I poemi omerici aprono la tradizione epica occidentale. Appaiono perfetti ma
nascondono molti problemi. Ferrucci sosteneva che a loro si deve l’inaugurazione dei due modelli che domineranno la nostra letteratura, quello dell’assedio e quello del ritorno. Costituiscono inoltre i due archetipi di narrazione che già Aristotele, nella Poetica, individuava: l’Iliade è semplice e luttuosa e ricca di pathos...Qui Omero decide di non contare tutti gli eventi della guerra di Troia ma solo quelli legati all'ira di Achille. L'Odissea invece sarebbe complessa, infatti è piena di riconoscimenti e caratteri, dedita dunque all'ethos. Viene narrata una sola azione, il ritorno di Odisseo. Secondo l'Anonimo del Sublime, l'Iliade sarebbe frutto dell'ispirazione giovanile e pertanto legata ad una scrittura drammatica e agonistica, con un intreccio sempre profuso di passioni, colpi di scena, discorsi ed immagini realistiche mentre l'Odissea sarebbe frutto del tramonto di un grande genio che si abbandona nella vecchiaia al piacere di raccontare, decidendo di introdurre nell'Odissea i resti dell'Iliade, facendone l'epilogo. L'Iliade, generalmente datata nel IX secolo a.C., è il poema della forza, dominato dall'ira di Achille che si ritira in odio ad Agamennone che gli ha portato via la schiava/concubina. L'intervento di Patroclo affretta il tempo tragico della fine. Il poema termina con i funerali di Ettore e non con la presa di Troia che sarà ricordata nell'Odissea, e narrata anche nell'Eneide di Virgilio. Tuttavia, l'Iliade è anche il poema in cui la forza è sottoposta ad una forte critica. Bespaloff ha individuato delle pause nello svolgimento dell'intreccio: sono i momenti in cui l'azione è sospesa e il divenire tragico ed incessante lascia intravedere l'essere. 1. Ettore quando si trova Achille davanti fugge e quell' inseguimento e quella fuga diventano come un sogno. Apollo che aveva voluto soccorrere Ettore, lo abbandona. L'eroe Troiano non può più sfuggire al suo destino. 2. La bellezza di Elena che i vecchi di Troia contemplano sulle mura della città assediata è un'altra delle pause narrative del poema. I vecchi si giustificano dicendo che non c'è motivo di biasimo se sono scesi in guerra per una donna così simile nell'aspetto alle dee immortali…da qui il suo carattere quasi sacro. I numerosi duelli che caratterizzano l'Iliade sono inevitabili, sono “ciò che è”, fatti decretati dal destino. Il cosmo intero è sottoposto a una legge del “ciò che è come è” alla quale nessuno può sfuggire. Se agli dei è permesso agire per tentare di modificare o ritardare quel fato, agli esseri umani è concessa solo la possibilità di mostrarsi all'altezza di esso. 3. Pausa narrativa rappresentata dall'incontro di Ettore con la moglie Andromaca. Lui sa che verrà il giorno in cui Troia cadrà e non lo preoccupa tanto di vedere Priamo ed Ecuba o i suoi fratelli soffrire, quanto l'idea che uno dei Greci porterà schiava la moglie nella sua terra. Nel suo discorso Ettore è ben consapevole che “al destino non può sfuggire nessuno degli uomini”. Questo episodio non è solamente patetico, benché sul pathos costruisca il suo significato più profondo. Il passo rivela le incertezze di Ettore, combattuto tra ragione del cuore e quella dell’onore. La scena è orientata al futuro, simboleggiato dal piccolo Astianatte. La fine imminente non impedisce ad Ettore di invocare gli dei chiedendo di rendere il figlio più grande di lui. Il dissidio che tormenta gli uomini e quindi al centro del poema, come dimostreranno anche i sentimenti di Achille nel momento di rientrare in guerra e di accettare il riscatto per Ettore. 4. Poco prima dell'incontro fra Andromaca ed Ettore ci imbattiamo in quello tra Glauco e Diomede. I due stanno per scontrarsi in duello ma rifiutano di combattere poiché scoprono di essere legati da un antico vincolo di ospitalità fra i propri avi. Questo ci fa capire che la guerra conosce il rispetto di alcune leggi umane. 5. Un'altra delle pause nella quale il divenire dell'universo è sospeso è quando Priamo va a riscattare il corpo di Ettore e consumerà un pasto con Achille. Appare una possibilità di salvezza non nel perdono ma nell'oblio dell'offesa. Priamo incarnerebbe la saggezza omerica. L'Iliade contiene anche ciò che gli è contrario, complementare o speculare: lo scudo che Efesto fabbrica per Achille può essere definito come un affresco del mondo come lo conosce il pubblico: scene che rappresentano il cosmo, la terra, il cielo… scene di agricoltura, pastorizia…l’immagine di due città una in pace e una in guerra… Con questo è come se Omero avesse voluto fornire una cornice di insieme per un poema sulla guerra ricordando che essa è parte di una realtà più articolata nella quale trova posto anche il suo contrario. Il fatto che Achille usi questo scudo nel momento della sua vendetta può essere considerato un contrappunto ironico. Il mondo immaginario è quello reale confluiscono e questo lo incontriamo in un'altra pausa del libro terzo dove questa volta il contrappunto ironico e sulla figura di Elena. 6. Iris annuncia ad Elena l'imminente duello tra Paride e Menelao e questa si reca sulle mura dove è contemplata dai vecchi e tesse un grande manto ricamando la guerra di Troia e la sua causa: lei stessa…In altre parole sta ricamando l'Iliade. I poemi omerici: l'Odissea. L'Odissea contiene parti dell'Iliade e ne rappresenta l'epilogo. Quando l’aedo cieco dei Feaci narra la presa di Troia, Ulisse piange e Alcinoo gli dice che la sorte dei greci e dei Troiani l'hanno voluta gli dei poiché i posteri avessero il canto, l'Odissea sembra dunque occuparsi anche di poetica. Quando Telemaco parlando con l’aedo di Itaca, Femio dice che gli uomini lodano di più il canto che suona nuovo a chi lo ascolta, in questo modo sta lanciando un'idea di poesia diversa rispetto a quella dell'Iliade. L'Odissea viene generalmente datata verso VIII a.C. e presuppone il primo poema, l'Iliade, ma ne differisce per tema e struttura. L'Odissea è infatti il poema del dopoguerra, del ritorno del reduce a casa e delle narrazioni dei nostoi, i ritorni dei vincitori Greci di Troia. Come l'Iliade è organizzata in 24 libri ed ha una struttura complessa poiché non narra Il ritorno di Ulisse in patria in sequenza cronologica ma si serve di anticipazioni e flashback (1°caso nella narrativa occidentale) e poi giunge alla fine che è duplice (punizione dei cattivi e il trionfo dei buoni). La possiamo dividere in tre grandi sezioni: 1.Libri 1 – 4 Il protagonista è fisicamente assente dalla scena e la sua assenza è un tema ossessionato, nel frattempo ci viene presentata la situazione di Itaca con i proci che vivono nel palazzo reale… Telemaco, su impulso di Atena, parte per Pilo e per Sparta in cerca di notizie del padre presso i suoi antichi compagni, Nestore e Menelao. 2.Libri 5 – 12 Odisseo prende il suo posto di protagonista: prima come prigioniero della dea Calipso presso Ogigia, poi con la navigazione verso Scheria, l'isola dei Feaci ed infine nel palazzo del loro re, Alcinoo, dove narra le proprie avventure nei libri 8/12 e dunque ritorna egli stesso indietro nel tempo costruendo l'Odissea. Tutte le tappe del suo racconto sono fantastiche, ambientate in luoghi al di fuori del mondo reale (sin dall'antichità si era tentato di ritrovarne l'ubicazione o nel Mediterraneo o in Scandinavia o persino nell’intero pianeta). Le tappe dopo l'episodio di Polifemo sono dominate dal l'ira del dio del mare Poseidone, poiché Odisseo ha acciecato suo figlio. Quindi due dei 10 anni del suo errare (ne passa uno da Circe e 7 con Calipso) sono causati da Poseidone. In realtà Odisseo sembra non rifiutare mai questo lungo errare poiché desidera la conoscenza di luoghi, esseri e costumi strani (vedi il canto delle sirene). La narrazione di Odisseo ha incantato per primi i Feaci fino a giungere ai nostri giorni dando luogo a interpretazioni allegoriche e morali. L'incontro con I mangiatori di loto rappresenterebbe la tentazione dell'oblio, il confronto con Polifemo lo scontro con l'altro da sé. Le sirene rappresenterebbero la seduzione del canto, della morte, della conoscenza, della bellezza carnale (l'immagine di Odisseo legato all'albero della nave verrà interpretata in ambito cristiano come prefigurazione di Cristo inchiodato alla croce). Il soggiorno presso Calipso e il rifiuto dell'immortalità, la nostalgia (intesa come malattia del ritorno) possono essere letti come fedeltà al proprio essere uomo, rigetto della divinità ma anche desiderio di Odisseo non di tornare verso la Terra Natale ma verso la patria Celeste. La visita all'Ade (nekyia: evocazione dei morti, quindi l'incontro con la madre, Achille, Agamennone ecc.) si colloca significativamente al centro della trama poiché costituisce l'esperienza suprema della morte dal quale l'eroe è toccato nel profondo, cioè nelle sue radici esistenziali (la madre), della propria giovinezza (i compagni di Troia) e del passato della sua gente nel quale egli deve sprofondare per poterne riemergere in vivo. 3. Libri 13 – 24 La terza sezione dell'Odissea è dedicata al ritorno a Itaca su una nave dei Feaci e alla riconquista da parte di Ulisse della moglie e della sua reggia. Odisseo riparte ancora una volta da zero come quando era arrivato a Scheria (nudo ed incrostato di sale, come un vero Nessuno), Atena lo ha Infatti trasformato in un vecchio mendicante. Questa è la parte del poema nella quale si succedono in crescendo le scene di riconoscimento e mancato riconoscimento: Telemaco, il cane Argo, la nutrice Euriclea, Penelope, Eumeo, Filezio e il padre Laerte. Le scene di riconoscimento hanno già segnato le altre due parti del poema tanto da spingere Aristotele a definirlo complesso. Assistiamo poi a come Odisseo prepari la vendetta sui proci dopo aver vinto la gara con l'arco e dopo aver passato una notte finalmente con la sua sposa si ricongiungerà col padre e poi Atena stabilirà pace tra i suoi e i parenti dei Proci. Il poema è sfaccettato come il suo protagonista (Odisseo è polutrops, dai molti lati). L'Odissea è legata al mare ma entra anche nei palazzi, nelle capanne e nei giardini incantati ed è capace di comprendere l'animo di una donna fedele al marito, benché sia rimasta sola per vent'anni, ma anche quello di una fanciulla come Nausicaa che prova attrazione per lo straniero venuto dalle acque. Si fa commedia borghese quando Alcinoo pensa di maritare Nausicaa con lo sconosciuto. Esplora il regno della morte restando però aperto alla luce. È anche il poema della senescenza dove tutti i personaggi della guerra di Troia sono invecchiati ma celebra la vita e il perdurante amore tra moglie e marito. Penetra nella psiche degli dei, dei re, dei guerrieri, di servi e pastori e delle donne per la 1° volta (Anticlea, Penelope, Elena, Nausicaa, Circe, Calipso, Euriclea). Sonda gli abissi teologici della giustizia divina. Situa al suo centro l’eroe dell'esperienza umana, dell'intelligenza, della conoscenza e della sopravvivenza, che ridotto al nulla rifiuta l'immortalità e riconquista la propria identità di uomo. L’Odissea mostra si la forma dell'epica ma è l'archetipo di quello che più tardi si chiamerà romanzo. Fa poesia della memoria, del racconto poetico e del canto… Aristotele sosteneva che la scena di riconoscimento con Alcinoo avviene attraverso la memoria ma questa è destata dal canto dell'aedo Demodoco e dunque l'agnizione è messa in moto dalla poesia stessa. Nella penultima scena di riconoscimento, quando Ulisse rivela alla moglie il segno segreto del letto da lui scavato nell’ulivo, Penelope piange e diventa come un naufrago scampato alla tempesta, diventa Ulisse. Eppure, l’Odissea cela una trama tragica dietro il felice racconto del ritorno, discute il tema della giustizia divina e il problema del male e delle sofferenze mentre prepara con delicatezza l’incontro con Nausicaa. L’uccisione delle vacche del Sole è talmente importante che viene ricordata all’inizio dell’Odissea. Polifemo, insieme a Zeus, decide di pietrificare la nave dei Feaci, così facendo Zeus compie un’azione ingiusta perché i Feaci difendendo l’ospitalità a lui cara. Poseidone vorrebbe anche schiacciare l’intera città dei Feaci ma non sappiamo la decisione di Zeus e quindi se il mondo sia retto da un dio benevolo o vendicativo. (Libro di Giobbe?) Il poema resta poi enigmaticamente aperto: la profezia di Tiresia prometteva a Odisseo il ritorno a casa ma prefigurava anche un ultimo viaggio verso un paese che non conosce mare, navi, cibo condito con il sale e dove un remo potrà essere scambiato con una pala da grano… una landa fuori dall’esperienza della Grecia arcaica e dunque un viaggio potenzialmente senza fine. Infinito è infatti il viaggio di Odisseo, lo ritroviamo in Dante, nell’ “Ulisse” di Joyce, in “2001: Odissea nello spazio” etc.… ENEIDE Fusione di Iliade e Odissea. Epica dell’essere e del divenire. Gli archetipi narrativi dell’Iliade e dell’Odissea si fondono nell’ultimo modello epico della classicità: l’Eneide. La si potrebbe definire un esodo da Troia, un’odissea per mare, un’iliade italica e laziale e una genesi di Roma e dei Romani. Racconto eroico del fato e della pietas che si mescolano alla prefigurazione della conquista imperiale e come testimonia la vicenda di Didone, al dramma dell’eros, d’ora in poi non più eliminabile dal racconto eroico. Questo epos mostra una civiltà matura ed autocosciente ma la Roma augustea, mandando in esilio Virgilio, il suo autore, lancia un altro modello con un infinito intreccio di vicende che, come la Genesi, parte dal Principio e che designa l’epica del divenire: le Metamorfosi di Ovidio. C’è un genere di epica che non è peculiare dell’Occidente: l’epos dell’essere e della verità, al confine tra poesia, filosofia e scienza. I nomi che risaltano sono quelli di: Empedocle, Parmenide e Lucrezio. I loro versi sulla Natura testimoniano non solo nella forma l’impulso omerico ed esiodeo che li sostiene e aprono in maniera epica dei racconti eroici che narrano la conquista della verità e l’innamoramento per la sapienza. Aristotele stesso vede ella meraviglia il principio generatore della filosofia, della scienza e della poesia. Questo impulso ha dominato l’immaginario europeo in forma epica perché coinvolge l’io nel viaggio verso il sapere, ne fa l’eroe della conoscenza (diramazioni dirette ne sono il Dante della Commedia). CRISTIANESIMO: epica barbarica e cortese. Con l’ingresso del Cristianesimo nella cultura europea il modello di racconto eroico muta, non tanto nei Vangeli che narrano le vicende terrene di Gesù di Nazareth e che culminano nella passione e nella resurrezione, ma nelle agiografie che poco dopo consacreranno il nuovo eroe, il santo. Le vite dei santi assorbono il modello antico in un novo modello eroico basato sull’epica dell’umiltà (comprende i miracoli, la predicazione, la furia bellica contro i pagani, gli infedeli e il diavolo, il pellegrinaggio e persino il viaggio ulissico v: San Brendano). Poco successiva l’epica germanica e nordica immette nella tradizione modelli non molto diversi ma più primordiali… potremmo dire che in Beowulf viene cantata la Creazione cristiana. In epoca feudale prende il posto dell’eroe germanico il cavaliere e ne è strano erede. Conserva l’impulso combattivo, ma lo mette al servizio di un ideale cristiano e allo stesso tempo di una donna. Diviene una sorta di santo dominato dall’eros (più o meno sublimato) e dalla fede. È come un ibrido, errante come Ulisse ma per foreste, attende l’avventura in un intreccio casuale che più tardi rivela il suo sen profondo. È l’epica che diviene romanzo cortese. Questa è l’erede medievale dell’epica classica. Con un fondale storico si trasforma nel poema eroico del Tasso, se si sostituisce un cavaliere con un duca o un re si avrebbero i drammi romanzeschi di Shakespeare, se il cavaliere venisse invece rimpiazzato da un marinaio avremmo una storia alla Conrad, Stevenson e forse persino alla Crusoe. Mentre se a partire fosse un picaro qualsiasi ci troveremmo di fronte a un Tom Jones o a un Renzo dei Promessi Sposi. L’epica cristiana e le sue trasformazioni. L’epica più tradizionalmente intesa esiste ancora con solo due anelli mancanti. Il componimento Africa di Petrarca fu un fallimento ma è prova dell'anelito alla ricreazione della epica classica. L'altro nello mancante è la Commedia dantesca: un romanzo teologico, ma anche narrativa del ritorno, racconto eroico dell’io e del viaggio, ricerca della verità, cammino mistico, in una parola: epica. La Commedia è dall'inizio alla fine pervasa dal tema della Creazione. Nel Rinascimento tardo e nel Barocco, la poesia europea disegna l’epos della Genesi e troviamo opere in lingue diverse come: il Microcosmo di Sceve o il Mondo creato di Torquato Tasso, oppure ancora Paradise Lost di Milton. È quindi un fenomeno che percorre tutta l'Europa, una tensione nuova verso Dio. Al contrario della Commedia, queste opere sono tutte mosse da un impulso epico che, sulla scia dell'Africa di Petrarca o del Teseida di Boccaccio, è poi sbocciato nell’epos cavalleresco dell'Ariosto e del Tasso. Inoltre, la maggior parte di questi testi intendono riscrivere i resoconti canonici della Bibbia cristiana. I poeti del 500 e del 600 sono affascinati dallo stupore e lo elevano a materia unica del proprio canto celebrando Il Cosmo, la Terra… Quando arriviamo a Milton l'epica cristiana raggiunge di nuovo una vetta, egli nel libro V del Paradiso Perduto tenta di combinare la riscrittura biblica con la riscrittura del mito classico e la riscrittura della poesia italiana con una nuova mimesi derivata dalla scienza italiana. L’Ermes di Omero, divenuto Mercurio e Iride in Virgilio, nella Gerusalemme liberata si era trasformato nella Arcangelo Michele, Milton lo trasforma nell’Arcangelo Raffaele e si lascia ispirare da Omero, Virgilio e Tasso nella descrizione del volo che l'Arcangelo Raffaele compie per aggiungere Adamo ed Eva e avvertirli del pericolo rappresentato da Satana. Quando Raffaele arriva la porta del cielo gli si spalanca come si era aperta per Era e Atena nell'Iliade V o per San Pietro negli Atti degli Apostoli. Mentre Raffaello osserva il cielo, Milton usa due similitudini: la 1° con lo strumento di Galileo, la 2° è ispirata alla classicità, quella del pilota che intravede un'isola remota. La poesia di Milton fa quindi affidamento allo stupore che il lettore contemporaneo può provare guardando attraverso un telescopio o strizzando gli occhi per scoprire Delo come un marinaio greco dell'antichità. Milton poi si spinge anche più avanti di Tasso, cercando di accordare le due mitologie dominanti del suo poema quella classica e quella cristiana. Il Paradiso perduto rappresenta lo stadio finale dell'epica tradizionale quella che discende da Omero e dalla Bibbia. Il genere viene poi irriso in versi e in prosa nell'opera di Pope, The rape of the Lock e nel Tom Jones di Fielding. Gli esiti più inattesi dell'epos vengono poi con il Romanticismo: con il poema The Prelude di Wordsworth e altri… Tutti mostrano quanto sia soggettiva la nuova epica e quanto il vero protagonista sia l'artista stesso. L'epica in prosa Una metamorfosi ancor più sorprendente arriva nell'800 dove l’epica abbandona la poesia per divenire prosa come vediamo nel Moby Dick di Melville o in Guerra e pace di Tolstoj: uno costruito intorno ai modelli di Satana di Milton, del Faust di Goethe e dell’Ulisse di Dante e l'altro su strutturato sull'antica sistole e diastole di Iliade e Odissea…L'ira di Acahb verso la balena bianca non è simile a quella di Achille? O la campagna di Napoleone in Russia è diversa forse dall'assedio dei greci a Troia? Ci saranno anche rivisitazioni romantiche dell'epica come la Ballata del vecchio marinaio di Coleridge. Il modernismo vede la sua data di nascita fissata nel 1922, data dell'uscita dell'Ulisse di Joyce. Il sacro Abbiamo detto che i poemi omerici hanno creato dei modelli che la letteratura epica dell'Occidente riprenderà a movimenti alterni, ma possiamo dire quasi la stessa cosa di un altro paradigma di racconto: la Bibbia ebraica. Questanon narra la guerra, un ritorno ma il principio stesso del mondo, la Creazione. La Bibbia oltre a dare il via a quell’epica dell'Inizio, del Cosmo è il racconto eroico del monoteismo in un mondo politeista ed è la storia del divenire nel tempo, il susseguirsi delle generazioni, il lento formarsi di una stirpe: la vicenda del popolo eletto. Il libro della Genesi è il prototipo di tutti i racconti genealogici :Cent'anni di solitudine di Marquez), la Genesi però introduce una novità: il processo di riconoscimento è iniziato da Dio stesso il quale, che per definizione è colui che è, ha comunque ho bisogno della conoscenza umana per esistere nella storia. L'uomo per riconoscere Dio deve essere pronto e possedere una conoscenza di sé stesso come essere umano. Questo epos, che si apre con il principio, continua però con l'Esodo, la storia epica della liberazione e di un errare che è Odissea sacra. L’Odissea e la Bibbia hanno un disegno in buona parte parallelo: l'Odissea è un viaggio di esplorazione, è scoperta, erranza di ricerca e persino di perdizione - la Genesi e l'Esodo sono l’errare alla ricerca di Dio, migrazione, la diaspora, lo sbandamento, costante rinascita e rinnovata aspirazione al compimento. Tra i testi che hanno avuto un impatto maggiore in Occidente dopo l'ingresso della Bibbia nella cultura greco-romana spicca il libro di Giobbe. Giobbe sarebbe l'uomo giusto, il retto, amante di Dio e nemico del male. Un giorno tra i figli di Dio che si presentano in udienza da lui c'è anche il nemico, Satana. Viene fatta una scommessa si potrebbe dire… il nemico dice a Dio di mettere alla prova il suo servo fedele: prima distrugge le sue greggi e poi uccide tutti i suoi figli fino ad attaccare lo stesso Giobbe. Questi continua a rimanere integro, fedele a Yahweh. Dopo un po' di tempo però Giobbe arriva a maledire il giorno in cui è nato e le domande che si pone non sono retoriche ma riguardano il perché della vita... Arrivato a questo punto preferirebbe il non essere. Nei capitoli 9 e 10, Giobbe accusa Dio di essere un giudice corrotto e i suoi amici cercano di farlo ragionare… Uno lo invita a rivolgersi a Dio un altro introduce un elemento nuovo: la liberazione del povero da parte di Dio per mezzo della sofferenza… questi ha una concezione ben più alta e ampia della Sapienza divina rispetto a quella dell'altro amico. Viene poi collocato un canto che celebra la sapienza umana e quella divina che afferma che solo Dio conosce la residenza della Sapienza e che Dio avrebbe dichiarato: “Temere Dio ecco la Sapienza, fuggire il male ecco l'intelligenza”. L'inaccessibile Sapienza divina diviene saggezza etica. Giobbe conosce questo tipo di saggezza ma adesso sperimenta una condizione diversa poiché tutto il male Sembra riversarsi su di lui. Qui Giobbe ci dà una visione della condizione umana in cui dominano disfacimento, morte, il nulla. Giobbe chiede a Dio anche se avessi peccato non dovresti perdonarmi... Nel capitolo 38 compare in scena Yahweh ed è questo il pezzo forte del libro, infatti in nessun altro luogo della Bibbia ebraica, nemmeno nella storia di Mosè, Dio si rivolge all'uomo così a lungo e con tale forza. Yahweh risponde con un discorso giudiziario nel quale fa una dichiarazione dell'infinità inferiorità del suo interlocutore e con il suo discorso fa una delle celebrazioni più potenti della Creazione che la Bibbia ebraica contenga. Egli rivela a Giobbe che il caos e il male fanno parte della creazione ma anche che Dio può sconfiggerli. Al termine del discorso di Dio, Giobbe annichilito, ha compreso l'assolutezza e la trascendenza di ciò che gli è stato detto e fa una confessione di fede. Dio, dal suo canto, rimprovera gli amici del servo che non hanno parlato di lui con fondamento e cambia la sorte di Giobbe raddoppiando i suoi beni. Giobbe ha una lunga influenza, ne vediamo un richiamo nel Medioevo in Dante - Paradiso canto 19 – dove riprende gli ultimi movimenti di Giobbe quando affronta il problema della giustizia divina. Il pellegrino chiede spiegazioni all'Aquila dei giusti sulla giustizia divina e questa prima ribadisce il concetto di Creazione e poi replica l'obiezione di Dante sull'ingiustizia che preclude la salvezza ai non cristiani con le stesse parole di Yahweh a Giobbe. Shakespeare modella sulla base di Giobbe uno dei suoi personaggi: Lear. Come lui privato di tutto e ridotto a un cumulo di piaghe. È un Giobbe esclusivamente tragico al quale viene sovrapposta anche l'immagine della passione e crocifissione di Gesù. Compare anche una citazione da Paolo il quale aveva affermato che la Sapienza di questo mondo e stoltezza davanti a Dio. La eco di Giobbe compare anche letteratura moderna: Ivan Karamazov, Dostoevskij, Tolstoj... I vangeli I quattro Vangeli canonici, secondo Marco, Matteo, Luca e Giovanni, sono i documenti narrativi più importanti su vita, predicazione, miracoli e morte di Gesù di Nazareth, dal quale prendere all'avvio il Cristianesimo. La loro redazione è datata tra il 70 e il 120 d.C. Marco, Matteo e Luca sono definiti i sinottici, perché simili tra loro, mentre Giovanni è più differente. Sembra sicuro che si rifacciano a delle fonti precedenti, ossia che sia esistita una tradizione orale, e forse una scritta, sulla vita e sui detti di Gesù. Tutti e quattro in generale fondano un genere letterario nuovo che mescola biografia, detti e dottrina in euanghelion cioè buona novella. I vangeli sono composizioni volte a diffondere l'annuncio della buona novella, convertire, a dimostrare che Gesù è stato veramente il Messia. Si tratta di narrazioni, discorsi attorno a Dio, come quelli della Bibbia ebraica. Come quest'ultima, hanno una singolare forza letteraria e mantengono una relazione con essa: le ultime parole di Gesù sulla croce sono citazioni di due salmi differenti, ma anche l'incipit di tre dei quattro Vangeli sono legati a quello che i cristiani chiameranno Antico Testamento. Caratteristica di tutti i vangeli, in particolare di Matteo, è la presentazione di un'azione, o di un detto, di Gesù al fine di "compiere la Scrittura", come quando sta per entrare a Gerusalemme e manda i discepoli a cercare un asino e un puledro e questo così che si compisse ciò che era stato annunziato dal profeta: “Dite alla figlia di Sion: Ecco il tuo re viene a te seduto su un'asina con un puledro figlio di bestia da soma”. Si ha l'impressione che gli Evangelisti abbiano a volte impostato il racconto di un evento o di un discorso di Gesù per dimostrare che egli compie fatti o profezie della Bibbia ebraica. Giovanni arriva addirittura a mettere sulle labbra di Gesù affermazioni che lo legano alle autoproclamazioni fondanti del Dio di Israele. In un passo Gesù risponde ai suoi oppositori: "In verità, In verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono". L'identità reclamata da Gesù possiede le tinte della filosofia greca dell'essere assoluto e riecheggia deliberatamente le parole di Yahweh a Mosè nella misteriosa teofania del roveto ardente dove il Signore risponde a Mosè di dire agli israeliti: "Io Sono mi ha mandato a voi". I Vangeli sembrano quindi costruiti al fine di imitare l'Antico Testamento, ad esempio la sequenza centrale di Matteo -dopo il racconto dell'infanzia e prima di quello della passione- è articolata in 5 unità riprendendo dunque la struttura del Pentateuco (i primi 5 libri della Bibbia ebraica). I vangeli vogliono continuare e compiere le scritture ebraiche ed inaugurano il Nuovo Testamento che presenta anch'esso scene enigmatiche e misteriose. Quali segni traccia per terra Gesù quando gli scribi e i Farisei gli portano davanti una donna adultera e gli domandano se debbano lapidaria? Perché i discepoli non riconoscono in Giuda il traditore nonostante le indicazioni ricevute nell'ultima cena? Perché Maria di Magdala non riconosce Gesù dopo la resurrezione? Oppure perché abbiamo definizioni contrastanti della natura e del fine delle parabole come mostrano Marco e Matteo con un’alterazione di un affinché e di un perché: • Quando i 12 domandano a Gesù perché gli parli in parabole, Marco, citando Isaia, risponde: "A voi è stato dato il mistero del regno di Dio ma per quelli che sono fuori tutto avviene in parabole affinché guardino ma non vedano, ascoltino, ma non intendano... ". • In Matteo Gesù, citando sempre Isaia, dice: "Perché a voi e dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato... Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono... ". Il Marco l'uso delle parabole sembra negare ogni possibilità di salvezza a quelli che ne sono fuori, i Matteo invece le parabole sembrano servire alla comprensione e alla salvezza degli stessi. Nessuno narrativa prima dei Vangeli contiene un numero così alto e una vastità tale di parabole e segni (così sono chiamati miracoli). Determinano con la loro stessa natura di brevi, misteriose, semplici narrative, la nascita di un genere nuovo che giunge fino a Dostoevskij e Kafka. All'interno della narrativa troviamo episodi particolarmente significativi come il colloquio tra Gesù e Pilato. → Gesù si è proclamato via, verità e vita. Egli è per il vangelo la verità. Pilato la ha davanti a sé, nella carne e non la riconosce. Non si potrebbe immaginare un incontro più sordo fra due culture. Il fatto è narrato con essenzialità e semplicità cose ignote alla letteratura greco- romana. La narrazione evangelica infatti come quella della Bibbia ebraica, non si perde in particolari non funzionali. Lo stile appartiene al sermo humilis contrapponendosi a quello alto dei testi pagani. I vangeli di Matteo e di Luca raccontano la nascita e l'infanzia di Gesù tramite il susseguirsi di profezie ed eventi più o meno miracolosi che hanno lo scopo di inquadrare l'intera vicenda come preordinata da Dio ed inserire in essa i due estremi che la contraddistinguono: speranza e tragedia. La narrazione arriva fino alla Passione, morte e Resurrezione e la letteratura greco- romana non conosce nulla del genere, nulla di così straziante come la lentissima sequenza che conduce dall'Ultima cena alla salita sul calvario e alla crocifissione. Il momento in cui Gesù spira sulla croce è talmente intollerabile che i vangeli ne offrono diverse versioni. • In Marco e Matteo, Gesù muore come un uomo disperato che si sente tradito dal padre gridando un eco del Salmo 22: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". • In Luca si affida invece alla volontà dello stesso Dio, gridando dal Salmo 31: "Padre nelle tue mani consegno il mio spirito". • In Giovanni infine, chi muore sulla croce è un trionfatore… Gesù sa che ora la sua opera e quella di Dio sta per compiersi. La tragedia ha poi un epilogo inatteso. Il romanzo greco già presenta scene di rinascita dopo morti apparenti e la mitologia del Medio Oriente conosce quelle di Osiride per esempio. I vangeli compiono un passo ulteriore Gesù risorge dai morti e appare alle donne e ai discepoli. • Marco non racconta la resurrezione e mette in scena l'annuncio delle donne che vanno al Sepolcro e vedono un giovane vestito di bianco che le avverte che Gesù è risorto. • Luca riprende Marco e Matteo, ma inserisce nella sequenza l'incredulità degli Apostoli alle chiacchiere delle donne e la corsa di Pietro alla tomba. Ma soprattutto aggiunge l'episodio di Emmaus: • Due discepoli in cammino verso il villaggio di Emmaus incontrano Gesù il quale domanda loro di cosa stessero parlando e questi gli riferiscono con scetticismo l'annuncio delle donne. Gesù li rimprovera e impartisce una lezione di esegesi biblica dopo loro lo invitano a mangiare insieme e a tavola lui benedice il pane, lo spezza ripetendo così i gesti eucaristici dell'Ultima cena. Solo allora gli occhi dei discepoli si aprono e lo riconoscono. Dante ricorderà Emmaus nel Purgatorio XXI per l'improvviso manifestarsi di Stazio accanto a lui e a Virgilio. Il tragico Tragico e tragedia L'esperienza tragica precede la tragedia come genere letterario. Nell'Iliade la scena in cui Achille insegue Ettore mostra Zeus che tende la bilancia d'oro e vi colloca la sorte di morte crudele, l’una di Achille e l’altra di Ettore. Il destino di Ettore piomba in basso, nell'Ade. Apollo lo ha abbandonato e nemmeno Zeus può nulla contro l'inesorabile procedere delle cose. → È questo il cuore dell'esperienza tragica. È tra il VI e il V secolo a.C. che i racconti mitici della Grecia arcaica trovano una rappresentazione pubblica nei teatri con le azioni drammatiche che sono state chiamate tragedie, queste nascono probabilmente da riti religiosi legati al culto di Dioniso e si sviluppano in un genere che deve avere avuto tanto successo ma che morì nel giro di un secolo. Aristotele esamina le caratteristiche di questo genere quando ormai i grandi autori tragici come Eschilo, Sofocle ed Euripide erano scomparsi. La tragedia è per Aristotele opera imitativa di un'azione seria, completa, con una certa estensione... Condotta da personaggi in azione e non esposta in maniera narrativa, adatta a suscitare pietà e paura, producendo di tali sentimenti la purificazione (catarsi) che i patimenti rappresentati comportano. Essa è fatta di 6 elementi: 1. racconto (mythos), 2. caratteri, 3. pensiero, 4. linguaggio, 5. musica, 6. spettacolo. Quello centrale è il racconto, ossia la trama, poiché la tragedia è imitazione di un'azione. Nell'intreccio sono poi essenziali la peripezia (ribaltamento dell'azione), il riconoscimento e la catastrofe (pathos). L'organizzazione degli eventi di una tragedia è ottima quando questi sembrano nascere, non spontaneamente o casualmente, ma gli uni dagli altri contro ogni aspettativa, risultando così ancor più terribili compassionevoli e suscitando meraviglia. La tragedia offre la conoscenza dell’”accidente", cosa che è preclusa la scienza. Altre tre caratteristiche della tragedia che appaiono fondamentale nella trattazione aristotelica sono che riguardi storie, miti consacrati nei quali il dramma si sviluppi in famiglia o tra rapporti di amicizia. Il personaggio deve essere “medio” e al centro della sua azione si deve trovare una colpa. I miti non possono essere alterati ma si può modificare il modo di metterli in scena per renderli più emozionanti. La situazione ottimale di una tragedia è quella che prevede la philia: fratello a fratello - un figlio al padre - la madre al figlio - il figlio alla madre che arreca o medita morte o sta per compiere una simile azione... In questi casi la tragedia esprime al meglio il senso del tragico perché tocca i rapporti intimi di ciascuno di noi. Quanto ai caratteri dei personaggi devono essere nobili, naturali e coerenti secondo i principi di verosimiglianza. Per quel che riguarda la trama, occorre ricordare che essa deve essere senza sempre tesa a suscitare pietà e paura secondo Aristotele, per questo il personaggio deve essere medio. Infatti, non può trattarsi di un uomo eccellente che passa dalla buona alla malasorte, serve un personaggio intermedio che non spicchi in virtù e giustizia e che cada nella sventura per una qualche colpa (hamartia) e non per cattiveria o perfidia come nel caso di Edipo che uccide il padre e sposa la madre senza sapere chi fossero la colpa è spesso commessa inconsapevolmente poiché l'uomo, benché non sia colpevole, condivide la colpa potenziale degli esseri umani in quanto tali. La tragedia greca e l'Orestea di Eschilo Aristotele discute della tragedia che si era sviluppata in Grecia e benché la Poetica abbia avuto una grande influenza nella tradizione occidentale, in realtà andrebbe ritenuta legata storicamente alla produzione drammaturgica del V a.C., mentre da un punto di vista filosofico, riguarda l'esperienza tragica di tutte le epoche. Possiamo avere un'idea della tragedia greca attraverso i drammi che Aristotele considerava supremi, tra cui l'unica trilogia intera che ci sia arrivata, l'Orestea di Eschilo e in più l'Edipo re di Sofocle e Le baccanti di Euripide (questi veniva considerato da Aristotele il più tragico tra i tre). L’Orestea di Eschilo, rappresentata alle grandi dionisie nel 458 a.C. è composta da 3 drammi: Agamennone, Coefore ed Eumenidi. 1. Nella prima parte assistiamo all'uccisione di Agamennone per mano della moglie Clitennestra e del suo amante Egisto. 2. Nelle coefore assistiamo ad Oreste che su ordine di Apollo torna per vendicare il padre. Per prima cosa deve farsi riconoscere dalla sorella Elettra e qui abbiamo uno dei riconoscimenti centrali è più emozionante della letteratura greca discusso da Aristotele nella Poetica e poi uccidere la madre e il suo amante. Mentre il coro celebra il trionfo della giustizia compaiono le Erinni, furie vendicatrici dei delitti che quando sono positive vengono chiamate Eumenidi. Oreste fugge inseguita da loro. 3. Nel terzo dramma le Erinni lo hanno raggiunto ma in suo aiuto arriva Atena che propone un regolare processo dove le Erinni svolgono la parte dell'accusa e Apollo della difesa. Poiché la votazione finale della giuria è pari il presidente Atena vota a favore di Oreste. Le Erinni, furibonde, sono placate dalla dea che le convince a trasformarsi in Eumenidi. L’Orestea termina dunque con un lieto fine, superando i drammi delle altre due parti. Al centro dell'opera c'è il problema della giustizia che nell'Agamennone e nelle Coefore assume le vesti della legge del taglione e poi si risolve nella fissazione di un processo legale... L’Orestea rappresenta dunque il passaggio dalla società arcaica a quella moderna, processo sottoposto ad agenti al di sopra degli esseri umani, non solo dei, ma anche entità divine come Ate e le Erinni. Nel coro dell'Agamennone c'è un inno a Zeus che dichiara che la saggezza deriva dalla sofferenza l'angoscia qui descritta ricorda il dolore e richiama quelle che Virgilio chiamerà lacrimae rerum in interiore homine. L’ Orestea però ha un lieto fine poiché la Dike, la giustizia prende il posto di Ate e così il Coro nelle Eumenidi, riprendendo con variazione l'Agamennone, potranno dire che il dolore giova alla saggezza, il terrore alla giustizia. Edipo re di Sofocle Anche l'altro grande ciclo tragico, quello tebano, vede un lieto fine misterioso che Sofocle offre nell' Edipo a Colono. L'Edipo re sofocleo è per molti versi divenuto paradigmatico, sin da Aristotele, della tragedia antica. Edipo re mostra la caduta nella sventura del “carattere di mezzo” per una colpa che non sa di aver commesso, cosa che rende l'esperienza tragica del dramma più intensa. L'edipo re mette in scena la tragedia della conoscenza. Edipo è tiranno, re di Tebe dopo aver risolto l'enigma della Sfinge e aver sposato Giocasta. Ma Tebe è preda di una epidemia e la risposta dell'oracolo di Delfi è che qualcosa di impuro si trova nel territorio di Tebe: Un uomo deve essere esiliato o ucciso poiché del sangue sconvolge la città. Il sangue è quello di Laio, il precedente re di Tebe, ucciso prima che Edipo salisse al trono, da dei pedoni durante un pellegrinaggio e solo un uomo è sopravvissuto all'imboscata. Edipo vuole fare chiarezza e interroga Tiresia, il vecchio profeta cieco, il quale svela a Edipo che lui stesso è l’uccisore di Laio e che per giunta ha una relazione intima terribile senza esserne consapevole. Edipo pensa che Tiresia complotti contro di lui insieme al cognato, Creonte. Giocasta spiega a Edipo che suo marito era stato ucciso all'incrocio di tre strade e che il neonato che avevano avuto e che lo avrebbe dovuto uccidere era stato abbandonato su un monte con i piedi legati. Un ubriaco aveva detto a Edipo di non essere figlio di Polibo di Corinto così lui si recò a Delfi per interrogare Apollo il quale gli predisse che avrebbe ucciso il padre e si sarebbe ritrovato con la madre. Decide così di abbandonare Corinto ma si incontra con Laio e lo uccide. L'unico servo rimasto vivo aveva chiesto di essere allontanato nei campi una volta che Edipo era diventato re. Un messaggero lo informa della morte di Polibo e gli dice anche che lui stesso aveva ricevuto Edipo neonato da un altro pastore della casa di Laio sul monte Citerone. Scoperta la verità, Giocasta si impicca e lui si è acceca con fermaglio di lei. Due elementi si percepiscono in questo intreccio: l'agnizione del quinto episodio non è un riconoscimento nel senso aristotelico del termine: Edipo non riconosce un'altra persona ma scopre che egli stesso, l'investigatore è l'assassino. In secondo luogo, l'intera tragedia conduce a questa agnizione, il poeta è riuscito a sublimare la struttura narrativa in un puro meccanismo di riconoscimento. La conoscenza che secondo Aristotele è prodotto del riconoscimento, è sviluppata e discussa sin dall'inizio della tragedia. Per Edipo, l'intera trama è un passaggio dall'ignoranza alla conoscenza (anagnorisis di Aristotele) che procede per grandi illuminazioni o attraverso acquisizioni graduali o momenti di crisi profonda come il trivio, la rivelazione del vecchio pastore... Edipo è l'esempio paradigmatico del legame tra la hamartia e l'agnizione, incarna il processo attraverso il quale la conoscenza emerge ed affiora. Il suo destino è un riconoscimento, l'anagnorisis di qualcosa che già in lui. Nella tragedia c'è una parola divina e una parola umana: la parola divina è la voce di Delfi, ma mentre la parola divina è ambigua quella dell'uomo, come quella del messaggero o del vecchio pastore, svela il significato della parola divina provandone la sua esattezza. La parola di Edipo è dubbio: dice una cosa ma ne sottintende un'altra. Quando Creonte per esempio parla al plurale dei briganti che uccisero Laio, Edipo replica chiedendo come avrebbe potuto l'assassino al singolare... In questo modo accusa sé stesso senza pensarci e più avanti quando dice che combatterà per Laio come fosse suo padre raggiunge il culmine dell'ironia tragica. Nella parola di Edipo il linguaggio umano è quello divino si fondono. La tragedia mostra come la ambiguità di Edipo, l'essere egli stesso un enigma, viene risolto nel rovesciamento di parole ed immagini. Il vocabolario che descrive Edipo viene sistematicamente ribaltato: il suo stesso nome, Oidipous può voler dire “uomo dal piede gonfio” ma anche “uomo che conosce l'enigma del piede”. La Sfinge gli domandava qual è l'essere che è al contempo dai due, tre e quattro piedi? La risposta è l'uomo. Ma la domanda finale di Edipo poi sarà: Chi sono io? E la risposta è precisamente: l'enigma della Sfinge. È l'uomo che si identifica con i suoi figli e con suo padre, bambino, adulto e vecchio allo stesso tempo. È lui la risposta e la risposta stessa è un enigma. L'intreccio si basa sul meccanismo di rovesciamento. Abbiamo tre livelli: Il primo è quello dell'azione che riscopre, porta alla luce, il passato di Edipo di cui egli non è consapevole. Dal momento in cui arriva il messaggero da Argo i tre livelli: azione, passato e antefatto, iniziano a confluire fino ad esplodere nell'agnizione con l'arrivo del vecchio pastore. Ci sono due momenti in particolare che sono entrambi di mancato riconoscimento. 1. Il primo è la sovrapposizione e confusione di due oracoli paralleli. sia Laio che Edipo avevano consultato l'oracolo di Apollo e i due oracoli corrispondono all’allusione precedente di Tiresia eppure Edipo, l'uomo che scioglie gli enigmi, non stabilisce un collegamento tra essi. →Il non riconoscimento ha luogo questo in punto per evidenziare l'incapacità di Edipo di sommare due più due e giungere alla giusta conclusione: lui non vuole riconoscere questa verità finché non sarà costretto dagli eventi. Non vuole riconoscere tale coincidenza poiché significherebbe che Tiresia aveva ragione e che lui è assassino di suo padre e marito di sua madre. Edipo è l'icona dell'uomo che si rifiuta di vedere la verità mentre la sta cercando. Edipo ho paura di essere stato lui ad uccidere Laio… riesce infatti a fare questo collegamento, ma non quello di essere suo figlio. 2. Edipo infatti trascura il fatto del piede perforato. Il non riconoscimento per Edipo si articola quindi in due momenti dove il secondo conferma il primo e lo rende più grave. Egli ha quindi rimosso questo indizio che avrebbe potuto risolvere l'enigma dimenticandosi di sé stesso, dei suoi piedi. Edipo rappresenta la nuova scienza umana, razionale che si serve dell'esperienza, dell'indagine contrapposta al sapere di Tiresia la cui conoscenza è arcaica. Edipo è insieme malattia e medicina (purificherà Tebe dalla pestilenza da lui causata), soggetto e oggetto della conoscenza. Il dibattito sui diversi tipi di conoscenza, sulla verità, sulla saggezza e sulla scienza è il tema attraverso il quale Sofocle costituisce il passaggio dall'ignoranza alla conoscenza. L'oracolo di Apollo viene da Delfi e il motto di Delfi è “conosci te stesso” nel testo troviamo entrambi i significati dell'espressione cioè sia “uomo riconosci che sei soltanto un uomo” e sia “uomo conosci te stesso”. Questo è quello che Edipo vuole, conoscere chi sia, la propria origine. Edipo persegue il motto di Delfi come se il sé stesso fosse qualcosa di esterno all'uomo, come un fenomeno naturale che debba essere esaminato e spiegato dalla scienza. La tragedia dell’ironico “conosci te stesso” consiste nel mostrare la difficoltà nel conseguire razionalmente tale conoscenza e soprattutto come essa una volta acquisita riveli all'uomo la sua nullità, rendendo Edipo cieco e allo stesso tempo costretto ad una sorta di immortalità (è come se avesse mangiato il frutto dell'albero della conoscenza e fosse divenuto simile a Dio). Lo stesso Tiresia all'inizio esclama: “Ahi come è terribile sapere quando non giova a chi sa!” E poi Giocasta quando comprende chi è Edipo esclama: “Sventurato che tu non sappia mai chi sei!” (questa affermazione capovolge il motto delfico). L'agnizione comporta che noi, come Tiresia, desideriamo ora dimenticare la conoscenza della conoscenza e rimpiangiamo l'oblio dell'ignoranza. Questa è una delle verità che l'Edipo re ci presenta, ma la verità di Edipo personaggio è diversa. Edipo soffre nella carne e per la memoria dei propri mali, conoscenza ormai permanente ed innegabile. Ora che è diventato cieco, povero e senza potere, non è più quel tiranno con il Coro (che rappresentava la città) ma adesso è un uomo fra gli uomini. Il passaggio di Edipo dall'ignoranza alla conoscenza è una discussione sulla conoscenza stessa e sul valore del conoscere sé stessi. La conoscenza non è un bene per sé. Ulisse riconosce sé stesso, la madre morta, il figlio, la moglie, il padre. Edipo riconosce sé stesso, il padre, la madre, la moglie, i figli. Ma mentre Ulisse con la sua lunga assenza rende riconoscimento una sublimazione dei sentimenti, Edipo rende il suo riconoscimento una maledizione per il genere umano. • L'agnizione di Ulisse ci permette di colmare il vuoto, ci rende uno e molti e ci spinge a desiderare la conoscenza. • L'agnizione di Edipo svuota la nostra pienezza, ci fa scansare con orrore la conoscenza e ci rende pari al nulla. Dalle Baccanti di Euripide alla Passione di Cristo e oltre Benché l'Edipo a Colono di Sofocle sia posteriore alle Baccanti di Euripide, si è tentati a considerare quest’ultima come l'epilogo della stagione tragica di Atene. Il tema e l'azione delle Baccanti riguardano il riconoscimento della propria natura divina che Dioniso, al culto del quale è legata la nascita della tragedia, vuole a tutti i costi ottenere dagli abitanti di Tebe. Dio del piacere, del vino e del teatro, è nato dall'unione di Zeus con la tebana Semele ma a Tebe girano voci, alle quali presta fede il re Penteo, che sostengono che Semele invece abbia generato Bacco con un uomo. Dionisio giunge nella città per proclamare la sua divinità e nel frattempo ha seminato nelle donne di Tebe un germe di follia che le spinge a salire sul monte Citerone e a celebrare, da vere baccanti, in suo onore. Penteo, nonostante le esortazioni di Cadmo e Tiresia, si rifiuta di credere alla sua divinità ritenendolo più un demone e lo fa arrestare. Il Dio si lascia catturare e poi scatena un terremoto per liberarsi. Spinto da Dioniso, Penteo si traveste da donna e accompagna il dio sul monte, questi però scatena le donne contro di lui e la stessa madre del re, Agape, lo fa a pezzi. Poco dopo questa comparirà infatti con un bastone con la testa del figlio, che crede essere quella di un leone. Cadmo riesce a strappare la donna dalla follia che riconosce l'errore compiuto. Giunge allora la teofania di Dioniso che dichiara di aver voluto così punire chi non credeva nella sua divinità e condanna Agave e Cadmo all'esilio. Più che un dramma religioso le Baccanti mettono in scena il dramma della religione. Il ritratto della divinità nelle Baccanti non è piacevole, Dioniso ispira crudeltà e superiorità. L'intreccio, che sbocca nell’uccisione di Penteo da parte delle donne invasate, mostra una crudeltà che nessuna fede può giustificare. Questa religione quindi può condurre alla catastrofe tragica e forse Euripide voleva indicare il legame originario tra culto religioso e tragedia. 1500 anni dopo rincontriamo le Baccanti il cui testo e le parole sono state impiegate da un autore ignoto bizantino per un dramma sulla Passione di Cristo. Questo ci obbliga a riflettere sulla trasposizione del tragico in ambito Cristiano. Nella passione Gesù, al contrario di Dioniso, si sottomette alle umiliazioni e alle sofferenze e il suo grido in punto di morte in due dei Vangeli canonici (Marco e Matteo) testimonia la sua disperazione che non gli impedisce di conservare la propria fede anche in questo momento. A un momento così tragico somiglia anche quello della Bibbia ebraica dove Giobbe inveisce contro Dio per avergli inflitto pene insopportabili. Ma anche in questo caso poi segue la restituzione poiché la tragedia si stempera. Se si pensa alla figura di Giuda che consegna Gesù per trenta denari e poi, colto del rimorso, si impicca, questi commette uno dei più grandi peccati dello spirito poiché chiude la porta al pentimento e alla misericordia divina. Il senso Cristiano del tragico si sposta quindi nella psiche e nel cuore dell’uomo e guarda alla sorte ultima dell'essere umano: non tanto alla morte ma alla dannazione eterna. Tutti gli episodi più celebri dell'Inferno dantesco da Paolo e Francesca a Ulisse e Guido da Montefeltro fino a quello di Ugolino saranno in questo senso tragici: narrati tutti dai loro protagonisti animati dalle loro antiche passioni, situati in quegli istanti della loro vita terrena che ne suggellano la catastrofe e ne annunciano la condanna per tutta l'eternità. (Dante stesso poi definiva l'inferno è una tragedia). Nella prima cantica della Commedia troviamo il dissidio tra passione dominante del personaggio e norma etica, tra il giudizio che il poeta, quasi fosse Dio, proclama su di lui condannandolo all'inferno e la partecipazione che è spesso pietosa tanto che Dante arriva ad immedesimarsi a volte. Nel frattempo, si era venuta affermando un'altra idea di tragedia, in parte derivata da Aristotele, che vedeva la sorte di un potente travolto dalla Fortuna, che sostituirebbe il Fato antico e il peccato Cristiano. Questa concezione ha formulazione piena nel De consolatione philosophiae di Boezio. Alla fine del ‘300 Chaucer, definirà così il genere del suo Racconto del Monaco dicendo che “la tragedia come si ricorda nei libri antichi, è raccontare una storia di colui che era in gran prosperità e cade da una condizione alta nella miseria”. L'azione della Fortuna, la fine negativa, sono requisiti indispensabili di una tragedia. Inoltre, l'orizzonte tragico si è ampliato fino a includere oltre i miti antichi anche vicende dell'Antico Testamento, personaggi storici dell'antichità e su ispirazione di Dante e Boccaccio, anche i più celebri della politica e della letteratura contemporanee. Rinascimento e Barocco La concezione di Chaucer aprì la via all'idea comune di tragedia come si è trasmessa all'età moderna. Essa però si combina presto con gli impulsi che dominano il Rinascimento e con il revival della cultura e delle forme antiche che lo caratterizzano. Il teatro antico torna in Europa ma gli aspetti migliori di tale rinascita sono imprevedibili. • In Inghilterra ha grande successo Seneca e poi verso fine ‘500 primi ‘600 il teatro elisabettiano di Londra esplode in una fioritura autonoma tra cui troviamo Marlowe, Johnson e Shakespeare. • In Francia il classicismo giunge in forma più completa. Si conosceva il greco, la tragedia antica e la poetica di Aristotele… ma la tragedia francese ha una produzione meno intensa di quella inglese. • In Spagna invece le presunte norme aristoteliche vengono praticamente ignorate e il Siglo de oro crea un teatro nel quale tragico e comico si incastrano l'uno nell'altro. Il teatro europeo del tardo Rinascimento e del Barocco crea i miti tragici della modernità e lo spazio tragico della storia. Basti pensare a Faust consacrato da Marlowe, Romeo e Giulietta, Macbeth e altri lanciati da Shakespeare... Fedra, Ester, le donne di Racine da Euripide e dalla Bibbia... Eventi e personaggi della storia antica, medievale, recente… vedi il Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Alessandro Magno... La cifra comune a tutta tale esperienza tragica si può vedere nell'esplorazione dell'eccesso e dell'ineluttabilità della passione: nell'eros, nella conquista e nell'esercizio del potere, nella religione e nel desiderio di conoscenza. Le donne più terribili della storia del teatro come Lady Macbeth o le figlie di Lear hanno in comune un insaziabile desiderio di potere In nome del quale sono pronte a trasgredire ogni norma etica. La passione dell'eros esplorata nell'Otello di Shakespeare e dalla Fedra di Racine. L'inarrestabile caduta di Lear, da lui stesso originariamente provocata, la conoscenza e la morte sono l'unico equivalente moderno di quella di Edipo. Il Doctor Faustus di Marlowe mette in scena la tragedia della conoscenza oltre i limiti fino al patto con il demonio e la dannazione. Tragedia della conoscenza è anche Amleto i cui dubbi gli impediscono di appurare la verità, trasformando l'intreccio della vendetta (rispetto all'Orestea) in un nodo aggrovigliato di irresolutezza, caso e meditazione. La tragedia del ‘600 comprende il conflitto tra civiltà moderna e mondo cristiano. La figura di Faust è infatti rilevante non per la sua passione per le arti magiche ma perché come Bruno o Galileo sfida l'idea che la virtù si trovi nel mezzo, mettendo in pericolo la fede stessa. Con l'Illuminismo nel secolo successivo e la rivoluzione, religione e Chiesa battono in ritirata. In effetti anche la grande tragedia sembra scomparire e il tragico sfociare nel melodrammatico. Il senso del tragico invece si sposta da un genere all'altro dal teatro al romanzo. Il tragico nella narrativa Nella narrativa dell'800 del ‘900 il tragico emerge spesso come prepotenza. Un conflitto tra essere umano contro se stesso, il mondo, i suoi sentimenti, la sua coscienza e conoscenza, i suoi limiti, il suo destino e la sua fine → Questo è il marchio dell'esperienza tragica moderna. C'è un grado 0 dell'esperienza tragica, quello nel quale l'individuo si trova dinanzi all'epilogo della propria vita, la morte. Ma non una morte eroica, una morte semplice, per malattia come quella raccontata da Tolstoj nella morte di Ivan Il'ic. Da questo grado zero del tragico si può passare alla modalità successiva, quando è tutta una famiglia che precipita verso l'abisso… si può pensare ai Malavoglia di Verga. Altra esperienza tragica, quella fondata sull'assurdo, come nel Processo di Kafka dove non viene mai rivelato nell'opera perché il protagonista viene processato. Alla fine, il protagonista viene condannato e il romanzo si chiude con la sua esecuzione. Rispetto a tragedie con mancanza di senso passiamo a quelle laceranti come quella di Emma Bovary nel romanzo di Flaubert caratterizzata per la sua complessità psicologica e sociale. Come Anna Karenina di Tolstoj, esse dipendono In primo luogo dall'eros e dall'adulterio, che sconvolgono le due protagoniste e le conducono al suicidio. Il XX secolo vede la maggior parte delle tragedie essere di tipo storico, legate infatti alle due guerre mondiali... Nel Dottor Faust di Thomas Mann il protagonista paga il prezzo della dannazione per una nuova arte e con la sua vicenda non c'è dubbio che Mann abbia voluto alludere alla discesa agli Inferi (richiamata nell'epigrafe dantesca del Doctor Faust) di un intero paese: la Germania sotto il nazismo. La letteratura che nasce su queste esperienze è diversa anche se ha tratti comuni nella fredda osservazione delle pene inflitte e nella ricerca della pietas ... Il grido di dolore si eleva così da Se questo è un uomo di Primo Levi. Il comico Esistono le commedie, opere che appartengono a un certo tipo di dramma, ed esiste il comico, che può essere una caratteristica, anche temporanea, di un'opera narrativa, poesia e persino di una tragedia. La commedia fa ridere, ma fa ridere anche la parodia. La nozione di commedia è mutata durante i secoli. Aristotele sostiene che la commedia differisce dalla tragedia poiché si propone di raffigurare uomini peggiori di quelli che esistono realmente, mentre la tragedia li rappresenta come superiori. La commedia è imitazione di soggetti vili ma non su un piano di malvagità e il suo elemento è il ridicolo. La commedia porta alla risoluzione dei conflitti. 1500 anni dopo però Dante, chiamando Commedia la sua opera principale, da un significato duplice alla parola. Al contrario della tragedia, come sostiene nell'epistola a Cangrande,inizia dalla narrazione di situazioni difficili, ma la sua materia finisce bene e poi mentre il linguaggio della tragedia è alto e sublime, quello della commedia è dimesso e umile. Il concetto di commedia cambia nel tempo nel ’500 Shakespeare scrive commedie definite “romantiche” come La dodicesima notte e nel ‘700 l'opera lirica prende le vesti della commedia divenendo opera buffa, come Il barbiere di Siviglia di Rossini. Analizzeremo ora 4 gradazioni del comico. 1.Riso irrefrenabile: hamártema. Partiamo anche qui da Omero, dal principio dell'Iliade dove, nel libro I, c'è un episodio comico: Teti prega Zeus di concedere onore ad Achille al quale Agamennone ha portato via Briseide. Zeus risponde che questo lo farò litigare con Era, ma accetta. Era si infuria ed Efesto, preoccupato che i suoi genitori non siano in armonia, consiglia la madre di far buon viso a cattivo gioco ed inizia a versare da bere a tutti. Poiché Efesto è sciancato, il suo affaccendarsi fa sorridere tutti gli altri dei, diminuendo la tensione e così si abbandonano tutti ad un riso intrattenibile, una risata omerica. Questa risata appartiene solo agli dei ed è una delle ragioni per cui Socrate condanna Omero nella Repubblica di Platone. A questo episodio si può paragonare un altro tipo di riso dell'Iliade, quello che prende le truppe greche nel libro II quando Ulisse percuote Tersite il quale ha rimproverato e preso in giro i capi achei con lo scettro. Tersite comparirà nella Repubblica di Platone sul punto di reincarnarsi in scimmia e viene chiamato “suscitatore di riso”: i greci ridono di lui per il contrappasso immediato che lo colpisce. Non c’è molto altro da ridere nell'Iliade, tranne qualche piccolo momento come quando Achille è rimproverato da Antiloco, il figlio di Nestore, perché lui vuole dare il premio di consolazione all'ultimo arrivato nella corsa e non a lui che è arrivato secondo. Va ricordato inoltre, il sorriso denso di pathos quando Ettore saluta Andromaca e il figlio e lei lo guarda piangendo mentre ride. Ci sono molte risate umani invece nell'Odissea, soprattutto dei Proci e di Ulisse, il quale ride quando comprende di essere riuscito ad ingannare Polifemo. O quando Ulisse atterra Iro con un solo colpo e i pretendenti muoiono dal ridere e più tardi uno di loro, Crisippo tira un piede di vacca contro Ulisse che lo schiva sorridendo sardonicamente nel cuore. Infine, in una tremenda scena, Atena getta i Proci in una risata omerica che sconvolge le loro menti portandoli ad un riso apocalittico ed inumano. Il riso divino ritorna nel libro VIII, dopo il primo racconto di Demodoco sulla lite tra Achille e Ulisse, l'aedo riprende a cantare questa volta gli amori di Ares e Afrodite nella casa di Efesto, sposo di Afrodite. Avvisato dal Sole, Efesto prepara una rete invisibile che sparge attorno al letto coniugale e fa finta di partire… Ares invita subito Afrodite a coricarsi nel letto coniugale e rimangono intrappolati. Subito dopo vengono chiamate tutte le divinità a vedere l'azione ridicola ed intollerabile. Ulisse e i Feaci gioiscono all'ascolto. Naturalmente il Socrate della Repubblica platonica bolla anche questa storia come sconveniente e non appropriata a delle divinità. Eppure, è la prima commedia a sfondo sessuale della letteratura occidentale. Quello che fa ridere è anche il contrappasso comico: abbiamo Efesto che è lento e ha preso Ares che il più celere tra gli dei e poiché è zoppo, lo ha preso con l'arte. Quindi è la vendetta della lentezza contro la velocità, dell'arte contro la forza. Il riso è irrefrenabile poiché è degli dei, solo gli dei possono ridere delle corna altrui, di certo non lo fanno i Greci e i Troiani invischiati in una guerra causata da un adulterio. Come diceva Aristotele la commedia ha come elemento il ridicolo ed il ridicolo è una deficienza, un difetto ma non doloroso... Ed è questa hamártema, questa deficienza, che desta una risata omerica dei numi d'olimpo. 2.L'assurdo Ne è un esempio perfetto il piccolo pezzo drammatico pubblicato da Primo Levi con il titolo Il versificatore. Questa storia ha due finali: • il versificatore si rivela poeta. • il versificatore è anche l'autore della storia che abbiamo appena letto. Una storia che desta sorriso sin dall'inizio e che fa scoppiare il riso già da “Il rospo” e con il sussulto della segretaria per “Una ragazza da portare a letto”. L'elemento fondamentale è l'assurdo del tutto, di una macchina che fabbrica versi con un certo grado di licenziosità, che imita i poeti del ‘600, dell'800 e del ‘900 e che sbaglia quando viene costretta a fare ciò per cui è stata costruita, ossia tirar fuori versi a comando, mentre quando gli si dà tema libero crea una composizione elementare, ma in grado di commuovere una donna. Riesce Infatti a simulare il comportamento umano. L'assurdo, scriveva Kant nella Critica del giudizio è il prerequisito essenziale del riso. 3.Riso soffocato L'Ulisse di Joyce... Man mano si penetra nel linguaggio cangiante del romanzo e nella 12° sezione, “Il ciclope” ci imbattiamo nel catalogo dei delegati stranieri che presenziano all'esecuzione di un rivoluzionario. Si tratta di una interpolazione che prende in giro i resoconti giornalistici di occasioni del genere. Tra i 16 personaggi forestieri che affollano la tribuna delle autorità spiccano per i loro nomi: Il commendator Bacibaci Beninobenone o palabras y paternoster della malora e della malaria. Il ciclope è pieno di cataloghi e poche pagine prima di questo, ce n'è uno che elenca le immagini di eroi ed eroine irlandesi dell'antichità come: L'ultimo dei Mohicani o Rosa di Castiglia… Più tardi ne segue un altro con il fior fiore della società cosmopolita presente al matrimonio di Jean Wyse de Neulan, capo dei forestali nazionali irlandesi. Poi c'è una processione di priori, frati, santi tra i quali: San anonimo, San pseudonimo, San omonimo eccetera... Questo è un gioco assoluto, fine a sé stesso dal punto di vista della trama ed inserito in un altro gioco, ossia l'interpolazione e digressione burlesca inserita nella discussione politica nazionalista del Ciclope. Questi sono anticipazioni di giochi di parole che domineranno Finnegans Wake dove abbiamo Dante come “Denti alligator” … qui ci fa ridere l'accumulazione, l'esagerazione, la scomposizione e ricomposizione linguistica e la presa in giro della tradizione e delle convenzioni. 4.Heiterkeit: la spuma Mann è stato chiamato il “tedesco ironico” poiché presenta nella sua produzione serissima molti casi di straordinaria comicità come il Felix Krull dove tutta la scena è improntata su una ambigua e spumeggiante ilarità. L'episodio del vagone ristorante è costruito sull'umorismo che culmina nell’improvvisa autopresentazione del professore, nella sua genealogia dei Venosta, e infine sull'esposizione ironica dell'evoluzione, al centro della quale colloca l'uomo somigliante al maiale. Secondo Mann, lo scopo dell'umorismo è il rasserenamento pervasivo e il riso secondo quanto diceva Schopenhauer si otterrebbe attraverso l’incongruenza fra un concetto e l'oggetto reale. La lirica Le origini Fino al ‘500 non abbiamo testi completi che permettano di comprendere le origini della lirica. Sappiamo comunque che i suoi inizi sono legati a forme preletterarie come la danza, il canto e forme di culto religioso. Il nome allude la modalità di rappresentazione, indica Infatti un canto accompagnato dalla lira, e spesso dalla danza come evoluzione del ditirambo (inno corale che tratta argomenti legati a Dioniso). Sotto l'influenza dell'epica, successivamente si sgancia dalle occasioni di carattere pratico e occasionale, e diviene poesia celebrativa. Platone nelle Leggi distingue il canto monodico e quello corale. La lirica monodica (Saffo o Alceo) è caratterizzata dalla tendenza del poeta a parlare di sé, mentre la poesia corale (Pindaro) ha un carattere sociale in quanto legata a eventi che coinvolgevano la comunità. Archiloco, considerato padre della lirica, presenta nella sua poesia una forma di soggettività simile a quella moderna. I frammenti a nostra disposizione rivelano il suo interesse per la vita tanto da attribuirgli maggior valore che all'onore del guerriero, in chiara opposizione all'epos. A differenza di Ettore nell'Iliade, per Archiloco il destino ultimo dell'uomo è l'oblio, ed è in vita che si cerca di ottenere il plauso degli altri. Non c'è comunque un rifiuto dell'epica, Omero resta un modello a cui guardano tutti i poeti lirici. Quando ad esempio Archiloco si rivolge al suo cuore per superare il dolore, non possiamo non pensare ad Ulisse che in veste di mendicante a Itaca, prima della vendetta finale, sentendo le ancelle che si intrattengono con i proci, chiede al suo cuore di sopportare e aspettare il momento giusto. L'apostrofe al cuore diventa uno dei topoi della lirica, ponendo l'accento sul dissidio interiore. Saffo come voce della sessualità e del desiderio femminile, ha avuto grande influenza nella tradizione occidentale, soprattutto per quanto riguarda la descrizione della sintomatologia dell'eros e del mondo naturale (in particolare nei notturni). La natura come termine di paragoneper rappresentare stati d'animo diventerà uno dei temi più cari della lirica europea Leopardi e l'io lirico di Alla luna e del Canto notturno dove confessa all’astro i suoi pensieri, rivelando il suo stato d'animo. In Canto notturno la riflessione diventa comico esistenziale e l'autore si domanda se sia alla luna che l'uomo deve guardare per capire il perché delle cose. Alla predilezione di Saffo per la notte si oppone la lirica di Pindaro che mostra preferenza per il giorno e immagini luminose. Alle soglie dell'età classica, Pindaro è considerato il più alto rappresentante di lirica corale arcaica , autore di componimenti d'occasione per immortalare gesta e fama di atleti vincitori nei giochi ellenici. In questi componimenti è fondamentale l'uso del mito poiché contribuisce alla creazione dell'eroe collegando al presente il passato mitico della Grecia. A questo aspetto è connesso la consapevolezza della missione del poeta: a lui le muse hanno concesso il dono di trasmettere ai posteri un patrimonio di valori esemplari attraverso la sua opera. Il canto è qualcosa di sacro che eleva il poeta e la sua arte al di sopra dei committenti. Nei versi di apertura nella V Nemea, egli mette a confronto l'arte del poeta con quella dello scultore che, pur avendo pari dignità, conferiscono all'oggetto una rinomanza diversa. La poesia si ispira alla scultura ma la forma poetica è destinata a varcare le frontiere del tempo e dello spazio non conoscendo i limiti spaziali imposti dall'arte dello scultore. Questa immagine diventerà un topos letterario: • a Roma, Orazio nelle Odi riprenderà il confronto tra poesia e scultura • Ovidio, nella conclusione delle Metamorfosi, dice che l'arte del poeta, a differenza di quella dello scultore, può conferire fama eterna all'autore, sia all'oggetto del suo canto. • Petrarca ritorna sul paragone poesia-scultura • Shakespeare, in uno dei suoi sonetti, celebra l'idea che la poesia sia un monumento di parole destinato a sopravvivere a tutte le altre costruzioni umane. La poesia ellenistica Il clima che regna ad Alessandria d'Egitto nel III a.C., dal punto di vista culturale, sarà fondamentale per i successivi sviluppi della letteratura. La città egiziana assiste a una contaminazione dei generi letterali, riconducibile alla ricerca di novità. Tale fenomeno era già stato avvistato da Platone che nelle Leggi identifica la causa nell’estro poetico degli artisti. La contaminazione dei generi si può in parte spiegare con le evoluzioni del ditirambo che, da componimento originariamente dedicato a Dioniso, arriva includere anche altri miti e a riutilizzare elementi strutturali propri di altri generi, adattandosi così ai rinnovati gusti del pubblico. In poesia, il declino della lirica corrisponde al rinnovamento del giambo e all'affermazione dell'elegia che conoscerà poi più ampia diffusione nella letteratura latina. I poeti ellenistici si appropriano della tradizione, rifunzionalizzandone forme e topoi. Callimaco, insieme a Teocrito, può essere considerato il maggior esponente dell'ellenismo. Negli Aitia di Callimaco questi dichiara di non aspirare a produrre un canto di grande fragore perché tuonare e compito di Zeus. Callimaco sceglie una poesia ricercata, da trovare seguendo una via stretta mai percorsa da altri il modello più vicino a questa immagine è nella Pitica IV di Pindaro, che suggerisce un'interpretazione: il breve sentiero dell'ode pindarica allude al contrasto tra la narrazione epica, ampia e distesa, e quella lirica, concisa. La scelta del sentiero angusto indica una precisa intenzione poetica: optare per la lirica e non per l'epica… richiama comunque l'attenzione sull'uso del mito e questa è la ragione che spinge Callimaco a ricercare versioni meno noti dei miti. Ad esempio, la storia dell’accecamento di Tiresia nell'inno V, Per i lavacri di Pallade, da una diversa versione rispetto a quella nota d'Ovidio. Callimaco si rifà ad Esiodo però invece di mettere a confronto la conoscenza divina con quella umana, cerca risposte dalle Muse. Altro grande rappresentante della tradizione letteraria ellenistica è Teocrito considerato iniziatore della pastorale. Negli Idilli domina Infatti il mondo dei pastori, spesso In opposizione con quello della città. Al mondo dei pastori sono estranei la materia del mito e le gesta degli eroi, mentre l'accento cade su storie mitiche a forte connotazione pastorale… ecco perché alle Muse sono sostituite le Ninfe Castalidi, divinità più strettamente legate al mondo della natura. Dall'antichità, la tradizione pastorale corre fino alla modernità, infatti a Roma, Virgilio modella le sue Ecloghe sui componimenti teocritei, evocando l'immagine dell'età dell'oro durante la quale i pastori vivevano in un'atmosfera di serenità primitiva. Destinato a diventare un topos della letteratura, l'età dell'oro richiama nostalgia per un passato ideale di un mondo ormai perduto. Teocrito è anche il creatore del personaggio di Dafni che aveva sposato la ninfa Cloe ed era stato punito da Afrodite con una passione mortale a causa della sua fedeltà alla moglie come leggiamo nell’Idillio I, Tirsi o il canto. Questi personaggi saranno poi protagonisti del romanzo pastorale di Longo Sofista, Dafni e Cloe che diverrà paradigma per gli scrittori del Rinascimento. Nel Medioevo il genere pastorale subisce anche l'influenza dell'immagine cristiana che vede Cristo come Buon Pastore e i suoi fedeli come gregge. Accanto alla lirica bucolica si afferma anche il romanzo in versi dello stesso genere (Arcadia di Iacopo Sannazaro). Lirica Latina La poesia di questo periodo, soprattutto grazie a Callimaco e Teocrito, rappresenta un ponte tra la letteratura greca e quella latina, quest’ultima infatti, fin dalle sue origini, si ispira a quella della Grecia: • Tito Andronico tradusse l'Odissea • Ennio si considerava il nuovo Omero • Catullo invece adattò i componimenti di Saffo, infatti la poesia d'amore catulliana è costituita dal desiderio femminile celebrato da Saffo così come la sua immaginazione poetica. Proclamò anch'egli una dedizione totale per una vita di passione e poesia. A Catullo si ispirano le generazioni successive dei poeti latini… vediamo echi della sua poesia nelle Odi di Orazio con il quale condivide temi come la descrizione dell'amore e poesie di carattere consolatorio. Benché non scriva solo elegie, Catullo è considerato il maestro dei poeti elegiaci latini. Allusioni ai carmi catulliani compaiono in Tibullo, Properzio e Ovidio. Nella poesia latina, Catullo ha una posizione centrale nell'evoluzione formale e tematica dell'elegia poiché ha scritto componimenti che raccontano una storia d'amore in prima persona. I temi dell'elegia comunque non si limitano all'amore, ma includono anche morte e guerra. La lirica medievale Nel De vulgari eloquentiaDante si presenta come testimone di una svolta culturale e letteraria cruciale per la lirica europea. Egli riconduce l’origine della poesia in volgare ai primi componimenti in lingua d'oc poiché perfetta e dolce e poi passa all'idioma degli italiani che si è affermato poiché vicino al latino. Nella Francia meridionale si sviluppa la poesia trobadorica dal XI al XIII secolo e Guglielmo d'Aquitania è il primo trovatore di cui ci è giunta opera. I trovatori hanno inventato uno dei concetti più fortunati della letteratura europea, la concezione dell'amore perfetto, la fin'amor, che si presenta sin dall'inizio come discorso sull'amore che propone un codice di comportamento per le corti in cui si sviluppa, quelle della Francia meridionale. Alla base dell'idea nota come amor cortese c'è la metafora feudale che sottolinea il divario sociale tra l'amante e l'amata e il codice amoroso viene modellato su quello delle istituzioni feudali. Di solito coinvolge una donna sposata, per questo l'amore cortese implica la necessità di mantenere segretezza da parte dell'amante. L'eros è inoltre metafora dell'esperienza umana più in generale, poiché attraverso l'amore tutti gli uomini si scoprono ugual. Lo spazio poetico della lirica cortese diventa quindi metafora di una condizione esistenziale in cui l'aspirazione a qualcosa di raggiungibile provoca delusione e rammarico. Nello stesso periodo circa in cui nel sud della Francia nasce la lirica provenzale, al nord emerge la poesia in lingua d'oil, alla corte di Maria di Champagne, punto nodale per la diffusione dei modelli trobadorici ed è la stessa in cui Chretien de Troyes compone i suoi romanzi. Tema principale della lirica troviera è l'amore infelice e la distanza che separa amante e amata. Inoltre, un altro tratto caratterizzante è l’interiorizzazione del desiderio, con il conseguente ripiegamento sull'io del poeta che rappresenta un primo passo verso la lirica personale della modernità. Altro momento di evoluzione è rappresentato dalla Scuola siciliana i cui poeti realizzano un’importante modifica introducendo la filosofia dell'amore e la progressiva interiorizzazione dell'esperienza amorosa. In questo contesto la poesia del dolce stilnovo costituisce una svolta centrale per i successivi sviluppi della lirica europea, per l'importanza attribuita all'introspezione e all’io del poeta. Oggetto di poesia non è più solo la descrizione della donna, ma anche l'effetto della bellezza dell'amata sull'amante. Questa transizione è documentata nelle Rime di Dante ma è già presente nella Vita nuova dove il poeta, vedendosi negato il saluto dalla sua amata, decide di riporre il suo amore a servizio della poesia. Nella Commedia Dante spiega a Bonagiunta da Lucca, in Purgatorio XXIV, come la fedeltà ad Amore sia il carattere distintivo del nuovo stile. La filosofia che si sviluppa intorno al concetto dell'amore, con la conseguente contaminazione del linguaggio filosofico e di quello amoroso, rappresenta la vera novità della poesia del ‘200, rispetto alla tradizione lirica mediolatina e romanza. Nel Purgatorio XXVI, l’incontro con Guinizzelli, iniziatore della nuova poetica e punto di raccordo tra scuola siciliana e stilnovisti, dove la leggiadria delle dolci rime d'amore costituisce altro motivo di novità della lirica stilnovista. Per queste ragioni Dante può essere considerato anticipatore della lirica moderna, per originalità e varietà di temi trattati in poesia, per la retorica usata e l'invenzione del canzoniere. La Vita nuova è una raccolta di poesie d'amore dedicate all'amata che possiedono identità e una storia. Dante traccia quindi un percorso, aprendo la strada successivi sviluppi che daranno i frutti immediati nella poesia petrarchesca. La Vita nuova è infatti il modello al quale guarda senza dubbio Petrarca nel realizzare il racconto del libro di rime intorno alla figura di Laura, opera nel quale il codice lirico si dispiega in forma di Romanzo è infatti attraverso la sequenza dei componimenti che emergono il racconto e la condanna morale dell'amore. Nel Canzoniere, oltre l'influenza della letteratura e della retorica classica, compare anche la tradizione biblica e della lirica religiosa e latina… per questo Petrarca rappresenta un punto di arrivo di tutta la tradizione poetica classica e medievale. La riflessione petrarchesca sull'amore parte dalla morte di Laura, la cui figura è associata al mito di Dafne… la donna è anche identificata con l'alloro, simbologia connessa anche all’alloro poetico. Attorno alla sua figura si dispiega l'avventura dell'amore e quella intellettuale dell'io lirico. La donna è protagonista di un percorso ascensionale che la avvicina al modello dantesco: passa da essere una Beatrice fino a diventare la Vergine. Al centro della narrativa del Rerum vulgarium fragmenta c’è il rapporto amore, amata, amante, imperniato sull' io lirico e sullo spazio che si definisce intorno alla sua persona. È questo che fa di Petrarca il caposcuola della lirica erotica moderna, che si presenta come spazio dell’io e delle sue contraddizioni. La lirica moderna Il Canzoniere è una assoluta novità nel panorama della lirica europea, punto di svolta per forme e temi della poesia, con conseguenze fino all'epoca moderna. Il sonetto diventa una delle più diffuse forme poetiche, mentre la raccolta di liriche si presenta come enciclopedia di temi, situazioni e motivi che ruotano intorno all'amore, cui si ispirano i maggiori poeti d'Europa a partire dal Rinascimento, tra cui ricordiamo Pietro Bembo, Torquato Tasso, Lope de Vega ecc.… In Inghilterra, agli inizi del XVI secolo, Sir Thomas Wyatt e il Conte di Surrey introducono il sonetto soprattutto grazie alle traduzioni di Petrarca. Surrey inoltre modifica la forma metrica del componimento dividendolo in quartine e più avanti Samuel Daniel con la sua raccolta dedicata a Delia modifica la forma del sonetto sostituendo alle due quartine e le due terzine del modello italiano, tre quartine e un distico finale (schema metrico che seguirà Shakespeare nei suoi Sonetti). I Sonetti sono incentrati sul tema dell'amore di cui vengono esaminati i diversi aspetti nelle macro sezioni “Fair youth” e “Dark Lady”, a questi componimenti vanno aggiunti altri di carattere mitologico e imitazioni di epigrammi greci con argomento Cupido. All'interno delle due ripartizioni principali si possono identificare dei raggruppamenti tematici minori: quello sul poeta rivale, il silenzio della Musa o l'infedeltà della donna. La raccolta è percorsa da una vena di erotismo a cui si attaccano i temi principali come: nobiltà, arte, poesia e fugacità del tempo. Nella seconda parte l'attenzione del poeta si concentra sul fascino della donna bruna e sulla sua passione adulterina. Questa sezione presenta un ideale estetico nuovo: attaccando l'idea tradizione della bellezza femminile (bionda e con gli occhi blu), Shakespeare propone il nero come bello, contrapponendo la falsità della donna dai capelli chiari, con la sincerità della bellezza bruna. Shakespeare disegna un percorso dove sovverte le convenzioni poetiche del corteggiamento erotico per cui la donna non è più oggetto del desiderio passionale ma un mezzo necessario per la riproduzione biologica o la causa scatenante della lussuria. In epoca moderna, dopo che Romanticismo ha cambiato il modo di concepire la poesia, la vita individuale si vede aprire uno spazio maggiore ed ottiene un peso sconosciuto alla tradizione precedente. La lirica diventa così genere dell'io e l'esperienza della poesia In primo luogo personale, cioè si sostanzia della vita intima dell'autore. Infatti, nella prefazione delle Lyrical ballads Wordsworth afferma che la poesia è uno spontaneo traboccare di forti emozioni e il poeta è un uomo che parla agli uomini rivolgendosi direttamente all'esperienza umana del lettore. Il cambiamento dei contenuti, con l'apertura alla sfera intima del poeta, ha come conseguenza il mutamento del linguaggio poetico. La lingua si fa più libera e originale per rispecchiare la reale condizione dello spirito, abbandonando convenzioni e formule della tradizione e ottenendo una maggiore libertà degli schemi metrici. L’invenzione più importante per la poesia europea è il verso Libero. Il Romanticismo, ponendo la soggettività al centro dell'esperienza della poesia, rappresenta un vero e proprio momento di svolta per la tradizione lirica occidentale. Il mutamento della lirica in età moderna passa per un altro grande pilastro della letteratura occidentale, i Fiori del male di Baudelaire, che si presenta come meditazione sull'esistenza come male. Alla base dell'architettura del libro c'è il topos del viaggio. Questa opera ha segnato la modernità poiché ha scardinato l'idea di poter ridurre la realtà a sistema, rivelando la frammentarietà del reale. Thomas Eliot considera Baudelaire punto fermo della poesia moderna. Eliot stesso, nel 1922 con Terra desolata segna il punto di inizio di una nuova stagione. Per comprendere la sua opera sono importanti due saggi dello stesso poeta: Tradizione e talento individuale e Ulisse: ordine e mito… il primo mostra che Eliot, mentre componeva Terra desolata, stava pensando alla tradizione e l'altro propone un possibile metodo di lettura per il romanzo di Joyce. Il primo espone un concetto di tradizione come sistema, il secondo teorizza l’uso del mito e il continuo parallelo tra antichità e modernità come un modo per controllare e ordinare la storia contemporanea. Al centro dell'universo sterile e desolato del pometto c'è il mito del Graal con la figura del Re pescatore, a questo si coagulano i frammenti di una tradizione che va da Ovidio all’ Antico Testamento fino anche a Baudelaire. Tutto questo compone un quadro desolante del presente che somiglia al limbo dantesco e alla Parigi dei Fiori del male, dominata da sterilità e alienazione. Nel periodo tra le due guerre la lirica sembra prendere nuove direzioni è infatti investita dal ritorno all'ordine che si traduce in una riscoperta della tradizione e del classicismo con una ricerca dei principi classici del bello e della misura, nel tentativo di riconciliare classicismo e modernità. Possiamo citare ad esempio Ungaretti con Sentimento del tempo dove il poeta riscopre la lingua della tradizione italiana. Si genera un classicismo lirico moderno che mostra un legame con il grande romanticismo lirico europeo e al tempo stesso adatta la tradizione ai tempi nuovi. Dal classicismo lirico moderno, insieme al confronto con i poeti più classici della modernità, come Baudelaire ed Eliot, nasce la poesia contemporanea, che, lasciando ampio margine al talento individuale, si rinnova continuamente ogni volta che un poeta se ne impossessa e la modifica producendo nuova poesia. Il fantastico Il fantastico nella tradizione letteraria europea si afferma in seguito al cambiamento del paradigma culturale, determinato dalla nuova scienza nella seconda metà del XVII secolo, che ha come conseguenza una rivoluzione nella concezione del mondo. La rivoluzione culturale è scaturita dalla nuova scienza, oltre che dai mutamenti sociali e antropologici, e determina una rifunzionalizzazione di temi, immagini e procedimenti narrativi dei modelli tradizionali, volgendo l’attenzione sui problemi della conoscenza della rappresentazione del mondo. L'influenza del nuovo sapere, la fioritura del romanzo gotico e l'affermazione dell'empirismo in Inghilterra sono solo alcuni dei fenomeni alla radice delle opere che appartengono alla categoria del fantastico. Per esplorare le zone più oscure della psiche umana, la narrativa fantastica ricorre ad un elemento soprannaturale spiegato in un linguaggio pseudoscientifico. Il termine fantastico si caratterizza per la sua polivalenza e la sua associazione con la fantasia… se si pensa ai testi in questa categoria come prodotti della fantasia, bisogna accettare quanto detto da Borges e Casares nell' introduzione all'edizione italiana dell’Antologia della letteratura fantastica: "Bisognerebbe dire che tutta la letteratura è fantastica". A questa affermazione i due autori hanno aggiunto poi una precisazione che restringe l'ambito “a quelle favole di fatto impossibili e purtuttavia accettate dall'immaginazione”. I significati dell'uso del termine fantastico, che rimandano al legame con la fantasia, come facoltà della mente umana va distinto da quello storico-letterario, che invece si afferma a partire dall'800, attraverso rapporto con il romanzo del realismo. Le origini È indiscutibile che il fantastico come modo si afferma definitivamente a partire dal 700, come lo è la presenza di indizi che anticipano la narrativa del fantastico già nell'antichità. Se non vogliamo tornare fino agli apologhi dell'Odissea, ascrivibili alla categoria del meraviglioso, è pur vero che già nella tarda antichità compare un gusto per i temi del soprannaturale e un interesse per l'interpretazione dei sogni e della magia. A questa temperie culturale sono riconducibili opere come la Storia vera di Luciano. In quest'opera si assiste al passaggio dal meraviglioso puro al fantastico meraviglioso. Gli straordinari avvenimenti dell'opera possono essere ricondotti alla categoria del meraviglioso puro nel 1° libro, in quanto i protagonisti delle strane vicende accettano pienamente l'irrazionale. Successivamente, quando ad esempio incontrano un alcione gigantesco, assistiamo allo spostamento da un meraviglioso inverosimile a uno che interessa gli oggetti quotidiani tanto suscitare in loro, per la prima volta, paura. La Storia vera, che fin dall'inizio l'autore presenta come parodia, è costruita sull' archetipo del viaggio che nella letteratura greca implica un’attesa del meraviglioso, sulla base di Omero, e spesso è in relazione alla discesa nel mondo dei morti. La Storia vera, insieme all'altro racconto fantasioso di un viaggio sulla luna l’Icaromenippo, possono essere considerati modelli per viaggi extraterrestri o sulla terra, con la possibilità di scegliere tra la satira e la fantasia. Pertanto, è possibile tracciare una linea di influenza che vada Luciano attraverso l'Utopia di Thomas More fino a I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift per poi arrivare ai romanzi di Jules Verne e alla fantascienza moderna. → Il fantastico quindi non è una creazione esclusiva della modernità e i cambiamenti che si possono rinvenire storie fantastiche antiche, medievali e moderne sono in parte ascrivibili alle trasformazioni dei paradigmi culturali che determinano mutamenti di categorie del pensiero e dell'immaginazione. Quindi è possibile rinvenire elementi fantastici anche nella letteratura antica e medievale. I testi che per i retori antichi rientrano nella categoria della fabula, i miti, raccontano cose non vere e nemmeno verosimili, infatti nelle Etimologie, Isidoro di Siviglia scriveva che la favola è il racconto di un qualcosa che non è avvenuto ne potrebbe avvenire in quanto contrario le leggi di natura. Auerbach vede nella Commedia di Dante l'origine della concezione estetica della sublimità dell'orrido e del grottesco, di un gotico fantastico e di sogno, e alcune di queste componenti sono caratteristiche della narrativa fantastica moderna. Elementi fantastici compaiono anche nei romanzi medievali ad esempio i Racconti di Canterbury di Chaucer. → È possibile individuare una continuità che suggerisce una vicinanza tra fantastico moderno e il romance. In ambito francese il termine è utilizzato per storie del terrore che implicano un coinvolgimento del lettore che deve credere a ciò che leggere e cercarne una spiegazione. Al contrario i testi fantastici della letteratura italiana implicano una presa di distanza e l'accettazione di un'altra logica che presenta nessi diversi dell'esperienza quotidiana. Tra novel e romance Poiché è in Inghilterra che la letteratura fantastica trova il terreno fertile in cui svilupparsi, è inevitabile un confronto con il novel che come genere si definisce in rapporto al romance di cui rifiuta quelle convenzioni che invece il fantastico ridefinisce. Le modalità di rappresentazione della narrativa fantastica sono infatti quelle del romanzo, dal quale viene ripreso lo stile, caratterizzato da un linguaggio altamente descrittivo. Possiamo dire che da un lato la letteratura fantastica si ispira al novel, riprendendo una rappresentazione concreta della realtà ma sovvertendola. È innegabile però che il romanzo sia il grande modello cui guardano gli autori di queste creazioni. La continuità tra i due generi è evidente nell'opposizione tra contenuto realistico e realistico nonché nelle tematiche che condividono come la fantasia, inverosimiglianza, uso del meraviglioso e presenza del soprannaturale. Questa contiguità tra narrativa fantastica e romanzo trova un punto di svolta nella tradizione del romanzo gotico inglese che è alle radici dello sviluppo delle storie di fantasmi e di racconti dell'orrore. Successivamente ci sarà un passaggio al perturbante e alla progressiva interiorizzazione della paura. Un'altra componente con la quale la letteratura fantastica si è misurata nel corso del XVIII secolo è il discorso estetico e proto-psicologico sul sublime. L’interesse per i processi mentali e il ruolo dell'immaginazione sono elementi che legano queste due categorie estetiche. Come il sublime, che mette l'uomo di fronte a qualcosa di inimmaginabile, anche la letteratura fantastica presenta eventi strani e incomprensibili che stordiscono il lettore. La letteratura fantastica si sviluppa dalla fine del XVII secolo fino al XIX. L'evoluzione di questo modo letterario trova il suo momento centrale nel confronto con la rappresentazione della realtà nel novel è infatti la categoria del reale che offre le basi per la definizione del fantastico. I due generi inoltre sono legati da un'altra relazione ovvero che anche la rappresentazione del reale nel romanzo, e dunque la stessa idea di mimesi nell'arte, è un'illusione. Per questo si può dire che c'è qualcosa di fantastico nel novel e viceversa… la fantasia è un elemento presente in tutta la letteratura. C'è dunque anche un elemento di realismo in tutta la letteratura del fantastico poiché il collegamento con il reale è indispensabile per mettere in evidenzia l'aspetto irreale. Definire il fantastico: Todorov Il libro di Todorov, la Letteratura fantastica, è una pietra miliare nel dibattito letterario del ‘900 sull'argomento. Al centro della sua argomentazione c'è il concetto dell'esitazione ontologica che restringe il fantastico al momento dell'incertezza della scelta tra illusione e realtà: "Colui che percepisce l'avvenimento deve optare per una delle due soluzioni… se si tratta di un'illusione dei sensi, le leggi del mondo rimangono quelle che sono… oppure l'avvenimento è realmente accaduto e allora questa realtà è governata da leggi a noi ignote... Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza… l’esitazione provata da un essere, il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale. Una volta fatta la scelta si abbandona la sfera del fantastico per entrare in un genere simile, lo strano o il meraviglioso" Sulla base di questa definizione sono possibili tre percorsi: • il soprannaturale è spiegato, dove avvenimenti apparentemente inspiegabili alla fine vengono chiariti • accettazione di eventi ultraterreni, anche senza una spiegazione • il fantastico puro, quando l'esitazione ontologica permane fino alla fine della storia. Temi del fantastico Hoffmann è stato considerato l'iniziatore della narrativa fantastica. Sul finire del ‘700 le sue storie infatti presentano un repertorio di temi e motivi che definiscono la letteratura fantastica. Il doppio, legato all'immagine dello specchio, occhio e vista, la follia, la presenza del male … tutte cose che implicano il confronto con l'alterità, la morte, fanno parte dei temi che caratterizzano i suoi racconti che definiscono la letteratura fantastica negli anni a venire. Nella sua opera, Uomo della sabbia, la narrazione è chiaramente divisa in due. Il racconto si presenta come uno scambio epistolare tra il protagonista ed altri tre personaggi, ma poi interviene un narratore eterodiegetico che si rivolge direttamente al lettore, richiamando alcune degli effetti principale delle narrazioni fantastiche come il disorientamento, perdita di controllo sulla propria persona, le emozioni forti e l'incapacità di esprimere l'inesprimibile… andando avanti il narratore richiama l'attenzione su gli ingredienti fondamentali del racconto fantastico: il meraviglioso, lo strano… effetti talmente forti che il lettore deve essere istruito per sopportarli. Nelle parole dell'io narrante è suggerita la richiesta di una momentanea sospensione dell'incredulità e gli effetti che la sua narrazione dovrebbe avere, ricordano quelli del vecchio marinaio nella ballata di Coleridge teorizzatore della willing suspension of disbelief. In generale affermatosi pienamente nell’800, soprattutto nella letteratura popolare, come dimostra ad esempio l'esperienza di Edgar Allan Poe, il fantastico è un modo letterario che, rinnovandosi continuamente, dimostra ancora oggi una straordinaria vitalità fantascienza o il fantasy moderno. Il mito Il nulla che è tutto Il poeta portoghese del ‘900 Fernando Pessoa così definisce il mito e spiega tale affermazione con due esempi uno di mitologia teologica e l'altro di mitologia eroico storica. • Il primo riguarda il Sole, l'astro rappresenta la divinità che muore al tramonto e risorge all'alba mentre • il secondo tiguarda Ulisse, navigatore dell'Odissea e protagonista del canto XXVI dell'Inferno di Dante. Una leggenda diffusa in Portogallo sostiene che prima di scomparire nell'Atlantico Ulisse fondò Lisbona… “per non essere venuto, venne e ci creo...” Il discorso è paradossale ma chiaro nelle sue implicazioni → Ulisse è un personaggio mitico che non è mai esistito nella realtà ma che è esistito nel mito e il mito è sufficiente a dar forma reale e conferire identità, collegandosi al mito di fondazione. La parola -mythos- in greco vuol dire appunto “parola”, “racconto” ed è ben distinta dal termine per “parola” e “discorso”, logos. Il mito si presenta in molte versioni polytropos come Ulisse. In tutte le civiltà del pianeta esso si concentra in primo luogo sull'origine del mondo, sulla creazione, sulla Teogonia e sull' avvento della specie umana sulla terra. Di ciò che abbiamo finora chiamato Principio adesso analizzeremo esempi che provengono dall'America e dall'Africa. Cosmogonia I Navajo nel sud-ovest degli Stati Uniti hanno una storia che spiega con materiali terreni la formazione e l'aspetto dei corpi celesti. Nella cosmologia degli Zulu il principio è contrassegnato invece dall'oscurità, dall'assenza di Terra, Sole, Stelle e Luna. Nella cosmologia degli Irochesi invece la moglie dell'Antico cade dal cielo nell'acqua che riempie la Terra… una tartaruga va in suo soccorso e sopra di essa la donna sparge la Terra. Scoprendo la sua capacità di creare dà vita e moto al cerchio di luce con il Sole… Poi crea le Stelle... Tipi e interpretazioni del mito Ci sono vari tipi di miti, ad esempio quelli teologici poiché contemplano le essenze stesse degli dei, o quelli materialistici, come il mondo mitico degli egizi che chiamarono Terra, Iside o Osiride, l'elemento umido. Un genere misto, che si trova in molti miti, lo troviamo nel racconto del banchetto degli dei quando la dea Discordia getto la mela d'oro ed Era, Atena e Afrodite se la contesero. Zeus allora le invio da Paride che assegnò la mela ad Afrodite. Salustio da una sua interpretazione del mito: • il banchetto rappresenterebbe le potenze ultramontane degli dei • la mela d'oro, il mondo • Paride rappresenterebbe l'anima che vive secondo sensibilità che, non vedendo nel mondo altra potenza della bellezza, decide di dare la mela ad Afrodite. Questo brano è significativo per due ragioni: 1. Costituisce un esempio di interpretazione allegorica volta spiegare e giustificare l'immortalità dei miti antichi nei quali gli dei combattono tra loro e si abbandonano le passioni. Attribuisce così al personaggio o all'evento mitico un significato spirituale, morale o mistico. Questo modo di interpretare il mito che risale almeno al VI a.C. e percorre tutta l'antichità fino ad essere assunto della cristianità, quando decise che i miti pagani potevano essere ammessi qualora gli si attribuisse un significato spirituale o qualità figurale, cioè preannuncio di eventi e personaggi che sono poi compiuti in ambito Cristiano (Ulisse legato all'albero della nave che prefigura Cristo inchiodato alla croce). 2. Il secondo motivo per cui il brano di Sallustio è importante è che ci porta dalla cosmogonia e dalla Teogonia verso l'epos eroico e in direzione della storia. La contesa tra le dee e l'assegnazione della mela ad Afrodite, con la promessa che questa farà riguardo Elena, saranno le cause della guerra di Troia che ha fondamento storico e che costituisce argomento del 1° poema epico rimastoci, l'Iliade di Omero. Viene richiamata anche da Erodoto all'inizio delle Storie, come evento che, insieme rapimenti di Io e Medea, ha generato inimicizia tra greci e persiani. Mito, letteratura, storia Un movimento simile lo riscontriamo nelle due opere mitologiche più importanti che l’antichità ci ha lasciato: • La Biblioteca di Apollodoro in ambito trattatistico • Le Metamorfosi di Ovidio in quello poetico Entrambe si aprono con il Principio ma mentre il 1° termina con Ulisse, ultimo degli eroi, le 2° virano verso Romolo e Numa Pompilio e la trasformazione di Giulio Cesare in Stella… Dunque, potremmo dire che termini con le metamorfosi della storia contemporanea in mito. Il rapporto tra mito, storia e letteratura, o più In generale con le arti, è fondamentale. Il mito infatti, diventa spesso letteratura e rappresentazione artistica… in rari casi la storia si trasforma in leggenda e mito (come quella di Alessandro Magno) o a volte il mito cambia sotto la pressione delle circostanze storiche. Ci sono anche casi in cui il mito adombri eventi storici. Per tutta la civiltà occidentale il corpus mitico per eccellenza è quello greco. Nella stessa cultura dell'Occidente sono entrati, attraverso la progressiva penetrazione della Bibbia, i miti ebraici… sin dall'antichità quelli provenienti dall'Egitto e poi dal ‘700 in poi quelli Sumeri e Babilonesi. I cristiani creano poi le loro leggende e storie dei santi e i popoli che invadono l'impero romano portano con sé i loro miti che hanno una qualche risonanza ancora oggi… come quelli di Beowulf e dei Nibelunghi o del Cid... In epoca moderna poi, la mitopoiesi (creare miti in ambito religioso e interpretare la realtà in termini mitologici) si è fatta più complessa, ma non qualitativamente Inferiore. La genesi di Faust o Amleto è diversa per qualsiasi personaggio, ma tutte hanno in comune il loro trasformarsi in miti dell'immaginario moderno attraverso grandi opere letterarie, nel caso del Faust, con Marlowe e Goethe mentre con Shakespeare per Amleto. Allo stesso modo Don Chisciotte, Robinson Crusoe e Gulliver sono frutto di mitopoiesi romanzesca. Ulisse Nome latino dell'eroe greco Odisseo, è forse la figura mitica e personaggio con maggior fortuna nell'immaginario nella storia dell'occidente e oltre. Tale successo è dovuto a due fattori: il carattere poliedrico di Ulisse e le avventure di cui è protagonista. È un eroe complesso, essere umano a tutto tondo e per molti versi appare sin dall'inizio come uno, nessuno e centomila. Nell'Iliade non è protagonista essenziale allo sviluppo della trama ma è colui che in un discorso nel II libro, evita lo sfaldamento delle truppe greche ed è sempre lui che conduce l'ambasceria ad Achille nel IX libro o che con Diomede nel X libro si reca a spiare il campo troiano facendo poi strage dei Traci. Al suo combattere ed essere ferito viene dedicato parte del libro XI e nel libro XXIII quando vince la corsa e i giochi funebri in onore di Patroclo Ma lascia che Achille premi Aiace per la seconda. Nel ciclo completo riguardante la guerra di Troia è di Ulisse l'idea che porterà alla vittoria, cioè la costruzione del cavallo che permetterà l'ingresso nella città dopo 10 anni di assedio. Maestro di eloquenza, uomo dall'ingegno pronto e astuto (è infatti protetto da Atena, dea dell'intelligenza), valoroso in guerra… è forte nonostante la piccola statura… Rispetto agli altri non si lascia mai andare agli impulsi passionali, prima di agire riflette, preferisce l'uso della parola a quello delle armi. Tutte queste qualità sono approfondite e moltiplicate nell'Odissea, poema nel quale è finalmente protagonista e qui, sin dall'inizio, è eroe dal multiforme ingegno. L’Ulisse dell'Odissea è l'eroe dell'esperienza umana, della conoscenza e della sopravvivenza. Lo sviluppo del personaggio si può così riassumere: prima è ridotto al nulla, al nessuno, nome col quale si presenta Polifemo, ma che rappresenterà davvero la sua condizione quando giunge sfinito nell'isola dei Feaci. Segue poi la faticosa riconquista della propria identità tramite la memoria e l'esperienza del ritorno. Ulisse è narratore supremo di sé stesso, forse il primo autobiografo e romanziere dell'Occidente. È dal suo stesso racconto nei libri 9-12 che l'Odissea prende forma, subito dopo che ha pianto per l'evocazione della guerra di Troia fatta dall’aedo Demodoco e che ha finalmente dichiarato la propria identità al re dei Feaci (Aristotele definiva questo riconoscimento attraverso la memoria). Tutte le avventure che Ulisse narra alla corte di Alcinoo: i Lotofagi, Circe, le Sirene… non sono solo tappe di un viaggio nel mondo del fantastico ma anche di un percorso, attraverso il ricordo, verso l'autocoscienza. Genesi di un futuro mitico Tra le avventure di Odisseo la discesa all'Ade è una tappa fondamentale per l'Odissea e per il futuro mitico di Ulisse. Qui infatti Tiresia non solo da ad Ulisse istruzioni per tornare ad Itaca ma pronuncia anche una profezia che riguarda la vita di Ulisse dopo la riconquista del regno. Essa prevede una prova senza misura, un ultimo viaggio con un remo sulle spalle verso un paese i cui abitanti non conoscono remi, mare, cibo condito col sale e dove un altro viandante scambierà il suo remo per una pala da grano… quando questo accadrà Ulisse dovrà compiere sacrifici per placare definitivamente l'ira di Poseidone e poi una morte serena lo coglierà ex halós (non si sa se lo coglierà dal mare o lontano dal mare). L'ambiguità della profezia di Tiresia ha dato luogo a molte interpretazioni e l'orizzonte dei viaggi di Ulisse si è allargato sempre di più. Licofrone nell’Alexandra interpreta l'ultimo viaggio di Ulisse con un ritorno nell'Ade al quale alluderebbe il suo costante muoversi verso Occidente, il tramonto del Sole e l'oscurità. Platone invece presenterà Ulisse al termine della Repubblica nell'ambito del mito di Er: l'eroe qui dovrà scegliere una figura per la sua prossima reincarnazione e si accontenterà di quella di un uomo privato, insignificante, lontano dai furori eroici e dalle erranze dell'Odisseo omerico, preannunciando l'ognuno, l'uomo comune che Leopold Bloom rappresenterà nell'Ulisse di Joyce. Ulisse, dopo il fuggente incontro con Nausicaa, torna a casa e non riconosce la propria terra, il suo nome gli è svelato da Atena travestita da pastorello e poi viene trasformato in mendicante per non essere riconosciuto ed eliminato dei Proci. Anche qui Ulisse quindi parte dalla consistenza del nessuno per giungere alla riconquista del regno. Tutta la seconda parte dell'Odissea abbandona il mondo del fantastico e dell’irreale per dedicarsi al domestico, al quotidiano, al familiare. L'essenza di Ulisse si manifesta nella pazienza e nell’astuzia… la sua identità si costruisce e decostruisce nelle tante false identità con le quali si presenta ai propri interlocutori e la sua storia diventa una serie di non riconoscimenti, rivelazioni e agnizioni tra le più intense della letteratura occidentale: il cane Argo, la nutrice Euriclea, il figlio Telemaco, Penelope e il padre Laerte. . Il mito: Ulisse Il termine mito deriva dal greco mythos, ossia parola, racconto. Per tutta la civiltà occidentale, infatti, e oggi anche per le culture di tutto il mondo, il corpus mitico per eccellenza è quello greco, magari rivisitato dai Romani e infine riscritto molteplici volte negli ultimi duemila anni. Il mito greco è generalmente un racconto orale e tradizionale che si caratterizza per la presenza di una struttura intricata e simile a quella dei sogni; legato alla religione e al rituale e deposito della conoscenza tradizionale, esso si presenta in moltissime versioni, ma in tutte le civiltà del pianeta si incentra in primo luogo sull’origine del mondo e sull’avvento della specie umana sulla Terra. Vari sono i tipi di miti esistenti e spesso, essi possono diventare letteratura o rappresentazione artistica di vario genere, tant’è che quasi sempre i documenti su un mito di cui si dispone sono proprio letterari o artistici. Va poi detto che una volta entrato in circolazione in forma di narrazione o di immagine, il mito può evolversi sotto la pressione delle circostanze storiche. Prendiamo, ad esempio, il mito di greco Ulisse, che ha conosciuto enorme fortuna nell’immaginario e nella storia occidentali. Nell’Iliadedi Omero, Ulisse non è il protagonista, ma emerge come personaggio essenziale allo sviluppo della trama, le cui caratteristiche vengono poi approfondite e moltiplicate all’interno dell’Odissea, poema nel quale diviene finalmente protagonista, narrando il suo ritorno a Itaca dopo la guerra di Troia. In entrambe le opere omeriche, però, Ulisse si delinea come l’eroe dell’esperienza umana, dell’intelligenza, della conoscenza e della sopravvivenza. Ma un personaggio come Ulisse genera presto innumerevoli reincarnazioni di sé, spesso anche in contrasto l’una con l’altra: è il caso di Sofocle, che nel Filottete presenta Ulisse come astuto e crudele ingannatore, mentre nell’Aiace lo mostra pieno di pietà e di umana comprensione; o, ancora, di Euripide, che ne delinea ritratti contrastanti nell’Ecuba, nel Reso e nel Ciclope. Sin dall’antichità, si cristallizzano dunque su di lui almeno due tradizioni : in una, egli appare come un abile oratore e ingannatore (pensiamo, per es., all’Eneide virgiliana, alle Metamorfosi di Ovidio, all’Eroico di Filostrato, all’Achilleide di Stazio e alla stessa Divina Commedia di Dante, nella quale Ulisse è collocato all’inferno tra i fraudolenti); nell’altra, come modello della virtù e della saggezza, vincitore del vizio e nobile ricercatore della conoscenza, ideale, in un certo senso, dell’uomo classico (pensiamo a Cicerone, Orazio, Seneca, Plotino,… e ancora una volta a Dante, che d’altro canto lo presenta come appassionato dell’esperienza del mondo e come intrepido navigatore dell’ignoto). Polibio indicò poi Ulisse come il modello dello storico, e più di un millennio dopo Eustazio lo definì filosofo. Infine, l’eroe entrò, attraverso l’arte, nella Storia e l’imperatore Tiberio ne consacrò l’immagine e le avventure a scopo di propaganda dinastico-politica. Devoti a Ulisse si mostrarono anche Claudio, Nerone e Adriano, la classe senatoria e l’alta borghesia romana: sin da epoca arcaica, infatti, pitture che rappresentano le vicende di Ulisse sono diffuse in tutta la Grecia, in Asia minore e in Etrutia. Altra metamorfosi si riconosce in Boezio, nel quarto libro della Consolazione della Filosofia, all’interno del quale Ulisse è esaltato come colui che ha saputo resistere agli incantamenti di Circe. Per quanto concerne le versioni medievali del mito, è decisamente centrale la versione del viaggio di Ulisse fornita da Dante nel XXVI canto dell’Inferno, nel quale il personaggio è trasformato da eroe centripeto a eroe centrifugo; nessun affetto familiare è infatti sufficientemente forte da spingerlo al ritorno a casa. La versione dantesca di Ulisse si presenta come l’originale doppio del poeta, che sino alla stesura del Convivio aveva creduto nel raggiungimento di una conoscenza puramente umana nella vita terrena. Seppur condannato all’Inferno per le sue frodi, la sua vicenda all’interno della DC rappresenta un’esaltante avventura della mente umana, che sfida i limiti ontologici fissati nel passato, e che non si esaurisce all’Inferno, giacché, al contrario, si protrae sino al Purgatorio (XIX) e al Paradiso (II). Sicuramente, Dante imprime al mito di Ulisse una svolta decisiva, intravvedendo nella storia del personaggio il tramonto di un’epoca e l’inizio di un’altra; il conflitto fra il mondo cristiano e un tempo nuovo che sfida l’antico. Dal tardo Quattrocento in poi, l’Ulisse dantesco inizia ad essere letto come la prefigurazione poetica del navigatore che fa la storia, e questa lettura rinascimentale lascerà un’impronta duratura che ritroveremo in scrittori italiani come Parini, Leopardi, Graf, Pascoli, D’Annunzio e Gozzano; in autori stranieri come Baudelaire e Verne; e ancora all’inizio del XX secolo. Nell’ultimo quarto del XX secolo, infatti, l’Ulisse dantesco ritorna come archetipo del viaggiatore- scopritore, per esempio nell’Odissea nello spazio di Kubrick, mescolandosi anche ai nuovi miti romantici dell’Olandese voltante di Wagner, del Gordon Pym di Poe, del capitano Achab di Melville,… Con il Rinascimento, tuttavia, torna in circolazione anche la traduzione dell’originale dell’Odissea omerica, di cui si svilupperanno innumerevoli riscritture sia in letteratura, sia nelle arti figurative. A questo proposito, occorre tenere conto del fatto che il personaggio e la trama del poeta omerico e/o dell’episodio dantesco vengono di volta in volta rimodellati sulla base della provenienza linguistico-culturale dell’autore che se ne appropria; della sua fede, dell’intreccio delle fonti di cui si serve; delle pressioni ideologiche che su di lui sono esercitate e della storia. Come anticipato, infine, anche il XX secolo, nonostante le sue conclamate rotture con il passato, ha mostrato un forte attaccamento al mito classico, e fa di Ulisse il prototipo dell’uomo moderno. Sicuramente, la versione più influente del mito di Ulisse nel Novecento è quella di James Joyce, che si presenta da un lato come la trasposizione del mito in chiave di vita ordinaria e contemporanea, e dall’altro, come un’immensa parodia. Sicuramente, dopo questa panoramica si può concludere che nella letteratura Ulisse diviene simbolo universale, non solo dell’Occidente, ma di ciascun popolo nel quale si reincarna. Principio-creazione “Principio” ha tre significati: inizio, causa prima ed elemento costitutivo fondamentale, ed è stato a lungo compito della filosofia individuare i principi in quanto cause prime dell’universo. Nella Metafisica, Aristotele affermò che fisica, astrofisica e cosmologia sono i prodotti della meraviglia originaria che inizialmente mosse l’uomo verso la conoscenza: motore del pensare, della ricerca filosofica e scientifica e della poesia è la meraviglia; chi prova un sentimento di meraviglia riconosce infatti di non sapere e per liberarsi dall’ignoranza comincia a filosofare e a chiedersi con cosa coincida il Principio del tutto. A differenza dei suoi predecessori, dunque, occorre sottolineare che Aristotele parificò all’indagatore dei fenomeni naturali e al filosofo anche il poeta, facendo così risalire a un unico impulso le attività più alte dell’uomo. Fu sempre Aristotele, a questo proposito, a distinguere quattro diversi tipi di cause: quella formale, cioè il principio determinante (forma determinata funzionalmente di una casseruola); quella materiale, il ciò da cui una cosa è fatta o da cui deriva (argilla con cui una casseruola è stata fatta); la causa efficiente, ossia il principio che produce il movimento o la generazione (vasaio che l’ha fabbricata); e la causa finale, ovvero il fine per il quale una cosa è fatta (cuocere alimenti). Secondo Aristotele, il Principio nasce in un vuoto uniforme e inordinato, al quale seguono la solida piattaforma della Terra, l’abisso sotterraneo di Tartaro, e infine l’Amore. Da tale origine parte una genealogia basata nelle prime fasi sulla partenogenesi, e poi sull’accoppiamento: dal Caos nascono Erebo e la Notte; Notte, unita in amore a Erebo, genera l’Etere e il Giorno; da Gaia viene il Cielo stellato; mentre la coppia Terra-cielo genera Oceano. La causa efficiente del tutto, e quindi il principio che produce l’universo, secondo Aristotele, è quindi Eros. I pensatori che precedettero Aristotele si soffermarono anch’essi sulle cause del Principio, ma in particolar modo su quelle materiali -si avevano l’acqua per Talete, l’aria per Anassimene e Diogene, e il fuoco per Eraclito. Anche alcuni poeti si sono occupati di genesi delle cose: Il poeta Esiodo e il filosofo Parmenide riconobbero per primi che doveva esistere negli esseri una causa che muovesse e riunisse le cose, ed entrambi puntarono sull’Eros. Tuttavia, in natura non esistono solo ordine, bellezza e bene, ed Empedocle ipotizzò una causa diversa per i rispettivi contrari -disordine, bruttezza e male-, ossia Amicizia e Discordia. Gli atomisti Leucippo e Democrito sostennero, invece, che le cause materiali degli esseri coincidessero con il pieno e il vuoto. Infine, i pitagorici proposero i principi matematici come principi di tutti gli esseri. Al di là di quello aristotelico, l’altro grande modello di Principio è però quello mitico- filosofico proposto da Platone nel Timeo, nel quale troviamo un artefice, “il dio”, la “divinità”, a dare forma a un cosmo sensibile, materiale, e a dotarlo di un’anima. Nel costituire il corpo del cosmo, l’artefice si è servito, secondo Platone, dei quattro elementi fondamentali (fuoco, aria, acqua e terra), mescolandoli secondo una proporzione armonica che conferisse al mondo una precisa struttura matematica, e dunque ordinata, regolare, semplice e bella. Tra i poeti latini è invece Ovidio a elaborare il Principio di maggiore risonanza nei secoli successivi, all’interno delle sue Metamorfosi: si parte da un conflitto perenne e da un’assenza totale di forma, sui quali agiscono un dio e una “natura migliore”. Il cosmo prende forma con gli elementi che si agglomerano o si distendono nelle cose e nei luoghi, e nasce poi l’uomo, plasmato da Prometeo mescolando terra e acqua piovana. Un altro modello di Principio, dotato di una causa Prima diretta nella forma di un Dio sempre più persona, è quello della Bibbia ebraica, che anche prevede, in principio, una situazione di caos, all’interno della quale Dio creò d’un colpo l’universo. Per tutto il Medioevo, il modello di Principio formulato dalla Genesi si mescola con quelli di Platone e Aristotele. Interessante è poi la visione della creazione data da Dante nella Commedia: dal primo canto dell’Inferno sino al Paradiso, l’amore divino muove l’universo e lo crea. Dante, quindi, attribuisce la creazione a Dio, all’Amore eterno. Sarà Michelangelo a consacrare -tra il 1508 e il 1512- l’icona della Creazione e del Motore mobile, concependone le fasi primordiali come una battaglia di elementi. Per quanto concerne le creazioni barocche, La Sistina diviene un modello nella sua totalità, di cui la letteratura europea sembra impadronirsi: tra il 1562 e il 1667 la poesia produce, in quattro lingue diverse, sei opere fra loro legate che cantano la Creazione e il Giudizio. Si tratta perciò di un fenomeno che percorre tutta l’Europa, di una nuova tensione verso Dio che va pari passo con la progressiva trasformazione dell’arte 1 rinascimentale in manieristica e barocca. Se Dante era appassionato indagatore della Creazione, i poeti del Cinquecento e dei Seicento sono pervasi dal suo stesso stupore, ma lo elevano a materia unica del proprio canto, dilatandolo in celebrazione del cosmo e della terra, ampliatasi nel frattempo grazie alle scoperte geografiche. Anche in epoca moderna, l’immaginario creazionistico non scompare, e infatti, ancora nel tardo Novecento, Marc Chagall dipingerà Création de l’homme, ma esso svanirà invece nella ricerca scientifico- filosofica. Nell’Ottocento e nel primo Novecento, i libri decisivi s’intitolano Origine delle specie e Teoria della relatività, il nuovo Principio si chiama, alcuni decenni dopo, Big Bang, e la letteratura riflette chiaramente il disfacimento del modello tradizionale di Principio: nella Piccola cosmogonia portatile di Raymond Queneau, per esempio, manca il Motore primo; mentre Italo Calvino riduce la cosmogonia a meravigliose Cosmicomiche e decostruisce il Principio in Ti con zero -a indicare, in fisica, l’istante zero a partire dal quale si misura il tempo di un fenomeno, ossia l’inizio-, per cui nella sua raccolta l’inizio non è altro che un punto di partenza, non l’arché, Principio-origine-causa. Riconoscimento Il riconoscimento, anche detto agnizione, è ovunque nella letteratura e senza di esso sarebbe difficile immaginare un dramma antico, un romanzo moderno, un’opera lirica, e anche un racconto popolare. È tanto diffuso come elemento costitutivo dell’intreccio narrativo che spesso, addirittura, si considera vetusto, tant’è che la letteratura contemporanea a volte ne fa volontariamente a meno. Fu Aristotele il primo teorico e critico a dedicarsi al concetto di riconoscimento, che considerava come un elemento chiave dell’intreccio sia della tragedia sia dell’epica, insieme alla peripezia e alla catastrofe. Secondo lui, esso non è mai neutro, conduce sempre o all’amicizia o all’ostilità, genera necessariamente pietà o paura, o, ancora, entrambe, e uno shock di sorpresa ed emozione legato alla meraviglia. Può interpretarsi, secondo lui, come un passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza; una conoscenza che, essendo la poesia una disciplina che si occupa dell’universale, è conseguentemente universale, a prescindere dal fatto che si tratti solitamente del riconoscimento di una persona. Se l’indagine metafisica coincide con la ricerca delle cause prime dell’essenza della verità, allora si può concludere che l’agnizione è la metafisica nella carne; la conoscenza di sé stessi e di altri esseri umani. Aristotele distinse poi diverse forme di riconoscimento: quello che si produce attraverso i segni, siano essi naturali (es. cicatrice) o esterni (gioielli); quello costruito dal poeta e non frutto diretto della trama; quello prodotto attraverso la memoria; quello basato sul ragionamento; e infine quello che scaturisce dagli eventi stessi e che coincide con la peripezia. Secondo il filosofo, il tipo migliore di agnizione era senza dubbio quello che avviene scaturisce dagli eventi, coincidente con la peripezia: il ribaltamento, in una trama in cui il protagonista agisce senza conoscere la verità su sé stesso o sui fatti, capace di produrre uno shock supremo, e quasi sempre situato al termine dell’azione, a far coincidere riconoscimento e scioglimento in un vertice di tensione emotiva. Va anche detto, però, che Aristotele tralascia in questo elenco altri esempi di riconoscimento possibili, come l’agnizione “de facie” (a prima vista), che non comporta processi complicati; quella che si produce attraverso l’istinto; e quella che avviene attraverso uno scambio di parole. Tuttavia, sono possibili molte altre tipologie di riconoscimento:Umberto Eco, per esempio, ha esaminato il riconoscimento nei romanzi popolari dell’Ottocento, facendo emergere una distinzione mai elaborata prima: quella tra riconoscimento duplice e semplice. Il primo, secondo Eco, deve sorprendere non solo il personaggio, ma anche il lettore; il secondo avviene invece quando il personaggio è del tutto sgomento, mentre il lettore sa già cosa sta avvenendo. Eco introduce poi un terzo tipo di riconoscimento, che chiama “l’agnizione da scemo del villaggio”, che a sua volta suddivide in due sottotipi: il primo si produce quando l’autore ha fornito sia al lettore sia al personaggio tutti gli elementi necessari per risolvere l’enigma, ma entrambi non riescono a giungere ad alcuna conclusione; il secondo quando il personaggio è un calunniato a cui gli eventi dell’intreccio non dicono nulla, mentre il lettore è reso cosciente solo grazie alla conoscenza della tradizione dei romanzi popolari. Anche la Bibbia, seppur non teorizzando l’agnizione, racconta diverse scene di riconoscimento e nel farlo compie un passo ulteriore, mostrandoci due aspetti importanti: innanzitutto, che per riconoscere Dio l’uomo deve avere una disposizione interiore e una conoscenza di sé stesso come essere umano; e, secondariamente, che quando si tratta del tentativo umano di riconoscere Dio non esistono prove, non ci si può affidare né ai segni, né alla memoria, né alla deduzione; per farlo occorre la fede, poiché solo le cose che appaiono implicano esclusivamente il riconoscimento. Pensiamo, a questo proposito, a Tommaso, che toccando il corpo di Gesù lo riconobbe, e successivamente lo proclamò Dio. Si ha in questo caso una doppia scena, prima una di agnizione, attraverso i segni (le ferite di Gesù), e poi una di fede`. Sicuramente, a rappresentare nell’universo medievale l’agnizione è la Commedia di Dante, mentre è l’Odissea a racchiudere la totalità del riconoscimento per l’antichità classica. Peripezia Insieme al riconoscimento, la peripezia è per Aristotele l’elemento principale dell’intreccio di una tragedia o di un poema narrativo. Nella Poetica, la definisce così: “il mutamento che si produce nel senso contrario alle vicende in corso”. Un mutamento, quindi, che va in direzione opposta a quella dell’azione: un ribaltamento. Si consideri, come esempio, l’episodio dell’Edipo re di Sofocle, nel quale il messaggero giunge da Corinto per annunciare a Edipo che suo padre Polibo è morto. Nel corso della scena, però, emerge che Polibo non era il vero padre di Edipo, e che Merope, la moglie di Polibo, non era sua madre. L’arrivo del messaggero mette dunque in moto il processo che condurrà alla catastrofe, perché farà partire le indagini che riveleranno che Edipo è figlio di Laio e Giocasta, re e regina di Tebe, e che proprio lui ha ucciso il primo e sposato la seconda. Particolarmente significativa per ciò che concerne “le peripezie” è poi l’Odissea, all’interno della quale sono continue e tutta l’azione è improntata ad esse, perché il ritorno stesso avviene contro la volontà e le azioni di Poseidone e contro tutta una serie di ostacoli, e la vendetta medesima sui Pretendenti ribalta la situazione di Itaca così come veniva descritta all’inizio. Un po’ come nell’Odissea, oggi, le peripezie hanno acquisito un valore centrale e si considerano come qualcosa di più ampio rispetto a ciò che aveva indicato Aristotele: come vicende complicate e rischiose, fatte di disavventure impreviste. Le peripezie del protagonista di un romanzo sono ormai le sue stesse avventure, dalle quali non saranno certo assenti anche le peripezie in senso aristotelico, ma nelle quali esse diverranno, come anche nell’Odissea, parte dell’ossatura stessa della narrazione. A questo proposito, esiste un genere nel quale le peripezie costituiscono il tessuto stesso della narrazione: il romanzo d’avventura, soprattutto a sfondo esotico, che dominò in Europa e in America sin dagli inizi dell’Ottocento. Pensiamo all’Isola misteriosa di Jules Verne, nel quale s’inanellano numerose peripezie che si susseguono. La catastrofe di Lincoln, peripezia suprema del romanzo, costituisce al suo interno il limite invalicabile e tragico che la natura pone alle sorti dell’umanità; o ancora all’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, nel quale l’autore non mira a destare la nostra sorpresa e la nostra meraviglia mediante la suspense, ma per mezzo delle avventure, cioè di un concatenarsi di peripezie, di azioni legate l’una all’altra secondo la logica aristotelica, che dispone i fatti come se nascessero l’uno dall’altro e però contro ogni aspettativa. A segnare il Novecento in fatto di peripezie fu invece una serie di nuovi mondi esotici non più fantastici, ma reali. Pensiamo, come esempio, al romanzo Kim di Rudyard Kipling, ritratto fedele e pittoresco dei popoli, delle culture e delle regioni dell’India; un cammino attraverso l’impero per mezzo di una serie di peripezie. Come Kipling sono però diversi gli autori che ricorreranno in questo nuovo tipo di letteratura alle peripezie nella concezione moderna del termine: tra loro, per esempio, è bene ricordare Jack London, con Il richiamo della foresta e Zanna Bianca. Eros Nel mondo antico Eros è personificato dal dio d’amore figlio di Afrodite, un giovane capriccioso, i cui attributi sono l’arco, le frecce e le fiaccole. I suoi dardi possono essere d’oro o di piombo: i primi fanno nascere l’amore nel cuore, i secondi suscitano avversione all’amante. Chiamato Cupido dai latini, Eros è simbolo dell’amore dei sensi e dell’attrazione sessuale, oltre a essere una forza cosmica. La sua prima rappresentazione in letteratura si deve infatti a Esiodo, che lo celebra come forza generatrice primigenia che contribuisce a mantenere la coesione del cosmo e che assicura la continuità della vita. Tuttavia, nel 201, lo stesso autore introduce un altro aspetto di questa divinità, presentandola come componente dell’attrazione amorosa. Erissimaco, figlio di Acumeno, sostiene che Eros sia una forza cosmica che opera ogni processo organico e ne sottolinea la potenza universale, mentre Socrate gli attribuisce la più alta sapienza, connessa alla poesia e a tutte le arti, situandolo tra il brutto e il bello e fra il cattivo e il buono, e identificandolo con un demone intermedio tra il dio e il mortale. Sempre nel riferire il discorso di Diotima di Mantinea, Socrate descrive Eros come desiderio di generare, come momento iniziale di un processo che nell’uomo costituisce l’anelito verso ciò che è immortale, destinato però ad essere frustrato. Nell’antichità, le rappresentazioni di Eros e l’analisi del desiderio amoroso non mancano nella lirica e nella poesia tragica, dove viene sottolineato l’effetto sconvolgente della passione amorosa sull’uomo, con un’attenzione anche agli aspetti psicologici. L’amore diviene una passione violenta, crudele e distruttiva. Ma a influenzare la tradizione europea non è solo la lirica: non va dimenticata la presenza costante dell’Eros nei romanzi ellenistici e latini e, in particolar modo, nelle Metamorfosi di Apuleio, considerata come una delle più grandi storie erotiche dell’antichità; e in Ovidio, non solo come autore di Amores e Ars amatoria, ma anche come autore delle Metamorfosi, considerabili come il più vasto repertorio di storie e leggende erotiche che l’antichità ha tramandato alla modernità. Topoi ovidiani compaiono infatti nella lirica dei trovatori, nel 1 Roman de la rose, che per la prima volta propone nella letteratura medievale gli elementi essenziali dell’amore erotico; in Dante, Petrarca e Boccaccio, sino ad arrivare all’influenza riscontrabile all’interno dell’universo della poesia erotica inglese dell’età elisabettiana (ShakespeareRomeo e Giulietta, Otello, Venus and Adonis) e all’interno di opere contemporanee. L’elemento erotico che caratterizza invece la lirica d’amore durante il Medioevo è un forte desiderio sessuale, spesso sublimato al punto tale che pochissimi sono in realtà i riferimenti diretti alla sessualità. La lirica provenzale presenta temi che avranno grande fortuna anche nella letteratura successiva: quello dell’amore lontano e quello della donna angelicata e inaccessibile, alla base del “dolce stil novo”. Sul finire del XII secolo il romanzo dà poi vita a un particolare tipo di eroe, destinato a divenire uno dei miti della modernità. La vicenda di Tristano, capostipite della lunga progenie di personaggi che si lasciano morire per amore, introduce nella letteratura europea i conflitti drammatici innescati dall’eros. Tristano e Isotta diventano quindi gli archetipi degli amanti adulterini e la loro storia contiene motivi che saranno al centro di successive avventure erotiche: adulterio, incesto e tradimento. Se Tristano rappresenta il mito dell’amore fatale basato sulla sofferenza, Isotta incarna il dramma dell’adulterio, stabilendo le linee di fondo di un paradigma che rimane pressoché invariato nella letteratura moderna, incentrato sul dissidio interiore dell’eroina divisa tra la vita coniugale e quella adulterina (Lancillotto e Ginevra, Chrétien de Troyes; Paolo e Francesca, Dante). A distanziarsi da questo modello derivante dalla letteratura arturiana è invece Boccaccio, che nel Decmeron esplora le innumerevoli combinazioni del legame sentimentale tra uomo e donna con una modulazione che va dal comico al tragico e dalla lussuria all’amore, e che coinvolge in egual modo uomini e donne di ogni estrazione sociale. Anche nell’orizzonte della modernità, eros è sempre considerato una forma di energia capace di spersonalizzare e distruggere; una forma degradata della passione amorosa, in opposizione a un ideale alto e nobilitante. Durante il Settecento, per esempio, si assiste alla fioritura di opere narrative esplicitamente erotiche, dove ampio spazio è dedicato all’esplorazione degli effetti della passione sulla vita interiore, con la contrapposizione del piacere dei sensi al sentimento amoroso. La nuova filosofia del piacere e della libertà, che si afferma soprattutto in Francia in questo periodo, influenza fortemente la letteratura erotica, proclamando la libertà dei costumi e dando vita alla figura del libertino, i cui elementi caratterizzanti sono una condotta erotica esasperata e l’onore virile, che si misura con le conquiste fatte, rovesciando l’idea cortese del servizio d’amore (es.: Don Giovanni di Molière). Anche la letteratura dell’Ottocento è piena di personaggi che si lasciano prendere dalla passione, ed è questa l’epoca in cui nasce l’idea dell’amore romantico, che investe anche il matrimonio e tende a svilupparsi dentro di esso. A causa di un ostacolo, la passione ha spesso un esito tragico e la morte diventa l’unico modo per eternare l’amore. Ricco di storie di amori tormentati nelle quali l’eros è sempre il responsabile della catastrofe finale, l’Ottocento è la grande stagione letteraria dell’adulterio, il cui trittico più famoso è formato da Madame Bovary, Anna Karenina e Effi Briest. Tuttavia, la formula del triangolo amoroso perdura sino ai nostri giorni: all’inizio del Novecento è possibile ritrovare questo archetipo, per esempio, nell’Ulisse di Joyce, nel quale però si assiste ad un ribaltamento rispetto allo schema tradizionale: Bloom, infatti, sembra accettare l’infedeltà della moglie Molly, e lei non è più vittima della passione come nelle storie tragiche dell’Ottocento, e al contrario, nel finale, torna a riconosce ed abbracciare il suo amore per il marito Bloom. Metamorfosi La metamorfosi è presente nell’immaginario occidentale già dalle origini della letteratura. Sin dall’antichità, l’essere umano ha dimostrato interesse per il cambiamento di forma -significato logico del termine-, sia in letteratura, sia in filosofia. La metamorfosi è poi motivo ricorrente nel folclore popolare, come rivela la sua presenza diffusa nella fiaba, nella quale il mutamento di forma è il più delle volte reversibile e legato a un incantesimo. Le sue caratteristiche principali, come espressione del cambiamento di forma, della degradazione, dell’illusione e dell’alienazione, fanno infatti della metamorfosi un concetto adattabile a diversi campi del sapere. Le prime storie di metamorfosi in letteratura compaiono nei poemi omerici, dove da un lato la trasformazione è un’espressione della divinità, e dall’altro un’attività affidata a personaggi legati al mondo della magia e della fantasia, e che si verifica in una località remota rispetto al mondo umano, al di fuori dell’intreccio principale del testo. In entrambi i casi però, che si tratti di un intervento divino o magico, a interessare più di tutto Omero era l’effetto di stupore che la metamorfosi aveva sullo spettatore. Nell’Odissea, il tema metamorfico occupa una posizione di grande rilievo e costituisce il motivo di base di due episodi del poema: la consultazione di Proteo da parte di Menelao e la trasformazione dei compagni di Ulisse in maiali nell’episodio di Circe; e in entrambi i casi i responsabili del prodigio sono due esseri semi divini che vivono ai margini della realtà degli uomini, e che agiscono senza una motivazione morale o religiosa. Nonostante Ovidio non abbia inventato la metamorfosi, da un punto di vista cronologico e storico il suo poema è dunque all’origine di un filone che percorre la cultura occidentale fino ai giorni nostri, e che ci presenta la metamorfosi come un processo di chiarificazione basato in realtà sulla continuità delle caratteristiche fondamentali del soggetto, nonostante il mutamento della sua forma. Infatti, in Ovidio, la metamorfosi, soprattutto quando irreversibile, rafforza l’identità di chi la subisce, e in quest’ottica il cambiamento di forma rappresenta un modo per esplorare la complessità dell’individuo e l’infinita molteplicità dei travestimenti della natura umana. Il cambiamento di forma è quindi fortemente radicato nel tema dell’identità, di cui evidenzia la precarietà, aspetto che verrà ripreso successivamente dalla letteratura del XX secolo, in virtù di tematiche come il cambiamento di sesso. Ma nel poema di Ovidio la metamorfosi ha anche una funzione eziologica, per cui diviene funzionale a spiegare l’origine di un fenomeno naturale, di un oggetto o di una leggenda. Nella tradizione letteraria successiva, storie metamorfiche e accenni al tema possono essere ricondotti a Esiodo, ai tragici, alla lirica e alla favolistica, ma è soltanto in epoca alessandrina (334 a.C. C-31 a.C.) che la metamorfosi diventa un genere letterario autonomo che si distingue dai precedenti racconti incentrati sull’argomento, caratterizzato dalla prevalente presenza di storie in cui la trasformazione ha soprattutto un valore eziologico ed è applicata molto frequentemente alla natura (Nicandro, Heteroioumena, Boio, Ornithogonia). Fin dai primi secoli del Cristianesimo, poi, intorno alle Metamorfosi si sviluppa un’intensa attività critica il cui scopo è adattare la cultura pagana a quella cristiana, per risolvere le contraddizioni implicite nel concetto di metamorfosi, quali la molteplicità, l’immortalità e il conflitto con uno dei cardini del Cristianesimo: la creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio. Tra i testi alla base di questi commenti troviamo la Città di Dio di Agostino e la Consolazione della Filosofia di Boezio. Il primo ci spiega la metamorfosi come l’azione di demoni che agiscono con il permesso del giudizio di Dio senza creare nulla, ma soltanto mutando in apparenza le vere creazioni divine; il secondo ne dà un’interpretazione allegorica, considerando le sembianze animalesche risultato della metamorfosi come il simbolo dei vizi umani. Nella critica ovidiana del Medioevo prevalgono infatti la linea allegorica e quella morale, e si distingue anche l’interpretazione teologica del poema, che tende a rintracciare al suo interno contenuti cristiani. La concezione della metamorfosi come metafora della caduta dell’uomo nel peccato è infatti espressa da Dante sia nel Convivio, sia nella Commedia, nella quale la trasformazione delle anime dopo la morte diventa uno dei principi strutturanti dell’intera architettura morale dell’aldilà, e il mutamento di forma uno dei modi attraverso cui si esplicita il contrappasso. Nel Rinascimento, invece, Petrarca utilizza il tema metamorfico nel Canzoniere per analizzare in chiave autobiografica ed etico-poetica l’insorgere dell’amore nell’io lirico, per descrivere la manifestazione del desiderio e poi anche come punizione per una passione considerabile come trasgressione, facendo della metamorfosi una condizione esplicitamente psicologica. Tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, invece, l’interesse per Ovidio passa in secondo piano e la metamorfosi diventa argomento di storie fantastiche dove è applicato a eventi inspiegabili; o, ancora, della letteratura per l’infanzia, a segnare il confine tra bene e male ( Pinocchio, La bella e la bestia, …). Con la fine del Settecento, si inizia poi a darne una lettura scientifica, che raggiunge l’apice con lo sviluppo della scienza positivista, quando viene dimostrato che la trasformazione è da un lato un fenomeno naturale, e dall’altro il risultato della sperimentazione scientifica dell’uomo. Questo aspetto si riflette in particolar modo nelle opere di Goethe, il quale, unendo il proprio interesse scientifico a quello per la letteratura, trasferisce i risultati ottenuti nel campo scientifico nei suoi drammi e nelle sue poesie. L’Ottocento interpreta la visione di Goethe come un’anticipazione dell’evoluzionismo di Darwin, come dimostra, per esempio, Vestiges of the Natural History of Creation di R. Chambers, il quale sostiene che la metamorfosi è il principio che regola l’universo. Agli inizi del Novecento, poi, sarà Kafka a inaugurare una nuova grande stagione metamorfica, all’interno della quale i risultati più significativi coincidono con Cuore di cane di Michail Bulgakov, che riprende l’aspetto dell’ibridazione fra uomo e animale in un’ottica satirica e grottesca; con i racconti di Jorge Luis Borgese le Cosmicomiche di Calvino, che ripropongono una revisione del tema in chiave fantastica; e con Cent’anni di solitudine di Gabriel García Marquez, situabile nella corrente del realismo magico. Va detto che in Kafka, a differenza di quanto accade in Ovidio, il processo metamorfico non viene descritto, e anziché rappresentare il processo di chiarificazione che rivela l’essenza dell’essere di cui fissa per sempre la vera identità, è un evento che gradualmente sfocia in crisi d’identità e che porta con sé, come logica conseguenza, la dissoluzione totale della forma. La metamorfosi del protagonista evidenzia infatti la crisi esistenziale che in realtà caratterizza la poesia di inizio secolo e, in particolare, il Modernismo. Sarà il post- modernismo, infine, a riscoprire Ovidio e la sua concezione di metamorfosi. Ne è l’esempio Il mondo estremo di Christoph Ransmayr, nel quale la biografia del poeta latino e la metamorfosi s’intrecciano nel racconto dell’esilio a Tomi, che in realtà coincide con il mondo delle Metamorfosi ovidiane, nel quale il processo metamorfico fissa per sempre l’identità e l’essenza di chi lo subisce. 1