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14/05/2021 Sociologia

Riprendiamo dalla spiegazione del saggio di Bhambra ed andiamo a vedere quello che è un po’ il
suo approccio. Abbiamo già visto in generale qual è il suo obiettivo in questo saggio e anche qual è
la critica che compie nei confronti degli approcci più tradizionali e di come le scienze sociali hanno
spiegato l’avvento della modernità. Una cosa che dobbiamo aggiungere, rispetto alla critica che lei
compie, è che a suo avviso ha pesato molto anche la distinzione tra le discipline all’interno delle
scienze sociali, è come certe discipline dovessero occuparsi di certe aree del mondo. Di
conseguenza, quell’idea che la modernità rappresenti una rottura temporale e una differenziazione
spaziale dalle altre aree del mondo, ha fatto sì che si affermasse l’idea che la sociologia in quanto
scienza della modernità dovesse occuparsi dell’Europa, delle cosiddette culture avanzate, mentre
l’antropologia dovesse occuparsi di tutte quelle aree extraeuropee, di quelle cosiddette culture
arretrate (secondo un lessico prettamente eurocentrico). L’idea che si dovessero formarsi gli studi di
area, studi specificamente dedicati ad alcuni paesi dell’africa, dell’asia, del Sudamerica, senza che
ci fosse un dialogo fra le discipline, ha fatto si che fosse anche molto difficile individuare quelle
relazioni d cui abbiamo parlato ieri quindi pensare alla modernità come il frutto di relazioni globali
di potere proprio perché discipline diverse andavano a separare questi spazi del globo e ad
occuparsene in maniera indipendente le une dalle altre.
Dunque Bhambra, riprendendo un po’ queste critiche che sono comuni a diversi approcci degli studi
post coloniali, prova anche a vedere come all’interno della sociologia o delle scienze sociali, alcuni
autori ed alcune correnti di pensiero, hanno provato a rispondere a queste critiche.
Effettivamente molta parte della sociologia ha riconosciuto che è vero che le scienze sociali siano
nate con questo vizio di eurocentrismo e allora all’interno della stessa sociologia, soprattutto quella
occidentale, alcuni approcci hanno provato a fare delle proposte che andassero a superare il
problema dell’eurocentrismo.
In particolare in questo saggio di Bhambra ci sono proprio 3 paragrafi dedicati a 3 approcci diversi.
Bhambra nota che effettivamente questi approcci hanno fatto il tentativo di provare a pensare ad
una scienza sociale che sia meno eurocentrica ma a suo avviso nessuno di essi riesce a risolvere il
problema di fondo.
Ora esaminiamoli uno alla volta per capire perché secondo lei non risolvono il problema.
Il primo approccio che Bhambra prende inconsiderazione è quello delle cosiddette modernità
multiple (In realtà, noi non l’abbiamo fatto, ma nel manuale trovate un paragrafo in uno degli
ultimi capitoli dedicato a questo approccio).
Fondato da Shmuel Eisenstadt, il quale sosteneva che ogni società abbia una sua modernità. Dice
che non esiste solo la modernità europea ma, ogni società, ogni diverso contesto del mondo ha
raggiunto una forma di modernità che nasce dall’incontro tra la modernità europea e le tradizioni e
culture locali. Egli quindi sostiene che dobbiamo smettere di pensare in questo modo dicotomico
all’Europa o agli stati uniti come i luoghi fella modernità e il resto del mondo come luoghi non
moderni. In realtà la modernità si è diffusa in ogni parte del mondo, e negli altri paesi si sono
verificati dei processi di adattamento che in qualche modo hanno portato auna commistione tra la
modernità occidentale e le tradizioni locali. A suo avviso quindi non bisogna neanche ritenere che la
modernità europea sia superiore alle altre, semplicemente bisogna organizzare e riconoscere queste
differenze senza collocarle in un’ottica evolutiva.
Si concepisce la modernità come un insieme di processi come l’industrializzazione,
l’urbanizzazione, la nascita e il consolidamento degli Stati Nazionali, i processi di secolarizzazione
ecc. Eisenstadt quindi dice che in Europa la modernità si è configurata come quest’insieme di
processi, articolandosi altrove con le tradizioni e le culture locali e quindi magari qualcuno di questi
processi viene meno, ce n’e solo qualcuno che si va anche a modificare, a mescolare con altre
organizzazioni della società. Ovviamente in questo tipo di approccio, rimane comunque l’idea che
la modernità, in quanto fenomeno originario sia un fenomeno europeo, quindi comunque secondo
Bhambra non viene del tutto superata una visione eurocentrica della spiegazione della nascita della
modernità. Anche l’idea che la modernità altrove possa essere spiegata come insieme di elementi
che vengono dalla modernità europea e di processi mancanti. Rimane quindi questa idea della
mancanza, come se fossero delle modernità incomplete, che prendono qualcosa di ciò che è
avvenuto in Europa ma non tutto. Quindi Bhambra dice che in realtà è vero che questo approccio
comunque ha il merito di non utilizzare l’idea della superiorità e dell’inferiorità e quindi di
riconoscere le differenze e l’idea che non tutto il mondo abbia come punto di arrivo e come
obiettivo, l’organizzazione sociale che c’è in Europa. Viene quindi meno quel idea che tutti stiano
andando nella stessa direzione. Si riconoscono le specificità degli altri contesti però secondo
Bhambra non c’è una differente comprensione di come la modernità ha avuto luogo, non c’è il
rifermento a quei fenomeni come schiavitù e colonialismo e alle relazioni globali che hanno portato
alle relazioni di potere, che hanno portato all’avvento della modernità. Semplicemente viene meno
quell’atteggiamento di superiorità, ritenere la modernità europea superiore e punto di arrivo per tutti
ma non c’è una differente comprensione del passato che è quello che secondo Bhambra, è quello
che serve per narrare diversamente l’avvento della modernità.

Un altro approccio, è quello che Bhambra chiama della sociologia globale multiculturale


(facciamo attenzione perché poi, alla fine, vedremo che l’approccio che lei propone si chiama
sociologia globale post-coloniale).
La sociologia globale multiculturale, la possiamo pensare come molto simile a quello che vi ho
spiegato per le modernità multiple, solo che invece di parlare della nascita della modernità, si parla
della nascita della sociologia. Il focus quindi è su come nasce questo sistema di pensiero. L’idea di
fondo però, è la stessa perché i teorici di questo approccio dicono: è vero che la sociologia è nata
come una scienza occidentale, è nata in Europa, in Francia, in Germania ecc. però, dobbiamo
riconoscere il fatto che in tanti altri contesti le teorie sociologiche, quelle che abbiamo studiato, si
sono mescolate con i saperi locali, quindi con le riflessioni filosofiche e sociali che esistevano anche
altrove di autori e autrici che venivano da altri tipi di correnti. Questo significa che studiosi
extraeuropei si possono anche appropriare in modo creativo delle riflessioni che si sono sviluppate
in Europa e sviluppare a loro volta le proprie teorie e i propri saperi. Secondo Bhambra è un po’ la
stessa logica della teoria delle modernità multiple, innanzitutto perché si vede come punto di origine
sempre la riflessione Europea. Qual è anche il problema secondo Bhambra in questo approccio? Il
problema in questo approccio è che può andar bene da qui in avanti perché esso ci dice di dare
eguale importanze alle riflessioni teoriche di studiosi sia occidentali che non occidentali, ascoltiamo
anche le altre voci. Questo approccio quindi può anche essere di buon auspicio per il futuro in
quanto ci può portare ad avere un atteggiamento meno eurocentrico in futuro o tutt’al più nel
presente ma non si interroga in modo critico sul perché quelle voci non siano state ascoltate finora,
escluse dalle teorie e dalle riflessioni che noi andiamo a studiare. Quindi se come abbiamo detto,
sono sempre esistite delle riflessioni e delle scienze sociali, anche in altri contesti, perché finora li
abbiamo esclusi? Quindi ancora una volta questi approcci non si interrogano sulle relazioni di
potere che hanno dato forma al mondo in cui viviamo. Queste relazioni di potere non riguardano
solo lo sfruttamento ad esempio materiale di lavoro e delle risorse ma anche la visibilità di certi
autori e autrici e il posto che hanno avuto nella storia del pensiero in generale. E’ un po’ il discorso
che abbiamo visto con Du Bois, che non ha avuto la stessa visibilità rispetto a tanti altri.
Il terzo approccio che Bhambra analizza è l’approccio cosmopolita. In particolare l’autore a cui fa
riferimento principalmente è un sociologo contemporaneo Ulrich Beck, noto sia per le teorie sul
cosmopolitismo ma forse vi sarà capitato di sentirlo per la teoria sulla società del rischio. Beck
sostiene che le teorie sociologiche di cui disponiamo oggi, i concetti che sono stati elaborati, non
sono sempre adeguati a comprendere il mondo contemporaneo perché sono delle teorie e dei
concetti che sono stati elaborati sulla base di un nazionalismo metodologico. Egli nota come la
sociologia nasca in una fase in cui in Europa andavano consolidandosi gli Stati-nazione e proprio
per questo, il tipo di analisi e di concetti che erano stati elaborati, erano adatti a un mondo che non
era globale, che non era cosmopolita, ma che era organizzato su stati- nazione. Beck sostiene che
quella era una prima fase della modernità. Ora invece, ci troviamo in una seconda fase della
modernità in cui i fenomeni che intendiamo comprendere in ottica sociologica, non possono più
essere analizzati e compresi solo nella prospettiva degli stati-nazione. Dobbiamo quindi superare il
nazionalismo metodologico ed adottare un approccio cosmopolita. In cosa consiste
quest’approccio? Consiste in qualche modo nel mettere da parte quella distinzione che spesso siamo
portati a fare tra centro e periferie, a livello globale. Beck dice che in realtà anche i luoghi che noi
consideriamo centro, sono locali, non sono più centrali di altri, ogni luogo è locale, ogni luogo è
relativo rispettato agli altri. Quindi in qualche modo dobbiamo riuscire a tenere insieme delle teorie,
delle riflessioni che hanno luogo in parti diverse del mondo. Dobbiamo avere un approccio
cosmopolita. Bhambra concorda con l’idea che i concetti di cui disponiamo oggi spesso sono
inadeguati a comprendere il mondo contemporanei, ma se Beck dice che non vanno bene perché
soffrono di un nazionalismo metodologico, Bhambra direbbe che non vanno bene perché soffrono
di un eurocentrismo metodologico. Non è solo una questione di nazionalismo. Bhambra dice che il
punto è che è vero che la sociologia è nata quando il mondo era articolato innanzitutto sugli stati-
nazione, però così, quest’approccio si dimentica di dire che quegli stati-nazione erano anche degli
imperi coloniali. Quindi in qualche modo anche in questo approccio viene meno ciò di cui abbiamo
bisogno secondo Bhambra, ovvero quello sguardo critico sul passato che rimetta il colonialismo al
centro. Questo significa che se quegli stati nazione erano degli imperi coloniali, le persone che
abitavano le colone erano dei sudditi rispetto alla madrepatria del paese colonizzatore.
Potremmo quindi dire che il punto problematico in comune ai tre approcci che hanno provato a
risolvere le citriche sull’eurocentrismo è da un lato di non avere quell’atteggiamento evoluzionista
(questo va bene), ma dall’altro anche di non ritornare in modo critico sul passato, di non
comprendere che in realtà il mondo in cui viviamo era già un mondo globale. In qualche modo
questi approcci collocano la questione del “globale” molto più in là nel tempo, molto più vicino a
noi mentre Bhambra ci dice che la modernità nasce globale, non diventa globale successivamente.
Quindi la modernità non nasce in Europa per poi diffondersi altrove, ma essa nasce già globale
perché, non l’avremmo avuto se non ci fossero state quelle relazioni di dominio.
X: Posso chiederle di ripetere il concetto di nazionalismo metodologico?
Cosa dice Beck? Siccome la sociologia è nata in quel periodo in cui gli Stati nazione si stavano
rafforzando e consolidando, i concetti e lo sguardo che abbiamo sviluppato va a studiare i fenomeni
sociali come chiusi all'interno degli Stati nazione. Cioè questa è anche una questione molto
interessante, che tuttora è molta molto dibattuta: la tendenza degli studiosi e di scienze sociali a
collocare il campo delle loro ricerche all’interno di uno specifico stato, senza avere un occhio
capace di leggere invece quel fenomeno in modo più globale. Quindi, proprio perché la sociologia
era nata in un periodo in cui gli Stati nazione erano al loro apice, mentre oggi parliamo di un
indebolimento degli Stati nazione in favore, ad esempio, delle organizzazioni sovranazionali o del
fatto che i fenomeni ci appaiono sempre più interrati a livello globale, dice Beck che noi non
possiamo più capire quello che accade, ad esempio, in Italia se non ragioniamo su quello che accade
anche nei paesi circostanti. Secondo Beck le scienze sociali hanno un pizzico di nazionalismo
metodologico proprio per il fatto che si sono consolidate nel periodo in cui gli Stati nazione erano
molto più forti rispetto ad ora, proprio come categoria di pensiero.

Quindi diciamo che la criticità di questi tre approcci è che lasciano completamente intatta la
narrazione su come è nata la modernità, definendo che all’origine della modernità c’è sempre
l’Europa anche se, nell’ottica di questi studiosi, questo non la pone necessariamente su un gradino
superiore rispetto alle altre parti del mondo. Questo secondo Bhambra è cruciale perché genera
delle influenze sulle categorie del presente, su come noi comprendiamo il presente. Ignorare queste
origini coloniali, le origini anche che la schiavitù ha giocato nell’affermazione del capitalismo, per
Bhambra porta ad un silenziamento anche nel presente delle eredità che noi abbiamo da quelle
relazioni, delle conseguenze che in qualche modo scaturiscono da quelle relazioni e da quella storia
di cui troppo poco parliamo e di cui troppo poco riconosciamo il ruolo cruciale nell’avvento della
modernità e nel disegnare il mondo come lo conosciamo oggi.
Cosa fare quindi? Qual è la proposta di Bhambra? Il punto di partenza sarebbe riesaminare il
paradigma della modernità, riformulare la narrazione della nascita della modernità, a partire da altri
punti di vista, come quelli di coloro che sono stati esclusi da quella narrazione, che sono stati
relegati ai margini di quella narrazione.
Come dicevamo ieri, compiere un’operazione di questo tipo che conseguenze può avere? Che cosa
precede una sociologia globale post coloniale?
Innanzitutto prevede di comprendere diversamente alcuni fenomeni del presente. Ad esempio i
processi di razzizzazione che i migranti subiscono in Europa.
Cosa si intende con processi di razzizzazione? Il fatto che qualsiasi dimensione dell’esistenza delle
persone che arrivano in Italia/Europa è in qualche modo influenzata e ricondotta al concetto della
razza. Ad esempio la razzizzazione può influire sull’occupazione nel mercato del lavoro, per cui
abbiamo determinati lavori che vengono attribuiti come un destino alle persone, come se non
potessero fare altri tipi di lavori. La razzizzazione può avvenire anche nelle interazioni più
quotidiane. Essa ad esempio fa sì che per noi sia non dico accettabile però in qualche modo
sappiamo e diamo per scontato che alcune persone possano morire costantemente nel Mediterraneo
e quelle persone non son bianche e non sono europee. Quindi la razzizzazione ha a che fare in
qualche modo con l’interiorizzazione del fatto che comunque ci siano dei soggetti che con certi
fenomeni non potranno mai confrontarsi e altri le cui esistenze sono completamente determinate da
quelle realtà.
Bhambra ci dice che ricostruire diversamente il passato ci porta comunque ad individuare le origini
di tutto questo, le origini delle disuguaglianze e dei processi violenti che tuttora esistono.

Questa era un po’ la tesi che viene espressa nel saggio di Bhambra che quindi riguarda
prevalentemente il ruolo che la sociologia e le scienze sociali hanno avuto e che potrebbero avere.
E’ quindi una riflessone che potremmo definire prevalentemente incentrata sul pensiero, su come gli
strumenti concettuali che noi abbiamo hanno giocato un ruolo e potrebbero poi giocare un ruolo
diverso se andassimo in un’altra direzione, diversa da quella dominante.
Per completare un po’ il quadro della situazione, vorrei farvi ragionare, mostrandovi le teorie e gli
studi di diversi studiosi, su quanto il pensiero occidentale, il pensiero europeo, sia stato per
l’appunto eurocentrico.
Andiamo quindi a vedere questa sorta di mini antologia che vi ho preparato (pubblicata sul Teams)
per mostrarvi quanti eurocentrismi noi abbiamo costruito in Europa.
Partiamo da una che rispetta maggiormente le proporzioni delle vere dimensioni dei continenti
mentre noi siamo abituati a cartine dove l’Europa appare molto più grande di quanto in realtà non
sia.
Questo è solo per farvi capire quanto l’eurocentrismo influisca su tantissime cose che noi diamo per
scontante.

In un altro saggio, Bhambra ci dice: l’Europa è un concetto relazionale. Noi quindi non possiamo
dire cosa l’Europa è, se non diciamo cosa l’Europa non è. La stessa costruzione dell’identità Europa
è andata avanti per dicotomie. Da un lato dire l’Europa è questo, l’abbiamo dimostrato dicendo
perché quest’altro posto che non è Europa è esattamente il suo opposto. Quindi l’identità europea è
stata costruita attraverso la costante contrapposizione e inferiorizzazione di tutti coloro che sono
stati definiti come «altri», di tutti coloro che sono stati esclusi da quest’identità.
Per questo motivo parlerei di eurocentrismi pluri-direzionati perché non è esistito un solo
eurocentrismo, in qualche modo sono state elaborate delle costruzioni dell’alterità diversificate a
seconda del destinatario. Il punto è che il colonialismo è stato innanzitutto un fenomeno di
invasione e di conquista assolutamente funzionale al capitalismo, ma per far questo, il colonialismo
ha aperto degli spazi epistemologici cioè ha dovuto dare delle rappresentazioni, delle costruzioni e
definizioni stereotipate dell’altro per legittimare le proprie azioni, per legittimare le proprie
conquiste. Queste costruzioni, queste rappresentazioni, sono state elaborate in modo dicotomico
cioè ogni volta sono stati individuati degli speculari negativi dell’Europa/occidente. Se l’Europa è la
civiltà, l’Europa orientale, la zona dei Balcani (sempre in Europa ma come in un altro interno) sono
stati definiti cime l’anti civiltà, il luogo di violenza. Ancora, se l’Europa è la razionalità, l’oriente
viene pensato come il luogo della spiritualità che però può arrivare a sfociare nell’irrazionalità. Se
l’Europa è il progresso, l’Africa è il primitivo. Anche quando non vengono sostenute in maniera
esplicita, queste dicotomie vengono in qualche modo interiorizzate e questi stereotipi continuano a
funzionare nel modo in cui si pensa, si parla e ci si relaziona con coloro che provengono da questi
contesti.
Per riassumere quindi possiamo dire che: Il colonialismo non ha significato solo dominio materiale,
ma anche elaborazione di «retoriche dell’alterità» che giustificassero l’invasione e la conquista di
altre terre. Il colonialismo ha creato uno spazio epistemologico in cui gli «altri» vengono definiti
come speculari negativi dell’Europa/Occidente.
Ora vediamo un po’ di opere, di testi e anche di definizioni che ci aiutano a compiere questo
“viaggio” tra gli eurocentrismi che sono stati elaborati nel tempi.
Partiamo da ORIENTALISMO di Edward Said (1978)

L’orientalismo potremmo dire che è un’opera pioneristica senza la quale forse non ci sarebbero
state tutte le altre.
Per quanto Said non si era detto un teorico post-coloniale, sicuramente tutti gli studiosi e le studiose
che si riconoscono in quell’approccio, riconoscono anche in Said un’ispirazione fondamentale per il
loro lavoro.
Questo testo del 1978 potremmo definirlo genealogico, nel senso che va ad individuare l’origine di
una serie di costruzioni che hanno portato in Europa a identificare l’oriente come il radicalmente
diverso, come l’esatto opposto rispetto all’Europa.
Said dice che l’orientalismo allora non è come lo si riteneva lo studio delle culture, delle tradizioni,
delle religioni e delle lingue che avviene in Oriente. L’orientalismo è semplicemente un discorso
dell’occidente sull’oriente, che ha bisogno di creare il simbolo del diverso, un oriente che viene
costruito per contraddizione, un oriente che rimane sempre muto, non parla ma viene sempre
raccontato e definito. Said ad esempio in quest’opera va ad analizzare i quadri e la storia dell’arte, i
diari dei viaggatori, la letteratura. E’ noto come nella maggior parte dei casi, l’oriente, quest’entità
raccontata in modo omogeneo che in realtà raccoglie paesi, tradizioni e culture decisamente diverse
le une dalle altre, viene spesso raccontato da persone che nemmeno ci hanno mai messo piede.
Said alla fine di questa citazione ci dice che: anche se le rappresentazioni che vengono fatte
sull’Oriente, sono distorte e deformate, generano degli effetti reali perché all’interno del contesto
europeo in cui circolano sono delle cose a cui le persone semplicemente credono, che danno per
scontato. Quindi il fatto che un racconto non corrisponda al suo referente non significa che quel
racconto sia finto, nel momento in cui genera degli effetti. Said dice che l’orientalismo è stato
assolutamente il presupposto del colonialismo, un discorso che è stato necessario affinché si
verificassero le operazioni coloniali.
Successivamente abbiamo alcuni pezzi tratti da un libro di Fatema Mernissi, una sociologa di
origine marocchina e il libro si chiama L’harem e l’occidente.
In questo testo Mernissi ragiona sempre in modo genealogico, quindi va a vedere quelle costruzioni
che in Europa sono state fatte della cosiddetta donna orientale, quindi declina il discorso di Said in
un’ottica di genere e soprattutto nota? Allora lei prima di scrivere questo testo aveva scritto un altro
testo molto noto che è La terrazza proibita, in cui racconta (è una sorta di memorie) la sua vita di
bambina e poi di donna cresciuta in un harem. Quando è andata in Europa a presentare questo libro
si trovava sempre di fronte a sguardi e all’atteggiamento dei giornalisti europei che ammiccavano
(forse non avevano letto il libro) e ritenevano che per una donna fosse un’esperienza piacevole
crescere in un harem o al contrario l’esatto opposto e che la donna che cresce in un harem sia
assolutamente una vittima. Invece Mernissi non adotta nessuno di questi due atteggiamenti e nota
come le fantasie che vengono elaborate in Europa sulla donna orientale trasformano, ad esempio,
una figura assolutamente importante, che è quella di Shahrazad, che nella storia originaria riesce a
ottenere una serie di cose tramite la sua intelligenza, il linguaggio, la capacità di raccontare delle
storie e nell’immaginario occidentale invece viene trasformata come se le sue qualità fossero
unicamente quelli del corpo, quelle sensuali e quelle erotiche. Quindi Mernissi in questo testo
ragiona su questo.
Poi abbiamo un altro testo interessante di Mudimbe L’invenzione dell’Africa, che funziona in
modo molto simile a Orientalismo, ma si focalizza su come è stata costruita l’Africa in quanto
continente selvaggio e primitivo e quello è stato decisamente funzionale alle conquiste coloniali. E
Mudimbe paradossalmente, nonostante i contatti tra l’Europa in Africa esistessero da molti secoli
prima che si avviassero le imprese coloniali, quando iniziano le conquiste coloniali, le
deformazioni, le distorsioni sull’Africa aumentano; cioè quanto più si conoscono, quanto più si
intensificano i rapporti tanto più i racconti su come l’Africa è, su come i paesi africani sono
vengono distorti e questo per legittimare le imprese coloniali.
Un altro approccio interessante invece è quello della cosiddetta opzione decoloniale, elaborato da
diversi sociologi e studiosi dell’America Latina, come ad esempio Walter Mignolo e Quijano che
effettivamente ragionano su come sia, ve l'ho detto qualche altra volta, assurdo parlare di scoperta
dell’America quando appunto quei luoghi, quei paesi non sono stati semplicemente scoperti,
esistevano già prima e soprattutto avevano altri nomi. Allora il passaggio che vi ho riportato è
interessante perché ci richiama proprio al fatto che già solo cambiare il nome di un continente
significa negare quello che prima dell’arrivo degli europei era esistito. Dice Mignolo: l’America
cadde – letteralmente - dal cielo che Amerigo Vespucci stava osservando quando scoprì che le stelle
che vedeva dal sud del Brasile odierno non erano le stesse che era solito vedere dal Mediterraneo.
Quindi potremmo dire che la caratteristica dell’approccio decoloniale interessante rispetto anche al
postcoloniale è di mostrare che è la colonialità. Quindi al di là del fatto che i rapporti del
colonialismo esistano o non esistano oggi, ma la colorita è una logica di dominio, una logica di
potere che ha completamente cancellato, annullato le storie precedenti all’arrivo dell’Europa in
determinati contesti.

Poi un ultimo approccio è quello del balcanismo. Interessante questo testo di Maria Todorova che si
chiama Immaginando i Balcani in cui riprende esplicitamente Said, sostiene che il balcanismo sia
un fenomeno indipendente dall’orientalismo, ma sicuramente il metodo di Said le è stato utile per
effettuare questa ricostruzione. Poi ragiona su come quando diciamo “un’area si è balcanizzata”,
parlando di un’area che non c’entra niente coi Balcani, è un modo per dire che quell’area è
diventata teatro di violenza, di barbarie, di anti civiltà. Quindi Todorova dice che alla fine abbiamo
avuto bisogno in Europa di costruire un altro interno e un altro a cui attribuire l’esercizio della
violenza, come se gli altri paesi d’Europa la violenza non l’avessero mai esercitata.

Questa carrellata era solo per ragionare su come, come vi dicevo prima, che siano state prodotte
nell’ambito della storia europea, non solo nei fatti, ma anche nel modo di pensare, di conoscere, di
definire, di rappresentare l’altro delle umanità differenti. Cioè il fatto di rappresentarsi come la culla
della modernità, ha fatto sì che gli altri fossero stati definiti come non moderni e di conseguenza
meno umani e questo ha delle ripercussioni sulle relazioni contemporanee, sul modo in cui il mondo
di oggi è organizzato.
E adesso andiamo a vedere invece un altro dei saggi che avete come materiale di studio che è quello
di Renate Siebert: una sociologa di origine tedesca che era in Italia da tanti anni. Questo saggio ci
permette di continuare il discorso che abbiamo fatto finora perché potremmo leggere ciò che Siebert
ci dice in queste pagine come un’operazione che Bhambra auspica perché effettivamente Siebert,
ragionando anche proprio il titolo del saggio è Il lascito del colonialismo e la relazione con l’altro,
va a vedere quali sono dell’eredità che noi abbiamo dal passato e come quest’eredità influiscono sul
presente. In particolare il suo discorso è un discorso che vale in generale per l’Europa, ma
chiaramente il contesto a cui pensa prevalentemente è quello italiano. Innanzitutto Siebert in questo
saggio va a compiere quella che è una riesamina critica del passato, quindi torna nel passato
coloniale europeo italiano e là effettua delle connessioni col presente e ragiona sul perché queste
connessioni non siano state effettuate e propone anche una soluzione. Quello che però facciamo
adesso non è più tanto o soltanto ragionare sul perché queste connessioni tra passato e presente non
siano avvenute nell'ambito della storia del pensiero sociologico. Non è questo il punto (com'era in
Bhambra) perché comunque, come gli stessi studi postcoloniali e tanti altri studi testimoniano, una
certa decolonizzazione all’interno delle discipline è avvenuta, altrimenti noi non staremmo facendo
questa lezione per esempio, quindi possiamo dire che una parte della sociologia, della storiografia,
della letteratura sicuramente hanno accolto il senso dell’approccio postcoloniale o dell’approccio
decoloniale ecc…
Il problema però, dice Siebert, è che questo tipo di consapevolezza, questa capacità di creare delle
connessioni tra l’Europa coloniale e la fortezza Europa del presente non è avvenuta a livello di
opinione diffusa a livello, di dibattito pubblico; cioè non c’è stato un trasferimento di sguardi, di
prospettive, di conoscenze nei confronti dell’opinione pubblica. È un po’ quello che dicevamo ieri:
ok, all’università e non in tutti i contesti certe questioni sono al centro dell’attenzione, però
nell’insegnamento scolastico no ed è chiaro che è la scuola che fa l’opinione pubblica da questo
punto di vista, è la scuola pubblica in uno stato che definisce quelle che sono le conoscenze diffuse
e che impariamo a dare per scontate. Ma anche a livello, per esempio, di istituzioni politiche, quindi
di discorsi pubblici o di discorsi mediatici questa consapevolezza non è arrivata. In Italia
sicuramente la storia e la letteratura hanno avuto un ruolo trainante rispetto a quella che è stata
l’esperienza coloniale italiana, però non è avvenuta questa diffusione e dice Siebert che in realtà
questo tipo di conoscenza di quello che è il passato coloniale europeo non è avvenuta in modo
completo, innanzitutto per l’Europa, al di là del caso italiano, cioè è in Europa che comunque non si
riconosce come un continente, non si racconta innanzitutto come un continente che ha colonizzato il
resto del mondo ed è l’Europa che oggi per esempio continua a mettere in atto delle politiche
migratorie che in qualche modo non rappresentano una assunzione di responsabilità rispetto a quel
passato. Dice Siebert che in realtà tra l'esperienza coloniale non elaborata, non compresa fino in
fondo e i fenomeni di razzismo che si verificano nel presente ci sono delle connessioni. Fate
attenzione alla parola che ho utilizzato non elaborata: sicuramente qui c’è un riferimento anche al
lessico utilizzato dalla scuola di Francoforte; quindi come noi a livello collettivo rimuoviamo o non
elaboriamo determinati avvenimenti, fatti che si sono verificati nel passato, questo ci porta a non
assumere la responsabilità di una serie di questioni nel presente.
Rispetto all’Italia, dice Siebert, non ha sicuramente fatto i conti col suo passato coloniale. In realtà
noi possiamo parlare di postcolonialismi europei, dice un’altra studiosa che si chiama Sandra
Ponzanesi perché ciascun paese europeo ha comunque un atteggiamento diverso, ha delle sue
specificità e peculiarità nel modo di rapportarsi alla propria storia coloniale. È chiaro che la Francia
e la Gran Bretagna hanno una storia coloniale molto diversa da quella italiana, quindi sono stati
degli imperi coloniali molto vasti che hanno avuto colonie in diversi continenti e di una durata
molto lunga; imperi coloniali che hanno diffuso ad esempio la propria lingua in altri paesi, per cui
abbiamo tantissimi paesi nel mondo in cui appunto l’inglese e il francese sono quotidianamente
parlati, quindi la loro storia coloniale è molto diversa da quella italiana. Abbiamo paesi come la
Germania che invece hanno perso le colonie molto presto, con la prima guerra mondiale; paesi
come il Portogallo che aveva costruito, in quanto anche paese molto piccolo e molto marginale in
Europa, la sua identità sul suo essere un impero coloniale secolare e l’Italia che invece ha avuto
un’esperienza coloniale molto breve rispetto alle altre, circa 60 anni, che ha avuto un’esperienza
coloniale anche geograficamente meno estesa rispetto ad altri paesi colonizzatori.
In particolare l’Italia ha avuto come colonie l’Eritrea, l’Etiopia, la Somalia e la Libia in Africa in
tempi diversi; per esempio l’Eritrea viene chiamata colonia primigenia ed è quella che è stata
colonizzata per un tempo più lungo, l’Etiopia molto di meno ecc… Non possiamo dire che l’Italia
abbia ad esempio costruito quella diffusione dell’italiano come lingua, come invece hanno fatto in
Inghilterra la Gran Bretagna, ma fatto sta che l’Italia delle colonie le ha avute e questa storia
coloniale in Italia da un lato possiamo dire non viene raccontata; è probabile che molte persone tra
le generazioni più giovani spesso non siamo neanche consapevoli del fatto che l’Italia abbia avuto
una storia coloniale, abbia avuto delle colonie; coloro che appartengono invece alle generazioni più
anziane, che si ricordano anche le guerre di conquista sotto il fascismo, ma anche prima nella
cosiddetta Italia liberale, spesso si sente parlare di un colonialismo straccione, che non ha saputo
trarre vantaggio economico come hanno fatto la Francia o in Inghilterra, di un colonialismo buono,
degli italiani brava gente ecc…
In realtà, la storiografia ci consente di sapere che così buono questo colonialismo non è stato, che
per esempio l’Italia è stata la sola potenza europea ad autorizzare, con Mussolini, l’uso di armi
chimiche contro le popolazioni che facevano resistenza, cosa che per esempio la Gran Bretagna e la
Francia non hanno fatto. Il punto, dice Siebert, l’atteggiamento prevalente in Italia è quello della
rimozione o della distorsione; la rimozione: non sapere nulla di quello che è accaduto; la
dispersione: minimizzare o la classica frase che si sente dire “abbiamo fatto i ponti, le strade” ecc…
e quindi sottolineare il contributo positivo che l’Italia avrebbe dato in questi contesti dimenticando
la violenza che è stata esercitata.
È chiaro ad esempio che un atteggiamento di rimozione è difficilmente immaginabile in un paese
come la Gran Bretagna dove chiaramente tutti sono a conoscenza del fatto che la Gran Bretagna sia
stato un impero coloniale. Poi bisogna vedere come viene trattata la questione, magari in modo
celebrativo, magari in modo nostalgico, però ecco la rimozione o la distorsione sono le
caratteristiche tipiche del dibattito italiano sulla questione coloniale. Questa era un po’ la
premessa… Qual è la tesi di Siebert in questo saggio? Assistiamo a rimozione o distorsione che ci
impedisce di individuare le connessioni tra il passato e il presente perché, se noi volessimo usare un
po’ il lessico psicoanalitico, tipico della scuola di Francoforte, quando la questione non è elaborata,
non è compresa torna in altre forme. È un po’ l’idea che dalla psicanalisi individuale viene
trasferita a livello collettivo: un problema del passato non elaborato torna nel presente sotto altre
forme. Ora la tesi di questo saggio di Siebert in generale è che il colonialismo non sia stato
elaborato, non sia stato compreso adeguatamente in Italia nella sua portata perché non è stato
trasformato in un trauma culturale.
Questo impedisce innanzitutto di provare vergogna per quello che è accaduto e in genere la
vergogna è un sentimento che spinge ad assumersi la responsabilità di quanto è stato fatto, ma nel
momento in cui non si prova vergogna e anzi si parla di “italiani brava gente”, del contributo
positivo, del fatto che alla fine siamo stati incapaci anche di trarre vantaggio ecc… porta a non
riconoscere, come vi dicevo prima, ad esempio certi flussi migratori come figli della storia coloniale
o porta a legittimare tuttora la clandestinizzazione delle persone, che significa pensare delle persone
come illegali per il solo fatto di esistere, di trovarsi in un posto o a legittimare lo sfruttamento
economico del lavoro di determinate persone. Questo perché, dice Siebert, se in passato l'incontro
con l'alterità, con tutte quelle persone che sono state ingabbiate in quelle etichette eurocentriche che
abbiamo visto prima, se questo incontro avveniva al di fuori dell’Europa, quindi negli imperi
coloniali, questo incontro invece adesso avviene in Europa attraverso i flussi migratori, però quel
tipo di epistemologia, di modo di pensare l’altro continua a funzionare. Allora, se noi riuscissimo a
comprendere in maniera critica il passato e ad assumercene le responsabilità, un effetto potrebbe
essere quello di invertire il rapporto tra razzismo e migrazioni.
Che cosa voglio dire? Molto spesso nel dibattito pubblico si ritiene che l’escalation del razzismo (se
viene chiamato così, perché di solito viene chiamato “malcontento” ecc…, non sempre si utilizza
questo termine) è una conseguenza dell’intensificarsi dei flussi migratori, cioè ci sarebbe questo
flusso così pressante per cui le persone non possono che esprimere il loro malcontento. In realtà, se
noi andiamo a vedere qual è il modo in cui è stato definito l'altro non europeo, il modo in cui è stato
raccontato e il fatto che appunto le terre degli altri non europei siano stati colonizzati, noi potremmo
vedere che forse il razzismo viene prima della migrazione, non è una sua conseguenza ed è il
paradigma attraverso il quale noi leggiamo i fenomeni migratori. Quindi invertire il rapporto:
razzismo non come una conseguenza delle migrazioni, ma come una premessa e come la lente
interpretativa attraverso la quale noi leggiamo le migrazioni. Ma ora torniamo alla questione del
trauma culturale e della rimozione di questa parte di storia che ci impedisce di compiere delle
connessioni. Un'operazione che fa Siebert in questo saggio è di compiere forse una connessione
inaspettata, cioè di collegare tra loro due eventi del passato che potrebbero sembrarci indipendenti
l'uno dall'altro, che sono l'olocausto e il colonialismo. Innanzitutto, nota Siebert, ragioniamo sul
perché la critica alla violenza nazista e all’olocausto abbia avuto un “esito positivo”, cioè abbia
avuto l’esito positivo che quel tipo di evento storico è stato interiorizzato nella memoria collettiva
ed è inutilizzato come un evento assolutamente negativo, da non ripetere, rispetto al quale fare
attenzione. Non a caso comunque, ad esempio, le diverse forme di antisemitismo che si possono
verificare in Europa vengono sempre pubblicamente condannate.
Allora l’esperienza coloniale, dice Siebert, invece non rappresenta assolutamente nell’immaginario
collettivo una cosa così negativa come è stata l’olocausto. Eppure questi fenomeni storici hanno
avuto una relazione importante. In questo Siebert riprende una tesi di Hannah Arendt, la quale,
ragionando sulle origini del totalitarismo, dice che in realtà le colonie e il colonialismo,
l’imperialismo siano stati un incubatore del nazismo, nel senso che una serie di tecniche di
costruzione di campi di lavoro e di forme di segregazione razziale, di leggi razziali che sono state
approvate nelle colonie prima ancora del nazismo o del fascismo in Germania e in Italia, sono state
delle messe alla prova, tecniche di legge che poi sono state effettuate in Europa nei confronti degli
ebrei. Quindi dice Hannah Arendt che in realtà è proprio nelle colonie che per la prima volta si
verifica quella combinazione, quell’incontro del tutto peculiare tipicamente moderno tra razzismo e
burocrazia, quello che noi abbiamo esaminato con gli autori della scuola di Francoforte, la
razionalizzazione della barbarie, la gestione razionalizzata della violenza che ha raggiunto il suo
apice con l’olocausto, dove l’obiettivo era l’annienramento della popolazione che si trovava nei
campi di concentramento, nelle colonie l’obiettivo non era perlopiù l’annientamento, ma era lo
sfruttamento. Però quell’incontro tra razzismo e burocrazia si era già verificato in Africa prima che
avvenisse in Germania col nazismo, in generale in Europa con i vari fascismi. Allora, dice Siebert,
riprendendo Hannah Arendt, questi due fenomeni sono assolutamente in relazione, vanno collocati
nello stesso diciamo quadro interpretativo, sono due fenomeni tipicamente moderni che riguardano
l'identità stessa che ha l’Europa in quanto moderna, eppure che nella memoria collettiva occupano
un posto completamente diverso. Perché il genocidio degli ebrei è un trauma culturale? (che è stato
comunque inserito, seppur casualmente e con difficoltà, in modo autocritico nella memoria europea)
Perché il colonialismo NON è diventato un trauma culturale?
Innanzitutto diciamo prima che cos’è un trauma culturale. Questa espressione è stata coniata da un
sociologo statunitense Alexander proprio in relazione all’olocausto e in grande sintesi possiamo dire
che il trauma culturale consiste nell’identificazione collettiva, quindi non una persona, ma una
società identifica collettivamente un certo fenomeno o un certo evento storico fortemente negativo
come il male assoluto. E allora, dice Alexander, questa identificazione tra l'olocausto il male
assoluto gradualmente, con difficoltà, anche con tentativi di rimozione da parte di alcuni soggetti è
avvenuta nel corso della storia europea e l’olocausto rappresenta nella memoria collettiva un male
assoluto.
Con male assoluto intendiamo dire non un evento negativo e basta, ma uno degli eventi più
negativi che si sia mai verificato nella storia dell’umanità. E anche per questo ad esempio vengono
istituite delle pratiche commemorative, delle pratiche finalizzate a ricordare quanto è accaduto
affinché non si ripeta di nuovo e tutte queste pratiche commemorative sono tipiche rispetto a quello
che è successo in Germania e anche altrove sullo sterminio degli ebrei. Allora il punto è questo,
dice Siebert: affinché un evento venga trasformato in un trauma culturale che cosa deve avvenire?
Cioè basta semplicemente l’evento in sé, il fatto che sia stata esercitata una violenza tale da
trasformare quell’evento in un trauma culturale? No, perché abbiamo diversi altri casi dove la
violenza agita è stata molto forte, come nel colonialismo, ma quell’evento non è diventato un
trauma culturale, che è innanzitutto una costruzione, non è una conseguenza; tutte le volte che
parliamo di costruzione dobbiamo individuare i soggetti e i contesti che cooperano a quel processo
di costruzione. Allora, affinché un evento venga costruito e poi percepito come un trauma culturale
è necessario innanzitutto che ci siano gli imprenditori della memoria, ovvero delle persone, dei
gruppi che si facciano portavoce di quello che è accaduto, che mantengano viva una storia di
resistenza, una memoria resistente rispetto ai tentativi di cancellazione di quello che è stato. Nel
caso dell’olocausto un ruolo fondamentale è stato, soprattutto all'inizio, quello dei discendenti delle
vittime. Molto spesso coloro che hanno vissuto in prima persona non hanno potuto parlare di quello
che è successo, anche coloro che sono sopravvissuti, perché chiaramente aveva delle implicazioni
molto complesse, quindi non sempre le vittime che hanno vissuto in prima persona si sono fatte
portavoce di quello che è accaduto, ma sicuramente hanno fatto un grande lavoro in Europa per
mantenere viva la memoria di quello che è stato e hanno portato la loro memoria nella società
civile.
Ieri dicevamo con Gramsci come la società civile sia il luogo nel quale le egemonie possono essere
costruite e decostruite, dove possono nascere anche le contro egemonie. Adesso potremmo dire
(perché le egemonie non sono necessariamente negative, facciamo riferimento all'idea che sia un
discorso dominante) che se adesso è dominante l'idea che l'olocausto sia stato un qualcosa di
negativo o che sia esistito, all'inizio magari non è stato così e dei gruppi si sono dovuti fare
portavoce di quello che è successo all'interno della società civile e nota Siebert come, ad esempio,
quando noi parliamo di olocausto, sia molto più comune pensare solamente allo sterminio degli
ebrei, ma non allo sterminio di altri soggetti che sono stati nei campi di concentramento come i rom,
le persone omosessuali o le persone disabili.
Questo perché appunto in quel caso, è chiaro l’olocausto è stato rivolto prevalentemente agli ebrei,
anche a livello quantitativo, però c’è stato un gruppo che era i discendenti degli ebrei che si è reso
imprenditore di quella memoria. Nel caso del colonialismo questo processo non è avvenuto (almeno
non immediatamente, ora le cose stanno leggermente cambiando) perché innanzitutto dobbiamo
considerare chi erano le vittime in quel caso: delle persone che non vivevano in Europa, a
differenza degli ebrei, e che non avevano la pelle bianca. Dovete pensare che comunque gli ebrei
erano tedeschi, italiani, francesi e anche l’idea che quel tipo di violenza fosse stata esercitata
all’interno dell’Europa, in Germania, in Italia, in Polonia risultò anche sconvolgente per molti che
ritenevano che quella violenza non appartenenti al continente europeo, che come abbiamo detto
viene identificato con la civiltà, con i diritti umani, con il progresso. Proprio il fatto che
quell’evento si sia verificato in Europa ha reso “più fattibile” l’identificazione di quell’evento come
il male assoluto, invece le vittime del colonialismo appunto non vivono, all’inizio dei processi di
decolonializzazione, in Europa e non hanno la pelle bianca. Inoltre, dice Siebert, se nel caso del
colonialismo non ci sono stati immediatamente degli imprenditori della memoria, al contrario ci
sono stati degli imprenditori dell’oblio, per esempio il personale diciamo delle istituzioni italiane,
parlando dell’Italia in questo caso, che non ha mai, soprattutto negli anni successivi alla perdita
delle colonie, ragionato su quello che è accaduto, c'è stata anche una grande difficoltà per gli storici,
che hanno effettuato i loro primi lavori, a difendere la correttezza delle informazioni storiografiche
che venivano raccolte e molto spesso noi sentiamo frasi come “gli italiani erano ben voluti”, non
vengono dette semplicemente dalla gente comune, vengono dette anche dai rappresentanti delle
istituzioni e questo ha un peso ovviamente.
Quindi appunto, dice Siebert, ci sono stati degli imprenditori dell’oblio. Ragioniamo però un attimo
su una cosa: non ci sono stati degli imprenditori della memoria che non vuol dire che non ci siano
state e che non ci siano oggi persone discendenti da quella storia che raccontano quanto è successo,
non è che i discendenti dell'olocausto hanno raccontato e gli altri no, in realtà raccontano, però qual
è diciamo la visibilità di queste voci nel dibattito pubblico? E ritorniamo nel discorso di egemonia e
contro egemonie. Quindi il punto è dire: da un lato abbiamo degli imprenditori della memoria, cioè
coloro che hanno potere istituzionale mediatico e raccontano un’altra versione dei fatti e dall’altro
abbiamo delle voci che adesso, a mio avviso, diventano sempre più visibili, che però a lungo sono
esistite senza però avere la visibilità che ha chi si trova al centro delle relazioni di potere. In ogni
caso quel che è certo è che in questo momento non possiamo considerare il colonialismo come un
trauma culturale perché a livello generalizzato la gente non lo identifica in un certo modo.
Siebert però nota pure come in realtà il concetto di trauma culturale abbia anche delle criticità. Cioè
da un lato lei auspica un’identificazione del colonialismo come trauma culturale, quindi la necessità
che anche nell’immaginario collettivo lo si identifichi come un evento assolutamente negativo, però
nota come appunto identificare un evento come trauma culturale spesso porta anche a (e questo sta
accadendo a volte con l’olocausto) effettuare delle commemorazioni che poi finiscono per diventare
rituali e vuote dal punto di vista del senso, qualcosa a cui ci stiamo abituando e in qualche modo il
racconto di quella storia mette in ombra quelli che sono stati traumi individuali. Perché il punto è
che se un evento è stato talmente negativo da essere trasformato in un trauma culturale è perché
quell’evento si è composto sulla costruzione di una serie di traumi individuali, cioè ha distrutto la
vita di moltissime persone.
E poi faccio anche una precisazione: quando noi diciamo che un evento è un trama culturale, stiamo
dicendo che è un trauma culturale per coloro che hanno esercitato la violenza. Cioè quando io vi
dico che l'olocausto è un trauma culturale non vi staodicendo semplicemente che è un trauma
culturale per le vittime discendenti delle vittime, che è una cosa quasi ovvia, chiaro che nell’ambito
della comunità ebraica l’olocausto è un trauma, ma trasformare un evento in un trauma culturale
significa che quell’evento diventa traumatico per chi è responsabile della violenza. Allo stesso
modo è chiaro che, anche se non è scontato, che per i paesi che sono stati colonizzati il colonialismo
rappresenta un momento di trauma a livello collettivo. Vi dicevo che non è scontato perché molto
spesso poi le autorità le politiche ecc.. del luogo spesso manipolano anche il racconto della storia,
non è detto che ci sia questa consapevolezza diffusa di quello che è stato il colonialismo, però
l’importante è che voi capiate che il trauma culturale riguarda innanzitutto gli agenti della violenza,
coloro che ne sono responsabili.
Allora dicevamo con Siebert che il trauma culturale talvolta ha delle criticità come un po’ reificare
quella memoria, renderla quasi una cosa rituale. Siebert dice che però il trauma individuale è
importante perché comunque la memoria di quello che è stato è un monito e ad esempio Siebrt nota
come il fatto che l’olocausto sia un tabù, un trauma culturale rende l'antisemitismo una forma di
razzismo religioso che notiamo e che condanniamo molto più dell'islamofobia, per esempio, che è
un'altra forma di razzismo religioso, la quale però non genera lo stesso scalpore dell'antisemitismo.
Allora dobbiamo provare a trasformare determinati eventi come il colonialismo in un trauma
culturale, però dobbiamo anche mantenere viva l'attenzione, la postura dell'ascolto nei confronti
delle storie individuali, delle storie delle persone, delle vittime e dei loro discendenti, quindi questo
lavoro deve andare di pari passo, dobbiamo porci in una posizione di ascolto e questo sarà
fondamentale rispetto al tipo di società del futuro che vogliamo costruire. Quale Europa del futuro,
si chiede Siebert, noi vogliamo costruire? Dobbiamo iniziare a individuare queste connessioni tra il
passato e il presente. Poi riprende anche un altro termine, che noi abbiamo visto sia con Marx che
con la scuola di Francoforte, che è il termine alienazione. A suo avviso, l’alienazione del presente,
dei nostri tempi è l’alienazione postcoloniale, cioè l’incapacità di vedere il mondo delle
diseguaglianze globali di oggi e come figlio del mondo delle diseguaglianze globali di ieri. Quindi
ritornare a pensare al colonialismo diversamente, trasformarlo in un trauma culturale, ma al
contempo prestare attenzione alle storie individuali significa anche pensare a che tipo di società
futura intendiamo costruire, su che tipo di relazioni, tra le differenze, vogliamo costruire l’Europa
del futuro.
(La prof carica un'altra presentazione che non appare e che possiamo guardare da soli o che magari
riprende ad inizio della prossima lezione)
Per capire cosa è stata l’Italia coloniale. Noi finora abbiamo parlato del fatto che appunto non è
stata elaborata quella storia, però (lo facciamo con calma l’inizio della prossima lezione) volevo
farvi capire cos’è che non sappiamo, che effettivamente si è verificato, cos’è che non abbiamo
interiorizzato a livello di discorso collettivo e cos'è che non abbiamo trasformato in un trauma
culturale e invece che tipo di contro narrazioni iniziano a circolare oggi su quel tipo di storia. Ma lo
vediamo meglio la prossima volta con calma.

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