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RAZIONALITÀ E TEMPO IN ECONOMIA

Molteplici sono i fili che possono essere seguiti per rintracciare svolte e continuità del
discorso economico. Ne proponiamo due abitualmente poco frequentati: il concetto di
razionalità e quello di tempo.

La razionalità come criterio interpetativo dell'azione non è un assunto originario della


indagine economica.
Adam Smith muove dall'ipotesi che sono passioni e sentimenti, e non il calcolo
razionale, a guidare i comportamenti umani. Questa tesi si può meglio intendere se
ricordiamo che, prima che economista, Smith è un filosofo accademico,
rappresenta.nte della "filosofia morale" inglese del XVIII^ secolo, ed allievo di Hut-
cheson; la sua necessità è dimostrare che la società è ordinata secondo un Piano
Divino che massimizza la felicità umana attraverso l'intrecciarsi di quei "sentimenti
morali". La ricerca in campo economico di Smith rappresenta una sorta di
"dimostrazione" di questa tesi: l'intreccio tra la naturale propensione allo scambio e il
dediderio egoistico di accaparramento dà luogo, in un sistema di concorrenza, alla
crescita del benessere sociale, come se i comportamenti degli individui fossero
guidati da una sorta di mano invisibile.
La razionalità dunque esiste, ma è inintenzionale: ad essere "razionale" e preordinata
ad uno scopo è la società, che è da considerare dunque un sistema, "un'immensa
macchina, i cui movimenti regolari ed armoniosi producono innumerevoli effetti piace-
voli" . L' Economia Politica tende a presentarsi come "scienza" proprio nella misura in
cui tenta di trasferire il meccanicismo newtoniano nello studio dei comportamenti
sociali.
Questo concetto di razionalità, che tende a conciliare l'elogio della capacità
cibernetica di autoregolamentazione della "società civile" con una interpretazione
culturalistica e non finalistica dell'azione individuale, ha comunque un contenuto che
possiede i caratteri dell'oggettività e della misurabilità. Il benessere, la "richezza delle
nazioni" è infatti il risultato del funzionamento della macchina sociale. Il sovrappiù
diventa la grandezza chiave dell'analisi economica, e la stessa "teoria del valore"
appare come una costruzione analitica funzionale alla sua coerente definizione.
Per questa stessa ragione l'analisi degli economisti classici è per sua natura
dinamica. Essa assume infatti la crescita come problema fondamentale del sistema,
e le grandezze del discorso economico sono sempre implicitamente denotate da un
indice temporale. Si tratta di un tempo lineare, che procede illuministicamente nel
senso del progresso, attraverso l' accumulazione lo sviluppo della divisione del
lavoro, che producono la crescita generale della "prosperità".

Anche per Marx non è l'individuo, in ultima istanza, l'attore del processo sociale. Il
"senso" dei comportamenti soggettivi è inintenzionale: gli individui agiscono in quanto
inseriti in strutture (materiali, sociali, culturali), e sono queste gli oggetti dell'analisi: le
classi sociali ed il sistema.
Pur avendo in comune con i classici questa visione olistica della società, il giudizio di
Marx sul funzionamento della "macchina" economica è molto più critico. L'elemento
dominante è quello della contraddizione: non come semplice "conflitto" tra gruppi

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sociali (questo era già presente in Smith e Ricardo), ma come compresenza e
tensione tra due finalità del processo sociale. Marx contrappone ad esempio una
circolazione "mercantile" dove la merce (cioè il suo consumo) è il fine dello scambio
e il denaro un semplice intermediario, ad una circolazione "capitalistica" dove il
denaro (capitale) diventa lo scopo dell'attività economica; distingue poi tra la
"riproduzione semplice" del sistema (la capacità di questo di ricostituire le proprie
condizioni di esistenza e garantire il consumo sociale) e la "riproduzione allargata"
(dominata dall'accumulazione); e contrappone il concetto di lavoro come attività
autodiretta e socialmente integrata a quello di "lavoro estraniato" e di "forza-lavoro"
ridotta a merce.
La "razionalità" del mercato capitalistico appare così a Marx come una lacerazione,
un'inversione rispetto ad una condizione naturale (o utopica) di armonica
corrispondenza tra bisogni e produzione, tra lavoro e proprietà, tra individuo e
società.
Anche in Marx la dimensione temporale è fondamentale, ma ad un livello differente
rispetto ai classici: nella sua teoria è centrale non tanto l'idea della crescita
cumulativa del prodotto sociale quanto la dinamica delle strutture e l'analisi dei
momenti di rottura (il passaggio da un "modo di produzione" ad un altro) prodotti
dalla tensione, dallo svolgimento delle contraddizioni del sistema. Il "tempo" è cioè in
Marx un processo irreversibile e dialettico.

Un secolo dopo la pubblicazione di "The Wealth Of Nations", la rivoluzione


marginalista produce un radicale cambiamento di prospettiva, pur preservando un
giudizio positivo sull'organizzazione capitalistico-liberistica del sistema economico.
Nel saggio "Sulla natura e il significato della scienza economica" di Lionel Robbins
del 1932, vero manifesto metodologico del pensiero marginalistico, l'economia viene
definita come "la scienza che studia la condotta umana come una relazione tra scopi
e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi". La razionalità viene assunta
esplicitamente come criterio esplicativo del comportamento del singolo soggetto
economico. Questo implica una serie di conseguenze concettuali, che si impongono
da quel momento come caratteri dominanti dello sviluppo del pensiero economico.
1. Anzitutto, ad una visione olistica si sostituisce un approccio definibile come
individualismo metodologico. Non più il sistema ma l'individuo è il punto di
partenza dell'indagine. Il sistema economico raggiunge certi obiettivi non
"nonostante" i progetti individuali, ma in quanto è composto di individui "razionali":
sono costoro ad essere concepiti come macchina.
2. L'ottimizzazione è vista come una strategia che riguarda non più solo
l'imprenditore che organizza la produzione ma qualunque soggetto e qualunque
campo di scelta: il consumatore nell'utilizzazione del proprio reddito, il lavoratore
nell'erogazione delle sue energie. Produzione, distribuzione e consumo vengono
unificati sotto un'unica ipotesi teorica.
3. Il mercato assume l'aspetto di un meccanismo onnisciente ed implacabile nella
selezione di ciò che è efficiente. Esso d'altro canto non fa che fornire indicazioni e
condizioni al soggetto, il quale poi sceglie liberamente sulla base della propria
valutazione dei "costi e benefici" dell'azione. Il problema del conflitto scompare,
per lasciar posto ad una sorta di equità meritocratica.

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4. L'ampliamento del campo di applicazione del criterio di razionalità comporta un
parallelo svuotamento del concetto. La razionalità è infatti concepita come
"organizzazione efficiente dei mezzi rispetto ai fini"; ma i fini sono indifferenti,
insindacabili e non indagabili dall'economista. Ciò appare evidente su due piani.
Da un lato il concetto di costo perde ogni significato "oggettivo" (costo di
produzione come misura del consumo di risorse) e risulta ammissibile solo come
costo-opportunità (il "valore" di qualcosa consiste unicamente nel fatto che si
rinuncia a qualcos'altro). Dall'altro lato, l'utilità che si configurerebbe come lo
scopo del processo economico è soggettivizzata al massimo, così da non poter
piuù esistere come grandezza misurabile e confrontabile: non posso dire "quanto
desidero" qualcosa, ma solo "quanto lo preferisco" a qualcos'altro. Vilfredo Pareto
è allora costretto a dimostrare che esistono infinite ed incommensurabili situazioni
di "ottima allocazione" delle risorse sociali, a seconda della struttura della
distribuzione delle risorse da cui si parte. Solo l'efficienza e non la prosperità
appare valutabile: la ricerca di una garanzia di avalutatività per i propri strumenti
analitici porta così l'economia ad autolimitare la significatività sociale delle proprie
affermazioni.
5. L'accento viene posto sulla allocazione efficiente di risorse date e non
sull'accrescimento di dotazione di tali risorse. Questo significa non solo che il
concetto di "sovrappiù" viene rigettato in base al postulato della scarsità dei mezzi,
ma, soprattutto, che i problemi della crescita e dello sviluppo vengono accantonati
dagli economisti neoclassici e che l'analisi diventa statica, uniperiodale. Anche
l'"allocazione intertemporale" (ad esempio la decisione di risparmiare) viene
affrontata come problema di scelta in condizioni di certezza (il futuro è considerato
noto.

Il paradigma neoclassico è ancora oggi dominante. E' però vero che consistenti
progressi nella conoscenza del funzionamento del sistema economico hanno potuto
aver luogo solo quando si è provato ad abbandonare l'orizzonte statico ed il rigido
concetto di "comportamento ottimizzante" elaborato dal pensiero neoclassico.
Richiamiamo alcuni di questi filoni di ricerca "divergenti".
1. Il modello neoclassico considera solo "mercati di concorrenza perfetta" (cioè
formati da operatori la cui dimensione economica è irrilevante rispetto al mercato,
e quindi con identico potere contrattuale) e intende le "imprese" come semplici
meccanismi di decisione. Nella realtà appare sempre più rilevante il ruolo delle
grandi imprese e la prevalenza di mercati imperfetti. Tutti i tentativi di elaborare
modelli teorici adeguati a queste realtà hanno portato a postulare criteri di
comportamento non ottimizzanti (gli studi di Bearle-Means sulle garndi
"corporations") o indeterminati (l'applicazione della "teoria dei giochi" da parte di
von Neumann per spiegare il comportamento degli oligopoli, o il modello di Sylos
Labini). Gli studi sulle organizzazioni e sulle proprietà dei sistemi socio-tecnici
hanno mostrato poi la rilevanza di concetti meno rigidi di "razionalità" (come la "ra-
zionalità debole" di H.A.Simon o l'"efficienza-x" di T.C.Koopmans). Al valore critico
di queste indagini non corrisponde però la capacità di porsi come modelli di base
alternativi sufficientemente generali.

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2. L'unico economista ad aver elaborato (fuori dal filone marxista) una vera "teoria
della crescita", intesa come fenomeno basilare e peculiare dell'organizzazione
capitalistica dell'economia è stato J.A.Schumpeter. Al centro della sua teoria è
l'idea che lo sviluppo consiste nell'innovazione, e che questa è un atto creativo
dell'imprenditore (e spiega/giustifica il suo profitto). Ciò che realmente conta
nell'evoluzione dei sistemi economici non è insomma il frutto di una scelta
"razionale" ma di una scommessa, di un'apertura verso il futuro. Il tempo è
chiamato in causa, nella visione di Schumpeter, nei due aspetti di un "flusso circo-
lare" autoperpetuantesi e di una serie di rotture; e questo sembra suggerire che
una teoria del cambiamento è incompatibile con un'analisi statica
dell'organizzazione razionale.
3. Dalla fine degli anni '30 l'opera di J.M.Keynes ha influenzato profondamente le
scelte e l'atteggiamento dei governi nei confronti dell'economia. Nella sua teoria gli
investimenti hanno un ruolo centrale quali determinanti del livello di attività del
sistema economico. Ora, questa decisione di spesa, per se motivata dall'obiettivo
della massimizzazione del profitto, non è basata su un calcolo razionale ma sulle
aspettative degli imprenditori rispetto ai valori futuri dei prezzi, della domanda, ecc.
Keynes arriva a dire che questo momento fondamentale della vita economica è
governato da una sorta di animal spirits. Anche in Keynes, il tempo assolve
dunque una funzione cruciale: quella di introdurre l'incertezza e porre in crisi la
possibilità del "calcolo economico razionale". Ciò appare evidente nello sviluppo di
"modelli di sviluppo keynesiani" (Harrod, Pasinetti, Robinson), nei quali le decisioni
di investim,ento, nella misura in cui determinano contemporaneamente il livello
attuale della domanda e quello della caspacità produttiva futura, diventano fonte di
instabilità.

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