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AL-KEMET,

RITORNO ALLA
FONTE DIVINA
PRECISE NOZIONI DI FISICA ATOMICA ALLA BASE DEI PIÙ
ANTICHI SEGRETI ALCHEMICI DELLA CIVILTÀ EGIZIA LASCIANO
SUPPORRE CHE QUESTA ANTICA SCIENZA POSSA ESSERE STATA
L’EREDITÀ DI UNA GRANDE CIVILTÀ SCOMPARSA CON IL
DILUVIO. ALCUNI DI QUESTI SEGRETI ALCHEMICI
PERMETTEVANO AGLI EGIZI LAVORAZIONI SU GRANITO
ALTRIMENTI IMPOSSIBILI.

(SECONDA PARTE)

DI MICHELE MANHER
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«SOBEK, DALLE VERDI PIUME»


La nazione egiziana, tra tutte quelle del mondo post-diluviano, ha lasciato,
assieme alle civiltà sorte in Mesopotamia, in Cina e sulla pianura alluvionale
dell’Indo, una gran quantità di testimonianze di una preesistente cultura planetaria.
A questo proposito Schwaller de Lubicz (Le Miracle Egyptien, Parigi 1963.
Ed. it. La scienza sacra dei faraoni, Roma, Ed. Mediterranee 1999) mise molto bene
in evidenza il senso e la natura alchemica dei Testi delle Piramidi.
In un suo studio, nell’opera citata, sulle “corrispondenze tra colori, elementi,
metalli e pianeti” (p. 132), l’egittologo francese mostrava fra le tante altre
corrispondenze, anche quella in cui i colori dello spettro della luce bianca, fratta da un
prisma di cristallo triangolare, sono associati agli spettri atomici dei sette metalli-base
dell’alchimia.
Schwaller de Lubicz ricordava che nell’antico Egitto il pianeta Mercurio, oltre
ad essere assimilato al metallo con lo stesso nome, era “simboleggiato dal coccodrillo
Sobek” (op. cit., p. 131), ricordando a questo proposito una sentenza dei Testi delle
Piramidi che dice:

Il re è Sobek dalle verdi piume, che vigila e sorge di fronte


(sentenza 317, pyr. 507b).

Ora com’è possibile che un coccodrillo fosse definito “dalle verdi piume”?
Schwaller de Lubicz notava allora che “la prima linea spettrale del metallo
mercurio si situa ai limiti del verde-giallo”.
Ai nostri giorni, nell’ambito di una scienza contemporanea come la fisica
ottica, c’è un esperimento noto come diffrazione di Arago (v. foto) in cui un fascio di
luce, generato da una lampada a vapori di mercurio, è raccolto tramite un forellino di
0.1 mm di diametro posto su un diaframma. Questo piccolo fascio di luce, dopo aver
incontrato sette dischetti metallici posti su un piano, crea su uno schermo l’immagine
di diffrazione, dal colore verde, che si vede nella foto qui in basso.
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Ora, se gli antichi Egizi non conoscevano le lampade a vapori di mercurio e


neanche le linee dello spettro atomico dei metalli (v. foto qui in basso), come, e per
quali altre vie, potevano arrivare a scegliere proprio il verde per rappresentare il
mercurio?

È quello l’unico caso? Sembra di no. Vediamo le associazioni che ci mostrava


Schwaller de Lubicz per alcuni degli altri sei metalli, dal momento che lo spettro
della luce visibile fornisce oggi, come allora, un criterio di classificazione e
identificazione delle sostanze descritte nei trattati alchemici.
La prima linea spettrale del piombo è di colore viola: gli alchimisti egizi
avevano associato al piombo il colore viola.
La prima linea spettrale del bicloruro di stagno, un sale dell’acido cloridrico, è
di colore indaco: gli alchimisti egizi avevano associato allo stagno il colore indaco.
Il cloruro di rame ha una prima linea nella zona blu dello spettro e una
seconda in quella verde-blu. Gli antichi Egizi avevano associato al rame il colore
verde-blu.
L’oro era associato al sole e le prime due linee spettrali dell’oro si collocano
nelle zone gialla e arancio dello spettro luminoso.
C’è un’eccezione per l’argento.
Il geroglifico indicava il colore bianco e si trovava alla radice di tutte le
parole che designavano qualcosa di bianco: latte, farina, cipolle, alabastro bianco,
argento, il pallore e persino la corona bianca dell’Alto Egitto. Ora la linea spettrale
dell’argento è nella banda verde dello spettro luminoso. Questo colore, come abbiamo
visto, era già stato assegnato al mercurio e così il colore dell’argento rimase quello
con cui si presentava come metallo.
Cosa possiamo dire, invece, per il blu, che Schwaller de Lubicz non citò nel
suo lavoro?
è un “vestito blu”, mentre è il “ferro celeste” (cioè
meteorico); entrambe le parole hanno nella loro composizione il “braciere
dell’incenso” che nel geroglifico è usato per indicare sia il potere superiore
di un dio sia il corpo astrale di un essere umano, mentre nelle parole che abbiamo
preso in considerazione è usato per descrivere: nella prima il colore blu e nella
seconda il ferro.
Come mai questa associazione? Ebbene, le linee spettrali identificative del
ferro cadono nella banda blu dello spettro luminoso. Anche questo dimostra dunque il
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legame dei geroglifici non solo con la vita d’ogni giorno e le credenze religiose, ma
anche con la scienza sacra e segreta dell’antico Egitto.
Ora certo gli antichi Egizi non conoscevano gli spettri atomici dei metalli e
non avevano le nozioni di fisica ottica che possediamo noi oggi: dunque in quale
modo avevano potuto creare queste associazioni così specificamente legate alle
caratteristiche atomiche dei metalli? Erano forse eredi e depositari di conoscenze
appartenute ad una civiltà antidiluviana, preesistente alla loro ed enormemente più
evoluta?
Non ostante la sistematica opera di distruzione messa in atto dagli stessi
sacerdoti egizi (essi infatti, terminate le dinastie egizie ed il potere faraonico, non
volevano che i barbari - padroni ormai della loro nazione - s’impossessassero anche
delle loro più segrete e pericolose conoscenze), quello che è rimasto, anche se
disarticolato e ormai privo del suo contesto organico, contiene sufficienti elementi per
ricomporre un quadro coerente e straordinariamente autosufficiente.

INNALZARE UN OBELISCO
Nella tarda estate del 1880 ai moli settentrionali di Staten Island - una delle
grandi isole di New York sulla baia dell’Hudson - attraccò un battello postale a
vapore, proveniente da Alessandria d’Egitto, che portava nella sua stiva un obelisco
di granito grigio, dono del governo egiziano agli Stati Uniti. Si trattava del celebre
obelisco chiamato“ago di Cleopatra”.

L’obelisco di Cleopatra, chiuso ancora nel suo imballo, appena sbarcato nel porto di Staten
Island.
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Aperta la pancia del battello, il prestigioso ma ingombrante dono fu trasferito


sopra una chiatta che risalì l’Hudson fino all’altezza della 96a strada, nell’isola di
Manhattan. Qui gli Americani avevano approntato una linea ferrata d’emergenza
perché l’unico modo con cui potevano movimentare un blocco di 400 tonnellate di
granito era quello di farlo scorrere su delle rotaie al traino di una motrice a vapore.
Quando finalmente riuscirono ad innalzarlo tra gli alberi e le aiuole di Central
Park - grazie a potenti martinetti idraulici e ad argani azionati da macchine a vapore -
era ormai inverno inoltrato: solo per percorrere poco meno di 4 chilometri tra le
strade di New York erano stati necessari 4 mesi.

L’obelisco di Cleopatra a Central Park, New York.


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Com’era solito dire un noto giornalista televisivo degli anni ’80, a questo
punto «la domanda sorge spontanea»: come riuscì allora la regina Hatshepsut a fare
estrarre dalla roccia, levigare, scolpire, incidere, imbarcare, trasportare a Karnak ed
erigere - davanti al quinto pilone del tempio di Amen - non uno ma addirittura due
obelischi di trenta metri d’altezza e del peso di 350 tonnellate ciascuno in un tempo
complessivo di 7 (dicasi sette) mesi?
Scolpire ed issare un obelisco di granito di 30 metri d’altezza e 350 tonnellate
di peso è un’impresa che una nazione antica, secondo le nostre capacità di
comprensione, non poteva materialmente compiere. Se lo ha fatto doveva disporre,
necessariamente, o di tecnologie avanzate persino per la nostra civiltà, o forse di
conoscenze elementari che noi però abbiamo dimenticato, avendo perso il patrimonio
di nozioni alchemiche dell’antico Egitto.
Per quanto riguarda l’elevazione dell’obelisco, tuttavia, una ricostruzione
siamo forse in grado di farla a partire dai pochi documenti rimasti.
Nel papiro Anastasi I (n° 10247 ESA, British Museum) lo scriba civile Hori,
furibondo per l’arroganza e l’ignoranza (ancora oggi le due cose vanno insieme …) di
uno scriba dell’esercito, Amenemhotp, sta cercando di fargli capire, con una lettera,
quant’è grassa la sua incompetenza e lo “martella” con alcuni problemi da risolvere, il
quarto dei quali è: “Sai come si fa ad alzare un obelisco?”. Vediamo allora cosa dice
Hori al suo arrogante collega:

poniamo che ti si dica: «vai al deposito e svuotalo della sabbia di cui è


pieno, (quindi mettila) sotto il monumento del tuo signore che è stato
portato dalla Montagna Rossa. Misura 30 cubiti sul terreno e 20 cubiti in
larghezza […] con cento scomparti pieni di sabbia del fiume. Le dimensioni
dei suoi scomparti sono: in larghezza 44 cubiti, in altezza 50 cubiti fino al
termine del […(la rampa?)] con le sue […(pendenze?)]».
Si va avanti finché il sovrintendente (dà l’alt, perché lui) sa quanti
uomini potranno svuotarlo in 6 ore, (tutti) competenti, ma incapaci di
svuotarlo senza che tu, al momento giusto, non conceda una pausa ai
soldati affinché possano prendere il loro pasto, dopodichè è messo in piedi
il monumento al suo posto. Il faraone desidera vederlo bello. O scriba
acuto, intuitivo, che non ignora alcuna cosa, fiamma (che splende)
nell’oscurità davanti all’esercito, al quale tu dai luce!

Secondo questo documento, dunque, si facevano dei terrapieni a comparti di


sabbia alti fino a 25 metri, vi si portava sopra l’obelisco evidentemente con una
rampa larga 44 cubiti (ventidue metri circa) che, dovendo avere un basso angolo di
pendenza, poteva essere lunga anche mille metri (ma non sappiamo quanto era lungo
ognuno di quei cento scomparti), dopodichè si svuotava per primo lo scomparto che
stava sotto la parte centrale dell’obelisco e poi quello su cui poggiava il basamento,
così l’obelisco s’innalzava da solo, scendendo per gravità (v. disegno alla pagina
successiva).
Ma come facevano gli antichi Egizi a portare un blocco di marmo di 350
tonnellate su una rampa che, per quanto in leggera salita, era pur sempre in salita?
Alcuni papiri amministrativi dei templi tebani, che risalgono agli inizi della
XIX Dinastia, sui quali i sacerdoti tenevano la loro contabilità, ci fanno sapere che il
clero tebano, nel suo periodo di massimo splendore, aveva alle sue dirette dipendenze
81.000 tra operai ed impiegati (con le loro relative famiglie), possedeva 83 navi da
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trasporto, percepiva tributi dalle maggiori città (oltre una sessantina) di tutto l’Egitto
e disponeva di stalle con oltre 240.000 capi di bestiame. Ora, che cosa ci dovevano
fare gli Egizi con tutti quei buoi nella sola Tebe?
Certo bisognava arare i campi, dar da mangiare alla popolazione ma il fatto è
che, specie nella stagione dell’inondazione, quando non si poteva arare la terra fertile,
il clero tebano aveva a sua disposizione immense riserve di energia meccanica.
Nessuno può pensare che agli Egizi non sia mai venuto in mente che i buoi,
oltre a tirare l’aratro, potevano anche tirare un obelisco lungo una rampa in salita. La
larghezza esagerata di questa rampa - 22 metri - fa supporre proprio questo. Erano
sufficienti 1000 buoi (100 pariglie, ciascuna con 10 buoi affiancati, con una
distribuzione del carico di 80-90 chili per animale) per trainare un obelisco di 350
tonnellate che scaricava gran parte del suo peso su rulli di legno (cedro del Libano o
corniolo italico) su per una leggera salita.
Ognuna di queste pariglie di 10 buoi era aggiogata ad un’unica trave di legno,
fissata su ogni animale con un sottogola. Le 100 travi di legno erano unite tra loro - in
parallelo - con gomene legate alle travi, tra un animale e l’altro, al posto del timone.
Ogni pariglia era governata da due , responsabili del movimento degli
animali. Tutti i sau erano sincronizzati come lo erano i rematori delle gigantesche
navi quinquereme, con battitori e capivoga.

Su questa capacità di sincronizzare centinaia, e persino migliaia, di uomini


abbiamo precise testimonianze storiche. Il faraone Tolomeo IV filopatore, verso il
210 a. C., era riuscito a far uscire dai cantieri navali di Alessandria una mostruosa
nave remiera a doppio scafo, cioè un immenso catamarano (che Ateneo e Plutarco,
che conservarono la descrizione del greco Callisseno, chiamarono tessarakònteres)
con ben 4000 - dicasi quattromila - rematori, 2000 per scafo, con le due navi, lunghe
ognuna 128 metri, distanti tra loro una ventina di metri. Come facevano i battitori dei
due scafi ad eseguire gli ordini per la voga con perfetta sincronia? È peraltro vero che
questa mostruosa doppia nave, capace di trasportare sul suo ponte unico 3500 fanti di
marina (per un totale dunque di 7500 uomini!) non fu mai operativa in battaglia: i
comandi militari dovettero valutare la sua assoluta mancanza di agilità ed il fatto che
avrebbe sicuramente costituito un più che facile bersaglio per le catapulte nemiche.
Ma torniamo al nostro obelisco.
Gli uomini dell’esercito, come ci fa sapere il papiro Anastasi I, che
costituivano personale specializzato («tutti competenti»), erano impiegati per riempire
prima, e svuotare dopo, la sabbia negli scomparti.
Dopo aver svuotato il primo scomparto, si procedeva a svuotare anche il
secondo. Man mano che la sabbia scendeva, l’obelisco la seguiva dolcemente fino a
che, raggiunta l’inclinazione di 45°, si fermava: un sostegno fissato nel primo
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scomparto, inclinato a 45°, lo teneva sospeso nel vuoto proprio all’altezza del suo
baricentro.
A questo punto era possibile far ruotare il monolite ancora di altri 22°. Dopo
quest’operazione l’obelisco “atterrava” sulla sabbia rimasta nell’ultimo quarto del
primo scomparto. Si toglieva anche questa, prima con le pale poi con un getto
continuo d’acqua, non appena lo spigolo della base dell’obelisco raggiungeva la
distanza di pochi centimetri dal piedistallo. Dopo queste operazioni, tuttavia, il
baricentro del monolite cadeva ancora al di fuori della sua base: la metà circa del peso
- 180 tonnellate - era ancora fuori asse. Un’ulteriore trazione, ancora con qualche
pariglia di buoi, ed il gioco era fatto.
Ma come fece Hatshepsut a far estrarre dalla roccia, levigare e scolpire con
immagini sacre e geroglifici due obelischi in soli sette mesi?

IL SEGRETO DI HATSHEPSUT
Ad Assuan esiste ancora un obelisco, rimasto incompiuto, nella cava di
granito rosso da cui i faraoni della XVIII Dinastia traevano la pietra per i loro
monumenti. Le teorie sul motivo dell’abbandono in situ di quel “mostro” lungo 45
metri e del peso nientemeno che di 1000 tonnellate, come si suol dire in questi casi, si
sprecano.
Qualunque causa possa aver costretto gli Egizi ad abbandonare quell’impresa
sta comunque il fatto che noi oggi abbiamo a nostra completa disposizione un
“reperto” disposto a dirci, nel linguaggio muto delle pietre, quali erano i segreti di
quel tipo di lavorazione in possesso degli antichi Egizi. A saperli leggere,
naturalmente.
Ad esempio su tutti e tre i lati già liberati dalla cava le superfici si presentano
ancora oggi morbidamente ondulate, come se fossero state accarezzate per millenni
dalle onde del mare anziché colpite duramente e violentemente, in un breve arco di
tempo, da oggetti contundenti.
Già, ma quali oggetti contundenti?
Alcuni egittologi, dall’alto delle loro competenze umanistiche, hanno trovato
la spiegazione scientifica: si trattava di percussori in pietra. Ma quale pietra?
Qualcuno ha mai spiegato a questi “scienziati” che il granito è la pietra più dura che
ci sia? Oltre a ciò, anche a voler immaginare che gli operai egizi avessero avuto nelle
loro mani mazze armate con diamanti di almeno duemila carati ciascuno, pretendere
di estrarre da una roccia di granito, in meno di sette mesi, due grandi e grossi
obelischi a colpi di mazza è come pretendere di arrivare a piedi sulla Luna o tagliare
una forma di pane di Genzano (se preferite, va bene anche di Altamura) con uno
spaghetto di grano duro (non cotto, mi raccomando). Magari queste eccezionali menti
avranno preso ispirazione dalla pubblicità, quella che dice che c’è un tonno che si
taglia con un grissino … chi lo sa come funzionano certe teste, quello sì che è un vero
mistero.
Ad ogni modo, se sono convinti che è così che andavano le cose, perché non
vanno lì e ci riprovano? Qualcuno che lo fece, ad esempio, ci fu.
Si trattava di una troupe televisiva americana che nella seconda metà degli
anni ’90 s’era messa in testa di poter imitare i faraoni, convinta d’aver capito tutto e
poter fare di meglio. Costruì un piccolo obelisco, servendosi però dei potenti mezzi
resi disponibili dalle moderne tecnologie, ma il risultato, come si può vedere dalle
foto allegate, fu del tutto insoddisfacente. Poi, con la consulenza di “esperti”,
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egittologi ed ingegneri, tentò di metterlo anche in piedi, ma l’impresa fallì e


l’obelisco è ancora là, come si vede nelle foto qui sotto, ad eterna memoria di cosa
significa affidare in certi casi le questioni dell’antico Egitto agli egittologi, ai quali si
potrebbero rivolgere le ironiche parole di Hori, ancora attuali:
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O scriba acuto, intuitivo, che non ignora alcuna cosa, fiamma (che
splende) nell’oscurità davanti all’esercito, al quale tu dai luce!
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Ma allora come diavolo fecero gli antichi Egizi a tirare fuori da una cava di
granito due obelischi in meno di sette mesi?
L’obelisco rimasto ad Assuan rende evidente che le tecniche d’estrazione
erano del tutto diverse da quelle che, ad esempio in epoca romana oppure in pieno
rinascimento, consentivano di prelevare il travertino (ben più tenero del granito) dalle
cave di Tivoli.
Nell’isola di Sehel, vicino ad Assuan, esiste un documento (v. foto), scolpito
nella roccia, che riguarda proprio l’estrazione dei due obelischi ordinati dalla regina
Hatshepsut, il cui autore si presenta con queste parole: «Conoscente del re, suo vero
amato, controllore dei lavori per i due obelischi, sommo sacerdote di Knhum, Satis e
Anukis, Amenhotp».
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Dunque un sommo sacerdote di nome Amenhotp controllava i lavori per i due


obelischi. Ma perché proprio un sommo sacerdote doveva occuparsi di una cosa
simile? Cosa mai doveva controllare e dirigere che non avrebbe potuto essere fatto
anche da altri funzionari, sacerdoti o cortigiani di palazzo? Cosa c’entrava un incarico
simile con la sua alta e specifica funzione religiosa?
Anukis (Anuket) era la dea che, nel pantheon egizio, aveva l’incarico di
presiedere alla piena annuale del Nilo e, assieme alla dea Satis (Satet) ed al dio
creatore del mondo Khnum, formava, ad Elefantina, la triade divina protettrice della
prima cateratta del Nilo, da cui in pratica dipendeva la fertilità del territorio. Questi
dei erano dispensatori dell’«acqua fredda che proviene da Elefantina», ma anche
custodi dei confini meridionali della nazione. Assuan cadeva nella loro giurisdizione.
Il documento attesta dunque che a controllare i lavori non era il governatore
del nômo - geroglifico che alcuni traducono “terra dell’arco” ed altri “terra di
Satet”, indecisione dovuta al fatto che nella lista di Sesostri I c’era il simbolo senza il
nome - cui appartenevano Elefantina ed Assuan, ma il sommo responsabile del
grande tempio di Khnum ad Elefantina, tempio di cui a noi oggi restano le rovine
della ricostruzione iniziata sotto Nectanebo II (XXX Dinastia), vale a dire un ampio
cortile lastricato e spezzoni di colonne ancora stuccate.
Eppure i governatori di quella regione avevano una certa importanza. Di uno
di loro, il nomarca Heqaib (VI Dinastia), resta proprio sull’isola di Elefantina un
santuario nel quale il funzionario era venerato come una divinità.
Che cosa significava dunque la decisione di affidare al responsabile di un
grande tempio il controllo dei lavori di costruzione degli obelischi?
Che nei templi egizi fossero custoditi segreti alchemici è noto a tutti dalle
incisioni sopravissute ma anche da quelle deliberatamente abrase. La conoscenza di
segreti alchemici è dunque la sola discriminante che rendeva diverso il sommo
sacerdote del grande tempio di Khnum da tutti gli altri sacerdoti e funzionari del
regno.
Egli possedeva certamente, dunque, nozioni e conoscenze che dovevano avere
a che fare in qualche modo con la costruzione degli obelischi, ma quali avrebbero
potuto essere questi segreti?
Era forse la produzione di acido fluoridrico, un acido che ha la proprietà di
sciogliere la pietra e renderla temporaneamente duttile come il pongo?
Le tecnologie e le conoscenze necessarie per la produzione di acido
fluoridrico erano assolutamente alla portata degli antichi Egizi, il cui unico problema
avrebbe potuto essere semmai il reperimento della materia prima, la fluorite, di cui
l’Egitto era privo.
Poteva il fluoro arrivare fino ad Elefantina dai monti sardi del Sarrabus o dalle
miniere inglesi del Derbyshire e del Cumberland? Poteva, e come.
Non dobbiamo dimenticare ad esempio che l’Egitto era uno dei maggiori
produttori, nel mondo antico, di manufatti in bronzo che, come si sa, è una lega
composta di rame (per l’80-90%), stagno ed una minima percentuale di zinco. Il rame
lo prendevano dalle loro miniere del Sinai e lo stagno da dove lo prendevano? Le
uniche e sole miniere da cui potevano approvvigionarsi di questa sostanza si
trovavano in Cornovaglia, in Nigeria e nello Zaire. Dunque?
La parola “Assuan” deriva da “Siene”, pronuncia greca della parola
geroglifica , swn, “commercio”, con la quale i Greci erano soliti indicare la zona
portuale di fronte ad Elefantina (traduzione questa, invece, della parola geroglifica
, “elefante”) sulla riva orientale del Nilo.
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Era infatti proprio ad Elefantina, la Porta del Sud, che arrivavano, dopo aver
risalito il corso del Nilo, navi onerarie provenienti dal Mediterraneo, cariche di
materie prime da barattare con i ricercati prodotti africani, principalmente avorio,
legno d’ebano, pellami vari (tra cui la pregiata pelle di leopardo, animale chiamato
anch’esso abu dagli Egizi) e l’immancabile oro.
Se la fluorite arrivasse dalla Sardegna o dall’Inghilterra non lo sappiamo, di
sicuro era scaricata proprio ad Elefantina e stoccata nei depositi del grande tempio di
Khnum.
Ma una volta prodotto l’acido fluoridrico come facevano a maneggiarlo e a
trasportarlo, essendo talmente aggressivo che persino l’inalazione accidentale dei suoi
vapori causa la morte?
Quest’acido non attacca il bronzo e dunque gli Egizi lo conservavano e lo
trasportavano in recipienti chiusi di questo tipo. Lo producevano in una grotta (…
alchemica, naturalmente!) scavata in una delle colline di Elefantina e dotata di un
semplice e ingegnoso sistema di ventilazione (un camino a tiraggio naturale), che
tuttavia doveva rendere poco salubre l’aria nei dintorni.
Non può essere un caso che nel geroglifico col quale gli Egizi indicavano
l’isola di Elefantina, , il determinativo fosse quello della “pustola” sopra
“le colline”, a simboleggiare la presenza di qualcosa di pericoloso per la salute
proprio là, tra le colline dell’isola. Poi l’oblio dei millenni ha permesso al vento ed
alla sabbia di coprire ogni cosa, seppellendo forse per sempre gli antichi ingressi e gli
antichi sentieri.
Trasportati quei pentoloni, con tutte le cautele, nella cava e scelto il posto
preciso da cui estrarre l’obelisco, si cominciava a scavarne i contorni per poi
procedere all’asportazione della roccia intorno, liberando così il monumento dalla sua
matrice.
Si scavavano dunque le linee di lavoro con un tampone di fibre vegetali
inzuppato di acido. Naturalmente il tampone non era tenuto con la mano ma era
avvolto sulla testa di un particolare bastone di bronzo: il misterioso scettro uas.
Questo bastone poteva essere usato solo da sacerdoti appositamente addestrati dato
che il minimo errore poteva essere fatale ed è questa la ragione per cui in tutte le
rappresentazioni lo scettro uas è tenuto in mano da una qualche divinità, a
simboleggiare un potere superiore.
Le fibre vegetali erano avvolte intorno alla sagoma a “testa di cane”,
appositamente studiata per permettere un buon ancoraggio del tampone ed il suo
ottimale utilizzo. All’altra estremità era stata studiata invece una forcella per
consentire un sicuro appoggio dell’attrezzo nella cavità ascellare, permettendo
all’operatore di esercitare una maggiore pressione, con il peso del corpo, sul tampone.
Il bastone, inoltre, doveva essere abbastanza lungo da evitare il rischio di inalazione
dei pericolosi vapori, anche se il sacerdote indossava una maschera, a forma di testa
d’ariete, con filtri di stoffa all’interno, da buttare subito via in caso di emergenza,
mentre ci si allontanava il più rapidamente possibile.
Una volta scavate le sagome vi si versava dentro l’acido, sempre con la
diluizione del 30%, cosicché la roccia, disgregata, poteva essere facilmente asportata
con vanghe di bronzo. I segni di questa asportazione “dolce” sono ancora visibili ai
lati dell’obelisco incompiuto nella cava di Assuan, dove si vedono ondulazioni come
quando si asporta materiale da un blocco di creta fresca (v. foto qui in basso),
chiaramente diverse dalle tracce che lascia un’azione di percussione su materia solida
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come quella che possiamo vedere, ad esempio, sull’obelisco di prova costruito negli
anni novanta dalla troupe televisiva americana di cui ho già parlato.

Ora l’obelisco incompiuto di Assuan presenta una stranezza, anomala e


incongruente e che non può avere alcuna relazione sia con il progetto sia con la
lavorazione, sulla sua faccia orizzontale.
In alcuni punti – evidenziati dalle frecce rosse nella foto che segue – vediamo
diverse incomprensibili depressioni artificiali che non hanno senso nella prospettiva
del prodotto finale, cioè di una superficie perfettamente liscia e spianata su cui
apporre immagini ed incisioni geroglifiche.
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Queste depressioni non mostrano segni di percussione, così come non ne


mostrano le lavorazioni eseguite ai fianchi del monumento, e sembrano dunque
prodotte anch’esse dall’azione dell’acido fluoridrico. Tuttavia, poiché sono disposte
in modo irregolare e disordinato, certamente non potevano essere state previste e/o
realizzate appositamente dai costruttori. Potrebbe essersi trattato di un drammatico
incidente. Uno o più recipienti di bronzo che contenevano l’acido forse cadde e si
ruppe, o si ruppe un sostegno, o forse un operaio fece un errore durante il trasporto e
qualcuno degli addetti, presenti lì e allora, dovette anche lasciarci la vita. Dopodiché
gli Egizi, superstiziosi com’erano, pensarono bene d’interrompere i lavori,
interpretando l’incidente come la volontà del dio Khnum a non volere che l’impresa
fosse compiuta.
Che l’obelisco presenti, poi, fratture profonde tali da rendere impossibile una
sua eventuale elevazione è un fatto molto strano ed inconsueto. I più attribuiscono
proprio all’insorgere di queste fratture la causa dell’interruzione dei lavori, ma questo
non ha senso: poiché non esiste la possibilità che quelle fratture potessero preesistere
all’inizio dei lavori o che siano subentrate per cause naturali nel corso dei lavori
stessi, bisogna propendere per una causa non naturale di un simile evento. È cioè
probabile che a procurarle siano stati gli stessi Egizi al fine di rendere impossibile la
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prosecuzione dei lavori anche alle future generazioni. Si trattava dunque di un


obelisco veramente maledetto.
I due obelischi di Hatshepsut, invece, non subirono incidenti e così noi oggi
possiamo ammirarli finiti.
Anche qui, però, non mancano le stranezze.
A Karnak esistono ancora questi due obelischi, dei quali uno è ancora eretto,
sempre nel suo posto originario, mentre l’altro è caduto. Colpisce, in entrambi questi
monumenti, l’assoluta perfezione e precisione delle linee (sia dritte sia curve),
l’assoluta levigatezza delle superfici, l’assoluta assenza, in pratica, di qualunque
segno – anche minimo – di scalpellatura o cesellatura, anche perché, trattandosi di
granito, nessuna persona seria è in grado non tanto di proporre quant’anche solo
d’immaginare che razza di strumenti avrebbero potuto avere nelle loro mani per fare
una cosa simile (tra l’altro sempre nello spazio di tempo complessivo di quei sette
mesi!).

Se noi osserviamo alcuni manufatti dello stesso periodo (stele funerarie,


scarabei, sfingi, statue e così via) costruiti in arenaria, scisto, calcare ed alabastro in
genere, vediamo chiaramente come le incisioni, eseguite a mano sulla pietra tenera,
mostrano notevoli imprecisioni anche quando sono molto curate ed eseguite da
artigiani esperti, come nella statuaria regale.
Le immagini ed i geroglifici degli obelischi invece (come anche quelli di tutti i
grandi monumenti) non sono incisioni o bassorilievi ma infossature ed hanno tratti
pressoché perfetti, completamente diversi da quelli di tutti gli altri manufatti di minori
dimensioni e di uso privato. Questo risultato era dovuto all’impiego di tecniche e di
materiali segreti, che i grandi sacerdoti utilizzavano solo quando si trattava di
decorare monumenti pubblici o dedicati al culto, anche perché non aveva senso
rischiare la vita per qualcosa che non fosse dedicato al dio o al faraone.
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Gutemberg inventò la stampa sulla carta, ma gli antichi Egizi avevano


inventato la stampa sul granito disgregato dall’acido!
Se guardiamo la punta dell’obelisco caduto, oltre a constatare che le superfici
sono lisce e levigate come il tavolo di un biliardo, è impossibile non rendersi conto
che, ad esempio, il copricapo di piume del dio Amen è stato ottenuto premendo una
formella di bronzo sulla pietra resa temporaneamente duttile dall’effetto dell’acido.
L’azione di schiacciamento è del tutto evidente, in questa come in tutte le altre
immagini, comprese quelle dei geroglifici, le cui linee sono completamente prive
delle imprecisioni ed esitazioni tipiche di una “scrittura” manuale.
Queste tecniche, con i loro strumenti e le loro procedure, furono gelosamente
custodite e conservate fino all’epoca tolemaica. Poi, con la fine delle dinastie
faraoniche, molti segreti alchemici s’estinsero, come s’estinguono per sempre razze
animali e vegetali sulla Terra, quando un ultimo rappresentante muore senza aver
lasciato eredi. Solo la Memoria a volte ritorna, negli ampi cicli del tempo.

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