Art. 4 Progetto: enuncia la regola generale, allo Stato si imputa la condotta dei suoi organi.
Paragrafo 1. “Il comportamento di un organo dello Stato è considerato come un atto dello Stato ai sensi del diritto
internazionale, sia che tale organo eserciti funzioni legislative, esecutive, giudiziarie o altre, qualsiasi posizione abbia
nell’organizzazione dello Stato e quale che sia la natura come organo del governo centrale o di una collettività
territoriale dello Stato”.
La disposizione è coerente con quanto abbiamo detto quando riflettendo sullo Stato come soggetto di diritto
internazionale dicendo che la nozione rilevante sul piano del diritto internazionale è quella di stato-apparato o stato-
organizzazione, per cui lo stato si identifica negli organi che esercitano l’imperio. Si tratta sia di organi con funzioni
legislative, esecutive e giudiziarie che di tutti gli enti pubblici, anche gli enti territoriali locali. La responsabilità che
viene in gioco è comunque quella dello stato, la condotta dell’ente si imputa allo Stato. Questo non è esplicitato dal
progetto di articoli, ma emerge dalla giurisprudenza della CIG: assimilazione tra organi de iure e organi de facto.
Agli organi dei iure dello Stato sono assimilati gli organi de facto dello Stato. L’articolo 4 nel paragrafo 2 dice che un
organo include qualsiasi persona o ente che ha quello status secondo il diritto interno dello Stato, quindi per
identificare quali siano gli enti o le persone che possiamo qualificare come organo dello stato la cui condotta si imputa
allo stato, il riferimento è al diritto interno. Questi sono gli organi de iure, ai quali il diritto interno dello Stato attribuisce
la qualifica di organo. La giurisprudenza della CIG ha sottolineato che sono da assimilare agli organi dei iure anche
quelli de facto, ossia le persone che agiscono in totale dipendenza dallo Stato.
Art. 7 Progetto
“Il comportamento di un organo di uno Stato (..) è considerato come un atto dello Stato ai sensi del diritto
internazionale se quell’organo agisce in tale qualità, anche se eccede la propria competenza o contravviene alle
istruzioni”.
Ci si chiede se sia da imputare allo Stato la condotta di un suo organo anche quando questo abbia agito al di fuori
della propria competenza o contravvenendo ad istruzioni ricevute. La questione è importante dal punto di vista
pratico: possono verificarsi, e si sono verificate nella prassi, situazioni nelle quali un organo statale agisce al di fuori
delle proprie competenze e contravviene a norme internazionali. Esempio: probabilmente la situazione più ricorrente
è quella in cui un organo di polizia realizzi dei comportamenti che costituiscono tortura. La tortura rientra nelle
condotte che costituiscono gross violations dei diritti umani ed è quindi vietata dal diritto internazionale cogente. Oltre
a ciò esistono delle convenzioni contro la tortura sia a livello universale (ONU) che a livello europeo di cui molti stati
sono parte contraenti. Tipicamente, questo si traduce in un quadro normativo interno agli Stati con norme che vietano
la tortura. Se un organo di polizia pone in essere comportamenti riconducibili alla tortura, lo stato va addirittura contro
a previsioni normative interne e dunque sta sicuramente eccedendo la propria competenza, dal momento che il diritto
interno vieta tale condotta. La domanda è quindi: gli atti di questo organo sono comunque imputabili allo Stato?
Il problema si è proposto concretamente davanti alla Corte europea dei diritti umani, perché la Convenzione
europea dei diritti umani vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, inoltre la convenzione prevede agli
individui vittime di violazioni dei diritti sanciti dalla convenzione la possibilità di adire la Corte. È capitato che alcune
persone vittime di tortura abbiano presentato dei ricorsi contro Stato responsabile di questi atti dinanzi alla Corte. Lo
stato potrebbe difendersi argomentando che l’organo che ha compiuto gli atti di tortura eccedeva le competenze e
che quindi quel comportamento non sarebbe imputabile allo Stato. Tuttavia, il progetto e la giurisprudenza della
Corte europea dei diritti umani, che costituisce prassi rilevante in questo senso, ci dice che non è così, ci dice che il
comportamento di un organo di uno Stato è considerato come un atto dello Stato ai sensi del diritto internazionale
se quell’organo agisce in tale qualità anche se eccede la propria competenza o contravviene alle istruzioni. È
comunque imputabile allo Stato la condotta dell’organo, anche se eccede la competenza e contravviene alle
indicazioni, purché l’organo agisca in tale qualità: si deve trattare di atti compiuti nel corso dell’esercizio delle
proprie funzioni. Se, degli agenti di polizia, torturano una persona, si tratta di atti compiuti nell’esercizio delle loro
funzioni, perché in quella situazione stanno agendo in qualità di organi dello Stato anche se eccedono la loro
competenza e quindi la loro condotta sarà imputabile allo Stato. C’è un’altra sentenza della CIG in un caso che
contrapponeva Congo-Uganda del 2006 in cui la Corte doveva valutare se fossero imputabili all’Uganda condotte
di militari ugandesi che si trovavano sul territorio del Congo e che potevano essere considerate condotte
contravvenute ad istruzioni. La Corte afferma che, trattandosi di militari, quindi di organi dello Stato, la loro condotta
si imputa allo Stato, indipendentemente dal fatto che abbiano contravvenuto a istruzioni o ecceduto la loro
competenza.
La questione della imputabilità allo Stato della condotta di privati: si può imputare allo Stato anche la condotta di
privati?
Precisazione circa gli organi de facto: diamo per acquisito che se una persona, non dotata dello status di organo,
agisce in totale dipendenza da uno Stato è da equiparare ad organo e fuoriesce dal discorso che ora andiamo a fare.
Evidentemente, coerentemente col discorso fatto fin qui, come regola generale, la condotta di semplici privati non si
imputa allo Stato, ma ci sono particolari situazioni nelle quali invece la condotta di un privato o di un gruppo di privati
è imputabile ad uno Stato. Approfondiamo il discorso alla luce della pertinente giurisprudenza della CIG. Le più
importanti disposizioni per discutere questo profilo sono l’articolo 8 e 11 del Progetto.
Art. 8 Progetto:
“Il comportamento di una persona o di un gruppo di persone è considerato un atto di uno Stato ai sensi del diritto
internazionale se la persona o il gruppo di persone di fatto agiscono su istruzioni, o sotto la direzione o il controllo
di quello Stato nel porre in essere quel comportamento”.
NB: controllo ≠ totale dipendenza (previsione organi de facto).
Approfondiamo la nozione di “controllo” che ha posto dei problemi interpretativi sui quali si sono pronunciate diverse
Corti:
• CIG, caso Nicaragua c. Stati Uniti (1986);
Il problema nasceva da alcuni comportamenti tenuti dai contras nicaraguensi: in Nicaragua in quegli anni vi era un
governo comunista, i contras erano un gruppo armato irregolare, si trattava di privati che lottavano contro il governo
ed erano fortemente sostenuti dal governo degli Stati Uniti attraverso finanziamenti e addestramenti. Quindi
certamente era indiscusso il fatto che vi fosse un controllo generale nei confronti di queste milizie irregolari da parte
degli Stati Uniti, il cosiddetto overall control, il problema era capire se allora fossero imputabili agli Stati Uniti alcune
condotte dei contras che nel corso di alcune operazioni militari avevano compiuto gravi violazioni dei diritti umani e
del diritto umanitario. Questo gruppo di privati aveva compiuto gross violations dei diritti umani, il punto era capire se
queste condotte potessero essere imputate agli Stati Uniti in considerazione dell’overall control che gli Stati Uniti
esercitavano sui contras. La CIG risponde ritenendo che quelle condotte non siano imputabili agli Stati Uniti, secondo
la CIG, per poter imputare quelle condotte agli Stati Uniti dovrebbe essere fornita alla Corte la prova che gli Stati
Uniti esercitavano un controllo effettivo su quelle azioni specifiche nel corso delle quali sono state commesse quelle
violazioni. In assenza di questa prova non si può imputare agli Stati Uniti la condotta. La CIG quindi contrappone al
concetto di controllo generale il concetto di controllo specifico, ossia il controllo specifico su quelle azioni che hanno
comportato quelle gravi violazioni dei diritti umani.
• Camera d’appello del Tribunale penale internazionale per la ex Iugoslavia, caso Tadic (1999);
Precisazione: il tribunale penale internazionale per la ex Iugoslavia è un tribunale istituito ad hoc per le vicende
intervenute nel processo di dissoluzione della ex Iugoslavia e di guerra civile. Il tribunale è penale quindi non risolve
controversie tra stati, ma giudica individui. Nel contesto del giudizio nei confornti di Tadic, la Camera d’appello del
tribunale penale internazionale, si trova a dover valutare se sia imputabile alla Repubblica federale di Iugoslavia la
condotta del gruppo paramilitare serbo-bosniaco, il cosiddetto “esercito della repubblica Srpska” responsabili del
genocidio di Srebenica. La questione è se la condotta di una milizia irregolare che si è tradotta in atti genocidari, nel
caso di Srebenica, sia imputabile allo Stato della repubblica federale di Iugoslavia poi divenuta Serbia Montenegro.
La camera si chiede questa cosa, non perché debba decidere della responsabilità internazionale della Repubblica
federale di Iugoslavia, ma perché deve valutare se il contesto nel quale è avvenuto il genocidio di Srebenica fosse
un contesto di conflitto armato internazionale o di conflitto armato interno. Se la condotta è imputabile alla repubblica
federale di Iugoslavia, il conflitto armato è internazionale e si applicano le regole relative ai conflitti armati
internazionali, altrimenti si applicano regole relativi ai conflitti armati interni (la questione dovrebbe essere vista come
interna alla Bosnia-Erzegovina). In questo contesto, in relazione a questa finalità per la quale deve pronunciarsi, la
camera d’appello dice che imputa alla Repubblica federale di Iugoslavia le condotte di queste milizie anche se ha la
prova solamente di un controllo generale e non anche di un controllo effettivo. Questi due concetti tornano in gioco:
era sicuramente provato che la Repubblica federale di Iugoslavia esercitasse un controllo generale su queste milizie,
ma non c’era la prova di un controllo effettivo in relazione al genocidio di Srebenica, ciononostante, discostandosi
dalla posizione della CIG del 1986, il tribunale penale internazionale per la ex Iugoslavia dice che si accontenta di
questo controllo generale per imputare alla rep la condotta di queste milizie. Quindi, si tratta di una posizione contraria
rispetto alla CIG nel 1986.
Questa vicenda delle tre sentenze è stata da taluni utilizzata per affermare il rischio di frammentazione del diritto
internazionale: ci sono tante corti, tanti rami del diritto internazionale, quindi il rischio è di avere prese di posizione
che si contraddicono tra di loro.
Tuttavia, è da notare che la stessa CIG nella sentenza del 2007, quando conferma il proprio iniziale orientamento si
preoccupa di giustificare perché la sua posizione è differente da quella del Tribunale penale internazionale dell’ex
Iugoslavia. La CIG dice che il tipo di valutazione che deve fare è diverso da quella del tribunale per l’ex Iugoslavia, il
quale non deve giudicare della responsabilità di uno stato, non è stato chimaamto a giudicare della responsabilità
internazionale della Repubblica federale di Iugoslavia. Ha dovuto valutare se fosse imputabile alla Repubblica
federale di Iugoslavia la condotta di quelle milizie perché doveva decidere se il conflitto fosse interno o internazionale
e quindi che diritto applicare. Quindi, in quel contesto, il tribunale penale per l’ex Iugoslavia poteva adottare un
approccio più estensivo. La CIG invece si trova a risolvere una controversia tra stati e giudicare esattamente e
precisamente della questione della responsabilità internazionale dello stato e deve essere necessariamente rigorosa
e quindi adottare un’interpretazione più restrittiva della nozione di controllo. Non basta un controllo generale dello
Stato su di un gruppo di privati per imputare la condotta allo Stato, occorre che sia dimostrato un controllo specifico
dello stato sulle specifiche azioni dei privati che hanno comportato violazioni di certe regole del diritto internazionale.
la CIG afferma che c’è una assoluta contrapposizione, le posizioni diverse si giustificano per contesto e fine del loro
giudizio.
Articolo 11 Progetto:
“Un comportamento che non è attribuibile ad uno Stato ai sensi degli articoli precedenti è nondimeno considerato un
atto di quello stato ai sensi del diritto internazionale se e nella misura in cui quello Stato riconosca e adotti il
comportamento in questione come proprio”.
La norma ha un rilievo residuale: si va ad applicare nel momento in cui nessuna delle precedenti disposizioni
consente di imputare una condotta ad uno Stato (articolo 4, articolo 8).
Per capire a quale situazione fare riferimento prendiamo in esempio la sentenza relativa al caso Stati Uniti c. Iran
(1980) relativo al sequestro e della detenzione del personale diplomatico e consolare statunitense nei locali
dell’ambasciata americana a Teheran da parte di un gruppo di studenti islamici.
In un periodo di forte tensione tra Stati Uniti e Iran, questi studenti islamici avevano sequestrato il personale
diplomatico e consolare statunitense a Teheran e in altre due città iraniane. Gli Stati Uniti adiscono la CIG quando
la vicenda è ancora in corso, quindi la pronuncia della CIG è antecedente alla conclusione della vicenda.
L’aspetto interessante è che la Corte suddivide la vicenda in due fasi e ritiene che solo nella seconda fase la
detenzione in ostaggio del personale diplomatico e consolare statunitense sia imputabile all’Iran.
Inizialmente c’era stata l’occupazione dei locali dell’ambasciata e la presa in ostaggio del personale diplomatico
consolari, ad un certo punto le massime autorità politiche iraniane, in particolare l’Ayatollah Khomeini, avevano
pubblicamente elogiato e sostenuto questa azione, cioè le autorità dell’Iran “hanno riconosciuto e adottato come
proprio il comportamento”. A partire da quel momento, la detenzione in ostaggio del personale diplomatico consolare
diventa imputabile all’Iran ed essendo in violazione delle norme di diritto internazionale sui rapporti diplomatici
consolari viene a costituire un illecito internazionale da parte dell’Iran.
Soffermiamoci anche sulla prima fase, punto che merita attenzione: l’occupazione e la detenzione del personale
non erano in quanto tali imputabili all’Iran, ma questo non significa che non vi fosse già in quella fase un illecito
internazionale da parte dell’Iran, infatti, non era imputabile loro l’occupazione dei locali e la presa in ostaggio del
personale, ma comunque c’era un illecito perché le regole del diritto diplomatico e consolare codificate nelle
convenzioni di Vienna del 1961 (relazioni diplomatiche) e 1963 (relazioni consolari) impongono allo stato territoriale
l’obbligo di fornire adeguata protezione ai locali dell’ambasciata e al personale. Nella sua sentenza, la CIG dice che
l’Iran era a conoscenza del rischio che ci potesse essere questa azione da parte degli studenti islamici, infatti, quando
l’azione ha avuto inizio, è giunta, da parte del personale diplomatico consolare degli Stati Uniti, una richiesta di aiuto
ai cui l’Iran non ha dato seguito. L’Iran nella prima fase ha commesso un Illecito omissivo: ha omesso di prendere
le misure che avrebbero garantito protezione ai locali dell’ambasciata e del personale.
Mutatis mutandis, anche nel caso Bosnia Erzegovina contro Serbia Montenegro si può fare un discorso simile: non
essendo dimostrato il controllo effettivo sulle milizie non era imputabile alla Serbia Montenegro il genocidio di
Srebenica, quindi la Serbia non aveva violato a questo titolo la Convenzione sulla prevenzione e repressione del
genocidio, ma la Convenzione obbliga gli stati parte non solo a non commettere atti di genocidio, ma anche di
prevenirli. (Prevenire crimini di genocidio= poter fare tutto quanto nelle possibilità dello stato perché non si verifichi
un genocidio). Secondo la CIG la Serbia Montenegro non aveva adempiuto completamente agli obblighi discendenti
dalla Convenzione.
Art. 13 Progetto
“Un atto di uno Stato non costituisce una violazione di un obbligo internazionale a meno che lo Stato sia vincolato
dall’obbligo in questione al momento in cui l’atto è compiuto”.
Regola che si sintetizza con l’espressione latina tempus regit actum: prendiamo il caso di un accordo internazionale
e di uno stato che sia parte dell’accordo e quindi vincolato dalle disposizioni dell’accordo a partire dal momento in
cui l’accordo è entrato in vigore nei suoi confronti. Se l’atto risale ad un momento precedente, nel quale lo Stato non
era ancora vincolato dal rispetto dell’accordo, naturalmente non sussiste l’elemento oggettivo dell’illecito. Da questo
punto di vista è importante stabilire il tempus commissi delicti: il momento in cui viene commesso un determinato
atto. In questo senso, il Progetto precisa che ci sono diverse tipologie di comportamenti illeciti:
• illeciti a carattere istantaneo: si compiono e si perfezionano in uno specifico momento;
• illeciti a carattere continuativo che perdurano nel tempo, esempio: la illecita detenzione del personale diplomatico
e consolare non è un illecito istantaneo,non si compie in un preciso specifico momento e non si esaurisce in quel
momento, ma perdura nel tempo. Il progetto definisce una serie di regole volte a precisare quale sia il tempus
commissi delicti a seconda della tipologia di illecito per poter incrociare questo con la regola tempus regit actum.
Art. 26 Progetto
“Nessuna diposizione del presente capitolo esclude l’illeceità di qualsiasi atto di uno Stato che non sia conforme ad
un obbligo derivante da una norma imperativa del diritto internazionale generale”.
Specifico riferimento alle norme imperative di internazionale generale. L’articolo 26 ci dice che nel caso di un illecito
rappresentato dalla violazione di una norma di jus cogens le cause di esclusione non possono essere fatte valere.
Ricordiamo che le norme di jus cogens esprimono valori fondamentali della comunità internazionale, quindi sono
inderogabili.
Analizziamo più specificamente le singole circostanze di esclusione dell’illecito, partiamo da una prima causa di
esclusione dell’illeceità internazionale che è il consenso dello Stato leso (art. 26 Progetto).
Art. 20 Progetto:
Il valido consenso di uno Stato alla commissione di un determinato atto da parte di un altro Stato esclude l’illeceità
di quell’atto in relazione al primo Stato nella misura in cui l’atto non ecceda i limiti del consenso”.
Esempio: uno Stato autorizza lo svolgimento sul suo territorio di atti coercitivi da parte di organi stranieri, per esempio
la cattura di un criminale o una operazione volta alla liberazione di ostaggi. Se gli organi di polizia di uno Stato, quindi
gli organi di uno Stato, compiono operazioni non autorizzate sul territorio di un altro Stato, stanno compiendo un
illecito internazionale, perché tali azioni costituiscono violazioni della sovranità territoriale dell’altro Stato, a meno che
non siano autorizzati dallo Stato territoriale. La regola della sovranità territoriale è prevista dal diritto consuetudinario.
Ha rappresentato un illecito internazionale in quanto violazione della sovranità territoriale l’operazione con cui agenti
dei servizi segreti israeliani catturarono in argentina il criminale nazista Eichmann senza aver ottenuto
l’autorizzazione delle autorità argentine. In altri casi operazioni di forze speciali, di agenti dei servizi segreti, di organi
di polizia in un altro stato sono autorizzate dalle autorità dello Stato territoriale, quindi in questo senso abbiamo un
consenso prestato dallo Stato leso che opera come causa di giustificazione e fa venir meno quindi l’illeceità di quel
comportamento, sempre che non si arrivi a consfigurare una violazione di norma di diritto cogente (art. 26 Progetto).
Ci potrebbe venire in mente l’ipotesi delle extraordinary renditions per cui i servizi segreti USA hanno catturato
persone nel territorio di uno Stato che magari ha anche prestato il consenso a questo fine perché le persone fossero
trasferite in un terzo Stato e per essere ivi torturate. Il divieto di tortura è previsto da norma di jus cogens, anche se
ci dovesse essere stato un consenso dalle autorità territoriali alla cattura di quelle persone, non viene meno l’illeceità
della condotta sia dello Stato che ha catturato le persone sia quello che attraverso il suo consenso ha favorito
l’operazione di cattura.
Esempio: sentenza CIG nel 1997 nel caso Ungheria contro Slovacchia. La CIG afferma che, se non si fosse voluto
considerare estinto il trattato, il mancato adempimento del trattato da parte dell’Ungheria non avrebbe rappresentato
un illecito internazionale a motivo dall’operare della causa d’illiceità rappresentata dallo stato di necessità. In
sostanza, l’Ungheria diceva che non aveva adempiuto agli obblighi previsti dal trattato perché ciò avrebbe comportato
gravi danni all’ambiente naturale e, diceva l’Ungheria, la salvaguardia dell’ambiente rappresenta un interesse
essenziale dello Stato. La CIG risponde: in premessa, la Corte ritiene che lo stato di necessità sia una causa di
esclusione dell’illecito previsto dal diritto consuetudinario e ne elenca le condizioni che dice la Corte, rispecchiano il
diritto consuetudinario, la sentenza è del 1997, un Progetto di articoli era già stato approvato nel 1996 e prevedeva
una norma analoga all’articolo 25. La Corte poi passa ad esaminare se sussistano le condizioni, la prima domanda
è se la tutela dell’ambiente rappresenti un interesse essenziale dello Stato ungherese. La CIG risponde
affermativamente e chiarisce che, in questo contesto, non si deve ridurre a interesse essenziale dello Stato la sua
sola esistenza (interpreta in modo ampio il concetto di interesse essenziale). In seguito, la CIG ritiene che anche
ammesso che il pericolo corso dall’ambiente naturale fosse grave, non poteva essere ritenuto sufficiente certo, quindi
imminente. Inoltre, ritiene che l’Ungheria avrebbe potuto ricorrere ad altri mezzi per far fronte ai pericoli che
paventava, ci potevano essere altre vie per tutelare l’ambiente naturale. L’Ungheria ha anche contribuito al verificarsi
dello Stato di necessità che si è venuto a verificarsi. Quindi, in definitiva la Corte dice che più di una condizione tra
quelle previste all’articolo 25 secondo la Corte non sussistono e quindi lo Stato di necessità nel caso di specie non
può essere fatto valere come causa di esclusione dell’illecito e quindi sussiste un illecito derivante dal mancato
adempimento dell’Ungheria agli obblighi stabiliti con l’accordo del 1997.
Negli anni più recenti, negli ultimi due decenni, il riferimento allo stato di necessità è stato rilevante soprattutto nel
caso di quegli Stati che hanno invocato una sorta di necessità economico-finanziaria, cioè hanno invocato una grave
crisi economica come giustificazione per non adempiere al pagamento di debiti internazionali. Esempio: Argentina,
anni 2000 e più recentemente con riferimento alla Grecia. Ci sono due piani del discorso da tenere ben distinti:
• i debiti internazionali: che uno stato contrae nei confronti di altri Stati o organizzazioni internazionali sulla base
di accordi internazionali: illecito internazionale derivante dal mancato pagamento di tali debiti e possiamo più
propriamente discutere dello stato di necessità come causa di esclusione.
• I debiti contratti verso privati: non abbiamo un accordo internazionale, abbiamo un rapporto privatistico, ma
mutatis mutandis è stato invocato il principio di necessità in relazione anche a questi debiti.
Può essere fatto valere lo stato di necessità come causa di esclusione dell’illecito internazionale.
Di regola, lo Stato ha contribuito con la sua condotta al verificarsi dello stato di necessità e quindi non la può far
valere come causa di giustificazione dell’illecito. È una questione complessa, ci sono state varie sentenze nel caso
dell’Argentina.
Conforti si chiede se a questo elenco di cause di esclusione dell’illecito non se ne debba aggiungere un’altra, e
sembra favorevole all’aggiunta, rappresentata dalla necessità per uno Stato di rispettare i principi fondamentali della
propria costituzione. Troviamo un’eco della teoria dei controlimiti che nel rapporto tra fonti e ordinamenti ha portato
nel caso italiano alla sentenza 238 del 2014 della nostra Corte costituzionale. Si può evocare la necessità di rispettare
i principi fondamentali della costituzione come causa di esclusione dell’illecito? Lo Stato ha violato una norma
internazionale perché era l’unico modo per rispettare un principio fondamentale della costituzione. Conforti sembra
orientato ad accettare questa causa di esclusione dell’illecito, ma il progetto di articoli è assolutamente contrario a
questa ipotesi e anche la maggior parte della dottrina.
Art. 3 Progetto: la qualificazione di un atto dello Stato come internazionalmente illecito è disciplinata dal diritto
internazionale e su tale qualificazione non influisce la qualificazione dello stesso atto come lecito in base al diritto
interno. Cioè: il diritto interno non può giocare un ruolo sul fatto di qualificare un atto internazionalmente lecito oppure
no, solo il diritto internazionale può giocare un ruolo in questo senso.
Con ciò diamo per conclusa la prima parte del discorso sulla responsabilità internazionale dello Stato e in particolare
gli elementi costituivi dell’illecito. Non rientra nel programma dei frequentanti il paragrafo che tratta la questione della
domanda se ci siano altri elementi costitutivi dell’illeciti: la colpa e il danno. Chiedersi se il danno è elemento
costitutivo dell’illecito significa chiedersi se affinchè vi sia un illecito è necessario che i comportamento illecito di uno
Stato causi un danno ad un altro sTtao, la risposta è sicuramente negativa, il danno viene in rilievo su un discorso
circa le conseguenze di un illecito. Esempio: norme sui diritti umani, una violazione dei diritti umani die propri cittadini
non si ha un danno a carico di una ltro Stato, ma comunque l’illecito c’è. Chiedersi della colpa significa chiedersi se
è necessario dimostrare che una deteerinata condotta illecita sia stata tenuta dallo Stato intenzionalemnte (dolo),
oppure senza prestare tutta la dovuta diligenza (colpa), anche qui, la risposta è negativa. Ci possono essere singoli
illeciti internazionali che per la loro stessa deifnizione richiedono ciò, ma non vale come rgeole generae. il genocidio
è illecito che per definizione ha un elemento di intenzionalità, ma quetso vale per lo specifico illecito internazionale
Conforti considera artificiosa la ricostruzione delle conseguenze dell’illecito nei termini di un nuovo rapporto giuridico.
Piuttosto l’elemento centrale dovrebbe essere considerato l’autotutela → altre ricostruzioni teoriche danno maggiore
rilievo al profilo della autotutela, cioè al “farsi giustizia da sé”, che nel progetto della CDI assume invece un carattere
strumentale rispetto alla riparazione. Secondo Conforti, in una comunità anarchica come quella internazionale, le
conseguenze dell’illecito andrebbero lette avendo riguardo ai rapporti di forza e quindi alla possibilità da parte dello
stato leso di farsi giustizia da sé attraverso gli strumenti di autotutela, che poi sono essenzialmente due: le
contromisure; la legittima difesa. L’autotutela non è assente dal progetto di articoli della CDI che dedica alle
contromisure la parte terza del progetto, ma nell’impostazione della CDI centrale è l’obbligo per lo stato offensore di
fornire riparazione e il ricorso alle contromisure è concepito come funzionale a questo scopo. La seconda parte è
dedicata alla riparazione, la terza alla contromisura con articoli molto chiari nel precisare questo carattere strumentale
delle contromisure rispetto alla riparazione.
Conforti, trattando ampiamente dell’autotutela, affronta in unico paragrafo entrambi i temi delle contromisure e della
legittima difesa (forme dell’autotutela).
NB: la legittima difesa è oggi possibile come reazione alla sola aggressione armata di uno stato nei confronti di un
altro. Siccome il tema della legittima difesa è strettamente legato al tema della forza lo affronteremo più avanti
(disciplina uso della forza).
La seconda parte del progetto di articoli: il contenuto della responsabilità internazionale dello Stato. Parte del progetto
che delinea i contenuti della norma secondaria.
Art. 30 (lett. a): il progetto prevede a carico dello Stato offensore, l’obbligo di cessazione dell’illecito che ha rilievo
nel caso in cui l’illecito abbia carattere continuativo. Detenzione in ostaggio del personale diplomatico statunitensa
imputabile da un certo momento in poi all’Iran e avente carattere continuativo.
L’obbligo di non reiterazione dell’illecito, o più precisamente, l’obbligo per lo Stato offensore di offrire adeguate
assicurazioni e garanzie di non reiterazione se le circostanze lo richiedono” (art. 30, lett. b).
Art. 31: l’obbligo di “prestare integrale riparazione per il pregiudizio causato dall’atto internazionalmente illecito”,
pregiudizio che comprende tanto i danni materiali quanto quelli morali.
I successivi articoli specificano le forme che le riparazioni possono assumere, e sono tre:
• Restituzione (restitutio in integrum) / restituzione in forma specifica: ristabilire la situazione che esisteva
prima che l’illecito fosse commesso, purchè ciò non sia materialmente impossibile e non comporti un onere
sproporzionato. Se uno stato detiene illecitamente un oggetto, deve restituirlo o per stabilire esattamente la
situazione che c’era prima che l’illecito venisse commesso (art. 35).
• Risarcimento del danno causato dall’illecito, che copre ogni danno suscettibile di valutazione economica,
dunque nella sostanza i danni materiali (art. 36 Progetto). Riguarda i pregiudizi economico-patrimoniali, la
norma critica la generalità della norma, critica il fatto che il Progetto di articoli assuma che il risarcimento sia
dovuto in relazione a qualunque illecito internazionale che causi danni materiali. Secondo Conforti,
guardando globalmente alla prassi internazionale, non è così. La prassi dalla quale trae ispirazione il
progetto di articoli è relativa al trattamento degli stranieri, le conseguenze dell’illecito e le forme di riparazione
sono lette nei termini del risarcimento del danno, ma ci sono altri illeciti internazionali in cui non entra in
gioco. Secondo Conforti, forse si potrebbe interpretare questa norma come sviluppo progressivo e non
codificazione del diritto internazionale consuetudinario.
• Soddisfazione, nel caso di danni morali; essa può consistere per esempio, nel riconoscimento della
violazione o nella presentazione di scuse ufficiali (art. 37 progetto). Versamento di una somma simbolica. Ci
sono casi in cui sentenze della CIG il fatto che nella sentenza venisse riconosciuta la violazione del diritto
internazionale ad opera di una delle parti potesse rappresentare un’adeguata soddisfazione. Caso di
soddisfazione, cattura del criminale Eichmann in Argentina, violazione della sovranità Argentina da parte di
Israele a seguito del quale sono state presentate scuse ufficiali da parte di Israele all’Argentina (chiedi). Caso
famoso della Rainbow Warrior, nave dell’associazione ambientalista Greenpeace che mentre era alla fonda
nel porto di Oakland, venne fatta oggetto di un’azione da parte di agenti francesi che la fecero esplodere con
ciò determinandosi una controversia le cui parti erano FR e NZ che aveva ritenuta violata la propria sovranità
territoriale. La controversia viene risolta a seguito di una mediazione da parte del Segretario generale
dell’ONU raggiungendo un accordo tra FR e NZ che prevedeva che i due agenti francesi responsabili del
sabotaggio fossero inviati al confino per tre anni in un’isola della Polinesia. Uno di questi due agenti si
ammala nel corso del confino e la FR li rimpatria violando l’accordo con la NZ compiendo un illecito, forse
giustificabile nel caso dell’agente ammalato che rischiava la vita per cui si poteva far valere una causa di
giustificazione dell’illecito quella di estremo pericolo di stress. La questione è sottoposta a un tribunale
arbitrale sentenza dle 1990 che si pronuncia quando propriamente era scaduto il triennio dice, di fronte alla
pretesa della NZ di rinviare gli agenti a completare il triennio, esclude la possibilità di restitutio in integrum
data la conclusione del triennio. Conforti è molto critico nei confronti di questa sentenza. Dal punto di vista
del diritto internazionale gli attori della controversia sono Francia e Nuova Zelanda perché Green Peace è
una ONG, non è un soggetto internazionale.
Non è obbligatorio violare a titolo di contromisura la stessa norma internazionale violata dall’autore dell’illecito, a
titolo di contromisura è legittimo violare una norma completamente diversa. Conforti dice che più del rispetto del
limite della proporzionalità lo Stato deve fare in modo che le contromisure non siano manifestamente sproporzionate
rispetto all’illecito subito. Questo è un discorso di diritto internazionale generale, ma nel contesto dell’OMC e le regole
della soluzione delle controversie tra gli stati membri è un contesto pattizio molto particolare in cui entra in gioco un
organo di soluzione delle controversie e organi quasi giudiziari che possono esser anche chiamati a valutare in che
misura siano ammissibili delle forme di contromisure. Sono regimi particolari che necessitano uno studio ad hoc.
Il progetto, oltre a fissare i limiti delle contromisure, detta delle condizioni per il ricorso alle contromisure, condizioni
dalle quali emerge il discorso per cui le contromisure, secondo l’impostazione teorica del progetto, sono strumentali
alla riparazione. Invece, in Kelsen l’autotutela ha finalità principalmente punitive. Il progetto prevede che lo Stato lesa
debba comunicare allo Stato autore dell’illecito la propria decisione di adottare delle contromisure e offrissi di
negoziare con quello Stato, fatta slava la possibilità di adottare delle contromisure urgenti se ciò è necessario per
preservare i propri diritti (52)
Il ricorso a contromisure deve cessare, non appena lo stato responsabile dell’illecito abbia fornito integrale
riparazione (art. 53) → ciò fa chiaramente intendere che, nella logica del Progetto, le contromisure sono funzionali
alla riparazione e non hanno invece finalità punitiva (vedi anche art. 49 del Progetto).
Se due Stati hanno una diversa opinione circa la proporzionalità della contromisura, viene meno la causa di
esclusione per la parte eccessiva della misura, soluzione della controversia.
Il progetto all’art. 48 è previsto che gli stati diversi da quello leso possano invocare la responsabilità dello
stato autore dell’illecito, NON ricorrere a contromisure. Significa prendere posizione per assicurare la
cessazione dell’illecito e la riparazione. Il progetto prevede anche un regime di responsabilità aggravata
in caso di gravi violazioni di norme imperative artt. 40,41. Questa parte del progetto è stata
depotenziata, perché nel progetto approvato in prima lettura si arrivava a parlare in questi casi di crimini
internazionali da parte di stati. Questo linguaggio nel progetto definitivo 2001 è scomparso, il linguaggio
penale resta fuori. Ne consegue quanto previsto dall’art. 41: “gli stati devono cooperare per porre fine con
mezzi leciti a questi tipi di violazioni”
Un ulteriore punto di partenza è l’obbligo per gli stati di risolvere pacificamente le loro
controversie. Quest’obbligo è enunciato nella carta delle nazioni unite, all’art. 2 par. 3, carta ONU: “i
membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici in modo tale che la pace e
sicurezza internazionale e giustizia non siano messe in pericolo”, è correlato con il par.4 in cui è enunciato
il divieto di uso della forza armata nelle relazioni internazionali. Il paragrafo 3 enuncia in maniera
autonoma l’obbligo di risolvere pacificamente le
controversie e si ritiene che non sia solo previsto da una disposizione pattizia, ma anche una
corrispondente norma internazionale generale consuetudinaria che vincola quindi tutti gli stati, non solo i
membri delle nazioni unite.
Funzione conciliativa del consiglio di sicurezza ai sensi del capitolo VI della carta Parliamo di
funzione conciliativa in senso lato. Non è come la conciliazione vista sopra. Si usa un’espressione
che più in generale riguarda l’azione diplomatica e la possibilità di ricorrere a mezzi di risoluzione
diplomatica. Dalla norma del capitolo sesto della carta ONU dagli art. 33 a 38 il consiglio di sicurezza
può: - rivolgere alle parti un invito generico a risolvere la controversia in modo pacifico
- Raccomandare lo specifico procedimento che ritiene adeguato alla soluzione della controversia, è
un invito specifico in cui tra i vari possibili mezzi di soluzione il consiglio indica quale sia il mezzo più
adeguato. - Raccomandare i cosiddetti termini di regolamento, ossia proporre alle parti come risolvere
nel merito la loro controversia. Quest’ipotesi è coincidente con l’istituto della conciliazione.
Attenzione: la funzione conciliativa, nel sistema ONU, non è esclusiva del consiglio di sicurezza, ma è
esercitata anche da:
- assemblea generale (previsto espressamente dalla carta ma con un limite: l’assemblea deve astenersi
ad intervenire su questioni di cui si sta già occupando il consiglio di sicurezza)
- dal segretario generale (nel caso Rainbow Warrior era stato chiesto al segretario di trovare una soluzione
per la controversia e le parti si sono impegnate a rispettare quella soluzione).
- Inoltre la carta prevede che una tale funzione sia svolta anche da organizzazioni o accordi regionali
(OSCE).
Nel capitolo settimo della carta il consiglio di sicurezza dispone di poteri più significativi e può arrivare ad
adottare decisioni di carattere vincolante. Nel capitolo ottavo la carta da rilievo ad accordi regionali che
sono volti a favorire il dialogo tra gli stati e favorire una soluzione delle controversie che possono sorgere
tra essi.
art. 27, par. 3 carta ONU: quando il consiglio delibera ai sensi del capitolo sesto, dell’esercizio della
funzione conciliativa, rispetta il principio nemo judex in rec sua: se un membro è coinvolto non può
esprimersi sulla controversia, è tenuto all’astensione. Lo stesso non vale per il capitolo settimo.
Soluzione delle controversie, più precisamente ai mezzi giurisdizionali di soluzione delle controversie,
distinzione tra le due categorie di mezzi di risoluzione delle controversie che hanno in comune la natura
necessariamente pacifica, superamento rispetto alla diplomazia dei cannoni. Tuttavia, al netto di questo
primo elemento comune, le due categorie presentano degli elementi propri che le distinguono in maniera
profonda. I mezzi diplomatici di soluzione delle controversie sono essenzialmente politici e consistono nel
raggiungimento di una soluzione comune, negoziata, comunemente accettata, anche nei casi
dell’intervento di un terzo, l’elemento politico è visibile e tangibile. Invece la politica, la diplomazia, gli
aggiustamenti e le concessioni reciproche non hanno alcun diritto di cittadinanza nei mezzi giurisdizionali
di soluzione delle controversie. La soluzione è conforme a diritto, viene individuata compatibilmente con
le regole di diritto internazionale applicabili. Questo è l’elemento di cesura più netta che marca la
distinzione tra le due categorie.
Formula Mavrommatis
“A disagreement on a point of law or of fact, a conflict of legal views or of interests between two legal
persons”. - PCIJ, Mavrommatis Palestine Concession, 1924
La Formula Mavrommatis dice tutto e niente, è generica ed ampia, perché potenzialmente ogni frizione
fra stati può essere fatta rientrate nel perimetro di questa nozione che quindi è voliutamente ampia,
generica e neutra. Descrive in maniera accurata quello che può spingere due o più stati a rivolgersi a uno
degli strumenti di soluzione delle contorversie internazionali soprattutto giurisdizionali. Un disaccordo che
riguarda:
• L’esistenza di una regola: ad esempio, norma consuetudinaria, pretesa italiana dell’esistenza di una norma
consuetudinaria in virtù del quale la regola sull’immunità non valeva in relazione alle gravi violazioni dei diritti
umani ad opera della Germania. Ciò che veniva chiesto alla CIG era se la norma esistesse oppure no.
• L’interpretazione di una regola
• Le conseguenze dell’applicazione/della violazione di tale norma
• L’esistenza di elementi di fatto relativi alla sua applicazione
In molti casi non verte nemmeno sulla violazione di una norma, ma dalle conseguenze che da essa discendono. Alla
prova dei fatti, la nozione di controversia è veramente suscettibile di assumere qualsivoglia contenuto, è molto
versatile e malleabile. Dietro la sua formulazione c’è un obiettivo di policy, ossia di dilatare la nozione di controversia
così da abbracciare il maggior numero di casi e risolverli secondo diritto.
Una controversia come disaccordo espresso o manifesto: affinché ci sia una controversia, non è necessario che
ci sia una contrapposizione muscolare tra stati, anzi è totalmente irrilevante. Occorre che ci sia una distanza, una
asimmetria tra l’atteggiamento incarnato dallo stato A e dallo stato B e l’impossibilità di conciliare questi punti di vista.
Tutte le controversie che si prestano a soluzione tramite mezzi giurisdizionali sono controversie giuridiche, gli Stati
adoperando l’etichetta di controversia politica sottraevano alla cognizione di istanze giurisdizionali intere materie,
questa tendenza è andata affievolendosi → tutte le controversie relative al diritto internazionale sono giuridiche. A
difesa degli Stati della controversia politica non è più una scusa che si può opporre.
Conforti adotta una spiegazione diacronica, storica dell’evoluzione della funzione giurisdizionale, è sicuramente
corretta ma dobbiamo tenere presente che l’evoluzione della funzione giurisdizionale avviene per stratificazione,
non per sostituzione del modello successivo a quello precedente. Cioè: non avviene attraverso il superamento delle
ipotesi precedenti →nulla vieta nel 2021 di fare ricorso alle strutture più elementari tipiche del diritto internazionale
più risalente. Nell’evoluzione dei mezzi giurisdizionali di risoluzione delle controversie si è assistito a una
istituzionalizzazione crescente, che rappresenta un chiaro segno di modernità e progresso dell’ordinamento,
perché nel diritto internazionale più classico l’arbitrato era sempre ad hoc (o isolato): dopo l’insorgere di una
controversia, i due Stati decidevano di individuare un terzo, stabilire le regole di procedura, il diritto internazionale
applicabile perché il terzo potesse dirimere la controversia. La CIG è permanente, con sua struttura, con regole di
procedura fissate e dettagliate, c’è un abisso nel mezzo. Questo non vuol dire che la creazione della CIG abbia
soppiantato quello che c’era prima, perché nulla vieta a due Stati di stipulare oggi un accordo ad hoc, di individuare
un terzo, una persona fisica singola o un collegio arbitrale composto da 3 o 5 membri, di dotarlo delle regole di
procedura e sostanziali e di affidargli il compito di dirimere la controversia. Anche in questo gli Stati godono della
massima libertà, in estrema sintesi se vogliamo individuare differenze tra arbitrato e regolamento giudiziale il criterio
fondamentale è quello della natura più o meno permanete, più o meno strutturata, più o meno istituzionalizzata.
Massimizzare i modi di manifestazione del consenso e renderli sempre più comodi, semplici da utilizzare per gli stati,
obbedisce agli obiettivi di massimizzare l’ambito di applicazione della soluzione giurisdizionale delle controversie e
di sottrare al dominio delle valutazioni politiche e alla soluzione diplomatica delle controversie internazionali i problemi
che di giorno in giorno si pongono.
Gli Usa hanno ritirato la propria dichiarazione, posizione di forza rispetto agli obblighi del diritto internazionale, gli
Stati sono allo stesso tempo i destinatari e i creatori delle regole di diritto internazionale, possono adottare e anche
sottrarsi al rispetto di un obbligo. La soluzione giurisdizionale è tale da scontentare le parti a volte, proprio perché
conforme a diritto e non tiene conto dei desideri delle parti.
Vengono utilizzate in dottrina della espressione che sono “aperta” e “chiusa” per riferirsi alle clausole compromissorie
e ai trattati generali di arbitrato. In realtà, nel primo caso lo strumento designa anche l’istanza competente, nell’altro
caso designa solo l’obbligo per gli Stati di stipulare un accordo per individuare l’istanza competente al momento
dell’insorgere della controversia (obbligo de contrahendo, ossia obbligo di sottoporre la contorversia a
rbitrato/regolamento giudiziale). La differenza sta nel livello di dettaglio dello strumento: se lo strumento designa o
meno l’istanza competente (vedi ad esempio, art. IX convenzione contro il Genocidio, in cui viene designata la CIG).
Notazione sulla CIG: le competenze della CIG sono di tipi contenziosa e consultiva.
• Competenza consultiva: parere relativo al Kossovo e isole Chagos, non rappresenta soluzione giurisdizionale
alle controversie in senso proprio, bensì l’adozione di un parare che illustri la disciplina che si applica a un
determinato problema. Articolo 96. 1. L'Assemblea Generale od il Consiglio di Sicurezza possono chiedere alla
Corte Internazionale di Giustizia un parere consultivo su qualunque questione giuridica. 2. Gli altri organi delle
Nazioni Unite e gli istituti specializzati, che siano a ciò autorizzati in qualunque momento dall'Assemblea
Generale, hanno anch'essi la facoltà di chiedere alla Corte pareri su questioni giuridiche che sorgano nell'ambito
delle loro attività.
• Competenza contenziosa: controversie interstatali (o tra Stati) riguarda solo gli Stati (art. 34 par. 1 Statuto
CIG). Il ruolo del consenso è un corollario del principio di uguaglianza sovrana. Controversia rispetto alla quale
ancora oggi, nonostante la istituzionalizzazione crescente dell’ordinamento internazionale, il consenso risulta
ancora imprescindibile. Il consenso si manifesta con: Ad hoc; Consenso previo; Dichiarazione di accettazione
della competenza della Corte.