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i luoghi dell’arte
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Magna grecia
città greche di Magna grecia e Sicilia
iStituto della
encicloPedia italiana
Fondata da gioVanni treccani
roMa
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©
PROPRIETÀ ARTISTICA E LETTERARIA RISERVATA
iSBn 978-88-12-00097-5
iStituto della
encicloPedia italiana
Fondata da gioVanni treccani
PreSidente
giuliano aMato
conSiglio di aMMiniStrazione
luigi aBete, Franco roSario BreScia, Pierluigi ciocca,
Marcello de cecco, Ferruccio Ferranti, Paolo gariMBerti,
FaBrizio gianni, luigi guidoBono caValchini garoFoli,
Mario roMano negri, gioVanni PugliSi,
gianFranco ragoneSi, giuSePPe Vacca
aMMiniStratore delegato
FranceSco tatò
coMitato d’onore
FranceSco Paolo caSaVola, carlo azeglio ciaMPi,
gioVanni conSo, rita leVi-Montalcini
conSiglio ScientiFico
enrico alleVa, girolaMo arnaldi, lina Bolzoni,
geMMa calaMandrei, luciano canFora, Michele ciliBerto,
Juan carloS de Martin, eMMa Fattorini, doMenico FiSichella,
eMMa giaMMattei, Paolo guerrieri, eliSaBeth kieVen,
giorgio PariSi, gianFranco PaSquino, luca Serianni,
SalVatore SettiS, Piergiorgio Strata,
gianni toniolo, gioVanna zincone
collegio Sindacale
gianFranco graziadei, Presidente; Mario Perrone, giancarlo Muci
Mauro oreFice, delegato della corte dei conti
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MAGNA GRECIA
CITTÀ GRECHE DI MAGNA GRECIA E SICILIA
DIREZIONE SCIENTIFICA
FRANCESCO D’ANDRIA, PIER GIOVANNI GUZZO, GIANLUCA TAGLIAMONTE
REDAZIONE
Responsabile editoriale
Loreta Lucchetti
Ricerca iconografica
Elena Cagiano de Azevedo, Mariano Delle Rose
ART DIRECTOR
Gerardo Casale
Disegni
Marina Paradisi; Paola Salvatori, Giusi Elia, Anna Olivieri
Produzione industriale
Gerardo Casale; Laura Ajello, Antonella Baldini, Graziella Campus
Segreteria
Aurora Corvesi, Carla Proietti Checchi
DIREZIONE EDITORIALE
Controllo qualità
Rosalba Lanza
Segreteria
Alessandra Sacchetti; Maria Stella Tumiatti
DIRETTORE EDITORIALE
Massimo Bray
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PRESENTAZIONE
con il volume Magna Grecia, pubblicato sotto gli auspici della commissione nazionale
italiana per l’uneSco, l’istituto della enciclopedia italiana torna a percorrere, dopo
qualche anno, le vie dell’archeologia, riprendendo la tradizione dalla quale sono scaturite,
nel corso del tempo, opere prestigiose quali l’Enciclopedia dell’Arte Antica Classica e
Orientale, Pompei. Pitture e mosaici, Il Mondo dell’Archeologia, l’Enciclopedia Archeologica.
nel riallacciarsi a questa autorevole tradizione, l’opera si è posta l’obiettivo di
fornire un quadro quanto più aggiornato e completo della storia e dell’archeologia di
tutta quella parte dell’italia meridionale che, a partire dall’Viii secolo a.c., fu investita
dalla colonizzazione greca. il fenomeno rappresentò nell’esistenza dei coloni un salto
qualitativo, talora quasi rivoluzionario, rispetto alla situazione che si erano lasciati
alle spalle nella madrepatria: numerose città vennero create ex novo da quanti presero
parte a quelle spedizioni che, con le parole del poeta archiloco, raccoglievano «la miseria
di tutta la grecia». alla guida dell’impresa coloniale vi era spesso un aristocratico caduto
in disgrazia in patria, ma l’organizzazione della società e del territorio che s’imponeva
nella città di nuova fondazione era su base paritetica e tesa al raggiungimento di un alto
grado di funzionalità. un illustre esempio letterario di quanto accadeva lo troviamo
nell’Odissea: nausitoo, nonno di nausicaa, viene ricordato come l’ecista che dall’ampia
iperea condusse i suoi uomini in una nuova terra e vi fondò una città circondandola di
mura, costruendo abitazioni, innalzando templi agli dei e distribuendo la terra ai coloni.
l’esperienza della colonizzazione ha favorito in occidente l’affermarsi della democrazia,
portando alla stesura di codici legislativi e dando impulso a una precoce e originale
elaborazione urbanistica.
il volume, attraverso la parte testuale di ricostruzione storica – che non a caso
prende l’avvio dalla riflessione storico-critica esposta da arnaldo Momigliano nella voce
Magna Grecia scritta nel 1934 per l’Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti – e
attraverso un imponente percorso iconografico, mette dunque in rilievo l’incidenza della
civiltà coloniale greca sulla costruzione dell’identità culturale italiana, e quindi del-
l’identità europea e occidentale, e vuole offrire un contributo alla conoscenza e alla va-
lorizzazione di uno straordinario patrimonio.
un sentito ringraziamento va a quanti si sono adoperati per la realizzazione di
questo prestigioso volume e in particolare profonda gratitudine, a nome personale e
dell’istituto, desidero esprimere a Francesco d’andria, Pier giovanni guzzo, gianluca
tagliamonte, ideatori del progetto, che, con entusiasmo e rigore, ne hanno seguito tutte
le fasi di lavorazione.
giuliano aMato
Presidente dell’Istituto della Enciclopedia Italiana
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INTRODUZIONE
Seppure della Magna grecia e della Sicilia antica non si sia mai perduta la memoria, è
stato nel corso di quest’ultima generazione di studiosi che la loro rappresentazione ha
raggiunto livelli elevati e ricchi di possibili conseguenze. un tale impulso è dovuto allo
sviluppo delle indagini archeologiche compiute da università, soprintendenze, ricercatori
italiani e stranieri sia nelle principali città di antica fondazione greca, da Pithecusa a
cuma, da Sibari a taranto, da naxos a Megara hyblaea, a Selinunte, sia in comprensori
esclusivamente popolati da genti indigene, con le quali i navigatori greci intrecciarono
contatti precedenti alla prima istituzione delle città classiche.
da Pontecagnano a Francavilla Marittima, a Broglio di trebisacce, le testimo-
nianze archeologiche recuperate hanno illustrato, con la rispettiva materialità resa stru-
mento euristico grazie all’accuratezza dello scavo stratigrafico, i modi e i processi dei
più antichi rapporti intercorsi tra greci e indigeni, oltre che con non casuali presenze
levantine. altrettanto ha documentato la ricerca svoltasi a lipari, a thapsos, nell’en-
troterra di catania, Siracusa, gela, agrigento.
in parallelo, lo studio filologico delle fonti letterarie antiche, greche e latine, ha
ampliato e approfondito il panorama interpretativo delle vicende che si sono svolte tra
Viii e Vii secolo a.c. in italia meridionale e in Sicilia. e ciò anche grazie all’allargamento
comparativo che è stato compiuto con il collocare le navigazioni greche dirette in italia
nel più ampio quadro mediterraneo. dall’iberia, verso occidente, alle coste dell’asia
Minore e della Fenicia, verso oriente, ma anche in direzione della Penisola calcidica e
delle rive del Mar nero, verso nord, greci originari di diverse città, a cominciare da
quelle euboiche, avevano conosciuto e percorso rotte marittime delle quali la ricerca
storica è riuscita a identificare ed interpretare le memorie, fossilizzate in testi più tardi,
in lemmi di lessici anche medievali, in miti e racconti epici.
l’insieme della ricerca scientifica che si è rivolta a questo cruciale periodo storico,
che ha visto l’introduzione dell’alfabeto in italia e quindi l’inizio della sua storia scritta,
ha superato precedenti prassi conoscitive, come ad esempio il postulato di una necessaria,
e necessariamente meccanica, stretta corrispondenza tra fonte scritta e documentazione
archeologica. Si è, inoltre, ampliato il raggio d’interesse sia alla compresenza nello spazio
mediterraneo di navigatori levantini (i Fenici di omero), spesso precursori di quelli
greci, sia alle realizzazioni paleo-etrusche in campania.
di tutto questo nuovo complesso di scoperte archeologiche e di riflessioni storiche,
come delle susseguenti realizzazioni urbanistiche, artistiche e architettoniche, si è cercato
di offrire un panorama il più completo possibile, rifuggendo da esasperanti tecnicismi e
lasciando ampio spazio alla suggestione delle immagini. in specie riproducendo, ogni
volta che sia stato possibile, rappresentazioni storiche degli antichi centri: il pregio delle
quali è quello di avvicinarci all’aspetto che avevano i luoghi quando, per la prima volta,
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AVVERTENZA EDITORIALE
l’attento lettore potrà notare discrepanze cronologiche fra i diversi testi di questo volume,
soprattutto per quanto riguarda le date di fondazione delle nuove città consegnateci dalla
tradizione. già in antico si avevano incertezze al proposito, dovute all’uso di fonti e di sistemi
cronologici diversi da parte degli stessi scrittori greci o latini, nonché a carenze di informazione.
le indicazioni in tal senso date sono, ad ogni modo, da riferirsi alla responsabilità dei singoli
autori dei testi. così pure alla responsabilità di questi vanno, ovviamente, ascritte le eventuali e
inevitabili divergenze, fra i vari testi, nell’interpretazione di singoli monumenti, nella lettura
topografica dei siti, nella datazione di reperti, nella ricostruzione storica degli eventi.
nei saggi, così come nelle illustrazioni, l’ordinamento delle città e dei centri oggetto di
trattazione procede da nord a sud, rifacendosi, grosso modo, al percorso descrittivo seguito da
Strabone nel quinto e nel sesto libro della Geografia.
✻✻✻
il consistente apparato iconografico presente nel volume costituisce un ciclo funzionale alla
lettura dei testi, ma in qualche modo parallelo e autonomo rispetto ad essi. le immagini, specie
quelle dei manufatti archeologici, non si conformano a rapporti di scala e di reciproca
proporzionalità, ma, tenuto conto del carattere e delle finalità del volume, alla precipua esigenza
di fornire una apprezzabile veduta degli stessi, anche nei particolari.
✻✻✻
la citazione di autori antichi e di loro opere all’interno dei testi è data per esteso, facendo
riferimento alla forma italianizzata di nomi e titoli. allorquando tale citazione ricorra invece tra
parentesi, nomi di autori e titoli di opere si uniformano alle abbreviazioni adottate nell’Enciclopedia
dell’Arte Antica Classica e Orientale, edita dall’istituto della enciclopedia italiana (v. elenco in
II Supplemento); per le abbreviazioni non presenti nel suddetto elenco, si è fatto riferimento a
quelle utilizzate in h.g. liddell, r. Scott, A Greek-English Lexikon e nel Thesaurus Linguae
Latinae. i libri o i capitoli delle opere citate sono espressi in numeri romani, le ulteriori
suddivisioni in numeri arabi.
infine, per i toponimi antichi si è adottata la forma presente nell’Enciclopedia dell’Arte Antica
Classica e Orientale.
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SoMMario
Rilievi 263
a cura di Veronica Ferrari, Giovina Caldarola
TAVOLE
a cura di Elena Cagiano de Azevedo
Sicilia 679
GRAZIA SPAGNOLO
Gela
∂
Lo storico greco Tucidide (VI, 4, 3) racconta che Gela fu fondata quarantacinque anni
dopo Siracusa – cioè nel 689-688 a.C. – da un gruppo di Dori provenienti dalle isole di Rodi
e di Creta, sotto la guida rispettivamente di Antifemo ed Entimo. Il sito era al centro di un
ampio golfo sulla costa meridionale della Sicilia, presso la foce di una delle principali arterie
fluviali dell’isola, il fiume Gela (Gelas), da cui la città prese il nome. L’area scelta dai coloni
era caratterizzata da una collina simile ad una duna costiera, alta appena m 45-50 e lunga
km 4, che si affacciava sul mare africano con un ripido costone, mentre dalla parte opposta,
verso nord, digradava a balze più dolci fino all’incantevole scenario dei Campi Geloi, una
delle più vaste pianure alluvionali del Sud d’Italia, molto fertile e, all’epoca, ricca di corsi
d’acqua e pantani. Tutto intorno alla piana, come un grande teatro di cui Gela occupava il
posto della scena, si disponevano ad arco alture e montagne boscose, abitate dalle popolazioni
indigene. La collina aveva una forma piuttosto irregolare, articolata grosso modo in tre settori
dalle strozzature del Calvario e del vallone Pasqualello – che condizionarono le scelte urba-
nistiche dei coloni – e divisa all’estremità occidentale nelle due propaggini di Capo Soprano
e Piano Notaro. La sommità dell’altura, caratterizzata ad est da una stretta dorsale, si apriva
invece in un pianoro più ampio nei settori centrale ed occidentale.
Nel corso dei primi due secoli della sua storia, la polis si affermò rapidamente come una
delle più fiorenti colonie d’Occidente, grazie alle ingenti risorse del suo entroterra agricolo
che ne fecero uno dei principali centri produttori di grano del mondo greco, e all’inizio
del V secolo a.C., sotto la tirannide dei Dinomenidi, giocò un ruolo di primo piano nello
scacchiere politico del Mediterraneo.
Dopo le alterne vicende che seguirono alla caduta dei tiranni, nel 405 a.C. Gela subì
una violenta e radicale distruzione ad opera dei Cartaginesi, dalla quale si riprese soltanto
nella seconda metà del secolo successivo, quando fu rifondata, con il contributo di nuovi
coloni, dal condottiero corinzio Timoleonte. Ma non raggiunse mai più l’antico splendore,
fino a che cessò definitivamente di vivere nel 282 a.C., per volontà del tiranno agrigentino
Finzia, che ne deportò gli abitanti nella nuova città di Finziade, l’odierna Licata.
Le intense e fruttuose ricerche archeologiche, susseguitesi nel sito fin dall’Ottocento,
ed una ricca messe di studi e pubblicazioni fanno di Gela un fondamentale punto di rife-
rimento per la conoscenza della grecità di Sicilia. Sebbene, infatti, ai resti della città antica
nel tempo si siano sovrapposti l’insediamento medievale – fondato nel 1233 da Federico
II con il nome di Eraclea e poi di Terranova – e soprattutto il grosso agglomerato urbano
moderno – che ha riacquistato l’originaria denominazione greca nel 1927 –, le indagini sul
campo hanno comunque consentito di mettere in luce alcuni significativi settori della polis
e delle sue necropoli, e quindi di ricostruire, sia pure con qualche ombra, lo sviluppo ur-
banistico del centro.
Tucidide riferisce che l’area che per prima fu circondata da mura si chiamava «Lindioi»;
da ciò alcuni studiosi hanno voluto ipotizzare l’esistenza di un insediamento precedente
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inseriti nella maglia di isolati che sarebbero sorti più tardi nell’area, testimoniando quindi
l’esistenza già nel VII secolo a.C. di una pianificazione regolare dello spazio. Il sistema era
fondato su di un asse stradale principale (plateia), che correva a nord della zona santuariale,
parallelamente alla dorsale collinare, incrociandosi con strade secondarie perpendicolari (ste-
nopòi), larghe m 4 circa e distanti tra loro m 31,50 circa. Secondo una recente ipotesi, i due
edifici di cui si è detto, finora interpretati come sacelli e connessi in qualche modo con la
vita del vicino santuario, potrebbero essere invece abitazioni, considerate le strette analogie
planimetriche con le case coeve di Megara Hyblaea. In tal caso, restituendoci un lembo del
tessuto urbano più antico, essi consentirebbero di risalire alla misura originaria dei lotti abi-
tativi assegnati ai coloni (oikopeda), che era alla base della formazione degli isolati.
Sempre nel corso della seconda metà del VII secolo a.C. – parallelamente all’inesorabile
accrescersi del controllo della polis sul territorio circostante a discapito delle popolazioni
indigene – il centro urbano continuò la sua rapida espansione, pur tenendo fermo il confine
con la necropoli ad ovest, in corrispondenza del vallone Pasqualello. Tracce di installazioni
artigianali e, probabilmente, anche di edifici di destinazione religiosa sono infatti docu-
mentate fino ai piedi del versante settentrionale della collina, quasi sulla piana, nell’area
della vecchia stazione ferroviaria, dove forse già a partire da questo momento si estese una
maglia stradale analoga a quella di Molino a Vento. Dall’altra parte, invece, sul versante
meridionale, ad ovest di Bosco Littorio, nel cosiddetto Predio Sola, sorse un luogo di culto
che, come testimonia la cospicua quantità di offerte votive, venne intensamente frequentato
anche nel VI e nella prima metà del V secolo a.C.
Non rimane alcuna traccia di una cinta fortificata che possa indicare l’effettiva esten-
sione della città nel suo primo secolo di vita, ma è sicuramente da rivedere l’opinione, più
volte ribadita in letteratura fino a tempi recenti, secondo cui il perimetro urbano avrebbe
avuto lo stesso ridotto tracciato delle mura medievali, con la sola aggiunta della propaggine
di Molino a Vento. Sulla scorta delle ultime ricerche, infatti, sembra assai più plausibile
che la città si estendesse fino ai piedi della collina, arrivando da una parte al mare e dal-
l’altra alla piana, dove probabilmente un corso d’acqua oggi non più visibile – forse residuo
di un’ansa abbandonata del fiume Gela – faceva da confine e linea di difesa.
A confronto con la città medievale, arroccata su una porzione del settore centrale della
collina, la colonia greca presentava quindi un ben più ampio respiro ed un contatto più di-
retto con il retroterra agricolo, oltre che una più complessa articolazione delle aree funzio-
nali interne al tessuto urbano. Sotto quest’ultimo aspetto, tra l’altro, secondo la
ricostruzione topografica della città proposta in passato, i resti messi in luce oltre le mura
di Federico II – tra cui quelli già menzionati della stazione vecchia e del Predio Sola – sareb-
bero appartenuti ad una ‘corona’ di santuari extraurbani dislocati tutt’intorno alla città, da
attribuire nella maggioranza dei casi a Demetra, in quanto dea della fertilità dei campi. Oggi
si può invece ritenere che i versanti della collina fossero occupati sia da quartieri abitativi
– comprendenti anche botteghe ed officine di artigiani – sia da luoghi di culto urbani, di solito
non monumentali, dedicati a divinità diverse, che presiedevano a momenti ed aspetti differenti
della vita dei cittadini e che pertanto non sempre è facile identificare con precisione.
Non mancavano, tuttavia, fin da questo periodo, santuari esterni al perimetro urbano:
infatti, al di là dei corsi d’acqua che, come si è detto, cingevano la città, su due basse
collinette – quella di Bitalemi (corruzione locale di Betlemme) ad est e quella della Ma-
donna dell’Alemanna a nord, entrambe significativamente sedi di un culto cristiano in
epoca medievale e moderna – nella seconda metà del VII secolo a.C. si impiantarono due
aree sacre, destinate a rivestire un ruolo rilevante per la comunità anche nei due secoli
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successivi, fino alla distruzione della città ad opera dei Cartaginesi, nel 405 a.C. Il san-
tuario di Bitalemi, grazie al rinvenimento di alcune iscrizioni, può essere attribuito con
certezza a Demetra Thesmophoros, in onore della quale, durante periodiche feste riser-
vate alle donne, si celebravano riti particolari, anche notturni, descritti dalle fonti lette-
rarie. Nella fase più antica l’area era caratterizzata da modeste strutture in mattoni crudi
– forse sacelli o anche alloggi per le devote che vi trascorrevano la notte – poi sostituite,
nei secoli VI e V a.C., da edifici più solidi con zoccolatura inferiore in pietrame o in bloc-
chi. L’eccezionale quantità di oggetti votivi è testimonianza dell’intensa frequentazione
del santuario e specchio del sentimento religioso delle donne di Gela. Il poggetto della
Madonna dell’Alemanna ospitava invece un santuario che doveva essere dotato di edifici
templari veri e propri, anche di una certa monumentalità, almeno dal VI secolo a.C., dei
quali tuttavia non si conservano resti murari, bensì solo frammenti delle terrecotte poli-
crome che costituivano la ricca ornamentazione dei tetti. Anche qui la divinità destinataria
del culto è stata identificata con Demetra dagli autori dello scavo, ma in mancanza di dati
epigrafici è lecito nutrire qualche dubbio.
Nel corso del VI secolo a.C., la posizione consolidata nel territorio ed il completo con-
trollo del fertile entroterra agricolo consentirono a Gela, ormai ricca e potente, lo sviluppo
di un’intensa attività edilizia, contrassegnata anche da una precisa volontà di monumen-
talizzazione. Oltre che nel già citato santuario extra moenia dell’Alemanna, è soprattutto
nell’acropoli di Molino a Vento che tale mutamento appare percepibile. Nell’area fu eretto
infatti un tempio periptero (Tempio B) dedicato ad Atena, come si evince da un’iscrizione
con il nome della dea sul bordo di un grosso vaso rinvenuto nei pressi. L’edificio, di cui si
conservano solo le fondazioni, probabilmente aveva sei colonne doriche sulla fronte, un
frontone decorato con una grande maschera di Gorgone in terracotta dipinta e le cornici
del tetto rivestite di lastre, anch’esse in terracotta a colori vivaci. L’ornamentazione fittile,
inventata in Grecia per proteggere le strutture in legno dei tetti dei templi, ebbe uno svi-
luppo straordinario presso le colonie d’Occidente e, in particolare, a Gela, che fu forse il
centro di elaborazione del sistema di rivestimento – molto funzionale e di alto livello qua-
litativo – che dagli studiosi viene comunemente denominato ‘siceliota’. Negli scavi della
città i resti di terrecotte architettoniche costituiscono spesso l’unico indizio dell’esistenza
di templi andati perduti a causa delle spoliazioni perpetrate in epoca medievale: è il caso
del rinvenimento, quasi a ridosso della strozzatura del Calvario, nella zona del Molino Di
Pietro, di frammenti di fregi pertinenti ad almeno due templi, di cui uno addirittura più
grande dello stesso tempio di Atena. Da questi dati si può ipotizzare che l’area sacra alla dea
si estendesse ancora per un lungo tratto verso ovest, inglobando più edifici templari, oppure
che i santuari fossero due, il più occidentale dei quali – non inferiore all’altro in quanto a
monumentalità – forse era dedicato a Zeus, per analogia con la madrepatria Rodi e con la
subcolonia Agrigento, dove il culto di Atena Lindia e quello di Zeus Atabyrios erano affian-
cati sull’acropoli.
Altri edifici, di dimensioni contenute e a pianta semplice, interpretati dagli studiosi
come sacelli o strutture di servizio al santuario, sorsero a nord dell’area sacra, al di là del-
l’asse stradale principale (plateia), all’interno degli isolati regolari che tuttavia, come nel
secolo precedente, comprendevano probabilmente anche abitazioni private. Di questi edi-
fici, oltre ai resti murari, si conservano ancora una volta frammenti della decorazione fittile,
costituita sia da antefisse figurate, che ornavano le estremità delle tegole di copertura, sia
da acroteri, cioè da vere e proprie statue in terracotta – per lo più cavalieri o figure alate –
che svettavano sul colmo dei tetti movimentandone il profilo. È sul pianoro centrale della
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collina, dove sicuramente proseguiva la maglia urbana, che si pensa potesse collocarsi l’agorà
della polis, forse in corrispondenza della piazza Umberto I, cuore della città medievale e mo-
derna; mentre a sud di questa, in prossimità della piattaforma del Municipio, affacciata sul
mare, sorgeva verosimilmente un altro santuario, questa volta dedicato alla dea Hera, la cui
esistenza è attestata però solo da due iscrizioni su vasi rinvenuti all’interno di un pozzo.
Entrambi i versanti della collina continuarono ad essere occupati dal tessuto abitativo.
Di eccezionale interesse per la conoscenza della polis arcaica, considerato il loro sorpren-
dente stato di conservazione, sono gli edifici messi in luce a Bosco Littorio, negli strati so-
vrastanti le strutture murarie del VII secolo a.C. già menzionate. Costruiti interamente
in mattoni crudi, su una bassa zoccolatura in pietrame, e orientati secondo la stessa maglia
stradale di Molino a Vento, essi sono stati interpretati come resti di un emporion, cioè di
un quartiere portuale e commerciale, per la loro vicinanza al mare e al fiume. Ma l’ubica-
zione del porto alla foce del Gela non è certa, anzi una recente proposta di restituzione del
paesaggio antico ipotizza la presenza di uno specchio d’acqua più interno, lungo il corso
del fiume, a nord-est di Molino a Vento. Tra i materiali restituiti dagli edifici si segnalano
in particolare due altari, o meglio guance di altari, in terracotta, decorate con figure a ri-
lievo che, con le loro dimensioni considerevoli (m 1,15 di altezza), rappresentano una stra-
ordinaria testimonianza delle abilità tecniche ed espressive degli artigiani coroplasti locali
nel periodo della tirannide.
È proprio sotto il governo dei Dinomenidi – soprattutto dei fratelli Gelone e Gerone, che
si avvicendarono al potere nei primi decenni del V secolo a.C. – che la città raggiunse il cul-
mine del prestigio e della floridezza. In seguito alla vittoria riportata nel 480 a.C. ad Imera
dai Greci di Sicilia sui Cartaginesi, anche a Gela, analogamente a quanto avvenne in altre
poleis dell’isola, si celebrò l’evento con l’erezione di un tempio. L’edificio, detto Tempio C,
sorse a Molino a Vento, appena più ad est del Tempio B arcaico, ormai obliterato. Verosi-
milmente dedicato ad Atena, come il suo predecessore, era circondato da una peristasi di 6
colonne doriche sui lati corti e 14 su quelli lunghi. La spoliazione indiscriminata del periodo
medievale ha risparmiato soltanto una colonna, rimessa in piedi negli anni Cinquanta del
Novecento ed assurta a simbolo del sito archeologico. Frammenti delle tegole e delle cornici
del tetto, non più in terracotta bensì in pregiato marmo importato dalle isole Cicladi, ci con-
sentono appena di immaginare la bellezza e l’eleganza del monumento.
Nelle principali aree sacre della città, da Molino a Vento a Bitalemi, molti edifici furono
ristrutturati con un massiccio impiego – mai visto fino a quel momento – di blocchi squadrati
di pietra arenaria. La produzione artigianale legata agli apparati decorativi architettonici e
agli oggetti votivi giunse ad un elevatissimo livello di qualità. Nelle abitazioni si faceva co-
munemente uso di vasellame fine, sia locale che importato dalla Grecia, e non era infrequente
il consumo di beni di lusso, quali i vini dell’Egeo orientale, come testimoniano le anfore da
trasporto. La necropoli si estese sempre più ad occidente, fino a Capo Soprano, con sepolture
ad inumazione in eleganti sarcofagi fittili decorati o a cremazione in contenitori di pregio,
con ricchi oggetti di corredo, tra cui spiccavano straordinari esempi di ceramica figurata pro-
venienti da Atene, oggi esposti nei più prestigiosi musei del mondo.
La caduta della tirannide, nel 466 a.C., e le complicate traversie vissute successivamente
dalla città ne segnarono il progressivo declino. Alcuni quartieri, come quello di Bosco Lit-
torio, e luoghi di culto, come quelli del Predio Sola e di Bitalemi, furono abbandonati. La
maglia degli isolati di Molino a Vento subì qualche trasformazione all’insegna di una cre-
scente trascuratezza, analogamente a quanto avvenne ai coevi edifici nell’area della sta-
zione vecchia. Ed è in questi ultimi, infine, che si trova documentata, con impressionante
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chiarezza, la furia devastatrice con cui i Cartaginesi rasero al suolo la città nel 405 a.C., du-
rante l’attacco raccontato con dovizia di particolari dallo storico Diodoro (XIII, 108-111).
Fu allora che i tetti delle case, delle officine e degli edifici sacri crollarono compatti, sigillando
e conservando nei secoli le ultime testimonianze della vita domestica, delle attività artigianali
e delle pratiche religiose della polis del V secolo a.C.
Dopo la catastrofe, la città rimase quasi deserta per circa sessant’anni; soltanto nell’area
di Molino a Vento sono stati riconosciuti alcuni segni di sgombero delle macerie e di rioc-
cupazioni precarie dei vecchi edifici. Finalmente, nel 339-338 a.C., nel quadro di un più
vasto programma di ripopolamento della Sicilia, duramente colpita e impoverita dalle lunghe
guerre, il corinzio Timoleonte, alla guida di coloni provenienti dall’isola di Ceo, nell’Egeo,
insieme con alcuni dei vecchi cittadini, rifondò la polis, ma con caratteristiche molto differenti
da quella arcaica e classica. Per ragioni non chiare, infatti, quale baricentro della città questa
volta fu scelto il settore occidentale della collina, dove prima si estendeva la necropoli, ed in
particolare l’amena contrada di Capo Soprano, ben esposta ed elevata come una sorta di pro-
montorio, con le pareti scoscese sul mare.
L’insediamento fu cinto da poderose mura, di cui ancora oggi è possibile ammirare il ba-
luardo occidentale – a Capo Soprano, appunto –, che si protendeva a forma di cuneo a difesa
della città. Della spettacolare struttura rimane un tratto di m 600 circa di lunghezza, con
uno spessore di m 3, realizzato in tecnica mista: la parte inferiore è in blocchi squadrati di
calcarenite, mentre quella superiore è in mattoni crudi, eccezionalmente conservati. Pur-
troppo non si conosce il restante percorso del circuito murario: appena qualche traccia,
rimasta inedita, è casualmente affiorata più a nord, nel pendio di Costa Zampogna.
Ciononostante, dalle ricerche degli anni Cinquanta del secolo scorso in poi, è invalsa l’opi-
nione che la fortificazione abbracciasse addirittura l’intera collina di Gela – da Molino a
Vento a Capo Soprano – e che la città di Timoleonte fosse molto più estesa di quella arcaica
e classica. Ma gli studi più recenti, alla luce del progresso delle conoscenze sui materiali ce-
ramici e numismatici, tendono a rialzare la datazione di molti dei rinvenimenti del settore
orientale della collina finora attribuiti all’epoca timoleontea, per cui oggi sembra più oppor-
tuno ridimensionare l’ipotesi di una così vasta estensione della città ellenistica e limitarsi a
prendere in considerazione solo le evidenze databili con certezza dopo la metà del IV secolo
a.C., vale a dire sostanzialmente quelle del settore occidentale.
L’abitato, di cui sono emersi lembi in più punti dell’area di Capo Soprano, era organizzato
secondo un orientamento non molto dissimile da quello della città più antica. Alcune case,
tra la fine del IV e il principio del III secolo a.C., si distinguevano per la raffinatezza del
loro apparato decorativo, specialmente degli intonaci parietali, come la spaziosa dimora
messa in luce sul pendio meridionale, nei pressi di Villa Iacona, non lontano dal mare, nel
tratto in cui probabilmente si trovava il nuovo porto. Non si conoscono finora santuari re-
lativi a questa fase, né è ipotizzabile l’ubicazione dell’agorà. Nei pressi dell’attuale ospedale,
però, è stato messo in luce un interessantissimo impianto termale pubblico, di cui si conser-
vano due vani: il primo è dotato di due gruppi di vasche, delle quali alcune in terracotta e
altre realizzate con un impasto di pietra e tritume fittile e rivestite di intonaco; il secondo
vano contiene invece un impianto sotterraneo di riscaldamento.
Le aree più periferiche, rispetto al principale nucleo cittadino di Capo Soprano, erano
probabilmente interessate anche da impianti artigianali: un ricco scarico di ceramiche,
pertinente all’officina di un vasaio, è stato infatti individuato in prossimità della chiesa
di S. Giacomo. Delle necropoli è noto soltanto un numero ridotto di sepolture, localizzate
soprattutto nell’area di Piano Notaro e sul versante settentrionale della collina, in contrada
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Costa Zampogna. Dopo le tormentate vicende in cui la polis venne ripetutamente coinvolta
dal siracusano Agatocle alla fine del IV secolo a.C., la vita del centro fu interrotta per sempre
da Finzia, tiranno di Agrigento, nel secondo decennio del III secolo a.C. Tracce di frequen-
tazione, molto circoscritte, inducono a pensare che l’area della collina non dovette rimanere
del tutto disabitata: ne sono testimonianza alcuni rinvenimenti riferibili al III-II secolo a.C.
nell’area di Molino a Vento e in quella di Villa Iacona a Capo Soprano.
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