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Aurelia Werndorfer

Frammenti di ricordi al chiaro di luna

Cantime Rita, cantime bela


nela soave dolce favela
che xe l’orgoglio d’ogni Fiuman,
Cantime Rita in Italian!”
“Dime Rita” 1906
Parole di Arrigo Riccotti, musica di Achille La Guardia

Era uno di quei lunghi pomeriggi oziosi che capitano nei fine settimana estivi, l’afa, il sole cocente,
nemmeno un alito di vento… tutto contribuiva a rafforzare la mia voglia di dolce far niente. Me ne
stavo semisdraiata sul divano, in pantaloncini e maglietta, succhiando cubetti di ghiaccio e fissavo
trasognata il pulviscolo atmosferico danzante nel fascio di luce che filtrava dalle persiane socchiuse,
quando fui distolta dalla voce di mia madre.

«Dai, andiamo a dare un’occhiata in cantina, lì fa più fresco e magari è la volta buona che riusciamo
a mettere un po’ di ordine tra tutto quel vecchiume!»

Io, di rimando, avevo acconsentito, volutamente senza troppo entusiasmo, però mi stuzzicava l’idea
di curiosare nel vecchio armadio e negli scatoloni dove, nel corso degli anni, avevamo riposto di
tutto. Poco dopo, scesa la rampa di scale, munite di capienti sacchi, ci addentravamo in cantina,
accolte da una piacevole, fresca penombra. Per una buona mezz’ora ci demmo da fare, silenziose,
spostando e raccattando qua e là ogni genere di suppellettili, bottiglie impolverate, barattoli di
vernice essiccata, pile di vecchi giornali, che spingevamo nei sacchi, riempendoli velocemente. Ora
la cantina non mi sembrava più tanto fresca, mi sentivo accaldata e affaticata. Sbuffando, scelsi di
sedermi su una sedia, che non pareva molto solida, ma avevo bisogno di riposarmi un attimo. Nel
farlo, scostai una grossa scatola che, per il gran peso, mi sfuggì di mano, rovesciandosi sulle
piastrelle polverose e facendo fuoriuscire vecchi libri, dalle pagine consunte e ingiallite.
Distrattamente, ne raccolsi uno, era ben rifasciato, con una carta lucida e resistente, un tempo
bianca, tempestata di file diagonali di cavallini rampanti di color marrone. Carta Ferrari, in campo
bianco anziché rosso, pensai, sorridendo tra me e me, mentre voltavo la pagina di copertina. Mi
colpì subito il titolo, stampato in un’unica riga a centro pagina: “Sposi amanti”, ma ancor di più fui
colpita da un’altra parola: “Escluso”, scritta a matita in alto a destra, in piccoli caratteri corsivi, da
una mano nervosa. Sempre più incuriosita voltai la pagina e lessi il nome dell’autore, Mihàly Foldi
e sotto, tra parentesi, il titolo originale “a Hazaspar” e, più sotto ancora “Romanzo tradotto dal
testo originale ungherese da Teo Ducci”. Non ero più distratta, né mi sentivo affaticata: trasportata
da quel libro dalle pagine consunte, tenute insieme con un vecchio spago, stavo entrando in un’altra
dimensione, in un’altra epoca, affascinata dalle due parole “Sposi amanti”, ma soprattutto, ripeto, da
quell’altra paroletta, annotata nervosamente a matita: “Escluso”. Mi affrettai a cercare nell’ultima
pagina la data di stampa e lessi “Finito di stampare il 23 giugno 1941 – XIX – coi tipi dell’Unione
Tipografica Milano – Via Pace n. 19”

Il mese di giugno, pensai, come adesso, ma in tempo di guerra, nel 1941, il diciannovesimo anno
dell’era fascista. Mi stupivo al pensiero che un editore, nel pieno della seconda guerra mondiale,
potesse decidere di stampare un simile romanzo. Chi mai, tra la popolazione, affannata da troppi
problemi contingenti, sotto l’infuriare della guerra, avrebbe avuto voglia di leggerlo? Cercando di
non sciuparla, scostai delicatamente la “carta Ferrari” per vedere la copertina del libro e rimasi
letteralmente incantata, con gli occhi spalancati, ad ammirare un cielo stellato, di un blu sbiadito dal
tempo, ma, comunque, stupendo, con al centro un balcone sospeso nel vuoto, legato alla luna da una
lunga fune rosa. Più in alto troneggiava, fluttuante nello spazio, il titolo “Sposi amanti”, a
caratteri cubitali di un rosso fiammante. Nel balcone, seduti ad un tavolino tondo, fianco a fianco,
ma con lo sguardo di entrambi rivolto alla luna, un uomo, in elegante smoking nero, e una donna,
vestita sobriamente di bianco. Il tavolino, coperto da una tovaglia rosa, era completamente
sgombro; non un calice, non un piattino, nemmeno un vaso con un fiore, nulla. In basso, sotto al
balcone sospeso nel vuoto, in quella notte infinita, lo scorcio di un paio di palazzi stilizzati, da uno
dei quali il balcone doveva essersi staccato. Il tutto dava un senso di leopardiano smarrimento, di
profondissima quiete.

Incuriosita, chiesi a mia madre «Di chi era questo libro?» e lei, prendendolo, rispose «Di papà».
Poi, seduta accanto a me, voltò la prima pagina, con mano incerta, andando a cercare con lo sguardo
quella parola: “Escluso” e non mi sfuggì un lampo di malinconia nei suoi grandi occhi bruni,
quando iniziò a raccontare. Fui pervasa da un’ondata di affetto, mentre la osservavo, il viso tondo
dalla carnagione chiarissima, incorniciato da una nuvola di capelli candidi, il semplice vestito da
casa, di cotone azzurro a fiorellini, stretto in vita da una cintura dello stesso tessuto. Mia madre
aveva un dono: mentre raccontava, con la sua dolce inflessione dialettale fiumana, sapeva
trasportarti nel luogo e nel tempo della narrazione: sembrava di essere in un film con i flash back,
soprattutto quando ritornava con la mente alla sua amata terra, Fiume e l’Istria. E infatti, in quel
momento, io non mi trovavo più seduta nella nostra cantina, ma – come fossi passata attraverso uno
specchio magico – mi trovavo nel Corso, la via principale di Fiume, nell’estate del 1942, alle spalle
di un giovane uomo, mio padre, chiamato affettuosamente Mìkili in famiglia, il più piccolo di nove
tra fratelli e sorelle, intento a fissare la vetrina di un libraio, dove si rifletteva la sua immagine
assorta.

Mìkili, di ventisei anni, folti capelli neri, splendidi occhi grigio-azzurri, in maniche di camicia, con
le mani affondate nelle tasche dei pantaloni dalle gambe ampissime, secondo la moda dell’epoca, se
ne stava con lo sguardo inchiodato su di un libro esposto in vetrina. Era affascinato e incuriosito da
quella copertina e dal titolo “Sposi amanti”, stampato a caratteri cubitali di un rosso scarlatto, che
sembrava fluttuare nello spazio, al chiaro di luna. Mìkili ne conosceva ed apprezzava l’autore, per
aver già letto altre sue opere: Mihàly Foldi, uno scrittore ungherese molto noto intorno agli anni
Trenta e Quaranta, per i suoi romanzi psicologici. Foldi sapeva descrivere con estremo realismo i
comportamenti ed i sentimenti dei suoi tormentati personaggi, analizzandoli in profondità,
indagando in ogni piega dei loro animi, fino a interpretarne i sogni. Ma non si limitava solo a ciò,
egli, infatti, descriveva, con grande efficacia, anche la società dove le vicende dei suoi personaggi
erano ambientate; puntava il dito contro le marcate disuguaglianze sociali, rendendone consapevoli
i suoi personaggi. Le loro avvincenti vicende erano collocate prevalentemente a Budapest, città
natale dell’autore, e i loro spostamenti in città venivano descritti con puntigliosa precisione, citando
il nome di ogni piazza e ogni via percorsa. Interrompendo le proprie riflessioni, Mìkili entrò con
decisione nel negozio ed acquistò il libro, al prezzo di 28 Lire. Poi, con il libro sottobraccio, si
diresse verso casa, un grande appartamento, in un elegante palazzo d’epoca di stile asburgico, che si
trovava sulla riva a due passi dal mare, dove lui viveva con gli anziani genitori e un fratello scapolo,
Eugenio. Erano rimasti soltanto i due fratelli, il più giovane e il più anziano, a vivere con i genitori
nella grande casa, tutti gli altri si erano sistemati altrove, chi a Fiume, chi in altre città, trasferiti per
lavoro o, come nel caso di alcune sorelle, per seguire i mariti nelle loro città di origine.

Sempre più interessata, esortai mia madre: «Mamma, raccontami come si viveva a Fiume in quegli
anni, mi piacerebbe saperne qualcosa di più!»

Mentre mia madre, felice di poter parlare della sua bella città, proseguiva nella narrazione, io,
ascoltandola, mi trovai rituffata con lei nell’atmosfera di allora. « Sai» mi diceva «negli anni della
mia gioventù Fiume era una città dalle caratteristiche multietniche e multiculturali, dove si respirava
un’aria mitteleuropea, retaggio della dominazione austro-ungarica, e dove convivevano, in grande
armonia, italiani provenienti da ogni parte d’Italia, italiani autoctoni come la mia famiglia originaria
dell’Istria, slavi, tedeschi, austriaci, ungheresi come i genitori di tuo padre e altri ancora. Ma tutti ci
sentivamo unicamente fiumani e tutti, pur sapendo parlare diverse lingue, ci esprimevamo
principalmente in fiumano che, come ben sai, è una lingua veneta. Anche le religioni venivano
liberamente professate, principalmente la cattolica, seguita da quella greco-ortodossa. Fiume
contava anche una piccola comunità di ebrei, per lo più giunti dall’Austria-Ungheria, nella seconda
metà del diciannovesimo secolo, in genere commercianti, che vantavano una splendida sinagoga e
vivevano tranquillamente, perfettamente inseriti, come la famiglia di papà».

«Doveva essere bello - la interruppi io - vivere a Fiume in quegli anni, in quell’atmosfera così
pacifica ed armoniosa, però mi piacerebbe conoscere meglio la storia di Fiume, capire perché questa
città ha avuto una storia così tormentata nel corso dei secoli, contesa tra le diverse nazioni».

«Va bene, allora dobbiamo fare un salto molto più indietro nel tempo» e proseguì, dandomi delle
maggiori informazioni storico-antropologiche, che io riporto qui di seguito perché, se non si
ricolloca Fiume nel suo giusto contesto, non si percepiscono alcune “tonalità” del mio racconto,
perfettamente inserito in quello scenario. Fin dall’antichità, Fiume, la romana Tarsatica, anche a
causa del suo porto tra i più importanti del Mediterraneo, era stata oggetto di disputa tra i vari stati
che ne reclamavano l’annessione, ma aveva sempre avuto una vocazione italiana. Tanto per averne
un’idea, nel secolo Diciannovesimo, era appartenuta, per un ventennio, al Regno di Croazia-
Slavonia, passando successivamente alla Corona d’Ungheria. Quest’ultima ne aveva favorito uno
strepitoso sviluppo economico, portandola a uno stato di benessere tale da favorire l’afflusso di una
moltitudine di cittadini da altri stati. Questi avrebbero formato quel meraviglioso crogiuolo
multietnico e multiculturale, divenuto poi una sua peculiarità. Tuttavia, alcune riforme imposte, tra
le quali l’obbligo della lingua ungherese nelle scuole superiori, avevano provocato il malcontento
nella popolazione, prevalentemente di lingua e cultura italiana. Alla fine del primo conflitto
mondiale, l’assegnazione di Fiume ai Croati da parte del neo imperatore austro-ungarico Carlo
d’Asburgo, causò l’insurrezione della maggioranza della cittadinanza, che proclamava la propria
italianità. Questa scelta ebbe uno sbocco, finita la prima guerra mondiale, nella nota “Impresa di
Fiume” a opera di Gabriele D’Annunzio nel 1919, quindi nella successiva creazione di uno “Stato
libero di Fiume” nel 1921 e, infine, nell’auspicata congiunzione al Regno d’Italia con il Trattato di
Roma del 1924.

Per quel giorno la nostra conversazione si interruppe, si era fatto tardi e mia madre voleva dedicarsi
alle sue faccende. Tuttavia io desideravo saperne di più. Una mattina di qualche giorno dopo ci
ritrovammo in cucina, intente a preparare il “cok coi risi” un tipico piatto fiumano gradito da tutti in
famiglia. Avevo già fatto lessare 6 pugni di riso in mezzo litro di latte con un pizzico di sale e ora, a
fuoco spento, sotto lo sguardo attento di mia madre, seguivo le sue istruzioni: «Aggiungi un pezzo
di burro, due cucchiai di zucchero, una manciata di uva passa» quindi mescolavo il composto con
un cucchiaio di legno e lo disponevo in una teglia imburrata, senza dimenticare di aggiungere
qualche fiocchetto di burro qua e là, per poi passarla a gratinare nel forno già caldo. Mentre il dolce
squisito sfrigolava nel forno, ne approfittai per tornare sull’argomento «Ma ora prosegui con la
storia del libro!» la esortai, e, mentre mia madre, di buon grado, proseguiva il suo racconto, io,
accompagnata dalla sua voce, mi ritrovai a Fiume, ero proprio lì, come nei flash back di un film, e
vedevo mio padre che rientrava a casa con il suo nuovo libro sotto il braccio, mentre il sole volgeva
al tramonto…

Percorrendo il lungo corridoio, Mìkili entrò in cucina e si affacciò alla portafinestra, spalancata sul
balcone, dove i suoi anziani genitori, affondati in due poltroncine di vimini, stavano sorseggiando il
frambua, termine dialettale, usato anche in Friuli, per indicare un delizioso sciroppo al lampone.
Anche Mìkili si servì di quella fresca bevanda dall’enorme brocca che troneggiava sul tavolino
accanto a loro, nella quale galleggiavano cubetti di ghiaccio, lasciandosi poi cadere su di una
poltroncina, mentre il sole, un enorme disco di fuoco all’orizzonte, si stava immergendo in mare.
Mikili lavorava come spedizioniere per la ditta del signor Giulio Weiller, che lo aveva assunto
l’anno prima, al suo rientro da Fiume dopo una lunga assenza. Il suo lavoro gli piaceva, tuttavia
quella giornata era stata particolarmente faticosa, avendo dovuto trascorrere molte ore sulle
banchine del porto per seguire lo sbarco di una grossa partita di merci, ed ora era contento di potersi
finalmente riposare, in attesa della cena. Mentre il suo sguardo vagava distrattamente sulla distesa
marina, scintillante sotto il sole del tramonto, Mikili riandava con il pensiero agli anni trascorsi
lontano da casa. Arruolatosi volontario in marina, appena 19enne, era stato assegnato alla “Regia
nave Buttafuoco”, una vecchia nave arrugginita che di fuoco non ne buttava affatto, ferma dagli
anni ’20 nell’arsenale di Taranto ed adibita a nave caserma. Ma Mikili non si curava dell’aspetto
della vecchia Buttafuoco, a lui piaceva la disciplinata vita di bordo, dove aveva trovato tanti amici,
gli piaceva indossare la divisa, con la quale si pavoneggiava in libera uscita per le vie di Taranto ed
aspirava ad avanzare nella carriera militare in marina. Però non aveva fatto i conti con la grande
Storia, che di lì a poco, con l’emanazione dell’ignominiosa legge razziale del 1938, avrebbe
stravolto il corso della sua esistenza e spazzato via tutti i suoi sogni. Il volto di Mikili si incupì nel
ricordo di quel tragico giorno di novembre del 1938, quando il suo comandante lo aveva convocato
per comunicargli che era stato posto in “congedo assoluto” in quanto “appartenente alla razza
ebraica” e lo aveva invitato ad abbandonare immediatamente la nave. Mikili ricordava lo sconforto
provato nello spogliarsi della divisa per rivestire gli abiti civili e poi mentre scendeva da bordo,
umiliato, a spalle curve, reggendo il suo bagaglio. Tuttavia, ingenuamente, confidava, come
migliaia di altri ebrei italiani espulsi dalle fabbriche, dagli uffici, dalle scuole, da ogni carica
pubblica, che quella legge assurda ed ingiusta sarebbe stata di breve durata, che presto tutto sarebbe
tornato alla normalità e lui avrebbe potuto riprendere la vita di prima, a bordo della Buttafuoco.
Confortato da questa speranza si era rifugiato a Palermo, dove viveva una sua sorella con la
famiglia, trovando ospitalità e lavoro.

Lo riscosse l’affettuosa voce di sua madre: «A cosa stai pensando?». Dopo un attimo Mikili le
rispose: «A Palermo, riandavo col pensiero a quando ero andato a vivere in quella città così diversa
da Fiume. Tutto era nuovo per me: le usanze, i rapporti interpersonali, anche all’interno della
propria famiglia, il dialetto quasi incomprensibile, e poi il cibo, la cucina…» e continuò a
raccontare con un sorriso divertito: «Una domenica pomeriggio avevo deciso di andare al cinema e
strada facendo avevo comperato un sacchetto di fichi d’India da un ambulante, con l’idea di
gustarmeli in sala, guardando il film. Ero attratto da quei frutti tutti colorati che non conoscevo.
Perciò, appena preso posto, avevo tolto un fico dal sacchetto ficcandomelo dritto in bocca con tutta
la buccia. Non puoi immaginare cosa ho provato, quel fico era irto di aculei sottilissimi, quasi
invisibili, che mi si erano conficcati sulla lingua e nel palato. Sono uscito di corsa dal cinema ed ho
passato il resto della giornata a cercare di tirarmi fuori dalla bocca quelle terribili spine.» La
mamma rise di gusto immaginando quella scenetta e poi allungò una mano a scompigliare
affettuosamente la folta chioma corvina del suo figlio più giovane, che era già stato così duramente
provato dalla vita, e gli sussurrò in tono rassicurante : «Stasera magnaremo paprike impinide, no
ghe se spini» (Stasera mangeremo peperoni ripieni, non ci sono spine). C’era ancora un po’ di
tempo, prima di cena, e Mikili, rimasto solo nel balcone, dopo aver appoggiato il libro sul tavolino,
contemplò, ammaliato, l’immagine della luna in copertina e la notte stellata, quindi, voltò la pagina
e iniziò a leggere.

Interrompendo il flusso dei suoi ricordi e riportando mia madre al “qui ed ora”, le chiesi: «Ma a
quell’epoca tu e papà vi conoscevate già?» «Certamente» rispose lei «eravamo fidanzati. Ci
eravamo conosciuti l’anno prima, in porto. Io lavoravo per una ditta che commerciava in prodotti
alimentari e quel giorno mi ero recata presso lo spedizioniere dove lavorava papà per consegnare
alcuni documenti per lo sdoganamento di una partita di olio, e lì ci siamo conosciuti» «…e
piaciuti» aggiungi io maliziosamente. Ma poi tornai alla carica con una raffica di domande su
quanto era successo a Fiume dopo la fatidica data dell’8 settembre 1943. Lei sospirò e, dopo una
breve pausa, riprese la narrazione: «Devi sapere che, dopo l’8 settembre 1943, Fiume era gestita da
Autorità italiane, per mantenere l’ordine pubblico, ma rigorosamente sotto il controllo tedesco. La
guerra non era finita e i fiumani si trovavano a dover scegliere se schierarsi con i fascisti italiani o
con i tedeschi, o, in terza alternativa, se fuggire nei boschi per unirsi ai partigiani di Tito. Con il
trascorrere del tempo la popolazione mostrava sempre più ostilità verso i fascisti repubblichini e i
tedeschi, ma seguiva con diffidenza anche l’avanzata dell’esercito comunista di Tito, infatti ben
pochi si unirono ai suoi partigiani. A gennaio del 1944 i tedeschi distrussero il Tempio Israelitico e,
verso la metà febbraio, arrestarono centinaia di ebrei, tra i quali i genitori e il fratello di papà, che
furono deportati, prima alla Risiera di San Sabba a Trieste e poi al Campo di sterminio di
Auschwitz, dal quale non fecero più ritorno. Ma tuo padre riuscì a sfuggire alla cattura e, dopo una
fuga rocambolesca e un viaggio durato parecchi giorni, raggiunse Torino, rifugiandosi presso un
altro suo fratello, lo zio Egon. Nel frattempo, io potei recarmi in quella casa, così tristemente
abbandonata, e mettere in salvo il nostro romanzo, insieme a gran parte dei libri di tuo padre,
portandoli a casa mia, dove li sistemai nella stanza di mio fratello Casimiro, lo zio Miro. Dopo
qualche mese, io avrei raggiunto tuo padre a Torino, dove ci saremmo sposati, iniziando la nostra
nuova vita. Quella che tu conosci…»

«E la scritta Escluso?» Le chiesi io. Allora mia madre mi raccontò che, quando lo zio Miro, a quel
tempo giovane seminarista, molto ligio agli insegnamenti e alle severe raccomandazioni dei suoi
superiori, si era trovato la cameretta invasa da tutti quei libri, aveva iniziato a catalogarli
scrupolosamente e, da buon censore, aveva annotato a matita il proprio giudizio sulla prima pagina
di ognuno. Se il libro era meritevole della sua approvazione e quindi poteva essere letto, il verdetto
era “Consentito”. Nel caso avesse avuto qualche dubbio, la nota era “Con cautela” ed infine, in
caso di giudizio assolutamente negativo, il verdetto era “Escluso”, verdetto toccato anche al nostro
romanzo, forse solo – mi domandavo - per averne letto il titolo un po’ scabroso: “Sposi amanti”?

Molto incuriosita e affascinata dall’insieme della storia, non solo del libro, ma di Fiume e di tutta la
mia famiglia, io iniziai la lettura del romanzo quella sera stessa, accomodata sul divano accanto alla
finestra, dalla quale potevo ammirare, nella notte limpida, una splendida luna piena,
sorprendentemente simile a quella stampata sulla copertina del libro…. e, per una strana
coincidenza, anche alla luna di questa sera, in cui sto scrivendo il mio racconto.

La trama del romanzo, un libro di 445 pagine scritte a piccoli caratteri fittissimi, ambientato nella
Budapest del primo trentennio del 1900, se raccontata in modo succinto, appare piuttosto banale e
ricorda i feuilleton dell’epoca, ricchi di colpi di scena; tuttavia l’autore riesce a narrare le vicende
dei due protagonisti Antonia e Zoltan, appunto gli “Sposi amanti”, nel loro ventennale rapporto, in
modo avvincente, con abilità psicanalitica, penetrando nel loro intimo, svelando i loro pensieri più
reconditi, ma con delicatezza, senza mai trasbordare nell’osceno. Iniziato che ebbi a leggere, mi
trovai ben presto immersa in quel mondo, presenza invisibile accanto ai protagonisti. Condividevo
le emozioni di Antonia, figlia ventenne del potente banchiere Michele Haller, assorbito dai suoi
molteplici impegni, e della pia nobildonna Ida, interamente dedita agli studi filosofici. Antonia, con
l’entusiasmo e la testardaggine dell’età, si era perdutamente innamorata, corrisposta,
dell’affascinante ed ambizioso, quanto squattrinato, ventinovenne avvocatucolo Zoltan Bitto,
dipendente presso lo studio legale dello spregiudicato e cinico Avvocato Nadai . Venuti a
conoscenza della relazione e per evitare uno scandalo, i genitori di Antonia avevano acconsentito,
loro malgrado, al matrimonio dell’amata unica figlia con il presunto cacciatore di dote. Ma, come
prevedibile, dopo un lungo, idilliaco, viaggio di nozze in Italia, la convivenza tra i due giovani,
provenienti da due classi sociali distanti anni luce, era diventata subito problematica e fonte di litigi,
rancori, incomprensioni, sospetti, che avevano portato la bizzosa Antonia, scopertasi incinta e
convinta di essere tradita dal marito, a ricorrere a un aborto clandestino e fuggire in Costa Azzurra,
decisa a chiedere il divorzio. Zoltan, nel tentativo di riconquistarla, dopo aver sottratto un’ingente
somma di denaro al suo principale, la raggiunse a Nizza, dove la coppia riunita si lanciò
sconsideratamente in un turbinio di spese pazze per abiti, gioielli, viaggi, ristoranti e hotel di lusso.
Ma poi, con la notizia dell’improvvisa morte del padre di Antonia, i due giovani, tornati
repentinamente a Budapest, vennero riportati alla dura realtà da un’amara sorpresa. Infatti il
ricchissimo banchiere Haller, giunto alle soglie della vecchiaia, consapevole delle marcate
disuguaglianze sociali dell’epoca e riconoscendo la propria parte di colpevolezza nello
sfruttamento delle classi più umili, aveva deciso di nominare sua unica erede una giovane prostituta,
allo scopo di redimerla ed emanciparla, con queste parole: “Vi sono alcuni che affermano che la
mia ricchezza è un’usurpazione a danno di altri. […] Io vorrei restituire direttamente la parte
usurpata, creare almeno fra noi una parvenza di eguaglianza, riparare al male che ho fatto ed
hanno fatto i miei simili. Vi sono dei momenti in cui l’uomo ritorna agli uomini” Il suo gesto di
solidarietà, seppur tardivo, mi colpì favorevolmente e provai uno slancio di simpatia per il vecchio
Haller, che lasciava per contro nella totale indigenza i due giovani sposi, già convinti di aver
ereditato un ingente patrimonio. Continuando nella mia lettura, mi sentivo sempre più partecipe dei
tumultuosi eventi successivi: ora seguivo Zoltan nella sua fuga a Vienna per evitare il carcere, non
essendo più in grado di restituire il maltolto all’Avvocato Nadai , poi soffrivo con Antonia, corsa a
Vienne alla disperata ricerca del marito, ed infine gioivo con loro, ricongiunti e ravveduti. Infatti,
dopo alterne e drammatiche vicende ed anni di duro lavoro, i due sposi erano riusciti a saldare il
loro debito fino all’ultimo centesimo, ritirandosi poi a vivere in campagna in una tenuta ereditata da
uno zio materno di Antonia, per vivere alcuni anni di assoluta serenità, dedicati alla cura della
proprietà, al miglioramento del tenore di vita dei contadini, agli studi e rafforzando sempre di più
l’amore reciproco con la scoperta di valori più autentici, come dirà lo stesso Zoltan rivolgendosi ad
Antonia:“[…] voglio passeggiare, muovermi sotto la volta sconfinata del cielo, pensare, conoscere
un po’ la terra, il mondo.” Ma un infausto giorno Antonia venne colpita da una malattia inguaribile
che la condusse alla morte in breve tempo. Dopo poche ore dalla sua morte, Zoltan, non potendo
sopportare l’idea di continuare a vivere senza la sua amata Antonia, volle seguirla, ingerendo alcune
pasticche di veleno. Letta che ebbi l’ultima macabra frase: “Quando varcò la soglia della camera,
il dottor Kern trovò sul letto due cadaveri” seguita dalla parola FINE, provai un moto di simpatia
per mio zio Miro, il casto seminarista, che si era trovato alle prese con argomenti tali da far rizzare i
capelli in testa: aborto, relazioni extra coniugali, divorzi, e per finire un suicidio. Il suo verdetto non
poteva essere che “Escluso”. Eppure la lettura di quel romanzo mi aveva commossa. Sfogliando
quelle pagine ingiallite, leggendo le stesse parole che mio padre aveva letto tanti anni prima, mi ero
sentita in sintonia con lui: al di là del tempo e dello spazio, avevamo condiviso le stesse emozioni.

«Ma quel libro – chiesi una sera a mia madre, qualche tempo dopo, mentre ci riposavamo al fresco
nel terrazzo di casa - come era giunto nella nostra cantina?» Molti anni dopo la fine della guerra, mi
raccontò lei, mio padre era potuto rientrare a Fiume, purtroppo non più italiana, e aveva recuperato i
suoi amati libri, portandoli nella casa di Genova. Con il trascorrere degli anni, per ragioni di spazio,
questi vecchi libri avevano dovuto cedere il loro posto, negli scaffali della libreria, ad altri più
attuali, finendo relegati in cantina, dove io li avrei riscoperti, in quel caldo pomeriggio estivo,
recuperandone uno, che avrei conservato per sempre, rifasciato nella sua carta consunta, tempestata
di cavallini rampanti, che celava allo sguardo una stupenda copertina blu. E così mi ero sorpresa a
ripensare a mio padre, in maniera diversa, non più come l’immagine stereotipata di un genitore
affettuoso, con, alle spalle, una vita trascorsa con alti e bassi, nella normalità, ma riscoprivo in lui
quel giovane uomo che non si era lasciato travolgere dagli eccezionali e tragici avvenimenti che
avevano distrutto la sua famiglia, ma aveva saputo superarli con estremo coraggio, o forse soltanto
con l’incoscienza della gioventù, affrontando con dignità una nuova vita lontano dalla sua terra.

«E lo zio Miro? Il giovane seminarista?» Senza rispondere, mia madre si allontanò, per ritornare
poco dopo con una vecchia fotografia in bianco e nero, raffigurante un giovane sacerdote,
magrissimo nel suo lungo abito talare, in piedi su di un altare, con a lato due chierichetti: «Come
vedi era stato ordinato sacerdote e aveva potuto celebrare la sua prima Messa». Detto ciò, restammo
silenziose, commosse, perse nei nostri pensieri. Ma poi mia madre proseguì il suo racconto: «Con la
fine della guerra, a maggio del 1945, Fiume era stata occupata dall’esercito comunista di Tito e, in
breve tempo, erano scomparsi, senza lasciare traccia, centinaia di esponenti pubblici, a cui si
unirono inermi cittadini: aveva inizio così la “nuova libertà”. Venne introdotta una nuova moneta, il
Dinaro, l’ateismo comunista divenne legge, venne soppressa la proprietà privata, le fabbriche
divennero cooperative, i salari furono livellati, parificando gli ingegneri agli operai. Nel frattempo, i
tribunali militari giudicavano e condannavano i reazionari che non si adeguavano al nuovo regime:
centinaia di persone erano morte o scomparse per mano dei nuovi liberatori. La popolazione era
impaurita, non aveva più fiducia in un ritorno all’Italia, né tanto meno in una Fiume Stato Libero,
temeva il regime comunista e il cambio di nazionalità. Con il trattato di Parigi del 10 febbraio1947,
i territori giuliano-dalmati, ivi inclusa Fiume, venivano ceduti alla Jugoslavia e la “Pulizia Etnica”,
già iniziata nel 1945, provocò l’esodo della maggioranza della popolazione, che si sentiva italiana e
non voleva diventare croata. Si stima che abbandonarono le loro terre di origine dalle 250.000 alle
350.000 persone. Tuttavia, una piccola minoranza di italiani, tra cui la mia famiglia, non aveva
voluto abbandonare le proprie case e la propria amata terra, sottomettendosi al nuovo regime ed
assistendo così all’arrivo di serbi e croati che andavano ad occupare le case dei profughi. Fiume
aveva mutato il nome in Rijeka e l’unica lingua ammessa era quella croata. In questo contesto, lo
zio Miro era stato costretto, suo malgrado, a smettere l’abito talare e allora, anziché curare le anime,
aveva deciso di dedicarsi alla cura dei corpi, divenendo in seguito medico condotto».

Mentre mia madre terminava così il suo racconto, io mi soffermavo ad immaginare come avrebbe
potuto essere, a guerra finita, il corso della vita per le due famiglie, quella di mia madre e quella di
mio padre, ma non solo le loro, anche quelle di tutti i fiumani, gli istriani, i dalmati, se, con il
trattato di pace, i vincitori alleati e gli sconfitti, tra cui l’Italia, non avessero concordato di cedere
quelle terre alla Jugoslavia. Nessuno di loro sarebbe stato costretto a fuggire, abbandonando la
propria casa, depredato di ogni avere e spesso accolto con ostilità dai propri connazionali. Da allora
sono trascorsi più di settanta anni ed il numero dei protagonisti ancora in vita, in Italia o all’estero, è
sempre più esiguo, ma occorre mantenere e tramandare alle nuove generazioni la memoria delle
loro sofferenze e delle ingiustizie subite. A questo scopo è stata istituita come giornata del ricordo
la fatidica data del 10 febbraio, celebrata ogni anno. E a questo scopo mi auguro possa essere utile
anche questo mio piccolo racconto, legato ai ricordi della mia famiglia originaria di Fiume e
scaturito grazie ad un vecchio libro ritrovato in cantina, con una stupenda copertina blu, raffigurante
una notte di luna piena.

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