: a) un’accumulazione agraria ; b) le entrate fiscali dello Stato. La prima consente
la riallocazione del surplus nei settori bancari e industriali (tessile); le seconde permettono
l’allocazione degli interventi pubblici per la costruzione delle infrastrutture (ferrovie, città). In
questo modo è sotto stimato l’impatto dell’all’allargamento della base industriale degli anni
Ottanta, per esaltare maggiormente la forza del take off dell’età giolittiana, conseguenza
dell’accumulazione originaria dei decenni precedenti.
4. Modello Gerschenkron: Sulla base delle proprie ricostruzioni seriali, rifiuta il ruolo determinante
dell’accumulazione dei capitali proposto da Romeo. Gerschenkron sottolinea, invece, la presenza di
un tessuto industriale sin dagli anni Ottanta del XIX secolo. Applica al caso italiano la sua teoria dei
fattori sostitutivi delle precondizioni dello sviluppo, esaltando, nel caso italiano, esalta ruolo delle
banche miste e (in parte) dello stato, come determinanti per sostenere la crescita della grande
industria durante il take off giolittiano.
5. Modello Fenoaltea: Sulla base delle proprie ricostruzioni seriali, l’andamento del ciclo coincide
sostanzialmente con il modello di Gerschenkron, ma con valori più accentuati, in particolare per il
periodo 1880-1888.
6. Modello Cafagna-Bonelli: Questo modello si basa sul cosiddetto “modello gradualista” o anche
“andamento a onde” e, sotto alcuni profili si allontana dalle serie storiche dell’Istat. Secondo i due
storici, infatti, nel primo ventennio post unitario l’espansione dell’industria serica assicura
quell’accumulazione necessaria a interventi in capitale fisso industriale; in questo modo, durante gli
anni Ottanta, grazie anche al ruolo del capitale estero, si registra una prima accelerazione del
processo di industrializzazione. Una fase cui seguirà una stasi negli anni Novanta (durante la crisi di
fine secolo), per riprendere in maniera estremamente sostenuta durante il take off giolittiano.
In questo modo lo sviluppo italiano è il risultato di una serie di fasi, o onde, ciascuna delle quali
lascia un retroterra sul quale la successiva ripresa può coltivare la propria via per lo sviluppo.
13 Banche e sviluppo economico in età liberale

14 Il capitalismo industriale tra ottocento e novecento


15 Modelli di transizione del capitalismo industriale in Italia: la Banca Tiberina

16 Modelli di transizione del capitalismo industriale in Italia: i patrimoni nobiliari

17 La prima guerra mondiale e le sue conseguenze economiche

18 Le contraddizioni degli anni Venti

19 Le politiche economiche del fascismo

20 Il crollo del 1929 e le risposte alla crisi: il Keynesismo

21 Banche e sviluppo economico in Italia dal 1918 al 1936

22 Lo sviluppo dell’Unione Sovietica dalla nascita alla seconda guerra mondiale

23 L'espansione della Germania nazista e la seconda guerra mondiale

24 Il mondo e l'economia del secondo Novecento

25 La ricostruzione nel secondo dopoguerra: il riassetto politico internazionale

26 La ricostruzione nel secondo dopoguerra: il riassetto economico internazionale

27 L'età dell'oro del capitalismo mondiale

28 La Comunità europea dalle origini alla crisi degli anni Settanta


29 La crisi degli anni Settanta

30 Le risposte alla crisi degli anni Settanta: il "Washington Consensus"

31 La costruzione dell’Euro

32 L'ascesa delle potenze asiatiche

33 La terza rivoluzione industriale e la riorganizzazione degli anni Novanta


L’economia italiana del secondo Novecento e il divario Nord Sud
01 La ricostruzione italiana nel secondo dopoguerra: il riassetto politico

02 La ricostruzione italiana nel secondo dopoguerra: il riassetto economico

03 L'economia italiana dalla ripresa al miracolo economico

04 Il boom economico italiano

05 La crisi degli anni Settanta in Italia

06 Il sistema bancario italiano e il miracolo economico

07 Dalla ripresa degli anni Ottanta alla crisi del 1992

08 Tra crisi di sistema e rischio declino: dagli anni Novanta alla transizione incompiuta

09 L'intervento per il Mezzogiorno

10 Politiche e strumenti per lo sviluppo del Meridione: la Cassa per il Mezzogiorno


Elementi di storia del pensiero Economico
01 Economia dello Sviluppo
L’Economia dello sviluppo si è affermata sempre più come una disciplina pratica oltre che teorica è di
analizzare «gli squilibri fra economie industrializzate ed economie “arretrate” o “in via di sviluppo”».

Nel secondo dopoguerra nasce la necessità di risolvere il problema dello sviluppo dei Paesi appena liberati
dal giogo coloniale, si diffondono in occidente due approcci principali: quello che la dottrina definisce come
storicista e quello neokeynesiano.

Modello storicista: I Paesi “arretrati” o “in via di sviluppo” devono seguire la stessa strada intrapresa da
quelli di prima industrializzazione (Teoria Walter Rostow: “teoria dell’imitazione senza differenze”).

Modello neokeynesiano: è basato, invece, sulla convinzione che un consistente investimento di capitali
(pubblici o privati) produce un incremento degli investimenti e un conseguente aumento del reddito, in una
logica tipicamente legata alla teoria del “moltiplicatore degli investimenti”.

Le teorie del cambiamento strutturale si fondano sul tentativo di attivare politiche di sviluppo nei
cosiddetti “Paesi” late comers attraverso un intervento sulle strutture economiche, in particolare attraverso
innovazioni nel settore agricolo che possano portare all’evoluzione di strutture di tipo più moderno o
industrializzato.

Prevalentemente, esistono due tipi di approcci al cambiamento strutturale:


1) la teoria del surplus (Arthur Lewis) ipotizza un surplus di manodopera nel settore primario;
2) la teoria dei patterns, modificare direttamente con approccio top-down la struttura
prevalentemente agricola inserendo elementi atti a favorire l’avvio del processo di
industrializzazione.

In questo settore di studi si collocano le cosiddette “teorie della dipendenza” che vedono nel forte legame
dei Paesi “arretrati” con gli aiuti internazionali una forma di neocolonialismo, trasformatasi dagli anni
Ottanta nella questione della “riduzione del debito” dei Paesi in via di sviluppo verso l’occidente. Oltretutto,
la crisi degli anni Settanta aveva portato a un rialzo dei tassi di interesse aumentando i costi del debito.

Teorie neoclassiche: I principali studi di Friedman nel corso della sua carriera si erano concentrati in
particolare sulla teoria quantitativa della moneta, sulla teoria del consumo, sulla teoria del tasso naturale di
disoccupazione e sulla dimostrazione dell’inefficacia della “curva di Phillips”, lo studio pubblicato nel 1958
da Alban Phillips, economista marcatamente keynesiano, che intendeva dimostrare una relazione diretta
tra l’aumento del tasso di inflazione e la diminuzione di quello della disoccupazione.

L’impianto della scuola di Chicago, basato, tra le altre cose, sul rovesciamento dell’impostazione
neokeynesiana del ruolo dello Stato, sulla necessità di utilizzare la politica monetaria per controllare la
stabilità dell’inflazione e sulla riduzione dell’intervento pubblico nell’economia per favorire le
privatizzazioni fu in larga parte ripreso durante gli anni Ottanta dai governi, cosiddetti neoliberisti, del
Presidente USA Ronald Reagan e del Primo ministro inglese Margaret Thatcher.

Politiche poi ribattezzate con la denominazione di Washington Consensus, intendendo con queste la
diffusione tra la seconda metà degli anni Ottanta sino agli anni Duemila dell’applicazione delle ricette
neoliberiste da parte delle principali istituzioni internazionali, con sede a Washington, come ad esempio
l’FMI e la Banca mondiale, per aiutare i Paesi in via di sviluppo o quelli industrializzati ma in crisi (ad
esempio Argentina, Grecia, ecc…). Tra queste, rientravano concetti come la stabilizzazione dell’inflazione, la
liberalizzazione, la privatizzazione dei servizi e la deregolamentazione dei mercati.

Applicando i principi del Washington Consensus, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale
decisero di concedere prestiti ai Paesi in via di sviluppo (spesso già debitori) a condizione che questi
attuassero le cosiddette politiche di aggiustamento strutturale con risultanti non particolarmente brillanti
sotto il profilo della ripresa dei Paesi late comers.

02 Pensiero liberale classico


Il pensiero liberale classico si forma in contemporanea con l’avvio della prima Rivoluzione Industriale
inglese. Il pensiero liberale (Smith, Malthus, Ricardo), come dottrina filosofica ancora prima che economica
si forma non a caso alla fine del Settecento. Alla base della dottrina vi è la convinzione che il benessere
individuale sia la precondizione per l’affermazione del benessere collettivo (esattamente l’impostazione
inversa del socialismo); per fare questo è necessario che ciascuno sia libero di agire, all’interno del quadro
di leggi e regole comuni, senza inferenze da parte di soggetti esterni che ne frenino le potenzialità, siano
essi altri individui o lo Stato. Di conseguenza, le stesse forze del mercato per potere agire al meglio e
impiegare nella maniera ottimale i fattori della produzione devono essere libere da agenti esterni come, ad
esempio, l’intervento pubblico.

Adam Smith, nella sua impostazione filosofica ed economica compie la prima vera rottura con la
concezione tipica delle società preindustriali, individuando chiaramente i limiti di quella che egli stesso
definisce come la teoria del mercantilismo. Secondo Smith, infatti, il capitalismo mercantile era basato sul
conseguimento di profitti tramite la compravendita di beni e sulla conquista di nuovi mercati a scapito dei
possibili concorrenti. Al contrario, per la prima volta Smith riconosce nella “produzione” di beni –e non
nella compra vendita di merci –l’elemento chiave e fondativo della creazione di ricchezza; e proprio in
questo egli legge la differenza tra i mutamenti che aveva di fronte a sé alla seconda metà del Settecento
con l’età preindustriale. Secondo una visione pienamente illuministica, per Smith l’economia è regolata da
leggi di natura (la cosiddetta “mano invisibile”) che permette da sola la piena efficienza dei fattori della
produzione e il conseguimento dell’unico punto possibile di equilibrio del mercato a livello generale e
settoriale. In questo senso, l’intervento dello Stato deve essere assolutamente minimale, limitandosi cioè a
garantire la sicurezza degli scambi e il rispetto delle leggi. Qualunque altra forma di inferenza oltre che
inutile sarebbe dannosa poiché ciascuno, agendo sul mercato per il proprio interesse contribuisce al bene
collettivo. I capitalisti, afferma Smith, adottano i metodi produttivi più efficienti al fine di ridurre i costi; in
questo modo le merci sono vendute ai prezzi più bassi garantendo sviluppo e benessere diffuso. Questa
concezione dinamica dell’economia non riesce tuttavia a collegare pienamente il concetto di sviluppo con
quello di crisi; anche Smith, come molti altri pensatori classici, infatti, tendono a individuare in un possibile,
futuribile, “stato stazionario” le cause della crisi del sistema; mancando tuttavia un collegamento tra questa
e la possibilità o la capacità del sistema di riprodursi e riavviare la crescita economica.

Thomas Malthus, il modello Maltusiano, per prevenire una situazione di collasso propone l’istituzione di
freni «repressivi» e «preventivi» alla crescita della popolazione per evitare il conseguimento dello stato
stazionario. Esso appare per molti aspetti ancora legato a una concezione di carattere pre-industriale del
rapporto che lega elementi come tecnologia, produttività, risorse e popolazione.
David Ricardo, applica la teoria della mano invisibile ai rapporti internazionali attraverso il “teorema dei
vantaggi comparati”, secondo il quale: il libero scambio di merci tra Paesi è sempre vantaggioso per tutti.

Ricardo non riesce a collegare il concetto di crisi con quello di sviluppo. La “teoria dei rendimenti
decrescenti”, da egli elaborata, propone, infatti, che in un sistema produttivo, ad ogni apporto di un nuovo
fattore non corrisponde un incremento di produzione proporzionalmente crescente, fino ad arrivare allo
stato stazionario (così ad esempio se devo mettere a coltivare nuovi terreni, lavorerò progressivamente su
quelli meno redditizi). Anche in questo caso, quindi lo “stato stazionario”, cioè la crisi, appare come un
elemento futuribile ma non pronosticabile e soprattutto come un momento finale e non come parte del
sistema economico stesso.

03 Il pensiero di Karl Marx


La costruzione di una concezione dinamica dell’economia è basata, tra le altre cose, sullo stretto
collegamento tra le “teorie dello sviluppo” e le “teorie della crisi” come parte dell’alternanza di fasi cicliche
di crescita e caduta del sistema economico e come categorie utili a spiegarne i movimenti di fondo.

Lo stesso concetto di “crisi” diviene con Marx parte del sistema ed è funzionale o a permettere il
riassestamento e la riproduzione dell’economia su livelli e modalità differenti rispetto al passato o a
spiegare le cause di fondo della futura caduta del sistema e della sua sostituzione con la società socialista.

L’importanza della concezione marxista dello sviluppo e della crisi del capitalismo -indipendentemente dai
suoi aspetti più “politici” quando non “profetici” sull’avvento delle società socialiste -sarà tale che tutti gli
studiosi a lui successivi dovranno confrontarsi con le sue speculazioni.

In questo senso il marginalismo, che si afferma tra gli anni Settanta e Novanta dell’Ottocento attraverso la
scuola neoclassica di pensatori come Walras, Jevons o Marshall rappresenta, tra le altre cose, anche il
tentativo di ricostruire un pensiero economico di stampo liberale in grado di rispondere alle critiche
marxiane, ad esempio, spostando l’analisi verso i comportamenti dei singoli attori economici. La nascita
della microeconomia diventa così lo strumento per smontare, spostando il terreno del confronto, le critiche
di Marx al funzionamento del capitalismo. Allo stesso modo, sotto altri profili, sia la teoria organica dei cicli
economici di Schumpeter del 1939, sia la Teoria della domanda effettiva di Keynes pubblicata nel 1936
rappresentano il tentativo di rispondere alla crisi del 1929, di carattere generale e macroeconomico, e in
qualche modo sembrano, da liberali convinti, provare a dare una risposta allo stesso Marx scendendo sul
suo stesso terreno, ma individuando una di via di uscita dalla recessione tramite un aggiornamento -e per
certi aspetti un capovolgimento -delle stesse teorie liberali classiche.

Commissionato dalla Lega dei Comunisti, Marx ed Engels scrissero il Manifesto del Partito Comunista fra il
1847 e il 1848 per pubblicarlo a Londra all’inizio del 1848. L’obiettivo era esprimere il progetto politico della
neonata Lega, costituitasi sulla base dell’incontro tra diverse associazioni operaie e socialiste presenti
nell’Europa di quegli anni.

Dopo la fine dell’esperienza comunarda e la scelta dell’esilio londinese, Marx si adoperò per studiare a
fondo il sistema capitalistico e provare a individuarne quelle che egli riteneva essere le maggiori
contraddizioni. È dunque nel pieno della sua maturità intellettuale e anche di esperienze politiche e di vita
che nel 1867 pubblica il primo volume de Il Capitale(gli altri due saranno pubblicati postumi da Engels nel
1885 e nel 1891). Con Il Capitale, infatti, Marx rimette al centro del sistema capitalistico non solo la sua
storicità e le sue contraddizioni (è lui in fondo, uno dei primi veri teorizzatori del ciclo economico nella
misura in cui collega, all’interno del concetto di sviluppo, due elementi apparentemente contrastanti come
la crescita e la crisi) ma il ruolo del lavoro e il conflitto tra il fattore capitale e il fattore lavoro.

Con la teoria dello sfruttamento del plusvalore o del plus lavoro, Marx rompe lo schema edulcorato del
liberalismo classico per il quale il sistema funziona perché (e finché) tutti adempiono i propri compiti, sia a
livello di economia domestica che di equilibrio internazionale. Per farlo, inserisce il concetto di “lotta di
classe” come motore della storia, collegando la funzione di produzione dei beni di un sistema economico a
quello altrettanto significativo della equità della loro distribuzione. Secondo Marx, dunque, il sistema
capitalistico, storicamente determinato (in quanto nato in una certa epoca e destinato quindi a concludersi
prima o poi) cadrà o per implosione interna, in virtù della legge della caduta tendenziale del saggio di
profitto da cui al termine di una delle tante crisi cicliche il capitalismo non saprà più riprendersi, oppure
tramite la rivoluzione della classe operaia che essendo sempre più numerosa e aumentando la forbice tra la
ricchezza di pochi capitalisti e la povertà di tanti operai, prenderà coscienza della propria condizione di
classe e si rivolterà contro il potere.

04 Il marginalismo
Tra gli anni Settanta e Novanta dell’Ottocento, in un’Europa segnata dal consolidamento del processo di
industrializzazione si registra la cosiddetta “rivoluzione marginalista”.

La scuola marginalista è composta di diversi studiosi ed è riconducibile a due fasi storiche: gli anni Settanta
del XIX secolo, nei quali scrivono autori come William Jevons, Carl Menger o Leon Walras; gli anni Ottanta e
Novanta segnati soprattutto dalla speculazione intellettuale di Alfred Marshall. Gli obiettivi di questi
studiosi sono di fornire una maggiore interpretazione analitica del processo di funzionamento del
capitalismo e di rispondere alla diffusione in Europa delle teorie marxiane di critica al sistema.

La costruzione del pensiero marginalista si basa su un approccio metodologico di tipo deduttivo-normativo,


ossia sulla ricerca di quelle norme teoriche di funzionamento del sistema di carattere universale che
consentono di spiegare i meccanismi fattuali. Secondo i marginalisti il sistema è dotato di un unico punto di
equilibrio quale espressione della piena efficienza dell’economia e dei fattori della produzione. Un punto
dal quale non ci si può spostare per migliorare le proprie condizioni senza che si peggiorino quelle degli altri
operatori del mercato. Questa concezione è legata a quella dell’equilibrio del mercato quale luogo di
allocazione efficiente delle risorse; questo soprattutto laddove si registri la presenza di un sistema a
concorrenza perfetta con un’ottima diffusione delle informazioni tra tutti gli operatori, siano essi investitori,
produttori o consumatori.

L’equilibrio generale del sistema è il frutto dei diversi equilibri settoriali; da qui, dunque, nascono ad
esempio la teoria del consumatore e del comportamento razionale o, ancora, il concetto di utilità marginale
definibile come l’incremento del livello di utilità e di soddisfazione che un individuo trae dal consumo di un
bene (o dall’ultima unità di un bene prodotto). L’uso dei modelli matematici per sostenere la nascita della
microeconomia diventa dunque lo strumento con cui indagare una parte dei meccanismi di funzionamento
del sistema.

La “rivoluzione marginalista” portò a un cambiamento significativo nell’analisi economica: l’utilizzo di nuove


categorie interpretative e di nuovi strumenti di calcolo più raffinati rispetto al passato permise, infatti, non
solo un diverso approccio teorico, ma anche una maggiore integrazione tra la teoria economica e l’analisi
quantitativa. Una interazione resa possibile dal contemporaneo sviluppo di nuove scienze come la
statistica, la demografia, ecc..
Tuttavia, la teoria del comportamento razionale degli operatori e la concezione logica deduttiva a essa
sottostante si scontrarono con i contemporanei mutamenti attraversati dalle società europee all’inizio del
XX secolo.

Le differenze tra i modelli di industrializzazione presenti tra i Paesi europei, l’affermazione del
protezionismo come sistema di supporto allo sviluppo industriale, il neo-colonialismo e, soprattutto, lo
scoppio della prima guerra mondiale portarono a evidenziare alcuni elementi di inadeguatezza della teoria
marginalista. Soprattutto, le conseguenze della prima guerra mondiale e della crisi del 1929 riportarono il
concetto di “crisi” al centro dell’attenzione degli studiosi, imponendo un aggiornamento della riflessione
teorica. In questo senso, l’operazione intellettuale compiuta, con approcci e metodologie anche molto
differente da studiosi come Schumpeter o Keynes, può essere ricondotta alla necessità di rileggere il
funzionamento del capitalismo liberale a partire da una concezione nuovamente macroeconomica che
riuscisse a collegare i concetti di “crisi” e “sviluppo”, cercando di non cedere alla teoria marxiana e di
fornire una risposta positiva alla domanda sulle possibilità di ripresa del capitalismo.

05 Keynes ed il Keynesismo
Keynes elabora la sua “teoria della domanda effettiva” come risposta e possibile via di uscita alla crisi del
1929, a fronte del fallimento delle ricette liberali classiche.

La ricerca di una via di uscita liberale alla crisi porta Keynes a definire un proprio modello di risposta che
assume innanzitutto la crisi stessa come parte del processo di riproduzione del sistema. Se la crisi è
conseguenza del processo di sovrapproduzione e del disequilibrio tra domanda e offerta nel mercato,
l’uscita sarà possibile soltanto sostenendo la ripresa della domanda per riportare il sistema in equilibrio.

Infatti – e questo è uno dei punti centrali della svolta teorica di Keynes - la realtà fattuale dimostra che, al
contrario delle affermazioni delle teorie classiche e marginaliste, non esiste un solo punto di equilibrio del
mercato nel quale si registri l’uso efficiente delle risorse, ma, in una fase recessiva, il mercato può anche
assestarsi su un punto di equilibrio di sotto-occupazione dei fattori della produzione (non si spiegherebbe
altrimenti l’aumento della disoccupazione). Insomma, esistono diversi punti di equilibrio a partire dai
diversi impieghi dei fattori della produzione. Era una rivoluzione nella teoria tradizionale classica.

La consapevolezza della presenza di diversi punti di equilibrio, ai quali corrispondono diversi livelli di utilizzo
dei fattori della produzione, porta Keynes a sostanziare la sua teoria della domanda effettiva come quel
modello che consente, attraverso l’intervento temporaneo e congiunturale dello Stato, di sostenere un
maggiore utilizzo dei fattori portando un sistema a un nuovo punto di equilibrio che preveda, ad esempio,
un minore tasso di disoccupazione.

Questo secondo Keynes grazie a due concetti basilari: “il moltiplicatore degli investimenti”, cioè il fatto che
per ogni dollaro investito si produrrà un effetto a catena (che Keynes riesce a calcolare con una formula
matematica) che rimette in movimento una maggiore livello di liquidità nel sistema; e il “deficit spending”,
ovvero lo Stato per effettuare quegli investimenti utili a sollevare il punto di equilibrio tra domanda e
offerta e a distribuire occupazione può anche andare temporaneamente in deficit, al contrario di quello che
voleva l’ortodossia liberale; alla base vi era l’idea che la crescita del PIL e l’incremento delle entrate fiscali
avrebbero nel lungo periodo ripagato il deficit effettuato.

In questo modo Keynes offriva ai governi dell’epoca una possibile via d’uscita; difficile da percorrere da chi,
per decenni era stato abituato a seguire l’ortodossia liberale. Lo stesso New Deal di Roosevelt seguirà solo
in parte i precetti keynesiani, la cui fortuna maturerà pienamente nel secondo dopoguerra quando, però,
quella che per lui era una teoria congiunturale, utile cioè a portare fuori il Paese dalla crisi, sarebbe stata da
molti utilizzata, soprattutto in Europa, in una chiave strutturale, ampliando il livello di intervento dello Stato
fino a realizzare vere e proprie forme di economia mista.

06 Dal monetarismo alla crisi del 2007


La crisi avviatasi tra il 1971 e il 1973 è stata definita come una crisi di “stagflazione”, ovvero determinata
dalla presenza simultanea, all’interno della stessa fase del ciclo economico, dell’aumento dell’inflazione e
della diminuzione della produzione industriale.

In un contesto nel quale si era già generata una prima pressione sui prezzi delle materie prime e sui salari
industriali alla fine degli anni Sessanta, all’inizio del decennio successivo si inseriscono i due veri elementi
scatenanti della crisi:

1. la fine del sistema di Bretton Woods, manifestata nell’agosto del 1971 dal Presidente americano
Nixon, con la dichiarazione dell’inconvertibilità del dollaro in oro con la conseguente caduta del
sistema monetario che aveva retto gli scambi e i commerci mondiali per tutti gli anni della golden
age;
2. le crisi dei prezzi del petrolio del 1973 e del 1979, la prima decisa dai Paesi dell’OPEC in risposta
all’appoggio delle nazioni occidentali a Israele nella guerra dello Yom Kippur; la seconda nel 1979,
in occasione dello scoppio della guerra Iran-Iraq. Si tratta di crisi dovute a un aumento esogeno dei
prezzi e non alla scarsità produzione, che modificano strutturalmente le condizioni di accesso alla
materia prima e i costi di produzione per le imprese.

La crisi rimette in discussione l’intero impianto neokeynesiano su cui si era fino allora sostenuta gran parte
della crescita del capitalismo occidentale nell’epoca della golden age.

Per la prima volta, dalla Rivoluzione Industriale inglese - o perlomeno per la prima volta in maniera così
rilevante - si era di fronte a un aumento dei costi di produzione che ponevano una pressione dal lato
dell’offerta; si trattava, insomma, di una crisi di sotto-produzione. Il contrario di quanto avvenuto in quasi
tutte le crisi precedenti e, soprattutto, nel 1929, quando il sistema si era bloccato con la crisi di
sovrapproduzione e l’incapacità dell’offerta di trovare sbocchi sui mercati. La crisi, sostanzialmente,
rimetteva in discussione l’impianto della speculazione keynesiana del 1936, definita “teoria della domanda
effettiva” proprio perché individuava nella sovrapproduzione il problema del ciclo e nel sostegno alla
domanda lo strumento per il riequilibrio del mercato. La crisi degli anni Settanta modifica questi parametri
proprio perché l’origine è in un incremento dei prezzi dovuti a cause esogene dal mercato ma che incidono
da lato dell’offerta ponendo tutti gli economisti neokeynesiani la sfida di risolvere l’enigma del perché la
crescita dell’inflazione non porti, come loro avevano sino allora asserito, a un incremento della produzione
e dell’occupazione, ma al contrario a una stagnazione e a un aumento della disoccupazione.

Milton Friedman, premio Nobel nel 1976 e tra i fondatori della cosiddetta “scuola di Chicago”, ancora oggi
considerata la culla del pensiero neoliberista contemporaneo. I principali studi di Friedman nel corso della
sua carriera si erano concentrati in particolare sulla teoria quantitativa della moneta, su quella del
consumo, sulla teoria del tasso naturale di disoccupazione e sulla dimostrazione dell’inefficacia della “curva
di Phillips”, vale a dire l’analisi pubblicata nel 1958 da Alban Phillips, economista neokeynesiano, che
intendeva dimostrare una relazione diretta tra l’aumento del tasso di inflazione e la diminuzione di quello
della disoccupazione. Un ragionamento, quello di Friedman, collegato a quello concernente il “tasso
naturale di disoccupazione” per il quale, il livello strutturale, coerente rispetto al livello dell’offerta
aggregata presente nel sistema può essere influenzato negativamente da un intervento esterno (ad
esempio le politiche keynesiane della domanda effettiva).

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