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CANTO 11

A quel punto il mio maestro procedette per un sentiero nascosto, tra le mura e le tombe, e io lo seguii.
Gli chiesi: «O sommo sapiente, che mi conduci per i Cerchi infernali, ti prego di rispondermi e soddisfare il
mio desiderio.
SI potrebbero vedere i dannati che giacciono nelle tombe? Tutti i coperchi sono sollevati e nessun demone fa
loro la guardia».
E lui a me: «Saranno tutti richiusi quando le anime torneranno qui dalla valle di Giosafat coi corpi che hanno
lasciato sulla Terra.
In questo punto del cimitero sono puniti Epicuro e tutti i suoi seguaci, che proclamano la mortalità
dell'anima.
Perciò ben presto sarà soddisfatto il desiderio che mi hai svelato, e anche quell'altro (vedere Farinata) che
tu non vuoi dirmi».
E io: «Mia buona guida, io non ti nascondo i miei pensieri se non per parlare poco, e sei stato proprio tu a
insegnarmelo in varie occasioni».

«O toscano, che te ne vai per la città del fuoco parlando in modo così dignitoso, abbi la compiacenza di
trattenerti.
Il tuo accento indica che sei nato in quella nobile patria alla quale, forse, fui troppo fastidioso».
Questa voce uscì improvvisamente da una delle tombe, per cui ebbi paura e mi strinsi un poco al mio
maestro.
Ed egli mi disse: «Voltati, che fai? Non vedi laggiù Farinata che si è sollevato? Lo puoi vedere dalla cintola in
su».
Io avevo già fitto il mio sguardo nel suo; e lui si ergeva con la fronte e il petto alti, come se disprezzasse
tutto l'Inferno.
E le mani di Virgilio, pronte e animose, mi spinsero fra le tombe verso di lui, mentre il maestro diceva: «Fa'
che le tue parole siano misurate».

Non appena fui ai piedi della sua tomba, mi guardò un poco e poi, quasi con disdegno, mi domandò: «Chi
furono i tuoi avi?»
Io, che ero smanioso di obbedire, non glieli nascosi ma, anzi, risposi pienamente; allora lui sollevò un poco le
ciglia, poi disse: «Essi furono aspri nemici miei, dei miei avi e della mia parte politica (Ghibellini), al punto
che per due volte li cacciai da Firenze».
Io gli risposi: «Se essi furono cacciati, tornarono poi da ogni parte, in entrambe le occasioni; ma i vostri avi,
invece, non furono altrettanto bravi».
In quel momento apparve alla nostra vista un'anima, che si sporgeva accanto a quella di Farinata fino al
mento: credo che fosse inginocchiata.

Mi guardò intorno, come se avesse desiderio di vedere se c'era qualcun altro con me; e poi che smise di
osservare, mi disse piangendo: «Se tu vai per questo cieco carcere per i tuoi meriti di intellettuale, dov'è mio
figlio? E perché non è qui con te?»
E io a lui: «Non sono qui per mio solo merito: colui che attende là (Virgilio) mi conduce attraverso l'Inferno
verso colei (Beatrice) che vostro figlio Guido, forse, ebbe a disdegno (disprezzò)».
Le sue parole e il fatto che fosse tra gli Epicurei mi avevano fatto capire il nome di costui (Cavalcante);
perciò risposi così prontamente.
E lui, improvvisamente sollevatosi, gridò: «Come? Hai detto "egli ebbe"? Guido non vive ancora? la dolce
luce del sole non colpisce più i suoi occhi?»
Quando si accorse che esitavo a rispondere, ricadde supino e non ricomparve più fuori dalla tomba.
Ma quell'altro nobile dannato, alla cui domanda mi ero fermato, non mutò aspetto, né parve minimamente
colpito dall'accaduto:
e proseguendo il discorso iniziato, disse: «Se i miei avi hanno appreso male l'arte di rientrare in Firenze, ciò
mi procura più sofferenza di questa tomba.
Ma non passeranno cinquanta fasi lunari (meno di quattro anni) che anche tu saprai quant'è dolorosa
quell'arte.
E ora dimmi (e possa tu tornare nel dolce mondo terreno): perché i fiorentini sono così duri in ogni loro
provvedimento contro la mia famiglia?»
E io a lui: «Lo strazio e l'orrenda strage di Montaperti, che colorarono di rosso il fiume Arbia, ci induce a
emanare queste leggi».
Dopo che ebbe scosso il capo sospirando, disse: «Non fui certo il solo a combattere quella battaglia, né certo
ci sarei andato senza una valida ragione.
In compenso fui l'unico a difendere Firenze a viso aperto, quando ciascun capo ghibellino era pronto a
raderla al suolo».
Allora lo pregai: «Orsù, possa la vostra discendenza trovare pace: risolvetemi quel dubbio che aggroviglia i
miei ragionamenti.
Mi sembra che voi dannati vediate, se ho capito bene, gli eventi futuri, mentre abbiate altra conoscenza del
presente».
Disse: «Noi, come chi ha un difetto di vista (presbite), vediamo le cose che sono lontane nel tempo; soltanto
questo ci permette Dio.
Quando le cose si avvicinano o accadono, il nostro intelletto è vano e se altri non ci porta notizie, non
sappiamo nulla della vostra condizione umana.

Perciò puoi capire che la nostra conoscenza (del futuro) sarà totalmente annullata dal momento in cui sarà
chiusa la porta del futuro, ovvero il giorno del Giudizio».
Allora, come pentito della mia colpa, dissi: «Poi direte a quel dannato che suo figlio è ancora in vita;
e se poc'anzi non gli diedi subito risposta, ditegli che lo feci perché ero nell'errore che voi mi avete
spiegato».
E ormai Virgilio mi richiamava; perciò pregai in fretta lo spirito che mi dicesse  chi erano i suoi compagni di
pena.
Mi rispose: «Qui giaccio con più di mille dannati: qua dentro è Federico II di Svevia, nonché il cardinale
Ottaviano degli Ubaldini; non ti dico nulla degli altri».
Quindi tornò nella tomba; e io mi incamminai verso l'antico poeta, ripensando a quelle parole che mi
sembravano ostili.
Virgilio si mosse; e poi, mentre camminava, mi disse: «Perché sei così turbato?» E io glielo spiegai.
Quel saggio mi comandò: «La tua mente ricordi bene ciò che hai sentito contro di te. E ora ascolta,» e drizzò
il dito: «quando sarai davanti al dolce raggio di colei che coi suoi begli occhi vede ogni cosa (Beatrice),
saprai da lei il tuo destino futuro».
Quindi si volse a sinistra: ci allontanammo dal muro e ci dirigemmo verso l'orlo esterno del Cerchio, per un
sentiero che conduce a una valle da cui fin lassù arrivava un gran puzzo.

CANTO 13

Nesso non era ancora arrivato sull'altra sponda (del Flegetonte), quando noi ci incamminammo attraverso
un bosco in cui non c'era nessun sentiero.
Le foglie  non erano verdi, ma di colore scuro; i rami non erano lisci, ma nodosi e contorti; non c'erano frutti,
ma spine velenose.
Quelle belve selvagge che in Maremma, tra Cecina e Corneto, evitano i luoghi abitati, non hanno sterpi così
aspri né così intricati.
Qui nidificano  le sudicie Arpie, che cacciarono dalle isole Strofadi i Troiani preannunciando loro delle tristi
disgrazie.
Esse hanno grandi ali, colli e volti umani, zampe artigliate e un gran ventre piumato; emettono lamenti sugli
strani alberi.
E il buon maestro cominciò a dirmi: «Prima che tu ti addentri nella selva, sappi che sei nel secondo girone e
vi resterai finché entreremo nel sabbione infuocato. Perciò guarda bene, perché vedrai cose che non
sarebbero credute se mi limitassi a dirtele».
Io sentivo levarsi lamenti da ogni parte, ma non vedevo nessuno che li emettesse; allora mi fermai, confuso.
Io credo che Virgilio credette che io credessi che tra quei cespugli uscissero tante voci, emesse da anime che
si nascondevano da noi.
Perciò il maestro disse: «Se tu spezzi qualche ramoscello da una di queste piante, i tuoi pensieri non avranno
più ragion d'essere».
Allora stesi un poco la mano e strappai un ramoscello da un gran pruno; e il suo tronco gridò: «Perché mi
spezzi?»
Dopo aver perso sangue nero, ricominciò a dire: «Perché mi laceri? non hai alcuno spirito di pietà?
Fummo uomini, e adesso siamo diventati cespugli: la tua mano sarebbe  certamente più pietosa, se anche
fossimo state anime di serpenti».
Come quando si brucia un ramoscello verde da una delle estremità, e dall'altra cola la linfa e si sente un
cigolio in quanto esce dell'aria, così dal ramo rotto uscivano insieme parole e sangue; allora io lasciai cadere
il ramo spezzato e restai lì pieno di timore.
Il mio maestro rispose: «Se egli avesse potuto credere ciò che ha letto solo nei miei versi, anima offesa,
(Dante) non avrebbe  certo levato la mano contro di te; ma la cosa incredibile mi costrinse a indurlo a
un'azione che pesa anche a me.
Ma digli chi fosti in vita, così che per rimediare lui possa restaurare la tua fama nel mondo terreno, dove
può tornare».
E il tronco:  «Con le tue dolci parole mi alletti in tal modo che non posso stare zitto; e a voi non sia fastidioso
se io mi attardo un po' a parlare di me.
Io sono colui che tenni entrambe le chiavi del cuore di Federico II, e che le usai così bene nel chiudere e
nell'aprire che esclusi dai suoi segreti quasi tutti (divenni il suo più fidato consigliere): fui fedele al mio alto
incarico, al punto che persi per questo la pace e la vita.
La prostituta (invidia) che non distolse mai gli occhi disonesti dalla reggia dell'imperatore, e che è morte di
tutti e vizio delle corti, infiammò tutti gli animi (dei cortigiani) contro di me; ed essi infiammarono a loro
volta l'imperatore, al punto che i miei onori si trasformarono in lutti (caddi in disgrazia).
Il mio animo, spinto da un amaro piacere, credendo di sfuggire il disonore con la morte, mi rese  ingiusto
contro me stesso, che pure non avevo colpe.
Per  le nuove radici di questo albero, vi giuro che non fui mai infedele al mio signore, che fu tanto degno di
onore.
E se qualcuno di voi tornerà nel mondo terreno, riabiliti la mia  memoria, che ancora soffre del colpo subìto
a causa dell'invidia».
Virgilio rimase un poco in silenzio, poi mi disse:  «Dal momento che tace, non perdere tempo; parla e
chiedigli quello che vuoi».
E io a lui:  «Domandagli tu ancora di quegli argomenti che credi possano interessarmi; io non potrei, tanto è
il turbamento che provo».
Allora Virgilio riprese:  «Possa realizzarsi ciò che le tue parole hanno richiesto grazie all'azione spontanea (di
Dante), o spirito imprigionato: ti prego ancora di dirci come l'anima si lega a questi tronchi, e dicci, se puoi,
se mai accade che qualcuna si liberi da queste piante».
Allora il tronco soffiò forte e poi quell'aria si tramutò in queste parole:  «Vi risponderò in breve.
Quando l'anima feroce (del suicida) si separa dal corpo dal quale ella stessa si è staccata, Minosse la manda
al settimo Cerchio.
Cade  nella selva e non finisce in un punto prestabilito; ma dove il caso la scaglia, lì germoglia come un seme
di farro.
Cresce come un arbusto e una pianta selvatica: le Arpie, poi, nutrendosi delle sue foglie provocano dolore, e
aprono una via attraverso la quale il dolore fuoriesce.
Come le altre anime, anche noi andremo a riprendere i nostri corpi (il giorno del Giudizio), ma non per
rivestircene: infatti non è giusto  riavere ciò che ci si è tolti.
Li trascineremo qui e i nostri corpi saranno appesi per la triste selva, ciascuno all'albero della propria ombra
nemica».
Noi eravamo ancora in attesa accanto all'albero, credendo che volesse aggiungere altro, quando fummo
sorpresi da un rumore, in modo simile a colui che sente arrivare il cinghiale e la muta dei cani sulle sue
tracce, e che ascolta le bestie e il fogliame che stormisce.
Ed ecco arrivare da sinistra due dannati,  nudi e graffiati, che fuggivano così veloci che rompevano ogni
ramo della foresta.
Quello davanti urlava: «Presto, vieni in aiuto, vieni, o morte!»  E l'altro, al quale sembrava di andare troppo
lento, gridava:  «Lano, le tue gambe non furono così agili alle giostre (battaglia) di Pieve del Toppo!» E
poiché forse gli mancò il respiro, si nascose accanto a un cespuglio.
Dietro di loro la selva era piena  di cagne nere, che correvano affamate come cani da caccia scatenati.
Esse azzannarono il dannato che si era nascosto e lo fecero a brandelli; poi  portarono via le sue carni
ancora doloranti.
Allora la mia guida mi prese per mano e mi condusse al cespuglio che piangeva, inutilmente, attraverso i
rami rotti  e sanguinanti.
Diceva:  «O Iacopo da Sant'Andrea, a cosa ti è servito usarmi come scudo? che colpa ho io della tua vita
peccaminosa?»
Quando il mio maestro si fu fermato  sopra di lui, disse:  «Chi sei stato in vita, tu che soffi parole dolorose e
sangue attraverso tanti rami spezzati?»
E quello rispose:  «O anime che siete giunte a vedere lo scempio disonesto che ha separato da me le mie
fronde, raccoglietele al piede del triste cespuglio.
Io fui della città (Firenze) che mutò in san Giovanni Battista il primo protettore (Marte); e lui per questo la
rattristerà sempre con la sua arte (la perseguiterà con guerre); e se non fosse che  su un ponte dell'Arno
rimane un frammento di una sua statua, quei cittadini che la ricostruirono sulle ceneri lasciate da Attila,
avrebbero lavorato inutilmente. Io mi impiccai nella mia casa».

CANTO 15

ora uno degli argini rocciosi ci porta lontani dalla selva; e il fumo del Flegetonte fa ombra di sopra, così che
protegge dal fuoco l'acqua e gli argini stessi.
Come i Fiamminghi fra Wissant e Bruges erigono dighe per tener lontana la marea, temendo che le onde si
avventino contro di loro;
e come fanno i Padovani lungo il Brenta per difendere le loro città e i castelli prima che la Carinzia senta il
caldo (si sciolgano le nevi):
così erano costruiti quegli argini, anche se il costruttore, chiunque fosse, non li aveva eretti così alti e grossi.
Ormai ci eravamo allontanati dalla selva tanto che non l'avrei più vista se anche mi fossi voltato,
quando incontrammo una schiera di anime che veniva lungo l'argine e ognuna di esse ci guardava come si
osserva qualcuno in una sera di novilunio; e strizzavano gli occhi verso di noi come fa il vecchio sarto per
infilare l'ago nella cruna.
Mentre i dannati mi scrutavano in tal modo, fui riconosciuto da uno che mi prese per il lembo della veste e
gridò: «Che meraviglia!»
E io, quando lui tese verso di me il suo braccio, fissai il suo volto così che non potei non riconoscerlo, benché
fosse tutto bruciato, e avvicinando la mano al suo viso risposi: «Voi siete qui, ser Brunetto?»
E lui: «Figlio mio, non dispiacerti se Brunetto Latini torna un po' indietro con te e lascia proseguire la schiera
(dei dannati)».
Io gli dissi: «Ve ne prego con tutte le mie forze; e se volete che io mi trattenga con voi lo farò, purché
acconsenta costui che mi guida».
Lui disse: «Figliolo, se un dannato di questo gruppo si arresta un solo istante, poi deve giacere cent'anni
senza potersi riparare quando il fuoco lo ferisce.
Perciò prosegui: io ti seguirò e poi raggiungerò la mia schiera, che va piangendo la sua dannazione eterna».
Io non osavo scendere dall'argine per andare insieme a lui; ma tenevo il capo chino, come un uomo che
dimostra la sua deferenza.
Lui cominciò: «Quale fortuna o destino ti porta quaggiù prima della tua morte? e chi è costui che ti fa da
guida?»
Io gli risposi: «Lassù, nella vita serena, mi sono smarrito in una valle prima che la mia vita raggiungesse il
suo culmine.
Solo ieri mattina ne sono uscito: mi apparve costui (Virgilio), mentre ci stavo rientrando, e mi riporta a casa
per questo cammino».
E lui a me: «Se tu segui la tua stella, non puoi non raggiungere i tuoi obiettivi letterari e politici, se ho inteso
bene quando ero in vita;
e se non fossi morto precocemente, vedendo che il cielo era così ben disposto verso di te ti avrei aiutato a
compiere la tua opera.
Ma quell'ingrato e maligno popolo che è disceso anticamente da Fiesole (i Fiorentini) e conserva ancora la
rozzezza dei montanari, diventerà tuo nemico per le tue buone azioni: e ne ha ben donde, poiché non è
opportuno che il dolce fico nasca tra i frutti agri.
Un vecchio proverbio li definisce ciechi; è gente avara, invidiosa e superba: cerca di preservarti dai loro
costumi.
La tua fortuna ti riserva tanto onore che entrambe le parti (Bianchi e Neri) vorranno sfogare il loro odio
contro di te, ma l'erba sarà lontana dal caprone.
Le bestie di Fiesole (Fiorentini) si divorino tra loro e non tocchino la pianta, ammesso che ne nascano ancora
nel loro letame, in cui rivive la santa semenza di quei Romani che restarono a Firenze quando fu fondato il
nido di tanta malvagità».
Io gli risposi: «Se potessi esaudire ogni mio desiderio, voi sareste ancora tra i vivi;
poiché nella mia mente è ben presente, e ora mi commuove, la cara e buona immagine paterna di voi
quando nel mondo mi insegnavate di quando in quando come l'uomo acquista fama eterna: e finché vivrò la
mia lingua esprimerà quanto ciò mi sia gradito.
Io prendo nota ciò che narrate della mia vita, e mi riservo di farmelo spiegare insieme a un'altra profezia (di
Farinata) da una donna (Beatrice) che saprà farlo, se arriverò sino a lei.
Io voglio che vi sia chiaro che sono pronto a ciò che la fortuna mi riserva, purché non mi rimorda la
coscienza.
Tale profezia non è nuova al mio orecchio: dunque la fortuna giri pure la sua ruota come vuole, e il
contadino ruoti la sua zappa».
Il mio maestro (Virgilio) allora si voltò indietro sulla destra e mi guardò, dicendo poi: «È buon ascoltatore chi
prende nota di ciò che gli vien detto».
Non per questo smisi di parlare con ser Brunetto, e gli domandai chi fossero i suoi compagni di pena più
importanti.
E lui a me: «È bene conoscerne qualcuno: degli altri sarà preferibile tacere, perché occorrerebbe troppo
tempo a elencarli tutti.
Sappi insomma che furono tutti chierici e importanti letterati di gran fama, la cui vita fu lercia dello stesso
peccato (sodomia).
Prisciano va con quella brutta schiera, e anche Francesco d'Accorso; e se avessi desiderio di vedere un tale
sudiciume, potresti vedere colui che il servo dei servi (Bonifacio VIII) trasferì da Firenze a Vicenza, dove morì
e lasciò i suoi sensi protesi al vizio.
Ti direi di più, ma il cammino e il discorso non possono prolungarsi, poiché vedo levarsi là nuovo fumo dal
sabbione.
Arrivano anime con la cui schiera non devo mescolarmi. Ti sia raccomandato il mio  Trésor  nel quale ho
ancora fama, e non chiedo altro».

Poi si voltò e sembrò uno di quelli che corrono il palio a Verona per il drappo verde, nella campagna; e
sembrò il vincitore, non il perdente.

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