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Notiamo quindi che la k varia in un range di 5-7 ordini di grandezza. Per i solidi metallici
possiamo notare che se la purezza del materiale diviene elevata la k cresce di un ordine di
grandezza. Per questa categoria possiamo inoltre asserire che all’aumentare della T (per 𝑇 > 50𝐾)
la k va diminuendo poiché, a causa del legame metallico, la componente elettronica è
preponderante rispetto a quella vibrazionale. Nei solidi metallici amorfi invece la k cresce con la
temperatura, poiché in parte viene meno quella componente elettronica che caratterizza i cristalli,
componente elettronica che scompare totalmente nei solidi non metallici a vantaggio di quella
vibratoria, deducendo che anche in questo caso la k cresce con l’aumento della temperatura. Per
quanto riguarda i liquidi possiamo dire in modo quasi generale che la k diminuisce al crescere
della temperatura poiché, quando questa aumenta, i legami elastici intermolecolari si allentano,
trasmettendo peggio le vibrazioni. Infine abbiamo gli aeriformi, che aumentano la loro k
all’aumentare della temperatura, poiché aumentano gli urti tra le particelle, e all’aumentare della
pressione, perché aumenta la probabilità che gli urti avvengano, poiché microscopicamente il
meccanismo di trasmissione del calore è dovuto proprio a questi urti.
10) Discutere l’andamento del coefficiente di convezione in funzione della distanza dal bordo di attacco di
una lastra piana investita da una corrente fluida che si muove parallelamente ad essa.
Per poter determinare l’andamento di ℎ 𝑐 è necessario partire dalla relazione di Newton 𝑑𝑄 =
ℎ 𝑐𝑑𝑆(𝑡𝑝 − 𝑡∞ )𝑑𝜏. Questa relazione definisce ℎ 𝑐 e la sua unità di misura: ℎ 𝑐 è la favorevolezza del
sistema a trasmettere calore per convezione tra solido e fluido indisturbato, ed ha unità di misura
𝑊
2
. Nel caso in cui fossimo in regime stazionario (euleriano) potremmo parlare di potenza termica
𝑚 𝐾
𝑑𝑄
infinitesima: 𝑑𝑞 = = ℎ 𝑐 𝑑𝑆(𝑡𝑝 − 𝑡∞ ). Per poter studiare l’evoluzione di ℎ 𝑐 dobbiamo fare
𝑑𝜏
un’approssimazione, o meglio una riflessione a livello locale: consideriamo un sottilissimo film di
fluido a contatto con la superficie infinitesima 𝑑𝑆 che cede del calore 𝑑𝑄 per poter scrivere il
postulato di Fourier a livello locale per la potenza infinitesima, ed uguagliamo all’equazione di
𝜕𝑡 𝑘𝑓 𝜕𝑡
Newton: si ha quindi ℎ 𝑐𝑑𝑆(𝑡𝑝 − 𝑡∞ ) = −𝑘𝑓 𝑑𝑆 | , da cui ℎ 𝑐 = − | . In questo caso
(𝑡𝑝−𝑡∞) 𝜕𝑛 𝑝
𝜕𝑛 𝑝
(𝑡𝑝 − 𝑡∞ ) è costante e anche 𝑘𝑓 perché tutto il film è alla stessa temperatura. Quindi ℎ 𝑐 varia
solamente al variare del gradiente, quindi con il [grafico1] sottomano possiamo estrapolare
l’andamento del [grafico2] che mostra come varia il profilo di temperatura in funzione dell’altezza
dello strato limite per differenti 𝑥. Potremmo quindi ricavare un andamento di ℎ 𝑐 grossolano, per
così dire (3). Queste riflessioni mostrano come lo strato limite in un certo modo si comporti da
resistenza al flusso termico. Tuttavia un’analisi più approfondita deve tener conto degli eventuali
effetti di bordo che sempre caratterizzano il moto di un fluido che incontra un ostacolo, formando
un ristagno di prua. Gli effetti di bordo caratterizzano anche lo strato limite termico: ciò comporta
che il valore del gradiente partirà da un valore finito (4), e segue immediatamente che anche il
coefficiente di convezione al bordo d’attacco avrà un valore finito. Per poter rendere però il nostro
studio veramente completo è necessario tener conto del fatto che il moto, per 𝑅𝑒 ≥ 3 ⋅ 106 , è
turbolento, e che la transizione (in realtà netta) avviene per 2 ⋅ 105 < 𝑅𝑒 < 3 ⋅ 106 , conclusione
degli esperimenti di Reynolds. Sappiamo che il rimescolamento favorisce lo scambio termico. In
questa situazione ℎ 𝑐 subisce una discontinuità proprio nel momento di transizione, tuttavia subito
dopo la forte discontinuità il suo valore continua a decrescere poiché l’effetto di stiramento del
profilo di temperatura causato dalla crescita dello strato limite è preponderante: il gradiente
diminuisce e conseguentemente diminuisce ℎ 𝑐 , anche se ora la decrescita viene mitigata dal
rimescolamento.
11) Descrivere le principali caratteristiche del campo termico e fluidodinamico che si generano in
convezione naturale in prossimità di una lastra piana verticale di lunghezza semi -infinita.
La convezione naturale è causata da una disuniformità di temperatura che genera una
disuniformità di densità che quindi causa una spinta (nel campo gravitazionale): il fluido è dunque
soggetto alla forza peso e alla spinta di Archimede, la risultante delle quali forze è diretta lungo la
verticale, traiamo subito la prima conclusione: il moto sarà ascensionale o discensionale perché è la
gravità a causare il moto, in una situazione nella quale la propulsione esterna è completamente
assente. Ipotizziamo ora che la temperatura della piastra sia maggiore di quella del fluido, senza
perdita di generalità: ecco che si formerà allora uno strato limite ascensionale causato da gradienti
di temperatura quindi di densità che generano la spinta dal basso verso l’alto. Seguono i grafici
relativi alla nostra ipotesi 𝑡𝑝 > 𝑡∞ , relativi sia al campo di temperatura sia al campo di moto.
Tuttavia occorre fare un passo in avanti perché in questo caso il campo di moto e quello termico
sono in stretta correlazione tra di loro. Sono riportati i grafici che descrivono la correlazione tra i
due campi nel caso in cui il fluido abbia 𝑃𝑟 > 1 e 𝑃𝑟 < 1. Nel primo caso il fluido si muove per
gradienti di temperatura e quindi di densità, e dove il gradiente di temperatura è nullo il fluido si
muove per azioni tangenziali causate dall’attrito viscoso (siamo infatti nel caso in cui la diffusività
meccanica è maggiore); nel secondo caso invece l’analisi è un po’ più articolata: tra lo strato limite
meccanico e quello termico ci sono gradienti di temperatura, tuttavia il fluido resta fermo, poiché
le particelle sono più disposte a scambiare calore piuttosto che a muoversi (siamo infatti nel caso in
cui il fluido è più diffusivo termicamente che meccanicamente, cioè cede il calore ancor prima di
espandersi). Ci aiuta nel nostro studio del campo termico e dinamico il parametro adimensionale
che incarna la contrapposizione tra la spinta e le grandezze che ostacolano il moto: stiamo
parlando del numero di Rayleigh. Questo ci fa capire se le spinte sono compatibili con il moto
𝐹𝑔
oppure no, e in questo caso particolare può essere espresso come 𝑅𝑎 = , e più generalmente
𝜇𝛼
𝜌𝛽∆𝑡𝐿3𝑔
come 𝑅𝑎 = , ove 𝛽 è il coefficiente di dilatazione volumica, ∆𝑡 la differenza di temperatura
𝜇𝛼
tra lastra e fluido e 𝐿 la dimensione caratteristica parallela al campo di velocità. Se 𝑅𝑎 < 1708
allora avviene solamente conduzione e ci avvaliamo del postulato di Fourier per quantificare lo
scambio, se 𝑅𝑎 > 1708 allora avviene convezione e ci avvaliamo della relazione di Newton.
Ricordiamo infine che per determinare se il moto sia laminare o turbolento si usa il numero di
𝜌2 𝛽∆𝑡𝐿3𝑔
Grashof 𝐺𝑟 = che contrappone “motore” e “freno” dinamici, ed il valor critico oltre il
𝜇2
quale si verifica moto turbolento in questo caso è 108 ÷ 109 .
12) Definire i parametri adimensionali di più comune impiego nello studio dello scambio termico per
convezione forzata e illustrarne il significato fisico.
Il primo numero adimensionale di cui è opportuno parlare è il numero di Prandtl. Questo numero
scaturisce dallo studio degli strati limite meccanico e termico, il primo proporzionale alla viscosità
cinematica 𝜈, il secondo proporzionale alla diffusività termica 𝛼. Supponendo quindi che le
relazioni di dipendenza funzionali tra i due strati limite e le due diffusività sia il medesimo,
𝛿 𝜈 𝜈
possiamo scrivere che: 𝛿𝑀 ∝ 𝜈; 𝛿 𝑇 ∝ 𝛼 ⇒ 𝑀 ∝ . Definiamo quindi 𝑃𝑟 = . Ricordiamo quindi che
𝛿𝑇 𝛼 𝛼
𝜇 𝑘 𝜈 𝜇 𝑐𝜌 𝑐𝜇
𝜈 = e𝛼 = possiamo procedere con 𝑃𝑟 = = = . Il numero di Prandtl è quindi un
𝜌 𝑐𝜌 𝛼 𝜌𝑘 𝑘
rapporto tra grandezze fisiche che dipendono dalla temperatura, quindi esso stesso ne dipende. Da
punto di vista fisico possiamo dire che Prandtl è una etichetta identificativa per i fluidi, poiché
ognuno di essi ne ha uno differente (acqua 𝑃𝑟 = 7, aria 𝑃𝑟 = 0,7). Possiamo in ogni modo delineare
tre macrogruppi di fluidi:
𝑃𝑟 ≪ 1 liquidi metallici 𝛿𝑀 ≪ 𝛿 𝑇 ;
𝑃𝑟 ≃ 1 aeriformi 𝛿𝑀 ≃ 𝛿 𝑇 ;
𝑃𝑟 ≫ 1 liquidi non metallici 𝛿𝑀 ≫ 𝛿 𝑇 ;
𝜌𝑢𝐿
Molta rilevanza ha il numero di Reynolds, definito come 𝑅𝑒 = , ove 𝑢 è la velocità del fluido
𝜇
indisturbato, 𝐿 la lunghezza caratteristica parallela al campo di velocità, 𝜌 la densità del fluido e 𝜇
la viscosità dinamica. Esso informa sul regime di moto quindi indirettamente anche sulla
quantificazione dello scambio termico. Ecco i seguenti dati sperimentali nella convenzione oggi
utilizzata:
𝑅𝑒 ≤ 2 ⋅ 105 moto laminare;
2 ⋅ 105 < 𝑅𝑒 < 3 ⋅ 106 transizione (tuttavia la transizione è in realtà molto netta);
𝑅𝑒 ≥ 3 ⋅ 106 moto turbolento.
Il numero di Reynolds ha un significato intrinseco molto interessante: infatti se svolgiamo un po’
2𝑢
𝜌𝑢𝐿 𝐿 𝐿
𝜌𝑢𝐿 𝑢 𝑢
di derivazione fisico matematica… → 𝑢 notiamo che 𝜇 è uno sforzo viscoso, quindi 𝐿2 𝜇
𝜇 𝜇 𝐿2 𝐿 𝐿
𝐿
𝑢
una forza viscosa, mentre al numeratore 𝜌𝐿 è la massa e un tempo, quindi al numeratore
3
𝐿
𝑢
compare 𝑚 , che è la forza di inerzia del fluido: Reynolds si è rivelato essere il parametro che
𝜏
quantifica la contrapposizione tra l’inerzia del fluido e la sua predisposizione all’autofrenamento.
Notiamo che il numero di Reynolds dipende dalla dimensione caratteristica, infatti più cresce
questa più fluido viene coinvolto nel frenamento, e la forza viscosa non è più in grado di reggere il
confronto con l’inerzia, disordinando il moto. Quindi il numero di Reynolds rappresenta le
tensioni proprie dello strato limite, ma può anche essere utilizzato per quantificare il suo spessore
ad una determinata 𝑥. Nel momento in cui passiamo da deflusso esterno a deflusso interno è
necessario indagare su quale sia la dimensione caratteristica. Ci avvaliamo quindi dell’equazione
di continuità 𝐺 = 𝜌𝑢̅𝐴 e al posto di A inseriamo l’area di una sezione di tubo di ampiezza data in
𝜋𝐷2
funzione del diametro 𝐴 = , diametro che quindi diverrà dimensione caratteristica e di cui la 𝑥
4
𝜋𝐷 4𝐺 4𝐺
di saldo è funzione. Con semplici calcoli 𝐺 = 𝜌𝑢̅𝐷 ⋅ ⇒ 𝜌𝑢̅𝐷 = ⇒ 𝑅𝑒 = , ove quindi 𝑅𝑒 =
4 𝜋𝐷 𝜋𝐷𝜇
𝜌𝑢
̅𝐷
rappresenta il numero di Reynolds trasversale. Un risultato sperimentale statistico ha dato
𝜇
come risultato che per 𝑅𝑒 < 2300 il moto è laminare, per 𝑅𝑒 > 2300 è turbolento (va tenuto conto
di una fascia di incertezza statistica). In questo caso per ricavare la 𝑥 𝑇𝑅 bisogna tornare al Re
longitudinale, approssimando la superficie incurvata con una superficie laminare (e compiendo
quindi un errore), e inserendo il numero di Reynolds di transizione che avevamo ottenuto con
𝜌𝑢̅𝑥 𝑇𝑅
metodi sperimentali per una lastra piana: quindi se 𝑅𝑒𝐷 > 2300 procediamo così 𝑅𝑒 𝑇𝑅 = ≃
𝜇
𝜌𝑢 𝑅𝑒𝐷 𝑅𝑒𝑇𝑅 𝑅𝑒𝐷 𝑥 𝑇𝑅 2⋅105
2⋅ 105 ; = = ⇒ 𝑅𝑒 𝑇𝑅 = 𝑥 𝑇𝑅 = 2 ⋅ 105 ⇒ = , quindi inseriamo il 𝑅𝑒𝐷 relativo al
𝜇 𝐷 𝑥 𝑇𝑅 𝐷 𝐷 𝑅𝑒𝐷
fluido e capiamo dopo quanti diametri avviene la transizione.
13) Definire i parametri adimensionali di più comune impiego nello studio dello scambio termico per
convezione naturale e illustrarne il significato fisico.
Nel caso di convezione naturale l’analisi del campo termico e dinamico del fluido diviene molto
complessa: ora infatti i due campi si influenzano vicendevolmente, e quindi il numero di Prandtl
in qualche modo perde la sua utilità (tuttavia ci informa se il fluido sia più diffusivo termicamente
o meccanicamente, quindi conoscendolo potremmo delineare dal punto di vista qualitativo il
campo termico e quello dinamico). Il parametro adimensionale centrale nella convezione naturale
𝐹𝑔
è il numero di Rayleigh 𝑅𝑎 = , che ci informa sulla contrapposizione tra spinte di galleggiamento
𝜇𝛼
e attriti di viscosità, ma anche tra spinta e diffusività, che abbiamo visto come ostacoli il moto
ascensionale e discensionale a causa di una maggiore predisposizione allo scambio di calore
𝐹𝑔 ∆𝜌𝐿3 𝑔 ( 𝜌0−𝜌) 𝐿3𝑔
piuttosto che al moto. Procediamo con alcune considerazioni operative: 𝑅𝑎 = = =
𝜇𝛼 𝜇𝛼 𝜇𝛼
notiamo subito che le condizioni al contorno ci informano sullo squilibrio di densità e non sulla
1 𝑑𝑣
disuniformità di temperatura, ma viene in aiuto il coefficiente di dilatazione volumica 𝛽 = con
𝑣 𝑑𝑡
1
𝑑( ) 1 𝑑𝜌 1 𝑑𝜌 1 ( 𝜌−𝜌0)
𝜌
v volume specifico: 𝛽 = 𝜌 = 𝜌 (− 2 ) =− e passando al finito 𝛽 = − ( , ecco quindi
𝑑𝑡 𝜌 𝑑𝑡 𝜌 𝑑𝑡 𝜌0 𝑡−𝑡0)
che possiamo esprimere la variazione di temperatura come la variazione di densità (𝜌0 − 𝜌) =
𝜌𝛽∆𝑡𝐿3𝑔
𝜌0 𝛽(𝑡 − 𝑡0 ) e 𝑅𝑎 = . Il numero di Ra ci informa quindi sull’innesco della convezione. Se
𝜇𝛼
𝑅𝑎 < 1708 avremo solo conduzione e useremo il postulato; se 𝑅𝑎 > 1708 avremo convezione e
useremo la relazione di Newton (ove 𝑅𝑎 = 1708 è detto Ra critico). Nel caso di convezione
naturale in deflusso esterno abbiamo un parametro adimensionale derivato da Rayleigh che ci
informa anche sul regime di moto, che è comunemente detto numero di Grashof, ne illustriamo
𝜌𝑔𝛽∆𝑡𝐿3 𝜈 𝑃𝑟𝜌2𝑔𝛽∆𝑡𝐿3 𝜌2 𝑔𝛽∆𝑡𝐿3
sotto le dimensioni 𝑅𝑎 = = → 𝐺𝑟 = . Notiamo quindi che al numeratore
𝜇𝛼 𝜈 𝜇2 𝜇2
compare la spinta e al denominatore la viscosità dinamica al quadrato, quindi Grashof può essere
letto come il parametro che ci informa sulla contrapposizione tra il motore e il freno in seno al
fluido, espressi con quantità meccaniche. Rimane da dire solamente che il valore critico oltre il
quale il moto diviene turbolento si aggira intorno a 𝐺𝑟 = 108 ÷ 109 . Nel momento in cui pensiamo
al deflusso interno sappiamo che la convezione, nel caso in cui avvenga, si esplica attraverso le
celle di Rayleigh-Bernard, ma non è questo a caratterizzare maggiormente i parametri: ci
avvaliamo infatti sempre del numero di Rayleigh, con opportune avvertenze: ora i parametri fisici
dipenderanno dalla temperatura media tra le due imposte al contorno geometrico e la dimensione
caratteristica sarà quella verticale, cioè la distanza tra le due pareti ove il fluido è ubicato. Il
Rayleigh critico oltre il quale la conduzione pura lascia il posto alla convezione di Rayleigh-
Bernard rimane 1708. Nel caso di convezione di Rayleigh-Bernard è lecito chiedersi quanto sia
efficiente la convezione rispetto alla pura conduzione, ed il parametro che ci informa su questo è il
ℎ𝑐𝐿 𝑞 ′𝑐𝑜𝑛𝑣 ℎ𝑐(𝑇𝑖𝑛𝑓 −𝑇sup) ℎ𝑐𝐻
numero di Nusselt 𝑁𝑢 = , ricavato in questo modo: 𝜀 = = 𝑘𝑓 = . Il numero di
𝑘 𝑞 ′𝑐𝑜𝑛𝑑 (𝑇𝑖𝑛𝑓 −𝑇sup) 𝑘𝑓
𝐻
Nusselt informa quindi in questo caso sull’efficienza della convezione rispetto alla conduzione, ma
può essere usato anche nel caso di deflusso esterno con l’accortezza di assegnargli non più il
carattere di un’efficienza bensì di alter ego di ℎ 𝑐 , cioè di informatore sulla prestazione di scambio
(questo perché non possiamo più conferire ad H il titolo di grandezza caratteristica).
14) Definire le principali grandezze fisiche necessarie a caratterizzare l’emissione di energia raggiante.
Le grandezze fisiche necessarie a caratterizzare l’energia raggiante sono tre: la prima ci fornisce
una informazione quantitativa, cioè ci racconta quanto emette il corpo globalmente, per tutte le
𝑑𝑊
lunghezze d’onda, e prende infatti il nome di irradiamento globale J, definito come 𝐽 = , la cui
𝑑𝐴
𝑊
unità di misura è 2 . A prima vista notiamo immediatamente che J è la potenza emergente su unità
𝑚
di superficie, e bisogna precisare che dipende dalla natura del corpo emettitore e dalla sua
temperatura (in gradi Kelvin), conclusione tratta sperimentalmente confrontando corpi diversi a
ugual temperatura e corpi uguali a diversa temperatura. Questa grandezza permette quindi di
ricavare la potenza emessa totalmente con l’operazione 𝑊 = ∫𝐴 𝐽𝑑𝐴, relazione relativamente
semplice se J fosse uniforme (cioè quando il materiale è omogeneo, isotropo e a temperatura
uniforme). La seconda grandezza che occorre introdurre indica come si distribuisce la potenza
emessa sulle diverse lunghezze d’onda. A riguardo bisogna ricordare che gli aeriformi, a
differenza dei corpi condensati, non emettono su tutte le lunghezze d’onda, bensì emettono “a
bande”: la grandezza che andiamo ora ad introdurre è quindi discontinua per gli aeriformi e la
𝑑𝐽
denominiamo emissione specifica, definita come 𝜀 = , quindi quanto irradiamento abbiamo in un
𝑑𝜆
intervallo di lunghezze d’onda 𝑑𝜆 (ci informa quindi su quanto viene emesso per ogni 𝜆 tra 𝜆 𝑒 𝜆 +
𝑑𝜆). Questa grandezza è funzione della natura del materiale e della temperatura assoluta, ma
𝑊⁄𝑚2
anche della lunghezza d’onda stessa, e la sua unità di misura è [𝜀] = . Attraverso 𝜀 capiamo
𝜇𝑚
quanto l’emissione sia disuniforme sulle varie lunghezze d’onda, ma come si distribuisce la
potenza termica emessa? Mostriamo quindi un grafico ottenuto mediante uno studio statistico per
due temperature diverse 𝑇1 e 𝑇2 (𝑇2 > 𝑇1 ), ove notiamo che per temperature maggiori la lunghezza
d’onda media diminuisce perché la maggior parte delle particelle oscilla di più. Da 𝜀 potremmo
∞
ricavare l’irradiamento globale: 𝐽 = ∫0 𝜀𝑑𝜆. L’ultima grandezza da definire informa sulla
𝑑𝐽
distribuzione spaziale dell’emissione: si tratta dell’intensità dell’irradiamento integrale 𝑗 = (ove
𝑑Ω
𝑑Ω è l’angolo solido elementare). Quindi per dedurre come si distribuisce l’irradiamento integrale
nello spazio ci mettiamo nell’intorno della superficie del corpo emettente e consideriamo un asse
generico che passi per un punto P della suddetta superficie. Tutto ciò che si propaga nell’angolo
solido all’esterno della superficie infinitesima 𝑑𝐴 è una potenza infinitesima. Ricordiamo inoltre
𝑊⁄𝑚2
l’unità di misura [𝑗] = , dobbiamo avere l’accortezza, per ricavare l’irradiamento globale, di
𝑠𝑡𝑒𝑟𝑎𝑑
integrare 𝑑𝐽 = 𝑗𝑑Ω su un angolo piatto solido poiché il corpo non emette al suo interno: 𝐽 =
2𝜋
∫0 𝑗𝑑Ω. Tenendo conto che l’emissione normale alla superficie è massima e tangenzialmente è
𝐽
nulla, è normale scrivere 𝑗𝜑 = 𝑗𝑛 ⋅ cos 𝜑 = cos 𝜑. j dipende quindi dalla natura del corpo e dalla
𝜋
direzione considerata, e si dice che segue la legge di Lambert: è un’emissione Lambertiana.
16) Definire il “emissività globale” e il “emissività spettrale” ed individuare la relazione esistente tra tali
grandezze.
Innanzitutto la definizione delle due grandezze suddette nasce dall’esigenza di descrivere
l’emissione di energia raggiante dei corpi che non siano neri, e si basano proprio sul confronto
dell’emissione di questi corpi in relazione all’emissione del corpo nero; definiamo dunque
𝐽
emissività globale 𝜂̅ = , cioè l’irradiamento globale del generico corpo su quello del corpo nero, e
𝐽0
𝜀
definiamo poi emissività spettrale 𝜂𝜆 = , l’emissione spettrale del corpo fratto quella del corpo
𝜀0
nero. A prima vista ci accorgiamo subito che queste due grandezze quantificano quanto il generico
corpo si comporti diversamente dal corpo nero, e tanto più il suo comportamento differisce, tanto
più sia 𝜂̅ sia 𝜂𝜆 sono minori di 1, ricordiamo infatti che per il principio di Kirchhoff, che recita 𝜀 =
𝜀0 𝑎𝜆 ogni corpo emette meno del corpo nero e poiché 0 < 𝑎𝜆 ≤ 1 le due emissività sopra definite
soddisfano necessariamente 0 < 𝜂̅ ≤ 1 e 0 < 𝜂𝜆 ≤ 1. Cerchiamo adesso una relazione tra le due
∞
∞ 𝐽 ∫0 𝜀𝑑𝜆
grandezze: ricordando che 𝐽 = ∫0 𝜀𝑑𝜆, possiamo scrivere 𝜂̅ = = ∞ , e usando quindi la
𝐽0 ∫0 𝜀 0𝑑𝜆
seconda definizione abbiamo 𝜀 = 𝜀0 𝜂𝜆. Sorge spontaneo allora chiedersi se 𝑎𝜆 = 𝜂𝜆 : dal punto di
vista quantitativo è vero, ed è proprio il principio di Kirchhoff a fornire questa relazione tra
“passività” ed “attività” nel fenomeno, ma dal punto di vista qualitativo differiscono perché sono
∞
∫0 𝜀𝑑𝜆
definite in modo diverso. Continuando allora la nostra derivazione scriviamo: 𝜂̅ = ∞ =
∫0 𝜀 0𝑑𝜆
∞
∫0 𝜀 0𝜂 𝜆 𝑑𝜆
∞ . Ecco allora che abbiamo ricavato la relazione da noi desiderata, facendo particolare
∫0 𝜀 0𝑑𝜆
attenzione al fatto che 𝜂𝜆 è funzione della natura del corpo, della temperatura e della lunghezza
d’onda, mentre 𝜀0 è funzione solo di 𝜆 e della temperatura poiché è una grandezza assegnata a un
corpo ben definito, cioè il corpo nero. Concludiamo quindi dicendo che l’emissività globale non è
nient’altro che una media ponderata dell’emissività spettrale ove si assumono come pesi le
lunghezze d’onda infinitesime per l’emissione del corpo nero alla temperatura del nostro corpo e
per quella ben determinata lunghezza d’onda (in sintesi si pesa l’emissività spettrale sugli
irradiamenti integrali infinitesimi del corpo nero lunghezza d’onda per lunghezza d’onda).
17) Individuare le differenze di comportamento tipiche dei corpi neri, grigi e selettivi nei confronti
dell’energia raggiante.
Per poter istituire un confronto valido tra le tre categorie di corpi sopracitati per quanto concerne
l’energia raggiante, è innanzitutto utile ricordare due relazioni, entrambe caratterizzanti una
media ponderata di grandezze spettrali, ma la prima relativa all’assorbimento, cioè alla
componente passiva del fenomeno, e la seconda relativa alla componente attiva, quella
dell’emissione. Scriviamo dunque l’assorbimento globale in funzione di quello spettrale e
l’emissione globale in funzione di quella spettrale:
∞ ∞
∫0 𝜀 0( 𝑇𝐶 ,𝜆) 𝜂 𝜆 ( 𝑇𝐶 ,𝑁𝐶 ,𝜆) 𝑑𝜆 ∫0 𝑎𝜆 ( 𝑇𝐶 ,𝑁𝐶 ,𝜆) 𝑃𝑖 ( 𝑇𝑒,𝑁𝑒 ,𝜆) 𝑑𝜆
𝜂̅ = ∞ e 𝑎̅ = ∞ , ove si è opportunamente specificato che la
∫0 𝜀 0𝑑𝜆 ∫0 𝑃𝑖 ( 𝑇𝑒,𝑁𝑒 ,𝜆) 𝑑𝜆
potenza incidente a differenza delle altre grandezze riguarda il corpo emettitore. I corpi sopracitati
si distinguono tra loro proprio per le relazioni che intercorrono tra queste due grandezze, infatti
per il corpo nero 𝑎𝜆 = 1 per tutte le lunghezze d’onda, e quantitativamente allora 𝑎𝜆 = 𝜂𝜆 = 1
sempre. Il corpo grigio invece ha 𝑎𝜆 < 1, ma pur sempre costante per ogni lunghezza d’onda 𝜆, e
proprio per questa sua affinità al corpo nero è stato corpo grigio; se dunque per il corpo grigio 𝑎𝜆 è
costante, è ovvio che la sua media ponderata sulle potenze incidenti per lunghezza d’onda
infinitesima sarà proprio 𝑎̅ = 𝑎𝜆 , e segue immediatamente per l’uguaglianza quantitativa fornita
dal principio di Kirchhoff che 𝑎̅ = 𝑎𝜆 = 𝜂𝜆 = 𝜂̅ (valido anche per i corpi neri). La relazione
precedente 𝑎̅ = 𝜂̅ non è valida per i corpi selettivi, che per definizione hanno comportamento di
corpo grigio a bande. In questo caso infatti né 𝑎𝜆 né 𝜂𝜆 sono costanti, quindi in generale 𝑎̅ ≠ 𝑎𝜆 ,
come pure 𝜂̅ ≠ 𝜂𝜆 , e ciò significa che la relazione 𝑎𝜆 = 𝜂𝜆 non implica 𝑎̅ = 𝜂̅. Lo studio del corpo
selettivo può essere condotto scegliendo degli intervalli (le bande appunto) ove si comporti da
corpo grigio. Se volessimo quindi spiegare qualitativamente come vari l’emissione specifica di
queste tre categorie di corpi è istruttivo fornire un grafico di questo tipo (a temperatura fissata)
[grafico3]. Lo abbiamo ricavato usando il principio di Kirchhoff (per ottenere il grafico del corpo
grigio abbiamo moltiplicato quello del corpo nero per 0,7, e per ricavare quello del corpo selettivo
abbiamo moltiplicato quello del corpo nero per bande prima per 0,4, poi per 0,9).
18) Ricavare l’espressione dello scambio termico per irraggiamento tra due lastre grigie indefinite, parallele
tra loro, di cui siano noti i valori della temperatura, 𝑇1 e 𝑇2 , e del coefficiente di assorbimento, 𝑎1 e 𝑎2 .
Siamo nel caso in cui lo scambio avviene solamente tra due corpi posti uno di fronte all’altro: le
interazioni (emissione e assorbimento) radiative avvengono solo tra le due lastre indefinite (sono
quindi immerse in un mezzo che non interagisce). Ipotizziamo ora che la temperatura della
seconda lastra sia minore della temperatura della prima lastra, e per effettuare il nostro studio
dobbiamo metterci nella condizione semplificativa che tutto ciò che una lastra emette incide
sull’altra e che soprattutto il regime sia stazionario. Evidentemente c’è un transito netto di potenza
attraverso l’intercapedine, e noi riforniamo con una sorgente calda chi cede calore e con una fredda
chi assorbe calore, con la stessa potenza che attraversa l’intercapedine. In questo caso dato che le
pareti sono indefinite è opportuno far riferimento alla potenza specifica. Per poter proseguire la
nostra indagine dobbiamo semplificare ulteriormente dicendo che i due corpi oltre a essere grigi
sono anche opachi (𝑎 + 𝑟 = 1, 𝑡 = 0) ; naturalmente tutto ciò che il corpo 1 emette e il corpo 2 non
assorbe sarà rinviato al corpo 1 e quindi recuperato: 𝑊1 = 𝑊1→2,𝑎 + 𝑊𝑟(2→1),𝑎 in cui il primo
termine è la potenza emessa da 1, il secondo la potenza assorbita da 2 e il terzo la potenza rinviata
da 2 e assorbita da 1. Ma allora non devo rifornire il corpo 1 di tutto ciò che ha emesso poiché
qualcosa gli torna indietro: 𝑊1 − 𝑊2,𝑎 = 𝑊1→2,𝑎 . Bisogna ulteriormente tener conto del fatto che
anche il corpo 2 emette e il corpo 1 assorbe in parte questa energia, e in parte la rinvierà al
mittente, quindi la nostra formula operativa di calcolo è data da (ragionando per un 𝑚2 di
′ ′ ′ ′ ′ ′
superficie): 𝑞12 = 𝑊1→2,𝑎 − 𝑊2→1,𝑎 e quindi abbiamo 𝑞12 = 𝑞1→2,𝑎 − 𝑞2→1,𝑎 . Naturalmente
l’operazione di assorbimento e rinvio determinata dall’emissione di entrambe le lastre fa sì che
dobbiamo tener conto di una somma di infiniti termini, ma effettivamente possiamo trascurare
qualcosa, poiché, facendo riferimento al [disegno2] notiamo che per quanto riguarda l’emissione
della prima lastra, e l’assorbimento della seconda, il termine generico dell’irradiazione integrale è
dato da 𝐽1 (𝑟1 𝑟2 ) 𝑛 𝑎2 con 𝑛 che va da 0 a ∞. Si tratta evidentemente di una serie geometria di infiniti
1
termini: ∑𝑛=0 𝐽1 (𝑟1 𝑟2 ) 𝑛 𝑎2 = 𝐽1 𝑎 2 ∑𝑛=0(𝑟1 𝑟2 ) 𝑛 , la cui somma è data da 𝐽1 𝑎 2 ( ). Considerando poi
1−𝑟1𝑟2
l’emissione della seconda lastra e l’assorbimento della prima troviamo un risultato speculare, e
′ 1 1 𝐽 𝑎 −𝐽 𝑎
quindi otteniamo come formula operativa di calcolo 𝑞12 = 𝐽1 𝑎 2 − 𝐽2 𝑎1 = 1 2 2 1.
1−𝑟1𝑟2 1−𝑟1𝑟2 1−𝑟1𝑟2
Ricordando poi la definizione di emissività spettrale, il primo principio di Kirchhoff, la legge di
𝐽
Stefan-Boltzmann e l’ipotesi di corpi opachi e grigi: 𝜂̅ = ⇒ 𝐽 = 𝜂̅𝐽0 = 𝜂̅𝜎0 𝑇 4 ;𝑎 + 𝑟 = 1, si ha
𝐽0
′ 𝜂 1𝜎0 𝑇14 𝑎2−𝜂 2𝜎0 𝑇24𝑎1 𝜎0𝑇14 𝑎1𝑎2 −𝜎0𝑇24 𝑎1𝑎2 𝜎0 𝑎1 𝑎2(𝑇14−𝑇24 ) 𝜎0(𝑇14 −𝑇24)
quindi 𝑞12 = = = = 1 1 . Concludiamo dicendo
1−( 1−𝑎1)(1−𝑎2) 1−( 1−𝑎1−𝑎2+𝑎1𝑎2) 𝑎1+𝑎2−𝑎1𝑎2 + −1
𝑎1 𝑎2
che se l’intercapedine fosse finita e gli effetti di bordo trascurabili avremmo, con A superficie delle
𝜎0𝐴(𝑇 41−𝑇 42)
piastre, 𝑞12 = 1 1 . Nel caso avessimo due lastre nere finite basterebbe sostituire 𝑎1 = 𝑎 2 = 1 e
+ −1
𝑎1 𝑎2
19) Definire il “coefficiente di scambio termico per adduzione” ed illustrarne i limiti d’impiego.
Per poter arrivare a definire un coefficiente di adduzione bisognerà iniziare con la trattazione dello
scambio termico tra un corpo contenuto in una cavità, procedendo man ma no con le ipotesi
semplificative necessarie. Nel caso in cui abbiamo dunque un corpo di superficie 𝐴1 , coefficiente
spettrale 𝑎1 e temperatura 𝑇1 contenuto in una cavità di superficie 𝐴 2 > 𝐴1 , con coefficiente
spettrale 𝑎 2 e temperatura 𝑇2 , se dobbiamo quantificare il calore, o meglio il flusso termico che il
𝜎0𝐴1(𝑇 41−𝑇 42)
corpo 1 cede al corpo 2 nell’ipotesi che 𝑇1 > 𝑇2 , usiamo la seguente relazione 𝑞12 = 1 𝐴1 1
+ ( −1)
𝑎1 𝐴 2 𝑎2
(valida solamente se siamo nel vuoto o nell’aria). Abbiamo dunque assunto il punto di vista del
corpo 1, e nel caso in cui la cavità fosse nera, cioè 𝑎 2 = 1, avremmo immediatamente 𝑞12 =
𝜎0 𝐴1 𝑎1 (𝑇41 − 𝑇42 ). Se la cavità è nera scompare dunque il riferimento alla cavità, ma sappiamo che è
solo una schematizzazione. Tuttavia c’è un caso in cui la cavità si comporta da corpo nero pur non
𝐴1
essendolo, cioè quando è molto grande e 𝐴1 ≪ 𝐴 2 , quindi ≪ 1. Ecco quindi un’altra ipotesi
𝐴2
semplificativa che è necessario compiere per continuare la nostra indagine. È già emerso che quello
che su cui andremo a parare sarà un risultato valido solo se il mezzo fluido in cui il corpo è
immerso sia costituito d’aria, e questo è un limite del nostro risultato. In questo caso pa rticolare
infatti l’interazione radiativa tra il corpo e le pareti e l’interazione convettiva tra il corpo e l’aria
possono essere studiate come fenomeni separati in cui gli effetti potranno essere sommati, questo
perché l’aria ha un coefficiente di trasparenza pressoché unitario e non influisce
sull’irraggiamento. Possiamo dunque scrivere: 𝑞𝑐𝑜𝑟𝑝𝑜 = 𝑞𝑐𝑜𝑛𝑣 + 𝑞𝑖𝑟𝑟 = ℎ 𝑐𝑜𝑛𝑣 𝐴𝑐 (𝑇𝑐 − 𝑇𝑎 ) +
4 )
𝜎0 𝐴 𝑐𝑎𝑐 (𝑇𝑐4 − 𝑇𝑀𝑅 ove abbiamo utilizzato la relazione precedentemente ricavata e ove 𝑇𝑀𝑅
(temperatura media radiante) non è nient’altro che la temperatura media delle pareti della cavità.
4 ) 2 )( 2 2 )
Procediamo ora con l’analisi del 𝑞𝑖𝑟𝑟 : 𝑞𝑖𝑟𝑟 = 𝜎0 𝐴 𝑐𝑎𝑐(𝑇𝑐4 − 𝑇𝑀𝑅 = 𝜎0 𝐴 𝑐𝑎𝑐 (𝑇𝑐2 + 𝑇𝑀𝑅 𝑇𝑐 − 𝑇𝑀𝑅 =
2
𝜎0 𝐴 𝑐𝑎𝑐 (𝑇𝑐 + 𝑇𝑀𝑅 )(𝑇𝑐 + 𝑇𝑀𝑅 )(𝑇𝑐 − 𝑇𝑀𝑅 ), definiamo allora il coefficiente di irraggiamento ℎ 𝑖𝑟𝑟 la
2
2 )(
quantità 𝜎0 𝑎𝑐 (𝑇𝑐2 + 𝑇𝑀𝑅 𝑇𝑐 + 𝑇𝑀𝑅 ). Per procedere ulteriormente dobbiamo poi ipotizzare che la
temperatura media radiante sia quella dell’aria, ma questa approssimazione è ragionevole e
l’errore che ne deriva è trascurabile per le più comuni applicazioni d’uso ingegneristico. Possiamo
allora concludere che 𝑞𝑐 = (ℎ 𝑐𝑜𝑛𝑣 + ℎ 𝑖𝑟𝑟 )𝐴𝑐 (𝑇𝑐 − 𝑇𝑎 ). Definiamo allora ℎ 𝑎 = ℎ 𝑐𝑜𝑛𝑣 + ℎ 𝑖𝑟𝑟 coefficiente
di adduzione. Per arrivare a questa conclusione ci siamo dovuti mettere in condizioni alquanto
ristrette e semplificative (cavità molto grande, aria come fluido in cui immergo il corpo) e abbiamo
compiuto l’approssimazione 𝑇𝑀𝑅 ≃ 𝑇𝑎 ; tutto ciò dimostra che quello che abbiamo definito come
coefficiente di adduzione ha un’utilità piuttosto limitata. Tuttavia, rimanendo sempre nel caso in
cui il fluido sia aria, dobbiamo precisare che, se fossimo in ambienti confinati ℎ 𝑐 sarebbe basso ma
la temperatura sarebbe simile a quella dell’aria quindi l’errore che noi compiremmo nel trascurare
ℎ 𝑖𝑟𝑟 sarebbe molto basso. Nel caso in cui fossimo in ambienti esterni, dato che la temperatura della
volta celeste è minore di quella dell’aria, potremmo sottostimare il contributo radiativo e l’errore
sarebbe sicuramente trascurabile, poiché a causa del vento la convezione esterna è forzata e l’ℎ 𝑐
sarebbe molto alto rispetto all’ℎ 𝑖𝑟𝑟.
20) Nell’ipotesi di regime stazionario, calcolare il campo termico in una parete piana multistrato costituita
da due lastre contigue (1) e (2) di uguale spessore ( 𝑠1 = 𝑠2 = 10𝑐𝑚) e diversa conducibilità termica
𝑊 𝑊
interna (𝑘1 = 10 e 𝑘2 = 1 ) che separa due ambienti a diversa temperatura ( 𝑡1 = 100°𝐶 e 𝑡2 = 20°𝐶 )
𝑚𝐾 𝑚𝐾
𝑊
assumendo che i coefficienti di adduzione siano uguali tra loro ( ℎ1 = ℎ2 = 10 ). Eseguire il calcolo
𝑚2 𝐾
nell’ipotesi che il campo termico si a monodimensionale, precisando le necessarie ipotesi semplificative.
21) Una parete piana di spessore s e conducibilità interna k è soggetta a uno sviluppo volumetrico di
𝑊
potenza 𝑞𝑣 ( ) , mentre le due superfici limite sono mantenute a due diverse temperature da 𝑡1 e 𝑡2
𝑚3
𝑊 𝑊
(𝑠 = 0,1𝑚, 𝑘 = 1 , 𝑞𝑣 = 500 , 𝑡1 = 200°𝐶, 𝑡2 = 0°𝐶 ). Ricavare l’equazione che descrive il campo
𝑚𝐾 𝑚3
termico in regime stazionario e calcolare il flusso termico specifico che attraversa la superficie limite di
parete mantenuta alla temperatura 𝑡2 . Eseguire il calcolo nell’ipotesi che il campo termico sia
monodirezionale, precisando le necessarie ipotesi semplificative.
22) Ricavare e disegnare il campo termico in regime stazionario all’interno di una parete piana multistrato
costituita da due lastre contigue (1) e (2) (la prima, di spessore 𝑠1 e conducibilità termica interna 𝑘1 ; la
seconda, di spessore 𝑠1e conducibilità termica interna 𝑘2 , con 𝑘1 > 𝑘2 ) che separa due ambienti a diversa
temperatura 𝑡1 e 𝑡2 (con 𝑡1 > 𝑡2 ) nell’ipotesi che il coefficiente di adduzione ℎ1 sia minore del coefficiente
di adduzione ℎ2 . Valutare, inoltre, come si modifica il profilo di temperatura all’aumentare del
coefficiente di adduzione ℎ1 (si faccia ad esempio riferimento a un nuovo valore di ℎ1 tale che esso risulti
pari a ℎ2 ). Eseguire il calcolo nell’ipotesi che il campo termico si a monodimensionale, precisando le
necessarie ipotesi semplificative.
23) Una parete piana
24) Ricavare e disegnare
25) Una parete piana
26) Ricavare e disegnare
27) Ricavare le equazioni e condizioni al contorno atte a descrivere l’andamento della temperatura e la
potenza termica scambiata in condizioni in regime stazionario in uno scambiatore di calore a tubi
concentrici. Discutere gli andamenti di temperatura dei due fluidi lungo lo scambiatore di calore, sia nel
caso di flusso equicorrente, che nel caso di flusso in controcorrente.
Prima di procedere con le equazioni è opportuno ricordare le necessarie ipotesi di lavoro: oltre alla
stazionarietà del regime, dobbiamo precisare che il moto sia unidimensionale, e quindi il profilo di
temperatura varierà al variare della 𝑥, ove 𝑥 indica la coordinata della direzione di sviluppo
longitudinale dello scambiatore, ossia la direzione rispetto alla quale il modo dei fluidi risulta
parallelo. Avvicinandoci dunque alla derivazione delle formule, scegliamo di ricavare queste
ultime nel caso di scambiatore equicorrente poiché, sebbene sia un modello dai forti limiti in
quanto a scambio e ingombro, ha una funzionalità semplice ed è la base dello studio di scambiatori
più complessi (in cui si considereranno dei fattori correttivi). Precisiamo ulteriori ipotesi di lavoro:
il mantello del tubo esterno in cui scorre il fluido freddo è supposto adiabatico; le trasmittanze e le
proprietà termofisiche sono uniformi e costanti; le temperature di ingresso dei due fluidi 𝑡0 e 𝑇0 e
le loro portate 𝑔0 e 𝐺0 sono a noi note. In questo caso l’interazione sarà massima all’imbocco,
quindi ci aspetteremo che al crescere delle ascisse le due temperature si avvicineranno e quindi
diminuendo la loro disuniformità diminuirà anche lo scambio che causerà quindi una diminuzione
dell’intensità di variazione delle temperature. Potremmo quindi con questi presupposti già
dedurre tutto, ma procediamo con rigore. Facendo riferimento al [disegno1], prendiamo un
intervallo infinitesimo di scambiatore compreso tra l’ascissa 𝑥 e 𝑥 + 𝑑𝑥, e cerchiamo di valutare il
flusso che transita attraverso il tubo più interno di area 𝑑𝐴 = 𝜋𝑑𝑑𝑥 = 𝑝𝑑𝑥 con 𝑑 il diametro del
tubo interno e 𝑝 il suo perimetro. Per quanto riguarda la trasmittanza, possiamo escludere con
fermezza che essa possa contenere contributi adduttivi. Possiamo scrivere allora:
𝑑𝑞 = 𝐻𝑑𝐴(𝑇 − 𝑡) = 𝐻𝑝(𝑇 − 𝑡)𝑑𝑥. Tuttavia è necessario correggere un po’ il tiro, perché stiamo
considerando il tubo come se fosse piano e non cilindrico: avalliamo il problema effettuando una
correzione che consiste nel definire un nuovo coefficiente di scambio che prende il posto di H, cioè
1
𝑈 = 1 𝑠 1 coefficiente globale di scambio. In più nella nostra situazione di lavoro utilizziamo
+ +
ℎ𝑐 𝑘 ℎ𝑓
come tubo interno quasi sempre acciaio, perché ci permette di avere tubi sottili ma al tempo stesso
𝑠
resistenti alla pressione (no correzione poiché curvatura trascurabile rispetto allo spessore); sarà
𝑘
10−3 1
allora dell’ordine di 1÷2
= 10−4 ÷ 10 −5 , e se pensiamo che in convezione forzata ≃
10 ℎ𝑎𝑒𝑟
𝑠
10−1 ÷ 10 −2 e ℎ 𝑙𝑖𝑞 ≃ 10 −2 ÷ 10−3 , da punto di vista ingegneristico sarà trascurabile. In più se
𝑘
pensiamo di avere come fluido freddo un aeriforme e come fluido caldo un liquido, potremmo
1
effettuare un’altra approssimazione: infatti ℎ𝑓 ≪ ℎ 𝑐 e quindi se 𝑈 = 1 ℎ𝑓 possiamo dire che
( +1)
ℎ𝑓 ℎ𝑐
ℎ𝑓
+ 1 è circa uno, e allora U coinciderebbe col coefficiente di conduzione del fluido che scambia
ℎ𝑐
meno. Dobbiamo tener conto del fatto che l’effetto diviene causa e applichiamo allora la legge della
calorimetria nel caso di deflusso interno ad un tubo: per il fluido freddo abbiamo 𝑑𝑞 = 𝑔𝑐𝑑𝑡, per
quello caldo invece 𝑑𝑞 = −𝐺𝐶𝑑𝑇 (poiché 𝑑𝑇 < 0 ma 𝑑𝑞 > 0). Abbiamo ottenuto quindi il seguente
𝑑𝑞 = 𝑈𝑑𝐴 (𝑇 − 𝑡)
sistema { 𝑑𝑞 = 𝑔𝑐𝑑𝑡 . Per quantificare 𝑞 basta integrare la II o la III equazione (es. la II,
𝑑𝑞 = −𝐺𝐶𝑑𝑇
ottenendo 𝑞 = 𝑔𝑐(𝑡𝐿 − 𝑡0 )). Ma noi vogliamo arrivare alla temperatura, quindi dalla II ricaviamo
𝑑𝑞 𝑑𝑞 𝑑𝑞 𝑑𝑞
𝑑𝑡 = e dalla III 𝑑𝑇 = − , e sottraiamo la prima alla seconda ottenendo: 𝑑𝑇 − 𝑑𝑡 = − − =
𝑔𝑐 𝐺𝐶 𝐺𝐶 𝑔𝑐
1 1
−𝑑𝑞𝐾, con 𝐾 = + , usando poi la I scriviamo 𝑑(𝑇 − 𝑡) = −𝑈𝑑𝐴 (𝑇 − 𝑡)𝐾 = −𝑈𝑝 (𝑇 − 𝑡)𝐾𝑑𝑥 e
𝐺𝐶 𝑔𝑐
𝑑( 𝑇−𝑡)
separando le variabili otteniamo = −𝑈𝑝𝐾𝑑𝑥. Per ottenere quindi l’andamento della
𝑇−𝑡
differenza di temperatura integriamo questa relazione tra 0 e x, mentre per quantificare la potenza
scambiata integriamo tra 0 ed L. integrando tra (0, 𝑥) otteniamo:
𝑇−𝑡 𝑇−𝑡
ln ( ) = −𝑈𝑝𝐾𝑥 → = exp[−𝑈𝑝𝐾𝑥] → 𝑇 − 𝑡 = (𝑇0 − 𝑡0 )𝑒 −𝑈𝑝𝐾𝑥, e se la differenza tra le due
𝑇0−𝑡0 𝑇0 −𝑡0
temperature è esponenziale allora le temperature stesse variano con legge esponenziale in
𝑇 −𝑡 1 1
funzione della 𝑥. Integriamo quindi tra 0 ed L: ln ( 𝐿 𝐿) = −𝑈𝑝𝐾𝐿 = −𝑈𝐴𝐾 = −𝑈𝐴 ( + ).
𝑇0−𝑡0 𝐺𝐶 𝑔𝑐
Eseguiamo ora un’integrazione tra 0 e L di 𝑑𝑞 = 𝑔𝑐𝑑𝑡 e 𝑑𝑞 = −𝐺𝐶𝑑𝑇, ottenendo 𝑞 = 𝑔𝑐(𝑡𝐿 − 𝑡0 ) e
1 𝑡 −𝑡 1 𝑇 −𝑇
𝑞 = −𝐺𝐶 (𝑇𝐿 − 𝑇0 ) = 𝐺𝐶(𝑇0 − 𝑇𝐿 ), da cui ricaviamo = ( 𝐿 0) e = ( 0 𝐿 ) che sostituite
𝑔𝑐 𝑞 𝐺𝐶 𝑞
𝑇𝐿 −𝑡𝐿 𝑡𝐿 −𝑡0 𝑇0 −𝑇𝐿 𝑈𝐴
nell’equazione di prima danno ln = −𝑈𝐴 ( + )=− (𝑡𝐿 − 𝑡0 + 𝑇0 − 𝑇𝐿 ); effettuando
𝑇0−𝑡0 𝑞 𝑞 𝑞
𝑇0 −𝑡0 𝑈𝐴 (( 𝑇0−𝑡0) −( 𝑇𝐿 −𝑡𝐿))
raccoglimenti ricaviamo allora: ln = ((𝑇0 − 𝑡0 ) − (𝑇𝐿 − 𝑡𝐿 )), e infine 𝑞 = 𝑈𝐴 𝑇 −𝑡 ,
𝑇𝐿 −𝑡𝐿 𝑞 ln 0 0
𝑇𝐿−𝑡𝐿
cioè la differenza media logaritmica tra entrata e uscita. Questa conclusione si poteva trarre senza
dover passare per la derivazione matematica: 𝑞 = 𝑈𝐴 (𝐷𝑇𝑀𝐿). Per quanto riguarda i profili delle
temperature nel caso equicorrente, ci avvaliamo delle due relazioni 𝑞 = 𝑔𝑐(𝑡𝐿 − 𝑡0 ) = 𝑔𝑐∆𝑡 e 𝑞 =
𝐺𝐶 (𝑇0 − 𝑇𝐿 ) = 𝐺𝐶∆𝑇 che uguagliate permettono di effettuare un intuitivo ragionamento al variare
delle portate. Il primo caso riporta la situazione in cui le due portate sono uguali, e
conseguentemente la temperatura asintotica 𝑡 ∗ a cui tendono le temperature dei due fluidi è posta
a metà tra le due temperature di imbocco (poiché 𝑔𝑐∆𝑡 = 𝐺𝐶∆𝑇). Segue poi il caso in cui per
esempio 𝐺𝐶 > 𝑔𝑐 e conseguentemente ∆𝑡 ↑ 𝑒 ∆𝑇 ↓. Infine è riportato il caso in cui il fluido caldo stia
condensando, e quindi GC tende a ∞. Per quanto riguarda gli scambiatori controcorrente, la
relazione matematica che quantifica la potenza scambiata è la medesima, tuttavia per delineare i
profili qualitativi occorre effettuare un passaggio in più: infatti se indichiamo i flussi per i due
fluidi con 𝑞 = 𝐺𝐶∆𝑇 e 𝑞 = 𝑔𝑐∆𝑡 e poi uguagliamo 𝐺𝐶∆𝑇 = 𝑔𝑐∆𝑡, possiamo ricavare come variano
(𝑇0 − 𝑇𝐿 ) e (𝑡0 − 𝑡𝐿 ) al variare delle capacità termiche, ma questo non ci darebbe un risultato
immediato sulle pendenze. Un esempio concreto può chiarire il tutto: se 𝐺𝐶 > 𝑔𝑐, vuol dire che
∆𝑇 < ∆𝑡, e questo implica che 𝑇0 − 𝑡0 < 𝑇𝐿 − 𝑡𝐿 e dunque l’entità dello scambio, quindi la pendenza
delle due curve è maggiore per 𝑥 = 𝐿 e va via via diminuendo per 𝑥 → 0. Riportiamo questo
[grafico] qui di seguito, indicando con ∆ 𝑇0 − 𝑡0 e con 𝛿 𝑇𝐿 − 𝑡𝐿 . Segue poi il caso in cui 𝐺𝐶 < 𝑔𝑐 al
variare del coefficiente di scambio globale.
28) Ricavare la legge di raffreddamento di un corpo di forma qualsiasi immerso in un ambiente fluido
infinitamente esteso. Si suppongano noti i valori della temperatura 𝑡0 del corpo e 𝑡𝑓 del fluido all’istante
di tempo iniziale 𝜏 = 0, del coefficiente di scambio termico ℎ (ipotizzato costante), nonché della massa,
forma e dimensione del corpo.
L’approccio puramente matematico purtroppo ci offre come strumento, in questo caso piuttosto
1 𝜕𝑇
generico, l’equazione generale della conduzione ∇2 𝑡 = alla quale potremmo accoppiare come
𝛼 𝜕𝜏
𝜕𝑡
condizioni al contorno −𝑘 = ℎ 𝑝,𝜏 (𝑇𝑝,𝜏 − 𝑇𝑓 ) ma non andremmo da nessuna parte. Occorre quindi
𝜕𝑛
fare le dovute ipotesi semplificative, oltre all’ℎ costante. Diciamo allora che la temperatura del
corpo evolve in modo uniforme, con gradienti interno molto piccoli, cioè ipotizzando che 𝑇𝐶 − 𝑇𝑆,
con 𝑇𝐶 la temperatura del corpo e 𝑇𝑆 la temperatura della superficie del corpo, sia una quantità
𝑇 −𝑇
molto piccola rispetto alla differenza 𝑇𝑆 − 𝑇𝑓 , quindi 𝑇𝐶 − 𝑇𝑆 ≪ 𝑇𝑆 − 𝑇𝑓 , da cui 𝐶 𝑆 ≪ 1, e
𝑇𝑆 −𝑇𝑓
chiamiamo proprio quest rapporto errore 𝜀 che noi commettiamo nel compiere l’approssimazione
di uniformità (se non fosse 𝜀 ≪ 1 non potremmo procedere oltre). Ora è necessario esprimere
questo 𝜀 in funzione di grandezze a noi note, poiché non sappiamo né 𝑇𝐶 né 𝑇𝑆, ma solo 𝑇0 , tuttavia
non potremo effettuare un calcolo rigoroso perché sia 𝑇𝐶 che 𝑇𝑆 varieranno nel tempo e quindi
anche 𝜀: sarà necessario ragionare per ordini di grandezza. Immaginiamo allora di avere una
temperatura media nel cuore del corpo 𝑇𝐶 , cuore situato nei pressi del baricentro, e immaginiamo
di avere una temperatura 𝑇𝑆 , temperatura media della superficie. Il calore dal cuore alla superficie
si scambierebbe per conduzione, e dalla superficie al fluido per adduzione: le relazioni sarebbero
𝜕𝑡
dunque 𝑑𝑄𝑐𝑜𝑛𝑑 ≃ −𝑘 | 𝑆𝑑𝜏 e 𝑑𝑄𝑎𝑑𝑑 = ℎ 𝑎 𝑆(𝑇𝑆 − 𝑇𝑓 )𝑑𝜏. Ora ragioniamo per ordini di grandezza
𝜕𝑛 𝑆
o 𝑇𝐶 −𝑇𝑆
(come se dovessimo trattare con una parete piana) e scriviamo 𝑑𝑄𝑐𝑜𝑛𝑑 = 𝑘 𝑆𝑑𝜏, dove L è il
𝐿
𝑇𝐶 −𝑇𝑆
percorso termico medio. Procediamo quindi così: 𝑘 𝑆𝑑𝜏 = ℎ 𝑎 𝑆(𝑇𝑆 − 𝑇𝑓 )𝑑𝜏, ecco infine che 𝜀 =
𝐿
𝑇𝐶 −𝑇𝑆 ℎ𝑎𝐿
≃ (non è Nusselt perché è il k del corpo e non del fluido). Ricordiamo brevemente che per
𝑇𝑆 −𝑇𝑓 𝑘
corpi tozzi (rispettivamente allungati) L è il raggio della sfera osculatrice (rispettivamente cilindro
osculatore) mentre per corpi non assimilabili alle due precedenti categorie prendiamo il rapporto
𝑉
. Abbiamo quindi un mezzo che ci permette di stimare 𝜀 e di capire se possiamo procedere, se
𝑆
quindi questo è possibile procediamo. Intuiamo che la curva di raffreddamento ha un andamento
temporale via via decrescente e anche la pendenza sarà decrescente perché man mano che si
scambia la causa ∆𝑇 diminuisce e quindi diminuisce l’effetto 𝑞, che quindi causa a sua volta un
raffreddamento minore. Ci aspettiamo allora che la curva sia un’esponenziale decrescente, di
forma 𝑇 = 𝑇𝑓 + 𝐴𝑒 −𝐵𝜏 . A può essere determinato imponendo che per 𝜏 = 0, 𝑇 = 𝑇0 ∶ 𝑇 = 𝑇0 = 𝑇𝑓 +
𝐴, quindi 𝐴 = (𝑇0 − 𝑇𝑓 ). Se B è grande vuol dire che il corpo scambia in fretta perché si raffredda
prima, quindi probabilmente B è proporzionale al coefficiente di scambio ℎ e alla superficie di
scambio 𝑆, mentre potrebbe essere inversamente proporzionale a 𝑐𝑚, poiché sappiamo che a parità
di calore scambiato più 𝑐𝑚 è alta più il corpo si raffredda lentamente. Ma consideriamo ora
l’intervallo di tempo 𝜏 + 𝑑𝜏 (la situazione varia nel tempo). Le relazioni di causa effetto di cui
disponiamo sono: 𝑑𝑄(𝑒𝑓𝑓𝑒𝑡𝑡𝑜) = −ℎ𝑆(𝑇 − 𝑇𝑓 )𝑑𝜏(𝑐𝑎𝑢𝑠𝑎) e 𝑑𝑄(𝑐𝑎𝑢𝑠𝑎) = 𝑐𝑚𝑑𝑇(𝑒𝑓𝑓𝑒𝑡𝑡𝑜), cioè la
legge di Newton e la legge della calorimetria (il meno nella prima deriva dalla convenzione che il
calore uscente è negativo). Uguagliando abbiamo −ℎ𝑆(𝑇 − 𝑇𝑓 )𝑑𝜏 = 𝑐𝑚𝑑𝑇, da cui separando le
𝑑𝑇 ℎ𝑆
variabili abbiamo =− 𝑑𝜏, ricordando che la 𝑇𝑓 è costante perché la capacità termica del
𝑇−𝑇𝑓 𝑐𝜌𝑉
𝑑(𝑇−𝑇𝑓 ) ℎ𝑆 𝑇−𝑇𝑓 ℎ𝑆
fluido è infinita possiamo scrivere =− 𝑑𝜏 e integrando tra 0 e 𝜏: ln ( )=− 𝜏
𝑇−𝑇𝑓 𝑐𝜌𝑉 𝑇0 −𝑇𝑓 𝑐𝜌𝑉
(abbiamo assunto S costante e h costante, poiché l’errore è trascurabile; ricordiamo 𝜌𝑉 =
𝑇−𝑇𝑓
𝑚 costante; inoltre c è funzione debole della temperatura). Il risultato finale è quindi =
𝑇0−𝑇𝑓
ℎ𝑆 ℎ𝑆
− 𝜏 − 𝜏
𝑒 𝑐𝜌𝑉 , cioè 𝑇 = 𝑇𝑓 + (𝑇0 − 𝑇𝑓 )𝑒 𝑐𝜌𝑉 , come ci aspettavamo. [disegni]
Termodinamica
29) Eseguire una rappresentazione tridimensionale della superficie di stato (𝑝, 𝑣) di una sostanza pura che,
fondendo, aumenta di volume e disegnarne le proiezioni nei piani pv e pT, riportando anche una ser ie di
linee isoterme, ivi inclusa l’isoterma del punto triplo e l’isoterma critica.
30) Enunciare e commentare il Primo Principio della Termodinamica per i sistemi chiusi.
Per poter enunciare il primo principio per un sistema chiuso, procediamo con lo studio delle
interazioni energetiche di un tale sistema che sia in condizione di squilibrio con il suo mezzo. A
causa di questo squilibrio il sistema compirà una trasformazione, cioè interagirà con il mezzo
scambiando calore e lavoro. Ipotizziamo che questa trasformazione sia chiusa: in questo caso ci
accorgiamo che il calore scambiato tra AB e BA è diverso, come pure il lavoro, cioè il saldo finale
delle due transizioni di calore e lavoro presi singolarmente è diverso da zero. In più nella
trasformazione chiusa e ciclica percorsa in senso antiorario il sistema ha ceduto più calore di
quanto ne ha assorbito e ha subito più lavoro di quanto ne ha compiuto. Infatti (constatando che il
calore ceduto è negativo per la legge della calorimetria e che il lavoro compiuto dal mez zo sul
sistema è negativo per 𝐿 = 𝑝𝑑𝑉 con 𝑑𝑉 negativo) accadrà sempre che se il saldo finale mi darà 𝑄 <
0, allora anche 𝐿 < 0 (e viceversa se 𝑄 > 0, 𝐿 > 0), e questo deve già far riflettere. Avvalendoci di
due termini consapevolmente impropri (poiché computiamo calore e lavoro solo quando essi
attraversano la superficie di controllo) diciamo che se da sistema “compare” calore, “scompare”
lavoro e viceversa, è come se dove il sistema “guadagna” in calore “spende” in lavoro. Ma allora,
dal momento che so che il lavoro è energia in transito, cioè è omogeneo a una energia, allora pure
il calore lo sarà, e questo è proprio il grande risultato fornito da Joule e dalla sua prima esperienza:
𝐿
egli ha dimostrato che il rapporto di trasformazione tra lavoro e calore è costante e vale = 𝐸 =
𝑄
𝐽 𝐿
4186 . Se usassimo poi la stessa unità di misura avremmo = 1, cioè 𝐿 − 𝑄 = 0. Tuttavia se la
𝑘𝑐𝑎𝑙 𝑄
trasformazione non fosse ciclica ci imbattemmo in questa situazione: 𝑄 − 𝐿 ≠ 0, la somma
algebrica non sarebbe nulla, come se da qualche parte fosse provenuta dell’energia. Ecco che
abbiamo bisogno di postulare la conservazione dell’energia: essa non può crearsi né distruggersi,
ma solo trasformarsi. È come se il sistema possedesse una riserva energetica che può arricchire e
da cui può attingere, in modo tale da chiudere il bilancio. Ecco allora che se Q e L singolarmente
non sono funzioni di stato, esse si combinano a formarne una nuova: definiamo quindi l’energia
interna U e al tempo stesso scriviamo il primo principio con 𝑈𝐵 − 𝑈𝐴 = 𝑄 − 𝐿. In esso potremmo
leggerci un rapporto di causa-effetto, infatti se il sistema interagisce con il mezzo scambiando Q ed
L, questo causa una variazione di energia interna, variazione che dipende unicamente dagli stati
iniziale e finale. In forma infinitesima avremmo 𝑑𝑈 = 𝛿𝑄 − 𝛿𝐿, stando attenti a ricordare che a
differenza di 𝑑𝑈, 𝛿𝑄 e 𝛿𝐿 sono quantità infinitesime e non variazioni infinitesime.
31) Ricavare e commentare il Principio di Conservazione dell’Energia per i sistemi aperti, evidenziando la
differenza tra lavoro tecnico di macchina (W) e lavoro di compressione (L).
Analizziamo il caso in cui la produzione di lavoro possa essere garantita con continuità, caricando
e scaricando materia attraverso sezioni di efflusso di entrata e di uscita. Naturalmente quando
pensiamo a massa in transito, abbiamo una portata per unità di tempo da noi presa in
considerazione, cioè 𝐺. La materia che transita possiede dell’energia poiché si trova in un certo
stato: chiamiamo allora 𝑑𝜀1 l’energia che entra portata da 𝑑𝑚1 e 𝑑𝜀2 l’energia che esce portata da
𝑑𝑚 2 . Bisogna dire inoltre che attraverso la superficie di controllo, nell’intervallo 𝑑𝜏 potrebbe
avvenire uno scambio di calore e/o lavoro 𝑑𝜀12 tra sistema e mezzo. Senza perdita di generalità
analizziamo il caso in cui il regime sia stazionario (quindi non si modifica il contenuto energetico
del sistema e il flusso è a regime, con portata costante): 𝐺1 = 𝐺2 = 𝐺 e 𝑑𝜀1 + 𝑑𝜀12 − 𝑑𝜀2 = 𝑑𝜀 = 0,
ove 𝑑𝜀 rappresenta l’energia che rimarrebbe al sistema senza stazionarietà e 𝑑𝜀12 è stato preso con
segno positivo ad arbitrio. Dal momento che 𝐺1 = 𝐺2 , si ha che 𝑑𝑚1 = 𝑑𝑚2 , e quindi scegliamo di
procedere ragionando per unità di massa. Abbiamo quindi un’energia per unità di massa 𝐸 =
𝑑𝜀 𝐽
( ), che corrisponde a una potenza per unità di portata. Scriviamo allora 𝑑𝜀 = 𝐸𝑑𝑚 → 𝑑𝜀 =
𝑑𝑚 𝑘𝑔
𝐸𝐺𝑑𝜏 e sostituendo nella formula dell’energia si ha 𝐸1 𝐺𝑑𝜏 + 𝐸12 𝐺𝑑𝜏 = 𝐸2 𝐺𝑑𝜏, da cui 𝐸1 + 𝐸12 = 𝐸2 .
1
Scriviamo quindi l’energia per unità di massa in entrata e in uscita: 𝐸1 = 𝑔𝑧1 + 𝑢12 + 𝑈1 e 𝐸2 =
2
1
𝑔𝑧2 𝑢22 + 𝑈2 , ove 𝑧1 e 𝑧2 sono le quote in entrata e in uscita. Analizziamo ora il calore e il lavoro
2
scambiato attraverso la superficie di controllo 𝐸12 = 𝑄12 − 𝑊12 , ove 𝑊12 è il lavoro nel caso di
sistema aperto. È necessario però ricordare che la superficie di controllo 𝜎 è costituita anche da
sezioni di entrata e di uscita, ove il fluido compie un lavoro di pressione; chiamando 𝑝1 la pressione
del fluido entrante e 𝐴1 la sezione di entrata ortogonale al campo di pressione, scegliamo di
studiare un cilindro di fluido, immaginando che la testa del fronte di avanzamento sia un
pistoncino di fluido che si sposta di un ∆𝑥1, ragionando al finito. Ecco quindi che il lavoro è forza
𝜌 𝐺∆𝜏
per spostamento, abbiamo: 𝐿1 = (𝑝1 𝐴1 )∆𝑥1 = 𝑝1 𝐴1 𝑢1 ∆𝜏 = 𝑝1 1 𝐴1 𝑢1 ∆𝜏 = 𝑝1 , ma dal momento
𝜌1 𝜌1
𝐿1 𝑝1
che a noi interessa il lavoro per unità di massa si ha = = 𝑝1 𝑣1 (non deve sorprendere che un
𝐺∆𝜏 𝐿1
lavoro locale abbia dato come risultato il prodotto tra due funzioni di stato). In sostanza abbiamo
𝐸12 = 𝑄12 − 𝑊12 + 𝑝1 𝑣1 − 𝑝2 𝑣2 , ove 𝑝1 𝑣1 e 𝑝2 𝑣2 sono le energie di flusso o di pressione. Riscriviamo
quindi 𝐸1 + 𝐸12 = 𝐸2 così; attribuendo le energie di flusso a 𝐸1 e a 𝐸2 :
1 1 1
𝑔𝑧1 + 𝑢12 + 𝑈1 + 𝑝1 𝑣1 − 𝑔𝑧2 − 𝑢22 − 𝑈2 − 𝑝2 𝑣2 = −𝑄12 + 𝑊12 ⇒ 𝑔(𝑧2 − 𝑧1 ) + (𝑢22 − 𝑢12 ) +
2 2 2
(𝐼2 − 𝐼1 ) = 𝑄12 − 𝑊12 . Trascurando poi le variazioni di quota e progettando affinché le velocità
siano all’incirca uguali, abbiamo: ∆𝐼 = 𝑄 − 𝑊. La differenza tra W ed L è che W tiene conto di un
transito che, se non ci fosse, non potremmo parlare di sistema aperto: ∆𝐼 = 𝑄 − 𝑊, ∆𝑈 + ∆(𝑝𝑣) =
𝑄 − 𝑊; 𝑄 − 𝐿 + (𝑝2 𝑣2 − 𝑝1 𝑣1 ) = 𝑄 − 𝑊 → 𝑊 = 𝐿 + 𝑝1 𝑣1 − 𝑝2 𝑣2 , con 𝑝1 𝑣1 − 𝑝2 𝑣2 arricchimento tra
entrata e uscita. Se passassimo ora dal finito all’infinitesimo…𝑑𝐼 = 𝑑𝑄 − 𝑑𝑊 → 𝑑(𝑈 + 𝑝𝑣) = 𝑑𝑄 −
2
𝑑𝑊 → 𝑑𝑈 + 𝑣𝑑𝑝 + 𝑝𝑑𝑣 = 𝑑𝑄 − 𝑑𝑊 → 𝑑𝑊 = −𝑣𝑑𝑝, ecco quindi che se 𝐿12 = ∫1 𝑝𝑑𝑉 , 𝑊12 =
2 1
− ∫1 𝑣𝑑𝑝 = ∫2 𝑣𝑑𝑝, e nel caso avessimo gruppo cilindro pistone che compie un ciclo costituito da
una espansione isobara a 𝑝1 , un’espansione adiabatica e una compressione isobara a 𝑝2 < 𝑝1 ,
2
calcolando il lavoro totale 𝐿𝑡𝑜𝑡 = 𝐿01 + 𝐿12 + 𝐿23 potremmo scrivere 𝐿𝑡𝑜𝑡 = 𝑝1 𝑣1 + ∫1 𝑝𝑑𝑣 − 𝑝2 𝑣2 e
invertendo ascisse con ordinate nel [grafico2] ci accorgemmo che 𝑊12 = 𝐿12 + 𝑝1 𝑣1 − 𝑝2 𝑣2 =
2 1
− ∫1 𝑣𝑑𝑝 = ∫2 𝑣𝑑𝑝 = 𝐿𝑡𝑜𝑡 .
34) Discutere gli effetti della irreversibilità delle trasformazioni reali sulla variazione di en tropia del sistema
e del mezzo.
Prendiamo subito in considerazione la variazione di entropia totale: ∆𝑆𝑡𝑜𝑡 = ∆𝑆𝑠𝑖𝑠𝑡 + ∆𝑆𝑚𝑒𝑧𝑧𝑜 ;
esprimiamo questa uguaglianza con relazioni integrali: ( 𝑆𝐵 − 𝑆𝐴 )𝑡𝑜𝑡 = (𝑆𝐵 − 𝑆𝐴 )𝑆 + ( 𝑆𝐵 − 𝑆𝐴 )𝑀 =
𝐵 𝑑𝑄𝑒 𝐵 𝑑𝑄𝑡 𝐵 𝑑𝑄𝑎 𝐵 𝑑𝑄𝑒 𝐵 𝑑𝑄𝑡 𝐵 𝑑𝑄𝑎
[∫𝐴 ∫𝜎 ( ) + ∫𝐴 ∫𝑉𝑆 + ∫𝐴 ∫𝑉𝑆 ] + [∫𝐴 ∫𝜎 ( ) + ∫𝐴 ∫𝑉𝑀 + ∫𝐴 ∫𝑉𝑀 ]. Abbiamo tenuto
𝑇 𝑆 𝑇 𝑇 𝑇 𝑀 𝑇 𝑇
conto quindi che il 𝑑𝑆 è doppiamente infinitesimo sia nel volume che nella trasformazione, e che
𝑑𝑄𝑒 = 0 se l’elemento 𝑑𝑉 di sistema o mezzo non ha come bordo parte della superficie di controllo
𝜎. Inoltre gli estremi di integrazione A e B obbediscono alla convenzione che, per il mezzo,
l’integrale va dallo stato in cui si trova il mezzo quando il sistema è in A e arriva allo stato in cui si
trova il mezzo quando il sistema è in B. Per non dilungarci con la notazione scriviamo i 4 integrali
legati ai fenomeni di irreversibilità come ∑41 ∫𝑖 𝑖𝑟𝑟𝑒𝑣. Prendo quindi in esame una trasformazione
ciclica reversibile, quindi con ∆𝑆 = 0 e ∑41 ∫𝑖 𝑖𝑟𝑟𝑒𝑣 = 0: in questo caso il ∆𝑆𝑡𝑜𝑡 si riduce a ∆𝑆𝑡𝑜𝑡 =
𝑑𝑄𝑒 𝑑𝑄𝑒 𝑑𝑄𝑒
∲ ∫𝜎 ( ) + ∲ ∫𝜎 ( ) = 0. Usando quindi l’equazione di Clausius ∲ ∫𝜎 ( ) = 0 ricaviamo che
𝑇 𝑆 𝑇 𝑀 𝑇 𝑆
𝑑𝑄𝑒
anche ∲ ∫𝜎 ( ) = 0: se il sistema torna allo stato di partenza attraverso infiniti stati di equilibrio,
𝑇 𝑀
allora anche il mezzo lo fa. Prendiamo ora una trasformazione reversibile ma aperta e scriviamo
𝐵 𝑑𝑄𝑒 𝐵 𝑑𝑄𝑒
∆𝑆𝑡𝑜𝑡: risulta che ∆𝑆𝑡𝑜𝑡 = ∫𝐴 ∫𝜎 ( ) + ∫𝐴 ∫𝜎 ( ) . In questo caso non vale più Clausius, ma il
𝑇 𝑆 𝑇 𝑀
sistema e il mezzo rimangono sempre in stati infinitesimi di equilibrio o meglio di quasi-equilibrio:
sono quindi sostanzialmente alla stessa temperatura e quindi, dal momento che i denominatori
sono uguali e i numeratori sono uguali ma di segno opposto, il ∆𝑆𝑡𝑜𝑡 = 0: l’entropia totale allora ha
una grande valenza, ma prendiamo ora in considerazione una trasformazione ciclica irreversibile,
per la quale tanto più ∑41 ∫𝑖 𝑖𝑟𝑟𝑒𝑣 > 0 tanto più sono ingenti gli squilibri interni e gli attriti. Risulta
𝑑𝑄𝑒 𝑑𝑄𝑒
quindi ∆𝑆𝑡𝑜𝑡 = [∲ ∫𝜎 ( ) + ∲ ∫𝜎 ( ) + ∑41 ∫𝑖 𝑖𝑟𝑟]. Prendiamo in esame l’intero sistema: senza
𝑇 𝑆 𝑇 𝑀
perdita di generalità ipotizziamo che 𝑇𝑆 sia maggiore di 𝑇𝑀 . Adesso accoppiamo i rispettivi termini
dentro il primo e il secondo integrale. Avremo allora una somma di infinite coppie, che
rappresenterebbero una somma discreta che darebbe come risultato il risultato di due integrali
𝑑𝑄 𝑑𝑄
calcolati contemporaneamente. La generica coppia è del tipo (− 𝑒 + 𝑒) ove si è tenuto conto
𝑇𝑆 𝑇𝑀
della constatazione che il calore assorbito è positivo e quello ceduto è negativo. Mettendo in
1 1
evidenza 𝑑𝑄𝑒 avremo 𝑑𝑄𝑒 ( − ), che è positivo per ipotesi 𝑇𝑆 > 𝑇𝑀. Ma se la generica coppia è
𝑇𝑀 𝑇𝑆
positiva allora vuol dire che il risultato di due integrali è positivo (il secondo integrale è più
positivo di quanto sia negativo il primo). Ecco allora che il ∆𝑆𝑡𝑜𝑡 è tanto più positivo quanto più
sono grandi gli squilibri interni, i fenomeni di attrito e gli squilibri tra sistema e mezzo. L’entropia
totale quindi può definitivamente essere assunta come indice di irreversibilità delle trasformazioni,
e ci permette di quantificare l’errore che commettiamo ad approssimare una trasformazione
irreversibile con una reversibile. Il risultato finale sarebbe stato il medesimo anche se la
trasformazione non fosse stata ciclica, e ci fa dedurre che se non possiamo agire in alcun modo
sugli squilibri interni che saranno sempre presenti poiché lavoriamo sempre in condizioni di
irreversibilità, dobbiamo fare in modo di migliorare le condizioni di irreversibilità che derivano
della degradazione di energia di prima specie in forme di energia di seconda specie.
35) Rappresentare le principali trasformazioni termodinamiche sui piani 𝑝𝑣, TS e IS. Illustrare, per ciascuno
di tali piani termodinamici, il significato fisico dell’area sottesa dalla generica trasformazione rispetto
all’asse orizzontale.
Per quanto riguarda il piano 𝑝𝑣, iniziamo con la rappresentazione di una sostanza pura che
fondendo aumenta di volume. [disegno1] In blu sono riportate svariate isoterme, e anche
l’isoterma del punto critico in verde e l’isoterma del punto triplo in rosso. Naturalmente in questo
caso le isobare sono rette parallele all’asse verticale. In termini analitici l’area sottesa dalla generica
𝐵
trasformazione sarebbe della forma 𝐴𝑟𝑒𝑎 = ∫𝐴 𝑝𝑑𝑣, che come è risaputo corrisponde al lavoro che
il sistema compie sull’esterno se 𝑑𝑣 > 0 oppure che il mezzo compie sul sistema se 𝑑𝑣 < 0. Se
andassimo poi nel campo dei gas possiamo tracciare le isoterme come rami di iperbole equilatera e
le adiabatiche come rami di esponenziale decrescente (questo risultato può essere tratto ricordando
l’equazione dell’adiabatica 𝑝𝑣 𝑘 = 𝑐𝑜𝑠𝑡 oppure semplicemente pensando al primo principio ∆𝑈 =
−𝐿, che ci dice che il lavoro compiuto o subito dal sistema causerebbe una variazione di U e quindi
di T per un gas perfetto). Passando quindi al piano TS [disegno2] sempre facendo riferimento alla
𝐵
massa unitaria, ci si accorge che l’area sottesa dalla generica trasformazione è della forma ∫𝐴 𝑇𝑑𝑆,
𝑑𝑄
ma allora, ricordando che 𝑑𝑆 = , l’area sottesa non è altro che il calore, assorbito se 𝑑𝑆 > 0 e
𝑇
ceduto se 𝑑𝑆 < 0 dal sistema al mezzo, scambiato durante la trasformazione. Ma allora in una
trasformazione ciclica con ∆𝑈 = 0, l’area racchiusa dal ciclo, per il primo principio 𝑄1 − 𝑄2 = 𝐿,
rappresenta il lavoro compiuto dal sistema (verso orario) o subito dal sistema (verso antiorario)
durante il generico ciclo. È interessante notare che in questo caso le isoterme sono rette orizzontali
e le isentropiche sono rette verticali che coincidono con le adiabatiche reversibili (perché per le
𝑑𝑄
adiabatiche 𝑑𝑄 = 0 e quindi 𝑑𝑆 = = 0), e quindi possono essere rappresentate per un fluido
𝑇
qualsiasi in una fase qualsiasi. Ma come possiamo rappresentare le isocore e le isobare in questo
piano? Ci viene in aiuto un confronto con il piano 𝑝𝑣: infatti ricordiamo che in questo piano le
isoterme e le isobare coincidono (sono infatti isotermobariche) e quindi nella campana del piano TS
le isobare sono orizzontali; nel piano 𝑝𝑣 poi al di fuori della campana le isobare attraversano
isoterme a temperatura via via crescente spostandoci verso destra, e quindi così dovranno fare
anche nel grafico TS. Nel campo dei vapori insaturi e dei gas possiamo anche capire quale sia la
concavità: infatti approssimando il vapore a gas perfetto e considerando 𝑐𝑝 costante (gas
𝑑𝑇 𝑇
piucchepperfetto) per l’isobara potremmo scrivere 𝑑𝑄 = 𝑇𝑑𝑆 → 𝑐𝑝𝑑𝑇 = 𝑇𝑑𝑆 → = , e quindi se
𝑑𝑆 𝑐𝑝
la temperatura aumenta la pendenza aumenta, e l’equazione delle isobare nelle suddette ipotesi
𝑆
𝑆
sarebbe ln(𝑇) = + 𝑐𝑜𝑠𝑡 da cui 𝑇 = 𝑐𝑜𝑠𝑡 𝑒 𝑐𝑝. Prendendo ora in considerazione una isocora,
𝑐𝑝
potremmo trarre le medesime conclusioni osservando il grafico in 𝑝𝑣: notiamo quindi che nel
piano 𝑝𝑣 l’isocora attraversa isoterme via via a temperatura maggiore spostandosi verso l’alto, e
quindi anche nel piano TS dovrà tagliare isoterme via via a temperatura maggiore. È lecito
chiedersi però se sia più pendente l’isobara o l’isocora: prendiamo l’equazione 𝑑𝑄 = 𝑇𝑑𝑆, (gas
𝑑𝑇 𝑇
piccheperfetto) che nel caso dell’isocora diviene 𝑐𝑣 𝑑𝑇 = 𝑇𝑑𝑆, e quindi la pendenza sarebbe = ,
𝑑𝑆 𝑐𝑣
𝑇 𝑇
che è crescente quindi più dell’isobara poiché 𝑐𝑝 > 𝑐𝑣 → > ; in questo caso l’equazione sarebbe
𝑐𝑣 𝑐𝑝
𝑆
𝑇 = 𝑐𝑜𝑠𝑡 𝑒 . Per poter graficare infine il piano IS ci serviamo dell’aiuto del piano TS, ma prima
𝑐𝑣
37) Illustrare le metodologie di calcolo delle perdite di carico all’interno delle condotte.
Consideriamo un sistema all’interno del quale entri energia meccanica 𝐸1 ed esca energia
meccanica 𝐸2 attraverso le sezioni di entrata e di uscita (l’energia meccanica o carico è data da 𝐸 =
1
𝑔𝑧 + 𝑢2 + 𝑝𝑣). Immaginiamo poi che il sistema sia rifornito di energia meccanica 𝑊 attraverso la
2
superficie di controllo che subisce tra entrata ed uscita una perdita di carico R. Applicando la
conservazione dell'energia meccanica abbiamo: 𝐸1 + 𝑊 = 𝑅 + 𝐸2 → (𝐸2 − 𝐸1 ) = 𝑊 − 𝑅 → 𝑊 =
(𝐸2 − 𝐸1 ) + 𝑅; ecco quindi che se conosco 𝐸2 e 𝐸1 , per capire quanto devo dare al fluido per
compensare i fenomeni di attrito devo conoscere R. sperimentalmente si ricava che R dipende dalla
velocità 𝑢 se il moto è laminare (𝑅𝑒𝐷 < 2300) , da 𝑢2 se il moto è fortemente turbolento
(𝑅𝑒𝐷 ≫ 2300) , e da 𝑢𝑛 , con 1 < 𝑛 < 2, se il moto è turbolento (𝑅𝑒𝐷 > 2300) . Sempre
sperimentalmente si ricava che R è linearmente dipendente dalla lunghezza 𝑙 della tubazione e
inversamente dipendente dal diametro 𝑑 della sezione trasversale della tubazione (intuitivamente
1
𝑅 dipende dalla velocità poiché essa incide sul grado di rimescolamento, e dipende da 𝑙 e da
𝑑
poiché la lunghezza del percorso e la grandezza del tubo incidono sui fenomeni di attrito interno
al sistema e tra sistema e mezzo). Se dovessimo compiere un esperimento in deflusso isotermo e a
regime stazionario di un fluido incomprimibile potremmo così schematizzare: abbiamo un circuito
chiuso con una pompa azionata da motore elettrico e una sezione di tubo con due manometri in
1
entrata e uscita e, applicando Bernoulli (Navier), risulterebbe che 𝑔(𝑧2 − 𝑧1 ) + (𝑢22 − 𝑢12 ) +
2
𝑣(𝑝2 − 𝑝1 ) = 𝑊 − 𝑅 (per unità di massa), ma 𝑊 = 0 poiché la superficie del tubo è indeformabile
in più il tubo è disposto orizzontalmente e c’è continuità (regime stazionario) di flusso con
diametro costante, quindi 𝑧1 = 𝑧2 e 𝑢1 = 𝑢2 e risulta 𝑅 = 𝑣(𝑝1 − 𝑝2 ) con 𝑣 costante per ipotesi di
incomprimibilità. Conoscendo quindi il ∆𝑝 con un manometro differenziale calcoliamo 𝑅.
1
Tornando quindi al nostro risultato sperimentale iniziale possiamo scrivere che 𝑅 ∝ 𝑢𝑛 𝐿 con 1 ≤
𝐷
𝑛 ≤ 2. Per passare al segno di uguaglianza introduciamo il fattore di Fanning 𝑓𝐹 , ed in più usiamo
𝑢2
il raggio idraulico 𝑟𝑖 al posto di 𝐷 e al posto di 𝑢𝑛 , per avere l’espressione della cinetica del
2
1 𝑢2
fluido (tanto più che poi al denominatore 𝐷 = 2𝑟𝑖 ): 𝑅 = 𝑓𝐹 𝐿. Il coefficiente di attrito terrà poi
𝑟𝑖 2
conto del fatto che l’esponente di 𝑢 dovrà essere corretto a seconda del moto. Specifichiamo inoltre
che il raggio idraulico è dato dall’area di efflusso 𝐴 fratto il perimetro bagnato 𝑝𝑏 , ed è una
grandezza lineare che tiene conto di tutte le possibili modalità di efflusso di un fluido. Nel caso in
𝜋𝐷2 1 𝐷 4
cui avessimo un condotto di forma cilindrica in pressione: 𝑟𝑖 = ⋅ = e quindi 𝑅 = 𝑓𝐹 ⋅
4 𝜋𝐷 4 𝐷
𝑢2 2
𝐿 = 𝑓𝐹 𝑢2 𝐿, tenendo sempre a mente che il fattore di Fanning tiene conto di come sia il moto,
2 𝐷
cioè riduce la reale dipendenza di R dalla velocità. Quindi per calcolare R dobbiamo calcolare 𝑓𝐹 .
𝑚
𝐽 𝑁⋅𝑚 𝑘𝑔⋅ 2 ⋅𝑚 𝑚2
Innanzitutto occorre notare che [𝑅] = = = 𝑠
= e quindi il fattore di Fanning non può
𝑘𝑔 𝑘𝑔 𝑘𝑔 𝑠2
che essere un fattore adimensionale che fa riferimento al numero di Reynolds; si può dimostrare
16 𝜌𝑢
̅𝐷
matematicamente che nel moto laminare 𝑓𝐹 = , però 𝑅𝑒𝐷 = tiene sì conto del
𝑅𝑒 𝜇
rimescolamento, ma non dei fenomeni di attrito tra parete del tubo, che ha una sua rugosità, e
fluido. Il georgiano Nikuradse fece degli esperimenti per capire quanto influisse la rugosità, e in
particolare verniciò l’interno dei tubi con una miscela di vernice e sabbia. Facendo quindi
𝑎
riferimento ad una rugosità relativa ( ), con a altezza media dei granelli e D diametro del tubo,
𝐷
ideò un abaco per descrivere come variasse la perdita di carico al variare della rugosità relativa.
Considerando come dati le proprietà fisiche del fluido, la velocità del fluido, il diametro e la
lunghezza della tubazione e la rugosità relativa, graficò come varia il 𝐿𝑜𝑔(𝑓𝐹 ) al variare di
2
𝐿𝑜𝑔(𝑅𝑒𝐷 ) (operativamente poté calcolare R con 𝑅 = 𝑣 (𝑝1 − 𝑝2 ) e 𝑓𝐹 con 𝑅 = 𝑓𝐹 𝑢2 𝐿). Nikuradse
𝐷
16
avvalorò la dipendenza di 𝑓𝐹 da per il moto laminare e l’indipendenza della 𝑓𝐹 da 𝑅𝑒𝐷 nel moto
𝑅𝑒𝐷
𝑎
molto turbolento. Notiamo quindi nel suo abaco le curve con crescente andando verso l’alto:
𝐷
tanto più la rugosità relativa è alta tanto più la dipendenza da 𝑅𝑒𝐷 termina prima. Tuttavia l’abaco
di Nikuradse ha solo valenza fenomenologica e non operativa: per questo l’americano Moody
negli anni ’30 introdusse il suo abaco derivato da esperimenti con tubi commerciali prodotti con
modalità e materiali diversi. I commercianti gli fornirono una rugosità assoluta molto grossolana,
𝑎
quindi lui usò questo metodo per assegnare una convenzionale alle sue curve (risultato di studi
𝐷
𝑎 ∗
statistici su molti esperimenti): lui prese, per 𝑅𝑒𝐷 molto alti, l’( ) di un (𝑓𝐹 )∗ sull’abaco di
𝐷
𝑎 ∗
Nikuradse e quindi associò a (𝑓𝐹 ) ∗ sul suo abaco quella ( ) . Tuttavia oggi i costruttori mettono a
𝐷
𝑎
disposizione un abaco per valutare da soli la rugosità relativa . Va infine ricordato che ai tratti di
𝐷
circuito che causano una perdita di carico localizzata viene assegnata una lunghezza equivalente
di tubo convenzionale fratto il diametro del tubo stesso. [disegni].
38) Illustrare il ciclo termodinamico delle macchine a vapore (Rankine) e ricavarne il rendimento termico.
Il ciclo Rankine è un ciclo termodinamico che nasce dagli studi teorici sul rendimento ed è poi
stato adattato ad aspetti pratici. Infatti esso fa riferimento a due isotermobariche e a due
adiabatiche isentropiche nella campana del vapor saturo dell’acqua, ove quindi l’esigenza di
ridurre al minimo le perdite di carico (𝑅 = 𝑣(𝑝1 − 𝑝2 )) coincide con la messa in pratica del ciclo di
Carnot, poiché nella campana isoterme e isobare coincidono, come già detto. In partenza si può
supporre che questo ciclo possa essere fatto da una compressione adiabatica in un compressore
alternativo, da una isotermobarica in uno scambiatore detto vaporizzatore (generatore di vapore),
da una espansione adiabatica in un espansore alternativo e da una condensazione in un
condensatore (scambiatore); tuttavia emerge subito che le difficoltà tecniche sono molteplici: la
compressione 1-2 avviene con titolo del vapore bassissimo, ma sappiamo che il liquido è
incomprimibile, e se dovessimo usare un compressore alternativo, anche se la compressione
avviene ad isotitolo poiché è molto rapida, la testata del compressore si romperebbe dopo 2-3 cicli.
La 3-4 invece è un’espansione in cui da vapor saturo inizia a condensare liquido, ed il problema è
che in un espansore alternativo la condensazione di flash andrebbe a causare erosione del cilindro,
quindi sfiatamento. Nasce quindi l’esigenza sia nella 1-2 che nella 3-4 di sostituire apparecchi
alternativi ad apparecchi rotativi, ma il problema tecnico sussiste: infatti nel caso di compressore
rotativo della 1-2 avremmo che la macchina non funzionerebbe a causa dell’erosione generata dal
liquido, poiché progettata per un aeriforme, e anche nella 3-4 questo problema compare seppur
più lievemente, poiché la causa maggiore dei problemi proverrebbe dalle gocce d’acqua che urtano
sull’estradosso della pale di turbina. Dobbiamo quindi obbligatoriamente uscire dalla campana del
vapor saturo: effettueremo quindi un elevamento di pressione 1’-2’ nel campo dei liquidi con una
pompa e l’espansione 3’-4’ nel campo del vapore insaturo con un espansore rotativo. Bisogna
notare quindi che prima e dopo l’isotermobarica (vaporizzazione) 2-3 nel generatore di vapore si
effettuano 2 riscaldamenti isobari: 2’-2 prima dell’incipiente vaporizzazione in 2 ed uno 3-3’ dopo
il raggiungimento del titolo unitario del vapore in 3’ (da cui il nome di ciclo dei vapori
surriscaldati). Tuttavia bisogna precisare che l’acqua ha una campana che scende molto
dolcemente nella CLS, quindi spesso si sopporta anche che 4’ sia dentro la campana con titolo del
vapore che non scende sotto 0,9, sennò si dovrebbe surriscaldare molto. Emerge quindi che da 4’ a
1’ avviene una condensazione che parte da titolo di vapore unitario (o quasi) a titolo del vapore
nullo, e questo è molto più pratico perché nel ciclo Rankine di partenza la condensazione non era
completa e le nostre apparecchiature (scambiatori) non avrebbero garantito inizio e fine della
trasformazione in 4 e in 1 a causa di oscillazioni periodiche. Riportiamo quindi uno schema della
componentistica di base necessaria per effettuare il ciclo: notiamo che la 1’-2’ avviene in una
pompa, da 2’ a 3’ ci troviamo in un generatore di vapore, la 3’-4’ avviene in una turbina che va
dilatandosi poiché l’aeriforme si espande, e infine la 4’-1’ in un condensatore. Per il calcolo del
rendimento procediamo prima con un approccio fenomenologico: facendo riferimento a 𝜂 = 1 −
|𝑄2 |
|𝑄1 |
, calcoliamo 𝑄1 (tenendo conto del passaggio di fase e, per le due isobare, prendendo in
considerazione i due calori specifici medi tra le due temperature 𝑇2 e 𝑇2′ e tra 𝑇3′ e 𝑇3 ): 𝑄1 =
𝑐̅𝑝𝑙 (𝑇2 − 𝑇2′ ) + 𝑟𝑇2 (𝑥3 − 𝑥 2 ) + 𝑐̅𝑝𝑣 (𝑇3′ − 𝑇3 ), con (𝑥3 − 𝑥2 ) = 1; calcoliamo ora 𝑄2 , ricordando che il
titolo in 4’ potrebbe non essere unitario: 𝑄2 = 𝑟𝑇1 (−𝑥 4 ). Procediamo ora invece con un approccio
ingegneristico e qualitativo: facendo riferimento al ciclo riportato sul grafico entalpia entropia
consideriamo i salti entalpici dei due scambiatori : 𝑄1 = 𝐼3′ − 𝐼2′ ; 𝑄2 = 𝐼4′ − 𝐼1′ allora il rendimento
𝐼4′−𝐼1′ 𝐼3′ −𝐼2′−𝐼4′ +𝐼1′ (𝐼3′−𝐼4′ )+(𝐼1′ −𝐼2′ )
diviene: 𝜂 = 1 − = = ma se notiamo bene 𝐼3′ − 𝐼4′ è il salto
𝐼3′−𝐼2′ 𝐼3′−𝐼2′ 𝐼3′ −𝐼2′
entalpico corrispondente al turbocompressore (𝐼3′ − 𝐼4′ ), quindi il lavoro di turbina 𝐿𝑡, mentre
(𝐼1′ − 𝐼2′ ) è il salto entalpico che avviene per mettere in funzione la pompa, quindi è il lavoro di
pompa 𝐿𝑝, mentre 𝐼3′ − 𝐼2′ è il calore che viene complessivamente assorbito dal sistema: abbiamo
ancora una volta ritrovato l’espressione del rendimento come lavoro utile su calore assorbito: 𝜂 =
𝐿𝑡−𝐿𝑝 𝐿𝑢
= , concludiamo nel dire che questo ciclo che si è in ultima istanza delineato non è una
𝑄1 𝑄1
situazione definitiva: è infatti usuale compiere più surriscaldamenti dopo la vaporizzazione (senza
entrare nella campana) per aumentare ulteriormente la T media alla quale viene assorbito 𝑄1 .
39) Illustrare il ciclo termodinamico delle turbine a gas (Joule-Brayton) e ricavarne il rendimento termico.
Nel momento in cui si inizia a trattare dei motori a combustione interna bisogna tenere
presente innanzitutto che si parte non più dall’applicazione della teoria alla pratica, ma in
qualche modo all’adattamento, della ricerca di un modello teorico che più approssimi, più
schematizzi quello che le nostre esigenze tecniche ci hanno fatto ideare. Ma quali sono le
nostre esigenze? Innanzitutto la potenza, poi la leggerezza e il minimo ingombro, e infine
la manutenibilità: questi motori non saranno solo fonte di energia per centrali
termoelettriche (più piccole in questo caso rispetto a quelle che sfruttano macchine a
vapore), ma anche fonte di spinta e propulsione per mezzi di trasporto. La prima grande
differenza che si riscontra è che la combustione interna fa sì che il calore ad alta
temperatura che il sistema assorbe è sviluppato in seno al fluido stesso: il combustibile
usato è ad accensione spontanea (metano, gasolio, cherosene) ed il comburente è il 21% di
ossigeno presente nell’aria. La denominazione di turbine a gas proviene dal fatto che il
fluido che evolve è in aeriforme (combustibile nebulizzato dagli iniettori) schematizzato
come gas. Nel caso dei motori degli aerei abbiamo un motore di questo tipo (notiamo che
l’utilizzatore è un ugello), ma in via del tutto generale lo schema di funzionamento e
componentistica è di questo tipo (in questo caso l’utilizzatore è un alternatore che genera
in trifase). In sostanza avviene che dell’aria entra all’interno del motore o grazie al moto
relativo del mezzo oppure grazie ad opportuni ventilatori e, grazie ad un motorino di
avviamento, viene attivato il compressore che comprime l’aria finché nella camera di
combustione non si raggiunge la temperatura di autoaccensione del combustibile che
viene immesso nebulizzato dagli iniettori. Per evitare che non tutto il combustibile bruci si
lavora in eccesso di aria, e la miscela che brucia si espande in turbina. Lo sviluppo
endogeno di calore fa aumentare la temperatura ma la pressione resta costante perché le
camere di combustione sono formate da tubi aperti (quindi si tratta di un’espansione
isobara); l’espansione del fluido fa quindi muovere la turbina, che poi è in grado di far
muovere il compressore poiché 𝐿 𝑡 > 𝐿 𝑐 (sono calettati sullo stesso asse). Per stemperare le
alte temperature in grado di danneggiare la turbina spesso sono utilizzate delle linee di
by-pass mentre per aumentare la potenza erogata a volte compaiono dei post bruciatori
(soprattutto nella propulsione aerea). È importante notare che il ciclo turbogas è aperto:
infatti l’aria è prelevata e scaricata in atmosfera, tuttavia potremmo schematizzare il nostro
ciclo di riferimento come chiuso, supponendo naturalmente la reversibilità delle
trasformazioni. Sembra quindi che il ciclo che possa meglio approssimare queste necessità
tecniche da noi riscontrate sia formato da una compressione adiabatica 1-2 che avviene nel
compressore, una combustione isobara 2-3 nelle camere di combustione (trattando il calore
prodotto come assorbito), un’espansione adiabatica 3-4 nella turbina, e una isobara che
chiude il ciclo a pressione atmosferica (che in realtà non avviene) e in cui il sistema cede
calore 𝑄2 freddo (è il calore che si cede eliminando i gas di scarico). Il calcolo del
rendimento può essere fatto ricorrendo ad un calore specifico a pressione costante medio
𝑄 𝑇 −𝑇
tra 𝑇1 e 𝑇3 e quindi: 𝜂 = 1 − 𝑄2 = 1 − 𝑇4 −𝑇1 (ove con massa unitaria si è usato che per
1 3 2
l’isobara vale 𝑑𝑄 = 𝑐𝑝 𝑑𝑇). Precisiamo che il fluido aeriforme è trattato da gas perfetto.
Scriviamo quindi le equazioni delle due adiabatiche 1-2 e 3-4: 𝑝𝑣 𝑘 = 𝑐𝑜𝑠𝑡, da cui con
1−𝑘
semplici calcoli 𝑝 𝑘 𝑇 = 𝑐𝑜𝑠𝑡. Applicando quindi alla trasformazione 1-2 e 3-4:
1−𝑘 1−𝑘 1−𝑘 1−𝑘
𝑇1 𝑝2 𝑘 𝑇3 𝑝4 𝑘
𝑘 𝑘
𝑝1 𝑇1 = 𝑝2 𝑇2 → =( ) e =( ) , tenendo poi conto che 𝑝2 = 𝑝3 e 𝑝1 = 𝑝4 si ha
𝑇2 𝑝1 𝑇4 𝑝3
1−𝑘 1−𝑘
𝑇 𝑝2 𝑘 𝑝3 𝑘 𝑇 𝑇 𝑇 𝑇 −𝑇 𝑇
che 𝑇1 = (𝑝 ) = (𝑝 ) = 𝑇4 → 𝑇1 = 𝑇4 da cui si ha che 𝑇4 −𝑇1 = 𝑇1 , da cui segue che 𝜂 = 1 −
2 1 4 3 2 3 3 2 2
1−𝑘
𝑇1 𝑝2 𝑘 𝑝
= 1 − (𝑝 ) . Definiamo quindi 𝛽 = 𝑝2 come rapporto monometrico del compressore e
𝑇2 1 1
1−𝑘
1
scriviamo 𝜂 = 1 − 𝛽 𝑘 , da cui 𝜂 = 1 − 𝑘−1 (poiché k>1). Ecco allora che il rendimento
𝛽 𝑘
dipende da 𝛽 con questo andamento: [grafico]. Terminiamo infine col dire che tuttavia per
𝛽 molto elevati la potenza erogata risulta nulla o quasi, quindi 𝛽𝑚𝑎𝑥 consentito dai nostri
materiali non coincide con il 𝛽 ottimale. Nel caso in cui si operi (sempre) in condizioni di
irreversibilità il rendimento può poi essere quantificato mediante i salti entalpici teorici
tramite l’utilizzo dei rendimenti isentropici del compressore e della turbina forniti dal
costruttore che dipendono dalle forme e dalle modalità di costruzione degli apparati.
Questa è la base da cui si parte per poi migliorare ulteriormente il ciclo a seco nda delle
esigenze e degli utilizzatori, per esempio mediante scambiatori controcorrente (a
rigenerazione) e camere di post combustione. Ricordiamo infine che sul piano IS il ciclo
risulterebbe qualitativamente uguale a quello nel grafico TS.
40) Illustrare il ciclo termodinamico dei motori alternativi ad accensione comandata (Otto) e ricavarne il
rendimento termico.
Come pure per il ciclo Joule-Brayton, nel caso di ciclo Otto è necessario in primis chiarire il
funzionamento del motore e dare importanza predominante alla necessità di potenza, di
leggerezza, di manutenibilità, e poi cercare un ciclo termico che possa rispecchiare al meglio
l’evoluzione che il fluido compie nel ciclo reale. Dobbiamo quindi chiederci: “Come funziona un
motore a benzina?”. Il classico motore 4 tempi oggi ad iniezione (ieri a carburazione) compie
un’aspirazione di miscela (aria e combustibile) finché il pistone non arriva al punto morto inferiore
(in ipotesi di iniezione indiretta), la quale è seguita da una compressione fino a che il pistone non si
trovi nel punto morto superiore; segue quindi un’accensione comandata dagli elettrodi di una
candela che provoca una combustione istantanea durante la quale il pistone non si muove
apprezzabilmente (la combustione avviene tramite la propagazione rapidissima di un fronte di
fiamma che causa un brusco innalzamento della pressione, nonostante la velocità della
propagazione fa in modo che il processo sia isocoro poiché il pistone resta fermo); avviene quindi
una fase utile di espansione e quindi lo scarico. Per poter capire quale sia il ciclo che meglio
approssima il modo di funzionare di questo motore si usa un gruppo cilindro pistone fornito di
manometro e scala graduata, che permette di ricavare il cosiddetto diagramma indicato, che ci
grafica come varia la pressione tra testata e pistone al variare del volume della miscela. Ecco allora
che se dovessimo compiere una schematizzazione reversibile del ciclo con ipotesi di gas perfetto
ideeremmo un ciclo formato da una aspirazione isobara, una compressione adiabatica, una
combustione isocora, un’espansione adiabatica, una depressione isocora, e un’evacuazione isobara.
Naturalmente se nel caso di evacuazione ed aspirazione reali avevamo bisogno di ∆𝑝 finiti, ora in
condizioni reversibili l’entrata e l’uscita del fluido possono essere eseguite in condizioni di
reversibilità con un 𝑑𝑝 infinitesimo. Notiamo allora che in termini di lavoro nel caso reversibile le
due isobare non danno alcun contributo. Il grafico può essere utilizzato anche ragionando per
unità di massa. Occorre però fare una precisazione: infatti se è piuttosto chiaro che il calore
assorbito è in realtà prodotto endogenamente nella 23, abbiamo in questa schematizzazione
supposto che il calore sia ceduto nella 41, cosa non vera nella realtà, poiché il calore è in realtà
asportato in modo continuativo mediante apparecchi di raffreddamento. Riportiamo il ciclo anche
𝑄2 𝑐̅𝑣( 𝑇4−𝑇1)
nel piano TS, e infine procediamo con il calcolo del rendimento: 𝜂 = 1 − =1− (avendo
𝑄1 𝑐̅𝑣( 𝑇3−𝑇2)
fatto riferimento alle isocore e alle masse unitarie). Se quindi usiamo le equazioni delle adiabatiche
𝑇3 𝑣 𝑘−1 𝑇 𝑣 𝑘−1
possiamo scrivere: 𝑇1 𝑣1𝑘−1 = 𝑇2 𝑣2𝑘−1 e 𝑇3 𝑣3𝑘−1 = 𝑇4 𝑣4𝑘−1 , da cui = ( 4) ;1
= ( 2) e quindi
𝑇4 𝑣3 𝑇2 𝑣1
𝑇1 𝑇4 𝑇4 −𝑇1 𝑇1
usando le isocore 𝑣2 = 𝑣3 e 𝑣1 = 𝑣4 si ha che = , da cui si ha che = . Ecco allora che il
𝑇2 𝑇3 𝑇3 −𝑇2 𝑇2
𝑇1 𝑣2 𝑘−1 𝑣1 1−𝑘 1
rendimento è dato da 𝜂 = 1 − , cioè 𝜂 = 1 − ( ) = 1−( ) = 1− 𝑣 𝑘−1 cioè, definendo
𝑇2 𝑣1 𝑣2 ( 1)
𝑣2
𝑣1 1
𝜌= come rapporto di compressione, 𝜂 = 1 − 𝑘−1
. Si arriva quindi che al crescere di 𝜌 cresce 𝜂,
𝑣2 𝜌
tuttavia per 𝜌 alti (più di 10) si incorre in fenomeni di distorsione, e questo pone un limite
all’evacuazione del benzina.
41) Discutere le principali differenze di funzionamento dei cicli motori Otto e Diesel.
La trattazione di questo tema può essere eseguita su diversi aspetti, che possono essere a livello sia
pratico che teorico, ma cerchiamo di porci come obbiettivo la ricerca del motore che possa offrire
più spunti per la ricerca di migliorie. Seguiamo in prima istanza l’evoluzione dei due cicli a livello
di trasformazione: se nel ciclo Otto l’aspirazione di una miscela, nel ciclo Diesel si aspira solamente
aria, e segue quindi una compressione. Nel caso del ciclo Otto l’accensione è comandata, mentre
nel Diesel la compressione è tale che si raggiunga la temperatura di autoaccensione del gasolio, che
rispetto alla benzina ha una temperatura di autoaccensione più bassa. Nella fa se di combustione la
differenza è fondamentale: se nel ciclo Otto avviene una violenta isocora seguita da un’espansione
adiabatica, nel ciclo Diesel, almeno fino all’introduzione del common rail, avveniva una lenta
combustione isobara: questo perché gli iniettori al tempo non nebulizzavano bene il gasolio, e
quindi si doveva dare tempo al combustibile di bruciare: quando il pistone iniziava a scendere
l’iniezione perdurava ancora, e questo faceva sì che il motore fosse lento e con basse prestazioni.
Oggi tuttavia il common rail permette di nebulizzare meglio il combustibile, e quindi il tratto di
isobara è più corto e preceduto da una trasformazione isocora (si tratta del ciclo Sabathé, qui
riportato vicini al ciclo Diesel originario sia sul piano 𝑝𝑣 sia sul piano TS [disegno]). I due cicli
1 𝑣
hanno ovviamente rendimento diverso: il ciclo Otto ha come rendimento 𝜂 = 1 − 𝑘−1 con 𝜌 = 1, il
𝜌 𝑣2
1 1 𝐿𝑘−1 𝑣3
rendimento del ciclo Diesel è dato da 𝜂 = 1 − [ ( )], ove 𝐿 = è detto rapporto di carico.
𝜌𝑘−1 𝑘 𝐿−1 𝑣2
Va detto poi che, dal momento che il gasolio è iniettato dopo la compressione, nel motore diesel
non avviene un fenomeno che nel motore benzina pone come limite massimo a 𝜌 il valore di 10: si
sta parlando della detonazione spontanea, che per 𝜌 > 10 prende il posto della deflagrazione e fa
sì che si propaghi non più il fronte di fiamma ma un’onda d’urto che causa problemi di
sollecitazione meccanica ai componenti, e quindi di usura (un tempo si limitava questo fenomeno
con il piombo tetrametile, oggi bandito). Per il diesel i limiti sono solo a livello dei materiali, cioè
non possiamo superare determinate pressioni e temperature, ma questo è un problema che
caratterizza anche il benzina: possiamo quindi migliorare il rendimento alzando il rapporto di
compressione e diminuendo il rapporto di carico quanto vogliamo. Un ulteriore confronto può
essere fatto in termini di rendimento: ne proponiamo uno teorico a parità di 𝑄1 e 𝜌, e uno più
pratico a parità di 𝑄1 e di sollecitazione massima, cioè di pressione massima. Notiamo che nel
primo caso a parità di 𝑄1 il 𝑄2 del ciclo Otto è minore del 𝑄2 del ciclo Diesel, quindi il rendimento
del primo ciclo risulta maggiore. Tuttavia per il Diesel abbiamo detto che non abbiamo limite su 𝜌,
quindi a parità di 𝑄1 e di pressione massima notiamo che 𝑄2 dell’Otto è maggiore del 𝑄2 del Diesel,
e quindi in questo caso risulta maggiore il rendimento del Diesel. Abbiamo quindi concluso che il
diesel ha più potenzialità del benzina e si presta a migliori evoluzioni anche in termini di
prestazioni: è ormai considerato il motore del futuro.