RITORNO ALLA
FONTE DIVINA
PRECISE NOZIONI DI FISICA ATOMICA ALLA BASE DEI PIÙ
ANTICHI SEGRETI ALCHEMICI DELLA CIVILTÀ EGIZIA LASCIANO
SUPPORRE CHE QUESTA ANTICA SCIENZA POSSA ESSERE STATA
L’EREDITÀ DI UNA GRANDE CIVILTÀ SCOMPARSA CON IL
DILUVIO. ALCUNI DI QUESTI SEGRETI ALCHEMICI
PERMETTEVANO AGLI EGIZI LAVORAZIONI SU GRANITO
ALTRIMENTI IMPOSSIBILI.
(SECONDA PARTE)
DI MICHELE MANHER
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Ora com’è possibile che un coccodrillo fosse definito “dalle verdi piume”?
Schwaller de Lubicz notava allora che “la prima linea spettrale del metallo
mercurio si situa ai limiti del verde-giallo”.
Ai nostri giorni, nell’ambito di una scienza contemporanea come la fisica
ottica, c’è un esperimento noto come diffrazione di Arago (v. foto) in cui un fascio di
luce, generato da una lampada a vapori di mercurio, è raccolto tramite un forellino di
0.1 mm di diametro posto su un diaframma. Questo piccolo fascio di luce, dopo aver
incontrato sette dischetti metallici posti su un piano, crea su uno schermo l’immagine
di diffrazione, dal colore verde, che si vede nella foto qui in basso.
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legame dei geroglifici non solo con la vita d’ogni giorno e le credenze religiose, ma
anche con la scienza sacra e segreta dell’antico Egitto.
Ora certo gli antichi Egizi non conoscevano gli spettri atomici dei metalli e
non avevano le nozioni di fisica ottica che possediamo noi oggi: dunque in quale
modo avevano potuto creare queste associazioni così specificamente legate alle
caratteristiche atomiche dei metalli? Erano forse eredi e depositari di conoscenze
appartenute ad una civiltà antidiluviana, preesistente alla loro ed enormemente più
evoluta?
Non ostante la sistematica opera di distruzione messa in atto dagli stessi
sacerdoti egizi (essi infatti, terminate le dinastie egizie ed il potere faraonico, non
volevano che i barbari - padroni ormai della loro nazione - s’impossessassero anche
delle loro più segrete e pericolose conoscenze), quello che è rimasto, anche se
disarticolato e ormai privo del suo contesto organico, contiene sufficienti elementi per
ricomporre un quadro coerente e straordinariamente autosufficiente.
INNALZARE UN OBELISCO
Nella tarda estate del 1880 ai moli settentrionali di Staten Island - una delle
grandi isole di New York sulla baia dell’Hudson - attraccò un battello postale a
vapore, proveniente da Alessandria d’Egitto, che portava nella sua stiva un obelisco
di granito grigio, dono del governo egiziano agli Stati Uniti. Si trattava del celebre
obelisco chiamato“ago di Cleopatra”.
L’obelisco di Cleopatra, chiuso ancora nel suo imballo, appena sbarcato nel porto di Staten
Island.
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Com’era solito dire un noto giornalista televisivo degli anni ’80, a questo
punto «la domanda sorge spontanea»: come riuscì allora la regina Hatshepsut a fare
estrarre dalla roccia, levigare, scolpire, incidere, imbarcare, trasportare a Karnak ed
erigere - davanti al quinto pilone del tempio di Amen - non uno ma addirittura due
obelischi di trenta metri d’altezza e del peso di 350 tonnellate ciascuno in un tempo
complessivo di 7 (dicasi sette) mesi?
Scolpire ed issare un obelisco di granito di 30 metri d’altezza e 350 tonnellate
di peso è un’impresa che una nazione antica, secondo le nostre capacità di
comprensione, non poteva materialmente compiere. Se lo ha fatto doveva disporre,
necessariamente, o di tecnologie avanzate persino per la nostra civiltà, o forse di
conoscenze elementari che noi però abbiamo dimenticato, avendo perso il patrimonio
di nozioni alchemiche dell’antico Egitto.
Per quanto riguarda l’elevazione dell’obelisco, tuttavia, una ricostruzione
siamo forse in grado di farla a partire dai pochi documenti rimasti.
Nel papiro Anastasi I (n° 10247 ESA, British Museum) lo scriba civile Hori,
furibondo per l’arroganza e l’ignoranza (ancora oggi le due cose vanno insieme …) di
uno scriba dell’esercito, Amenemhotp, sta cercando di fargli capire, con una lettera,
quant’è grassa la sua incompetenza e lo “martella” con alcuni problemi da risolvere, il
quarto dei quali è: “Sai come si fa ad alzare un obelisco?”. Vediamo allora cosa dice
Hori al suo arrogante collega:
trasporto, percepiva tributi dalle maggiori città (oltre una sessantina) di tutto l’Egitto
e disponeva di stalle con oltre 240.000 capi di bestiame. Ora, che cosa ci dovevano
fare gli Egizi con tutti quei buoi nella sola Tebe?
Certo bisognava arare i campi, dar da mangiare alla popolazione ma il fatto è
che, specie nella stagione dell’inondazione, quando non si poteva arare la terra fertile,
il clero tebano aveva a sua disposizione immense riserve di energia meccanica.
Nessuno può pensare che agli Egizi non sia mai venuto in mente che i buoi,
oltre a tirare l’aratro, potevano anche tirare un obelisco lungo una rampa in salita. La
larghezza esagerata di questa rampa - 22 metri - fa supporre proprio questo. Erano
sufficienti 1000 buoi (100 pariglie, ciascuna con 10 buoi affiancati, con una
distribuzione del carico di 80-90 chili per animale) per trainare un obelisco di 350
tonnellate che scaricava gran parte del suo peso su rulli di legno (cedro del Libano o
corniolo italico) su per una leggera salita.
Ognuna di queste pariglie di 10 buoi era aggiogata ad un’unica trave di legno,
fissata su ogni animale con un sottogola. Le 100 travi di legno erano unite tra loro - in
parallelo - con gomene legate alle travi, tra un animale e l’altro, al posto del timone.
Ogni pariglia era governata da due , responsabili del movimento degli
animali. Tutti i sau erano sincronizzati come lo erano i rematori delle gigantesche
navi quinquereme, con battitori e capivoga.
scomparto, inclinato a 45°, lo teneva sospeso nel vuoto proprio all’altezza del suo
baricentro.
A questo punto era possibile far ruotare il monolite ancora di altri 22°. Dopo
quest’operazione l’obelisco “atterrava” sulla sabbia rimasta nell’ultimo quarto del
primo scomparto. Si toglieva anche questa, prima con le pale poi con un getto
continuo d’acqua, non appena lo spigolo della base dell’obelisco raggiungeva la
distanza di pochi centimetri dal piedistallo. Dopo queste operazioni, tuttavia, il
baricentro del monolite cadeva ancora al di fuori della sua base: la metà circa del peso
- 180 tonnellate - era ancora fuori asse. Un’ulteriore trazione, ancora con qualche
pariglia di buoi, ed il gioco era fatto.
Ma come fece Hatshepsut a far estrarre dalla roccia, levigare e scolpire con
immagini sacre e geroglifici due obelischi in soli sette mesi?
IL SEGRETO DI HATSHEPSUT
Ad Assuan esiste ancora un obelisco, rimasto incompiuto, nella cava di
granito rosso da cui i faraoni della XVIII Dinastia traevano la pietra per i loro
monumenti. Le teorie sul motivo dell’abbandono in situ di quel “mostro” lungo 45
metri e del peso nientemeno che di 1000 tonnellate, come si suol dire in questi casi, si
sprecano.
Qualunque causa possa aver costretto gli Egizi ad abbandonare quell’impresa
sta comunque il fatto che noi oggi abbiamo a nostra completa disposizione un
“reperto” disposto a dirci, nel linguaggio muto delle pietre, quali erano i segreti di
quel tipo di lavorazione in possesso degli antichi Egizi. A saperli leggere,
naturalmente.
Ad esempio su tutti e tre i lati già liberati dalla cava le superfici si presentano
ancora oggi morbidamente ondulate, come se fossero state accarezzate per millenni
dalle onde del mare anziché colpite duramente e violentemente, in un breve arco di
tempo, da oggetti contundenti.
Già, ma quali oggetti contundenti?
Alcuni egittologi, dall’alto delle loro competenze umanistiche, hanno trovato
la spiegazione scientifica: si trattava di percussori in pietra. Ma quale pietra?
Qualcuno ha mai spiegato a questi “scienziati” che il granito è la pietra più dura che
ci sia? Oltre a ciò, anche a voler immaginare che gli operai egizi avessero avuto nelle
loro mani mazze armate con diamanti di almeno duemila carati ciascuno, pretendere
di estrarre da una roccia di granito, in meno di sette mesi, due grandi e grossi
obelischi a colpi di mazza è come pretendere di arrivare a piedi sulla Luna o tagliare
una forma di pane di Genzano (se preferite, va bene anche di Altamura) con uno
spaghetto di grano duro (non cotto, mi raccomando). Magari queste eccezionali menti
avranno preso ispirazione dalla pubblicità, quella che dice che c’è un tonno che si
taglia con un grissino … chi lo sa come funzionano certe teste, quello sì che è un vero
mistero.
Ad ogni modo, se sono convinti che è così che andavano le cose, perché non
vanno lì e ci riprovano? Qualcuno che lo fece, ad esempio, ci fu.
Si trattava di una troupe televisiva americana che nella seconda metà degli
anni ’90 s’era messa in testa di poter imitare i faraoni, convinta d’aver capito tutto e
poter fare di meglio. Costruì un piccolo obelisco, servendosi però dei potenti mezzi
resi disponibili dalle moderne tecnologie, ma il risultato, come si può vedere dalle
foto allegate, fu del tutto insoddisfacente. Poi, con la consulenza di “esperti”,
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O scriba acuto, intuitivo, che non ignora alcuna cosa, fiamma (che
splende) nell’oscurità davanti all’esercito, al quale tu dai luce!
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Ma allora come diavolo fecero gli antichi Egizi a tirare fuori da una cava di
granito due obelischi in meno di sette mesi?
L’obelisco rimasto ad Assuan rende evidente che le tecniche d’estrazione
erano del tutto diverse da quelle che, ad esempio in epoca romana oppure in pieno
rinascimento, consentivano di prelevare il travertino (ben più tenero del granito) dalle
cave di Tivoli.
Nell’isola di Sehel, vicino ad Assuan, esiste un documento (v. foto), scolpito
nella roccia, che riguarda proprio l’estrazione dei due obelischi ordinati dalla regina
Hatshepsut, il cui autore si presenta con queste parole: «Conoscente del re, suo vero
amato, controllore dei lavori per i due obelischi, sommo sacerdote di Knhum, Satis e
Anukis, Amenhotp».
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Era infatti proprio ad Elefantina, la Porta del Sud, che arrivavano, dopo aver
risalito il corso del Nilo, navi onerarie provenienti dal Mediterraneo, cariche di
materie prime da barattare con i ricercati prodotti africani, principalmente avorio,
legno d’ebano, pellami vari (tra cui la pregiata pelle di leopardo, animale chiamato
anch’esso abu dagli Egizi) e l’immancabile oro.
Se la fluorite arrivasse dalla Sardegna o dall’Inghilterra non lo sappiamo, di
sicuro era scaricata proprio ad Elefantina e stoccata nei depositi del grande tempio di
Khnum.
Ma una volta prodotto l’acido fluoridrico come facevano a maneggiarlo e a
trasportarlo, essendo talmente aggressivo che persino l’inalazione accidentale dei suoi
vapori causa la morte?
Quest’acido non attacca il bronzo e dunque gli Egizi lo conservavano e lo
trasportavano in recipienti chiusi di questo tipo. Lo producevano in una grotta (…
alchemica, naturalmente!) scavata in una delle colline di Elefantina e dotata di un
semplice e ingegnoso sistema di ventilazione (un camino a tiraggio naturale), che
tuttavia doveva rendere poco salubre l’aria nei dintorni.
Non può essere un caso che nel geroglifico col quale gli Egizi indicavano
l’isola di Elefantina, , il determinativo fosse quello della “pustola” sopra
“le colline”, a simboleggiare la presenza di qualcosa di pericoloso per la salute
proprio là, tra le colline dell’isola. Poi l’oblio dei millenni ha permesso al vento ed
alla sabbia di coprire ogni cosa, seppellendo forse per sempre gli antichi ingressi e gli
antichi sentieri.
Trasportati quei pentoloni, con tutte le cautele, nella cava e scelto il posto
preciso da cui estrarre l’obelisco, si cominciava a scavarne i contorni per poi
procedere all’asportazione della roccia intorno, liberando così il monumento dalla sua
matrice.
Si scavavano dunque le linee di lavoro con un tampone di fibre vegetali
inzuppato di acido. Naturalmente il tampone non era tenuto con la mano ma era
avvolto sulla testa di un particolare bastone di bronzo: il misterioso scettro uas.
Questo bastone poteva essere usato solo da sacerdoti appositamente addestrati dato
che il minimo errore poteva essere fatale ed è questa la ragione per cui in tutte le
rappresentazioni lo scettro uas è tenuto in mano da una qualche divinità, a
simboleggiare un potere superiore.
Le fibre vegetali erano avvolte intorno alla sagoma a “testa di cane”,
appositamente studiata per permettere un buon ancoraggio del tampone ed il suo
ottimale utilizzo. All’altra estremità era stata studiata invece una forcella per
consentire un sicuro appoggio dell’attrezzo nella cavità ascellare, permettendo
all’operatore di esercitare una maggiore pressione, con il peso del corpo, sul tampone.
Il bastone, inoltre, doveva essere abbastanza lungo da evitare il rischio di inalazione
dei pericolosi vapori, anche se il sacerdote indossava una maschera, a forma di testa
d’ariete, con filtri di stoffa all’interno, da buttare subito via in caso di emergenza,
mentre ci si allontanava il più rapidamente possibile.
Una volta scavate le sagome vi si versava dentro l’acido, sempre con la
diluizione del 30%, cosicché la roccia, disgregata, poteva essere facilmente asportata
con vanghe di bronzo. I segni di questa asportazione “dolce” sono ancora visibili ai
lati dell’obelisco incompiuto nella cava di Assuan, dove si vedono ondulazioni come
quando si asporta materiale da un blocco di creta fresca (v. foto qui in basso),
chiaramente diverse dalle tracce che lascia un’azione di percussione su materia solida
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come quella che possiamo vedere, ad esempio, sull’obelisco di prova costruito negli
anni novanta dalla troupe televisiva americana di cui ho già parlato.