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FOTOGRAFIA MALEDETTA E NON

VISIONI E APPARIZIONI INQUIETANTI


Giorgio De Chirico identificava la sua pittura come un processo legato
all’inquietudine e il procedere pittorico serviva ad avvicinare una verità sconosciuta e
nascosta: qualcosa che andava oltre le immagini condivise. Un ricorso a
un’ispirazione poetica generata da “muse inquietanti”, che si trasforma in atmosfera
immaginaria, capace di sollevare ansia e trepidazione, sconvolgimento e incertezza
nello spettatore; nulla è animato o sensato, perché isolato nel suo vuoto con il
risultato di offrire un’immagine “mentale” che si relaziona al mondo delle idee, più
vicino al sogno che non a quello dell’esistenza concreta; l’anno del suo dipinto “Le
Muse inquietanti” è il 1917 e la sua ricerca di motivi inquietanti non trova radici nel
reale, ma nel concettuale.
Passati cento anni, le immagini che possono inquietare sono altre e non appartengono
più alla pittura o alla scultura, ma a tutti i linguaggi del vedere e del percepire. Sul
piano della loro visibilità la rappresentazione ha lasciato campo alla “presentazione”,
vale a dire al tentativo di documentare in tempo reale le cose e gli eventi, riducendo
al massimo il valore espressivo del “sensore”. Le immagini sono diventate squarci di
un mondo in cui l’invisibile si fa sempre più visibile e presente: una costellazione di
affacci sugli spettri che agitano l’individuo: immagini inquietanti.
La trasmissione delle informazioni quanto delle conoscenze, ha portato ad una
duplicità dell’inquietante: da una parte la strada percorsa dalle espressioni artistiche,
impegnate nella costruzione di un’utopia, ma sempre più destinate a una cultura del
“decoro” che ne ha vanificato la radicalità del pensiero. Dall’altra la decifrazione di
un esercizio delle immagini quale specchio dell’esistente, dove la percezione del
reale si affida sempre di più a “registratori” e a “rilevatori” tecnologici, che imitano o
riprendono il reale passivamente e senza alcuna prospettiva.
Il rapporto stabilito tra arti e tecniche viene a essere capovolto, per cui l’esercizio di
critica che trovava nell’arte una ragione si socializza e diventa professione; è la
tecnica a farsi “politica”: socializza l’informazione e il carattere oppositivo delle idee
e dei comportamenti e arriva a “denunciare” l’esistente che non riesce più ad essere
occultato. La storia della “cultura delle immagini” non va letta dalla prospettiva
dell’arte, ma dei media, perché sono questi a creare gli effetti atti a rivelare il rimorso
e la censura, quanto a stabilire una solidarietà e un legame veramente universale,
interno ed essenziale allo sviluppo del conoscere. La funzione dell’arte è
praticamente compromessa dai suoi fondamenti “astratti” e “teorici” che la destinano
ad essere sempre più monopolio di gruppi di potere e di istituzioni che la conformano
a contenuti tradizionali e industriali. Si potrebbe affermare che proprio al tempo di
De Chirico e delle sue muse la presentazione dell’insensato passasse piuttosto
attraverso la fotografia, bidimensionale come la pittura, che era capace di aprire lo
sguardo sull’enigma e sulla nebulosità del mondo. Il potere dei nuovi media permette
un nuovo rapporto informativo che trova varchi di trasformazione nell’ambito del
sociale controllato dalle strutture “globalizzanti”. È in relazione a questa
mondializzazione che nascono l’idea e l’occasione di documentare i doppi fotografici
che oggi possono creare turbamento e ansia.
Un assordante silenzio
Sul piano delle ricognizioni sull’inquietante la fotografia produce i primi documenti
di un immaginario che tende a far emergere il rimosso e l’occulto intorno a metà
Ottocento: riguardano le vicende della guerra e del sesso. In entrambi si avventura
alla ricerca di una tensione visuale che suscita insieme stupore e angoscia, perché
riguarda l’esperienza penosa o piacevole, mettendone in evidenza il negativo. Tra il
1853 e il 1856 cominciano infatti ad apparire i resoconti fotografici sulla Guerra di
Crimea, seguiti dalle testimonianze sulla Guerra civile americana, quanto a essere
tradotte in immagini le scene erotiche e pornografiche, quasi che i fotografi fossero
interessati a documentare il corpo che passavo allo stesso tempo dal tragico
all’osceno e viceversa. La tensione delle immagini di guerra, dove si accumulano le
figure umane di soldati e di civili in un paesaggio quasi sempre desolato e distrutto,
assume rilevanza a partire dai documenti prodotti in occasione della Prima Guerra
mondiale, quando i medici militari registrano le ferite e gli strazi dei corpi dei
combattenti. Tale materiale è inizialmente anonimo e raccolto per ragioni
scientifiche, ma nel corso degli anni Venti esso viene pubblicato. In particolare è la
Guerra civile spagnola, tra il 36 e il 39, a ricevere un’ampia documentazione
portando le fotografie di scontri e devastazioni degli eserciti nemici sulle pagine dei
giornali di tutta Europa.
In generale, queste testimonianze fotografiche tendono piuttosto ad un muto operare,
che trova drammaticità nella presenza “insensata” dell’evento. Di fatto risultano
testimonianze “reali” e la fotografia le rende capaci di dar conto ad una situazione
senza deformarla o trasformarla. Un esempio è dato dalla catastrofe delle torri del
World Trade Center, l’11 settembre 2001 a New York, dove i testimoni di tale evento
sono riusciti, mediante le macchine da ripresa, a comunicare il vissuto; le immagini
hanno fornito un documento incredibile di un’apocalisse urbana, che ha comportato
la morte di migliaia di persone.
I testimoni-fotografi hanno intuito, nel tempo, che la singola immagine non riusciva a
raccontare né a comunicare la sequenza ininterrotta delle innumerevoli miserie e
tragedie perché troppo astratta e selettiva e ne semplificava la ripetitività. Le tragedie,
invece, continuano all’infinito e si ripetono, come un film che passa a ripassa sullo
stesso schermo; tuttavia lo sguardo penetrante può sollecitare effetti sinistri e
inquietanti anche nella sequenza di stacchi fotografici e di immagini singole. Il
sorgere di una fotografia che non imita, ma appare e diventa irritante, è un dono alla
conoscenza del mondo che possiede una forte carica di autenticità, utile a destare
quell’inquietante e quell’insicurezza che fanno pensare e spesso reagire.
Reazioni “altre”
La storia fotografica degli orrori della guerra nasce, a metà Ottocento, in parallelo
con la storia dei piaceri carnali che nel corso del tempo hanno messo in discussione la
spiritualità dell’essere umano e hanno offerto una lettura più perversa. E se la guerra
è una violazione dei rapporti tra esseri umani, non deve stupire che il travalicamento
dei limiti delle relazioni tra persona a persona, sia un soggetto capace di attirare lo
sguardo del fotografo. Come i documenti di guerra si impongono sul tabù della
repressione informativa, anche le immagini di sesso si articolano focalizzandosi
sull’immaginario erotico, prima passando attraverso le riprese per mano di centinaia
di anonimi e poi attraverso le sofisticate visioni reali e irreali di nudi.
A partire dagli anni Settanta la messa in evidenza di un relazionarsi “altro”, attraverso
il corpo e gli oggetti, i risultati erotici e i comportamenti sessuali, normali o inusuali,
acquista un impatto comunicativo. Le passioni che riguardano gli adulti non possono
essere proibite e la creazione di combinazioni, di intrecci e di generi non significa
violenza o eccesso, ma un rovesciamento di certi valori per una diversa alchimia delle
relazioni. La dimensione immaginaria, a partire dagli anni Settanta/Ottanta, con la
loro attenzione al sadomachismo, alla necrofilia e l’esaltazione del corpo
afroamericano, arriva a espandersi nel voyerismo di Kohei Yoshiyuki. Le sue riprese
di coppie di guardoni nei parchi di Tokyo sono visioni di un piacere e una ricerca
erotica di un desiderio tra pubblico e privato; un personaggio umano che vive di
emozioni “nascoste”. L’universo delle relazioni “altre” vive molto sulle mescolanze
inedite, perché le tentazioni umane tendono a creare un nuovo territorio dell’esperire
che si basa sulla volontà personale e unica di differenziarsi. La volontà d’ibridazione
può portare alla sfida della natura e alla relazione febbrile con un oggetto,
incarnazione dell’altro, fino a convivere emozionalmente ed eroticamente con esso. È
quanto testimoniato dalle immagini scattate da Elena Dorfman che riguardano la
relazione amorosa e sessuale del maschile con un femminile sintetico, realizzato in
morbido silicone, capace di dare fattezze realisticamente umane: bambole perfette,
corpi d’amore che soddisfano una relazione quasi magica, dove la situazione del
dialogo e dell’esistenza vive di passività e di mutismo assoluti.
In questa prospettiva possono anche rientrare gli abusi domestici documentati da
Donna Ferrato in America, dove la negazione della donna si traduce in una vittoria
della violenza, legata all’uso di droga e abusi emotivi; un saggio fotografico che
coinvolge anche i figli e gli innocenti, dove la degradazione del rapporto maschile e
femminile è estrema. Paragonata a queste scene familiari, l’orgia di massa, ripresa
dalla stessa Ferrato, risulta una gigante manifestazione del piacere felice.
Distruzioni
Nal Goldin racconta, nelle sue immagini vertiginose e allarmanti, una narrazione di
sé e delle proprie relazioni, spinte a una perdita del sé e a un’erranza emotiva che non
trovano mai un soggetto stabile e sicuro che non sia la morte; una continua
ripetizione di scene di interni, di rapporti sessuali brutali, una fotografia della
distruzione. Una simile comunità si vede raffigurata nelle immagini di Brian Weil di
altre esistenze, quelle segnate dall’epidemia dell’AIDS che li ha portati a sofferenze
disumane, quando attraverso la conoscenza e l’educazione al “sesso sicuro”,
affiancate dallo studio e dalla produzione di medicinali adatti, tutto questo poteva
essere, se non risolto, almeno lenito. È la stessa condizione esistenziale di quanti,
facendo ricorso alla cocaina, si bruciano in un’estati che si lega alla degradazione
della propria esistenza. Eugene Richards non solo riprende lo smarrimento di ogni
senso umano delle persone dedite a questa droga, ma lo inquadra nel contesto di
un’umanità urbana che è distrutta e ridotta a macerie; tutti gli esseri posseduti dalla
cocaina sembrano infatti passati attraverso un incenerimento della qualità della vita.
Sono gli stessi fantasmi ripresi da Zalmai, che testimoniano però i combattenti per la
droga in Afghanistan, i contadini e i contrabbandieri di oppio, anch’essi dediti al
consumo; un mondo di immagini notturne dei soldati inglesi che perlustrano lo stesso
territorio al fine di estirpare il traffico della droga.
La mancanza di rispetto dell’identità sessuale ha spinto Stephanie Sinclair a mettere
in evidenza gli stravolgimenti condotti sulle bambine e sulle donne; le manipolazioni,
attuate in Indonesia, dell’apparato sessuale delle adolescenti, si accompagnano, nelle
sue immagini, ad altre mutilazioni, quelle che le donne con il fuoco si autoinfliggono
perché non hanno alcuna speranza di vita rispetto alla brutalità e agli abusi del marito
e della società maschile e patriarcale che le opprime.
I documenti fotografici di Philip Jones Griffiths sugli effetti collaterali dei defolianti
come l’Agent Orange, il liquido con cui le truppe americane spruzzavano le foreste in
Vietnam, sono documenti di carneficine indefinibili. Non meno drammatiche e
tragiche sono le fotografie di Pieter Hugo, che attraverso la loro immissione in un
contesto di distruzione, prodotto dalla discarica dei rifiuti elettronici, inquinanti e
tossici, rivelano il male compiuto dall’industria contemporanea contro popolazioni
inermi in Ghana.
Lo sconcerto e l’insensatezza delle fotografie di Michael “Nick” Nichols sulle
brutalità e gli esperimenti condotti sugli scimpanzé nelle foreste di tutto il mondo, è
un capitolo vergognoso del comportamento dell’umano verso l’animale. Lo stesso si
può dire delle immagini drammatiche di Richard Misrach che invitano a entrare nella
“scena” del delitto: dopo aver ripreso gli acquitrini e le distese intorno alla base
navale aerea di Fallon, in Nevada, ora il fotografo invita a salire sul palcoscenico di
una nuova tragedia, quella delle materie inquinanti la vallata del Mississipi, che ha
assunto il terribile nome di “Cancer Alley”.
Inquietudini di vita
Tutti gli spiazzamenti e le tragedie del vivere possono trasformarsi in conduttori di
altre energie che vanno custodite ed esaltate. Molte immagini possono essere rilette
come un’aspirazione potenziale di sopravvivenza e, nella loro tragicità, esse
affermano la volontà di vivere e di abitare spazi e territori anche se distrutti. Quindi,
le immagini dell’orrore e della brutalità possono diventare motivo per sollecitare il
rifiuto dell’accanimento sulla persona, quanto della consistenza del vivere al
procedere bruto della morte.
Le immagini di Diane Arbus possono essere assunte come dichiarazione e
testimonianza di una sensazione alternativa del vivere, quella che apre di continuo le
porte dell’inquietudine. I suoi ritratti di danzatrici e giganti, di gemelli e di patrioti, di
nani e di nudisti, di fanciulli affetti dalla sindrome di Down e di giocolieri del circo,
appaiono come manifestazioni di “stili” di esistenza che partecipano a trasformare il
panorama visivo e comportamentale. Tuttavia tale opera di “esaltazione” è caduta
nell’interdetto, si è tentato di isolarla e di rimuoverla con l’accusa di una “violazione”
delle differenze corporali; la si è gettata nel territorio del ripugnante forse perché
costituiva un vero tormento per lo sguardo sociale. Per molti, impreparati all’omaggio
d’amore per qualsiasi essere umano, l’inquietudine può riguardare l’amore normale di
una madre per le figlie, ritratte naturalmente nude nel periodo estivo, come è
avvenuto nelle reazioni irrazionali alle immagini di Sally Mann, che rende omaggio
al corpo del marito e non disdegna di documentare le metamorfosi dei corpi in stato
di decadimento; una contrapposizione tra l’amata vita e la repellente morte.
I percorsi di vita sono spesso complessi e ricchi di esperienze, va ricordata la
perseveranza di Mary Ellen Mark nel seguire, documentandola in immagini, la vita di
Erin Charles, conosciuta quando aveva tredici anni e ritratta fino alla sua maturità,
quella di quarantatreenne che ha concepito, con diversi uomini, dieci figli;
un’ossessione che in questo progetto sembra interessare la mostruosità del riprodursi.
JOEL PETER WITKIN
Una perversione virtuosa
Le fotografie di Witkin sembrano muoversi nell’universo del perverso e del
sacrilegio, perché toccano tutto ciò che è tabù, proibito e consacrato; attingono dal
normale e dal diverso, cosicché le immagini subiscano una sorta di chirurgia
diabolica dove il sacro e il profano, il femminile e il maschile si dissolvono e si
trasformano, si intrecciano e creano una hybris e una mescolanza proibite. L’artista di
mette al posto della divinità per dare vita ad una nuova società. Affronta le
proibizioni che si basano sul principio di separazione dei sessi e delle credenze per
produrre dei tableaux fotografici, in cui convivono freaks e donne incinte,
transessuali e animali, nani e scheletri, feti e crani sezionati che, combaciandosi con
oggetti e nature, scenografie e fondali, danno origine a un universo estremo. Tuttavia
il capovolgimento non va inteso solo nel senso della deviazione, ma anche della
trasformazione e dell’iniziazione che tendono a permettere il ritorno a uno stadio
primitivo, in cui le coesistenze erano possibili. Tramite la fotografia aspira all’atto
supremo di rigenerare una situazione primordiale, in cui tutte le metamorfosi
convivono, ogni trasformazione e ogni visione sono possibili. Si inventa un suo
universo, seppur illusorio e fantastico dove sono abolite le conflittualità e le
rimozioni; progetta un paesaggio di soggetti proibiti, lo disegna e lo concretizza,
avvicinandosi all’intensità e all’energia perversa dell’arte. Tramite la fattualità
scenica della storia, libera i fantasmi della pre-vita e della post-mortem, trasferendoli
sulla scena di una visione oggettiva, in cui lo specchio immaginario dell’arte lascia
posto al realismo della fotografia. Soltanto che la trasgressione del “crimine
fantastico” nelle sue fotografie, per eccesso di verità, diventa “crimine oggettivo”,
poiché la perversione e il desiderio dell’artista si tramutano in realtà; l’apparizione e
la rivelazione immaginaria si affidano all’incesto tra essere umano e animali,
all’hybris del transessuale e dell’eunuco, alla condizione perversa del sadomachista e
al delirio della visione sconvolgente dei freaks, dei cadaveri e dei feti. Tale
estremizzazione si basa su una forte identità tra l’immaginario e il divino, che deriva
a Witkin da un’educazione ebraica da parte di padre e di fede cristiana da parte di
madre; egli aspira a sviluppare l’alto contenuto spirituale della sua visione, quasi la
fotografia fosse una soglia attraverso cui il “sacro” entra nel mondo sensibile e reale.
La raffigurazione fotografica è per lui un’incarnazione e una rivelazione di un
transito tra materiale e immateriale, tra bene e male, tra vita e morte, tra sacro e
profano; quasi una manifestazione di teologia visuale che mette in contatto il modno
invisibile con il mondo visibile.
Witkin usa la fotografia come un’interfaccia tra due sensibilità agli antipodi: quella
terrena e carnale del paesaggio sensuale e quella della diafana e immateriale del
numinoso e dello spirituale; ne tenta la congiunzione e la mescolanza.
E siccome è mediante le immagini che l’artista vuole far vedere una realtà
sconosciuta, l’attitudine nell’uso del linguaggio fotografico rispetto al mondo reale
diventa cruciale per intendere come l’immaginazione si trasformi in ricerca di
emozione sacrale. La fotografia ha inizio proprio dallo spaesamento e dallo stupore
dinanzi all’esistente e Witkin fornisce un’immagine fotografica che è reale, ma di una
realtà interamente subordinata al suo immaginario. La fotografia diventa uno
strumento di fissaggio per le immagini che passano spontaneamente nella coscienza e
nella memoria, favorisce il naturale entusiasmo verso la bellezza del creato, tramuta
un’esperienza interiore in esteriore. Witkin pensò che gran parte del mondo fosse
brutto e al suo posto voleva creare uno spazio, prendere il meglio di ciò che aveva
visto e mettervelo dentro. In questo modo poteva usare cose già esistenti da
progettare, sistemare e rifare; il desiderio della sua vita era quello di essere collegato
ad un luogo che non possiamo conoscere ma dove speriamo di andare e di restare.
In Witkin la pelle, luogo delle manifestazioni incontrollabili dell’esistenza, territorio
di erotismo quanto di necrofilia, è una soglia di scambio tra dentro e fuori, tra calma e
violenza; per questo essa è a sua volta solcata da graffi e da marchiature.
Il viaggio iniziatico
Sin dall’inizio, la vita di Witkin viene condotta in un tunnel feroce e orrifico; sin da
bambino, a sei anni, entra in una dimensione esperienziale che lo carica di
allucinazioni apocalittiche. Racconta di un incidente che aveva coinvolto tre
automobili cariche di famiglie e ad un certo punto vide rotolare fuori da un’auto
capovolta qualcosa che si fermò ai suoi piedi: era la testa di una bambina; questa
esperienza è stata la prima rimasta consciamente nella sua memoria.
Witkin nasce a Brooklyn nel 1939, in una famiglia composta da una madre
napoletana e cattolica e da un padre russo ed ebreo. Cresciuto nell’indigenza dopo il
divorzio dovuto al contrasto religioso dei genitori, va a vivere a Greenpoint con la
madre, il fratello gemello e la sorella. Nel 1955 compra una camera reflex Rolleicord
con cui inizia a fotografare il suo universo esistenziale; una delle sue prime
fotografie, “Coney Island Boy” del 1956, che ritrae un bambino con il volto offuscato
dalla luce, dimostra il precoce interesse di Witkin per la maschera quale apparato
simbolico per comprendere la personalità del soggetto. Una delle preoccupazioni
iniziali di Witkin è di documentare la “rivelazione” di Dio; sempre negli anni
Cinquanta, dopo aver letto sul “New York Daily News” che un rabbino aveva
dichiarato di aver visto e parlato con Dio, si reca nella sinagoga con la speranza di
ottenere il ritratto di un essere illuminato. Invece non vide Dio nel rabbino né percepì
la sua presenza nella stanza; decise comunque di fotografare quell’uomo perchè ,se
anche non era riuscito a vedere ciò che si aspettava, aveva la speranza che la
fotografia l’avrebbe rivelato.
Sollecitato dalla madre, si appassiona d’arte e di fotografia; invitato dal fratello che
cerca soggetti inusuali per i suoi dipinti, va a documentare i freaks di Coney Island, si
reca a fotografare le attrazioni da luna park: Lantini, l’uomo dalle tre gambe, una
donna chiamata “The Chicken Lady” e un ermafrodita con cui ha la prima esperienza
sessuale. Queste immagini sono a colori, come “Untitled” 1956 che ritrae una donna
con caratteristiche disfunzionali, vittima di deformazioni ossee e altre anomalie; una
figura che è la prima testimonianza di un essere che può diventare oggetto di terrore,
quanto di amore: un’immagine tra realtà e irrealtà, tra bizzarro e tragico. La
raffigurazione di una tale condizione dell’essere è una conquista perché tende a
presentare la vita dell’emarginato e del diverso, quale testimonianza di un’infinità
dell’esistere, quello dell’estetico. Vede nei freaks un carattere eccezionale e
straordinario, quello della infinita volontà di Dio; questi esseri sono la prova che
illumina e rivela un possibile destino dell’umanità, tuttavia una riflessione fotografica
della loro esistenza può suscitare violente reazioni, e la volontà di proteggere il
pubblico dall’impatto di questa realtà. Le fotografie di Witkin sono e saranno
destinate a suscitare aspri conflitti tra chi rivendica la liceità o meno di certe
immagini che investono il rapporto tra perversione e morale, tra materia e spirito.
In seguito all’attrazione per i freaks, si dedica a costruire figurazioni fantastiche e
grottesche che ritraevano uomini col collo di struzzo o volto d’oca, provvisti di corna
superflue o di protuberanze bizzarre, una sorta di ibridi; forse da qui scaturisce la sua
incertezza e confusione tra reale e irreale.
Witkin è sedotto dai supereroi e dalle supereroine, da Batman a Wonder Woman,
esseri portentosi e nonsense esistenziali che funzionano da mostri mitici, non più
esibiti in fiere, ma sulle pagine dei giornali e sullo schermo televisivo; diventano la
prova attuale della forza secolare del divino, in tutte le sue manifestazioni
dall’angelico al diabolico.
Tra il 1958 e il 1960 entra alla Cooper Union School of Art e sotto l’insegnamento di
Rubin Kavish apprende i primi rudimenti di scultura, che lo porteranno a realizzare
oggetti surreali, basati su figure umane con particolari anatomici ampliati e deformati,
come “Woman” 1970, dove una piccolissima testa sporge sopra una porzione di torso
appoggiato su ruote che sorreggono un enorme seno. Nel 1961 si arruola
nell’esercito, prima nel settore delle immagini via satellite e poi come combat
photographer: il suo lavoro consisteva nel documentare le morti dovute a incidenti,
manovre e suicidi. Terminato il servizio militare, ritorna alla Cooper Union e ottiene
il diploma in scultura. Dal q972, dopo una serie di sculture sul tema del doppio
sensuale e sessuale, rappresentato in piccole figure, maschili e femminili, quanto in
fotografie di sfingi, il magma pulsionale della sua vita da bambino e da giovane
diventa il soggetto dell’evocazione angelica e demoniaca di Cristo, ma anche
dell’esaltazione del nudo femminile.
Un esempio di questa attrazione per la dimensione ambigua, tra divino e sessuale, è
“Rest After the Passion, New York City” 1973. Un giovane con il volto di Cristo
siede su un tetto con accanto un altro uomo con il costume di Batman, simbolo del
male e del nero, il re delle tenebre: le figure contrapposte della luce e dell’ombra.
All’inizio l’artista non è interessato al martirio e alle torture carnali, quanto
all’affrancamento degli opposti. In “Jesus and His Mother Mary: Photographed by
Anonymous Galilean Photographer” 1974, in cui compaiono un bambino nudo con
indosso una maschera con il volto di Cristo, e una figura femminile incappucciata da
un copricapo a triangolo, la sessualità e l’umanità di Cristo si trascendono nella
maschera, cosicché la sua condizione diventi veramente lo strumento di una
trasformazione divina; la fotografia dovrebbe essere il mezzo per portare Dio sulla
terra e di farlo esistere nelle fotografie.
Le immagini di intersezione sono da ricercare nella serie “Image of Woman” dove la
figura femminile è posta al centro dell’attenzione, ma sottoposta a un gioco di
voyeurismo e di perversione. Passa dalla santificazione allo strazio della donna, la
trasforma in animale mitico o la interra in catafalchi macabri; attraverso l’organo
fotografico fa colare fluidi erotici, quanto secrezioni ripugnanti che testimoniano
umori sublimi e degradanti; nella serie “Woman” ha messo la donna in bare, le
incollava le foglie sul corpo, le faceva reagire a feticci fallici, le legava e le
mascherava.
L’urlo incontenibile dell’esistenza
Nel 1975 Witkin lascia New York per frequentare i corsi di fotografia all’Università
del New Mexico ad Albuquerque. Entra in un clima culturale, quello delle
trasgressioni che impregnano la vita al Sud. Si appassiona ai riti crudeli delle culture
indios e alimenta la sua attrazione per i freaks. Nel suo primo anno ad Albuquerque si
mette alla ricerca di soggetti umani, il cui delirio di dolore o di sofferenza potesse
essere rivelato fotograficamente. L’ipotesi è di registrare impressioni reali in tempo
reale, piuttosto che le fantasie dei suoi modelli; arriva a farsi complice della loro
“tortura” e del loro “delirio”, partecipando delle loro intossicazioni emotive, a un
punto tale da giungere a immobilizzare al muro, con lacci e cinghie, un uomo affetto
da claustrofobia o a immergersi nel vortice mentale di una donna, appena dimessa da
un ospedale psichiatrico.
Nelle sue immagini, la presenza di uno sfumato che attenua i contorni, corrisponde a
un’osmosi tra carnalità, psichicità e spiritualità, quasi Witkin volesse affermare che i
corpi sono luoghi di costellazioni mercurali, nel cui alone deve leggersi la proiezione
dell’inconscio.
Witkin si accorge di collocarsi nella dualità perversa quando in una immagine, “Los
Angeles Death” 1976, ritrae, oltre al paesaggio di Los Angeles, il passaggio furtivo di
una donna che entra improvvisamente in camera; la sua presenza lo disturbava, la
donna era parte di un “incidente” che aveva creato e ne era anche “testimone”. Lo
aveva visto nell’azione simbolica di infliggere dolore al suo oggetto, nel momento in
cui cercava di strangolarlo e quindi l’oggetto diventa simbolo non solo
dell’immagine, ma anche del suo sadismo.
Da allora il negativo inizia ad essere ritoccato, graffiato e manomesso e questo
intervento rivela al fotografo che le immagini sono possibili materiali di trapasso, per
arrivare a un’altra carica espressiva. Nel 1976, nella fotografia che ritrae una figura
seduta, con accanto un cane, cerca di attenuare il gelo dell’immagine ricorrendo
durante lo sviluppo ad un filtro di tessuto. Il processo consiste nel porre un tessuto
sottile sulla carta da sviluppo al fine di aumentare la rifrazione luminosa e rendere
soffice e sfumata l’immagine; a volte durante lo sviluppo interviene con graffi,
oppure con tonalità di giallo e di marrone. Tutti questi fattori mutano la
rappresentazione, la rendono spettacolare e ogni volta cambia, perché gli effetti del
tessuto e della sua maglia sono sempre diversi e unici; l’attitudine è di rifiutare la
realtà per spingerla verso una tensione metafisica. Giocando con i materiali della
fotografia, Witkin vuole “rifare” l’immagine, stravolgerla con la sua gestualità,
cosicché i soggetti diventino “presenze” di una vita sconosciuta e se l’arte è il regno
del doppio, Witkin non può fotografare solo la scorza della realtà, ma rivelarne
l’interno. Lo stesso dicasi del corpo, superficie di una fragile barriera tra interno ed
esterno, tra anima e sensi. In “Mexican Pin-up, New Mexico” 1975, ritrae il busto di
una donna con il seno e i capezzoli trafitti da aghi, quasi volesse evidenziare che la
superficie umana è una membrana, che al di là del suo limite pulsa un’altra vita.
Le combinazioni fisiche e immaginarie tra corpo e oggetto richiamano alla memoria
l’immagine surrealista e dadaista, dove il rapporto è usato per spostare l’orizzonte
immaginario; gli oggetti si fanno padroni di senso e rivelano una finalità perversa.
Witkin si muove nello stesso solco, utilizza le possibilità ignote delle associazioni tra
soggetti e oggetti, che va dall’irrazionale all’onirico; cattura i fatti e i fenomeni e li
manipola. Egli si riconosce nel soggetto e nell’oggetto, che diventano una captazione
narcisistica della sua identità. L’itinerario e lo smembramento del soggetto che
esprime la sua dinamica interiore passa anche attraverso il disegno e il collage,
metodo di lavoro che l’artista adotta dal 1974.
Seppure la sua visione abiti una dimensione bidimensionale, quella della fotografia,
l’artista conduce i suoi spostamenti fantasmici nella pratica manuale dell’alterare e
trasformare i corpi; e se nel collage è possibile manipolare, montare, incollare, lo
stesso deve avvenire nella realtà. In “26 year old O.D., New Mexico” e “The Kiss,
New Mexico”, porzioni di cadaveri, il torso di un giovane e la testa di un vecchio,
vengono usati per inventare o riproporre un’immagine d’eccesso, il cui pervertimento
porta a figure sorprendenti.
L’artista poi si mette alla ricerca delle voci degli artisti scomparsi, degli immensi
affreschi e delle grandi favole percorse dalla gigantesca aspirazione dell’arte;
manipola stereotipi istituzionali, dalla Venus di Michelangelo e Botticelli, alle sfingi
di Dalì; opera sulle somiglianze e sui riferimenti per sottolineare che l’arte ha sempre
preso in considerazione l’indicibile e l’immostrabile e se non lo si riesce a trovare
nella realtà, si può farlo succedere in qualche modo nella fotografia.
Una metafisica della carne
Tale ossessione a operare sempre sulla “medesima” scena del divino e del
sorprendente, permette a Witkin di realizzare tableaux permanenti che mostrino
quanto intende comunicare; insiste su un universo cosicché i personaggi prendano, e
quindi vengano accettati, come anima e corpo reali. Anche se i suoi tableaux
rappresentano una scena storica o mitologica, essi si ispirano alla realtà e ogni
immagine è un prolungamento verso il quotidiano; ogni sua fotografia è uno
strumento per sollecitare una partecipazione.
In “Leo” 1976, la persona monca è mascherata e rinchiusa in una gabbia, quasi una
prigione. La maschera e la struttura metallica sono complementari. L’essere guarda
attraverso la maschera, perché è alla ricerca di un aldilà della sua esistenza. Siamo in
un periodo in cui Witkin usa la maschera per affermare che gli esseri aspirano a una
vita, desiderano essere “attori” di un universo diverso e sognato.
In seguito la maschera cade e le deformazioni e le manifestazioni dell’esistenza
accettano di presentarsi con il loro proprio volto, che è le “maschera” reale della loro
vita. L’essere esprime energia, si accetta, non è più separato dal suo corpo, qualsiasi
esso sia; si lascia fotografare quanto reincarnazione nell’immagine di Witkin.
L’informe e il deforme vanno restituiti alla luce. In questo senso Witkin si muove
insieme ad Arbus e a Robert Mapplethorpe per far sì che la nozione “crudeltà” non
sia più avversa, ma si trasformi in un nocciolo conoscitivo.
Tuto ciò che è tabù e proibito viene messo in discussione, le zone intermedie
subiscono una metamorfosi e l’artista può riportare in scena un bambino morto, il suo
feto, per ricreare una diversa “maternità” che è quella tragica, legata al sacrificio
degli innocenti, quanto ricreare una nuova Madonna o una nuova Madre. La
trasformazione dell’iconografia classica della maternità o della sacra Vergine non
annienta né la tradizione, né la offende, ma porta a un’altra creazione, mentre la
confusione dei sessi significa un universo non dissolto, ma allargato. Nel ricorso al
feto si pongono per Witkin proiezioni personali, la paura di essere padre e non solo, il
feto è altresì il segno di una morte precoce e gratuita, perciò arriva a simboleggiare la
tragedia di un’altra guerra, quella degli innocenti che muoiono ogni istante sulla terra.
L’artista ripete senza fine l’idea di una natura che vive sulla fusione e da questa trae
energia, come l’angelo e la sfinge, per avvicinarsi alla divinità o almeno al suo
enigma, e tali figurazioni si accompagnano quasi sempre alle figure della donna o del
transessuale.
L’angelo è mediatore tra universi opposti, vive una situazione bipolare, tra umano e
animale, quanto tra umano e divino, perciò Witkin lo fa protagonista di molte
fotografie; è soggetto protagonista in “Angel of the Carrots, New Mexico” 1981. La
figura angelica abolisce l’universo della differenza e significa per Witkin una
perversione virtuosa.
Rappresenta poi, nelle sue immagini, le passioni che si basano su tutti i possibili
doppi, il rapporto tra uomo e donna con animale, o i rapporti sadomasochisti; crea
nuove combinazioni e nuove forme che arrivano a creare una nuova mitologia così da
avvicinarsi al Demiurgo: l’artista quale angelo mediatore e comunicatore del verbo
celeste. Il soggetto della dualità ritrova un linguaggio concreto in “Siamese Twins,
New Mexico” 1988, in cui ricorre il tema dei gemelli indissociabili; la fusione del
corpo tramite l’unione di due entità qui è estremizzata, intorno al perno della testa,
quasi l’altrove cercato dovesse trovarsi, oltre che in un doppio universo fisico, anche
mentale. Secondo la simbologia, i gemelli monocoriali sono uno divino e l’altro
umano, possiedono il potere risultante da una doppia personalità. Secondo le
credenze, la loro apparizione è portatrice di portenti, positivi e negativi; la credenza
influenza anche lo stesso Witkin, gemello, che fantastica la sua nascita e quella del
fratello come parte di una gravidanza triplice, in cui il terzo gemello si è trasformato
in feto: una trinità.
Nelle figure di Witkin troviamo il transessuale, la cui identità è legata al superamento
della distinzione tra maschile e femminile; egli rovescia il concetto di bellezza e il
dissolvimento e la trasgressione non stanno solo nel tramonto delle differenze, ma
nella ricerca di un’eroticità “altra”, che arrivi a includere tutte le identità corporali e
sessuali. Il transessuale, con la sua ambivalenza sessuale, è il più dotato per
annunciare il divenire. Porta la sua compiutezza e la sua perfezione come massima
bellezza, fuori dalle rigide barriere del pensiero collettivo, rappresentato dall’arte
classica.
Agli inferi della storia
Il fatto che la trasgressione e la perversione siano accoglimento e riconoscimento di
una nuova valutazione del sentire e del vedere, si personifica nelle fotografie di
Witkin in cui compaiono soggetti quali i non vedenti, “Blind Woman with Her Blind
Son, Nogales” 1989, quanto le persone affette da severe e mortali malattie.
Anche l’immagine del Cristo o del sacrificio va sottoposta a un gesto di reinvenzione,
per ampliarne la conoscenza, con l’immissione dell’oscuro e dell’incognito. In
“Penitente, New Mexico” 1982 e in “Saviour of the Primates, New Mexico” 1982,
Cristo si dà attraverso alter creature, quella umana e quella animale; Witkin
assoggetta la figura della religiosità a quella dei penitentes messicani, che si fanno
crocifiggere in occasione della Pasqua, quanto al sacrificio degli animali.
È sempre un principio di natura spirituale a suggerire l’immagine, che passa sempre
sotto l’imperativo della reintegrazione dei mostri oscuri della società. L’immersione
nell’oscuro e nello sporco di un cadavere animale, o nell’estasi di un penitente,
segnala un erotismo di andirivieni tra la vita e la morte. La discesa agli inferi si
compie in “Laokoon, New Mexico” 1992 in cui le carcasse di primati avvolti dai
serpenti vengono a sostituire la tensione muscolare e liberatoria dell’eroe greco.
Questo rapporto con la morte e le sue carcasse vive su una forte coscienza storica,
quella di un’operazione di teatralizzazione dell’esistente che affonda nella
scenografia barocca. In particolare la necessità di spettacolarizzare il quotidiano, di
esibirlo tramite scene che moltiplichino il significato inconscio e religioso, mediante
il ricorso a figure e a corpi. La declinazione di un presente secondo un’iconografia
storica è indice di una necessità dell’artista di inserire le scene e le allegorie dei suoi
desideri e delle sue visioni in un corso unitario della storia, così da legittimarne il
percorso e legarlo all’emancipazione intellettuale e culturale della società umana.
Witkin usa la storia come strumento di sintonia iconica, quanto di legittimazione
metafisico-storica; la storia testimonia il continuo formarsi di visioni dominate da
figure di mostri divoratori e seduttori, pericolosi e affascinanti. Dice Witkin “Io credo
che i miti greci offrano alla mentalità occidentale la possibilità di arrivare alle radici
del divino”. In questo senso, la sua fotografia, seppur ribelle, è quasi riformistica
poiché non stacca gli occhi dal modello, pittorico e scultoreo. Si rifà condizionando il
soggetto e violentando il procedimento realistico tradizionale; non imita soltanto, ma
crea cose e forme, graffia e segna il negativo o plasma i corpi dei soggetti con
aggiunte di protuberanze plastiche. Witkin raffigura il passato, qualcosa che
appartiene alla storia, ma al tempo stesso ritrae il presente, quanto succede ora e può
ripetersi nel futuro.
Racconta che nel 1990 si trovava in un ospedale di medicina legale del New Mexico,
dove un medico lo condusse nei sotterranei e aprì i cassetti per mostrargli i corpi; aprì
per sbaglio un altro cassetto in cui c’erano parti di corpi, braccia, gambe, orecchie,
che si mescolavano a parti di bambini; disse a se stesso che era lì per quello e tornò il
giorno dopo sapendo di poter fare una foto e la foto fu “Feast of Fools”. Ritraendo le
spoglie mortali dell’essere umano in forma di natura morta, l’artista non vuole
rinunciare al corpo e alla carne, ma non vuole che esse siano percepite secondo moti
irragionevoli. L’insistenza sulle spoglie mortali e sui suoi frammenti evidenzia la
condizione di assoluta irrelatività dell’esistenza e Witkin l’affronta con una poetica
che considera la morte quale trapasso al soprannaturale, ma la vive anche quale
evento al limite, chiusura dello sviluppo vitale; un’altra dualità; fotografa la morte
perché è parte della vita, guarda alla morte perché pensa che vivere su questa terra è
una parte dell’esistenza e la morte è l’altra parte.
L’esercizio della fotografia non deve essere solo spirituale, ma configurarsi quale
impegno e interpretazione della società; la rappresentazione della rappresentazione è
un metodo per definire l’allegoria della vita, ma questa si concretizza solo attraverso
personaggi e fatti realmente esistenti; è un linguaggio interamente fisico, che ha per
vocaboli tutti gli oggetti visibili.
Dolcezza, ferocia, intimità e violenza denotano il lessico immaginoso degli artisti
visionari al cui discorso si ispira Witkin, quando cerca di esprimere le costellazioni
del tragico e del simbolico, del misterioso e del surreale, del morboso e del perverso;
immagini metafisiche, perturbanti ed enigmatiche, perché segnate dall’assenza
dell’uomo quale soggetto; un’entità senza identità, un manichino che vive in un
universo irrigidito e solitario; un’anomalia della vita come “Man without a Head”
1993: “Avevo chiesto che fosse tagliata la testa a un cadavere […] Un uomo morto
senza testa, seduto su una sedia. Volevo fare la fotografia più triste che fosse mai
stata fatta”. Movendosi tra sessualità e spiritualità, il corpo, per l’artista si fa
involucro e membrana, è una scoria dell’esistenza dentro la quale si perdono il
pensiero e l’anima. La sua vera esistenza è quella di essere una cerniera tra l’alto e il
basso. Disse che non voleva solo scattare una foto, ma voleva onorare quell’uomo.
Lo fece sollevare e mettere su una sedia, ma mentre lo mettevano seduto il sangue
scorreva da varie parti. Una volta seduto cominciò a cadere e il sangue continuava a
uscire e l’unico modo era tenerlo per le mani e farlo stare in equilibrio; così il morto
stesso gli mostrò come doveva fotografarlo. Aveva le calze, ma non erano stati loro a
mettergliele, ma poiché le indossava, significava che era ancora molto, molto vicino
alla vita.
I quadri di Velazquez sono portatori di suggerimenti iconografici sul piano registico e
simbolico; Witkin si addossa le loro immagini e ne reinventa le grandiosità: “Las
Meninas” di Velazquez ritorna in Witkin come autoritratto e autocitazione di un
processo spirituale e soggettivo. La complessità narrativa del quadro è riproposta con
riprese e sostituzioni; la presenza delle figure del re e della regina, permane, quasi
volesse sottolineare una continuità regale, quanto l’accettazione della sua vicenda
fotografica da parte della storia; l’infanta è sostituita da una donna con moncherini,
sollevata da terra da una struttura con ruote e gli attendenti o i servitori dell’infanta
sono sostituiti da una forma mostruosa. L’atteggiamento del fotografo nei riguardi del
soggetto rivela come Witkin si senta privilegiato nel poter riprendere immagini
sovrane. Las Meninas, è dedicata da Witkin alla Spagna.
HILLA E BERND BECHER
La tradizione di documentare il mondo meccanico e tecnico ha radici lontane. Nel
rinascimento esistono già vere e proprie scuole di specialisti, capaci di produrre
documenti iconografici di insiemi tecnico meccanici. In seguito, i secoli del Seicento
e del Settecento, in Francia e in Inghilterra vedono fiorire di raccolte di documenti in
cui si offrono quadri chiari e dettagliati degli elementi principali del soggetto
meccanico; con l’avvento della rivoluzione industriale, questo interesse illustrativo
diventa generale e si istituisce come maniera di comunicare e di informare. Alla fine
del Settecento il panorama ambientale iniziava ad essere mutato e le immagini
prodotte non sono più qualcosa di specialistico, ma attestano una mutazione della
realtà ambientale. Così l’arte inizia a riprodurre anche il paesaggio industriale: nel
1779 appare la prima illustrazione del ponte di ferro di Coalbrookdale, un’immagine
che non presenta alcun intervento fantastico e deformante dell’artista, ma riproduce
fedelmente la mutazione tecnologica.
L’adozione della fotografia come sistema “assente” di registrazione ha permesso al
“testimone”, cioè l’artista, di evitare, nel documento, ogni componente
espressionistica. L’atteggiamento anonimo concede all’osservatore di rivelare la
realtà di un procedere razionale e concettuale e il massimo grado di indifferenza
permette di sottolineare il massimo grado di decoratività del dato archeologico e del
documento visuale, senza che il fotografo aggiunga alcuna carica decorativa e
espressiva.
Hilla e Bernd Becher, dal 1959, continuano la tradizione della documentazione
sull’archeologia industriale, producendo insiemi fotografici illustranti i reperti
industriali in Germania, Olanda, Belgio, Inghilterra, Francia, Stati Uniti e
Lussemburgo. Per i Becher, documentare un reperto significa non solo registrarlo
visualmente, ma anche appropriarsene e verificare il contesto e le fonti. Sono convinti
che per spiegare il fenomeno dell’archeologia industriale sia necessario avere un
modello operativo distaccato e impersonale, al fine di percepirne l’essenza.
Le prime considerazioni dei Becher sono rivolte a stabilimenti e manufatti in grande
scala, situati nella medesima area geografica con l’intento di evidenziare la tipologia
territoriale. Dal 1963 hanno iniziato a raggruppare in composizioni multiple le
fotografie scattate in un quartiere determinato e delimitato, così da verificare un
insieme iconico locale; i soggetti includono la miniera di San Ferdinando, le case a
graticcio e gli sviluppi industriali della Westfalia meridionale; nella sequenza, le
scelte cadono su architetture che presentano affinità strutturali.
Nel 1964-65 emerge un altro principio metodologico. È connesso alle scelte iconiche
e si concentra su un unico soggetto: trivelle e cisterne d’acqua. Le fotografie sono
presentate in sequenza libera, ma dal 1967 sono ricomposte in un sistema a traccia
visiva che trasmette e dà al lavoro un significato e una precisione nuovi. Iniziano a
operare e scattare sulla base di costanti, che posso essere la funzione, il materiale, un
principio strutturale o un aspetto formale. Nel 1968 i Becher si impegnano a costruire
combinazioni più complesse, connesse a costanti maggiormente diversificabili. Le
associazioni visive delle stesse costruzioni offrono un sistema di lettura attraverso
paragoni visivi che permettono ad artefatti apparentemente anonimi e banali, di
essere considerati per le loro rilevanti differenze decorative e tipologiche. Le
sequenze fotografiche dei Becher riguardano fondamentalmente i monumenti
industriali, da loro definiti “sculture anonime”.
L’operazione dei Becher esalta la condizione di compromesso fra tecniche costruttive
identiche e tecniche decorative, per cui il risultato, nella stessa categoria di oggetti, è
differente e pieno di contraddizioni. Così la famiglia dei silos, dei gasometri, delle
cisterne d’acqua, delle trivelle e di altre strutture di medesima funzione, si dispone a
formare un catalogo tipologico che include tutte le variazioni di forma e di materiale.
Ogni componente viene illustrato di fronte, di lato, di taglio prospettico a seconda
delle sue complessità. Le variazioni tipologiche generali possono essere raggruppate
per corrispondenze formali o materiali.
Avendo scelto soggetti anonimi, l’effetto che si crea e si stabilisce dinnanzi allo
sguardo è qualcosa di simile a uno spartito, fatto di immagini industriali.
GREGORY CREWDSON
Intorno alla fine degli anni Settanta il linguaggio espressivo della fotografia cambia
di segno. Dopo un secolo di realismo, in cui l’immagine riprodotta è dominata
dall’oggettività, i fotografi tendono a mettere in discussione il referente esterno, per
cercare un discorso che riguardi la loro posizione poetica e creativa; rappresentare la
realtà anche nelle sue diramazioni immaginarie e fantastiche; entrano in scena
l’irrealtà e la manipolazione del soggetto e la fotografia entra in un discorso
funzionale con la psiche del soggetto, si relaziona al suo inconscio.
La posta psicologica che si polarizza sull’individuo, con Gregory Crewdson appare
attribuirle a una dimensione collettiva, a una massa in generale di persone o di
ambienti. Le sue fotografie, seppur implicando una nozione di spazio immaginario,
quello della middle America, sono l’estensione della sua soggettività, ma rispetto alle
sue radici newyorkesi, l’artista si avvicina all’idea di un’unità familiare, analizzata in
tutti i suoi aspetti di diversificazione ambientale. Ogni fotografia è il risultato di una
costruzione complessa, poiché l’intera realizzazione comporta giorni e giorni di
lavoro, quanto il ricorso a una sceneggiatura di oggetti e di eventi che portano alla
identificazione di una scena silenziosa e misteriosa; l’insieme riflette quasi una
situazione da set cinematografico, con luci aeree e artificiali.
L’intero sistema è di fatto virtuale, nel senso che è proteso verso una liquidazione del
reale, però ottenuto con il ricorso alla realtà stessa. Pertanto tutte le eventuali
descrizioni del suo lavoro sono interpretazioni critiche.
La sua serie “Twilight” 2001-2002, sollecita proiezioni e fughe analitiche infinite. È
una sequenza di messe in scena, in cui il paese o gli individui che lo abitano si
proiettano nella fotografia e creano situazioni ambientali, dove regna il silenzio e
l’immobilità che permette all’immagine di ricevere una visione personale stimolata
dal profondo disagio psichico della vicenda ripresa. Si pensi alla sottile violenza,
psichica e fisica di Untitled, Family Dinner dove la figura femminile nuda si inserisce
nella scena familiare con una statuarietà inquietante, mettendo quindi in difficoltà il
giovane trio seduto a tavola. Oppure alla ricognizione condotta su una donna incinta,
esposta nella sua solitudine e all’interno di uno squallido recinto di giardino, pieno di
utensili e di materiali abbandonati: Untitled, Pregnant woman.
In molti casi è l’universo scisso e schizofrenico ad emergere, del conscio e
dell’inconscio, che si implicano vicendevolmente e che sono i lati della stessa
condizione dell’individuo. In Untitled, Ophelia, lo scambio tra energia sensuale e
energia psichica è esemplificato dalla tragicità statica del corpo che fluttua in un lago,
dove il paesaggio è composto da mobili e dall’ambiente casalingo; un conflitto dove
l’essere, femminile, risplende nella sua bellezza e nella sua sensualità, pur
mantenendo nascosta una parte non “emersa”. In Untitled, Dylan on the Floor, la
situazione si ripete, ma al maschile, soltanto che qui il sommerso è un’emanazione di
colonne di luce, quasi l’integrazione della sua componente nascosta fosse affidata
all’assunzione delle parti luminose.
CINDY SHERMAN
Il clone, la replica, il doppio, il gemello, sono varianti dell’identità, le sue ombre in
cui l’essere si rispecchia, senza trascendersi. Nell’arte, la funzione poetica
dell’autoritratto assolve spesso questo ruolo rivelatore.
Sin dal 1977 Cindy Sherman ha scelto di diventare immagine, vale a dire connotare la
sua apparenza come sequenza di doppi infiniti e sorprendenti. Indossando parrucche,
vestiti e trucchi sempre differenti, Sherman traduceva la sua immagine in un
autoritratto cangiante e mutante, un tableau vivant e una finestra temporale da cui
osservare le sue infinite personalità. Il continuo debordare da un personaggio
all’altro, che aveva però riferimenti a immagini prese da riviste e da racconti
cinematografici, in poco tempo, si traduce in un doppio fotografico, uno specchio
freddo e artificiale su cui fissare i momenti prodigiosi della sua ubiquità esistenziale.
Il primo passo è quello di fermare su carta sensibile uno stadio del suo essere
plurimo, con la conseguenza di enunciare una possibile declinazione della stessa
persona. Tutto il percorso di Sherman è il risultato di una drammatizzazione del
femminile, dove contano le componenti emotive, quanto esteriori, il trucco e le
protesi che indossa, la scenografia in cui si trova ad agire e a vivere. Un’esistenza
formale e mascherata che sfugge a ogni definizione, qualcosa che è comprensibile
solo se si entra nella sua bolla magica e seducente. Una doppia vita che è manifesto
della doppia visione della fotografia, la quale attira la molteplicità. Un presentarsi
ossessivo e inquietante chi si moltiplica, accelerando il potere narcisistico del ritratto
dove l’essere si fa “divo” o “diva”. Una galleria di esseri che incarnano la storia delle
apparenze; per questo motivo Sherman nel corso del suo percorso le attraversa,
indossandone le fogge che possono essere quelle dei personaggi antichi, ritratti di
Rembrant, o di attrici moderni quali Anna Magnani. Una carrellata di fantasmi
viventi che nell’ultima serie, 2008, riguarda le signore della borghesia americana con
i loro lifting estremi e i loro makeup marcati e volgari, i loro vestiti sontuosi e un
po’pacchiani: non più doppi immaginari, ma incubi reali.
MARIO GIACOMELLI
Il territorio
Dopo la riunificazione e la liberazione dell’Italia, nel 1945, il sistema si rianima e i
presupposti delle ricerche d’avanguardia, nell’ambito di tutti i linguaggi si
istituiscono come arma di pressione morale e di espressione della condotta di un
paese, quanto strumento di uscita dal dramma della storia. Il desiderio è di ripiegarsi
su un ideale e recuperare un’entità infranta. Le arti sono viste come un modo di
sollecitare e di garantire la ricerca di novità che funziona da centro propulsore per la
produzione e per i consumi; esse configurano la visualizzazione di un’ascesa
dinamica del contesto sociale, quanto un’immagine flessibile del nuovo. Si creano
gruppi, dal Fronte Nuovo delle Arti a Forma, dal neorealismo cinematografico
all’americanismo letterario, dalla fotografia del gruppo La Bussola alla grafica
neobauhausiana, che girano intorno alla leadership espressiva e creativa dell’unica
forza politica, quella socialcomunista, interessata a discutere il ruolo pubblico
dell’artista e ad avere un’identità intellettuale. Si formano poi gruppi contrapposti che
tendono a rappresentare la realtà delle classi e il verbo stalinista oppure gli
intellettuali e le avanguardie storiche.
Il rinnovamento realista passa attraverso il cinema, mediante la realizzazione di film
come “Ossessione”, 1942 di Luchino Visconti e “Roma città aperta” 1945 di Roberto
Rossellini, dove la realtà viene “rivoltata” e assunta non solo per la sua naturalezza,
ma anche per la sua drammaticità sociale e personale.
Con Vittorini e Pavese la cultura italiana si apre al cosmopolitismo e cerca un
rapporto privilegiato con l’America, che viene assunta quale la terra promessa di
libertà e di dignità della condizione umana. È attraverso Vittorini e il suo
“Politecnico” che si diffonde nel 1945 il linguaggio della fotografia, che diventa
elemento complementare della scrittura, quanto dei testi. Viene impaginata e resa
partecipe di una corposità tipografica, che porta all’equivalenza tra il peso delle
parole e il peso delle immagini. I documenti che illustrano la scrittura sono quelli
della fotografia sociale, che diventano finestre percettive, arrivando ad infiltrarsi in
settimanali quali “Il Mondo” e “Tempi”. Questi strumenti di informazione si offrono
come le prime testimonianze di un’angolazione realista a carattere civile e
democratico e le immagini iniziano a valere per se stesse, come finestre autonome sul
reale e sul quotidiano; sono più dirette e fattuali, meno cinematografiche, in
particolare le immagini relative al Sud povero e abbandonato. Nell’ambito
fotografico, le ricerche del dopoguerra si aprono nel 1947 con il Manifesto de La
Bussola, gruppo capeggiato da Giuseppe Cavalli, dove, seppur ispirandosi alle
aperture delle avanguardie storiche, vi si ricercava ancora una visione sognata e fuori
del mondo.
L’estetica della vita attrae immediatamente Mario Giacomelli che, nato nel 1925, già
nel 1938 è spinto alla sopravvivenza quotidiana e quindi vede nella linfa esistenziale
la sostanza vera del fare. È attratto dal reale allo stato puro, perché non può essere
evitato, ma cerca di usarlo come fisicità per mettere a nudo i movimenti più segreti
dello spirito. L’elemento realista è importante perché definisce un materiale in cui
l’essere si immerge, ma la sua apparizione deve essere attraversata da un soffio
profondo, cosicché la fotografia diventi un’interiorità. Le sue “riprese” contengono
sempre una particolare animazione, dovuta al movimento o alla materialità che serve
a insinuare in ogni immagine il codice della sua interpretazione. Il suo è un tentativo
di comunicare, mediante la fotografia, che il sociale è maledetto e l’immagine può
evidenziarne la mostruosità, ma anche la sua capacità critica, che appartiene
all’occhio e alla mano del fotografo.
Giacomelli non va allora nella direzione dell’assoluto realismo e del radicale
materialismo, ma ricerca una fotografia “altra” in cui il soggetto, ripreso dal mondo,
non allontani il nucleo vivo di colui che lo riprende. Così nelle sue immagini di
paesaggi e di contesti sociali, come ospizi e mattatoi, si spoglia della sua identità
tramite un metodo personale di ripresa e di sviluppo e si restituisce la parola
emettendo un grido.
Il viaggio all’inferno
Mario Giacomelli, nato a Senigallia, il 1° agosto 1925 da una famiglia contadina, ha
avuto un’infanzia segnata dal trauma della morte del padre e dal gesto d’amore e di
sopravvivenza della madre, costretta a fare da lavandaia in un ospizio per vecchi. Non
meraviglia quindi che la sua crescita sia avvenuta sotto il segno dell’oscuro e del
nero, della malinconia e del silenzio. A tredici anni abbandona la scuola e si mette a
lavorare in una tipografia; attraverso il lavoro tipografico Giacomelli acquista la
coscienza di una comunicazione, ma anche la consapevolezza di poter ascoltare la
struttura interna del linguaggio per immagini: “Ho imparato ad immaginare il
risultato della composizione prima di realizzare la bozza…Ho imparato le giustezze e
le proporzioni nell’accostamento dei caratteri; ho imparato ad impaginare l’armonia
tra il nero e il bianco o la stessa coloritura degli inchiostri e delle carte”.
Nel 1953 Giacomelli si avvia a impegnarsi nella fotografia e compra una macchina
fotografica, una Comet; subito dopo aver scattato le prime fotografie si accorge che la
macchina fotografica è come una tela, ma è anche uno strumento impersonale e quasi
autonomo, ed è completamente affascinato dall’errore, quello che porta a immagini
sfuocate o mosse a causa del movimento della macchina fotografica.
Sin dall’inizio non lo interessa la fredda oggettualità degli accadimenti reali, ma la
desinenza profonda di un’avventura spirituale ed emotiva, il cui senso va colto tra le
immagini, che crepitano anche di tecniche primordiali, violenti contrasti, stampe
bruciate, ritocchi palesi e rozzi, per dare intenzionalmente maggior valore al
primitivismo del suo sentire.
Giacomelli fonda insieme a Cavalli il gruppo Misa, che rispetto alle ricerche che
evidenziano la maniera di “scolpire” le figure tramite la linearità e l’assolutezza dei
contorni e delle luci, sono interessati agli sfilacciamenti e agli incongrui vapori che
fagocitano le immagini. “La fotografia non la vedo come la vedono gli altri; è solo un
supporto, uno spazio bianco che voglio riempire di ricordi che sono i miei, ma
influenzati dagli altri. E allora in fotografia me ne sono fregato degli altri. Ecco dove
la mia ignoranza mi ha aiutato molto”. Dopo aver acquistato una Kobell usata,
Giacomelli la modifica meccanicamente e comincia una ricerca di immagini che si
impegnano si dall’inizio nel continuum della vita, quella che parte dall’infanzia e
arriva alla prima maturità. All’inizio Giacomelli passa attraverso lo strazio di
guadagnare luminosità, per cui non esiste ancora spontaneità felice, ma una via sulla
comprensione della tecnica; sperimenta anche il colore riprendendo nature morte e
tenta esperimenti di trasparenza. Da queste esperienze si rende conto del pericolo di
annientamento che la fotografia e la sua tecnica implicano; avverte che il colore non
comporta alcun segno di vita per cui preferisce il nero; l’utilizzazione dell’oscuro
permette inoltre l’affiorare del fuoco vitale del bianco.
Giacomelli decide che l’unico tragitto possibile è quello della realtà quotidiana che lo
circonda e comincia dalla sua “nascita”, fotografando la madre, e perviene alla sua
maturità ritraendo la moglie e gli amici, i ragazzi e il pittore, il mare e i gatti. Poi una
volta rimosso il supporto della figura isolata, la fa precipitare nel caos delle forme;
sulla carta forte e dalle caratteristiche molto granulose, si accumulano stratificazioni
di nero che inchiodano le creature al fondo. È un altro modo di sottolineare che per
Giacomelli la fotografia deve “fissare” la pienezza dell’essere, che non può risultare
un ricordo affievolito.
“La fotografia è una cosa magica, che mi dà la possibilità di esprimermi, di sostituire
la parola che sento di non sapere usare”.
Dal 1954 Giacomelli si mette alla ricerca di un’interiorità muta che possa diventare
trasparente e mostrare la densità di un sentire. Questa non può scaturire dalla
teatralità di figure in posa, ma da una scena già innescata, dove lo sguardo “falso”
della fotografia può lasciare spazio a uno sguardo “vero”. Questo si può solo scovare
esclusivamente in una vita sotterranea.
Dal 1955 riprende, dall’alto, nella sua pienezza le grandi distese di terra attraversate
dai segni e dai tracciati che i contadini lasciano, “Metamorfosi della terra” 1955-
1980. La distinzione tra vivere e continuare a esistere, lo spinge a riprendere le figure
ricurve e rugose dei vecchi che si avviano, come la terra, a essere materialità
inanimata. Interessante può risultare l’analogia tra le rughe della terra e le rughe dei
corpi, tra la dimensione addormentata dei campi e le figure distese e immobili nei
letti dell’ospizio; i lineamenti sono “identici”. Nella serie “Verrà la morte e avrà i tuoi
occhi”, sviluppatasi nel tempo dal 1954 al 1983, la ripresa dei vecchi nell’ospizio per
anziani e la verità di condizione umana si offrono come totalità insopportabile. Il
luogo dell’ospizio, come trattato, inondandolo di luce bruciante, sembra già
proiettarsi in un altrove, dove le singole figure dei vecchi, diventano indescrivibili e
indistinte perché o partecipi di un sospeso vuoto che le annulla o perché collocate in
una cella isolata o in penombra; ogni momento è privo di un sorriso, perché tutto si
affida a smorfie e contorcimento. Anche l’inquadratura, il taglio e la luce
contribuiscono alla verità di questa appropriazione del basso della vita, sono i primi
piani, quasi ossessivi, in cui la figura inquadrata sembra pronta a esplodere oppure è
ripresa in controluce per essere annullata e cancellata dall’ambiente. “Più che quello
che avevo davanti agli occhi volevo rendere quello che avevo dentro di me, quello
che nasceva man mano che mi ambientavo dentro queste cose”. Attraverso queste
immagini, Giacomelli rivendica un’espressività autonoma, perché lavora
sull’efficacia della comunicazione visiva che coinvolge non solo per le figure, ma per
contagio fisico. Le sue immagini sono una copia delle sue emozioni.
Dal 1955 al 1960 c’è un ritorno alla riconsiderazione della linea metafisica del
paesaggio e del nudo; “Nature morte” 1955-56 e i “Nudi” 1956-60, seppur basati sul
violento contrasto di bottiglie in bianco e nero e di angolazioni nella ripresa dei corpi,
riflettono una vita propria, legata alla povertà e alla brutalità dell’ambiente. Ben più
drammatiche le immagini di “Lourdes” 1957, dove il bianco e nero mostra l’altra
faccia dei Dio; qui la compresenza di vita e di morte, va verso il desiderio di vivere
ed è rappresentato da un flusso in marcia con qualsiasi mezzo meccanico. È lo stesso
mondo in fondo dell’ospizio, con la differenza che mentre nell’ospizio vogliono ad
ogni costo morire, questi vogliono a tutti i costi vivere.
La doppia ascesa
Esiste in Giacomelli il tentativo di riappropriazione dell’energia semplice della vita
quotidiana; non più immersione nello sporco e nell’abbietto della futura morte, ma
esercizio di un rapporto complice e quasi fraterno, là dove l’essere umano è solo se
stesso. “Scanno” 1957 e 1959, scattate nel breve arco di una giornata; i contadini, i
pastori e le loro mucche sembrano rappresentare il potere dell’oscuro che, riattivato
dal contatto con la luce, produce un’inedita energia. Le polarità di questa osmosi sono
date dall’immagine della contadina vestita di nero che porta in braccio il bambino, in
bianco, quasi una dichiarazione di reintegrazione tra forme antiche e future, del
vecchio e del giovane. Anche la composizione geometrica delle figure concorre a
sottolineare un discorso di masse che ci confondono e si fondono; i vecchi sul
balcone, sono inquadrati in un triangolo rovesciato, oppure l’altra disposizione a
triangolo delle tre figure femminili che si gonfiano di vita e si innalzano, fino
all’integrazione tra femminile e maschile nella figura dell’anziana che passeggia
solitaria rispetto al gruppo di uomini sullo sfondo.
Si avvicina definitivamente al linguaggio di un’arte mentale e materica. In queste
immagini è la forma dello spirito puro a contare, come è la forma della carne. In
“Mattatoio” 1960, a soffrire non è solo lo spirito, ma anche la carne. Il polo spirituale,
leggero e aereo, si ritrova invece in “Io non ho mani che mi accarezzino il volto”
1961-1963; siamo in un seminario, dove presumibilmente lo stato aureo dell’essere
viene coltivato. In questo campus i corpi sono compatti, anche per le tonache che li
contengono, e hanno una forza elettrica felice e vitale, non sentono il gravame della
carne; tramite la fede che sottrae l’uomo a se stesso, i pretini si tramutano in angeli
neri che perdono il corpo o lo fanno affondare in un campo di purezza, la neve, al
punto che la dimensione mossa e sfocata, quanto il bianco assoluto, attraversano
questa serie fotografica. Il tema del “buono” come detentore della positività ritorna
anche in “La buona terra” 1964-66. Qui la gloria tocca ai contadini e alle loro
famiglie che lavorano nei campi e vivono felici delle loro fatiche. Le fotografie
documentano il corpo di gloria ottenuto non più per vocazione o per fede, ma
attraverso gli strumenti della fatica; tutta la sequenza è marcata dalla presenza di falci
e forconi.
“Motivo suggerito dal taglio dell’albero” 1967-68 è la serie in cui il terreno agricolo
impregnato di vita umana lascia spazio alla pittoralità della natura stessa, quella
dell’albero tagliato. L’intento implicito in tali fotografie è affermare l’azione
reciproca tra natura umana e vita vegetale. Il periodo storico è connesso alla scoperta
da parte di molti artisti, quelli della land art, di una dimensione segnica del territorio e
della natura. Giacomelli si colloca nel filone della messa in risalto di una sensualità
della terra e del fango, del campo e della valle.
Il silenzio imperfetto
Nel 1968 Giacomelli conosce Burri e la carica a proposito delle materie, quali sacchi
e plastiche, scorre parallela alla sua ricerca di figure informi trovate nel paesaggio.
L’inedita struttura profonda di un tronco è analoga al rattrappirsi visivo della plastica
sottoposta alla torcia di fuoco; i due artisti lasciano la “parola” alla materia.
“Le mie foto vogliono illudersi di essere scritture segrete, non belle immagini, non
fatte per essere semplicemente capite, ma interpretate e chiunque le guarderà possa
continuare la sua parte”.
Ne “Il mare dei miei racconti” 1983-1987, lo spaesamento aereo in questa serie non
rivela più le mappe lineari dei segni lasciati dai contadini, ma la mappa puntiforme
delle individualità che come le loro ombre sono il limite estremo di altre tracce
umane. L’inedita prospettiva è data dall’integrazione tra distese naturali, quali sempre
spiagge, e il brulicare dei corpi. Si ripropongono qui la dialettica vuoto e nero,
immersione nel vuoto e nel nulla di esseri anonimi che hanno perso ogni
connotazione e dove la visione è estremamente pessimistica. Con queste fotografie
Giacomelli inizia a coltivare una dimensione nichilista che lo porta prima verso
“L’infinito” di Leopardi e poi a “Passato” di Cardarelli; entrambe si arrendono al
volare del tempo e della vita.
Sembra che dal 1990 la spinta sia a sfigurare e a deformare, quasi la sfocatura, il
mosso e la sovrimpressione volessero ridurre il linguaggio al silenzio, farne un grido
muto. Come in “Io sono nessuno!” 1992-1994, dove le fotografie registrano solo
ombre e il passaggio di una presenza umana. Il senso della prigionia corporale da cui
l’anima sta iniziando a sfuggire è dato dalle ombre quanto dalla presenza dello
spaventapasseri, quasi Giacomelli tendesse a ritirarsi dinnanzi a un evento
catastrofico, che lo avvicina alla notte.
Ne “La mia vita intera” la figura continua a emergere, con i suoi ricordi di volti e di
persone, ma lascia sempre più spazio all’infinito del cielo e della terra e all’assenza,
simbolizzata dalle sedie vuote. Ma non manca un gesto di sottrazione finale, “Questo
ricordo lo vorrei raccontare” 1999-2000, che vede la sostituzione dell’ombra con
l’ultimo autoritratto di Giacomelli, una rappresentazione in cui l’ombra si fa corpo
che pesa, ma che è anche assenza ideale.
NOBUYOSHU ARAKI
La storia di Nobuyoshu Araki è quella di un essere umano che si trova negli anni
Sessanta a vivere in un mondo, quello Giapponese, dove il sessuale è indicibile e
invisibile per cui comincia a scattare fotografie che sgorgano da tale universo.
Il suo sguardo è neutro, rivela soltanto il fenomeno di un corpo, femminile o, a volte,
maschile, con le sue incomparabili proprietà di bellezza e di materialità sensuale; un
essere in sé, al suo grado zero di una gestualità sessuale, passiva o attiva, che si
evidenzia come creatura angelica e dannata insieme. Ognuna vive in un silenzio
perfetto e assoluto che rende la sua solitudine disperata e ironica, perché affidata al
possesso di un semplice oggetto, una piuma o una scarpa, un kimono o una sigaretta,
che sembra custodire avidamente come fosse un tesoro. Sono figure che non hanno
altro che la loro nudità insistente, oscena, dove compaiono come schiave e serve,
inchiodate e legate alle leggi insensate di un desiderio possessivo e dominatore.
Anche se le immagini sembrano messe in scena, il loro mondo esiste, non c’è niente
da spiegare e Araki vuole che questa realtà sia vista con gli occhi fisici con cui
vediamo le cose così come sono. Per lui si deve vedere la miseria umana quanto la
sublime bellezza. A ben guardare le sue figure sono sempre sole e difficilmente
entrano in rapporto, quasi lo interessasse il senso dell’impossibilità di comunicare tra
gli esseri in assoluta solitudine.
Il suo percorso dal 1970 a oggi è segnato da migliaia e migliaia di immagini, che
sono state pubblicate in oltre cento monografie; si oscilla dai quartieri della
pornografia giapponese, agli edonismi della politica quanto al flusso di gesti delle
prostitute e dei loro clienti. Tutta la sua ricerca sul reale è all’insegna della
liberazione dai limiti, di un’azione o di un desiderio che soffocano il corpo, tanto che
all’origine le sue fotografie risultano radicali, nel senso che infrangono la legge
giapponese che non permetteva la visione del pube.
Araki oltre alla valanga di soggetti erotici, immette nel suo lavoro tutte le possibili
tecniche di comunicazione fotografica; si serve della diapositiva, del manifesto, del
film, della polaroid, della fotografia a colori e in bianco e nero, per costruire i suoi
mosaici di solitudini erotiche che si dispongono da parete a soffitto o si arrampicano
per le architetture di musei e gallerie. L’idea è di registrare un universo di corpi
galleggianti in un’agghiacciante sensualità, dove i piaceri immacolati e osceni, del
sesso e della politica, creano una coreografia di sensi, in cui lo spettatore è invitato a
partecipare come voyeur attivo o passivo.
SAM TAYLOR-WOOD
Il suo linguaggio, che dall’oggi guarda allo ieri, passa attraverso “Wrecked” 1996,
“Noli me Tangere” 1998 e “Soliloquy” 1998, in un continuo richiamo sia
all’iconografia classica della pittura tre e quattrocentesca sia alla definizione di uno
spazio di accadimenti regolato da leggi o da significati non immediatamente
comprensibili. “Noli me Tangere” richiama la figura del telamone e rimanda al ciclo
della Passione; la serie “Soliloquy” riflette il fascino per le pale d’altare che nel
registro superiore recano la raffigurazione di un santo o di una santa e in quello
inferiore (predella), gli episodi della vicenda personale o storica di un personaggio;
con “Wrecked” si giunge alla citazione diretta dell’Ultima Cena. L’ispirazione
iconografica viene dalla pittura antica, nelle cui opere le tavole formano trittici o
insiemi unitari in cui le figure si pongono come elementi di separazione tra cielo e
terra. In Soliloquy è raffigurata la stessa separazione, il diverso senso formale tra
sublime e fisico, tra immateriale e materiale, cercando di unificarli in un insieme che
crei una relazione tra territorio del conscio e dell’inconscio. Nel caso di “Soliloquy
II” il senso multiplo del racconto è già presente nella scena del registro superiore,
dove la figura maschile è circondata da un numero inusuale di cani. A questa
situazione si aggiunge la storia della predella, dove il personaggio ricompare con un
cane ed è circondato da altre figure in una stessa stanza, nella quale l’intensità
corporea crea delle sensazioni che vanno dall’incatenamento sessuale alla solitudine
emotiva. La creazione dell’immagine parte in Spagna. “Mentre stavo guidando è
apparso un branco di cani selvatici e randagi. Una situazione reale, ma con una
componente surreale capace di creare un certo disagio. Poi sono tornata in quel luogo
con un ragazzo dall’aspetto tipicamente English e gli ho chiesto di farsi fotografare
tra quei cani. È stato come creare una dimensione squilibrata, tra la posa composta ed
elegante del corpo normale, e il disordine scomposto del contesto creato dalla libertà
degli animali. […] mi interessa come l’immagine superiore e quella inferiore siano
lette come un tutt’uno, tanto che a volte la figura in alto deborda e scende in basso,
come in “Soliloquy I”, “Soliloquy II” e in “Soliloquy IV”, dove rispettivamente il
braccio del giovane, la coda di un cane e il gomito della donna oltrepassano il limite e
si confondono con il racconto sottostante.”
Sia la fotografia della scena principale, sia quella della sequenza scenica sono
manipolate, o quanto meno alterate in minima parte in alcuni particolari; si tratta di
cambiamenti sottili, capaci di creare uno spazio surreale, quasi goffo e sgraziato.
In “Soliloquy III” il rimando alla Danae o alla Venere di Tiziano o alla Paolina
Borghese di Canova, contrasta con il luogo attivo della catena di corpi e di storie su
cui poggia la sua immagine. La predella è luogo di desiderio e di incontri, dove il
racconto evoca il senso del limita causato dalla sua scansione in parti. A mano a
mano che lo sguardo si addentra nei particolari, la stanza svela un che di torbido e di
minaccioso. L’intento era di rappresentare una situazione incentrata sulla bellezza e
sulla vanità, sul rapporto tra carne e sesso. La figura femminile sta pensando a sé
stessa come a un oggetto sessuale decisamente attraente. Nella parte inferiore veste di
rosso ed è seduta sulla poltrona, quasi assistesse, come testimone, a uno scenario
orgiastico che non le appartiene. L’ambiente è quello di un comune appartamento,
quasi da casa popolare; è un’abitazione modesta, che mantiene tuttavia una forte
connotazione di decadenza. L’arredo, il tipo di attività, le pose e i colori, i vestiti e le
azioni rivelano invece ricchezza e prosperità.
Tutte le sue rappresentazioni tendono al fantastico. Con “Soliloquy IV” voleva creare
una visione onirica, non partecipe della realtà: tre nani, un bambino, i gemelli creano
una situazione per nulla quotidiana. Tutto è costruito in modo tale che la donna
distesa sul letto, con gli occhi chiusi, proietti fisicamente i suoi stati interiori. La
storia nella predella dilata l’attenzione all’universo delle cose come delle persone
relazionabili a ciò che lei sogna. I nani guardano fuori dall’immagine e sono inseriti
in una scena quasi teatrale, come se stessero osservando la donna che dorme e come
se fossero attori che rivolgono la loro attenzione al pubblico.
In “Soliloquy I” vi è l’intenzione di proiettare, attraverso questo sogno, una
sensazione di decadenza aristocratica. Le scene sono riprese nella casa
tardottocentesca di lord Leighton, il pittore. Anche la dimensione fisica è come
alterata, poiché il braccio del giovane è allungato e per di più alcune figure all’interno
della scena inferiore sono modificate nelle proporzioni; l’ambientazione esprime
negli arredi qualcosa di autenticamente decadente e fuori del tempo.
In “Soliloquy V” l’uomo appare per strada, chiuso in sé stesso, mentre la sua visione
evoca un dissolvimento spaziale, quello di un parcheggio sotterraneo assolutamente
deserto, dove lui ricompare sulla destra, vicino a un pilastro. All’interno della serie, la
sua apparizione serve a sottolineare che non esiste solo una condizione sognante
connessa allo stato del dormire, ma anche quella dell’essere svegli e attivi.
La metodologia operativa di “Soliloquy” e di “Five Revolutionary Seconds” è
analoga, strettamente connessa alla ricerca di un racconto omogeneo. Il processo
lavorativo viene espletato al massimo nell’arco di un giorno, mentre la preparazione è
più complessa; bisogna individuare le persone giuste e la giusta location, occuparsi
dell’organizzazione e del processo operativo. La lunghezza delle sequenze è sempre
di 7,5 metri circa: sono così lunghe che è impossibile vederle nel loro insieme e ciò
significa che è necessario percepirle per parti; in questo senso chi osserva ricava una
propria lettura.
“Five Revolutionary Seconds” copre una serie di stati esistenziali, con tutte le
possibili variazioni: dalla più assoluta normalità all’eccesso. Così in “Five
Revolutionary Seconds III” compaiono una persona assorta in se stessa, un’elegante
figura femminile che sembra in attesa di qualcosa, un accoppiamento erotico e un
personaggio maschile che scruta l’ambiente. In “Five Revolutionary Seconds V”, in
un grande loft si incrociano alcune figure sedute, un gruppo che sta discutendo e che
si riflette in uno specchio, e una donna vestita di rosso che sembra correre via. Allo
stesso modo, in “Pent-Up 1996, la sequenza delle proiezioni vede scorrere
parallelamente diverse condizioni umane. Le loro azioni alludono, non arrivano a
esprimere completamente: una donna cammina assorta vicino a una cancellata; un
anziano sembra essersi svegliato nella notte restando pensoso; un ragazzo si aggira
nella sua stanza da letto; una ragazza ubriaca parla da sola in un bar ed è come
adirata. Per realizzare “Pent-Up” è stata scritta una sceneggiatura, sono state
selezionate cinque persone che avrebbero parlato, l’una all’altra, senza tuttavia creare
una comunicazione dal significato univoco. Sono stati scritti i dialoghi, poi scelti gli
interpreti, tre dei quali erano attori. Compaiono il giorno e la notte, l’interno e
l’esterno, la luce e il buio e gli attori sembrano rivolgersi l’uno all’altro; cominciando
dal primo che dice: “Sei sicuro?”, a cui sembra rispondere l’uomo sulla destra, agitato
e nervoso, che afferma: “Sicurissimo”. E la donna ubriaca al bar, fa una domanda:
“Allora perché non mi guardi?” a cui segue la risposta indiretta del ragazzo nella
camera da letto bianca: “Non puoi chiedermi una cosa del genere”. “Pent-Up racconta
alcuni momenti della vita umana, sia quelli familiari e intimi, sia quelli di carattere
collettivo e sociale. Una dimensione che può avvicinarlo a “Wrecked” in cui si
mostra sia l’intimità di una cena tra amici, sia la solennità di un banchetto rituale, con
al centro il sacrificio di un “corpo glorioso”, quello femminile, rispetto al maschile
della cristianità. Rivive una condizione storica, quella dell’Ultima Cena, ma non si
sovrappone a essa; l’idea era che le persone dovessero divertirsi: avevano mangiato e
bevuto, quindi erano un po’ubriache. La figura centrale, la donna, è stata scelta per il
suo aspetto caravaggesco, quindi per il rimando alla storia, ma non interessa la fedeltà
iconografica tanto che una figura ha sul piatto un pacchetto di fiammiferi e di
sigarette, mentre Giuda incrocia le dita, rimando simbolico al tradimento.
Nella serie “Five Revolutionary Seconds” le singole inquadrature e la sequenza
circolare avvengono quasi istantaneamente, nell’arco di cinque secondi e l’immagine
complessiva è strutturata in porzioni o in frammenti, e il suono costituisce un altro
rimando allo spazio e al tempo. Tutti i suoni sono registrati durante il periodo dello
shooting fotografico e, grazie ad essi, si possono “ripercorrere” alcuni personaggi e
alcuni accadimenti. Nel risultato finale le figure sono immobili e l’inserimento del
suono crea una dimensione narrativa e insieme cinematografica.
In altre opere, come “Knackered” la musica serve a realizzare un pezzo molto
specifico. Si tratta di un’opera vulnerabile, ma allo stesso tempo forte e provocatoria.
Ambientata in una stanza molto luminosa, con una luce molto aspra e una figura
femminile nuda, le cui carni brillano e il cui sguardo trafigge. La sua voce è quella
dell’ultimo castrato, una voce d’incredibile stranezza.
Il nudo ricorre già in “Brontosaurus” 1995 in cui assistiamo ad un corpo maschile
danzante, dove l’erotismo è ironico e lieve. Viene filmato un uomo che ballava nudo
nella sua camera da letto a ritmo di una musica techno-jungle molto veloce. Poi viene
tolta la musica e fatto proiettare il film a rallentatore. Le movenze del protagonista
erano diventate quasi aliene, non avevano senso perché faceva tutte quelle mosse che
apparivano così sgraziate. Al rallentatore divenne qualcosa di molto bello ma allo
stesso tempo assolutamente goffo. Viene sostituita la musica con un “Adagio per
archi”, un brano malinconico e così l’opera è diventato un inno alla vita, anche se il
protagonista sembra ballare la danza della morte, perché è così fragile, delicato,
vulnerabile.
In “Noli me Tangere” continua la sua carrellata storica sull’iconografia classica.
Viene filmato un essere umano, con il corpo perfetto da atleta o da acrobata, mentre
si sostiene in verticale sulle mani il più a lungo possibile. Allo scadere, la sua fisicità
entra in crisi, i muscoli iniziano a tremare, il corpo si copre di sudore, le braccai
tendono a piegarsi. Terminata la ripresa, viene capovolta l’immagine così che egli
sembra sostenere il soffitto come un Atlante. In questo modo la percezione immediata
è quella di un corpo perfetto che sostiene il peso dell’edificio.
“Method in Madness” consiste in una proiezione singola nella quale appare un
method actor che giunge all’apice della recitazione emozionale. È il tentativo sia di
mettere in scena un esaurimento nervoso, sia di mostrare il confine tra realtà e
irrealtà, tra vita e recitazione. La proiezione ha un andamento teatrale, parte dal lento
per agitarsi, per arrivare all’urlo e al pianto. È una proiezione continua, per cui
produce un senso di imbarazzo nel guardare il protagonista che perde completamente
la testa, cerca di ricomporsi, inizia a sentirsi a disagio e poi perde nuovamente il
controllo. La musica che accompagna la performance dell’attore contrasta nettamente
con la scena, è una musica da ascensore o da supermarket.
Diverso da “Method in Madness” è “Hysteria”, un muto di dieci minuti in cui è
impossibile distinguere il riso dal pianto. Non c’è audio così che rimane il dubbio se
lei stia piangendo o ridendo. A questa confusione contribuisce anche il rallentatore.
La stessa attitudine si trova in “Travesty of a Mockery” 1995 in cui è impossibile
capire la natura della discussione. Si percepisce solo un espediente che è molto fisico;
due persone su due schermi, litigano e si lanciano oggetti. Nella disputa lei ha
chiaramente il maggior controllo della situazione, mentre lui reagisce. Siccome si
arriva allo scontro fisico (a tirarsi un bicchiere di latte o una pentola) la scena è
altamente drammatica, tanto che a un certo punto uno entra nello spazio dell’altro.
La riprese di “Atlantic” è avvenuta all’Atlantic Bar and Grill e c’è l’intento di creare
una distanza tra due persone, pur mantenendole nello stesso spazio. La proiezione è
triplice: da un lato il volto della figura femminile, al centro una veduta del ristorante
con i tavoli tra cui siede la coppia, e a destra le mani della figura maschile; l’effetto è
quello di un’altra persona che siede nello stesso ristorante tra tavoli più in là e vede
una coppia. Poiché la donna piange e l’uomo non si vede se non attraverso il gioco
delle sue mani, si crea una scena neutra, in cui è impossibile schierarsi da una parte o
dall’altra.
Per quanto riguarda la scelta dei titoli, “Travesty of a Mockery” s’ispira a un film di
Woody Allen, “Prendi i soldi e scappa”, un film in cui il protagonista deve difendersi
in un’aula di giustizia e sta lì in piedi, con aria da martire, dicendo: “E’ una farsa, una
presa in giro, a mockery”; sembrava appropriato per un litigio tra due persone. La
serie “Soliloquy” s’ispira al teatro shakespiriano. “Pent-Up” è una sorta di angoscia,
ed è la matrice morfologica del numero cinque (penta), quindi corrisponde al numero
dei personaggi e delle proiezioni. “Brontosaurus” allude alla sopravvivenza.
Possiamo ora parlare di “Fuck, Suck, Spank, Wank” 1993, di “Spankers Hill” 1993 e
di “Slut” 1993, in cui torna nuovamente il legame tra piacere e maltrattamento, tra
pulsione sensuale positiva e negativa. Qui l’artista appare in prima persona perché
non aveva soldi e non poteva permettersi di ingaggiare nessuno. Inoltre un
autoritratto è qualcosa di immediatamente disponibile. In “Fuck, Suck, Spank, Wank”
indossa una “gay acting T-shirt”, quasi volesse assumere un ruolo diverso; indossa gli
occhiali come una sorta di difesa e usa vecchie pellicole in modo che l’immagine
risultasse sporca, piena di macchie e di imprecisioni; voleva esporsi in tutta la sua
bruttezza e a disagio e allora si ritrasse come un mostro, con i pantaloni abbassati. In
“Spankers Hill” veste i panni di un coniglio spaventato dai fari di una macchina e in
“Slut” è truccata pesantemente, quasi come una pin-up da rivista erotica. Sul collo dei
morsi violenti, che hanno lasciato tracce sulla sua pelle, qualcosa di fatto senza
passione; voleva offrirsi come un termine di abuso.

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