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Sarà opportuno innanzitutto chiarire con quale accezione intendiamo usare

l’aggettivo pluristratificato associato al concetto di città . Si tratta di una


precisazione ovvia, ma forse non inutile: pluristratificato, in questa sede, non
indica solo la presenza di una pluralità di strati archeologici all’interno di un
sito urbano, quanto una pluralità di stratificazioni di diversi periodi storici
(anche se non è necessario che siano documentati tutti).
Le città pluristratificate possono dirsi a continuità di vita (gli abitati cioè che
nel tempo ed ancora oggi svolgono funzioni di città ), oppure possono dirsi
abbandonate, nel senso che alcuni siti, un tempo città, ora non lo sono più ,
per riduzione o cambiamento funzionale oppure per abbandono. È
possibile che città a continuità di vita non documentino tutti i periodi
storici (cioè dalla pre-protostoria fino ai giorni nostri), ma certamente non
potranno documentarli tutte le città abbandonate.
L’approccio archeologico non può essere lo stesso, nel senso che le
condizioni in cui questi siti versano oggi sono palesemente differenti, soprat
tutto per il grado di conservazione dei depositi antropici e per i condiziona
menti ambientali. Lo scavo di città abbandonate comporta strategie e
tecniche diagnostiche più vicine a quelle che vengono impiegate per le
indagini sugli insediamenti rurali, anche quando siamo di fronte a città che
documentano più periodi storici; inoltre, in questi casi, le minacce di
distruzione del patrimonio archeologico possono apparire meno cogente e
violente, anche se non vanno sottovalutate.
Riguardo l’archeologia delle città a continuità di vita, si è parlato, più
correttamente, di archeologia urbana. Il concetto di archeologia urbana,
come oggi lo intendiamo, si riferisce alla pratica archeologica nei centri
tuttora abitati.
Contrariamente a quanto si può immaginare, la formulazione di questo
concetto è abbastanza recente. Prima degli anni ’70 vi era ancora molta
confusione a tale proposito nell’ambito delle diverse archeologie europee,
che tendevano a praticare un’archeologia urbana in forme spesso del tutto
incidentali.
Certamente esperienze di scavo all’interno dei centri abitati, pure di buon
livello, sono conosciute fin dal XIX secolo e, se vogliamo, pratiche di ricerca
volte al recupero delle antichità possono datarsi ancora ad epoca anteriore.
È ben noto l’episodio di Lanfranco che, al momento di ricostruire la
cattedrale modenese nel 1099, invitò a scavare nel luogo dove sarebbe sorta
la chiesa cittadina con lo scopo di recuperare resti sepolti dell’antica Mutina.
Un intervento che nasceva dalla consapevolezza dell’esistenza di antichità
sepolte ma che si poneva anche come atteggiamento di un recupero del tutto
cosciente, che certo era di natura funzionale, ma anche ideologica.
Allo stesso tempo, e a maggior ragione nelle città della nostra penisola così
ricche di storia e di antichità così palesi e visibili sul piano materiale, l’atten-
zione ai resti sepolti e al loro recupero continuò nel corso del Rinascimento
e nei periodi successivi, caricandosi di volta in volta di valori ideologici di
versi. Tuttavia, è con l’affermarsi di un’archeologia storica, un’archeologia
©
cioè interessata alla conoscenza dei processi storico-insediativi e socio-
economici e dunque alla formazione dei depositi, che possiamo parlare in
maniera più pertinente di un’archeologia in città.
Si tratta ancora di un approccio il più delle volte empirico, spesso an che nei
metodi, e comunque di rado strutturato per una conoscenza complessiva del
divenire di uno spazio urbano: siamo cioè di fronte ad un’archeologia che
mette i propri metodi e i propri strumenti al servizio di una conoscenza di
aspetti settoriali, ancorché importanti, della città . Nell’ambito di queste
esperienze possiamo certamente annoverare l’attività di Giacomo Boni,
figura fondamentale per le elaborazioni teoriche legate allo scavo
stratigrafico, ma anche ricercatore tra i primi (soprattutto con gli scavi nei
Fori Imperiali) a porsi il problema del rapporto tra complessità stratigrafica
e divenire storico della città . Un esempio che resterà però purtroppo isolato
nel panorama della nostra archeologia nazionale di inizi Novecento, ben
presto travolta dai trionfalismi di un approccio di regime.
Una ben diversa tradizione di studi, e dunque un ben diverso percorso
critico verso i temi dell’archeologia della città , dobbiamo segnalare in
Inghilterra. E dunque non è un caso che proprio in ambito anglosassone, un
ambiente che vedrà sperimentare ed elaborare i metodi dello scavo
stratigrafico, che i problemi di un’archeologia urbana troveranno una prima
formulazione e una prima applicazione.
Schofield e Vince, in un libro di pochi anni fa dedicato alle città medie vali
inglesi, individuavano nell’intervento di Martin Biddle a Winchester un
momento formativo fondamentale per la costruzione di un’archeologia
urbana in Inghilterra: uno spartiacque tra la fase c.d. eroica (“heroic phase”
1946-1970) e la messa in pratica dei principi conseguenti alla realizzazione
della prima carta di rischio archeologico redatta dallo stesso Biddle a
Londra. È interessante rilevare, peraltro, come l’esperienza di Winchester si
qualifichi anche come momento di sperimentazione per le metodologie di
scavo: in quella sede, infatti, Biddle si porrà il problema dell’analisi
stratigrafica dei cimiteri medievali e postmedievali urbani, proponendo
anche alcune strategie di indagine e, soprattutto, sarà nel cantiere di
Winchester che Harris metterà a punto il suo sistema di registrazione della
stratigrafia archeologica e teorizzerà (facendo ovviamente tesoro di una
lunga esperienza sul campo dell’équipe) quei principi della stratificazione
archeologica che vedranno formulazione compiuta nel suo famoso manuale
del 1979. Non va infine dimenticato il fatto che lo scavo di Winchester
costituisce un episodio esemplare di totale superamento dell’idea che
l’archeologia urbana (e l’archeologia in genere) non possono discriminare
nessun periodo storico (anche se, ad esempio, già le ricostruzioni londinesi
nel dopoguerra si erano dimostrate importanti occasioni anche per indagare
e conoscere le fasi post-antiche dell’abitato).
In Italia l’archeologia praticata in città , nel secondo dopoguerra, non
rappresenta invece altro che il riflesso di un approccio teorico e
metodologico poco sensibile ai problemi delle stratificazioni e dello scavo
©
stratigrafico. Con qualche rara eccezione l’archeologia in città di quegli anni
sarà contraddistinta non solo dalla occasionalità delle scoperte e
ritrovamenti, ma anche da una semplificazione e selezione nelle procedure
di scavo. Le ricostruzioni del nostro paese martoriato non rappresentarono
dunque un momento di maturazione per la pratica stratigrafica e per un
approccio più maturo ai temi dell’archeologia urbana, ma costituirono la
riproduzione semplificata dei metodi diagnostici che si adottavano anche
nella ricerca archeologica d’ambito extraurbano. Infatti, solo le componenti
monumentali che emergevano dai ricchi depositi venivano segnalate e qual
che volta documentate, mentre tutto quanto apparteneva ai bassi tempi
(medievali e postmedievali) veniva sentito come qualcosa di inutile ed
ingombrante, che impediva di fatto la transizione diretta verso le fasi più
antiche.
Purtroppo, il boom edilizio degli anni ’60 non fu solo deleterio per
l’urbanizzazione selvaggia che interessò molte delle nostre città , ma costituì
anche uno dei momenti di maggiore dilapidazione incontrollata del
patrimonio archeologico dei centri storici e dei suburbi. Una situazione
decisamente migliore, anche se non ottimale, si dovette registrare, negli
stessi anni, in altri Paesi europei, dove, forse con qualche lieve ritardo
temporale, si seguono i percorsi già documentati in ambito anglosassone: e
questo anche in nazioni, come la Svezia o la Norvegia, notoriamente di tardo
sviluppo dell’urbanesimo.
Naturalmente non siamo ancora al superamento di un’archeologia casuale
(quella che Alain Schnapp aveva definito, con termine felice, un’arche-
ologia reattiva), ma ad un momento di cosciente consapevolezza
dell’esistenza e dell’importanza dei depositi archeologici all’interno della città . Si
tratta di scavi originati dalle contingenti grandi trasformazioni che
investirono le città nel secondo dopoguerra, ma anche da una maturazione
nell’approccio storico-archeologico che ora tende a valutare in forme diverse
il valore della fonte materiale. L’archeologia praticata all’interno delle città ,
dunque, varia di intensità e di qualità a seconda degli ambiti territoriali: e
migliore risulta in quelle aree, come le regioni dell’Europa centro-
settentrionale, perché migliore è, nel complesso, l’archeologia che si pratica
in quei Paesi. Svincolate dall’abbraccio mortale con la Storia dell’Arte, da una
parte, e con l’Antiquaria, dall’altra, le esperienze archeologiche di quei
territori si indirizzano verso una conoscenza completa delle strutture
materiali antiche, senza che oltretutto steccati di carattere cronologico
costituissero limiti invalicabili.
Se lo scavo di Winchester segna un primo importante esempio di archeologia
in città , il momento di svolta è sicuramente da ricercare nel 1972 quando
esce un volume di Heighway su un censimento del patrimonio archeologico
urbano promosso dal Council for the British Archaeology. In quella
circostanza era stato inviato a tutti gli operatori del settore (strutture di
tutela, società locali e archeologi professioni sti) un questionario, con lo
scopo di censire e quantificare la risorsa archeologica delle città storiche
anglosassoni e relazionarla con i piani di sviluppo degli abitati attuali.
©
L’obbiettivo era ambizioso, ma indispensabile, anche a costo di risultare,
come poi avvenne, impreciso. I dati presentati apparvero preoccupanti (circa
un terzo delle città della Gran Bretagna sarebbero state perse per
l’archeologia nel giro di vent’anni se non prima), e l’impatto di tale iniziativa,
soprattutto sui paesi del nord Europa, risultò molto forte. Per la prima volta
venne introdotto nel dibattito il concetto di finitezza del patrimonio
archeologico (nello specifico urbano) e, di conseguenza, la necessità di dover
agire in maniera preventiva (e non a posteriori) come fino ad allora si era
fatto.
Il primo risultato concreto che discese da questo progetto fu l’elaborazione
di una carta di rischio archeologico dedicata alla capitale, cioè Londra,
pubblicata nel 1973. Ancora una volta non sarà inutile rilevare come uno
dei coautori di questo progetto fosse quel Martin Biddle che abbiamo
conosciuto tra i protagonisti della ricerca archeologica urbana con lo scavo
di Winchester. Il libro costituisce, infatti, la prima concreta applicazione,
certo ad una scala territoriale più ridotta (l’ambito urbano), di metodi e
procedere per una valutazione più raffinata e precisa del potenziale
archeologico di un sito. Vengono presi in considerazione concetti connessi
con la qualità del deposito archeologico e la possibilità di una previsione; la
carta archeologica a cui si addiviene non è un semplice catasto del noto, ma
una base critica su cui orientare i futuri interventi di scavo.
Con questo volume il concetto di archeologia urbana comincia ad assumere
una sua più compiuta fisionomia, anche sul piano teorico. Il centro di
interesse è la città stessa, il fenomeno dell’urbanesimo piuttosto che uno
dei suoi periodi storici o un singolo aspetto delle sue attività . È evidente
l’ottica di guardare alla struttura urbana, e all’archeologia della struttura
urbana, in una forma unitaria, lontana dall’estemporaneo ed incidentale
interesse orientato dalla scoperta casuale; e, nel contempo, si identifica nella
città, proprio per la sua complessa e peculiare natura di sito pluristratificato,
il concetto di archeologia come disciplina multiperiodale. Ha dunque ragione
Biddle quanto sostiene che gli interessi degli archeologi urbani non sono
molto dissimili da quelli degli storici e dei geografi, e che da questi li
differenziano solo i metodi d’approccio, poiché si guarda alla «urban society
from the point of wiew of the historian of material culture» (Ib. p. 96). Un
orientamento questo che tende a ridurre anche lo spazio tra le discipline e,
soprattutto, ad allontanare l’archeologo dal rischio di un asettico
tecnicismo al servizio della pianificazione.
L’influenza che questi due libri hanno avuto nei confronti delle archeologie
europee è stata molto forte, soprattutto, ancora una volta, in Gran Bretagna
e nel Nord Europa. Non sono tuttavia mancati tentativi di allinearsi su
queste posizioni anche da parte di ricercatori francesi ed italiani.
Concepito secondo gli stessi principi e con le medesime finalità il lavoro di
Peter Hudson (1981) dedicato a Pavia costituisce il primo esempio di
progetto di archeologia urbana e previsione della risorsa realizzato in Italia.
Il libro infatti non si presenta soltanto come un momento di elaborazione
©
dati con il fine di ricostruire la fisionomia storica della città , ma anche come
strumento propositivo di pianificazione. Nel momento in cui si cercano di
identificare gli strumenti per programmare la ricerca, è evidente che si viene
ad interferire con la sfera, più politica, della tutela. Peter Hudson aveva
infatti proposto un programma articolato in quattro punti: a) scavi in grande
scala volti a reperire campioni significativi della topografia cittadina; b) scavi
più ristretti per risolvere problemi specifici (per es. durante i restauri di
edifici storici); c) controllo e documentazione di tutti gli interventi nel
sottosuolo cittadino; d) prospezioni geofisiche per scoprire nuovi siti degni
di ricerche a livello a) e b). Per poter realizzare questo programma si
proponeva l’assunzione da parte del Comune di un archeologo a tempo
pieno che potesse seguire e progettare tali interventi e, soprattutto, a livello
normativo, si suggeriva di inserire nel Piano Regolatore, «una clausola
richiedente la definizione precisa di ogni richiesta di costruzione e di tutte le
distruzioni previste nel sottosuolo cittadino». Il passaggio dall’elaborazione
teorica alla attuazione normativa andava a confrontarsi, almeno nel nostro
Paese, con un sistema di tutela poco flessibile. Non è forse un caso che le
richieste avanzate in quella sede non furono ascoltate e il progetto di Pavia è,
almeno da questo punto di vista, miseramente naufragato, come ebbe a
sottolineare, neanche tre anni dopo, lo stesso ricercatore.
Come è noto ogni Paese ha, in materia di beni culturali, e dunque anche
archeologici, una propria tradizione giuridica, che si formalizza in una serie
di norme e di procedure e si concretizza in una serie di strutture che sono
preposte all’attuazione di quelle norme. Già questo aspetto può parzialmente
giustificare le diversità di atteggiamenti e di risultati.
Due concetti ci sembrano assodati: il primo è quello di prevenzione, il
secondo è quello di selezione. Una pratica che tenda a valorizzare (nel senso
di conoscere e conservare) il patrimonio archeologico urbano deve
innanzitutto configurarsi come attività preventiva, dunque previsionale.
Una volta che possiamo prevedere, anche se a gradi di approssimazione
diversi, il potenziale di un sito, dobbiamo affrontare il secondo problema:
come conciliamo le esigenze collettive di sviluppo e di trasformazione di un
abitato con le esigenze di conservazione e conoscenza del patrimonio
archeologico? Abbiamo già detto come l’idea di comprendere (e dunque) di
salvaguardare tutto e allo stesso livello, sia del tutto impraticabile (anche
qualora lo volessimo).

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