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La ginestra, o il fiore del deserto

«Nella Ginestra la tecnica della canzone libera raggiunge le sue realizzazioni più
ardite. I risultati di questa eccezionale performance poetica sono di innegabile unità e
potenza». (Luigi Blasucci)
«Come buona parte dei Canti leopardiani a partire dal 1828, anche la Ginestra
poggia saldamente su un’allegoria, anzi duplice: lo sterminator Vesevo che
rappresenta la forza annichilatrice della natura avversa, e l’odorata ginestra, figura di
chi non si oppone alla sua sorte con vano orgoglio o con vili lamenti, ma accetta la
legge della natura e la propria morte con consapevolezza e dignità: lenta,
“pieghevole” è detta, come in latino e soprattutto in Virgilio, in opposizione alla
superbia aristocratica e intellettuale del moralista stoico che si spezza ma non si piega
e del modernista che subordina i destini individuali alla collettività e al “progresso”».
(Pier Vincenzo Mengaldo)

Le citazioni appartengono a due tra i massimi studiosi di Leopardi, e ci saranno di


guida nella interpretazione del testo [da considerarsi sostitutiva di quella, sbagliata,
che trovate a p. 527 del manuale].

Metrica. Si tratta di una canzone libera, articolata in sette stanze di una lunghezza
che all’interno del libro dei Canti non ha eguali nelle altre canzoni dello stesso tipo.
Questo perché la dimensione della stanza è data dal movimento del discorso, di
grande ampiezza e complessità, che il poeta sviluppa. Scarseggiano le rime vere e
proprie. Persiste, però, il loro uso in clausola di stanza, come nell’Ultimo canto di
Saffo: st. 1 «Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e
progressive»; st. 2 «che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, / fin sopra gli astri il
mortal grado estolle»; st. 3 «così star suole in piede / qual star può quel ch’ha in error
la sede»; st. 4 «verso te finalmente il cor m’assale? / Non so se il riso o la pietà
prevale»; st. 5 «non avvien ciò d’altronde / fuor che l’uom sue prosapie ha men
feconde»; st. 6 «che sembra star. Caggiono i regni intanto, / passan genti e linguaggi:
ella nol vede: / e l’uom d’eternità s’arroga il vanto»; st. 7 «meno inferma dell’uom,
quanto le frali / tue stirpi non credesti / o dal fato o da te fatte immortali». Gli
attacchi di ogni stanza (settenari nelle stanze 1, 2, 4, 6, 7; endecasillabi nelle stanze 3
e 5) tendono ad essere irrelati (a non far rima con nessun altro verso).
Complessivamente le rime sono scarse, ma questa tendenza è contrastata dalla
presenza di assonanze (qualche esempio: monte-fiore 2-4, vidi-tristi 7-14, compagna-
lava 16-19; assonanza è quando sono uguali solo le vocali della parte finale di due
parole, sempre a partire dall’ultima tonica) e di rime al mezzo, talvolta distanti
(qualche esempio: erti 7-18, enti 26-28-30, eme 32-43, ura 40-41-42-44, orso 252-
255, ente 266-268, ente 305-306-308; rima al mezzo è la rima tra una parola
all’estremo del verso e una nella zona centrale di un altro verso).
Lettura del testo

I stanza: il canto inizia con un omaggio alla ginestra profumata, che vive nei
campi desertici e coperti di lava; qui furono abitazioni e coltivazioni degli uomini,
ora ridotte a rovine; «già ti vidi, nella solitaria campagna romana, far compagnia ai
resti della città che un tempo fu dominatrice; ora ti riconosco qui, tra queste lave, in
questa natura consunta e abbandonata che tu sembri voler consolare. Venga qui chi
crede a una natura amica dell’uomo e ha fede nel progresso; venga qui, dove la natura
mostra la sua totale indifferenza nei confronti del genere umano, a constatare come
sia falsa la credenza di chi dice che all’umanità si spalancano sorti magnifiche e
progressive».

II stanza: qui venga a specchiarsi il «Secol superbo e sciocco», il XIX, il quale,


avendo abbandonato la via aperta dal Rinascimento e dall’Illuminismo, è tornato
indietro rispetto alle loro conquiste, e chiama «procedere» quello che in realtà è un
tornare indietro. Gli ingegni che ebbero la disgraziata sorte di essere figli tuoi, o
secolo nostro, vanno adulando i tuoi infantili ragionamenti, benché talvolta nel loro
intimo ti scherniscano. Ma io non morirò macchiato della vergogna di questa
adulazione. E prima di scendere sottoterra avrò mostrato apertamente tutto il
disprezzo che nutro verso di te, benché io sappia che è destinato all’oblio chi è stato
troppo avverso al proprio tempo [da notare, in questi versi, il persistente alfierismo di
Leopardi]; ma dell’oblio che tu, o secolo, dividerai con me (perché anche tu, per la
tua mediocrità, non lascerai traccia nella storia), io mi rido fin d’ora. Predichi libertà,
ma in realtà vuoi servo il pensiero, il pensiero grazie al quale soltanto siamo risorti in
parte dalla barbarie (del Medioevo), grazie al quale soltanto si progredisce nella
civiltà, che sola fa migliorare il destino dei popoli. Per questo ti riuscì sgradita la
verità intorno all’aspra sorte dell’uomo e al posto basso assegnatogli dalla natura
nell’universo. Per questo girasti vigliaccamente le spalle alla luce della ragione che te
lo aveva reso palese, e, fuggendo vilmente davanti al vero, chiami vile chi invece
segue quella luce, e chiami nobile d’animo colui che, astuto se inganna gli altri, folle
se inganna se stesso, innalza fin sopra gli astri la condizione umana [Queste
riflessioni riportano all’epigrafe apposta al canto, tratta dal Vangelo di Giovanni, E
gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce].

III stanza: la misera condizione umana non va celata: un uomo povero e debole,
ma generoso e nobile d’animo, non fa sfoggio ridicolo di opulenza o di vigore fisico,
ma senza vergogna si mostra e si dichiara apertamente privo di forza e di ricchezza e
giudica il suo stato per come veramente è. Io reputo non già un nobile essere animato
(«magnanimo animale») ma uno stolto colui che, nato per morire, cresciuto nel
dolore, dice: «Sono stato creato per godere», e, scrivendo, riempie fogli su fogli di
orgoglio spregevole promettendo eccelsi destini di gloria e incredibili felicità (che
non solo questa terra ma tutto il cielo ignora) a popoli che un maremoto, una
epidemia, un terremoto annienta a tal punto che di loro a malapena rimane il ricordo.
È invece di natura nobile colui che osa alzare i suoi occhi di mortale in faccia al
fato comune a tutti gli uomini, e che con parole schiette, senza sottrarre nulla al vero,
rende palese il male che ci fu dato in sorte, e il nostro stato basso e debole; [è di
natura nobile colui] che si dimostra grande e forte nelle sofferenze, e non aggiunge
alle proprie miserie gli odii e le ire contro gli altri uomini, ancora più gravi di ogni
altro danno, incolpando gli altri uomini del proprio dolore, ma dà la colpa solo a
quella che davvero è colpevole, che di noi mortali è madre perché ci genera, ma
matrigna quanto alla sua volontà. Costei egli chiama nemica, e stimando che
l’umanità, così come è vero, si trovi unita e schierata contro a costei fin dalle origini
[il patto sociale si origina come difesa dalle offese recate agli uomini dalla natura],
giudica gli uomini tutti tra di loro confederati, e tutti abbraccia con vero amore,
offrendo e aspettando aiuto valido e pronto nei pericoli che minacciano ora l’uno ora
l’altro nelle angosce della lotta comune (tra la natura e il genere umano). E ritiene sia
cosa stolta armare la destra dell’uomo ai danni del proprio simile e ostacolare chi è al
suo fianco, così come sarebbe in un campo di battaglia circondato dall’esercito
nemico, al culmine degli assalti degli avversari, dimenticando i nemici, ingaggiare
scontri con i propri compagni, e mettere in fuga e uccidere con la spada i propri
commilitoni.
Cosiffatti pensieri, quando saranno, come furono (al formarsi della società) chiari
a tutti gli uomini, e quando da un sapere fondato sul vero («verace saper») sarà stato
in parte ripristinato quel timore che in principio («orror che primo») strinse gli
uomini nel patto sociale («social catena»), l’onestà e la rettitudine delle relazioni
sociali, la giustizia e la compassione avranno ben altro solido fondamento che non le
credenze religiose («superbe fole»), sulle quali poggiandosi, il comportamento
sociale onesto («ove fondata probità del volgo») può stare in piedi come ciò che si
regge sopra l’errore.

IV stanza: lo sguardo si sposta alla volta del cielo stellato: dal piccolo limitato
mondo degli uomini agli sconfinati spazi cosmici. Il poeta guarda il cielo notturno, in
cui ciò che appare alla vista infinitamente piccolo è invece infinitamente grande, e
rispetto al quale le nostre stelle sono «un punto / di luce nebulosa» e la terra un
«oscuro / granel di sabbia». Da questa commisurazione tra la nostra insignificanza e
gli spazi infiniti scaturisce non si sa se il riso o la pietà nei confronti della «mortal
prole infelice».
Il periodo che inizia col verso 167 («E poi che gli occhi a quelle luci appunto») si
conclude con la domanda dei vv. 183-185: «al pensier mio / che sembri allora, o prole
dell’uomo?». E di nuovo una interrogativa («qual moto allora... verso te finalmente il
cor m’assale?») chiude il periodo successivo, che articola il tema della falsità delle
credenze religiose: quelle dei pagani, che sostenevano che gli dei scendessero sulla
terra per conversare piacevolmente con gli umani, e quelle dei moderni fautori di
filosofie spiritualistiche e metafisiche, che riportano in auge (perfino nell’età
presente, che dice di superare tutte le altre in conoscenza e in civiltà) i «sogni» già
derisi dagli illuministi.

V stanza: questa stanza è occupata dalla lunga similitudine del picciol pomo che
cadendo distrugge le formiche e insieme i loro dolci alberghi: così la natura, d’un
tratto, può travolgere l’uomo e le città da lui costruite, come è già accaduto per
Ercolano e Pompei. La natura non ha per le stirpi dell’uomo «più stima o cura» di
quanta ne abbia per quelle delle formiche. E se nell’uomo le stragi provocate dalla
natura sono meno frequenti di quelle che colpiscono le formiche è solo perché «l’uom
sue prosapie ha men feconde» (ha generazioni meno feconde, cioè si riproduce di
meno, e dunque la differenza è solo statistica). [Il mondo delle formiche rispecchia
quello umano. Come le formiche, anche gli uomini si affaccendano incessantemente
nelle loro attività, senza accorgersi della minaccia che la natura sospende di continuo
sul loro capo].

VI stanza: sono passati ben mille e ottocento anni dall’eruzione che distrusse
Pompei, ma ancora il villanello guarda con angoscia la vetta del vulcano distruttore, e
se vede i segnali premonitori di una nuova catastrofe (l’avvicinarsi della lava, il
gorgogliare dell’acqua nel pozzo) fugge via con i figli e la moglie, portando in salvo
quante più cose può, e osserva poi di lontano la loro casa («l’usato / suo nido») e il
loro piccolo podere, fonte di ogni sostentamento, finire in preda «al flutto rovente /
che crepitando giunge, e inesorato / durabilmente sovra quei si spiega».
Il visitatore che sosta tra le rovine di Pompei, riportate in luce dagli scavi
archeologici, contempla di lontano il Vesuvio che ancora minaccia i ruderi dell’antica
città distrutta. E nella notte piena di orrori tra quei ruderi corre il bagliore della lava
mortale che rosseggia lontano attraverso le ombre e tinge i luoghi tutt’intorno. [Sono
qui messi a confronto il tempo breve della storia dell’uomo e il tempo eterno della
natura]. Così, ignara dell’uomo e delle età ch’egli chiama antiche e del succedersi
delle generazioni («del seguir che fanno / dopo gli avi i nepoti»), la natura si
mantiene sempre giovane e vigorosa («verde»), e anzi procede così lentamente nel
suo cammino che a noi sembra restare ferma («sembra star»). Cadono intanto i regni,
si succedono genti e linguaggi diversi: ella non vi fa caso («nol vede»), e nonostante
questo l’uomo si arroga il vanto di essere eterno.

VII stanza: la canzone si chiude riallacciandosi circolarmente all’inizio. Il poeta


torna a rivolgersi alla ginestra: «E tu, flessibile ginestra, che adorni queste campagne
spoglie coi tuoi cespugli profumati, anche tu presto soccomberai alla forza crudele
(«crudel possanza») del fuoco sotterraneo, che, facendo ritorno al luogo già altra
volta visitato («già noto») stenderà il suo avido flutto [(«avaro lembo»): simile al
lembo di una veste] sui tuoi cedevoli arbusti («molli foreste»). E senza opporre
resistenza («non renitente») piegherai il tuo capo innocente sotto il peso mortale, ma
senza averlo inutilmente piegato [riferito al capo innocente] fino a quel momento
supplicando codardamente dinanzi al tuo futuro oppressore; ma senza averlo
innalzato con orgoglio verso le stelle né sul deserto, dove non per tua volontà ma per
caso («per fortuna») hai avuto i natali e la dimora («la sede»); ma più saggia, ma
tanto meno debole («inferma») dell’uomo, in quanto non hai creduto che le tue fragili
generazioni («le frali tue stirpi») siano rese immortali o per merito del destino o per
merito tuo.

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