Giorgio De Chirico identificava la sua pittura come un processo legato all’inquietudine e il procedere pittorico serviva ad avvicinare una verità sconosciuta e nascosta: qualcosa che andava oltre le immagini condivise. Un ricorso a un’ispirazione poetica generata da “muse inquietanti”, che si trasforma in atmosfera immaginaria, capace di sollevare ansia e trepidazione, sconvolgimento e incertezza nello spettatore; nulla è animato o sensato, perché isolato nel suo vuoto con il risultato di offrire un’immagine “mentale” che si relaziona al mondo delle idee, più vicino al sogno che non a quello dell’esistenza concreta; l’anno del suo dipinto “Le Muse inquietanti” è il 1917 e la sua ricerca di motivi inquietanti non trova radici nel reale, ma nel concettuale. Passati cento anni, le immagini che possono inquietare sono altre e non appartengono più alla pittura o alla scultura, ma a tutti i linguaggi del vedere e del percepire. Sul piano della loro visibilità la rappresentazione ha lasciato campo alla “presentazione”, vale a dire al tentativo di documentare in tempo reale le cose e gli eventi, riducendo al massimo il valore espressivo del “sensore”. Le immagini sono diventate squarci di un mondo in cui l’invisibile si fa sempre più visibile e presente: una costellazione di affacci sugli spettri che agitano l’individuo: immagini inquietanti. La trasmissione delle informazioni quanto delle conoscenze, ha portato ad una duplicità dell’inquietante: da una parte la strada percorsa dalle espressioni artistiche, impegnate nella costruzione di un’utopia, ma sempre più destinate a una cultura del “decoro” che ne ha vanificato la radicalità del pensiero. Dall’altra la decifrazione di un esercizio delle immagini quale specchio dell’esistente, dove la percezione del reale si affida sempre di più a “registratori” e a “rilevatori” tecnologici, che imitano o riprendono il reale passivamente e senza alcuna prospettiva. Il rapporto stabilito tra arti e tecniche viene a essere capovolto, per cui l’esercizio di critica che trovava nell’arte una ragione si socializza e diventa professione; è la tecnica a farsi “politica”: socializza l’informazione e il carattere oppositivo delle idee e dei comportamenti e arriva a “denunciare” l’esistente che non riesce più ad essere occultato. La storia della “cultura delle immagini” non va letta dalla prospettiva dell’arte, ma dei media, perché sono questi a creare gli effetti atti a rivelare il rimorso e la censura, quanto a stabilire una solidarietà e un legame veramente universale, interno ed essenziale allo sviluppo del conoscere. La funzione dell’arte è praticamente compromessa dai suoi fondamenti “astratti” e “teorici” che la destinano ad essere sempre più monopolio di gruppi di potere e di istituzioni che la conformano a contenuti tradizionali e industriali. Si potrebbe affermare che proprio al tempo di De Chirico e delle sue muse la presentazione dell’insensato passasse piuttosto attraverso la fotografia, bidimensionale come la pittura, che era capace di aprire lo sguardo sull’enigma e sulla nebulosità del mondo. Il potere dei nuovi media permette un nuovo rapporto informativo che trova varchi di trasformazione nell’ambito del sociale controllato dalle strutture “globalizzanti”. È in relazione a questa mondializzazione che nascono l’idea e l’occasione di documentare i doppi fotografici che oggi possono creare turbamento e ansia. Un assordante silenzio Sul piano delle ricognizioni sull’inquietante la fotografia produce i primi documenti di un immaginario che tende a far emergere il rimosso e l’occulto intorno a metà Ottocento: riguardano le vicende della guerra e del sesso. In entrambi si avventura alla ricerca di una tensione visuale che suscita insieme stupore e angoscia, perché riguarda l’esperienza penosa o piacevole, mettendone in evidenza il negativo. Tra il 1853 e il 1856 cominciano infatti ad apparire i resoconti fotografici sulla Guerra di Crimea, seguiti dalle testimonianze sulla Guerra civile americana, quanto a essere tradotte in immagini le scene erotiche e pornografiche, quasi che i fotografi fossero interessati a documentare il corpo che passavo allo stesso tempo dal tragico all’osceno e viceversa. La tensione delle immagini di guerra, dove si accumulano le figure umane di soldati e di civili in un paesaggio quasi sempre desolato e distrutto, assume rilevanza a partire dai documenti prodotti in occasione della Prima Guerra mondiale, quando i medici militari registrano le ferite e gli strazi dei corpi dei combattenti. Tale materiale è inizialmente anonimo e raccolto per ragioni scientifiche, ma nel corso degli anni Venti esso viene pubblicato. In particolare è la Guerra civile spagnola, tra il 36 e il 39, a ricevere un’ampia documentazione portando le fotografie di scontri e devastazioni degli eserciti nemici sulle pagine dei giornali di tutta Europa. In generale, queste testimonianze fotografiche tendono piuttosto ad un muto operare, che trova drammaticità nella presenza “insensata” dell’evento. Di fatto risultano testimonianze “reali” e la fotografia le rende capaci di dar conto ad una situazione senza deformarla o trasformarla. Un esempio è dato dalla catastrofe delle torri del World Trade Center, l’11 settembre 2001 a New York, dove i testimoni di tale evento sono riusciti, mediante le macchine da ripresa, a comunicare il vissuto; le immagini hanno fornito un documento incredibile di un’apocalisse urbana, che ha comportato la morte di migliaia di persone. I testimoni-fotografi hanno intuito, nel tempo, che la singola immagine non riusciva a raccontare né a comunicare la sequenza ininterrotta delle innumerevoli miserie e tragedie perché troppo astratta e selettiva e ne semplificava la ripetitività. Le tragedie, invece, continuano all’infinito e si ripetono, come un film che passa a ripassa sullo stesso schermo; tuttavia lo sguardo penetrante può sollecitare effetti sinistri e inquietanti anche nella sequenza di stacchi fotografici e di immagini singole. Il sorgere di una fotografia che non imita, ma appare e diventa irritante, è un dono alla conoscenza del mondo che possiede una forte carica di autenticità, utile a destare quell’inquietante e quell’insicurezza che fanno pensare e spesso reagire. Reazioni “altre” La storia fotografica degli orrori della guerra nasce, a metà Ottocento, in parallelo con la storia dei piaceri carnali che nel corso del tempo hanno messo in discussione la spiritualità dell’essere umano e hanno offerto una lettura più perversa. E se la guerra è una violazione dei rapporti tra esseri umani, non deve stupire che il travalicamento dei limiti delle relazioni tra persona a persona, sia un soggetto capace di attirare lo sguardo del fotografo. Come i documenti di guerra si impongono sul tabù della repressione informativa, anche le immagini di sesso si articolano focalizzandosi sull’immaginario erotico, prima passando attraverso le riprese per mano di centinaia di anonimi e poi attraverso le sofisticate visioni reali e irreali di nudi. A partire dagli anni Settanta la messa in evidenza di un relazionarsi “altro”, attraverso il corpo e gli oggetti, i risultati erotici e i comportamenti sessuali, normali o inusuali, acquista un impatto comunicativo. Le passioni che riguardano gli adulti non possono essere proibite e la creazione di combinazioni, di intrecci e di generi non significa violenza o eccesso, ma un rovesciamento di certi valori per una diversa alchimia delle relazioni. La dimensione immaginaria, a partire dagli anni Settanta/Ottanta, con la loro attenzione al sadomachismo, alla necrofilia e l’esaltazione del corpo afroamericano, arriva a espandersi nel voyerismo di Kohei Yoshiyuki. Le sue riprese di coppie di guardoni nei parchi di Tokyo sono visioni di un piacere e una ricerca erotica di un desiderio tra pubblico e privato; un personaggio umano che vive di emozioni “nascoste”. L’universo delle relazioni “altre” vive molto sulle mescolanze inedite, perché le tentazioni umane tendono a creare un nuovo territorio dell’esperire che si basa sulla volontà personale e unica di differenziarsi. La volontà d’ibridazione può portare alla sfida della natura e alla relazione febbrile con un oggetto, incarnazione dell’altro, fino a convivere emozionalmente ed eroticamente con esso. È quanto testimoniato dalle immagini scattate da Elena Dorfman che riguardano la relazione amorosa e sessuale del maschile con un femminile sintetico, realizzato in morbido silicone, capace di dare fattezze realisticamente umane: bambole perfette, corpi d’amore che soddisfano una relazione quasi magica, dove la situazione del dialogo e dell’esistenza vive di passività e di mutismo assoluti. In questa prospettiva possono anche rientrare gli abusi domestici documentati da Donna Ferrato in America, dove la negazione della donna si traduce in una vittoria della violenza, legata all’uso di droga e abusi emotivi; un saggio fotografico che coinvolge anche i figli e gli innocenti, dove la degradazione del rapporto maschile e femminile è estrema. Paragonata a queste scene familiari, l’orgia di massa, ripresa dalla stessa Ferrato, risulta una gigante manifestazione del piacere felice. Distruzioni Nal Goldin racconta, nelle sue immagini vertiginose e allarmanti, una narrazione di sé e delle proprie relazioni, spinte a una perdita del sé e a un’erranza emotiva che non trovano mai un soggetto stabile e sicuro che non sia la morte; una continua ripetizione di scene di interni, di rapporti sessuali brutali, una fotografia della distruzione. Una simile comunità si vede raffigurata nelle immagini di Brian Weil di altre esistenze, quelle segnate dall’epidemia dell’AIDS che li ha portati a sofferenze disumane, quando attraverso la conoscenza e l’educazione al “sesso sicuro”, affiancate dallo studio e dalla produzione di medicinali adatti, tutto questo poteva essere, se non risolto, almeno lenito. È la stessa condizione esistenziale di quanti, facendo ricorso alla cocaina, si bruciano in un’estati che si lega alla degradazione della propria esistenza. Eugene Richards non solo riprende lo smarrimento di ogni senso umano delle persone dedite a questa droga, ma lo inquadra nel contesto di un’umanità urbana che è distrutta e ridotta a macerie; tutti gli esseri posseduti dalla cocaina sembrano infatti passati attraverso un incenerimento della qualità della vita. Sono gli stessi fantasmi ripresi da Zalmai, che testimoniano però i combattenti per la droga in Afghanistan, i contadini e i contrabbandieri di oppio, anch’essi dediti al consumo; un mondo di immagini notturne dei soldati inglesi che perlustrano lo stesso territorio al fine di estirpare il traffico della droga. La mancanza di rispetto dell’identità sessuale ha spinto Stephanie Sinclair a mettere in evidenza gli stravolgimenti condotti sulle bambine e sulle donne; le manipolazioni, attuate in Indonesia, dell’apparato sessuale delle adolescenti, si accompagnano, nelle sue immagini, ad altre mutilazioni, quelle che le donne con il fuoco si autoinfliggono perché non hanno alcuna speranza di vita rispetto alla brutalità e agli abusi del marito e della società maschile e patriarcale che le opprime. I documenti fotografici di Philip Jones Griffiths sugli effetti collaterali dei defolianti come l’Agent Orange, il liquido con cui le truppe americane spruzzavano le foreste in Vietnam, sono documenti di carneficine indefinibili. Non meno drammatiche e tragiche sono le fotografie di Pieter Hugo, che attraverso la loro immissione in un contesto di distruzione, prodotto dalla discarica dei rifiuti elettronici, inquinanti e tossici, rivelano il male compiuto dall’industria contemporanea contro popolazioni inermi in Ghana. Lo sconcerto e l’insensatezza delle fotografie di Michael “Nick” Nichols sulle brutalità e gli esperimenti condotti sugli scimpanzé nelle foreste di tutto il mondo, è un capitolo vergognoso del comportamento dell’umano verso l’animale. Lo stesso si può dire delle immagini drammatiche di Richard Misrach che invitano a entrare nella “scena” del delitto: dopo aver ripreso gli acquitrini e le distese intorno alla base navale aerea di Fallon, in Nevada, ora il fotografo invita a salire sul palcoscenico di una nuova tragedia, quella delle materie inquinanti la vallata del Mississipi, che ha assunto il terribile nome di “Cancer Alley”. Inquietudini di vita Tutti gli spiazzamenti e le tragedie del vivere possono trasformarsi in conduttori di altre energie che vanno custodite ed esaltate. Molte immagini possono essere rilette come un’aspirazione potenziale di sopravvivenza e, nella loro tragicità, esse affermano la volontà di vivere e di abitare spazi e territori anche se distrutti. Quindi, le immagini dell’orrore e della brutalità possono diventare motivo per sollecitare il rifiuto dell’accanimento sulla persona, quanto della consistenza del vivere al procedere bruto della morte. Le immagini di Diane Arbus possono essere assunte come dichiarazione e testimonianza di una sensazione alternativa del vivere, quella che apre di continuo le porte dell’inquietudine. I suoi ritratti di danzatrici e giganti, di gemelli e di patrioti, di nani e di nudisti, di fanciulli affetti dalla sindrome di Down e di giocolieri del circo, appaiono come manifestazioni di “stili” di esistenza che partecipano a trasformare il panorama visivo e comportamentale. Tuttavia tale opera di “esaltazione” è caduta nell’interdetto, si è tentato di isolarla e di rimuoverla con l’accusa di una “violazione” delle differenze corporali; la si è gettata nel territorio del ripugnante forse perché costituiva un vero tormento per lo sguardo sociale. Per molti, impreparati all’omaggio d’amore per qualsiasi essere umano, l’inquietudine può riguardare l’amore normale di una madre per le figlie, ritratte naturalmente nude nel periodo estivo, come è avvenuto nelle reazioni irrazionali alle immagini di Sally Mann, che rende omaggio al corpo del marito e non disdegna di documentare le metamorfosi dei corpi in stato di decadimento; una contrapposizione tra l’amata vita e la repellente morte. I percorsi di vita sono spesso complessi e ricchi di esperienze, va ricordata la perseveranza di Mary Ellen Mark nel seguire, documentandola in immagini, la vita di Erin Charles, conosciuta quando aveva tredici anni e ritratta fino alla sua maturità, quella di quarantatreenne che ha concepito, con diversi uomini, dieci figli; un’ossessione che in questo progetto sembra interessare la mostruosità del riprodursi. JOEL PETER WITKIN Una perversione virtuosa Le fotografie di Witkin sembrano muoversi nell’universo del perverso e del sacrilegio, perché toccano tutto ciò che è tabù, proibito e consacrato; attingono dal normale e dal diverso, cosicché le immagini subiscano una sorta di chirurgia diabolica dove il sacro e il profano, il femminile e il maschile si dissolvono e si trasformano, si intrecciano e creano una hybris e una mescolanza proibite. L’artista di mette al posto della divinità per dare vita ad una nuova società. Affronta le proibizioni che si basano sul principio di separazione dei sessi e delle credenze per produrre dei tableaux fotografici, in cui convivono freaks e donne incinte, transessuali e animali, nani e scheletri, feti e crani sezionati che, combaciandosi con oggetti e nature, scenografie e fondali, danno origine a un universo estremo. Tuttavia il capovolgimento non va inteso solo nel senso della deviazione, ma anche della trasformazione e dell’iniziazione che tendono a permettere il ritorno a uno stadio primitivo, in cui le coesistenze erano possibili. Tramite la fotografia aspira all’atto supremo di rigenerare una situazione primordiale, in cui tutte le metamorfosi convivono, ogni trasformazione e ogni visione sono possibili. Si inventa un suo universo, seppur illusorio e fantastico dove sono abolite le conflittualità e le rimozioni; progetta un paesaggio di soggetti proibiti, lo disegna e lo concretizza, avvicinandosi all’intensità e all’energia perversa dell’arte. Tramite la fattualità scenica della storia, libera i fantasmi della pre-vita e della post-mortem, trasferendoli sulla scena di una visione oggettiva, in cui lo specchio immaginario dell’arte lascia posto al realismo della fotografia. Soltanto che la trasgressione del “crimine fantastico” nelle sue fotografie, per eccesso di verità, diventa “crimine oggettivo”, poiché la perversione e il desiderio dell’artista si tramutano in realtà; l’apparizione e la rivelazione immaginaria si affidano all’incesto tra essere umano e animali, all’hybris del transessuale e dell’eunuco, alla condizione perversa del sadomachista e al delirio della visione sconvolgente dei freaks, dei cadaveri e dei feti. Tale estremizzazione si basa su una forte identità tra l’immaginario e il divino, che deriva a Witkin da un’educazione ebraica da parte di padre e di fede cristiana da parte di madre; egli aspira a sviluppare l’alto contenuto spirituale della sua visione, quasi la fotografia fosse una soglia attraverso cui il “sacro” entra nel mondo sensibile e reale. La raffigurazione fotografica è per lui un’incarnazione e una rivelazione di un transito tra materiale e immateriale, tra bene e male, tra vita e morte, tra sacro e profano; quasi una manifestazione di teologia visuale che mette in contatto il modno invisibile con il mondo visibile. Witkin usa la fotografia come un’interfaccia tra due sensibilità agli antipodi: quella terrena e carnale del paesaggio sensuale e quella della diafana e immateriale del numinoso e dello spirituale; ne tenta la congiunzione e la mescolanza. E siccome è mediante le immagini che l’artista vuole far vedere una realtà sconosciuta, l’attitudine nell’uso del linguaggio fotografico rispetto al mondo reale diventa cruciale per intendere come l’immaginazione si trasformi in ricerca di emozione sacrale. La fotografia ha inizio proprio dallo spaesamento e dallo stupore dinanzi all’esistente e Witkin fornisce un’immagine fotografica che è reale, ma di una realtà interamente subordinata al suo immaginario. La fotografia diventa uno strumento di fissaggio per le immagini che passano spontaneamente nella coscienza e nella memoria, favorisce il naturale entusiasmo verso la bellezza del creato, tramuta un’esperienza interiore in esteriore. Witkin pensò che gran parte del mondo fosse brutto e al suo posto voleva creare uno spazio, prendere il meglio di ciò che aveva visto e mettervelo dentro. In questo modo poteva usare cose già esistenti da progettare, sistemare e rifare; il desiderio della sua vita era quello di essere collegato ad un luogo che non possiamo conoscere ma dove speriamo di andare e di restare. In Witkin la pelle, luogo delle manifestazioni incontrollabili dell’esistenza, territorio di erotismo quanto di necrofilia, è una soglia di scambio tra dentro e fuori, tra calma e violenza; per questo essa è a sua volta solcata da graffi e da marchiature. Il viaggio iniziatico Sin dall’inizio, la vita di Witkin viene condotta in un tunnel feroce e orrifico; sin da bambino, a sei anni, entra in una dimensione esperienziale che lo carica di allucinazioni apocalittiche. Racconta di un incidente che aveva coinvolto tre automobili cariche di famiglie e ad un certo punto vide rotolare fuori da un’auto capovolta qualcosa che si fermò ai suoi piedi: era la testa di una bambina; questa esperienza è stata la prima rimasta consciamente nella sua memoria. Witkin nasce a Brooklyn nel 1939, in una famiglia composta da una madre napoletana e cattolica e da un padre russo ed ebreo. Cresciuto nell’indigenza dopo il divorzio dovuto al contrasto religioso dei genitori, va a vivere a Greenpoint con la madre, il fratello gemello e la sorella. Nel 1955 compra una camera reflex Rolleicord con cui inizia a fotografare il suo universo esistenziale; una delle sue prime fotografie, “Coney Island Boy” del 1956, che ritrae un bambino con il volto offuscato dalla luce, dimostra il precoce interesse di Witkin per la maschera quale apparato simbolico per comprendere la personalità del soggetto. Una delle preoccupazioni iniziali di Witkin è di documentare la “rivelazione” di Dio; sempre negli anni Cinquanta, dopo aver letto sul “New York Daily News” che un rabbino aveva dichiarato di aver visto e parlato con Dio, si reca nella sinagoga con la speranza di ottenere il ritratto di un essere illuminato. Invece non vide Dio nel rabbino né percepì la sua presenza nella stanza; decise comunque di fotografare quell’uomo perchè ,se anche non era riuscito a vedere ciò che si aspettava, aveva la speranza che la fotografia l’avrebbe rivelato. Sollecitato dalla madre, si appassiona d’arte e di fotografia; invitato dal fratello che cerca soggetti inusuali per i suoi dipinti, va a documentare i freaks di Coney Island, si reca a fotografare le attrazioni da luna park: Lantini, l’uomo dalle tre gambe, una donna chiamata “The Chicken Lady” e un ermafrodita con cui ha la prima esperienza sessuale. Queste immagini sono a colori, come “Untitled” 1956 che ritrae una donna con caratteristiche disfunzionali, vittima di deformazioni ossee e altre anomalie; una figura che è la prima testimonianza di un essere che può diventare oggetto di terrore, quanto di amore: un’immagine tra realtà e irrealtà, tra bizzarro e tragico. La raffigurazione di una tale condizione dell’essere è una conquista perché tende a presentare la vita dell’emarginato e del diverso, quale testimonianza di un’infinità dell’esistere, quello dell’estetico. Vede nei freaks un carattere eccezionale e straordinario, quello della infinita volontà di Dio; questi esseri sono la prova che illumina e rivela un possibile destino dell’umanità, tuttavia una riflessione fotografica della loro esistenza può suscitare violente reazioni, e la volontà di proteggere il pubblico dall’impatto di questa realtà. Le fotografie di Witkin sono e saranno destinate a suscitare aspri conflitti tra chi rivendica la liceità o meno di certe immagini che investono il rapporto tra perversione e morale, tra materia e spirito. In seguito all’attrazione per i freaks, si dedica a costruire figurazioni fantastiche e grottesche che ritraevano uomini col collo di struzzo o volto d’oca, provvisti di corna superflue o di protuberanze bizzarre, una sorta di ibridi; forse da qui scaturisce la sua incertezza e confusione tra reale e irreale. Witkin è sedotto dai supereroi e dalle supereroine, da Batman a Wonder Woman, esseri portentosi e nonsense esistenziali che funzionano da mostri mitici, non più esibiti in fiere, ma sulle pagine dei giornali e sullo schermo televisivo; diventano la prova attuale della forza secolare del divino, in tutte le sue manifestazioni dall’angelico al diabolico. Tra il 1958 e il 1960 entra alla Cooper Union School of Art e sotto l’insegnamento di Rubin Kavish apprende i primi rudimenti di scultura, che lo porteranno a realizzare oggetti surreali, basati su figure umane con particolari anatomici ampliati e deformati, come “Woman” 1970, dove una piccolissima testa sporge sopra una porzione di torso appoggiato su ruote che sorreggono un enorme seno. Nel 1961 si arruola nell’esercito, prima nel settore delle immagini via satellite e poi come combat photographer: il suo lavoro consisteva nel documentare le morti dovute a incidenti, manovre e suicidi. Terminato il servizio militare, ritorna alla Cooper Union e ottiene il diploma in scultura. Dal q972, dopo una serie di sculture sul tema del doppio sensuale e sessuale, rappresentato in piccole figure, maschili e femminili, quanto in fotografie di sfingi, il magma pulsionale della sua vita da bambino e da giovane diventa il soggetto dell’evocazione angelica e demoniaca di Cristo, ma anche dell’esaltazione del nudo femminile. Un esempio di questa attrazione per la dimensione ambigua, tra divino e sessuale, è “Rest After the Passion, New York City” 1973. Un giovane con il volto di Cristo siede su un tetto con accanto un altro uomo con il costume di Batman, simbolo del male e del nero, il re delle tenebre: le figure contrapposte della luce e dell’ombra. All’inizio l’artista non è interessato al martirio e alle torture carnali, quanto all’affrancamento degli opposti. In “Jesus and His Mother Mary: Photographed by Anonymous Galilean Photographer” 1974, in cui compaiono un bambino nudo con indosso una maschera con il volto di Cristo, e una figura femminile incappucciata da un copricapo a triangolo, la sessualità e l’umanità di Cristo si trascendono nella maschera, cosicché la sua condizione diventi veramente lo strumento di una trasformazione divina; la fotografia dovrebbe essere il mezzo per portare Dio sulla terra e di farlo esistere nelle fotografie. Le immagini di intersezione sono da ricercare nella serie “Image of Woman” dove la figura femminile è posta al centro dell’attenzione, ma sottoposta a un gioco di voyeurismo e di perversione. Passa dalla santificazione allo strazio della donna, la trasforma in animale mitico o la interra in catafalchi macabri; attraverso l’organo fotografico fa colare fluidi erotici, quanto secrezioni ripugnanti che testimoniano umori sublimi e degradanti; nella serie “Woman” ha messo la donna in bare, le incollava le foglie sul corpo, le faceva reagire a feticci fallici, le legava e le mascherava. L’urlo incontenibile dell’esistenza Nel 1975 Witkin lascia New York per frequentare i corsi di fotografia all’Università del New Mexico ad Albuquerque. Entra in un clima culturale, quello delle trasgressioni che impregnano la vita al Sud. Si appassiona ai riti crudeli delle culture indios e alimenta la sua attrazione per i freaks. Nel suo primo anno ad Albuquerque si mette alla ricerca di soggetti umani, il cui delirio di dolore o di sofferenza potesse essere rivelato fotograficamente. L’ipotesi è di registrare impressioni reali in tempo reale, piuttosto che le fantasie dei suoi modelli; arriva a farsi complice della loro “tortura” e del loro “delirio”, partecipando delle loro intossicazioni emotive, a un punto tale da giungere a immobilizzare al muro, con lacci e cinghie, un uomo affetto da claustrofobia o a immergersi nel vortice mentale di una donna, appena dimessa da un ospedale psichiatrico. Nelle sue immagini, la presenza di uno sfumato che attenua i contorni, corrisponde a un’osmosi tra carnalità, psichicità e spiritualità, quasi Witkin volesse affermare che i corpi sono luoghi di costellazioni mercurali, nel cui alone deve leggersi la proiezione dell’inconscio. Witkin si accorge di collocarsi nella dualità perversa quando in una immagine, “Los Angeles Death” 1976, ritrae, oltre al paesaggio di Los Angeles, il passaggio furtivo di una donna che entra improvvisamente in camera; la sua presenza lo disturbava, la donna era parte di un “incidente” che aveva creato e ne era anche “testimone”. Lo aveva visto nell’azione simbolica di infliggere dolore al suo oggetto, nel momento in cui cercava di strangolarlo e quindi l’oggetto diventa simbolo non solo dell’immagine, ma anche del suo sadismo. Da allora il negativo inizia ad essere ritoccato, graffiato e manomesso e questo intervento rivela al fotografo che le immagini sono possibili materiali di trapasso, per arrivare a un’altra carica espressiva. Nel 1976, nella fotografia che ritrae una figura seduta, con accanto un cane, cerca di attenuare il gelo dell’immagine ricorrendo durante lo sviluppo ad un filtro di tessuto. Il processo consiste nel porre un tessuto sottile sulla carta da sviluppo al fine di aumentare la rifrazione luminosa e rendere soffice e sfumata l’immagine; a volte durante lo sviluppo interviene con graffi, oppure con tonalità di giallo e di marrone. Tutti questi fattori mutano la rappresentazione, la rendono spettacolare e ogni volta cambia, perché gli effetti del tessuto e della sua maglia sono sempre diversi e unici; l’attitudine è di rifiutare la realtà per spingerla verso una tensione metafisica. Giocando con i materiali della fotografia, Witkin vuole “rifare” l’immagine, stravolgerla con la sua gestualità, cosicché i soggetti diventino “presenze” di una vita sconosciuta e se l’arte è il regno del doppio, Witkin non può fotografare solo la scorza della realtà, ma rivelarne l’interno. Lo stesso dicasi del corpo, superficie di una fragile barriera tra interno ed esterno, tra anima e sensi. In “Mexican Pin-up, New Mexico” 1975, ritrae il busto di una donna con il seno e i capezzoli trafitti da aghi, quasi volesse evidenziare che la superficie umana è una membrana, che al di là del suo limite pulsa un’altra vita. Le combinazioni fisiche e immaginarie tra corpo e oggetto richiamano alla memoria l’immagine surrealista e dadaista, dove il rapporto è usato per spostare l’orizzonte immaginario; gli oggetti si fanno padroni di senso e rivelano una finalità perversa. Witkin si muove nello stesso solco, utilizza le possibilità ignote delle associazioni tra soggetti e oggetti, che va dall’irrazionale all’onirico; cattura i fatti e i fenomeni e li manipola. Egli si riconosce nel soggetto e nell’oggetto, che diventano una captazione narcisistica della sua identità. L’itinerario e lo smembramento del soggetto che esprime la sua dinamica interiore passa anche attraverso il disegno e il collage, metodo di lavoro che l’artista adotta dal 1974. Seppure la sua visione abiti una dimensione bidimensionale, quella della fotografia, l’artista conduce i suoi spostamenti fantasmici nella pratica manuale dell’alterare e trasformare i corpi; e se nel collage è possibile manipolare, montare, incollare, lo stesso deve avvenire nella realtà. In “26 year old O.D., New Mexico” e “The Kiss, New Mexico”, porzioni di cadaveri, il torso di un giovane e la testa di un vecchio, vengono usati per inventare o riproporre un’immagine d’eccesso, il cui pervertimento porta a figure sorprendenti. L’artista poi si mette alla ricerca delle voci degli artisti scomparsi, degli immensi affreschi e delle grandi favole percorse dalla gigantesca aspirazione dell’arte; manipola stereotipi istituzionali, dalla Venus di Michelangelo e Botticelli, alle sfingi di Dalì; opera sulle somiglianze e sui riferimenti per sottolineare che l’arte ha sempre preso in considerazione l’indicibile e l’immostrabile e se non lo si riesce a trovare nella realtà, si può farlo succedere in qualche modo nella fotografia. Una metafisica della carne Tale ossessione a operare sempre sulla “medesima” scena del divino e del sorprendente, permette a Witkin di realizzare tableaux permanenti che mostrino quanto intende comunicare; insiste su un universo cosicché i personaggi prendano, e quindi vengano accettati, come anima e corpo reali. Anche se i suoi tableaux rappresentano una scena storica o mitologica, essi si ispirano alla realtà e ogni immagine è un prolungamento verso il quotidiano; ogni sua fotografia è uno strumento per sollecitare una partecipazione. In “Leo” 1976, la persona monca è mascherata e rinchiusa in una gabbia, quasi una prigione. La maschera e la struttura metallica sono complementari. L’essere guarda attraverso la maschera, perché è alla ricerca di un aldilà della sua esistenza. Siamo in un periodo in cui Witkin usa la maschera per affermare che gli esseri aspirano a una vita, desiderano essere “attori” di un universo diverso e sognato. In seguito la maschera cade e le deformazioni e le manifestazioni dell’esistenza accettano di presentarsi con il loro proprio volto, che è le “maschera” reale della loro vita. L’essere esprime energia, si accetta, non è più separato dal suo corpo, qualsiasi esso sia; si lascia fotografare quanto reincarnazione nell’immagine di Witkin. L’informe e il deforme vanno restituiti alla luce. In questo senso Witkin si muove insieme ad Arbus e a Robert Mapplethorpe per far sì che la nozione “crudeltà” non sia più avversa, ma si trasformi in un nocciolo conoscitivo. Tuto ciò che è tabù e proibito viene messo in discussione, le zone intermedie subiscono una metamorfosi e l’artista può riportare in scena un bambino morto, il suo feto, per ricreare una diversa “maternità” che è quella tragica, legata al sacrificio degli innocenti, quanto ricreare una nuova Madonna o una nuova Madre. La trasformazione dell’iconografia classica della maternità o della sacra Vergine non annienta né la tradizione, né la offende, ma porta a un’altra creazione, mentre la confusione dei sessi significa un universo non dissolto, ma allargato. Nel ricorso al feto si pongono per Witkin proiezioni personali, la paura di essere padre e non solo, il feto è altresì il segno di una morte precoce e gratuita, perciò arriva a simboleggiare la tragedia di un’altra guerra, quella degli innocenti che muoiono ogni istante sulla terra. L’artista ripete senza fine l’idea di una natura che vive sulla fusione e da questa trae energia, come l’angelo e la sfinge, per avvicinarsi alla divinità o almeno al suo enigma, e tali figurazioni si accompagnano quasi sempre alle figure della donna o del transessuale. L’angelo è mediatore tra universi opposti, vive una situazione bipolare, tra umano e animale, quanto tra umano e divino, perciò Witkin lo fa protagonista di molte fotografie; è soggetto protagonista in “Angel of the Carrots, New Mexico” 1981. La figura angelica abolisce l’universo della differenza e significa per Witkin una perversione virtuosa. Rappresenta poi, nelle sue immagini, le passioni che si basano su tutti i possibili doppi, il rapporto tra uomo e donna con animale, o i rapporti sadomasochisti; crea nuove combinazioni e nuove forme che arrivano a creare una nuova mitologia così da avvicinarsi al Demiurgo: l’artista quale angelo mediatore e comunicatore del verbo celeste. Il soggetto della dualità ritrova un linguaggio concreto in “Siamese Twins, New Mexico” 1988, in cui ricorre il tema dei gemelli indissociabili; la fusione del corpo tramite l’unione di due entità qui è estremizzata, intorno al perno della testa, quasi l’altrove cercato dovesse trovarsi, oltre che in un doppio universo fisico, anche mentale. Secondo la simbologia, i gemelli monocoriali sono uno divino e l’altro umano, possiedono il potere risultante da una doppia personalità. Secondo le credenze, la loro apparizione è portatrice di portenti, positivi e negativi; la credenza influenza anche lo stesso Witkin, gemello, che fantastica la sua nascita e quella del fratello come parte di una gravidanza triplice, in cui il terzo gemello si è trasformato in feto: una trinità. Nelle figure di Witkin troviamo il transessuale, la cui identità è legata al superamento della distinzione tra maschile e femminile; egli rovescia il concetto di bellezza e il dissolvimento e la trasgressione non stanno solo nel tramonto delle differenze, ma nella ricerca di un’eroticità “altra”, che arrivi a includere tutte le identità corporali e sessuali. Il transessuale, con la sua ambivalenza sessuale, è il più dotato per annunciare il divenire. Porta la sua compiutezza e la sua perfezione come massima bellezza, fuori dalle rigide barriere del pensiero collettivo, rappresentato dall’arte classica. Agli inferi della storia Il fatto che la trasgressione e la perversione siano accoglimento e riconoscimento di una nuova valutazione del sentire e del vedere, si personifica nelle fotografie di Witkin in cui compaiono soggetti quali i non vedenti, “Blind Woman with Her Blind Son, Nogales” 1989, quanto le persone affette da severe e mortali malattie. Anche l’immagine del Cristo o del sacrificio va sottoposta a un gesto di reinvenzione, per ampliarne la conoscenza, con l’immissione dell’oscuro e dell’incognito. In “Penitente, New Mexico” 1982 e in “Saviour of the Primates, New Mexico” 1982, Cristo si dà attraverso alter creature, quella umana e quella animale; Witkin assoggetta la figura della religiosità a quella dei penitentes messicani, che si fanno crocifiggere in occasione della Pasqua, quanto al sacrificio degli animali. È sempre un principio di natura spirituale a suggerire l’immagine, che passa sempre sotto l’imperativo della reintegrazione dei mostri oscuri della società. L’immersione nell’oscuro e nello sporco di un cadavere animale, o nell’estasi di un penitente, segnala un erotismo di andirivieni tra la vita e la morte. La discesa agli inferi si compie in “Laokoon, New Mexico” 1992 in cui le carcasse di primati avvolti dai serpenti vengono a sostituire la tensione muscolare e liberatoria dell’eroe greco. Questo rapporto con la morte e le sue carcasse vive su una forte coscienza storica, quella di un’operazione di teatralizzazione dell’esistente che affonda nella scenografia barocca. In particolare la necessità di spettacolarizzare il quotidiano, di esibirlo tramite scene che moltiplichino il significato inconscio e religioso, mediante il ricorso a figure e a corpi. La declinazione di un presente secondo un’iconografia storica è indice di una necessità dell’artista di inserire le scene e le allegorie dei suoi desideri e delle sue visioni in un corso unitario della storia, così da legittimarne il percorso e legarlo all’emancipazione intellettuale e culturale della società umana. Witkin usa la storia come strumento di sintonia iconica, quanto di legittimazione metafisico-storica; la storia testimonia il continuo formarsi di visioni dominate da figure di mostri divoratori e seduttori, pericolosi e affascinanti. Dice Witkin “Io credo che i miti greci offrano alla mentalità occidentale la possibilità di arrivare alle radici del divino”. In questo senso, la sua fotografia, seppur ribelle, è quasi riformistica poiché non stacca gli occhi dal modello, pittorico e scultoreo. Si rifà condizionando il soggetto e violentando il procedimento realistico tradizionale; non imita soltanto, ma crea cose e forme, graffia e segna il negativo o plasma i corpi dei soggetti con aggiunte di protuberanze plastiche. Witkin raffigura il passato, qualcosa che appartiene alla storia, ma al tempo stesso ritrae il presente, quanto succede ora e può ripetersi nel futuro. Racconta che nel 1990 si trovava in un ospedale di medicina legale del New Mexico, dove un medico lo condusse nei sotterranei e aprì i cassetti per mostrargli i corpi; aprì per sbaglio un altro cassetto in cui c’erano parti di corpi, braccia, gambe, orecchie, che si mescolavano a parti di bambini; disse a se stesso che era lì per quello e tornò il giorno dopo sapendo di poter fare una foto e la foto fu “Feast of Fools”. Ritraendo le spoglie mortali dell’essere umano in forma di natura morta, l’artista non vuole rinunciare al corpo e alla carne, ma non vuole che esse siano percepite secondo moti irragionevoli. L’insistenza sulle spoglie mortali e sui suoi frammenti evidenzia la condizione di assoluta irrelatività dell’esistenza e Witkin l’affronta con una poetica che considera la morte quale trapasso al soprannaturale, ma la vive anche quale evento al limite, chiusura dello sviluppo vitale; un’altra dualità; fotografa la morte perché è parte della vita, guarda alla morte perché pensa che vivere su questa terra è una parte dell’esistenza e la morte è l’altra parte. L’esercizio della fotografia non deve essere solo spirituale, ma configurarsi quale impegno e interpretazione della società; la rappresentazione della rappresentazione è un metodo per definire l’allegoria della vita, ma questa si concretizza solo attraverso personaggi e fatti realmente esistenti; è un linguaggio interamente fisico, che ha per vocaboli tutti gli oggetti visibili. Dolcezza, ferocia, intimità e violenza denotano il lessico immaginoso degli artisti visionari al cui discorso si ispira Witkin, quando cerca di esprimere le costellazioni del tragico e del simbolico, del misterioso e del surreale, del morboso e del perverso; immagini metafisiche, perturbanti ed enigmatiche, perché segnate dall’assenza dell’uomo quale soggetto; un’entità senza identità, un manichino che vive in un universo irrigidito e solitario; un’anomalia della vita come “Man without a Head” 1993: “Avevo chiesto che fosse tagliata la testa a un cadavere […] Un uomo morto senza testa, seduto su una sedia. Volevo fare la fotografia più triste che fosse mai stata fatta”. Movendosi tra sessualità e spiritualità, il corpo, per l’artista si fa involucro e membrana, è una scoria dell’esistenza dentro la quale si perdono il pensiero e l’anima. La sua vera esistenza è quella di essere una cerniera tra l’alto e il basso. Disse che non voleva solo scattare una foto, ma voleva onorare quell’uomo. Lo fece sollevare e mettere su una sedia, ma mentre lo mettevano seduto il sangue scorreva da varie parti. Una volta seduto cominciò a cadere e il sangue continuava a uscire e l’unico modo era tenerlo per le mani e farlo stare in equilibrio; così il morto stesso gli mostrò come doveva fotografarlo. Aveva le calze, ma non erano stati loro a mettergliele, ma poiché le indossava, significava che era ancora molto, molto vicino alla vita. I quadri di Velazquez sono portatori di suggerimenti iconografici sul piano registico e simbolico; Witkin si addossa le loro immagini e ne reinventa le grandiosità: “Las Meninas” di Velazquez ritorna in Witkin come autoritratto e autocitazione di un processo spirituale e soggettivo. La complessità narrativa del quadro è riproposta con riprese e sostituzioni; la presenza delle figure del re e della regina, permane, quasi volesse sottolineare una continuità regale, quanto l’accettazione della sua vicenda fotografica da parte della storia; l’infanta è sostituita da una donna con moncherini, sollevata da terra da una struttura con ruote e gli attendenti o i servitori dell’infanta sono sostituiti da una forma mostruosa. L’atteggiamento del fotografo nei riguardi del soggetto rivela come Witkin si senta privilegiato nel poter riprendere immagini sovrane. Las Meninas, è dedicata da Witkin alla Spagna. HILLA E BERND BECHER La tradizione di documentare il mondo meccanico e tecnico ha radici lontane. Nel rinascimento esistono già vere e proprie scuole di specialisti, capaci di produrre documenti iconografici di insiemi tecnico meccanici. In seguito, i secoli del Seicento e del Settecento, in Francia e in Inghilterra vedono fiorire di raccolte di documenti in cui si offrono quadri chiari e dettagliati degli elementi principali del soggetto meccanico; con l’avvento della rivoluzione industriale, questo interesse illustrativo diventa generale e si istituisce come maniera di comunicare e di informare. Alla fine del Settecento il panorama ambientale iniziava ad essere mutato e le immagini prodotte non sono più qualcosa di specialistico, ma attestano una mutazione della realtà ambientale. Così l’arte inizia a riprodurre anche il paesaggio industriale: nel 1779 appare la prima illustrazione del ponte di ferro di Coalbrookdale, un’immagine che non presenta alcun intervento fantastico e deformante dell’artista, ma riproduce fedelmente la mutazione tecnologica. L’adozione della fotografia come sistema “assente” di registrazione ha permesso al “testimone”, cioè l’artista, di evitare, nel documento, ogni componente espressionistica. L’atteggiamento anonimo concede all’osservatore di rivelare la realtà di un procedere razionale e concettuale e il massimo grado di indifferenza permette di sottolineare il massimo grado di decoratività del dato archeologico e del documento visuale, senza che il fotografo aggiunga alcuna carica decorativa e espressiva. Hilla e Bernd Becher, dal 1959, continuano la tradizione della documentazione sull’archeologia industriale, producendo insiemi fotografici illustranti i reperti industriali in Germania, Olanda, Belgio, Inghilterra, Francia, Stati Uniti e Lussemburgo. Per i Becher, documentare un reperto significa non solo registrarlo visualmente, ma anche appropriarsene e verificare il contesto e le fonti. Sono convinti che per spiegare il fenomeno dell’archeologia industriale sia necessario avere un modello operativo distaccato e impersonale, al fine di percepirne l’essenza. Le prime considerazioni dei Becher sono rivolte a stabilimenti e manufatti in grande scala, situati nella medesima area geografica con l’intento di evidenziare la tipologia territoriale. Dal 1963 hanno iniziato a raggruppare in composizioni multiple le fotografie scattate in un quartiere determinato e delimitato, così da verificare un insieme iconico locale; i soggetti includono la miniera di San Ferdinando, le case a graticcio e gli sviluppi industriali della Westfalia meridionale; nella sequenza, le scelte cadono su architetture che presentano affinità strutturali. Nel 1964-65 emerge un altro principio metodologico. È connesso alle scelte iconiche e si concentra su un unico soggetto: trivelle e cisterne d’acqua. Le fotografie sono presentate in sequenza libera, ma dal 1967 sono ricomposte in un sistema a traccia visiva che trasmette e dà al lavoro un significato e una precisione nuovi. Iniziano a operare e scattare sulla base di costanti, che posso essere la funzione, il materiale, un principio strutturale o un aspetto formale. Nel 1968 i Becher si impegnano a costruire combinazioni più complesse, connesse a costanti maggiormente diversificabili. Le associazioni visive delle stesse costruzioni offrono un sistema di lettura attraverso paragoni visivi che permettono ad artefatti apparentemente anonimi e banali, di essere considerati per le loro rilevanti differenze decorative e tipologiche. Le sequenze fotografiche dei Becher riguardano fondamentalmente i monumenti industriali, da loro definiti “sculture anonime”. L’operazione dei Becher esalta la condizione di compromesso fra tecniche costruttive identiche e tecniche decorative, per cui il risultato, nella stessa categoria di oggetti, è differente e pieno di contraddizioni. Così la famiglia dei silos, dei gasometri, delle cisterne d’acqua, delle trivelle e di altre strutture di medesima funzione, si dispone a formare un catalogo tipologico che include tutte le variazioni di forma e di materiale. Ogni componente viene illustrato di fronte, di lato, di taglio prospettico a seconda delle sue complessità. Le variazioni tipologiche generali possono essere raggruppate per corrispondenze formali o materiali. Avendo scelto soggetti anonimi, l’effetto che si crea e si stabilisce dinnanzi allo sguardo è qualcosa di simile a uno spartito, fatto di immagini industriali. GREGORY CREWDSON Intorno alla fine degli anni Settanta il linguaggio espressivo della fotografia cambia di segno. Dopo un secolo di realismo, in cui l’immagine riprodotta è dominata dall’oggettività, i fotografi tendono a mettere in discussione il referente esterno, per cercare un discorso che riguardi la loro posizione poetica e creativa; rappresentare la realtà anche nelle sue diramazioni immaginarie e fantastiche; entrano in scena l’irrealtà e la manipolazione del soggetto e la fotografia entra in un discorso funzionale con la psiche del soggetto, si relaziona al suo inconscio. La posta psicologica che si polarizza sull’individuo, con Gregory Crewdson appare attribuirle a una dimensione collettiva, a una massa in generale di persone o di ambienti. Le sue fotografie, seppur implicando una nozione di spazio immaginario, quello della middle America, sono l’estensione della sua soggettività, ma rispetto alle sue radici newyorkesi, l’artista si avvicina all’idea di un’unità familiare, analizzata in tutti i suoi aspetti di diversificazione ambientale. Ogni fotografia è il risultato di una costruzione complessa, poiché l’intera realizzazione comporta giorni e giorni di lavoro, quanto il ricorso a una sceneggiatura di oggetti e di eventi che portano alla identificazione di una scena silenziosa e misteriosa; l’insieme riflette quasi una situazione da set cinematografico, con luci aeree e artificiali. L’intero sistema è di fatto virtuale, nel senso che è proteso verso una liquidazione del reale, però ottenuto con il ricorso alla realtà stessa. Pertanto tutte le eventuali descrizioni del suo lavoro sono interpretazioni critiche. La sua serie “Twilight” 2001-2002, sollecita proiezioni e fughe analitiche infinite. È una sequenza di messe in scena, in cui il paese o gli individui che lo abitano si proiettano nella fotografia e creano situazioni ambientali, dove regna il silenzio e l’immobilità che permette all’immagine di ricevere una visione personale stimolata dal profondo disagio psichico della vicenda ripresa. Si pensi alla sottile violenza, psichica e fisica di Untitled, Family Dinner dove la figura femminile nuda si inserisce nella scena familiare con una statuarietà inquietante, mettendo quindi in difficoltà il giovane trio seduto a tavola. Oppure alla ricognizione condotta su una donna incinta, esposta nella sua solitudine e all’interno di uno squallido recinto di giardino, pieno di utensili e di materiali abbandonati: Untitled, Pregnant woman. In molti casi è l’universo scisso e schizofrenico ad emergere, del conscio e dell’inconscio, che si implicano vicendevolmente e che sono i lati della stessa condizione dell’individuo. In Untitled, Ophelia, lo scambio tra energia sensuale e energia psichica è esemplificato dalla tragicità statica del corpo che fluttua in un lago, dove il paesaggio è composto da mobili e dall’ambiente casalingo; un conflitto dove l’essere, femminile, risplende nella sua bellezza e nella sua sensualità, pur mantenendo nascosta una parte non “emersa”. In Untitled, Dylan on the Floor, la situazione si ripete, ma al maschile, soltanto che qui il sommerso è un’emanazione di colonne di luce, quasi l’integrazione della sua componente nascosta fosse affidata all’assunzione delle parti luminose. CINDY SHERMAN Il clone, la replica, il doppio, il gemello, sono varianti dell’identità, le sue ombre in cui l’essere si rispecchia, senza trascendersi. Nell’arte, la funzione poetica dell’autoritratto assolve spesso questo ruolo rivelatore. Sin dal 1977 Cindy Sherman ha scelto di diventare immagine, vale a dire connotare la sua apparenza come sequenza di doppi infiniti e sorprendenti. Indossando parrucche, vestiti e trucchi sempre differenti, Sherman traduceva la sua immagine in un autoritratto cangiante e mutante, un tableau vivant e una finestra temporale da cui osservare le sue infinite personalità. Il continuo debordare da un personaggio all’altro, che aveva però riferimenti a immagini prese da riviste e da racconti cinematografici, in poco tempo, si traduce in un doppio fotografico, uno specchio freddo e artificiale su cui fissare i momenti prodigiosi della sua ubiquità esistenziale. Il primo passo è quello di fermare su carta sensibile uno stadio del suo essere plurimo, con la conseguenza di enunciare una possibile declinazione della stessa persona. Tutto il percorso di Sherman è il risultato di una drammatizzazione del femminile, dove contano le componenti emotive, quanto esteriori, il trucco e le protesi che indossa, la scenografia in cui si trova ad agire e a vivere. Un’esistenza formale e mascherata che sfugge a ogni definizione, qualcosa che è comprensibile solo se si entra nella sua bolla magica e seducente. Una doppia vita che è manifesto della doppia visione della fotografia, la quale attira la molteplicità. Un presentarsi ossessivo e inquietante chi si moltiplica, accelerando il potere narcisistico del ritratto dove l’essere si fa “divo” o “diva”. Una galleria di esseri che incarnano la storia delle apparenze; per questo motivo Sherman nel corso del suo percorso le attraversa, indossandone le fogge che possono essere quelle dei personaggi antichi, ritratti di Rembrant, o di attrici moderni quali Anna Magnani. Una carrellata di fantasmi viventi che nell’ultima serie, 2008, riguarda le signore della borghesia americana con i loro lifting estremi e i loro makeup marcati e volgari, i loro vestiti sontuosi e un po’pacchiani: non più doppi immaginari, ma incubi reali. MARIO GIACOMELLI Il territorio Dopo la riunificazione e la liberazione dell’Italia, nel 1945, il sistema si rianima e i presupposti delle ricerche d’avanguardia, nell’ambito di tutti i linguaggi si istituiscono come arma di pressione morale e di espressione della condotta di un paese, quanto strumento di uscita dal dramma della storia. Il desiderio è di ripiegarsi su un ideale e recuperare un’entità infranta. Le arti sono viste come un modo di sollecitare e di garantire la ricerca di novità che funziona da centro propulsore per la produzione e per i consumi; esse configurano la visualizzazione di un’ascesa dinamica del contesto sociale, quanto un’immagine flessibile del nuovo. Si creano gruppi, dal Fronte Nuovo delle Arti a Forma, dal neorealismo cinematografico all’americanismo letterario, dalla fotografia del gruppo La Bussola alla grafica neobauhausiana, che girano intorno alla leadership espressiva e creativa dell’unica forza politica, quella socialcomunista, interessata a discutere il ruolo pubblico dell’artista e ad avere un’identità intellettuale. Si formano poi gruppi contrapposti che tendono a rappresentare la realtà delle classi e il verbo stalinista oppure gli intellettuali e le avanguardie storiche. Il rinnovamento realista passa attraverso il cinema, mediante la realizzazione di film come “Ossessione”, 1942 di Luchino Visconti e “Roma città aperta” 1945 di Roberto Rossellini, dove la realtà viene “rivoltata” e assunta non solo per la sua naturalezza, ma anche per la sua drammaticità sociale e personale. Con Vittorini e Pavese la cultura italiana si apre al cosmopolitismo e cerca un rapporto privilegiato con l’America, che viene assunta quale la terra promessa di libertà e di dignità della condizione umana. È attraverso Vittorini e il suo “Politecnico” che si diffonde nel 1945 il linguaggio della fotografia, che diventa elemento complementare della scrittura, quanto dei testi. Viene impaginata e resa partecipe di una corposità tipografica, che porta all’equivalenza tra il peso delle parole e il peso delle immagini. I documenti che illustrano la scrittura sono quelli della fotografia sociale, che diventano finestre percettive, arrivando ad infiltrarsi in settimanali quali “Il Mondo” e “Tempi”. Questi strumenti di informazione si offrono come le prime testimonianze di un’angolazione realista a carattere civile e democratico e le immagini iniziano a valere per se stesse, come finestre autonome sul reale e sul quotidiano; sono più dirette e fattuali, meno cinematografiche, in particolare le immagini relative al Sud povero e abbandonato. Nell’ambito fotografico, le ricerche del dopoguerra si aprono nel 1947 con il Manifesto de La Bussola, gruppo capeggiato da Giuseppe Cavalli, dove, seppur ispirandosi alle aperture delle avanguardie storiche, vi si ricercava ancora una visione sognata e fuori del mondo. L’estetica della vita attrae immediatamente Mario Giacomelli che, nato nel 1925, già nel 1938 è spinto alla sopravvivenza quotidiana e quindi vede nella linfa esistenziale la sostanza vera del fare. È attratto dal reale allo stato puro, perché non può essere evitato, ma cerca di usarlo come fisicità per mettere a nudo i movimenti più segreti dello spirito. L’elemento realista è importante perché definisce un materiale in cui l’essere si immerge, ma la sua apparizione deve essere attraversata da un soffio profondo, cosicché la fotografia diventi un’interiorità. Le sue “riprese” contengono sempre una particolare animazione, dovuta al movimento o alla materialità che serve a insinuare in ogni immagine il codice della sua interpretazione. Il suo è un tentativo di comunicare, mediante la fotografia, che il sociale è maledetto e l’immagine può evidenziarne la mostruosità, ma anche la sua capacità critica, che appartiene all’occhio e alla mano del fotografo. Giacomelli non va allora nella direzione dell’assoluto realismo e del radicale materialismo, ma ricerca una fotografia “altra” in cui il soggetto, ripreso dal mondo, non allontani il nucleo vivo di colui che lo riprende. Così nelle sue immagini di paesaggi e di contesti sociali, come ospizi e mattatoi, si spoglia della sua identità tramite un metodo personale di ripresa e di sviluppo e si restituisce la parola emettendo un grido. Il viaggio all’inferno Mario Giacomelli, nato a Senigallia, il 1° agosto 1925 da una famiglia contadina, ha avuto un’infanzia segnata dal trauma della morte del padre e dal gesto d’amore e di sopravvivenza della madre, costretta a fare da lavandaia in un ospizio per vecchi. Non meraviglia quindi che la sua crescita sia avvenuta sotto il segno dell’oscuro e del nero, della malinconia e del silenzio. A tredici anni abbandona la scuola e si mette a lavorare in una tipografia; attraverso il lavoro tipografico Giacomelli acquista la coscienza di una comunicazione, ma anche la consapevolezza di poter ascoltare la struttura interna del linguaggio per immagini: “Ho imparato ad immaginare il risultato della composizione prima di realizzare la bozza…Ho imparato le giustezze e le proporzioni nell’accostamento dei caratteri; ho imparato ad impaginare l’armonia tra il nero e il bianco o la stessa coloritura degli inchiostri e delle carte”. Nel 1953 Giacomelli si avvia a impegnarsi nella fotografia e compra una macchina fotografica, una Comet; subito dopo aver scattato le prime fotografie si accorge che la macchina fotografica è come una tela, ma è anche uno strumento impersonale e quasi autonomo, ed è completamente affascinato dall’errore, quello che porta a immagini sfuocate o mosse a causa del movimento della macchina fotografica. Sin dall’inizio non lo interessa la fredda oggettualità degli accadimenti reali, ma la desinenza profonda di un’avventura spirituale ed emotiva, il cui senso va colto tra le immagini, che crepitano anche di tecniche primordiali, violenti contrasti, stampe bruciate, ritocchi palesi e rozzi, per dare intenzionalmente maggior valore al primitivismo del suo sentire. Giacomelli fonda insieme a Cavalli il gruppo Misa, che rispetto alle ricerche che evidenziano la maniera di “scolpire” le figure tramite la linearità e l’assolutezza dei contorni e delle luci, sono interessati agli sfilacciamenti e agli incongrui vapori che fagocitano le immagini. “La fotografia non la vedo come la vedono gli altri; è solo un supporto, uno spazio bianco che voglio riempire di ricordi che sono i miei, ma influenzati dagli altri. E allora in fotografia me ne sono fregato degli altri. Ecco dove la mia ignoranza mi ha aiutato molto”. Dopo aver acquistato una Kobell usata, Giacomelli la modifica meccanicamente e comincia una ricerca di immagini che si impegnano si dall’inizio nel continuum della vita, quella che parte dall’infanzia e arriva alla prima maturità. All’inizio Giacomelli passa attraverso lo strazio di guadagnare luminosità, per cui non esiste ancora spontaneità felice, ma una via sulla comprensione della tecnica; sperimenta anche il colore riprendendo nature morte e tenta esperimenti di trasparenza. Da queste esperienze si rende conto del pericolo di annientamento che la fotografia e la sua tecnica implicano; avverte che il colore non comporta alcun segno di vita per cui preferisce il nero; l’utilizzazione dell’oscuro permette inoltre l’affiorare del fuoco vitale del bianco. Giacomelli decide che l’unico tragitto possibile è quello della realtà quotidiana che lo circonda e comincia dalla sua “nascita”, fotografando la madre, e perviene alla sua maturità ritraendo la moglie e gli amici, i ragazzi e il pittore, il mare e i gatti. Poi una volta rimosso il supporto della figura isolata, la fa precipitare nel caos delle forme; sulla carta forte e dalle caratteristiche molto granulose, si accumulano stratificazioni di nero che inchiodano le creature al fondo. È un altro modo di sottolineare che per Giacomelli la fotografia deve “fissare” la pienezza dell’essere, che non può risultare un ricordo affievolito. “La fotografia è una cosa magica, che mi dà la possibilità di esprimermi, di sostituire la parola che sento di non sapere usare”. Dal 1954 Giacomelli si mette alla ricerca di un’interiorità muta che possa diventare trasparente e mostrare la densità di un sentire. Questa non può scaturire dalla teatralità di figure in posa, ma da una scena già innescata, dove lo sguardo “falso” della fotografia può lasciare spazio a uno sguardo “vero”. Questo si può solo scovare esclusivamente in una vita sotterranea. Dal 1955 riprende, dall’alto, nella sua pienezza le grandi distese di terra attraversate dai segni e dai tracciati che i contadini lasciano, “Metamorfosi della terra” 1955- 1980. La distinzione tra vivere e continuare a esistere, lo spinge a riprendere le figure ricurve e rugose dei vecchi che si avviano, come la terra, a essere materialità inanimata. Interessante può risultare l’analogia tra le rughe della terra e le rughe dei corpi, tra la dimensione addormentata dei campi e le figure distese e immobili nei letti dell’ospizio; i lineamenti sono “identici”. Nella serie “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, sviluppatasi nel tempo dal 1954 al 1983, la ripresa dei vecchi nell’ospizio per anziani e la verità di condizione umana si offrono come totalità insopportabile. Il luogo dell’ospizio, come trattato, inondandolo di luce bruciante, sembra già proiettarsi in un altrove, dove le singole figure dei vecchi, diventano indescrivibili e indistinte perché o partecipi di un sospeso vuoto che le annulla o perché collocate in una cella isolata o in penombra; ogni momento è privo di un sorriso, perché tutto si affida a smorfie e contorcimento. Anche l’inquadratura, il taglio e la luce contribuiscono alla verità di questa appropriazione del basso della vita, sono i primi piani, quasi ossessivi, in cui la figura inquadrata sembra pronta a esplodere oppure è ripresa in controluce per essere annullata e cancellata dall’ambiente. “Più che quello che avevo davanti agli occhi volevo rendere quello che avevo dentro di me, quello che nasceva man mano che mi ambientavo dentro queste cose”. Attraverso queste immagini, Giacomelli rivendica un’espressività autonoma, perché lavora sull’efficacia della comunicazione visiva che coinvolge non solo per le figure, ma per contagio fisico. Le sue immagini sono una copia delle sue emozioni. Dal 1955 al 1960 c’è un ritorno alla riconsiderazione della linea metafisica del paesaggio e del nudo; “Nature morte” 1955-56 e i “Nudi” 1956-60, seppur basati sul violento contrasto di bottiglie in bianco e nero e di angolazioni nella ripresa dei corpi, riflettono una vita propria, legata alla povertà e alla brutalità dell’ambiente. Ben più drammatiche le immagini di “Lourdes” 1957, dove il bianco e nero mostra l’altra faccia dei Dio; qui la compresenza di vita e di morte, va verso il desiderio di vivere ed è rappresentato da un flusso in marcia con qualsiasi mezzo meccanico. È lo stesso mondo in fondo dell’ospizio, con la differenza che mentre nell’ospizio vogliono ad ogni costo morire, questi vogliono a tutti i costi vivere. La doppia ascesa Esiste in Giacomelli il tentativo di riappropriazione dell’energia semplice della vita quotidiana; non più immersione nello sporco e nell’abbietto della futura morte, ma esercizio di un rapporto complice e quasi fraterno, là dove l’essere umano è solo se stesso. “Scanno” 1957 e 1959, scattate nel breve arco di una giornata; i contadini, i pastori e le loro mucche sembrano rappresentare il potere dell’oscuro che, riattivato dal contatto con la luce, produce un’inedita energia. Le polarità di questa osmosi sono date dall’immagine della contadina vestita di nero che porta in braccio il bambino, in bianco, quasi una dichiarazione di reintegrazione tra forme antiche e future, del vecchio e del giovane. Anche la composizione geometrica delle figure concorre a sottolineare un discorso di masse che ci confondono e si fondono; i vecchi sul balcone, sono inquadrati in un triangolo rovesciato, oppure l’altra disposizione a triangolo delle tre figure femminili che si gonfiano di vita e si innalzano, fino all’integrazione tra femminile e maschile nella figura dell’anziana che passeggia solitaria rispetto al gruppo di uomini sullo sfondo. Si avvicina definitivamente al linguaggio di un’arte mentale e materica. In queste immagini è la forma dello spirito puro a contare, come è la forma della carne. In “Mattatoio” 1960, a soffrire non è solo lo spirito, ma anche la carne. Il polo spirituale, leggero e aereo, si ritrova invece in “Io non ho mani che mi accarezzino il volto” 1961-1963; siamo in un seminario, dove presumibilmente lo stato aureo dell’essere viene coltivato. In questo campus i corpi sono compatti, anche per le tonache che li contengono, e hanno una forza elettrica felice e vitale, non sentono il gravame della carne; tramite la fede che sottrae l’uomo a se stesso, i pretini si tramutano in angeli neri che perdono il corpo o lo fanno affondare in un campo di purezza, la neve, al punto che la dimensione mossa e sfocata, quanto il bianco assoluto, attraversano questa serie fotografica. Il tema del “buono” come detentore della positività ritorna anche in “La buona terra” 1964-66. Qui la gloria tocca ai contadini e alle loro famiglie che lavorano nei campi e vivono felici delle loro fatiche. Le fotografie documentano il corpo di gloria ottenuto non più per vocazione o per fede, ma attraverso gli strumenti della fatica; tutta la sequenza è marcata dalla presenza di falci e forconi. “Motivo suggerito dal taglio dell’albero” 1967-68 è la serie in cui il terreno agricolo impregnato di vita umana lascia spazio alla pittoralità della natura stessa, quella dell’albero tagliato. L’intento implicito in tali fotografie è affermare l’azione reciproca tra natura umana e vita vegetale. Il periodo storico è connesso alla scoperta da parte di molti artisti, quelli della land art, di una dimensione segnica del territorio e della natura. Giacomelli si colloca nel filone della messa in risalto di una sensualità della terra e del fango, del campo e della valle. Il silenzio imperfetto Nel 1968 Giacomelli conosce Burri e la carica a proposito delle materie, quali sacchi e plastiche, scorre parallela alla sua ricerca di figure informi trovate nel paesaggio. L’inedita struttura profonda di un tronco è analoga al rattrappirsi visivo della plastica sottoposta alla torcia di fuoco; i due artisti lasciano la “parola” alla materia. “Le mie foto vogliono illudersi di essere scritture segrete, non belle immagini, non fatte per essere semplicemente capite, ma interpretate e chiunque le guarderà possa continuare la sua parte”. Ne “Il mare dei miei racconti” 1983-1987, lo spaesamento aereo in questa serie non rivela più le mappe lineari dei segni lasciati dai contadini, ma la mappa puntiforme delle individualità che come le loro ombre sono il limite estremo di altre tracce umane. L’inedita prospettiva è data dall’integrazione tra distese naturali, quali sempre spiagge, e il brulicare dei corpi. Si ripropongono qui la dialettica vuoto e nero, immersione nel vuoto e nel nulla di esseri anonimi che hanno perso ogni connotazione e dove la visione è estremamente pessimistica. Con queste fotografie Giacomelli inizia a coltivare una dimensione nichilista che lo porta prima verso “L’infinito” di Leopardi e poi a “Passato” di Cardarelli; entrambe si arrendono al volare del tempo e della vita. Sembra che dal 1990 la spinta sia a sfigurare e a deformare, quasi la sfocatura, il mosso e la sovrimpressione volessero ridurre il linguaggio al silenzio, farne un grido muto. Come in “Io sono nessuno!” 1992-1994, dove le fotografie registrano solo ombre e il passaggio di una presenza umana. Il senso della prigionia corporale da cui l’anima sta iniziando a sfuggire è dato dalle ombre quanto dalla presenza dello spaventapasseri, quasi Giacomelli tendesse a ritirarsi dinnanzi a un evento catastrofico, che lo avvicina alla notte. Ne “La mia vita intera” la figura continua a emergere, con i suoi ricordi di volti e di persone, ma lascia sempre più spazio all’infinito del cielo e della terra e all’assenza, simbolizzata dalle sedie vuote. Ma non manca un gesto di sottrazione finale, “Questo ricordo lo vorrei raccontare” 1999-2000, che vede la sostituzione dell’ombra con l’ultimo autoritratto di Giacomelli, una rappresentazione in cui l’ombra si fa corpo che pesa, ma che è anche assenza ideale. NOBUYOSHU ARAKI La storia di Nobuyoshu Araki è quella di un essere umano che si trova negli anni Sessanta a vivere in un mondo, quello Giapponese, dove il sessuale è indicibile e invisibile per cui comincia a scattare fotografie che sgorgano da tale universo. Il suo sguardo è neutro, rivela soltanto il fenomeno di un corpo, femminile o, a volte, maschile, con le sue incomparabili proprietà di bellezza e di materialità sensuale; un essere in sé, al suo grado zero di una gestualità sessuale, passiva o attiva, che si evidenzia come creatura angelica e dannata insieme. Ognuna vive in un silenzio perfetto e assoluto che rende la sua solitudine disperata e ironica, perché affidata al possesso di un semplice oggetto, una piuma o una scarpa, un kimono o una sigaretta, che sembra custodire avidamente come fosse un tesoro. Sono figure che non hanno altro che la loro nudità insistente, oscena, dove compaiono come schiave e serve, inchiodate e legate alle leggi insensate di un desiderio possessivo e dominatore. Anche se le immagini sembrano messe in scena, il loro mondo esiste, non c’è niente da spiegare e Araki vuole che questa realtà sia vista con gli occhi fisici con cui vediamo le cose così come sono. Per lui si deve vedere la miseria umana quanto la sublime bellezza. A ben guardare le sue figure sono sempre sole e difficilmente entrano in rapporto, quasi lo interessasse il senso dell’impossibilità di comunicare tra gli esseri in assoluta solitudine. Il suo percorso dal 1970 a oggi è segnato da migliaia e migliaia di immagini, che sono state pubblicate in oltre cento monografie; si oscilla dai quartieri della pornografia giapponese, agli edonismi della politica quanto al flusso di gesti delle prostitute e dei loro clienti. Tutta la sua ricerca sul reale è all’insegna della liberazione dai limiti, di un’azione o di un desiderio che soffocano il corpo, tanto che all’origine le sue fotografie risultano radicali, nel senso che infrangono la legge giapponese che non permetteva la visione del pube. Araki oltre alla valanga di soggetti erotici, immette nel suo lavoro tutte le possibili tecniche di comunicazione fotografica; si serve della diapositiva, del manifesto, del film, della polaroid, della fotografia a colori e in bianco e nero, per costruire i suoi mosaici di solitudini erotiche che si dispongono da parete a soffitto o si arrampicano per le architetture di musei e gallerie. L’idea è di registrare un universo di corpi galleggianti in un’agghiacciante sensualità, dove i piaceri immacolati e osceni, del sesso e della politica, creano una coreografia di sensi, in cui lo spettatore è invitato a partecipare come voyeur attivo o passivo. SAM TAYLOR-WOOD Il suo linguaggio, che dall’oggi guarda allo ieri, passa attraverso “Wrecked” 1996, “Noli me Tangere” 1998 e “Soliloquy” 1998, in un continuo richiamo sia all’iconografia classica della pittura tre e quattrocentesca sia alla definizione di uno spazio di accadimenti regolato da leggi o da significati non immediatamente comprensibili. “Noli me Tangere” richiama la figura del telamone e rimanda al ciclo della Passione; la serie “Soliloquy” riflette il fascino per le pale d’altare che nel registro superiore recano la raffigurazione di un santo o di una santa e in quello inferiore (predella), gli episodi della vicenda personale o storica di un personaggio; con “Wrecked” si giunge alla citazione diretta dell’Ultima Cena. L’ispirazione iconografica viene dalla pittura antica, nelle cui opere le tavole formano trittici o insiemi unitari in cui le figure si pongono come elementi di separazione tra cielo e terra. In Soliloquy è raffigurata la stessa separazione, il diverso senso formale tra sublime e fisico, tra immateriale e materiale, cercando di unificarli in un insieme che crei una relazione tra territorio del conscio e dell’inconscio. Nel caso di “Soliloquy II” il senso multiplo del racconto è già presente nella scena del registro superiore, dove la figura maschile è circondata da un numero inusuale di cani. A questa situazione si aggiunge la storia della predella, dove il personaggio ricompare con un cane ed è circondato da altre figure in una stessa stanza, nella quale l’intensità corporea crea delle sensazioni che vanno dall’incatenamento sessuale alla solitudine emotiva. La creazione dell’immagine parte in Spagna. “Mentre stavo guidando è apparso un branco di cani selvatici e randagi. Una situazione reale, ma con una componente surreale capace di creare un certo disagio. Poi sono tornata in quel luogo con un ragazzo dall’aspetto tipicamente English e gli ho chiesto di farsi fotografare tra quei cani. È stato come creare una dimensione squilibrata, tra la posa composta ed elegante del corpo normale, e il disordine scomposto del contesto creato dalla libertà degli animali. […] mi interessa come l’immagine superiore e quella inferiore siano lette come un tutt’uno, tanto che a volte la figura in alto deborda e scende in basso, come in “Soliloquy I”, “Soliloquy II” e in “Soliloquy IV”, dove rispettivamente il braccio del giovane, la coda di un cane e il gomito della donna oltrepassano il limite e si confondono con il racconto sottostante.” Sia la fotografia della scena principale, sia quella della sequenza scenica sono manipolate, o quanto meno alterate in minima parte in alcuni particolari; si tratta di cambiamenti sottili, capaci di creare uno spazio surreale, quasi goffo e sgraziato. In “Soliloquy III” il rimando alla Danae o alla Venere di Tiziano o alla Paolina Borghese di Canova, contrasta con il luogo attivo della catena di corpi e di storie su cui poggia la sua immagine. La predella è luogo di desiderio e di incontri, dove il racconto evoca il senso del limita causato dalla sua scansione in parti. A mano a mano che lo sguardo si addentra nei particolari, la stanza svela un che di torbido e di minaccioso. L’intento era di rappresentare una situazione incentrata sulla bellezza e sulla vanità, sul rapporto tra carne e sesso. La figura femminile sta pensando a sé stessa come a un oggetto sessuale decisamente attraente. Nella parte inferiore veste di rosso ed è seduta sulla poltrona, quasi assistesse, come testimone, a uno scenario orgiastico che non le appartiene. L’ambiente è quello di un comune appartamento, quasi da casa popolare; è un’abitazione modesta, che mantiene tuttavia una forte connotazione di decadenza. L’arredo, il tipo di attività, le pose e i colori, i vestiti e le azioni rivelano invece ricchezza e prosperità. Tutte le sue rappresentazioni tendono al fantastico. Con “Soliloquy IV” voleva creare una visione onirica, non partecipe della realtà: tre nani, un bambino, i gemelli creano una situazione per nulla quotidiana. Tutto è costruito in modo tale che la donna distesa sul letto, con gli occhi chiusi, proietti fisicamente i suoi stati interiori. La storia nella predella dilata l’attenzione all’universo delle cose come delle persone relazionabili a ciò che lei sogna. I nani guardano fuori dall’immagine e sono inseriti in una scena quasi teatrale, come se stessero osservando la donna che dorme e come se fossero attori che rivolgono la loro attenzione al pubblico. In “Soliloquy I” vi è l’intenzione di proiettare, attraverso questo sogno, una sensazione di decadenza aristocratica. Le scene sono riprese nella casa tardottocentesca di lord Leighton, il pittore. Anche la dimensione fisica è come alterata, poiché il braccio del giovane è allungato e per di più alcune figure all’interno della scena inferiore sono modificate nelle proporzioni; l’ambientazione esprime negli arredi qualcosa di autenticamente decadente e fuori del tempo. In “Soliloquy V” l’uomo appare per strada, chiuso in sé stesso, mentre la sua visione evoca un dissolvimento spaziale, quello di un parcheggio sotterraneo assolutamente deserto, dove lui ricompare sulla destra, vicino a un pilastro. All’interno della serie, la sua apparizione serve a sottolineare che non esiste solo una condizione sognante connessa allo stato del dormire, ma anche quella dell’essere svegli e attivi. La metodologia operativa di “Soliloquy” e di “Five Revolutionary Seconds” è analoga, strettamente connessa alla ricerca di un racconto omogeneo. Il processo lavorativo viene espletato al massimo nell’arco di un giorno, mentre la preparazione è più complessa; bisogna individuare le persone giuste e la giusta location, occuparsi dell’organizzazione e del processo operativo. La lunghezza delle sequenze è sempre di 7,5 metri circa: sono così lunghe che è impossibile vederle nel loro insieme e ciò significa che è necessario percepirle per parti; in questo senso chi osserva ricava una propria lettura. “Five Revolutionary Seconds” copre una serie di stati esistenziali, con tutte le possibili variazioni: dalla più assoluta normalità all’eccesso. Così in “Five Revolutionary Seconds III” compaiono una persona assorta in se stessa, un’elegante figura femminile che sembra in attesa di qualcosa, un accoppiamento erotico e un personaggio maschile che scruta l’ambiente. In “Five Revolutionary Seconds V”, in un grande loft si incrociano alcune figure sedute, un gruppo che sta discutendo e che si riflette in uno specchio, e una donna vestita di rosso che sembra correre via. Allo stesso modo, in “Pent-Up 1996, la sequenza delle proiezioni vede scorrere parallelamente diverse condizioni umane. Le loro azioni alludono, non arrivano a esprimere completamente: una donna cammina assorta vicino a una cancellata; un anziano sembra essersi svegliato nella notte restando pensoso; un ragazzo si aggira nella sua stanza da letto; una ragazza ubriaca parla da sola in un bar ed è come adirata. Per realizzare “Pent-Up” è stata scritta una sceneggiatura, sono state selezionate cinque persone che avrebbero parlato, l’una all’altra, senza tuttavia creare una comunicazione dal significato univoco. Sono stati scritti i dialoghi, poi scelti gli interpreti, tre dei quali erano attori. Compaiono il giorno e la notte, l’interno e l’esterno, la luce e il buio e gli attori sembrano rivolgersi l’uno all’altro; cominciando dal primo che dice: “Sei sicuro?”, a cui sembra rispondere l’uomo sulla destra, agitato e nervoso, che afferma: “Sicurissimo”. E la donna ubriaca al bar, fa una domanda: “Allora perché non mi guardi?” a cui segue la risposta indiretta del ragazzo nella camera da letto bianca: “Non puoi chiedermi una cosa del genere”. “Pent-Up racconta alcuni momenti della vita umana, sia quelli familiari e intimi, sia quelli di carattere collettivo e sociale. Una dimensione che può avvicinarlo a “Wrecked” in cui si mostra sia l’intimità di una cena tra amici, sia la solennità di un banchetto rituale, con al centro il sacrificio di un “corpo glorioso”, quello femminile, rispetto al maschile della cristianità. Rivive una condizione storica, quella dell’Ultima Cena, ma non si sovrappone a essa; l’idea era che le persone dovessero divertirsi: avevano mangiato e bevuto, quindi erano un po’ubriache. La figura centrale, la donna, è stata scelta per il suo aspetto caravaggesco, quindi per il rimando alla storia, ma non interessa la fedeltà iconografica tanto che una figura ha sul piatto un pacchetto di fiammiferi e di sigarette, mentre Giuda incrocia le dita, rimando simbolico al tradimento. Nella serie “Five Revolutionary Seconds” le singole inquadrature e la sequenza circolare avvengono quasi istantaneamente, nell’arco di cinque secondi e l’immagine complessiva è strutturata in porzioni o in frammenti, e il suono costituisce un altro rimando allo spazio e al tempo. Tutti i suoni sono registrati durante il periodo dello shooting fotografico e, grazie ad essi, si possono “ripercorrere” alcuni personaggi e alcuni accadimenti. Nel risultato finale le figure sono immobili e l’inserimento del suono crea una dimensione narrativa e insieme cinematografica. In altre opere, come “Knackered” la musica serve a realizzare un pezzo molto specifico. Si tratta di un’opera vulnerabile, ma allo stesso tempo forte e provocatoria. Ambientata in una stanza molto luminosa, con una luce molto aspra e una figura femminile nuda, le cui carni brillano e il cui sguardo trafigge. La sua voce è quella dell’ultimo castrato, una voce d’incredibile stranezza. Il nudo ricorre già in “Brontosaurus” 1995 in cui assistiamo ad un corpo maschile danzante, dove l’erotismo è ironico e lieve. Viene filmato un uomo che ballava nudo nella sua camera da letto a ritmo di una musica techno-jungle molto veloce. Poi viene tolta la musica e fatto proiettare il film a rallentatore. Le movenze del protagonista erano diventate quasi aliene, non avevano senso perché faceva tutte quelle mosse che apparivano così sgraziate. Al rallentatore divenne qualcosa di molto bello ma allo stesso tempo assolutamente goffo. Viene sostituita la musica con un “Adagio per archi”, un brano malinconico e così l’opera è diventato un inno alla vita, anche se il protagonista sembra ballare la danza della morte, perché è così fragile, delicato, vulnerabile. In “Noli me Tangere” continua la sua carrellata storica sull’iconografia classica. Viene filmato un essere umano, con il corpo perfetto da atleta o da acrobata, mentre si sostiene in verticale sulle mani il più a lungo possibile. Allo scadere, la sua fisicità entra in crisi, i muscoli iniziano a tremare, il corpo si copre di sudore, le braccai tendono a piegarsi. Terminata la ripresa, viene capovolta l’immagine così che egli sembra sostenere il soffitto come un Atlante. In questo modo la percezione immediata è quella di un corpo perfetto che sostiene il peso dell’edificio. “Method in Madness” consiste in una proiezione singola nella quale appare un method actor che giunge all’apice della recitazione emozionale. È il tentativo sia di mettere in scena un esaurimento nervoso, sia di mostrare il confine tra realtà e irrealtà, tra vita e recitazione. La proiezione ha un andamento teatrale, parte dal lento per agitarsi, per arrivare all’urlo e al pianto. È una proiezione continua, per cui produce un senso di imbarazzo nel guardare il protagonista che perde completamente la testa, cerca di ricomporsi, inizia a sentirsi a disagio e poi perde nuovamente il controllo. La musica che accompagna la performance dell’attore contrasta nettamente con la scena, è una musica da ascensore o da supermarket. Diverso da “Method in Madness” è “Hysteria”, un muto di dieci minuti in cui è impossibile distinguere il riso dal pianto. Non c’è audio così che rimane il dubbio se lei stia piangendo o ridendo. A questa confusione contribuisce anche il rallentatore. La stessa attitudine si trova in “Travesty of a Mockery” 1995 in cui è impossibile capire la natura della discussione. Si percepisce solo un espediente che è molto fisico; due persone su due schermi, litigano e si lanciano oggetti. Nella disputa lei ha chiaramente il maggior controllo della situazione, mentre lui reagisce. Siccome si arriva allo scontro fisico (a tirarsi un bicchiere di latte o una pentola) la scena è altamente drammatica, tanto che a un certo punto uno entra nello spazio dell’altro. La riprese di “Atlantic” è avvenuta all’Atlantic Bar and Grill e c’è l’intento di creare una distanza tra due persone, pur mantenendole nello stesso spazio. La proiezione è triplice: da un lato il volto della figura femminile, al centro una veduta del ristorante con i tavoli tra cui siede la coppia, e a destra le mani della figura maschile; l’effetto è quello di un’altra persona che siede nello stesso ristorante tra tavoli più in là e vede una coppia. Poiché la donna piange e l’uomo non si vede se non attraverso il gioco delle sue mani, si crea una scena neutra, in cui è impossibile schierarsi da una parte o dall’altra. Per quanto riguarda la scelta dei titoli, “Travesty of a Mockery” s’ispira a un film di Woody Allen, “Prendi i soldi e scappa”, un film in cui il protagonista deve difendersi in un’aula di giustizia e sta lì in piedi, con aria da martire, dicendo: “E’ una farsa, una presa in giro, a mockery”; sembrava appropriato per un litigio tra due persone. La serie “Soliloquy” s’ispira al teatro shakespiriano. “Pent-Up” è una sorta di angoscia, ed è la matrice morfologica del numero cinque (penta), quindi corrisponde al numero dei personaggi e delle proiezioni. “Brontosaurus” allude alla sopravvivenza. Possiamo ora parlare di “Fuck, Suck, Spank, Wank” 1993, di “Spankers Hill” 1993 e di “Slut” 1993, in cui torna nuovamente il legame tra piacere e maltrattamento, tra pulsione sensuale positiva e negativa. Qui l’artista appare in prima persona perché non aveva soldi e non poteva permettersi di ingaggiare nessuno. Inoltre un autoritratto è qualcosa di immediatamente disponibile. In “Fuck, Suck, Spank, Wank” indossa una “gay acting T-shirt”, quasi volesse assumere un ruolo diverso; indossa gli occhiali come una sorta di difesa e usa vecchie pellicole in modo che l’immagine risultasse sporca, piena di macchie e di imprecisioni; voleva esporsi in tutta la sua bruttezza e a disagio e allora si ritrasse come un mostro, con i pantaloni abbassati. In “Spankers Hill” veste i panni di un coniglio spaventato dai fari di una macchina e in “Slut” è truccata pesantemente, quasi come una pin-up da rivista erotica. Sul collo dei morsi violenti, che hanno lasciato tracce sulla sua pelle, qualcosa di fatto senza passione; voleva offrirsi come un termine di abuso.