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Carlo Tivaroni era uno storico e patriota veterano garibaldino,fu anche deputato per la legislatura.

Faceva
parte dell’estrema sinistra radicale sostenitrice del suffragio universale e dei programmi risolutori alla
questione sociale. Il loro leader era Felice cavallotti (poeta e giornalista).
Milano fu la capitale del radicalismo italiano con una società dedita ai commerci e alla piccola industria (ciò
offriva una grande forza elettorale in età di suffragio censitario).
Giuseppe Barbani Brodano,amico di Illica racconta che Illica,nobile e ricco per eredità,aveva partecipato alla
guerra russo-turca al seguito di una brigata garibaldina per una guerra di emancipazione in Serbia.
Alla fine degli anni 60 Bizzoni si era alternato a Cavallotti nella direzione del Gazzettino Rosa degli scapigliati
milanesi. Illica,a Milano,si dedicò al giornalismo e al teatro politico di impronta
civica,polemica,anticlericale,antilegittimista. Illica si arruola per completare l’unità con Trento e Trieste. Si p
arrivati a parlare di un vero disgusto di Illica per la grande rivoluzzione,tentando una lettura in parallelo di
Andrea Chénier con Il piccolo Marat di Giovacchino Forzano per Mascagni (fascista) . Illica muore nel
1919,non si sa se fosse fascista.
sbagliata. La posizione di Illica riguardo alla Rivoluzione francese e al
Terrore potrà essere chiarita con maggior sicurezza saldando insieme la sua storia personale, le sue amicizie
e le sue idee col dibattito pubblico che rimbalzava sui giornali,nella letteratura popolare e d’intrattenimento
e nel melodramma.
La Rivoluzione Francese l’atto fondativo della nostra modernità dei diritti, ed
è suscettibile da sempre di strumentalizzazioni a uso politico.
I turbolenti anni Novanta degli scioperi e delle repressioni, della propaganda anarchica “del fatto”, avevano
acceso un rinnovato interesse per le meccaniche che condussero al crollo dell’antico regime e in particolare
per il tema della violenza rivoluzionaria.
Il quesito di base era lo stesso che aveva traversato tutto l’Ottocento: era forse possibile separare i valori
del 1789 (1° Rivoluzione Francese) dalla tragedia del 1793? Dividere in due il processo rivoluzionario,
avviare il primo evitando la de-riva di sangue del secondo? Da una parte appariva, infatti, una lunga fase
costruttiva che, aperta dal giuramento della pallacorda, si chiude col martirio della Gironda; in mezzo, la
caduta dell’ancien régime, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, la Repubblica , il biennio giacobino del
1793-94: e perciò il Comitato di salute pubblica, la legge del Pratile sui sospetti e le delazioni, la ghigliottina,
l’abisso delle stragi cui anche lo Chénier storico dovette soccombere. Tutto ciò evocava la lotta di classe e
l’apocalisse anarchica e insurrezionale.
Per i radicali e i garibaldini come Illica, la Rivoluzione francese rappresentava nzitutto l’evento che aveva
dato l’avvio alla “Rivoluzione d’Italia”: il Risorgimento. Imperversava da sempre una polemica che
opponeva la storiografia risorgimentale di segno “democratico” a quella conservatrice e moderata
dei vari Carlo Botta, Cesare Balbo, Cesare Cantù. Uno scontro accadde nel 1883 con Ruggero Bonghi,attorno
al successo di scandalo del Ça ira di Carducci. E poi ancora nel 1887, col dibattito in Parlamento sulla negata
partecipazione ufficiale dell’Italia al Centenario del 1889: una scelta compiuta dalla sinistra storica al
governo triplicista e perciò antifrancese per evidente necessità geopolitica e di diplomazia. I contendenti
erano Crispi e Cavallotti, quali provenivano entrambi dallo
stesso ceppo d’origine, il garibaldinismo combattente. La testata giornalistica finanziata da Crispi, “La
Riforma”, sosterrà per anni proprio la vecchia tesi Botta-Cantù, ripresa poi intatta dal fascismo,
dell’ininfluenza della Rivoluzione francese ai fini del processo unitario italiano.
L’ultimo Garibaldi aveva però eletto i radicali dell’Estrema a eredi legittimi delle sue battaglie politiche e
militari e a cultori della sua memoria. Dopo la spedizione dei Vosgi nella Guerra franco-prussiana, caduto il
Secondo impero e dimenticata Mentana, nata la Terza repubblica, il garibaldinismo era tornato ad essere
filofrancese, propugnatore di questa idea era Edoardo Sonzogno: l’editore di Andrea Chénier, gestore della
Scala in quel fatidico anno 1896. “Il Secolo”, giornale di sua proprietà, era l’organo ufficioso della
propaganda dei radicali.
Il 5 maggio 1789 l’apertura a Versailles degli Stati Generali, nel 1860 la partenza di Garibaldi dallo scoglio di
Quarto. “Il 5 maggio 1860”, affermò Cavallotti, era “il punto di arrivo della gran marcia dell’umanità di cui il
5 maggio 1789 fu il punto di partenza.”
Il 5 maggio 1889 Cavallotti celebrava a Milano quel Centenaire cui l’Italia non aveva potuto partecipare,
mettendo apertamente sul tavolo il nesso teleologico di causa-effetto tra Rivoluzione francese e
Risorgimento.
Non parlò degli improvvisati professori di storia che avevano tentato d’infangare il ricordo dell’89
rammentando il ’93. L’anno primo della Repubblica si difendeva benissimo da sé: con il sacrificio di
Charlotte Corday, “esecutrice spontanea della vendetta girondina, bellissimo angelo dell’assassinio”,
l’eroico suicidio di Condorcet, ultimo dei philosophes e capo girondino, ma soprattutto per il martirio in
massa di tutta la dirigenza della Gironda che cantava la Marsigliese. Insomma, nel ’93 si era compiuta la
profezia di Vergniaud , altro carismatico capo della Gironda,che la Rivoluzione avrebbe divorato tutti. Sono
le stesse parole messe in bocca da Illica al giacobino Carlo Gérard , ma è chiaro che per Cavallotti la gloria
del Novantatré era tutta racchiusa negli atti e persino negli errori della Gironda.
Con i fatti della Comune di Parigi e dopo un lungo tentennamento delle posizioni all’interno della redazione
stessa del “Gazzettino Rosa”, il garibaldinismo democratico si era proclamato neogirondino, in polemica col
vecchio filone storiografico neogiacobino sostenuto ancora dai veterani del Quarantotto parigino, come
Louis Blanc: un filone rivendicato invece da subito e ad alta voce da bakuniani e internazionalisti. La
Comune fu interpretata dai radicali borghesi dell’Estrema come l’ultimo rigurgito fuori tempo delle
prevaricazioni robespierriste. Una recisa condanna della logica del Terrore consentiva loro di rivendicare in
pieno le conquiste civili della Rivoluzione francese,escludendo da quell’eredità la sola violenza giacobina.
Che peso potevano perciò avere le violenze, proseguiva Cavallotti, a paragone dei “principi in quell’anno
banditi alla terra”?
Ecco cosa fu per davvero la Rivoluzione dell’Ottantanove: “Vedo il feudalismo ovunque cacciato rifugiarsi
negli ultimi ripari: [...] il sentimento dell’eguaglianza penetrato nelle moltitudini, un nuovo senso di dignità
elevare le masse, trasformare i lavoratori in cittadini”. Restava in ogni caso sul terreno il tema, innegabile,
delle violenze compiute dalle folle rivoluzionarie. A dire di Chenier, l’inaudita spirale di violenza fu opera di
folle incoscienti, plagiate da pochi criminali comuni assetati di sangue: i giacobini, appunto. La tesi ultima
era che tra i capi giacobini non ve n’era uno che non fosse affetto da deviazioni patologiche gravi. Il
problema di stringente attualità, presente a tutti benché sempre sullo sfondo, era ancora quello di cercare
di comprendere attraverso la scienza medica e la criminologia, per combatterla e fermarla, la “propaganda
con il fatto” del grande anarchismo internazionale. Era un’urgenza che assunse connotazioni parossistiche,
caratterizzate da autentiche ondate di panico e da repressioni armate, nel corso delle quali la polizia non
fece alcuna distinzione tra bombaroli anarchici e scioperanti socialisti.
Già nel 1877 Cavallotti aveva difeso in parlamento Benoît Malon, un ex comunardo mondo da delit-
ti di sangue e propagandista del socialismo. Esiliatosi in Italia, Malon vi era stato espulso su ordine del
ministro dell’interno, Nicotera. Negli anni di Andrea Chénier i deputati dell’Estrema sostennero il diritto di
manifestare dei socialisti e si fecero garanti e mediatori della nascita delle prime celebrazioni del primo
maggio, affrontando con essi le cariche della polizia a cavallo. Nel 1894 si mobilitarono contro le leggi
speciali crispine che, pensate contro gli anarchici, mettevano di fatto fuori legge la stampa e i circoli
socialisti. Tutta cavallottiana e radicale fu perciò l’iniziativa di una “Lega per la difesa della libertà”: su
istruzioni di Luigi Lodi, Illica si incaricò di riscuotere le quote d’iscrizione alla Lega di Puccini e del barone
Alberto Franchetti, cui inizialmente era destinato il libretto di Andrea Chénier. Per decisione di Turati i
socialisti furono in quegli anni gli alleati elettorali dei radicali; questi ultimi si offrirono per una mediazione
che ne frenasse l’eventuale deriva al di fuori delle teorie del socialismo “evoluzionista” e per trattenerli
all’interno di posizioni legalitarie. Tutta la grande sinistra internazionale convenivano sull’idea che
all’origine della violenza vi fossero le ingiustizie sociali e la miseria, nella convinzione che alla lunga la
riduzione dell’uomo a uno stato bestiale preparasse rivalse altrettanto feroci. Fu un dibattito che attraversò
tutta l’Europa passando per la letteratura, i giornali, i saggi in rivista. In questa battaglia per la
sensibilizzazione della borghesia liberale alla questione sociale, organo dei radicali fu proprio
“Il Secolo” di Sonzogno. Alla sua redazione e al corrispondente da Parigi,Giovanni Eandi, un ex
internazionalista, Illica si appoggiò per ricevere i materiali necessari per la composizione dell’Andrea
Chénier: i canti rivoluzionari,come la Carmagnola e la Marsigliese, ma anche le foto di scena degli allesti-
menti delle due commedie di Victorien Sardou Les Merveilleuses e il contro-verso Thermidor, da cui
saccheggiò una notevolissima messe di spunti operando al di fuori dei diritti d’autore.
Nella Ditta Sonzogno Illica si sentiva, insomma, a casa sua: a parte gli sporadici e potremmo dire fisiologici
contrasti con l’editore sulle questioni artistiche, perlomeno in casa Sonzogno non fu costretto a mediare in
niente sul piano delle convinzioni politiche. Nulla a che vedere con quel che dovette fare in casa della
concorrenza, dove, almeno nel caso di Bohème ma ancor di più per Tosca, si vide costretto a conciliare le
proprie posizioni con quelle di altre tre persone con pieno diritto di veto: Giacosa, Puccini e poi Giulio
Ricordi, notoriamente conservatore.
Con André Marie Chénier, Illica andava a recuperare una figura storica contesa da sempre. Ricomparso al
mondo come autore sotto la Restaurazione e proprio in veste di apostolo della controrivoluzione, col
tempo il poeta martire della ghigliottina era stato recuperato progressivamente alla leggenda girondina.
Nella realtà Chénier era stato un fogliante, ovvero un monarchico costituzionale; ma per la storiografia
democratica rappresentava comunque gli impregiudicati ideali della Pallacorda, non compromessi da quel
Terrore di cui il poeta cadde vittima.
Per il leader dell’Estrema, Chénier rappresentava in morte “la rivoluzione dell’89 ne’ suoi purissimi
bagliori”. Né è affatto da escludere che Illica stesso avesse concepito verso il poeta un forte sentimento di
identificazione, essendo anch’egli poeta, giornalista, soldato.
Diverso il caso di Carlo Gérard, personaggio di pura invenzione che qui si prestava a rappresentare, come si
diceva un tempo, i “compagni che sbagliano”.
In “Nemico della patria!” ammetterà egli stesso di aver perduto per strada la propria purezza di eroe del
popolo, inebriato dal potere, trascinato in un abisso di rivalse assieme al resto della folla. Si accorgerà di
aver smarrito l’ideale fino all’abiezione ultima della falsa denuncia del rivale in amore; si redimerà certo, ma
quando ormai sarà troppo tardi.
Una visione del popolo tutto sommato paternalistica, quella di Illica; ma fu la stessa di molti tra i radicali
borghesi dell’Estrema, e anche del Tivaroni, il quale, in un suo articolo apparso sul “Bacchiglione” di Padova
nel 1872, già aveva chiamato i suoi lettori, tutti militanti della democrazia garibaldina, a riflettere su questa
dura verità: Le maggioranze soffrono il freddo, e la fame, e le minoranze godono di ogni ben di Dio ond’è
indispensabile diminuire il profondo distacco fra le due parti della società. Che gli uomini di cuore d’ogni
parte vi pensino; imperocché verrà il giorno in cui le vuote parole non gioveranno; e la democrazia come la
oligarchia saranno proclamate colpevoli di eguale noncuranza pei bisogni dei più, e sconteranno
amaramente l’imperdonabile egoismo che oggi le divora.
Il punto, conclude già allora, consisteva proprio nel capire se questo formidabile problema del proletariato
si possa risolvere senza guerre civili, senza violente rivoluzioni, senza feroci vendette. Probabilmente la
chiave del significato politico dell’Andrea Chénier del radicale Illica è tutta in quella strana, asimmetrica,
squilibrata scansione – tante volte rimproverata al poeta – tra ciò che accade nel quadro primo e poi, subito
a precipizio, nei restanti quadri, dal secondo al quarto, come in un ineluttabile nesso di causa-effetto, che
pareva ordito avendo fisse in mente le parole di Tivaroni; di fatto, la linea cui aderì per decenni tutta una
corrente politica.
E tuttavia, a differenza di Taine, che divenne da subito il nume della storiografia della destra, Illica nel suo
libretto appariva ancora capace di distinguere tra la folla assetata di vendetta e la brava gente di un popolo
che, presa singolarmente, ebbe un cuore grande, e che col proprio sacrificio seppe rispondere al richiamo
della patria in pericolo versando il proprio sangue. Per il Cavallotti del discorso di Milano quel “proletariato”
del Novantatré aveva “salvata la Francia stretta in cerchio di fuoco dall’invasione straniera e dall’interna
insurrezione, e contro l’una e contro l’altra scagliando 13 eserciti fatti sorger dal suolo”: si noterà qui che si
trattava dello stesso argomento impugnato dal Carducci, maestro di Illica, nella polemica contro i moderati
e in difesa del suo Çaira. Per il Tivaroni della Storia critica della Rivoluzione francese, il merito di tutto ciò
non andava certamente intestato ai giacobini. Cavallotti stesso lo attribuì piuttosto a Danton, “tutto impeto
e cuore; il salvatore della Francia”. Danton è “il leone che rugge”; quanto invece a “Robespierre e gli
sciacalli”, aggiunge seccamente, quelli “non verranno che poi”. Anche per Illica – che qui riproduce alla
lettera il Sardou di Thermidor1 – fu essenzialmente questa grandiosa spinta di popolo a rettificare la
memoria dei tanti orrori del Novantatré: “Laggiù! Laggiù, è la patria! Odila, o popolo! / È la sua voce!
Eccola!... È là la patria; / ove si muore con la spada in pugno! / Non qui dove le uccidi i suoi poeti!”.

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