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Esiste una maledizione.


Dice: Che tu possa vivere in tempi interessanti1.

Che sono quelli in cui gli dei giocano con le vite degli uomini su di una scacchiera
che rappresenta contestualmente un campo da gioco ed il mondo tutto.
In cui Fato vince sempre.
Fato vince sempre. Gli dei, per lo più, lanciano i dadi, invece Fato gioca a scacchi e
troppo tardi ci si accorge che per tutto il tempo ha giocato con due regine.
Fato vince. Almeno, così si dice. Qualunque cosa succeda, alla fine tutti dicono che
non può che essere stato Fato2.
Gli dei possono assumere qualunque forma, tranne che per gli occhi, che sono l'unico
particolare che non possono alterare e che ne rivela la vera natura. Gli occhi di Fato
possono a malapena definirsi tali: due buchi neri in un infinito puntinato di quelle
che potrebbero essere stelle o, perché no, anche altra roba.
Strizza l'occhio e sorride agli altri giocatori con l'aria compiaciuta tipica dei vincitori
che stanno per trionfare e dice:
“Punto il dito sul Sommo Sacerdote della Toga Verde con la scure a doppia lama nel-
la biblioteca.”
E vince.
Sorridendo raggiante.
“A nishuno shta shimpatico un povero vincitore”, si lamenta Offler l'Io Dio Cocco-
drillo attraverso le zanne.
“A quanto pare sto favorendo me stesso, oggi”, ribatte Fato. “A qualcuno andrebbe di
provare qualcosa di diverso?”
Gli dei scrollano le spalle.
“Re Impazziti?”, suggerisce gentilmente Fato. “Amanti scoppiati?”
1 L'espressione “May you live in interesting times”, nota agli anglosassoni come “Chinese course”
(“Maledizione Cinese”), rimanda ad un periodo di stravolgimenti politici accompagnati da miseria, ri-
strettezze, crisi, etc.; n.d.t.
2 Le persone tendono a confonderlo con i miracoli, però. Se qualcuno sfugge a morte certa per una
bizzarra combinazione di eventi, dicono che è stato un miracolo. Ovviamente, però, se qualcuno rima-
ne ucciso per una stramba concatenazione di circostanze - uno sversamento ben indirizzato d'olio bol -
lente, la conveniente rottura di una rete di sicurezza - anche in questi casi non può che essersi trattato
di un miracolo. Il fatto che non sia simpatico non ne esclude la miracolosità.

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“Mi sa che di quello abbiamo dimenticato le regole”, dice Cieco Io, capo degli dei.
“Marinai Sballottati dalla Tempesta?”
“Vinci sempre”, replica Io.
“Alluvione e Siccità?”, propone Fato. “E' facile da giocare.”
Un'ombra si staglia sul tavolo da gioco. Gli dei sollevano lo sguardo.
“Ah.”, commenta Fato.
“Iniziamo a giocare”, dice la Signora.
Il dibattito sull'effettiva deità della nuova arrivata non si è mai sopito. Di sicuro vene-
rarla non ha mai portato a niente e poi ha la tendenza a comparire dove meno ci si
aspetta, proprio come adesso. Inoltre le persone che la idolatrano raramente sopravvi-
vono. Tutti i templi che le sono dedicati finiscono quasi certamente colpiti da un ful-
mine. E' meglio fare giochi di destrezza con le asce camminando su una fune che
pronunciare il suo nome. Possiamo limitarci a chiamarla la cameriera del bar Ultima
Occasione.
In genere ci si riferisce a lei come alla Signora ed ha gli occhi verdi, ma non come lo
sono quelli umani, bensì completamente verdi smeraldo fino al contorno delle ciglia.
“Ah”, ripete Fato. “A che gioco?”
Gli siede dirimpetto. Gli altri dei presenti si scambiano delle occhiate furtive: la cosa
si fa interessante. I due sono nemici giurati.
“Che ne pensate di...”, fa una pausa, “... Imperi Arroganti?”
“Oh, lo detesto”, se ne esce Offler, rompendo d'improvviso il silenzio.
“Ssschiatano tuti alla fine.”
“Si”, aggiunge Fato, “Ci credo che lo fanno”. Fa un cenno alla Signora e quasi con la
stessa intonazione di un baro di professione domanda “Assi Smargiassi?”
“Il Crollo della Casa Madre? Nazioni Appese a un Filo?”
“Decisamente”, risponde lei.
“Ottimo.” Fato agita la mano sopra la scacchiera. E compare Mondodisco.
“Quale sarà il campo di gioco?”, chiede.
“Il Continente Contrappeso”, risponde la Signora, “Dove cinque nobili casati sono in
guerra da secoli.”

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“Davvero? Che casati?”, domanda Io. Ha scarse relazioni individuali con gli umani.
Per lo più si occupa di tuoni e fulmini perciò, dal suo punto di vista, l'unico scopo
dell'umanità è di finire bagnata o, se capita, carbonizzata.
“I Magazzinai, i Cantori, i Sonanti, i McCrampi e gli Zanna.”
“Sul serio? Non sapevo fossero nobili”, commenta Io.
“Sono tutti ricchissimi ed hanno torturato e mandato al macello milioni di persone
per mero opportunismo ed orgoglio”, risponde la Signora.
Gli dei presenti annuiscono con solennità. E' indiscutibilmente un agire da nobili. E'
esattamente quel che fanno anche loro.
“McCramfsi?” domanda Offler.
“Un antico casato ben consolidato”, risponde Fato.
“Oh.”
“E sono tutti in guerra tra di loro per l'Impero”, aggiunge Fato. “Eccellente. Voi per
chi giocherete?”
La Signora studia attentamente la storia che ha di fronte.
“I Magazzinai sono i più potenti. Anche mentre parliamo, conquistano qualche altra
città,” risponde. “Sono certa che il loro fato è vincere.”
“Perciò, senza alcun dubbio, sceglierete un casato più debole.”
Fato agita di nuovo la mano. Compaiono i pezzi del gioco che cominciano a spostarsi
sulla scacchiera come godessero di vita propria, che poi è esattamente quel che è.
“Tuttavia,” aggiunge, “Giocheremo senza i dadi. Non mi fido di voi con i dadi. Li
lanciate sempre dove non posso vederli. Giocheremo con le armi, la tattica, la politi-
ca e la guerra.”
La Signora annuisce.
Fato guarda la sua avversaria.
“E la vostra mossa?” chiede.
Lei sorride. “L'ho già fatta.”
Lui abbassa lo sguardo. “Ma non vedo i vostri pezzi sulla scacchiera.”
“Ancora non sono sulla scacchiera”, replica lei.
Apre la mano.

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Sul palmo c'è qualcosa di giallo e nero. Ci soffia sopra e due ali si dischiudono. E'
una farfalla.
Fato vince sempre...
Almeno, secondo le regole.
Il filosofo Ly Piccolo Imbonitore sostiene che il caos è un prodotto della grande opu-
lenza che sprigiona dall'ordine precostituito. E che prevale sempre sull'ordine perché
è molto meglio organizzato.
La farfalla è quella delle tempeste.
Le ali, ad un'osservazione più attenta, risultano lievemente più sfilacciate di quelle di
una comune arginnide. In verità, grazie alla natura frattale dell'universo, significa che
quei contorni sfilacciati sono infiniti (allo stesso modo in cui i contorni di una qua-
lunque costa frastagliata, se comparati alla più microscopica delle particelle finitime,
sono infinitamente lunghi) o, se non infiniti, quantomeno sono talmente prossimi ad
esserlo che nelle belle giornate è possibile vedere l'Infinito.
E comunque, se i contorni sono infinitamente lunghi, le ali devono necessariamente
essere infinitamente grandi.
Potrebbe anche sembrare che abbiano le proporzioni delle comuni ali di una farfalla,
ma solo perché gli esseri umani preferiscono da sempre affidarsi al buon senso piut-
tosto che alla logica.
La Farfalla Climatica Quantistica (Papilio Tempestae) è di un giallo indefinibile, seb-
bene i motivi a frattale particolarmente suggestivi che ne colorano le ali siano consi-
derevolmente affascinanti. Possiede la straordinaria abilità di creare il clima.
Probabilmente all'inizio ha sviluppato questa caratteristica per sopravvivere, conside-
rato che persino un uccello disperatamente affamato si trova in difficoltà alle prese
con uno spaventoso tornado circoscritto3. Inoltre, è possibile anche che rappresenti
un tratto sessuale secondario, come il piumaggio degli uccelli o le sacche vocali di
alcune rane. Guardami, dice il maschio, sbattendo dolcemente le ali sotto la volta
della pioggia nella foresta. Magari sono di un giallo indefinibile ma, tempo quindici
giorni e sarà più intenso e, allora, a duemila chilometri da qui sarà Strano Vento Forte

3 Normalmente a circa una ventina di centimetri di distanza.

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Provoca Caos Ovunque.
La farfalla delle tempeste è così.
Sbatte le ali...

Questo è Mondodisco, che viaggia attraverso lo spazio sul dorso di una tartaruga gi-
gante.
La maggior parte dei mondi lo fa, secondo un certo punto di percezione. Pare sia una
prospettica cosmologica che la mente umana è pre-programmata ad accettare.
Sulla distesa di steppa come sulla pianura, nella giungla ombrosa e nel silenzio del
deserto rosso, nella palude e tra le canne acquitrinose, in effetti in ogni luogo dove
qualcosa fa “plop” saltando giù da un tronco galleggiante intanto che ci si avvicina,
ad un certo sconveniente momento cruciale ed a beneficio dell'evoluzione della mito-
logia tribale, accadono cose simili a quella che segue...
“L'hai vista?”
“Cosa?”
“Ha appena fatto plop saltando giù da un tronco galleggiante.”
“Si, e allora?”
“Credo... credo... insomma, credo che il mondo sia trasportato sul carapace di una di
quelle.”
“L'intero mondo?”
“Ovviamente, quando dico una di quelle mi riferisco ad una bella grande.”
“Potrebbe essere, già.”
“Intendo... davvero grande.”
“E' buffo ma... capisco che vuoi dire.”
“Ha senso, no?”
“Ha senso, già. Il fatto è che...”
“Cosa?”
“Spero solamente che la nostra non faccia mai plop.”
Ma questo è Mondodisco, che non solo ha la tartaruga, ma anche quattro giganteschi

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elefanti sui quali l'enorme, lenta ruota del mondo gira.4
C'è il Mare Circolare, approssimativamente a mezza via tra il Centro ed il Bordo. At-
torno ci sono quei paesi che, stando alla Storia, rappresentano il mondo civilizzato,
ovvero un mondo capace di supportare gli storici: Efebe, Tsort, Omnia, Klatch e
l'agglomerato tentacolare della città stato di Ankh-Morpork.
Questa storia comincia da un'altra parte, dove un uomo se ne sta sdraiato su una zat-
tera in una laguna blu sotto un cielo assolato. Con le braccia incrociate dietro la testa.
E' felice – nel suo caso, uno stato mentale talmente raro da non avere quasi preceden-
ti. Fischietta un allegro motivetto e lascia penzolare i piedi nell'acqua cristallina.
Sono piedi rosa con dieci dita che paiono delle zampette di maiale.
Dalla prospettiva di uno squalo che nuota a pelo d'acqua hanno l'aspetto di un pran-
zo, di una cena e di una merenda.

Si tratta, per cambiare, di una questione di protocollo. Di discrezione. Di prudente


etichetta. Di, in sintesi, alcool. O perlomeno dell'illusione dell'alcool.
Lord Vetinari, in qualità di Patrizio di Ankh-Morpork, in teoria potrebbe convocare
presso di sé l'Arcicancelliere dell'Università Invisibile e, invero, farlo giustiziare per
il caso non obbedisca.
D'altro canto, Mustrum Ridcully, in qualità di rettore dell'Università dei maghi, ha
già fatto educatamente ma fermamente ben chiaro che potrebbe trasformarlo in un
piccolo anfibio e, di più, farlo saltellare tutto intorno sopra un bastone pogo.
L'alcool serve ad abbattere gentilmente le barriere diplomatiche. Qualche volta Lord
Vetinari invita l'Arcicancelliere a palazzo per un drink conviviale. E naturalmente
l'Arcicancelliere accetta, perché sarebbe da maleducati non farlo. E tutti hanno ben
chiaro il proprio ruolo e tutti si comportano al loro meglio ed in tal guisa si preserva
il tappeto dal civile malcontento e da qualsivoglia fluido corporeo.
E' un bel pomeriggio. Lord Vetinari è seduto nei giardini di palazzo ed osserva le far-
falle con un'espressione semi annoiata. Trova ci sia qualcosa di vagamente offensivo
4 Le persone si domandano come possa funzionare, poiché un elefante terrestre sarebbe tutt'altro che
entusiasta di trasportare un tale peso per una qualunque distanza o tempo senza manifestare un qual-
che grave e bruciante dissenso. Ma ci si potrebbe pure domandare perché l'asse di un pianeta non ci -
gola, o dov'è che va l'amore, o che suono fa il giallo.

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nel modo in cui se ne svolazzano in giro tutte contente della loro inutilità.
Solleva lo sguardo.
“Ah, Arcicancelliere,” dice. “E' un vero piacere vederla. Si sieda. Siete in ottima sa-
lute, confido?”
“Si, eccellente,” risponde Mustrum Ridcully. “E Voi? Godete di buona salute?”
“Mai stato meglio. Il tempo, vedo, è tornato bello.”
“Ieri pensavo fosse particolarmente piacevole, certamente.”
“Domani, dicono, sarà se possibile anche più bello.”
“Sono certo che potremmo renderlo tale con il giusto incantesimo.”
“Si, certo.”
“Già.”
Osservano le farfalle. Un maggiordomo gli porta dei lunghi drink ghiacciati.
“Cos'è che fanno veramente con i fiori?” domanda Lord Vetinari.
“Come?”
Il Patrizio scrolla le spalle. “Non ci badi. Niente di importante. Ma – giacché siete
qui, Arcicancelliere, avendo fatto una sosta sulla strada che sono certo vi condurrà a
qualcosa d'infinitamente più importante e delicato – sapreste dirmi, mi chiedevo, chi
è il Grande Mago?”
Ridcully ci pensa su.
“Il Decano, probabilmente,” risponde. “E' ben oltre i centoventi chili, oramai.”
“In qualche modo sento che forse non è la risposta giusta,” ribatte Lord Vetinari.
“Stando al contesto sono persuaso che per “grande” s'intenda “il migliore tra i mi-
gliori”.”
“Allora non è il Decano”, commenta Ridcully.
Lord Vetinari azzarda un rapido ripasso mentale del corpo docenti dell'Università In-
visibile. Il quadro che ne emerge è quello di un esiguo assortimento di collinette con
dei cappelli a punta.
“Il contesto, intuisco, non allude di certo al Decano”, dice.
“Ehm... che contesto sarebbe?” domanda Ridcully.
Il Patrizio prende il bastone da passeggio.

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“Mi segua”, risponde. “Suppongo sia meglio che lo veda lei stesso. E' davvero allar-
mante.”
Ridcully si guarda intorno con interesse intanto che segue Lord Vetinari. Non gli ca-
pita spesso di vedere i giardini, che in tutti i manuali di giardinaggio sono inseriti nel
capitolo “Come Non Va Fatto”.
Sono stati cavati fuori, e mai espressione più vera è stata usata prima, dal rinomato o
quantomeno conosciuto progettista di giardini ed inventa tutto “Dannatamente Stupi-
do” Johnson, la cui distrazione e cecità rispetto alla matematica più elementare ha
fatto di ogni singolo passo un percorso accidentato. Il suo genio... beh, per quanto ne
capisce Ridcully, il suo genio era esattamente l'opposto di qualsivoglia genio abbia
architettato i terrapieni che contrassegnano le misteriose ma nondimeno benevoli for-
ze delle linee del cielo che congiungono gli antichi siti.
Nessuno ha ancora ben compreso quali forze le architetture di Dannatamente Stupido
presidiano, tuttavia la campana della meridiana esplode di frequente, l'insensata pavi-
mentazione si è suicidata e quello che un tempo era conosciuto come arredamento da
giardino in ferro battuto già in tre diverse occasioni si è liquefatto.
Il Patrizio fa strada attraverso un cancello fin dentro quella che sembra una colomba-
ia. Dei gradini di legno scricchiolante si avviluppano nel suo interno. Nell'ombra, al-
cuni piccioni ferini ed indistruttibili di Ankh-Morpork borbottano e ridacchiano.
“Che posto è?” domanda Ridcully, intanto che le scale sotto di lui scricchiolano.
Il Patrizio estrae una chiave dalla tasca. “Mi è stato sempre detto che il Sig. Johnson
originariamente l'aveva progettata per fungere da alveare,” risponde. “In ogni caso,
data la mancanza di api lunghe trenta centimetri, abbiamo pensato di destinarla... ad
altri scopi.”
Spalanca la porta di un'enorme stanza quadrata con una grande finestra non invetriata
su ognuna delle pareti. Ciascun rettangolo è circondato da un telaio in legno sul quale
è infissa una campanella appesa ad una molla. Chiaramente, qualunque cosa grande
abbastanza da riuscire ad attraversare una delle finestre farà suonare la campanella.
Al centro della stanza, sopra un tavolo, è posato l'uccello più grosso che Ridcully ab-
bia mai visto. Il quale si volta a fissarlo con un occhi giallognoli piccoli e luccicanti.

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Il Patrizio si fruga in una tasca e ne estrae una scatola di sardine.
“Questo qui ci ha colti a dir poco alla sprovvista,” dice. “Saranno oramai trascorsi
dieci anni dall'ultima volta che abbiamo ricevuto un messaggio. In genere conserva-
vamo degli sgombri freschi nel ghiaccio.”
“Non è un Albatros Vago?” chiede Ridcully.
“Lo è,” conferma Lord Vetinari. “Ed anche eccezionalmente ben addestrato. Rientre-
rà al tramonto. Dodicimila chilometri con una scatola di sardine ed un tubetto di pa-
sta di acciughe che il mio assistente Annodapercussioni ha scovato nelle cucine. Stu-
pefacente.”
“Come scusi?” chiede Ridcully. “Rientrerà da dove?”
Lordi Vetinari si volta a guardarlo diritto.
“Si figuri, voglio essere chiaro, non dal Continente Contrappeso,” risponde. “Non ap-
partiene ad una delle specie di volatili che l'Impero Agateano utilizza per il servizio
postale. E' arcinoto ed assodato che non abbiamo nessun contatto con quella terra mi-
steriosa. E quest'uccello non è certo il primo che in questi anni è arrivato qui recando
un messaggio enigmatico e confuso. Sono stato chiaro?”
“No.”
“Ottimo.”
“Non è un albatros?”
Il Patrizio sorride. “Ah, vedo che comincia a capire.”
Mustrum Ridcully, quantunque dotato di una mente aperta ed efficiente, non si trova
a proprio agio con i doppi sensi. Guarda il lungo becco malevolo.
“A me sembra proprio uno stramaledetto albatros,” commenta. “E voi poco fa avete
detto che lo è. Vi ho chiesto se non era un -”
Il Patrizio agita una mano irritato. “Tralasciando gli studi di ornitologia,” dice, “Il
punto è che questo uccello, nell'astuccio della posta, recava questo pezzo di carta che
-”
“Nel senso che non aveva questo pezzo di carta?” domanda Ridcully, cercando dispe-
ratamente un appiglio.
“Ah, sicuro. Ovviamente è quel che intendevo. E' proprio quel che non è. Leggete.”

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Allunga un pezzetto di carta all'Arcicancelliere.
“Sembrano dei disegni,” commenta Ridcully.
“Sono pittogrammi Agateani,” spiega il Patrizio.
“Nel senso che non sono pittogrammi Agateani?”
“Certo, certo, naturalmente,” sospira il Patrizio, “Vedo che siete ben addentro ai fon-
damenti essenziali della diplomazia. Ora... il vostro parere, per favore.”
“A me pare scarabocchio, scarabocchio, scarabocchio, scarabocchio, Maggo,” replica
Ridcully.
“E cosa ne deducete..?”
“Che si è dato all'Arte perché non era per niente bravo a scrivere, cioè, chi l'ha scrit-
to? Scarabocchiato, intendo?”
“Non lo so. I Grand Visir erano soliti inviare qualche messaggio, di quando in quan-
do, però di recente mi è giunta voce di alcuni disordini. Non è firmato, avrete notato.
Ciononostante, non posso ignorarlo.”
“Maggo, Maggo,” ripete Ridcully assorto.
“I pittogrammi significano “Mandateci Subito Il Grande”,” traduce Lord Vetinari.
“... Maggo...” ripete Ridcully più che altro a sé stesso, picchiettando il pezzetto di
carta.
Il Patrizio lancia una sardina all'albatros, il quale la inghiotte avidamente.
“L'Impero conta milioni di uomini arruolati nell'esercito,” commenta. “Fortunata-
mente, ai regnanti piace fingere che ovunque, al di fuori dell'Impero, sia tutto una
landa ostile e priva di valore abitata solamente da vampiri e fantasmi. In linea di
massima non nutrono alcun tipo di interesse nei nostri confronti. Il che è un bene,
perché sono al contempo astuti, ricchi e potenti. In tutta franchezza, speravo che si
fossero completamente dimenticati della nostra esistenza. E poi arriva questo. Mi au-
guravo di potergli inviare il poveretto designato e di passare oltre.”
“...Maggo,” ripete ancora Ridcully.
“Non è che magari vorreste prendervi una vacanza?” domanda il Patrizio, con una
punta di speranza nel tono della voce.
“Io? No. Non sopporto il cibo esotico,” risponde velocemente Ridcully. Ripete, per

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lo più a proprio esclusivo beneficio, “Maggo...”
“Sembra che questa parola vi affascini molto,” commenta Lord Vetinari.
“L'ho già vista scritta così da qualche altra parte prima,” ribatte Ridcully. “Non riesco
a ricordare dove.”
“Sono certo che vi tornerà in mente. E che sarete in grado d'inviare all'Impero il
Grande Mago, comunque si scriva, per l'ora della merenda.”
Ridcully resta a bocca aperta.
“Dodicimila chilometri? Per magia? Avete un'idea di quanto sia difficile?”
“Benedico la mia ignoranza sul punto,” replica Lord Vetinari.
“Oltretutto,” aggiunge Ridcully, “Sono, beh... stranieri da quelle parti. Credevo aves-
sero già abbastanza maghi di loro.”
“Davvero non saprei dire.”
“Non sappiamo perché vogliono questo mago?”
“No. Ma confido ne abbiate qualcuno di scorta. Mi pare ce ne siano parecchi dalle
vostre parti.”
“Voglio dire, potrebbe essere per un qualche proposito straniero,” osserva Ridcully.
Per qualche ragione gli passa per la testa il viso del Decano e se ne rallegra.
“Un mago bello in carne potrebbe accontentarli, che ne pensate?” riflette ad alta
voce.
“Lascio a voi la decisione. Ma per stanotte vorrei essere in condizioni di inviare un
messaggio di risposta con scritto che il Grande Mago è già in viaggio. Così dopo po-
tremmo dimenticarci di tutto questo.”
“Ovviamente, riportare indietro il tizio potrebbe rivelarsi assai difficile,” dice Ridcul-
ly. Ripensa al Decano. “Praticamente impossibile,” aggiunge, con un tono inopportu-
namente gaio. “Conto che potremmo provarci per mesi e mesi ma senza successo.
Confido che ogni tentativo sarà inutile. Mannaggia.”
“Vedo che siete ansioso di riuscire in quest'impresa,” commenta il Patrizio. “Non
permettetemi di trattenervi oltre dal tornare di corsa all'Università ed adottare gli op-
portuni provvedimenti.”
“Però... “Maggo”...” borbotta Ridcully. “Mi ricorda qualcosa. Sono certo di averlo

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già visto scritto prima, da qualche parte.”

Lo squalo non ci sta su a pensare. Gli squali non lo fanno. I loro processi mentali
possono essenzialmente riassumersi in “=”. Lo vedi = Te lo mangi.
Tuttavia, intanto che sfreccia nelle acque della laguna, il suo minuscolo cervello rice-
ve delle piccole scosse di selace timore esistenziale che non possono che definirsi
dubbi.
Sa di essere lo squalo più imponente dei dintorni. Tutti i suoi avversari se la sono bat-
tuta in ritirata, o sono incappati nel buon vecchio “=”. Però, il corpo gli suggerisce
che qualcosa alle sue spalle lo sta rapidamente raggiungendo.
Si volta con agilità e la prima cosa che vede sono centinaia di gambe e migliaia di
dita: un'intera fabbrica di tortini di zampette di maiale.

All'Università Invisibile accadono molte cose e, purtroppo, tra queste dovrebbe es-
serci l'insegnamento. Il collegio accademico ha dovuto prenderne atto molto tempo
fa ed ha messo a punto diversi espedienti per evitarlo. Il che è perfettamente corretto
dopotutto perché, ad essere onesti, altrettanto hanno fatto gli studenti.
Il sistema funziona piuttosto bene e, come spesso accade in questi casi, è assurto al
rango di tradizione da rispettare. Le lezioni ovviamente hanno luogo, poiché sono
tutte lì, in bianco e nero sull'orario. Il fatto che nessuno le frequenti costituisce un
dettaglio irrilevante. Di quando in quando qualcuno cerca di sostenere che invero le
lezioni non si tengono affatto, ma nessuno tenta mai di frequentarle per scoprire se è
vero.
In ogni caso, è stato argomentato (dall'Interprete di Pensieri Farraginosi5) che le le-
zioni hanno luogo nella loro essenza, perciò va bene anche così.
E comunque l'istruzione, all'Università, si basa soprattutto sul più che collaudato me-
todo di mettere un mucchio di giovani vicino ad un sacco di libri e sperare che qual-
cosa filtri dagli uni agli altri, considerato che i giovani, nella realtà, si mettono vicini
ai bar ed alle taverne per esattamente le stesse ragioni.

5 Che è un po' come Logica Approssimativa, solo un po' meno.

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E' già metà pomeriggio. Il titolare della cattedra di Studi Indefiniti ha lezione
nell'aula 3B, tuttavia, la sua presenza appisolato di fronte al caminetto nella Sala In-
comune costituisce un dettaglio sul quale nessun uomo dotato di senso della diplo-
mazia farebbe mai dei commenti.
Ridcully lo calcia sugli stinchi.
“Ahi!”
“Mi spiace interromperla, Professore,” si scusa Ridcully con un tono decisamente di
circostanza. “Che il ciel mi aiuti, ma devo riunire il Consiglio dei Maghi. Dove sono
tutti?”
Il docente di Studi Indefiniti si massaggia la gamba. “So che il docente di Rune Re-
centi ha lezione nell'aula 3B6,” risponde. “Ma non so dove sia veramente. Sapete, fa
davvero un male -”
“Riunite tutti. Nel mio studio. Tra dieci minuti,” lo interrompe Ridcully, che crede
fermamente in questo tipo di approccio. Un Arcicancelliere meno diretto andrebbe in
giro a cercarli tutti. La sua politica è trovare una persona e complicare la vita a tutti
finché tutto non va come vuole che vada7.

Non esiste nulla in natura con molteplici piedi. E' vero, alcune cose hanno molteplici
zampe – delle cose viscide che si dimenano striscianti e che vivono sotto le rocce –,
ma non delle zampe con i piedi, bensì delle semplicissime zampe che terminano sen-
za troppe cerimonie.
Se lo squalo fosse appena un po' più furbo ci andrebbe cauto, ma l'“=” entra sleal-
mente in gioco e scatta in avanti.
Errore.
In simili circostanze, errore = oblio.

Ridcully attende impaziente finché, ad uno ad uno, i maghi anziani sfilano davanti a
lui dopo essere stati distolti da un'importante lezione nell'aula 3B. I maghi anziani

6 Le lezioni virtuali si tengono tutte nell'aula 3B, un'aula non rintracciabile su alcuna delle piantine
dell'Università e, di più, considerata di dimensioni incalcolabili.
7 Una politica adottata dalla maggior parte dei datori di lavoro e da diversi venerabili dei Io.

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hanno bisogno di tenere un sacco di lezioni per digerire tutto quello che mangiano.
“Ci siamo tutti?” domanda. “Bene. Sedete. Ascoltate attentamente. Ebbene... Vetinari
non ha ricevuto un albatros. Che non è volato fino a qui dal Continente Contrappeso
e non c'è uno strano messaggio al quale dobbiamo rispondere, apparentemente. Mi
avete seguito fino a qui?”
I maghi anziani si scambiano delle occhiate.
“Credo che forse potremmo avere qualche incertezza sui dettagli,” risponde il Deca-
no.
“Perché uso il linguaggio della diplomazia.”
“Non è che magari potreste tentare di essere appena un po' più indiscreto?”
“Dobbiamo inviare un mago nel Continente Contrappeso,” ribatte Ridcully. “E dob-
biamo farlo entro l'ora della merenda. Qualcuno ha fatto richiesta di un Grande Mago
e pare che non possiamo non inviarne uno. Solo che hanno scritto Maggo -”
“Oook?”
“Si, Bibliotecario?”
Il Bibliotecario dell'Università Invisibile, appisolato con la testa poggiata sul tavolo,
d'improvviso si siede dritto impalato. Poi spinge indietro la sedia e, agitando furiosa-
mente le braccia per non perdere l'equilibrio, lascia la stanza correndo sulle zampe
arcuate.
“Probabilmente gli è venuto in mente qualche libro il cui prestito è scaduto,” com-
menta il Decano. Abbassa la voce. “A proposito, sono il solo a pensare che avere uno
scimmione nel corpo docenti non reca alcun lustro a questa Università?”
“Si,” replica seccamente Ridcully. Siamo gli unici a poter vantare un bibliotecario
capace di strapparti un braccio con una sola zampa. Le persone lo tengono in gran
conto. Giusto l'altro giorno il capo della Gilda dei Ladri mi ha chiesto se potevamo
trasformare il loro bibliotecario in una scimmia e, oltretutto, è l'unico di voi poveri
fessi che resta alzato per più di un'ora durante il giorno. Comunque -”
“Beh, io lo trovo imbarazzante,” insiste il Decano. “Inoltre, non è un vero orango. Ho
letto un libro. C'è scritto che un maschio dominante ha le guance prominenti. Lui ha
le guance prominenti? Non credo proprio. E poi -”

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“Chiuda il becco, Decano,” lo interrompe Ridcully, “Oppure non la lascerò andare
nel Continente Contrappeso.”
“Non capisco quale prestigio un perfettamente valido – Cosa?”
“Hanno chiesto del Grande Maggo,” risponde Ridcully. “Ed ho pensato immediata-
mente a voi.” Siete l'unico che conosco in grado di sedere contemporaneamente su
due sedie, aggiunge tra sé e sé.
“L'Impero?” grida il Decano. “Io? Ma se odiano gli stranieri!”
“Anche voi. Dovreste intendervi a meraviglia.”
“E' lontano dodicimila chilometri!” esclama il Decano, tentando con un approccio
differente. “Lo sanno tutti che non si può fare tanta strada per magia.”
“Ehm. A dire il vero si può, credo,” obietta una voce dall'altro capo del tavolo.
Si voltano tutti a guardare Ponder Stibbons, il più giovane ed entusiasta in maniera
esasperante membro del corpo docenti. Fa capolino ed osserva gli altri maghi da so-
pra un complicato meccanismo di stecche di legno ha in grembo.
“Ehm. Non dovrebbe essere un gran problema,” aggiunge. “Sono tutti persuasi che lo
sia, ma sono piuttosto sicuro che sia tutta una questione di assorbimento di energia e
di proporzione rispetto alle velocità relative.”
All'affermazione segue il silenzio disorientato e sospettoso che normalmente segue a
tutte le sue affermazioni.
“Velocità relative,” ripete Ridcully.
“Si, Arcicancelliere.” Ponder abbassa lo sguardo sul prototipo del regolo calcolatore
ed aspetta. Sa che Ridcully ritiene sempre necessario fare un commento a questo
punto della conversazione, per dimostrare di averci capito almeno qualcosa.
“Mia madre riusciva a muoversi veloce come un lampo quando -”
“Intendo la velocità con cui si spostano le cose rispetto ad altre cose,” aggiunge Pon-
der rapidamente, ma non abbastanza rapidamente. “Dovremmo riuscire a risolvere la
cosa piuttosto facilmente. Ehm. Con Hex.”
“Oh, no” commenta l'Interprete di Rune Recenti, spingendo indietro la sedia.
“Questo no. Significa interferire in cose che non si capiscono.”
“Beh, noi siamo maghi,” osserva Ridcully. “Interferiamo con cose che non capiamo

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per definizione. Se aspettassimo di riuscire a capire le cose non combineremmo mai
niente.”
“Sentite, non ho problemi ad evocare un qualunque demone per chiedergli di farlo,”
risponde l'Interprete di Rune Recenti. “E' una cosa normale. Ma costruire un qualche
marchingegno perché pensi al posto tuo è... contro Natura. Oltretutto,” aggiunge in
toni lievemente meno carichi di presentimento, “l'ultima volta avete fatto un sacco di
storie in proposito e quel maledetto affare si è rotto e siamo stati invasi dalle formi -
che.”
“Ma abbiamo risolto il problema,” risponde Ponder. “Abbiano -”
“Devo ammettere che l'ultima volta che l'ho visto c'era ficcato il teschio di un ariete
nel mezzo,” dice Ridcully.
“L'abbiamo dovuto aggiungere per consentire le transustanziazioni mistiche,” spiega
Ponder, “Ma -”
“E delle ruote dentate e delle molle,” continua l'Arcicancelliere.
“Beh, le formiche non sono molto ferrate in analisi differenziale, perciò -”
“E quella strana cosa dondolante con il cuculo?”
“L'Orologio del Tempo Irreale,” risponde Ponder. “Già, pensiamo sia indispensabile
per riuscire a -”
“In ogni caso, è una discussione del tutto inutile, perché non intendo andare da nes-
suna parte,” dice il Decano. “Inviate uno studente, se proprio dovete. Ne abbiamo
con l'avanzo.”
“Sarebbe così gentile da parte vostra se budino alle prugne aiutasse con una seconda
A,” dice l'Economo.
Cade il silenzio.
“Qualcuno l'ha capita?” domanda Ridcully.
L'Economo, tecnicamente, non è pazzo. Ha attraversato le rapide della pazzia da tem-
po e adesso vaga remando in qualche pantano dall'altro capo. Spesso è piuttosto coe-
rente, sebbene in maniera un po' fuori dagli schemi della media umana.
“Uhm, sta ripensando a ieri,” risponde il Matematico Anziano.
“All'incontrario, stavolta.”

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“Dovremmo inviare l'Economo,” dichiara perentorio il Decano.
“Certamente no! Probabilmente non hanno pillole di rana essiccata da quelle parti -”
“Oook!”
Il Bibliotecario rientra nello studio correndo sulle zampe arcuate ed agita qualcosa in
aria.
E' rosso o, quantomeno, un tempo era rosso. Un tempo in cui era un cappello rosso a
punta, ma la punta si è accartocciata e la maggior parte del bordo è bruciata. Sopra,
con dei lustrini, c'è ricamata una parola. Per lo più cancellata dal fuoco, ma:
MAGGO
… può ancora leggersi in lettere pallide sulla tela bruciacchiata.
“Sapevo di averla già vista,” dice Ridcully. “Su uno scaffale della Biblioteca,
esatto?”
“Oook.”
L'Arcicancelliere ispeziona quel che ne rimane.
“Maggo?” chiede. “Che razza d'individuo triste e privo di speranze sente il bisogno
di scrivere MAGGO sul proprio cappello?”

Alcune bolle increspano la superficie del mare, facendo rollare un poco la zattera.
Dopo un istante, emergono un paio di brandelli di pelle di squalo.
Scuotivento sospira e posa la canna da pesca. Il resto dello squalo verrà trascinato a
riva più tardi, lo sa. Non riesce a caprine il perché. Non è che siano granché buoni da
mangiare. Hanno il sapore di un paio di vecchi scarponi inzuppati di urina.
Impugna un remo di fortuna e dirige verso la la spiaggia.
Non è brutta come isola. Le tempeste sembrano ignorarla. Ed anche le navi.
Però ci sono noci di cocco, alberi del pane ed una specie di fico selvatico.
Inoltre, i suoi esperimenti nella distillazione dell'alcool hanno avuto un certo succes-
so, nonostante non sia riuscito a camminare come si deve per un paio di giorni. La la-
guna pullula di gamberi e gamberetti e ostriche e granchi e aragoste, e nel verde delle
acque più profonde al di là della scogliera dei grossi pesci argentati si azzuffano per
il privilegio di mordere un pezzo di uncino metallico legato all'estremità di un pezzo

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di spago. Dopo sei mesi sull'isola, in effetti, c'è solamente una cosa della quale Scuo-
tivento sente la mancanza. Prima non ci pensava. Però adesso si – o, più esattamente,
le pensa – tutto il tempo.
E' strano. Quando stava ad Ankh-Morpork le pensava a malapena, perché comunque
erano lì se mai le avesse volute. Ma adesso che non non ci sono, le desidera ardente-
mente.
La zattera sbatte sulla sabbia bianca più o meno nello stesso istante in cui una grossa
canoa doppia la scogliera ed entra nella laguna.

Ridcully è seduto alla scrivania, circondato dai maghi anziani.


Tentano di dirgli qualcosa, a dispetto del ben noto pericolo che si corre nel cercare di
dire qualcosa a Ridcully, poiché coglie solamente quel che gli piace e lascia che il re-
sto si levi dai piedi.
“Perciò,” dice, “Non è un tipo di formaggio.”
“No, Arcicancelliere,” replica il titolare della cattedra di Studi Indefiniti. “Scuotiven-
to è una specie di mago.”
“Era,” lo corregge l'Interprete di Rune Recenti.
“Non è un tipo di formaggio,” ripete Ridcully, restio a lasciar andare la cosa.
“No.”
“Sembra un nome da formaggio, voglio dire, un etto di Scuotivento Stagionato, sci-
vola in bocca...”
“Dannazione, Scuotivento non è un formaggio!” grida il Decano, per un attimo di
cattivo umore. “Scuotivento non è uno yogurt né un qualunque tipo di derivato acido
del latte! Scuotivento è una stramaledetta seccatura! Una totale ed assoluta calamità
per la magia! Un folle! Un fallimento! In ogni caso, non lo si vede più da quello...
spiacevole episodio con lo Stregone, un bel po' di anni fa.”
“Davvero?” chiede Ridcully, con un tono di educata sgradevolezza. “Mi pare di capi-
re che un sacco di maghi agirono in maniera davvero pessima in quell'occasione.”
“E' così, effettivamente,” replica l'Interprete di Rune Recenti, guardando storto il De-
cano che tiene a freno la lingua.

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“Non ne so proprio niente io, Rune. Non ero Decano all'epoca.”
“No, ma eravate già un anziano.”
“Forse, ma è capitato proprio la volta che ero andato a far visita a mia zia, giusto per-
ché lo sappiate.”
“Hanno quasi raso al suolo la città!”
“Mia zia vive a Quirm.”
“E Quirm rimase ampiamente coinvolta, se non ricordo male.”
“- Vicino a Quirm. Nei dintorni di Quirm. Per niente vicino, in verità. Assai lontano
dalla costa -”
“Ah!”
“Comunque, voi sembrate piuttosto ben informato, eh, Rune?” ribatte il Decano.
“Io – Che cosa? - Io – Stavo sempre a studiare. A malapena mi accorgevo di quello
che succedeva -”
“Mezza Università è stata spazzata via!” Il Decano si ricompone ed aggiunge, “Al-
meno, così ho sentito dire. Dopo. Quando sono tornato dalla visita a mia zia.”
“Si, ma la mia porta è piuttosto spessa -”
“E casualmente ho saputo che il Matematico Anziano era qui, perché -”
“- A malapena si riesce a sentire qualcosa con tutto questo armamentario di pesante
stoffa verde addos -”
“Sono stato colto talmente alla sprovvista da non avere avuto il tempo di pensare.”
“Adesso fate subito silenzio tutti quanti!”
Ridcully guarda torvo il corpo docenti, con lo sguardo inequivocabile ed innocente di
qualcuno che è stato benedetto alla nascita dalla mancanza di qualsivoglia immagina-
zione, e che veramente era a chilometri di distanza durante quei recenti e più imba-
razzanti accadimenti della storia dell'Università.
“Eccellente,” dice, ora che finalmente stanno tutti zitti. “Scuotivento. E' un po' un
idiota, esatto? Potete parlare, Decano. Tutti gli altri non dicano una parola.”
Il Decano pare incerto.
“Beh, ehm... voglio dire, è del tutto inutile, Arcicancelliere. Non può neppure fare
della vera magia. Di che utilità potrebbe mai essere? Oltretutto... dovunque Scuoti-

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vento va -” abbassa la voce - “i guai lo seguono.”
Ridcully si accorge che i maghi si sono stretti più vicini gli uni agli altri.
“Mi pare sensato,” commenta. “Il posto migliore dei guai è lasciarseli dietro le spal-
le. Certamente meglio che aspettarseli di fronte.”
“Voi non capite, Arcicancelliere,” ribatte il Decano. “Lo seguono sopra centinaia di
minuscoli piedini.”
Il sorriso dell'Arcicancelliere non si sposta di un millimetro e il resto dell'espressione
del viso lo appoggia fermamente.
“Vi servono le pillole dell'Economo, Decano?”
“Vi posso assicurare, Mustrum -”
“Allora non dite stupidaggini.”
“D'accordo, Arcicancelliere. Ma vi rendete conto, no, che ci potrebbero volere degli
anni per trovarlo?”
“Ehm,” interviene Ponder, “Se riusciamo a ricavare la sua impronta thaumica, credo
che ad Hex basterebbe un giorno, probabilmente...”
Il Decano lo guarda truce.
“Questa non è magia!” schiocca. “Questa è semplice... ingegneria!”

Scuotivento arranca faticosamente nelle acque basse ed usa una roccia affilata per far
saltare la calotta di una noce di cocco che ha lasciato in fresco in una pratica insena-
tura all'ombra di una roccia. Se la porta alle labbra.
Un'ombra lo copre.
Dice, “Ehm, salve?”

E' possibile che, continuando a parlare all'Arcicancelliere abbastanza a lungo, alcuni


argomenti riescano persino a fare breccia in lui.
“Perciò mi state dicendo,” replica Ridcully, alla fine, “Che questo Scuotivento è stato
inseguito da pressoché ogni esercito del mondo, è stato fatto saltare dappertutto come
un pisello su una percussione e probabilmente è il solo mago che sa qualcosa
dell'Impero Agateano, perché un tempo era amico di,” controlla gli appunti, ““un

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buffo ometto con gli occhiali” che è venuto qui e gli ha dato questa buffa cosa con i
piedi alla quale continuate tutti ad alludere. E che sa parlare il lingo. Fin qui ho capi-
to bene?”
“Perfettamente, Arcicancelliere. Chiamatemi pure idiota, se vi fa piacere,” risponde il
Decano. “Ma perché qualcuno dovrebbe chiedere di lui?”
Ridcully ricontrolla gli appunti. “Andrete voi, allora?” domanda.
“No, naturalmente no -”
“Ciò che credo vi sia sfuggito, Decano,” lo interrompe, con un'aria determinata e si-
nistramente gaia, “è quel che si suole definire comune denominatore. Il tizio è riusci-
to sempre a cavarsela. Ha talento. Trovatelo. E portatemelo qui. Ovunque sia. Il po-
veretto, magari, versa in condizioni terribili.”

La noce di cocco rimane dov'è, ma gli occhi di Scuotivento mulinellano impazziti da


una parte all'altra.
Nel suo campo visivo compaiono tre sagome. Evidentemente di sesso femminile. Ab-
bondantemente femminile. Non indossano molti vestiti e nel complesso hanno fin
troppo l'aria di essere fresche di parrucchiere per aver appena smesso di remare su
un'enorme canoa da battaglia, ma è sempre così che succede con le belle guerriere
Amazzoni.
Un sottile rivolo di latte di cocco sgocciola dalla punta della barba di Scuotivento.
La donna in primo piano si sposta i lunghi capelli di lato e gli sorride calorosamente.
“Lo so che potrebbe sembrare sconveniente,” dice, “ma io e le mie sorelle qui rap-
presentiamo la finora sconosciuta tribù la cui popolazione maschile è stata recente-
mente annientata da un repentino quanto mortale flagello altamente mirato. Perciò
stiamo esplorando queste isole alla ricerca di un uomo che possa consentirci la prose-
cuzione della specie.”
“Secondo te quanto pesa?”
Scuotivento aggrotta le sopracciglia. La donna abbassa timidamente gli occhi.
“Magari si sta domandando perché siamo tutte bionde e con la pelle chiara quando
tutti gli altri abitanti di queste isole sono scuri,” dice. “Pare si tratti di una sorta di

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combinazione genetica.”
“Sui cinquantacinque, cinquantasei chili. Più un altro chilo o due di robaccia attorno
alla vita. Ehm... potresti controllare... insomma... QUELLO?”

“Finirà male, Signor Stibbons, me lo sento.”


“E' a soli mille chilometri e noi sappiamo dove siamo, inoltre sta proprio nella metà
giusta del Disco. In ogni caso, ho ricontrollato tutto con Hex, perciò niente può anda-
re storto.”
“Già, ma qualcuno riesce a vedere... quella cosa... sapete... con i... piedi?”

Le sopracciglia di Scuotivento si dimenano. Dalla gola emette un suono strozzato.


“Non riesco a... vederlo. Potreste piantarla tutte quante di ansimare sulla mia sfera di
cristallo?”
“E naturalmente, se viene con noi possiamo garantirle... piaceri materiali e sensuali
dei quali potrebbe forse aver sognato...”

“D'accordo. Al tre -”

La noce di cocco precipita a terra. Scuotivento deglutisce. Negli occhi ha una strana
luce affamata e sognante.
“Potrei averli tutti mescolati?” domanda.

“ORA!”

Dapprima avverte la pressione. Il mondo si spalanca di fronte a Scuotivento e lo ri-


succhia.
Poi si allunga ed inizia a vibrare.
Le nuvole lo sorpassano, indistinte per la velocità. Quando osa aprire di nuovo gli
occhi è per vedere, assai lontano davanti a lui, un minuscolo punto nero.
Che diventa più grande.

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E si trasforma in una piccola chiazza di oggetti. Un paio di pesanti casseruole, un
grosso candelabro di ottone, alcuni mattoni, una sedia ed un enorme stampo d'ottone
per il biancomangiare a forma di castello.
Che lo colpiscono uno dopo l'altro. Lo stampo per il biancomangiare produce un buf-
fo fragore metallico quando gli rimbalza sulla testa e poi mulinella oltre le sue spalle.
A seguire davanti a lui c'è un ottagono. Di gesso.
Lo colpisce.

Ridcully abbassa lo sguardo.


“Poco meno di cinquantasei chilogrammi, mi compiaccio,” dice. “Comunque... ben
fatto, signori.”
Il malmesso spaventapasseri al centro del circolo barcolla e si batte i vestiti per soffo-
care un paio di incendi. Poi si guarda confusamente intorno e dice “Eheheh?”
“Potrebbe essere un po' disorientato,” osserva l'Arcicancelliere. “Ha percorso più di
mille chilometri in due secondi, dopo tutto. Bisogna evitargli un terribile choc.”
“Come ai sonnambuli, volete dire?” chiede il Matematico Anziano.
“Che c'entrano i sonnambuli?”
“Se svegliate i sonnambuli, gli cascano le gambe. Mia nonna lo diceva sempre.”
“E siamo sicuri che è Scuotivento?” domanda il Decano.
“Certo che è Scuotivento,” risponde il Matematico Anziano. “Abbiamo passato ore
intere a cercarlo.”
“Potrebbe essere una qualche strana e pericolosa creatura occulta,” insiste testardo il
Decano.
“Con quel cappello?”
E' un cappello a punta. Più o meno. Una specie di cappello a punta intriso di adora-
zione, ricavato da pezzi di bambù e foglie di cocco con la speranza di attrarre una
qualche magia di passaggio. Sopra, in evidenza, scritta con le conchiglie e tenuta in-
sieme con dei fili d'erba, c'è la parola MAGGO.
Colui che lo indossa fissa un punto imprecisato oltre i maghi e, come guidato
dall'improvviso ricordo di una qualche ragione di esistere, barcolla bruscamente fuori

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dall'ottagono e punta diritto alla porta della stanza.
I maghi lo seguono prudenti.
“Non sono sicuro di poter credere a sua nonna. Quante volte l'ha visto succedere?”
“Non lo so. Non me l'ha mai detto.”
“L'Economo è sonnambulo per la maggior parte delle notti, sapete?”
“Davvero? Allettante...”
Scuotivento, se è questo il nome della creatura, esce su Piazza Satrapo.
E' affollata. L'aria scintilla dei bracieri dei venditori di caldarroste e dei mercanti di
patate arrosto ed echeggia delle urla di strada tradizionali ad Ankh-Mopork8.
La figura si avvicina furtiva ad un uomo emaciato, con indosso un enorme soprabito,
che frigge qualcosa sopra una piccola stufa a nafta, con un ampio vassoio all'altezza
delle ginocchia.
Il forse-Scuotivento afferra l'estremità del vassoio.
“Avete... delle... patate?” grugnisce.
“Patate? No, capo. Ho delle salsicce in panino.”
Il forse-Scuotivento resta immobile. E poi scoppia in lacrime.
“Salsicce in paninoooou” piagnucola rumorosamente. “Cara vecchia salsiccia in in in
panninooo! Datemi salsalsalsicciiiaa innn panninoooo!”
Ne afferra tre dal vassoio e cerca di mangiarle tutte in una volta.
“Santo cielo!” esclama Ridcully.
La figura si allontana un po' correndo ed un po' saltellando, con pezzi di panino ed
avanzi di derivati del maiale che gli cadono dalla barba trasandata.
“Non ho mai visto nessuno mangiare tre salsicce in panino di Tagliagola Dibbler ed
avere un'aria così felice,” commenta il Matematico Anziano.
“Non ho mai visto nessuno mangiare tre salsicce in panino di Tagliagola Dibbler e
restare così in piedi,” osserva il Decano.
“Non ho mai visto nessuno mangiare tre salsicce in panino di Tagliagola Dibbler ed
andarsene senza pagare,” rilancia l'Interprete di Rune Recenti.
La figura volteggia felice attorno alla piazza, con le lacrime che gli solcano il viso.
8 Come “Ahi!”, “Aargh!”, “Ridammi indietro i soldi farabutto!” e “Tu queste le chiami caldarroste?
Io le chiamo piccole palle di carbone, ecco come le chiamo!”

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Le piroette la conducono fino all'imbocco di un vicolo, dove una figura più piccola
sbuca alle sue spalle e con qualche difficoltà la colpisce dietro la nuca.
Il mangiatore di salsicce cade sulle ginocchia rivolgendo al mondo in generale un
“Ahi!”
“No no no no no no no!”
Un uomo considerevolmente più anziano si fa avanti e toglie il manganello dalle
mani esitanti del giovane, mentre la vittima s'inginocchia lamentandosi.
“Credo tu debba delle scuse a questo povero gentiluomo,” dice l'uomo più anziano.
“Sinceramente, cosa dovrebbe pensare? Voglio dire, guardalo bene, ti ha reso le cose
così facili e cosa ne ha ricavato? Voglio dire, cosa pensavi di fare?”
“Mumblemumble, Signor Boggis,” risponde il giovane, fissandosi i piedi.
“Cos'era quello, allora? Rispondi!”
“Fendente Alto, Signor Boggis.”
“Quello era un Fendente Alto? Quello lo chiami un Fendente Alto? Quello non era un
Fendente Alto, o mi sbaglio? Questo – scusate, signore, avrei bisogno che vi alzaste
per un momento, perdonate l'inconveniente – questo è un Fendente Alto -”
“Ahi!” grida la vittima e, poi, con enorme sorpresa da parte di tutti i soggetti coinvol-
ti, aggiunge: “Ahahahah!”
“Quello che hai eseguito – mi scusi per il ripasso, signore, non ci vorrà che un minu-
to – quello che hai fatto tu era questo -”
“Ahi! Ahahahah!”
“Allora, voi tutti, avete osservato bene? Forza, venite...”
Una mezza dozzina di giovani si sposta dinoccolata nel vicolo e si trasforma in un
cencioso pubblico per il Signor Boggis, il malcapitato studente e la vittima, la quale
barcolla tra di loro emettendo dei piccoli “umpa umpa” e, senza alcun apparente vali-
do motivo, sembra divertirsi immensamente.
“Dunque,” cominicia il Signor Boggis, con un'aria da mastro artigiano nell'atto di
condividere la propria esperienza con un'ingrata discendenza, “per importunare un
utente dalla vostra postazione base all'entrata del vicolo, la procedura corretta è – Oh,
salve, Signor Ridcully, non l'avevo vista.”

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L'Arcicancelliere gli rivolge un cenno amichevole.
“Non badi a noi, Signor Boggis. Gilda dei Ladri in addestramento sul campo, esat-
to?”
Boggis alza gli occhi al cielo.
“Non so cosa gli insegnino a scuola,” risponde. “Passano tutto il tempo a leggere e
scrivere. Quand'ero ragazzo io la scuola serviva per imparare qualcosa di utile. Già –
tu, Wilkins, smettila di ridacchiare, è il tuo turno, ci scusi solo un altro momento, si-
gnore -”
“Ahi!”
“No no no no no no! La mia vecchia nonna saprebbe fare di meglio! Osserva bene,
avanzi ordinatamente, gli metti una mano sulla spalla qui, per controllarlo... forza,
continua tu... e poi, rapidamente -”
“Ahi!”
“D'accordo, qualcuno sa dirmi dov'è che ha sbagliato?”
La figura si allontana carponi senza che nessuno ci badi, apparte i maghi, intanto che
il Signor Boggis mostra quali sono i punti migliori in cui colpire qualcuno alla testa
usando quella di Wilkins.
La figura torna in strada, incerta sulle gambe, muovendosi come ipnotizzata.
“Sta piangendo,” osserva il Decano.
“Lo credo bene,” commenta l'Arcicancelliere. “Ma perché allo stesso tempo sorride
raggiante?”
“Curiosamente curioso,” risponde il Matematico Anziano.
Ammaccata e forse intossicata, la figura riprende la strada per l'Università pedinata
dai maghi.
“Volevate dire “Curioso in maniera curiosa”, vero? Anche così non è che abbia gran-
ché senso -”
Varca il cancello e, stavolta, supera veloce ed a sbalzi la sala principale ed entra in
Biblioteca.
Il Bibliotecario è in attesa, con qualcosa di simile ad un sorrisetto compiaciuto sul
muso – ed un orango è veramente capace di sorridere compiaciuto – ed in mano il

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cappello semidistrutto.
“Stupefacente,” commenta Ridcully. “E' vero! Un mago torna sempre a riprendersi il
cappello!”
La figura afferra il cappello, sfratta alcuni ragni, scaraventa via il coso triste fatto di
foglie e si mette il cappello in testa.
Scuotivento sbatte le palpebre su uno sconcertato corpo docenti. Per la prima volta
s'intravede una luce in fondo ai suoi occhi, come se fino ad ora fosse stato spinto da
un mero riflesso condizionato.
“Ehm. Cos'ho appena mangiato?”
“Ehm. Tre delle ben note salsicce del Signor Dibbler,” risponde Ridcully. “E quando
dico ben note, intendo “più tipiche”, meglio soprassedere.”
“Capisco. E chi mi ha appena colpito?”
“Apprendisti della Gilda dei Ladri in addestramento.”
Scuotivento batte le palpebre. “Questa è Ankh-Morpork, vero?”
“Si.”
“Mi pareva infatti.” Scuotivento batte le palpebre, lentamente. “Beh,” dice, crollando
in avanti, “Sono tornato.”

Lord Magazzinai fa volare un aquilone. Il che gli riesce perfettamente.


Lord Magazzinai fa tutto perfettamente. I suoi acquerelli sono perfetti. Le sue poesie
sono perfette. Quando piega un foglio, ogni piega è perfetta. Ingegnosa, originale ed
indiscutibilmente perfetta. Lord Magazzinai ha smesso da tempo di ricercare la per-
fezione, perché l'ha già rinchiusa in una segreta da qualche parte.
Lord Magazzinai ha ventisei anni, è magro ed attraente. Indossa occhiali molto pic-
coli, con lenti molto tonde circondate da una montatura d'acciaio. Quando gli si chie-
de di descriverlo, le persone spesso usano l'aggettivo “regolare” o addirittura “ceri-
monioso”9. E' salito ai vertici di uno dei casati più influenti dell'Impero applicandosi
implacabilmente, focalizzandosi completamente sulle proprie capacità mentali ed
eseguendo magistralmente sei omicidi. L'ultimo dei quali del padre, il quale è morto

9 E spesso la frase “un bastardo che preferiresti non incontrare, ma non sono stato io a dirlo”.

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nella felice consapevolezza che il figlio stava solo perpetuando una vecchia tradizio-
ne di famiglia. I casati più antichi venerano i propri antenati e non credono ci sia nul-
la di male nell'accrescerne prematuramente le fila.
Il suo aquilone, l'aquilone nero con due grandi occhi, precipita in picchiata. Con
un'angolazione che, inutile dirlo, ha calcolato perfettamente. Il filo, ricoperto di colla
e di vetro smerigliato, recide di netto quello degli avversari, facendone capitombolare
i rispettivi aquiloni.
Gli astanti applaudono affettatamente. Le persone, in genere, ritengono opportuno
applaudire Lord Magazzinai. Il quale passa il filo ad un servitore, saluta con un breve
cenno gli altri contendenti e s'incammina di buon passo verso la propria tenda.
Una volta dentro, si siede e guarda il visitatore. “Allora?” domanda.
“Abbiamo inviato il messaggio,” risponde il visitatore. “Non ci ha visti nessuno.”
“Al contrario,” replica Lord Magazzinai. “Vi hanno visti in venti. Hai idea di quanto
sia difficile per una guardia fissare davanti a sé e non vedere nulla, mentre altre per-
sone si aggirano furtive facendo tanto baccano quanto un esercito intero bisbiglian-
dosi a vicenda di fare silenzio? Francamente, voialtri non sembrate possedere quel
certo barlume rivoluzionario. Che avete fatto alla mano?”
“L'albatros l'ha morsa.”
Lord Magazzinai sorride. Gli sovviene che potrebbe aver scambiato il visitatore per
una sardina, e non senza motivo. Hanno un identico sguardo da pesce.
“Non capisco, mio signore,” dice il visitatore, il cui nome è Due Erbe Urticanti.
“Ottimo.”
“Ma loro credono nel Grande Maggo e voi volete farlo venire qui?”
“Oh, certamente. Ho della … gente a – azzarda le sillabe straniere – Ankh-Molt-
Pork. Quello che con ben scarso discernimento viene chiamato il Grande Maggo esi-
ste davvero. Ma, dovrei aggiungere, è rinomato per essere incompetente, codardo e
privo di spina dorsale. Irrimediabilmente. Perciò immagino che l'Esercito Rosso me-
riti il proprio comandante, non credi anche tu? Ne... risolleverà lo spirito.”
Sorride di nuovo. “Questa è la politica,” conclude.
“Ah.”

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“Ora vai.”
Non appena il visitatore esce Lord Magazzinai prende un libro. Lo trova sempre di-
vertente, soprattutto perché l'autore ha sbagliato un sacco di cose.
Quindi, ogni volta che finisce una pagina, la strappa e, intanto che legge la successi-
va, piega accuratamente quella precedente dandole la forma di un crisantemo.
“Grande Mago,” dice a voce alta. “Oh, sicuro. Davvero grande.”

Scuotivento si sveglia. Le lenzuola sono pulite e nessuno sta dicendo “Frugagli nelle
tasche”, perciò lo considera un inizio promettente.
Tiene gli occhi chiusi, per il caso ci sia qualcuno intorno che, una volta scoperto che
si è svegliato, voglia complicargli la vita.
Sente delle voci da anziano discutere.
“Vi sfugge qualcosa di fondamentale. E' vivo. Continuate a raccontarmi di tutte que-
ste sue avventure e ciononostante è ancora vivo.”
“Allora? E' ricoperto di cicatrici dalla testa ai piedi!”
“Esattamente, Decano. Parecchie anche sul didietro. Si lascia i guai alle spalle. Qual-
cuno da Lassù gli sorride.”
Scuotivento sussulta. E' da sempre consapevole che qualcuno Lassù continua a fargli
qualcosa. Ma non penserebbe mai che sia sorridere.
“Non è neppure un vero mago! Non ha mai ottenuto un punteggio più alto del due
per cento agli esami!”
“Credo sia sveglio,” dice qualcuno.
Scuotivento si arrende ed apre gli occhi. Una congerie di visi barbuti eccessivamente
rosei lo fissa.
“Come vi sentite, vecchio mio?” chiede qualcuno, tendendogli la mano. “Sono Rid-
cully. Arcicancelliere. Come vi sentite?”
“Finirà male,” risponde Scuotivento piattamente.
“Che volete dire, vecchio amico?”
“E' solo che lo so. Finirà male. Sta per succedere qualcosa di terribile. Dicevo che era
troppo bello per durare.”

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“Vedete?” interviene il Decano. “Centinaia di minuscoli piedi. Vi avevo avvertito.
Perché non mi state mai ad ascoltare?”
Scuotivento si mette seduto. “Non cominciate a fare il carino con me,” dice. “Non
cominciate ad offrirmi dell'uva. Nessuno mi ha mai cercato per qualcosa di carino.” I
ricordi confusi di un passato più recente fluttuano nella sua mente e per un breve
istante rimpiange le patate, poiché a quel punto il pensiero per lui dominante è collo-
cato in una posizione sicuramente ben diversa da quella ritenuta dalla giovane signo-
ra. D'altro canto, realizza, una vestita così non penserebbe mai trattarsi di un qualche
tipo di radice vegetale.
Sospira. “D'accordo, adesso che succede?”
“Come vi sentite?”
Scuotivento scuote la testa. “Non mi piace,” risponde. “Detesto quando le persone
fanno le carine con me. Significa che sta per succedere qualcosa di brutto. Vi distur-
bano le grida?”
Ridcully ne ha abbastanza. “Uscite immediatamente da quel letto orribile ometto e
seguitemi o le cose si faranno molto difficili per voi!”
“Oh, così va meglio. Adesso si che mi sento a casa. Adesso si che parlate come si
mangia,” commenta mesto Scuotivento. Dondola le gambe oltre il bordo del letto e
con cautela si alza in piedi.
Ridcully si ferma ad aspettarlo a metà strada dalla porta, accanto alla quale gli altri
maghi si sono messi in fila.
“Rune?”
“Si, Arcicancelliere?” risponde l'Interprete di Rune Recenti.
“Ha l'aria di essere una specie di attrezzo,” replica Ridcully.
“Oh, questa,” ribatte l'Interprete di Rune Recenti, come se solo adesso si avvedesse
della mazzetta di tre chili e mezzo che ha in mano. “Caspita... è una mazzetta, non è
vero? Però. Una mazzetta. Immagino di averla semplicemente... presa da qualche
parte. Sapete. Per fare un po' d'ordine.”
“E non posso fare a meno di notare,” prosegue Ridcully, “Che il Decano cerca di na-
scondersi addosso un'ascia da combattimento.”

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Una vibrazione armonica giunge da dietro il titolare della cattedra di Studi Indefiniti.
“E quello mi pareva il suono di una sega,” commenta Ridcully. “C'è qualcuno qui
che non cerchi di nascondere un qualche genere di utensile? Bene. Vorrebbe qualcu-
no usarmi la cortesia di spiegarmi che diavolo sta succedendo qui?”
“Ah, voi non sapete com'è stato,” borbotta il Decano, evitando lo sguardo dell'Arci-
cancelliere. “Un uomo non può voltare le spalle per cinque minuti, di questi tempi.
Non avete sentito lo scalpiccio di quei piedini malefici e -”
Ridcully lo ignora. Circonda la spalla ossuta di Scuotivento con un braccio e gli fa
strada attraverso la Sala Grande.
“Ebbene, Scuotivento,” dice. “Mi riferiscono che non ve la cavate granché con la
magia.”
“Proprio così.”
“Non avete mai superato un esame o altra roba simile?”
“Nessuno, temo.”
“Però vi si rivolgono tutti come a Scuotivento il mago.”
Scuotivento tiene gli occhi bassi. “Beh, ho fatto come una specie di lavoro qui in
qualità di Bibliotecario aggiunto -”
“- Il secondo di una scimmia -” commenta il Decano.
“- E sapete com'è, ho fatto lavori strani ed altra roba così e sapete, insomma, come
vanno queste cose -”
“Dico, l'avete capita? Il secondo di una scimmia? Alquanto sagace, direi.”
“Ma siete mai stato, di fatto, ufficialmente autorizzato a qualificarvi come mago?”
chiede Ridcully.
“Tecnicamente no, presumo...”
“Capisco. Un bel problema.”
“Ho questo cappello con su scritto “Maggo”,” replica Scuotivento ottimista.
“Temo non sia granché di aiuto. Mmm. La cosa ci mette un po' in difficoltà, temo.
Fatemi pensare... quanto a lungo riuscite a trattenere il respiro?”
“Non so. Un paio di minuti. E' importante?”
“Rientra nel contesto dell'essere inchiodati a testa in giù ad uno dei piloni del Ponte

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d'Ottone per due alte maree per poi essere decapitati che, temo, sia la pena prevista
per chi si spaccia per un mago. Ho controllato. Nessuno è più dispiaciuto di me, cre-
detemi. Ma la Tradizione è la Tradizione.”
“Oh, no!”
“Mi spiace. Non ci sono alternative. Diversamente saremmo sommersi fino alle gi-
nocchia da persone che indossano cappelli a punta senza alcun diritto di farlo. Non
posso farci niente. Vorrei. Ma ho le mani legate. Secondo gli statuti potete diventare
mago solamente frequentando normalmente l'Università o rendendo un grande servi-
gio a beneficio della magia, e temo che -”
“Non potreste semplicemente rimandarmi nella mia isola? Mi piaceva. Era monoto-
na!”
Ridcully scuote tristemente la testa in segno di diniego.
“Non posso farlo, temo. La violazione si è protratta per diversi anni. E poiché non
avete superato alcun esame né,” Ridcully alza leggermente il tono della voce, “avete
reso un grande servigio a beneficio della magia, temo che sarò costretto a ordinare
agli scavafosse10 di prendere una corda e -”
“Ehm. Penso che potrei aver salvato il mondo un paio di volte,” l'interrompe Scuoti-
vento. “Sarebbe di aiuto?”
“Qualcuno dell'Università vi ha visto farlo?”
“No, credo di no.”
Ridcully scrolla il capo. “Probabilmente non conta, allora. E' una vergogna, perché se
aveste reso un qualunque grande servigio a beneficio della magia, allora sarei lieto di
lasciarvi quel cappello e, naturalmente, qualcosa su cui posarlo”.
Scuotivento è abbattuto. Ridcully sospira e fa un ultimo tentativo.
“Perciò,” dice, “Dal momento che a quanto pare non avete superato alcun esame O
RESO UN GRANDE SERVIGIO A BENEFICIO DELLA MAGIA, allora -”
“Suppongo... che potrei provare a rendere un qualche grande servigio?” risponde
Scuotivento, con l'espressione di chi sa che la luce che vede alla fine del tunnel è

10 I custodi dell'Università Invisibile. Noti all'intero corpo docenti per la durezza del cranio, l'ottusità
di fronte a spiegazioni razionali ed il profondo ed inamovibile convincimento che senza di loro l'intera
baracca collasserebbe.

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quella di un treno in arrivo.
“Davvero? Mmm? Ebbene, questa è decisamente una soluzione,” dice Ridcully.
“Di che servigio si tratta?”
“Oh, normalmente ci si aspetterebbe, a scopo puramente esemplificativo, che andaste
alla ricerca di qualcosa o trovaste la risposta a qualche enigma molto antico ed im-
portante – che diavolo è quella roba con tutti quei piedi?”
Scuotivento non si prende neppure la briga di voltarsi. L'espressione sul viso di Rid-
cully, che guarda fisso oltre la sua spalla, gli è piuttosto familiare.
“Ah,”, risponde, “Credo di conoscerlo.”

La magia non è come la matematica. Un po’ come Mondodisco, che segue il buon
senso piuttosto che la logica. E non è neppure come la cucina. Un dolce è un dolce.
Si miscelano gli ingredienti, si fanno cuocere alla giusta temperatura ed ecco pronto
il dolce. Non c'è spezzatino che abbia bisogno della luce della luna. Né soufflé che
abbia mai richiesto di essere mescolato da una vergine.
Tuttavia, chi è afflitto da una mente inquisitoria spesso si domanda se la magia ha
delle regole.
Esistono più di cinquecento incantesimi d'amore, che spaziano dal pasticciare coi
semi di felce a mezzanotte, al fare qualcosa di meno piacevole con un corno di rino-
ceronte ad un'ora non specificata, sebbene probabilmente non dopo mangiato. E' pos-
sibile (si domandano le menti inquisitorie) che un'analisi di tutti questi incantesimi
consenta di individuare un qualche potente denominatore comune, un meta-incantesi-
mo, una qualche semplice equazione che consenta di raggiungere lo scopo desiderato
più facilmente e, tra parentesi, con enorme sollievo da parte di tutti i rinoceronti?
Hex è stato concepito per rispondere a questo interrogativo, sebbene Ponder Stibbons
si senta un po' a disagio con la parola “concepito” in questo contesto. Lui ed alcuni
studenti entusiasti l'hanno messo insieme, certamente, ma... beh... qualche volta, sen-
za che abbia la benché minima idea sul come, per quanto suoni strano, sembra cre-
sciuto.
Ad esempio, è piuttosto sicuro che nessuno ha progettata la Fase del Generatore Lu-

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nare, ma eccola lì, parte evidente dell'intero congegno.
Hanno costruito l'Orologio del Tempo Irreale, quantunque nessuno paia sapere con
certezza come funzioni.
Sospetta di avere a che fare con un caso eccezionale di causalità formativa, che è
sempre un rischio in un posto come l'Università Invisibile, in cui la realtà è più sottile
ed agitata da una moltitudine di correnti differenti. Se così è, allora, non stanno esat-
tamente progettando qualcosa. Si limitano semplicemente a realizzare in modo tangi-
bile un'idea che era già lì, l'ombra di qualcosa che aspettava soltanto di poter esistere.
Ha spiegato a lungo al Corpo Docenti che Hex non è in grado di pensare. E' ovvio
che non può farlo. In parte è meccanico. In altra larga parte è fatto di formicai di for-
miche giganti (l'interfaccia, con le formiche che vanno su e giù sul saliscendi in per-
petuo movimento, che a sua volta fa girare l’imponente ruota dentata, è un piccolo
capolavoro, pensa), ed in effetti il pezzo più importante è il contorto meccanismo di
controllo del via vai delle formiche lungo un labirinto di tubi di vetro.
Ciononostante, fondamentalmente è solo un... accumularsi di roba, come l'acquario e
l'acchiappasogni che adesso sembrano indispensabili. Un topo si è costruito la tana
proprio nel mezzo e gli è stato permesso di diventare parte dell'insieme poiché senza
non funzionava più niente. Non c'è assolutamente nulla in quest'accozzaglia capace
di pensare, tranne in maniera piuttosto univoca al formaggio o allo zucchero. Tutta-
via... nel cuore della notte, quando Hex lavora sodo, ed i tubi vibrano per l’alacre
sfacchinare delle formiche, e le cose d'improvviso fanno “clonk” senza alcuna appa-
rente ragione, e l'acquario viene calato con le gru così che l'addetto di turno abbia
qualcosa da guardare in quelle lunghe ore... tuttavia, allora è possibile che un uomo
cominci a speculare su cos'è una mente e cos'è il pensiero e se le cose inanimate sono
capaci di pensare e se una mente non è altro che una versione più complessa di Hex
(oppure, verso le quattro del mattino, quando alcuni pezzi del meccanismo invertono
la direzione ed il topo squittisce, se una mente non è una versione meno complessa di
Hex) ed a chiedersi se l'insieme non è in grado di produrre qualcosa solo apparente-
mente non inerente le sue componenti.
Per farla breve, Ponder è giusto un po' turbato.

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Siede davanti alla tastiera, che è grande quasi quanto Hex perché altrimenti non riu-
scirebbe a contenere tutte le leve e gli accrocchi indispensabili. I molteplici tasti con-
sentono a delle piccole schede perforate di inserirsi per il tempo necessario in delle
fessure, così da costringere le formiche a percorrere dei nuovi tragitti.
Gli ci vuole un po' per impostare i dati, ma alla fine incunea un piede contro la strut -
tura e strattona la leva “Invio”.
Le formiche si precipitano sul nuovo percorso. Il meccanismo comincia a muoversi.
Un minuscolo congegno che Ponder vorrebbe essere preparato a giurare che fino a
ieri non c'era, ma che ha l'aria di un aggeggio per la misurazione della velocità del
vento, comincia a vorticare.
Dopo pochi minuti un certo numero di mattonelle con sopra dei simboli occulti cado-
no all'interno del raccoglitore di schede in uscita.
“Grazie,” dice Ponder, sentendosi immediatamente molto sciocco per averlo fatto.
Si avverte una tensione nella cosa, la sensazione di un dimenarsi silenzioso proteso
verso un qualche lontano obiettivo misterioso. Ponder, come mago, ci si è imbattuto
soltanto un'altra volta prima, nelle ghiande: una vocina flebile priva di suono che
dice si, non sono che una semplice cosina verde – però sogno le foreste.
Proprio l'altro giorno Adrian Semedirapa ha digitato “Perché?” per vedere cosa suc-
cedeva. Alcuni degli studenti avevano pronosticato che Hex sarebbe impazzito nel
tentativo di elaborare una risposta; Ponder aveva creduto che Hex avrebbe prodotto il
messaggio ?????, come fa con una frequenza deprimente.
Invece, dopo una serie di attività inusuali per le formiche, ha laboriosamente elabora-
to: “Perché è.”
Con tutti ammassati ad osservare da dietro una scrivania capovolta frettolosamente,
Semedirapa si era offerto volontario per un: “Perché tutto è?”
La risposta era finalmente giunta: “Perché è tutto. ????? Errore Dominio Eterno. +++
++ Resettare Dal Principio +++++.”
Nessuno sapeva cosa significasse “Resettare Dal Principio” o perché stesse rispon-
dendo. Però avevano esaurito le domande assurde. Nessuno voleva arrischiarsi a rice-
verne la risposta. Era stato poco dopo che la cosa simile ad un ombrello rotto con so-

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pra delle sardine era comparsa dietro la cosa simile ad un pallone da spiaggia che fa
“parp” ogni quattordici minuti.
Naturalmente, i libri di magia sviluppano una certa... personalità, per via di tutto il
potere costretto nelle loro pagine. Ecco perché è poco saggio recarsi in Biblioteca di-
sarmati. E Ponder ha contribuito a costruire un congegno per lo studio della magia. I
maghi sanno da sempre che l'osservazione cambia la sostanza di ciò che si osserva e
talvolta dimenticano che cambia pure l'osservatore.
Inizia a sospettare che Hex si stia riprogettando autonomamente.
E gli ha appena detto “Grazie.” Ad un affare che pare essere stato messo insieme da
un soffiatore di vetro con il singhiozzo.
Esamina l'incantesimo che ha elaborato, lo trascrive frettolosamente e corre via.
Hex clicca sé stesso nella stanza vuota. La cosa che fa “parp” fa parp. L'Orologio del
Tempo Irreale che sta di lato ticchetta.
Il raccoglitore esterno tintinna.
“Non provarci. ++?????++ Errore Esaurimento Formaggio. Resettare Dal Principio.”

Passano cinque minuti.


“Affascinante,” commenta Ridcully. “E' di Pero Sapiente, eh?” S'inginocchia nello
sforzo di guardarci sotto.
Il Bagaglio indietreggia. E' abituato a terrore, orrore, paura e panico. Raramente è
stato oggetto d'interesse prima d'ora.
L'Arcicancelliere si rialza spolverandosi i vestiti.
“Ah,” dice intanto che la sagoma di un nano si avvicina. “Arriva il giardiniere con la
scala a libretto. Il Decano sul lampadario a bracci, Modo.”
“Mi trovo piuttosto a mio agio, quassù, ve l'assicuro,” replica una voce dalle parti del
soffitto. “Qualcuno potrebbe forse usarmi la cortesia di allungarmi una tazza di tè?”
“E sono strabiliato per come il Matematico Anziano è riuscito ad infilarsi nella cre-
denza,” aggiunge Ridcully. “E' stupefacente quanto riesca a raggomitolarsi un
uomo.”
“Sto solo – solo controllando l'argenteria,” risponde una voce dalle profondità di un

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cassetto.
Il Bagaglio apre il coperchio. Diversi maghi balzano frettolosamente indietro.
Ridcully esamina i denti affilati che ci sono conficcati come sul vano in legno.
“Ammazzerebbero uno squalo, non vi pare?” commenta.
“Oh, eccome,” ribatte Scuotivento. “Certe volte li trascina a riva e ci salta sopra su e
giù.”
Ridcully è impressionato. Il legno di Pero Sapiente è molto raro nelle regioni tra le
Ramtops ed il Mare Circolare. Probabilmente gli alberi sono tutti morti. Sono assai
pochi i maghi fortunati abbastanza da avere ereditato dei bastoni ricavati da quello.
Economizzare sulle emozioni è uno dei punti forti di Ridcully. E' impressionato. E'
affascinato. Quando quell'affare è atterrato nel bel mezzo dei maghi inducendo il De-
cano a compiere una notevole accelerazione verticale, è perfino quasi trasalito. Ma
non è intimorito, perché non ha sufficiente immaginazione.
“Santo cielo,” dice un mago.
L'Arcicancelliere solleva lo sguardo.
“Si, Economo?”
“E' per questo libro che mi ha prestato il Decano, Mustrum. E' sulle scimmie.”
“Davvero.”
“E' proprio affascinante,” continua l'Economo, in bilico sulla mediana del proprio ci-
clo mentale e tuttavia vagamente sul pianeta giusto, seppure separatone da otto chilo-
metri di batuffoli di cotone intellettuale. “E' vero quel che ha detto. Qui c'è scritto che
un orango adulto non sviluppa delle guance vistosamente prominenti a meno che non
sia il maschio dominante.”
“Ed è affascinante, vero?”
“Beh, si, perché lui non le ha. Chissà perché? Indubbiamente domina la Biblioteca,
credo.”
“Ah, certo,” replica il Matematico Anziano, “però è anche consapevole di essere un
mago. Perciò sa che non domina l'intera Università.”
Uno ad uno, intanto che assimilano il concetto, rivolgono un largo sorriso all'Arci-
cancelliere.

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“Non guardatemi le guance a quel modo!” esclama Ridcully. “Io non domino nessu-
no!”
“Stavo solo -”
“Chiudete il becco tutti quanti o saranno guai seri!”
“Dovreste leggerlo,” dice l'Economo, ancora felicemente pascolante nella valle delle
pillole di rana essiccata. “E' straordinario quel che potreste imparare.”
“E cosa? Roba del tipo... come mostrare il sedere in pubblico?” ribatte il Decano,
dall'alto.
“No, Decano. Quello lo fanno i babbuini,” risponde il Matematico Anziano.
“Perdonatemi, ma credo che scoprirete che sono i gibboni,” replica il titolare della
cattedra di Studi Indefiniti.
“Ebbene, a me lui non l'ha mostrato neppure una volta,” dice l'Arcicancelliere.
“Ah, beh, non lo farebbe, vero?” interviene una voce dal lampadario. “Per via del fat-
to che siete il maschio dominante e tutto il resto.”
“Due Sedie11, scendete immediatamente!”
“Temo di essere incastrato, Mustrum. Una candela mi sta creando qualche difficoltà.”
“Ah!”
Scuotivento scuote il capo e si allontana. Ci sono stati certamente dei cambiamenti
dall'ultima volta che è stato qui e, se ci riflette, non sa dire con esattezza quanto tem-
po fa è stato...
Non ha mai desiderato una vita avventurosa. Ciò che veramente apprezza, ciò che
anela ogni volta, è la monotonia. Il guaio è che la monotonia ha la tendenza ad esplo-
derti sempre in faccia. Proprio quando pensa di averla trovata finisce improvvisa-
mente coinvolto in quello che l'altra gente – gente incosciente e sconsiderata – defini-
rebbe un'avventura. E viene obbligato ad andare in strani posti e ad incontrare perso-
ne esotiche e variopinte, sebbene non troppo a lungo perché di solito finiscono per
inseguirlo.
Ha assistito alla creazione dell'universo, ma non da un bel posto, ed ha visitato
l'Inferno e l'oltretomba. L'hanno catturato, imprigionato, salvato, perso ed abbando-

11 Soprannome dato da Ridcully al Decano in “The last continent” (inedito in Italia), in considerazio-
ne dell'obesità che lo costringe a ricorrere a due sedie per poter sedere; n.d.t.

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nato su un'isola. Qualche volta tutto nello stesso giorno.
Avventura! La gente ne parla come se avesse un qualche valore, mentre non è che
una valanga di cibo scadente, di notti senza sonno e di strani individui che tentano
inesplicabilmente d'infilzarti con degli oggetti appuntiti.
Il problema fondamentale, per come oramai la interpreta, è che patisce di una pre-
vacuità karmica. Anche se potrebbe sembrare che il prossimo futuro gli riservi qual-
cosa di bello, il presente gli riserva sempre qualcosa di pessimo. Perpetuandosi anche
nella parte in cui qualcosa di bello dovrebbe capitargli, così che non gli capita mai
veramente. E' come se ancora prima di mangiare gli venisse sempre un'indigestione e
si sentisse talmente male da non riuscire davvero a mangiare qualcosa.
Da qualche parte nel mondo, pensa, c'è qualcuno dall'altro lato dell'altalena, una spe-
cie d'immagine riflessa di Scuotivento la cui vita è un susseguirsi di eventi meravi-
gliosi. Spera d'incontrarlo un giorno, preferibilmente armato di qualcosa.
Vanno blaterando di spedirlo nel Continente Contrappeso. Ha sentito dire che la vita
è piuttosto noiosa da quelle parti. E Scuotivento desidera ardentemente annoiarsi.
Gli piaceva davvero l'isola. Si divertiva con il Cocco A Sorpresa. Lo spaccava e, ehi,
dentro c'era proprio il cocco. E' questo il genere di sorpresa che gli piace.
Spinge una porta aprendola.
Una volta era la sua stanza. E' un casino. C'è un grosso armadio ammaccato che, più
o meno, rappresenta l'intero arredamento, sempreché non si ritenga di ampliare il
senso del termine sino a ricomprendervi una sedia in vimini con tre gambe e priva
della seduta ed un materasso talmente brulicante di quella vita che di solito abita i
materassi che di quando in quando si muove lento sul pavimento cozzando contro le
altre cose. Il resto della stanza è un immondezzaio di roba intrufolatasi furtiva dalla
strada – vecchie cassette, pezzi di legno, sacchi...
Scuotivento ha un nodo in gola. Hanno lasciato la sua stanza esattamente com'era.
Apre l'armadio e fruga nell'oscurità infestata di falene del suo interno, finché la sua
mano indagatrice non individua – un orecchio – attaccato ad un nano.
“Ahi!”
“Cosa stai facendo nel mio armadio?” chiede Scuotivento.

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“Armadio? Ehm... Ehm... Ma non è il Magico Regno delle Delizie?” chiede il nano
di rimando, tentando di non sembrare colpevole.
“No, e quelle scarpe non sono i Gioielli Dorei della Regina delle Fate,” ribatte Scuo-
tivento, strappandogliele dalle mani. “E questo non è il Bastone dell'Invisibilità e
questi non sono i Meravigliosi Calzini del Gigante Nasorombante ma questo è il mio
scarpone -”
“Ahi!”
“E gira al largo!”
Il nano si precipita verso la porta e poi si ferma, ma solamente un momento, per urla-
re: “Ho una tessera della Gilda dei Ladri! E non dovresti malmenare i nani! E' specie-
sismo!”
“Ottimo,” replica Scuotivento, raccogliendo i capi di abbigliamento.
Trova una toga pulita e l'indossa. Qua e là le tarme hanno fatto sfoggio della loro abi-
lità da merlettaie e per lo più il colore rosso è sbiadito in sfumature arancioni e mar-
roni, ma lo solleva il fatto che sia la toga che si conviene ad un mago. Praticare della
magia di grande effetto non è facile se si hanno le ginocchia scoperte.
Dei passi lievi sgambettano e si fermano proprio alle sue spalle. Si volta.
“Apri.”
Il Bagaglio spalanca obbediente il coperchio scricchiolante. In teoria dovrebbe tra-
boccare di squali; di fatto è mezzo pieno di noci di cocco. Scuotivento le scaraventa
sul pavimento e ci infila dentro il resto dei vestiti.
“Chiudi.”
Il coperchio sbatte.
“Adesso scendi in cucina e prendi delle patate.”
La cassapanca compie una complicata simil-svolta sui molti piccoli piedi e trotterella
via. Scuotivento esce dietro di lei e s’incammina verso lo studio dell'Arcicancelliere.
Alle sue spalle sente i maghi ancora intenti a discutere tra di loro.
Lo studio gli è diventato familiare nel corso degli anni all'Invisibile.
In genere ci si ritrovava per rispondere a domande piuttosto difficili tipo “Come si
può prendere un'insufficienza in Principi Elementari dell'Accendere il Fuoco?” Ha

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passato un sacco di tempo a fissare i mobili e le suppellettili mentre gli rifilavano una
paternale.
Anche qui ci sono stati dei cambiamenti. Sono spariti gli alambicchi e le caraffe ri-
bollenti costituenti il tipico corredo di scena di chi esercita la magia; lo studio di Rid-
cully è dominato da un tavolo regolamentare da biliardo inglese, sul quale ha accata-
stato mucchi di carte finché non ha esaurito il posto ed il feltro verde non è scompar -
so.
Ridcully presuppone che qualunque cosa le persone trovino il tempo di scrivere è pri-
va di importanza.
Dai palchi di un cervo pendono un paio di scarponi smangiucchiati che, quand’era
giovane, Ridcully ha ricevuto per il Bronzo in Canottaggio vinto per l'Università12. In
un angolo dello studio c'è un grosso modello di Mondodisco su quattro elefanti inta-
gliati nel legno. Scuotivento lo conosce bene. Ogni studente è... Il Continente Con-
trappeso è una chiazza. E' la sagoma di una chiazza; per nulla invitante ed a forma di
virgola. I navigatori ne hanno riportate delle informazioni. Dicono che ad un certo
punto si trasforma in una struttura di grandi isole, che si allungano attorno al Disco
fino alla persino più misteriosa isola di Bangbangoc ed al completamente mitico con-
tinente che sulle mappe è contrassegnato semplicemente come “XXXX”.
Non che molti navigatori si arrischino ad avvicinarsi al Continente Contrappeso.
L'Impero Agateano è rinomato perché lascia passare solamente una quantità esigua di
contrabbando; presumibilmente Ankh-Morpork ha qualcosa che desidera. Ma non c'è
niente di ufficiale; una nave può fare ritorno carica di seta e di legno pregiato e, di
questi tempi, di una manciata di rifugiati dallo sguardo allucinato, o può fare ritorno
con il capitano inchiodato a testa in giù all'albero maestro, oppure può non tornare af-
fatto.
Scuotivento è stato quasi dappertutto, ma il Continente Contrappeso è una terra sco-
nosciuta, o un'incognita terrificante. Non riesce ad immaginare perché potrebbero vo-
lere un mago.
12 Tranne che in condizioni limite di inondazione, è estremamente difficile riuscire ad avanzare
sull'Ankh e la squadra di canottaggio dell'Università compete correndo sulla superficie del fiume. Il
che non rappresenta un pericolo a patto che non si resti fermi in un solo punto troppo a lungo e, natu -
ralmente, che le suole degli scarponi non finiscano divorate.

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Sospira. Sa esattamente cosa dovrebbe sbrigarsi a fare.
Non dovrebbe restare ad aspettare il ritorno del Bagaglio dal rifornimento nelle cuci-
ne, dalle quali le urla ed il rumore di qualcosa che viene ripetutamente colpito con
una grossa casseruola di ottone suggeriscono che sta svolgendo il proprio incarico.
Dovrebbe semplicemente agguantare tutto quanto riesce a portare e scappare a gam-
be levate. Dovrebbe -
“Ah, Scuotivento,” lo saluta l'Arcicancelliere, che ha una passo straordinariamente
silenzioso per un uomo della sua stazza. “Siete ansioso di partire, a quanto vedo.”
“Si, proprio,” risponde Scuotivento. “Oh si. Esattamente così.”

L'Esercito Rosso è riunito in segreto. In genere aprono gli incontri intonando inni ri-
voluzionari che, poiché la ribellione al potere precostituito non è congeniale al carat-
tere Agateano, hanno titoli quali “Progresso Equilibrato e Misurata Disobbedienza
Senza Dimenticare Le Buone Maniere”.
Poi è il momento di dare la notizia.
“Il Grande Maggo verrà. Abbiamo inviato il messaggio, a sprezzo dell’incolumità
personale”.
“Come facciamo a sapere quando arriva?”
“Se è il Grande Maggo, ne sentiremo inevitabilmente parlare. E allora -”
“Respingere Gentilmente Le Forze della Repressione!” intonano.
Due Erbe Urticanti si rivolge alla cellula. “Esattamente,” dice. “E dopo, camerati, at-
taccheremo il marcio proprio al cuore. Assalteremo il Palazzo d'Inverno!”
La cellula tace. Poi qualcuno dice, “Mi scusi, Due Erbe Urticanti, ma è giugno.”
“Allora assalteremo il Palazzo d'estate!”

Una riunione simile, sebbene priva di canti e con partecipanti assai più anziani, è in
corso all'Università Invisibile, nonostante il rifiuto di un membro del Consiglio Uni-
versitario di scendere dal lampadario. Il che infastidisce non poco il Bibliotecario che
di solito lo occupa.
“D'accordo, se non vi fidate dei miei calcoli, quali alternative abbiamo?” domanda

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Ponder Stibbons accalorato.
“Una nave?” suggerisce il titolare della cattedra di Studi Indefiniti.
“Affondano,” commenta Scuotivento.
“Vi farebbe arrivare a destinazione in un batter d'occhio,” interviene il Matematico
Anziano. “Dopotutto siamo maghi. Potremmo fornirvi di una sacca di vento tutta per
voi.”
“Ah. Mandate il Decano,” dice Ridcully, amabilmente.
“Vi ho sentito,” replica una voce dall'alto.
“Via terra,” propone l'Interprete di Rune Recenti. “Attorno al Perno? Il ghiaccio è
tutto praticabile.”
“No,” replica Scuotivento.
“Ma non si affonda nel ghiaccio.”
“No. S'incrina e poi si affonda e poi il ghiaccio ricopre la testa. E ci sono le orche as-
sassine. E foche gigantesche con zanne affilate come lame.”
“Dobbiamo abbattere questo muro, lo so,” se ne esce l'Economo, brillantemente.
“Come?” chiede l'Interprete di Rune Recenti.
“Con un gancetto per appenderci i quadri.”
Il silenzio trasuda imbarazzo.
“Perbacco, è già l'ora?” domanda l'Arcicancelliere, tirando fuori l'orologio. “Ah, si.
La boccetta nella vostra tasca sinistra, vecchio mio. Prendetene tre.”
“No, la magia è l'unico modo,” sostiene Ponder Stibbons. “Ha funzionato per portar-
lo qui, o no?”
“Oh, certo,” protesta Scuotivento. “Volete spedirmi a migliaia di chilometri di distan-
za coi pantaloni in fiamme e non sapete neppure dov'è che atterrerò? Oh, si, davvero
l'ideale, eccome.”
“Ebbene,” commenta Ridcully, un uomo insensibile al sarcasmo. “E' un continente
assai vasto, è impossibile che lo manchiamo a dispetto dei calcoli precisi del Signor
Stibbons.”
“E se mi sfracello nel bel mezzo di una montagna?” domanda Scuotivento.
“Impossibile. La roccia verrebbe trasportata qui dove eseguiamo l'incantesimo,” ri-

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sponde Ponder, cui non piace la battuta sulle proprie abilità matematiche.
“Così mi ritroverei comunque nel bel mezzo di una montagna ma in un buco con la
mia forma,” ribatte Scuotivento. “Oh, bene. Un fossile a presa rapida.”
“Non preoccupatevi,” dice Ridcully. “E' tutta una questione di... vattelapesca, sapete,
tutta quella roba su tre angoli retti che formano un triangolo...”
“E' possibile che stiate parlando di geometria?” chiede Scuotivento, adocchiando la
porta.
“Quella roba lì, si. E avrete il vostro straordinario Bagaglio con voi. Ecco, sarà prati-
camente una vacanza. Sarà rilassante. Probabilmente vogliono solo... solo... chiedervi
una cosa, o qualcosa. Ed ho sentito dire che siete portato per le lingue, perciò non
avrete problemi13. Starete via per un paio di giorni al massimo. Perché continuate a
ripetere “Ah” sottovoce?”
“Davvero lo sto facendo?”
“E vi saranno tutti riconoscenti se farete ritorno.”
Scuotivento gira lo sguardo intorno – e, in un caso, in su – al Consiglio.
“Come farò a tornare?” chiede.
“Così come siete arrivato. Vi troveremo e vi tireremo fuori. Con precisione chirurgi-
ca.”
Scuotivento geme. Sa bene cosa s'intende per precisione chirurgica ad Ankh-Mor-
pork. Significa tra i due e i cinque centimetri, con l’accompagnamento di un sacco di
urla e lo sversamento di catrame bollente dove una volta c'erano le gambe.
Però... volendo accantonare per un momento la certezza che qualcosa andrà inevita-
bilmente ed orribilmente storto, sembra infallibile. Peccato che i maghi siano dei fal-
libili ingenui.
“E poi potrò riavere il mio vecchio lavoro?”
“Certamente.”

13 Almeno questo è vero. Scuotivento sa implorare pietà in diciannove lingue diverse e gridarlo* in
altre quarantaquattro.
* Il che è fondamentale. Dei viaggiatori inesperti potrebbero pensare che “Aargh!” sia universale, ma
a Betrobi significa “estremamente divertente” e ad Howondaland significa, a seconda, “Vorrei man-
giarti il piede”, “Tua moglie è un grosso ippopotamo” e “Salve, Pensa Signor Gatto Viola.” I membri
di una particolare tribù si sono fatti una spaventosa reputazione in fatto di crudeltà, semplicemente
perché per loro le urla dei prigionieri equivalgono a “Presto! Dell'altro olio bollente!”

45
“E potrò ufficialmente appellarmi mago?”
“Naturalmente. Incantesimi compresi.”
“E non dovrò mai più andare da nessuna parte finché vivo?”
“Sicuro. Vi proibiremo di lasciare questi locali, se lo desiderate.”
“Ed potrò avere un cappello nuovo?”
“Cosa?”
“Un cappello nuovo. Questo è praticamente arrivato.”
“Due cappelli nuovi.”
“Con i lustrini?”
“Ovviamente. E quei cosi, sapete, simili a quelli dei lampadari di vetro? Un mucchio
di quelli tutti intorno alla tesa. Quanti ne volete. E scriveremo Magggo con tre G.”
Scuotivento sospira. “Oh, d'accordo. Vado.”

Il genio di Ponder si sente un po' soffocare quando si tratta di spiegare le cose alle
persone. Come adesso, che i maghi sono riuniti a bistrattare della magia seria.
“Si, ma vedete, Arcicancelliere, sta per essere spedito dal lato opposto del Disco, ca-
pite -” Ridcully sospira. “Girano, se non sbaglio,” insiste. “Andiamo tutti nella stessa
direzione. E' inconfutabile. Se la gente del Continente Contrappesso andasse nella di-
rezione opposta, dovremmo scontrarci con loro una volta l'anno. Voglio dire, due vol-
te l'anno.”
“Si, si, girano nella stessa direzione, naturale, ma il senso motorio è completamente
opposto. Cioè,” Ponder si affida alla logica, “Immaginate i vettori. Dovete, dovete
chiedervi: in che direzione andrebbero se il Disco non ci fosse?”
I maghi lo guardano fisso.
“Giù,” risponde Ridcully.
“No, no, no, Arcicancelliere,” replica Ponder. “Non cadrebbero giù perché non ci sa-
rebbe niente a spingerli giù, non -”
“Non c'è bisogno che qualcosa spinga verso il basso. Giù è dove si va quando non c'è
niente a tenerti su.”
“Continuerebbero a marciare nella stessa direzione!” grida Ponder.

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“Già. E gira gira,” commenta Ridcully. Si sfrega le mani.
“Deve imparare a controllarsi, giovanotto, se vuole essere un mago. Come andiamo,
Rune?”
“Io... Io riesco a intravedere qualcosa,” risponde l'Interprete di Rune Recenti, striz-
zando gli occhi nella sfera di cristallo. “Ci sono un sacco di interferenze...”
I maghi gli si radunano intorno. Il cristallo è pieno di chiazze bianche. Nella poltiglia
si distinguono solamente dei vaghi contorni. Alcuni potrebbero essere umani.
“Un posto davvero pacifico, l'Impero Agateano,” commenta Ridcully. “Molto tran-
quillo. Assai colto. Tengono in gran conto l'educazione.”
“Beh, si,” replica l'Interprete di Rune Recenti, “Ho sentito dire che è così perché alle
persone che non stanno buone e tranquille tagliano delle parti fondamentali, mi sba-
glio? Mi hanno riferito che quello dell'Impero è un governo repressivo e dittatoriale!”
“Di che forma di governo si tratta?” domanda Ponder Stibbons.
“Una tautologia,” risponde il Decano dall'alto.
“Quanto fondamentali sono queste parti?” chiede Scuotivento. Ma lo ignorano.
“Ho sentito che l'oro è molto diffuso laggiù,” interviene il Decano. “Dicono che sta
dappertutto come la polvere. Scuotivento potrebbe riportarne una sacco pieno.”
“Preferirei riportare tutti i miei pezzi,” risponde Scuotivento. Dopotutto, pensa, sono
soltanto quello che sta per finirci dentro. Perciò, per favore, non disturbatevi a darmi
retta.
“Non potete farla smettere di sfocarsi?” chiede l'Arcicancelliere.
“Desolato, Arcicancelliere -”
“Queste parti fondamentali... Sono parti piccole o parti grandi?” domanda Scuotiven-
to, inascoltato.
“Basta che trovate uno spazio aperto con qualcosa di pressappoco della giusta taglia
e peso.”
“E' piuttosto difficile riuscire a -”
“Sono parti molto fondamentali? Siamo in zona braccia e gambe?”
“Dicono che è una gran noia laggiù. La loro peggior maledizione, a quanto pare, è
“Ti auguro di vivere momenti interessanti”.”

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“Vedo qualcosa... è molto sfocato. Sembra una carriola o una cosa simile. Piuttosto
piccola, credo.”
“- Oppure dita dei piedi, orecchie ed altre cose del genere?”
“Ottimo, cominciamo,” dice Ridcully.
“Ehm, penso aiuterebbe se lui fosse appena un po' più pesante della cosa che sposte-
remo qui,” dice Ponder. “Così non atterrerebbe troppo velocemente. Penso -”
“Si, certo, molte grazie Signor Stibbons, adesso però mettiamoci in circolo a fissare
quell'ammasso crepitante, perché si è aperto uno spiraglio promettente.”
“Unghie delle mani? Capelli?”
Scuotivento dà dei piccoli strattoni alla toga di Ponder Stibbons, che pare leggermen-
te meno insensibile degli altri.
“Ehm. Che devo fare adesso?” chiede.
“Uhm. All'incirca diecimila chilometri, spero,” risponde Ponder Stibbons.
“Ma... Voglio dire... Avete qualche consiglio da darmi?”
Ponder si chiede come dovrebbe rispondere. Pensa: ho fatto del mio meglio con Hex,
ma l'impresa è sostanzialmente nelle mani di un branco di maghi la cui idea di proce-
dura sperimentale consiste nel provare a lanciare e mettersi seduti a discutere sulla
possibile zona d'atterraggio. Vogliamo scambiarti di posto con qualcosa a diecimila
chilometri da qui che, nonostante quel che sostiene l'Arcicancelliere, attraversa lo
spazio in direzione assai differente dalla nostra. La precisione è tutto. Un qualunque
vecchio incantesimo da viaggio non servirebbe a nulla. Potrebbe frantumarsi a metà
del percorso, ed anche tu. Sono abbastanza sicuro che riusciremo a farti arrivare fin
là in uno o, al peggio, due pezzi. Ma non c'è modo di conoscere il peso della cosa con
cui ti scambieremo. Se pesa più o meno quanto te, allora andrà tutto bene, sempreché
non ti secchi correre sul posto quando atterri. Ma se è molto più pesante di te, allora
sospetto che comparirai dall'altra parte viaggiando ad una velocità di norma speri-
mentata, in maniera decisamente definitiva, solamente dai sonnambuli dei villaggi
costruiti a ridosso di un dirupo.
“Ehm,” risponde. “Abbi paura. Abbi molta paura.”
“Oh,” commenta Scuotivento. “Nessun problema. In questo sono bravo.”

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“Stiamo cercando di spedirti al centro del continente, dove si crede sia Hunghung,”
spiega Ponder.
“La capitale?”
“Si. Ehm.” Ponder si sente in colpa. “Ascolta, qualunque cosa accada sono certo che
arriverai laggiù vivo, che è più di quanto otterresti se li lasciassimo fare a modo loro.
E sono piuttosto sicuro che finirai nel continente giusto.”
“Oh, bene.”
“Si avvicini, Signor Stibbons. Siamo ansiosi di sapere come vuole che procediamo,”
lo chiama Ridcully.
“Ah, ehm, si. Giusto. Ora, voi, Signor Scuotivento, se voleste mettervi al centro
dell'ottagono... grazie. Uhm. Vedete, signori, quel che ha sempre rappresentato un
problema per il teloportollà a grande distanza, è il Principio dell'Incertezza di Heisen-
berg14, poiché l'oggetto teleportatollà, che viene da tele, “Io vedo”, e porto, “andare”,
sicché il significato esatto è “Vedo che è andato in porto”, ehm, l'oggetto teleportatol-
là, ehm, non importa quanto sia grande, perché è ridotto ad una particella thaumica
ed è al contempo il soggetto di un'eventualmente fatale dicotomia: può o sapere cos'è
o dove sta andando, ma non entrambe le cose. Ehm, la tensione che tutto questo pro-
voca nello spazio morfico accidentalmente potrebbe indurne la disintegrazione, la-
sciando il soggetto come un oggetto sagomato a caso, ehm, spalmato per almeno un-
dici dimensioni. Ma sono certo che lo sapete tutti.”
Il titolare della cattedra di Studi Indefiniti russa, di colpo impegnato a tenere lezione
nell'aula 3B.
Scuotivento esibisce un enorme sorriso. O, quantomeno, spalanca la bocca e mostra
tutti i denti.
“Ehm, scusate,” interviene. “Non mi pare di ricordare che qualcuno abbia mai men-
zionato l'essere disint -”
“Ovviamente,” lo interrompe Ponder, “il soggetto non, ehm, vivrebbe tutto questo -”
“Oh.”
“- per quanto ci è dato di sapere -”
14 Dal mago Sangrit Heisenberg e non dal più famoso Heisenberg, il quale è rinomato per aver distil-
lato quella che forse è la birra chiara più buona al mondo.

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“Che cosa?”
“- Sebbene in via meramente teorica la psiche potrebbe rimanere vigile -”
“Eh?”
“- breve testimone dell'esplosiva disgregazione corporea.”
“Ehi?”
“Comunque, tutti quanti abbiamo confidenza nell'uso dell’incantesimo siccome ful-
cro, ehm, per cui non si sposta realmente un oggetto ma semplicemente si scambia la
posizione di due oggetti di massa analoga. Stasera, intendo, ehm, dimostrare che, con
la giusta orbita e la massima velocità, il soggetto -”
“Cioè me?”
“- sin dal primo istante, è virtualmente certo che -”
“Virtualmente?”
“- si conserverà integro per una distanza di, ehm, all'incirca diecimila chilometri -”
“All'incirca?”
“- con un'approssimazione del dieci per cento -”
“Approssimazione?”
“Perciò, se adesso – mi perdoni, Decano, ma le sarei obbligato se volesse smettere di
far colare la cera – se adesso prendete tutti posizione nel punto esatto che ho segnato
sul pavimento...”
Scuotivento guarda la porta concupiscente. Per un codardo di lungo corso non è per
niente lontana. Riuscirebbe di certo a scappare spedito e loro potrebbero... potrebbe-
ro... Cosa potrebbero fare? Potrebbero solamente portargli via il cappello ed impedir-
gli di rimettere piede all'Università. A tutto voler considerare, probabilmente non si
darebbero neppure troppa pena se il riacchiapparlo si dimostrasse sufficientemente
faticoso.
C’è un problema, però. Non morirebbe, ma nemmeno sarebbe più un mago. E, riflet-
te, intanto che i maghi prendono posizione ed avvitano i pomelli sull'estremità delle
loro bacchette, non poter più pensare a sé stesso come ad un mago per lui sarebbe lo
stesso che essere morto.
L'incantesimo inizia.

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Scuotivento il calzolaio? Scuotivento il mendicante? Scuotivento il ladro?
Più o meno tutto, apparte Scuotivento il cadavere, presuppone una preparazione e
delle attitudini che non ha.
Non gli riesce nient'altro. La magia è il suo unico rifugio. Beh, in verità neppure la
magia gli riesce, ma almeno è incapace in maniera definitiva. Ha sempre sentito di
avere il diritto di esistere come mago, allo stesso modo in cui è impossibile eseguire
calcoli matematici senza lo zero, che non è affatto un numero ma, se lo si leva, ri -
mangono solamente un sacco di numeri dall'aria dannatamente stupida. E' una consi-
derazione vagamente nobile con cui si consola nel corso di quegli occasionali risve-
gli alle tre del mattino in cui fa una stima della propria vita e scopre che pesa poco
meno di uno sbuffo caldo d'idrogeno. E probabilmente ha pure salvato il mondo un
po' di volte, anche se per lo più accidentalmente mentre era impegnato a fare altro.
Sicché quasi certamente non ha messo a segno alcun punto dal punto di vista karmi-
co. Forse contano solamente le volte in cui si esclama ad alta voce “Perdindirindina,
che bello, è proprio il momento di salvare il mondo, non ci sono dubbi!”, invece di
“Oh, cavoli, stavolta ci resto sicuramente.”
L'incantesimo prosegue.
Non troppo bene, a quanto sembra.
“Forza, compari,” dice Ridcully. “Metteteci un po' di spina dorsale!”
“Siete certo che... è... qualcosa di piccolo?” chiede il Decano, che suda già da un pò.
“Assomiglia ad una... carriola...” borbotta l'Interprete di Rune Recenti.
Il pomello della bacchetta di Ridcully inizia a fumare. “Guardate la magia che ci
metto!” esclama.
“Che succede, Signor Stibbons?”
“Ehm. Ovviamente, il volume è cosa diversa dalla massa...”
E poi, così come può essere necessario un considerevole sforzo per spalancare una
porta bloccata e nessuno sforzo per cadere faccia a terra nella stanza dietro quella,
l'incantesimo produce i suoi effetti.
Ponder si augura, tutto considerato, che si tratti solamente un'illusione ottica. Non è
normale venire allungati fino a tre metri e mezzo di altezza e recuperare di scatto la

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dimensione originale ad una velocità tale che gli scarponi s’incollano al mento.
Il brevissimo grido “Oooooohhhhcavvvvvv -” svanisce di colpo e probabilmente è
meglio così.

La prima cosa di cui si accorge Scuotivento quando si materializza nel Continente


Contrappeso è il senso di gelo.
Le successive, in direzione di arrivo, sono: un uomo dall'aria sorpresa con in mano
una spada, un altro uomo armato di spada, un terzo uomo che lascia cadere la spada
nel tentativo di scappare, altri due uomini meno attenti che neppure si accorgono di
lui, un albero minuscolo, una cinquantina di metri di sottobosco striminzito, un cu-
mulo di neve, un cumulo di neve più grande, alcune rocce ed un altro, ultimo cumulo
di neve.

Ridcully guarda Ponder Stibbons.


“Beh, è andato,” dice. “Ma non dovremmo ricevere qualcosa in cambio?”
“Non sono certo che il trasferimento sia immediato,” risponde Ponder.
“Bisogna considerare il tempo necessario per sfrecciare-attraverso-le-dimensioni-
occulte?”
“Qualcosa del genere. Secondo Hex, potremmo dover aspettare diversi -”
All'interno dell'ottagono, esattamente dove prima c'era Scuotivento, compare qualco-
sa che fa “pop” scivolando per alcuni centimetri.
Quantomeno, quattro piccole ruote sulle quali potrebbe poggiare un carrello sembra
averle. Però, a regola d'arte, non sono propriamente ruote; piuttosto, sono dei sempli-
ci dischi sui quali si potrebbe poggiare qualcosa di pesante quelle rare volte che si ha
bisogno di spostarlo.
Sopra le ruote le cose si fanno assai più interessanti.
C'è un grosso cilindro circolare, simile ad un serbatoio disteso su un lato. Costruirlo
ha richiesto uno sforzo piuttosto notevole; c'è voluto un bel po' d'ottone per fargli as-
sumere le sembianze di un grasso, grosso cane con la bocca spalancata. Un dettaglio
di minore importanza è dato da un pezzo di corda fumante e sibilante siccome in

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fiamme.
Non fa niente di pericoloso. Se ne sta semplicemente seduto lì, intanto che la corda si
consuma lentamente accorciandosi.
I maghi lo circondano.
“Sembra piuttosto pesante,” osserva l'Interprete di Rune Recenti.
“La statua di un cane con una bocca enorme,” commenta il titolare della cattedra di
Studi Indefiniti. “Piuttosto scialba.”
“Un po' grosso come animale da compagnia,” aggiunge Ridcully.
“C'è voluto un bel po' di lavoro per farlo,” osserva il Decano. “Non riesco ad imma-
ginare perché qualcuno vorrebbe dargli fuoco.”
Ridcully infila la testa nel grosso tubo. “C'è una specie di palla gigantesca qui,” dice
con la voce che fa un po' eco. “Qualcuno mi passi una bacchetta o qualcosa di simile.
Vedo se riesco a farla scivolare fuori.”
Ponder non stacca gli occhi dalla corda sibilante. “Ehm,” interviene, “Io... Ehm...
credo che dovremmo allontanarci tutti, Arcicancelliere. Ehm. Dovremmo davvero in-
dietreggiare tutti, si, indietreggiare di un bel po'. Ehm.”
“Ah, si, davvero? Alla faccia della ricerca,” replica Ridcully. “Non avete problemi a
pasticciare con le ruote dentate e le formiche, ma quando si tratta di cercare di capire
come funzionano veramente le cose e -”
“Di sporcarvi le mani,” suggerisce l'Interprete di Rune Recenti.
“Esatto, di sporcarvi le mani, vi sentite improvvisamente molto timido.”
“Non è questo, Arcicancelliere,” risponde Ponder. “Ritengo che potrebbe essere peri-
coloso, però.”
“Penso di poterla liberare,” dice Ridcully, spingendo la testa nelle profondità del
tubo. “Forza, colleghi, inclinate leggermente quest'affare...”
Ponder indietreggia ancora un po'. “Ehm, sul serio non credo che -” comincia.
“Non credete, eh? Vi definite un mago ma non credete? Maledizione! Mi si è inca-
strata la bacchetta! Ecco cosa succede a darvi ascolto piuttosto che a fare attenzione,
Signor Stibbons.”
Ponder sente del trambusto alle proprie spalle. Il Bibliotecario, con l'istinto animale

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per il pericolo e l'istinto umano per i guai, ha rovesciata una scrivania e fa capolino
da sopra il bordo con in testa un piccolo calderone, il cui manico è serrato sotto uno
dei suoi tanti menti come una cinghia.
“Arcicancelliere, penso veramente che -”
“Oh, voi pensate, sul serio? Vi hanno mai detto che pensare è il vostro lavoro? Ahi!
Mi sono schiacciato le dita grazie a voi!”
A Ponder serve tutto il coraggio di cui è capace per dire, “Penso... che forse potrebbe
trattarsi di una specie di fuoco d'artificio, signore.”
I maghi si concentrano sulla corda crepitante.
“Nel senso di... luci colorate, stelle e roba così?” chiede Ridcully.
“Forse, signore.”
“Stavano mettendo su un accidenti di spettacolo. A quanto pare sono dei grandi ap-
passionati di petardi, nell'Impero.” Ridcully si esprime con il tono di un uomo in cui
si sta lentamente intrufolando il pensiero che potrebbe aver appena fatto qualcosa di
davvero molto stupido.
“Desiderate che spenga la corda, signore?” chiede Ponder.
“Certo, caro ragazzo, perché no? Ottima idea. E' un fine pensatore, quest'uomo.”
Ponder si fa avanti e pizzica la corda. “Spero proprio che non abbiamo guastato nien-
te,” dice.

Scuotivento apre gli occhi.


Non sono lenzuola fresche di bucato. E' bianca, è fredda, ma difetta degli elementi
minimi della lenzuosità. Compensati da abbondanti elementi di nevosità.
E da un solco. Un lungo solco.
Vediamo... Ricorda la sensazione di spostamento.
E ricorda vagamente qualcosa di piccolo ma dall'aria incredibilmente pesante che lo
supera rombando in direzione opposta. E poi si ritrova qui, ad una velocità tale che i
suoi piedi scavano... Un solco. Si, un solco, pensa, con l'indulgenza di chi ha subito
una leggera commozione cerebrale. Ed è circondato da persone sdraiate che si lamen-
tano.

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Ma che hanno l'aria di persone che, una volta smesso di strisciare lamentandosi, sfo-
dereranno la spada che portano addosso e presteranno minuziosamente attenzione
alle sue parti fondamentali.
Si alza in piedi, un po' traballante. Non pare esserci dove scappare. E’ tutta una landa
sconfinata e nevosa circondata dalle montagne.
I soldati hanno l'aria di aver ripreso fin troppa coscienza. Scuotivento sospira. Solo
poche ore prima se ne stava seduto sulla sabbia calda con delle giovani donne pronte
ad offrirgli delle patate15, mentre adesso si ritrova in questa pianura fredda spazzata
dal vento con degli uomini corpulenti pronti ad offrirgli della violenza.
Si accorge che gli fumano le suole delle scarpe.
E poi qualcuno esclama, “Ehi! Sei tu... Non sei tu, sei tu... sei... comediavolotichia-
mi... Scuotivento, vero?”
Scuotivento si volta. Alle sue spalle c’è un uomo incredibilmente vecchio. A dispetto
del vento pungente non indossa altro che una pelle di leone ed una barba sudicia tal-
mente lunga che la pelle di leone risulta inutile, perlomeno per la comune decenza. A
seconda della nazionalità da cui lo si guarda, le gambe blu per il freddo ed il naso
rosso per il vento nell'insieme gli conferiscono un'aria piuttosto patriottica. Ha una
benda su un occhio che però è meno evidente dei suoi denti. Che luccicano.
“Non startene lì intontito con quell’aria da gran tonto! Levami questa dannata roba di
dosso!”
Attorno ai polsi ed alle caviglie ha delle catene pesanti; una catena è legata ad un
gruppo di uomini vestiti più o meno allo stesso modo che si sono rannicchiati vicini e
lo guardano terrorizzati.
“Ehi! Ti credono una qualche specie di demone,” l'uomo anziano ridacchia. “Però io
so riconoscere un mago quando ne vedo uno! Quel bastardo laggiù ha le chiavi. Va a
dargli una bella pedata.”
Scuotivento muove alcuni passi esitanti verso una guardia stesa a terra e gliele strap-
pa dalla cintura.
“Ottimo,” commenta l'anziano, “adesso lanciamele. E poi levati di mezzo.”

15 La faccenda è ancora un po' confusa.

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“Perché?”
“Perché non vuoi finire ricoperto di sangue.”
“Ma sei disarmato e sei da solo mentre loro hanno delle grosse spade e sono in cin-
que!”
“Lo so,” ribatte l'anziano, avvolgendosi efficacemente la catena attorno al pugno
chiuso. “E' ingiusto, ma non posso mica starmene ad aspettare tutto il giorno.”
Spalanca il sorriso in maniera inquietante.
Le gemme luccicano nella luce del mattino. Ogni dente nella bocca dell'uomo è un
diamante. E Scuotivento sa che esiste solamente un uomo coraggioso abbastanza da
indossare i denti di un troll.
“Qui? Cohen il Barbaro?”
“Ssh! Incognitario! Ora levati di mezzo,” dice. I denti si rivolgono abbaglianti verso
le guardie adesso in posizione verticale. “Forza, ragazzi. Dopotutto siete in cinque.
Ed io sono vecchio. Bla, bla, bla, oo le mie povere gambe, encetra...”
A loro merito, va detto che le guardie esitano. A giudicare dalla loro espressione, pro-
babilmente non perché trovano disdicevole che cinque uomini corpulenti e pesante-
mente armati attacchino un debole anziano. Piuttosto perché trovano ci sia qualcosa
di strano in un uomo anziano che continua a spalancare il sorriso di fronte all'eviden-
za di un evidente prossimo oblio.
“Oh, andiamo,” dice Cohen. Gli uomini si avvicinano, ciascuno in attesa che un altro
di loro faccia la prima mossa.
Cohen avanza di qualche passo, agitando debolmente le braccia. “Oh, no,” dice. “Mi
fa vergognare, onestamente. Non è così che si attacca qualcuno, spostandosi disordi-
natamente come un branco di disordinati; quando si attacca qualcuno la cosa più im-
portante da ricordare è l'elemento… sorpresa -”
Dieci secondi dopo si volta a guardare Scuotivento.
“Tutto finito, Signor Mago. Adesso puoi aprire gli occhi.”
Una delle guardie è incastrata in un albero a testa in giù, una è ridotta ad un paio di
piedi sporgenti da un cumulo di neve, due sono schiantate contro le rocce ed un'altra
è… un po' dovunque. Qua e là. Indiscutibilmente sparpagliata.

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Cohen si succhia il polso meditabondo.
“Ammetto che l'ultimo è stato a un passo così dal beccarmi,” dice. “Mi sa che sto in-
vecchiando.”
“Perché sei q -” Scuotivento ci ripensa. Mai farsi sopraffare dalla curiosità. “Quanti
anni hai, esattamente?”
“E' ancora il Secolo della Volpe volante?”
“Si.”
“Oh, non so. Una novantina? Potrebbero essere novanta. Forse novantacinque?” Co-
hen recupera le chiavi dalla neve e con calma raggiunge il gruppetto di uomini addi-
rittura ancor più rannicchiati. Apre la prima serie di manette e passa le chiavi ad un
prigioniero scioccato.
“Levatevi dalle scatole, tutti quanti,” dice, ma non in malo modo. “E non fatevi pren-
dere di nuovo.”
Torna tranquillo da Scuotivento.
“Allora, cosa ti porta in questo letamaio?”
“Beh -”
“Interessante,” lo interrompe Cohen, e la questione è risolta. “Ma non possono stare
a cianciare tutto il giorno, ho da lavorare. Che fai, vieni oppure cosa?”
“Cosa?”
“Fa come ti pare.” Cohen si lega la catena attorno ai fianchi come una cintura im-
provvisata e ci infila un paio di spade.
“Per sapere,” chiede, “che ne hai fatto del Cane Abbaiante?”
“Quale cane?”
“Non importa.”
Scuotivento insegue la figura che si allontana. Non perché si senta al sicuro con Co-
hen il Barbaro in giro. Nessuno è al sicuro con Cohen il Barbaro in giro. Deve essere
andato storto qualcosa nel suo processo di invecchiamento. Cohen è da sempre un
eroe barbaro perché l'eroe barbaro è l'unica cosa che sa fare. E più invecchia più sem-
bra indurirsi, come una quercia. Però è qualcuno che conosce, il che è confortante.
“Non c'è futuro, là sulle Ramtops,” spiega Cohen, intanto che avanzano faticosamen-

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te nella neve. “Recinti e fattorie, recinti e fattorie ovunque. Di questi tempi se
ammazzi un drago la gente protesta. Sai cosa? Sai cos’è successo?”
“No, cos'è successo?”
“Un uomo viene da me, dice che i miei denti offendono i troll. Che ne pensi, eh?”
“Beh, sono fatti di -”
“Ho detto che da me non s'erano mai lamentati.”
“Ehm, tu gliene hai mai data l'oc -”
“Ho detto, ho visto un troll sulle cime con una collana di teschi umani, e gli ho augu-
rato buona fortuna. Lega Silicia Anti-Diffamazione dei miei stivali. E' così dappertut-
to. Perciò ho pensato di tentare la fortuna dall'altra parte della calotta glaciale.”
“Non è pericoloso aggirarsi per il Perno?” domanda Scuotivento.
“Lo era,” risponde Cohen, sorridendo sinistramente.
“Finché non sei partito, vuoi dire?”
“Eh già. Hai ancora quella scatola sui piedi?”
“A volte si e a volte no. Gira. Sai com'è.”
Cohen ridacchia.
“Farò saltare il coperchio di quella cosa un giorno, puoi contarci. Ah. Cavalli.”
Sono cinque e procedono con aria depressa in una piccola depressione.
Scuotivento si volta a guadare i prigionieri liberati, che paiono girare intorno senza
meta.
“Non prenderemo tutti e cinque i cavalli, vero?” domanda.
“Certo che si. Possono servirci.”
“Ma… uno per me, uno per te… Gli altri a che servono?”
“Colazione, pranzo e cena?”
“E' un po'… ingiusto, no? Quelle persone hanno l'aria un po' frastornata.”
Cohen ghigna il ghigno di un uomo che non è mai stato fatto veramente prigioniero,
neppure quand'è stato rinchiuso.
“Li ho liberati,” replica. “E' la prima volta che sono liberi. E' un po' scioccante, mi
sa. Stanno aspettando che qualcuno gli dica cosa fare.”
“Ehm...”

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“Posso dirgli di crepare di fame, se vuoi.”
“Ehm...”
“Oh, d'accordo. Voi là! Subito aaan rigaaa tuu tuuu bon sbrigatevi!”
Il piccolo corre da Cohen e si mette sull'attenti dietro il suo cavallo con l'aria di
aspettare qualcosa.
“Te lo garantisco, nessun rimpianto. Questa è la terra delle opportunità,” dice Cohen,
spronando il cavallo. Gli uomini liberati gli corrono dietro imbarazzati.
“Ma lo sai? Le spade sono vietate. A nessuno apparte l'esercito, i nobili e la Guardia
Imperiale è permesso di avere delle armi. Da non credere! Eppure è vero, per tutti gli
dei. Le spade sono fuorilegge, perciò solo i fuorilegge hanno le spade. E questo,”
conclude Cohen, rivolgendo al paesaggio un altro sorriso scintillante, “mi va beno-
ne.”
“Ma… sei finito in catene...” azzarda Scuotivento.
“Hai fatto bene a ricordarmelo,” ribatte Cohen. “Già, troviamo il resto della compa-
gnia, poi sarà bene che vada a scovare chi è stato a farlo e gliene parli”
Il tono della voce lascia chiaramente intendere che tutto quanto gli lascerà verosimil-
mente dire è “Davvero divertente! Tua moglie è un grosso ippopotamo!”
“Che compagnia?”
“Non c'è futuro per un barbareggiante solitario,” risponde Cohen. “Mi sono trova-
to… Beh, lo vedrai.”
Scuotivento si volta ad osservare il gruppo che li segue, e la neve, e Cohen.
“Ehm. Sai dov'è Hunghung?”
“Si. E' la città capo. Ci stiamo andando. All'incirca. E' sotto asseddio.”
“Sotto assedio? Nel senso di… un sacco di soldati fuori, tutti quelli dento che man-
giano ratti e cose simili?”
“Già, ma questo è il Continente Contrappeso, capisci, perciò è un assedio educato.
Beh, io lo chiamo assedio… Il vecchio Imperatore sta morendo, perciò le grandi ca-
sate aspettando di invaderla. E' così che funziona qui. Ci stanno cinque diversi nobili
importanti che si tengono d'occhio a vicenda e nessuno intende fare la prima mossa.
Devi guardare le cose di traverso per capirci qualcosa da queste parti.”

59
“Cohen?”
“Si, amico?”
“Che diavolo sta succedendo?”

Lord Magazzinai assiste al cerimoniale del tè. Dura tre ore, ma non si può mettere
fretta ad una buona tazza di tè. E intanto gioca a scacchi, contro sé stesso. Solo così
l'avversario è degno di lui sebbene, al momento, la partita sia in stallo perché ambe-
due le parti hanno adottato una strategia difensiva che è, bisogna ammetterlo, brillan-
te.
Qualche volta Lord Magazzinai vorrebbe un avversario intelligente quanto lui. O,
poiché Lord Magazzinai è davvero molto intelligente, qualche volta vorrebbe un av-
versario intelligente quasi quanto lui, magari uno portato a slanciarsi in strategie ge-
niali come in un conveniente errore fatale.
A dirla tutta, le persone sono davvero stupide. Raramente pensano in anticipo a più di
dodici mosse.
L'assassinio equivale ad un invito a nozze per la corte di Hunghung; in effetti, gli in-
viti a nozze ne costituiscono sempre l'occasione. E' un gioco cui giocano tutti. E' so-
lamente un altro tipo di mossa. Naturalmente, assassinare l'Imperatore non è conside-
rato un bel modo di fare. La mossa giusta consiste nel mettere l'Imperatore dove lo si
può controllare. Tuttavia, le mosse di questo livello sono estremamente pericolose;
contenti come sono di bisticciare tra di loro, i signori della guerra si lasciano indurre
a riunirsi contro chiunque sembri correre il rischio di ergersi al di sopra della massa.
E Lord Magazzinai è lievitato come il pane lasciando che tutti gli altri, benché favo-
riti per il governo dell'Impero, si persuadessero che la migliore tra tutte le alternative
fosse proprio Lord Magazzinai.
Lo diverte sapere che sono convinti che stia complottando per la perla Imperiale…
Getta uno sguardo da sopra la scacchiera e coglie l'occhiata di una giovane indaffara-
ta al tavolo del tè. Che arrossisce e guarda altrove.
La porta si chiude. E' entrato uno dei suoi uomini, in ginocchio.
“Si?” domanda Lord Magazzinai.

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“Ehm… Mio signore”
Lord Magazzinai sospira. Cominciano sempre così quando le notizie sono buone.
“Cos'è successo?” chiede.
“L'uno che chiamano il Grande Mago è arrivato, mio signore. Sulle montagne. A ca-
vallo di un dragone di vento. O così dicono,” aggiunge in fretta il messo, consapevo-
le delle opinioni di Lord Magazzinai sulla superstizione.
“Ottimo. Ma? Presumo ci sia un ma.”
“Ehm… uno dei Cani Abbaianti è andato perso. Il nuovo scaglione che avete ordina-
to? Dovrebbe essere testato? Non siamo sicuri… cioè… pensiamo che il Capitano
Alto Tre Alberi sia finito in un'imboscata, forse… le informazioni che abbiamo sono
abbastanza confuse… il, umh, l'informatore dice che il Grande Mago l'ha magicato
via...” Il messo si prostra ancora più in basso.
Lord Magazzinai si limita a tirare un altro sospiro. Magia. E' finita nel dimenticatoio
nell'Impero, tranne che per le cose più banali. E' poco raffinata.
Affida il potere alle mani di uomini che non sarebbero capaci di scrivere un poema
decente neppure per salvarsi la vita, come del resto è già capitato qualche volta.
Crede nelle coincidenze molto più di quanto non creda nella magia.
“Trovo la cosa estremamente irritante,” commenta Lord Magazzinai.
Si alza in piedi ed estrae una spada dalla rastrelliera. E' lunga e ricurva ed è stata fatta
dal più abile artigiano di spade di tutto l'Impero, ovvero Lord Magazzinai. Ha sentito
dire che ci vogliono venti anni per imparare il mestiere, perciò gli è costata qualche
sforzo. Di tre settimane. Le persone mancano di concentrazione, è questo il loro pro-
blema…
Il messo striscia.
“Il comandante coinvolto è stato giustiziato?” domanda.
Il messo cerca di scavare il pavimento e decide di lasciare che la verità faccia da con-
trofigura all’onestà.
“Si!” risponde alzando la voce.
Lord Magazzinai tira un fendente. L'aria risuona di un fruscio simile alla seta quando
cade, di un colpo, del frastuono altrimenti prodotto da una noce di cocco che sbatte

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contro pavimento e del tintinnio di stoviglie.
Il messo apre gli occhi. Si concentra sulla zona del collo, con la paura che il più pic-
colo movimento possa accorciargli di molto la vita. Girano delle storie spaventose
sulla spada di Lord Magazzinai.
“Oh, alzati in piedi,” dice Lord Magazzinai. Pulisce la lama con attenzione e rimette
apposto la spada. Poi allunga la mano ed estrae una boccetta nera dalla divisa
dell'addetta al tè.
Una volta stappata, ne fuoriescono alcune gocce che sfrigolano cadendo sul pavi-
mento.
“Veramente,” dice Lord Magazzinai. “Mi domando perché la gente si disturbi tanto”.
Solleva lo sguardo.
“Il cane probabilmente è stato rubato o da Lord Sonanti o da Lord McCrampi per far-
mi dispetto. Il mago è riuscito a fuggire?”
“Così pare, mio signore.”
“Ottimo. Fate che non gli succeda quasi niente. E fatemi mandare un'altra addetta al
tè. Una con la testa.”

Una cosa va detta di Cohen. Se non ha motivo di ucciderti, ad esempio perché sei in
possesso di una considerevole quantità di preziosi o perché ti frapponi tra lui ed un
qualche posto dove vuole arrivare, allora è di buona compagnia. Scuotivento l'ha già
incontrato un po' di volte prima, in genere mentre cercava di scappare da qualcosa.
Cohen non si preoccupa troppo di fare domande. Per come la vede Cohen, la gente
appare, la gente scompare. Dopo cinque anni di buco si è limitato a dire “oh, sei tu”.
Non ha aggiunto “E come stai?”. Se sei vivo, allora stai bene, e del resto non gliene
frega un accidente.
Fa molto più caldo da quest'altro lato delle montagne. Con sollievo di Scuotivento
non hanno avuto bisogno di mangiare uno dei cavalli di riserva perché una creatura
simile ad un leopardo è saltata giù dal ramo di un albero ed ha tentato di sventrare
Cohen.
Ha un sapore piuttosto deciso.

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Scuotivento in passato ha mangiato della carne di cavallo. Nel corso degli anni si è
fatto animo ed ha mangiato qualunque cosa non fosse in grado di scappare dalla for-
chetta divincolandosi. Ma è già abbastanza scosso di suo senza dover mangiare qual-
cosa che potrebbe chiamare Furia.
“Come hanno fatto a catturarti?” domanda, ora che sono di nuovo in sella ai cavalli.
“Ero occupato.”
“Cohen il Barbaro? Troppo occupato per combattere?”
“Non volevo contrariare la giovane signora. Non ebbi resistito. Scesi al villaggio per
sapere qualche novità, una cosa tira l'altra, quella dopo era un sacco di soldati sparsi
ovunque come le armature a buon mercato, e non riesco a combattere tanto bene con
le braccia ammanettate dietro la schiena. Un bastardo pericoloso il comandante, una
faccia che non dimenticherò in fretta. Una mezza dozzina di noi è stata catturata, co-
stretta a spingere il Cane Abbaiante fin quassù, poi ci hanno incatenati a quell'albero
e qualcuno ha dato fuoco al pezzo di corda e se la sono tutti data a gambe dietro un
mucchio di neve. Però sei arrivato tu e l'hai fatto sparire.”
“Non l'ho fatto sparire. Non esattamente, comunque.”
Cohen si allunga verso Scuotivento. “Tanto lo so cos'era,” dice, e si rimette seduto
con un’aria compiaciuta.
“Davvero?”
“Penso una specie di fuoco d'artificio. Sono davvero grandi coi fuochi d'artificio
qui.”
“Ti riferisci a quelle robe che accendi la miaccia e poi te le infili su per il naso?”16
“Li usano per scacciare gli spiriti maligni. Ci sono un mucchio di spiriti maligni, già.
Per via di tutti i massacri.”
“Massacri?”
Scuotivento era convinto che l'Impero Agateano fosse un luogo pacifico. Civilizzato.
In cui inventano le cose. Infatti, ricorda, ha contribuito fattivamente a diffondere al-
cune invenzioni ad Ankh-Morpork. Cose semplici ed innocue, come gli orologi ali-
16 BAMBINI! Solo i maghi molto stupidi con una brutta sinusite lo fanno. Le persone dotate di buon
senso se ne vanno in una zona transennata dalla quale, in secondo piano, possono osservare un uomo
con indosso delle pesanti protezioni accendere (con l'aiuto di una palo molto lungo) qualcosa che fa
“fsst”. E dopo possono gridare “Urrà”.

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mentati dai demoni, e le scatole che creano le immagini, e gli occhi aggiuntivi da
indossare sopra i propri per vederci meglio, anche se significa rendersi ridicoli.
Sarebbe dovuto essere un posto noioso.
“Oh, si. Massacri,” risponde Cohen. “Ecco, supponiamo che il popolo sia un po' in
arretrato con le tasse. Si sceglie una qualche città i cui abitanti sono dei piantagrane e
si ammazzano tutti e si dà fuoco a tutto e si abbattono le mura e si arano le ceneri. In
questo modo ci si sbarazza delle grane e tutte le altre città improvvisamente fanno
tutte la brave ed educate e tutte le tasse arretrate vengono saldate in gran fretta, il che
torna utile alle amministrazioni, mi pare di capire. Dopo, se mai dovessero esserci al-
tri problemi basta dire “Devo ricordarti di Nangnang?” o quello che è, e quando chie-
dono “Dov'è Nangnag?” basta rispondere: “E' proprio questo il punto.””
“Per la miseria! Se una cosa del genere capitasse da noi -”
“Ah, ma qui è così da un bel po'. La gente pensa che è così che funziona un paese. Fa
quello che gli viene detto di fare. Le persone qui sono trattate come schiavi.”
Cohen assume un'aria severa. “Bada bene, non ho niente contro la schiavitù, ecco,
degli schiavi. Ne ho avuti alcuni anch'io. Sono stato schiavo una volta o due. Ma
dove c'è gli schiavi, cosa ti aspetti di trovare?”
Scuotivento ci riflette un momento. Alla fine risponde “Fruste?”
“Già. Buona la prima. Fruste. C'è qualcosa di onesto negli schiavi e le fruste. Beh...
da queste parti non ci sono fruste. Hanno qualcosa che è peggio delle fruste.”
“Cosa?” domanda Scuotivento, con l'aria di essere lievemente nel panico.
“Lo scoprirai.”
Scuotivento si scopre a voltarsi per osservare l'altra mezza dozzina di prigionieri, che
li seguono e li guardano a distanza con timore reverenziale. Gli ha dato un pezzo di
leopardo, che dapprima hanno guardato come fosse veleno e poi hanno mangiato
come fosse cibo.
“Ci seguono ancora,” dice.
“Beh, certo... gli hai dato la carne,” ridacchia Cohen, iniziando a rollarsi la sigaretta
del dopo pranzo. “Non avresti dovuto. Avresti dovuto dargli i baffi e gli artigli e sare-
sti rimasto impressionato dal quel che ci avrebbero cucinato. Sai qual'è il loro piatto

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forte giù sulla costa?”
“No.”
“Zuppa di orecchie di maiale. Cosa ti suggerisce di questo posto, eh?”
Scuotivento scrolla le spalle. “Che sanno fare economie?”
“Che qualche altro bastardo s'è sgraffignato il maiale.”
Si volta sulla sella. Il gruppetto di ex prigionieri indietreggia.
“Adesso statemi a sentire,” dice. “Ve l'ho detto. Siete liberi. Capito?”
Uno dei più coraggiosi risponde. “Si, padrone.”
“Non sono il vostro padrone. Siete liberi. Potete andare dove vi pare, ma se mi segui-
te vi ucciderò tutti. E adesso – andatevene!”
“Dove, padrone?”
“In qualunque posto! Dovunque ma non qui!”
Gli uomini si scambiano delle occhiate preoccupate e poi l'intero gruppo, come fosse
un tutt'uno, si volta e se ne va trotterellando lungo il sentiero.
“Probabilmente se ne torneranno diretti al loro villaggio,” dice, strabuzzando gli oc-
chi. “Peggio delle fruste, dico io.”
Indica il panorama agitando la mano ossuta intanto che cavalcano.
“E' una terra maledettamente strana,” dice. “Lo sai che c'è una muraglia tut'attorno
l'Impero?”
“E' per tenere... fuori... gli invasori barbari...”
“Oh, si, molto efficace,” replica Cohen sarcasticamente. “Me lo vedo, oh, santo cielo,
c'è un muro di sei metri, povero me, suppongo che faremo meglio a ritornarcene a ca-
vallo per duemila chilometri di steppa e non, ad esempio, valutare le possibilità di
fabbricarci una scala con quel bosco di abeti laggiù. Macché. E' per tenere dentro le
persone. E le regole? Hanno una regola per tutto. Non vanno neppure al gabinetto
senza un pezzo di carta.”
“Beh, a dire il vero io stesso -”
“Un pezzo di carta che gli dice che possono farlo, intendo. Non puoi lasciare il vil-
laggio senza una bolla. Non puoi sposarti senza una bolla. Non puoi neppure avere
un ca – Ah, siamo qui.”

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“Si, è un dato di fatto,” replica Scuotivento.
Cohen lo guarda truce. “E tu che ne sai?” domanda secco.
Scuotivento cerca di pensare. E' stata una lunga giornata. In effetti, a causa dell'equi-
valente thaumico del jetlag, è stata di molte ore più lunga della maggior parte delle
giornate che ha vissuto, compresi i due pranzi, nessuno dei quali valeva la pena di es-
sere mangiato.
“Ehm... Pensavo fosse una mera considerazione filosofica,” azzarda. “Ehm, tipo,
“Sarebbe meglio facessimo buon viso a cattivo gioco.”?”
“Intendevo dire che simo qui al mio nascondiglio,” spiega Cohen. Scuotivento si
guarda intorno. Ci sono dei cespugli di arbusti, qualche roccia e l'orlo di un precipi -
zio perpendicolare.
“Io non vedo niente,” replica.
“Appunto. E' così che capisci che è il mio.”

L'Arte della Guerra è il fondamento supremo della diplomazia dell'Impero.


La guerra deve chiaramente esistere. E' una pietra angolare del processo di governo.
E' così che l'Impero seleziona i propri capi.
I burocrati ed i pubblici ufficiali sono selezionati per concorso ed i regnanti con le
guerre che, forse, sono solo un’altra specie di concorso. Bisogna ammettere, tuttavia,
che difficilmente a chi perde è concessa la possibilità di riprovarci l’anno dopo.
Però le regolae sono necessarie. In mancanza, sarebbe tutta una baruffa barbarica.
Perciò, secoli prima, è stata formulata l'Arte della Guerra. E' un codice regolamenta-
re. Alcune regole sono davvero molto specifiche: niente combattimenti all'interno
della Città Proibita, la persona dell'Imperatore è inviolabile...
… altre sono invece dei precetti di massima cui attenersi perché la guerra sia leale e
civile. Sono regole sulla posizione, le tattiche, l'imposizione della disciplina, la cor-
retta organizzazione degli approvvigionamenti.
L'Arte definisce il percorso ottimale da intraprendere in ogni concepibile eventualità.
Il che significa che la guerra nell'Impero è diventata assai più assennata e, in genere,
consiste in brevi periodi di attività seguiti da lunghi periodi in cui le persone cercano

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di trovare qualcosa nell'indice del libro.
Nessuno ne ricorda l'autore. Qualcuno dice sia Uno Tzu Cantori, altri rivendicano si
tratti di Tre Soli Cantori. Probabilmente è stato un genio mai cantato a scrivere o,
meglio, pittografare il primo vero principio: Conosci il nemico se conosci te stesso.
Lord Magazzinai sente di conoscersi molo bene e di rado ha problemi a riconoscere i
propri nemici. E ritiene doveroso mantenerli vivi ed in buona salute.
Basta guardare i Lord Cantori, Zanna, Sonanti e McCrampi. Se li tiene ben cari.
Ne ha cara la competenza. Hanno delle competenti menti militari, il che equivale a
dire che hanno memorizzato le Cinque Regole ed i Nove Principi dell'Arte della
Guerra. Sono dei poeti competenti e sono abbastanza scaltri da aver sventato tutti i
colpi di stato organizzati dalle loro file.
Di quando in quando gli inviano dei sicari che sono sufficientemente competenti da
mantenere vivo l'interesse, lo spirito di osservazione ed il divertimento di Lord Ma-
gazzinai.
Ne ammira persino la competente slealtà. Nessuno di loro si azzarderebbe a negare
che il prossimo Imperatore sarà Lord Magazzinai, ma quando saranno al dunque
ognuno di loro tenterà ugualmente di conquistare il trono. Quantomeno ufficialmen-
te. Infatti, non ufficialmente, ogni signore della guerra, siccome competentemente
brillante abbastanza da conoscere le possibili conseguenze del non farlo, ha segreta-
mente garantito il proprio sostegno a Lord Magazzinai.
Ci sarà in ogni caso una battaglia, naturalmente, per amore della tradizione. Ma Lord
Magazzinai serberà un posto speciale nel proprio cuore per quei capi che gli vende-
ranno i suoi uomini.
Conosci il tuo nemico. Lord Magazzinai ha deciso di trovarne uno che valga la pena.
Perciò Lord Magazzinai ha fatto in modo di ricevere libri e notizie da Ankh-Mor-
pork. Le opportunità non mancano. Ha le sue spie. Al momento Ankh-Morpork non
sa di essere il nemico, il che ne fa il miglior nemico possibile.
Ed è sbalordito e, poi, affascinato e, infine, ammirato per ciò che ha appreso...
Sarei dovuto nascere lì, pensa, mentre guarda gli altri membri del Serenissimo Consi-
glio. Oh, cosa sarebbe una partita a scacchi con qualcuno come Lord Vetinari. Non

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c'è dubbio che studierebbe attentamente la scacchiera per tre ore prima di fare addi-
rittura la prima mossa...
Lord Magazzinai si volta verso l’eunuco addetto al verbale del Serenissimo Consi-
glio.
“Possiamo continuare?” chiede.
L'uomo lecca il pennello nervosamente. “Ho quasi finito, signore,” risponde.
Lord Magazzinai sospira.
Dannata calligrafia! Ci saranno dei cambiamenti! Una lingua di settemila lettere e ci
vuole un giorno intero per scrivere un poema di tredici sillabe su un pony bianco che
attraversa al trotto un bosco di giacinti. E, deve riconoscerlo, è bello ed elegante, e
nessuno potrebbe fare meglio di Lord Magazzinai. Ma Ankh-Morpork ha un alfabeto
di ventisei inespressive, brutte e crude lettere, adatte solo ai bifolchi ed agli artigia-
ni... e ciononostante ha prodotto poemi ed opere letterarie capaci di lasciare un solco
incandescente nell'anima. E si può persino usarlo per trascrivere i dannati dettagli di
una riunione di cinque minuti in meno di un giorno.
“A che punto sei?” chiede.
L'eunuco si schiarisce educatamente la gola.
“Quanto dolcemente il fiore dell'albic -” attacca.
“Si, si, si,” lo interrompe Lord Magazzinai. “Tralasciamo la parte poetica per stavol-
ta, grazie.”
“Oh. “Il verbale della presente riunione viene compilato come dovuto.””
“E' tutto?”
“Ecco... vedete, devo finire di pitturare i petali su -”
“Gradirei che questo consiglio si concludesse prima di sera. Vattene.”
L'eunuco rivolge ansiosamente lo sguardo attorno al tavolo, afferra i pennelli ed i ro-
toli di pergamena e fila via.
“Bene,” commenta Lord Magazzinai. Fa un cenno con il capo ai signori della guerra.
Ne riserva uno particolarmente amichevole a Lord Sonanti. Lord Magazzinai enfatiz-
za il gesto a beneficio dei propri intrallazzi, ma Lord Sonanti sembra essere sul serio
un uomo d'onore. Magari di un onore estorto con la paura e recalcitrante, eppure de-

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cisamente esistente da qualche parte, e deve farci i conti.
“In ogni caso è meglio per tutti, miei signori, se continuiamo a discutere in privato,”
dice. “Della questione dei ribelli. Mi sono giunte notizie allarmanti sulle loro attivi-
tà.”
Lord McCrampi annuisce con il capo. “Ho fatto giustiziare trenta ribelli a Sum Dim,”
dichiara. “Come esempio.”
Come esempio della stupidità di Lord McCrampi, pensa Lord Magazzinai. Sa con
certezza, e nessuno può saperlo meglio di Lord Magazzinai, che al momento
dell’esecuzione non c’era neppure un membro dell'Esercito Rosso a Sum Dim.
Tuttavia, quasi certamente, ce n'è uno adesso. E' davvero tutto troppo facile.
Anche gli altri signori della guerra fanno un breve resoconto degli sforzi compiuti
per trasformare il malcontento a malapena rilevabile in una sanguinolenta rivoluzio-
ne, benché non sappiamo che è questa la giusta prospettiva.
Sono nervosi, al di là dell’eccessiva sicurezza che sfoggiano, come cani da pastore
che intravedono di sfuggita un mondo in cui le pecore non scappano.
Lord Magazzinai tiene caro quel nervosismo. Intende farne buon uso, alla bisogna.
Sorride e sorride.
Alla fine dice: “Comunque, miei signori, a dispetto dei vostri notevoli sforzi la situa-
zione resta grave. Mi è stato riferito che un autentico mago anziano di Ankh-Mor-
pork è giunto a coadiuvare i ribelli qui ad Hunhhung, e che è in atto un complotto per
rovesciare l'ottima organizzazione del mondo celestiale ed assassinare l'Imperatore,
possa egli vivere diecimila anni. Non posso che concludere che dietro tutto questo ci
siano i demoni stranieri.”
“Io non ne so nulla!” scatta Lord Sonanti.
“Mio caro Lord Sonanti. Non stavo suggerendo il contrario,” replica Lord Magazzi-
nai.
“Volevo dire -” comincia Lord Sonanti.
“La vostra devozione all'Impero è fuori discussione,” continua Lord Magazzinai, con
un tono mellifluo che pare un coltello nel burro caldo. “E' vero che quasi certamente
qualcuno di molto in alto sta aiutando questa gente, ma non c'è uno straccio di prova

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che punti contro di voi.”
“Spero bene di no!”
“Indubbiamente.”
Lord Zanna e Lord McCrampi si allontanano impercettibilmente da Lord Sonanti.
“Come abbiamo potuto permettere che succedesse?” chiede Lord Zanna. “E' sicura-
mente vero che delle persone, persone folli e squilibrate, qualche volta si avventura-
no al di là della Muraglia. Ma consentire a qualcuno di rientrare -”
“Temo che il Gran Visir dell’epoca soffrisse di sbalzi di umorismo,” lo interrompe
Lord Magazzinai. “Pensava si potesse ricavarne delle informazioni interessanti.”
“Informazioni?” commenta Lord Zanna. “La città di Ank... Molt... Pork è un abomi-
nio! Pura anarchia! Pare che i nobili non contino nulla e che la società sia un termita-
io! Sarebbe meglio per noi, miei signori, se venisse cancellata dalla faccia del mon -
do!”
“Le vostre acute osservazioni sono tenute in debita considerazione, Lord Zanna,” re-
plica Lord Magazzinai, una cui parte si sta contorcendo dalle risate. “In ogni caso,”
continua, “Provvederò a far piazzare altre guardie nelle camere dell'Imperatore. Co-
munque sia cominciato questo pasticcio, dobbiamo fare in modo che finisca qui.”
Li guarda mentre lo guardano. Credono che voglia governare l'Impero, pensa. Perciò
cercano tutti - tranne Lord Sonanti, membro della rappresentanza ribelle, come darà
indubbiamente prova di essere - di capire che vantaggio potranno ricavarne...
Li congeda e si ritira nelle proprie stanze.
E' un fatto assodato che i fantasmi ed i demoni che vivono al di là della Muraglia non
hanno un barlume di cultura e certamente nessuna idea di cos'è un libro, perciò pos-
sederne uno, siccome all'evidenza impossibile, è punito con la morte. E con la confi-
sca.
Lord Magazzinai ha messo insieme una notevole biblioteca. Si è addirittura procura-
to delle mappe.
E qualcosa di più delle mappe. C'è una scatola che conserva sotto chiave, nella stanza
con lo specchio a figura intera...
Non ora. Dopo...

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Ankh-Morpork! Persino il nome ha un suono opulento.
Un anno è tutto quanto gli serve. L'orribile flagello della ribellione gli consentirà di
esercitare un genere di poteri dei quali neppure il più folle degli Imperatori ha mai
sognato. Dopodiché sarebbe impensabile che non venisse armata una flotta vendicati-
va per arrecare terrore ai demoni stranieri. Grazie, Lord Zanna. Le vostre acute osser-
vazioni sono tenute in debita considerazione.
Come se chi sia Imperatore fosse cosa importante! L'Impero può forse costituire un
incentivo, da procurarsi in un secondo momento, magari in corso d'opera. A lui basta
avere Ankh-Morpork, con i suoi nani operosi e, soprattutto, la sua padronanza della
meccanica.
Basta considerare i Cani Abbaianti. La metà delle volte esplodono. Sono inaccurati. I
principi sono solidi ma la realizzazione è pessima, specialmente quando esplodono.
E' stata come una rivelazione per Lord Magazzinai inquadrare il problema alla ma-
niera di Ankh-Morpork e concludere che, probabilmente, sarebbe stato meglio affida-
re l'incarico di Fausto Fabbricante di Cani ad un qualunque bifolco con le idee chiare
in fatto di metallo ed esplosivi, piuttosto che ad un qualsiasi impiegato che aveva su-
perato con il massimo punteggio il concorso per il miglior poema sul ferro. Ad Ankh-
Morpork la gente le cose le sa fare.
A lui basta poter passeggiare per Broadway da padrone, e mangiare i famosi tortini
del Signor Dibbler. E giocare una sola partita a scacchi contro Lord Vetinari. Il quale,
ovviamente, ci rimetterebbe un braccio.
Trema per quant'è eccitato.
Non dopo… Ora.
Le dita raggiungono la chiave segreta che tiene appesa al collo.

A malapena può definirsi una fenditura. Persino i conigli la ignorano. E si potrebbe


giurare che non sia altro che una solida, impenetrabile parete di roccia se non si riu-
scisse a scovare il passaggio.
Una volta individuato, non parrebbe neppure essere valsa la fatica. Conduce ad un
cunicolo in cui si trovano alcune grotte naturali, un po' d'erba ed una sorgente.

71
E, come si scopre, la banda di Cohen. Tranne che lui la definisce Orda.
Se ne stanno seduti al sole, lamentandosi perché non è caldo come al solito.
“Sono tornato, gente,” saluta Cohen.
“Eri in trasferta, vero?”
“Cusa? Cusa dice?”
“Dice che E' TORNATO.”
“Cos’è tondato?”
Cohen sorride raggiante a Scuotivento. “Li ho portati con me,” spiega. “Come ho
detto, non c'è futuro a fare i solitari di questi tempi.”
“Ehm,” commenta Scuotivento, dopo un rapido esame dell’ambiente, “fra questi uo-
mini, ce n'è qualcuno con meno di ottant'anni?”
“Alzati, Giovane Willie,” ordina Cohen.
Un uomo disidratato relativamente meno raggrinzito degli altri si alza in piedi. Ed i
piedi sono quello che più salta agli occhi. Indossa degli scarponi con le suole oltre-
modo sottili.
“Così mi piedi toccano terra,” dice.
“Non… ehm… toccano terra con degli scarponi normali?”
“No. Problema ortipedico, capisci. Tipo… sapete quanta gente ha una gamba più cor-
ta dell’altra? Buffo, per me è -”
“Non dirmelo,” lo interrompe Scuotivento. “Qualche volta ho queste straordinarie vi-
sioni… Entrambe le gambe sono più corte dell'altra, esatto?”
“Straordinario. Sicuro, ci credo che siete mago,” risponde Giovane Willie. “Voi que-
ste cose le sapete.”
Scuotivento sorride estatico al membro successivo dell'Orda. E' quasi certamente
umano, perché le scimmiette avvizzite non sono solite andarsene in giro su una sedia
a rotelle con indosso un elmo con le corna. Fa una smorfia a Scuotivento.
“Questo è -”
“Cusa? Cusa?”
“Hamish il Matto,” dice Cohen.
“Cusa? Chidèè?”

72
“Scommetto che la sedia a rotelle li terrorizza,” ribatte Scuotivento. “Soprattutto le
lame.”
“Abbiamo fatto una fatica del diavolo per farla passare sopra il muro,” ammette Co-
hen. “Ma fa impressione quant'è veloce.”
“Cusa?”
“E questo è Rotella l’Incivile.”
“Sparisci, mago.”
Scuotivento sorride raggiante al Reperto B. “Quei bastoni da passeggio… Affasci-
nanti! E' davvero impressionante il modo in cui hai scritto sopra AMORE e ODIO.”
Cohen sorride con orgoglio da padrone.
“Rotella è rinomato per essere uno dei più grossi bastardi al mondo,” commenta.
“Davvero? Lui?”
“E' incredibile quello che non si può fare con una supposta a base di erbe.”
“Va al diavolo, capo,” dice Rotella.
Scuotivento sbatte le palpebre. “Ehm. Possiamo scambiare due parole, Cohen?”
Prende l'anziano barbaro da parte.
“Non voglio dare l'impressione di voler creare problemi,” dice, “ma non ti ha sfiorato
l'idea, insomma, che questi uomini abbiano, ecco, oltrepassato di parecchio la data di
scadenza?”
“Cusa? Cusadicce?”
“Dice FA FREDDO.”
“Cusa?”
“Che vai dicendo? Insieme fanno un concentrato di all'incirca cinque secoli di eroica
esperienza barbarica,” risponde Cohen.
“Cinque secoli di esperienza in un'unità da combattimento sono un'ottima cosa,” ri-
batte Scuotivento. “Ottima. Però dovrebbero essere distribuiti in più di una persona.
Voglio dire, cosa ti spetti che facciano? Che inciampino sulla gente?”
“Non hanno niente che non va,” risponde Cohen, indicando un omino debole intento
a fissare un grosso pezzo di legno. “Prendi il vecchio Caleb lo Squartatore laggiù. Lo
vedi? Ha ucciso più di quattrocento uomini a mani nude. Ha ottantacinque anni e se

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non fosse per la polvere è strepitoso.”
“Che diavolo sta facendo?”
“Ah, capisco, sono nel pieno di un combattimento a mani nude. Roba grossa, il com-
battimento disarmati, per via che la maggior parte della gente non può avere armi.
Perciò Caleb ritiene di fare qualcosa di utile. Vedi quel grosso ceppo di legno? E'
straordinario. Fa quest'urlo raccapricciante e -”
“Cohen, sono tutti molto anziani.”
“Sono la crema! Il meglio del meglio!”
Scuotivento sospira.
“Cohen, sono il formaggio. Perché te li sei trascinati dietro fino a qui?”
“Devono aiutarmi a rubare una cosa,” risponde Cohen.
“Che cosa? Un gioiello o una cosa del genere?”
“E' 'na cosa,” replica Cohen imbronciato. “E' ad Hunghung.”
“Sul serio? Caspita,” ribatte Scuotivento. “E c'è un mucchio di gente ad Hunhhung,
immagino?”
“Circa mezzo milione,” risponde Cohen.
“Un sacco di guardie, indubbiamente?”
“Circa quarantamila, ho sentito. Circa tre quarti di un milione contando tutte le
armi.”
“Appunto,” dice Scuotivento. “Perciò, con questa mezza dozzina di vecchietti -”
“L'Orda d'Argento,” lo interrompe Cohen, con un moto d'orgoglio.
“Come? Scusa?”
“E' così che si chiamano. Bisogna averci un nome per le cose da orda. L'Orda
d'Argento.”
Scuotivento si volta. Diversi membri dell'Orda si sono addormentati.
“L'Orda d'Argento,” commenta. “Appropriato. Fa il paio con il colore dei loro capel-
li. Di quelli che hanno ancora i capelli. Sicché… con questa… Orda d'Argento intenti
prendere d'assalto la città, uccidere tutte le guardie e rubare tutti i tesori?”
Cohen annuisce. “Già… una cosa del genere. Ovviamente, non dovremo uccidere
tutte le guardie...”

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“Ah no?”
“Ci vorrebbe troppo tempo.”
“Chiaro, se no non avreste niente da fare il giorno dopo.”
“Voglio dire che saranno occupate, con la rivoluzione e tutto il resto.”
“Perfino una rivoluzione? Perbacco.”
“Dicono che è un momento decisivo,” replica Cohen. “Dicono -”
“Mi sorprende che abbiano il tempo di preoccuparsi dello stato della loro attrezzatura
da campo,” ribatte Scuotivento.
“Ti dò il buon consiglio di rimanerci con noi,” dice Gengis Cohen. “Sarai più al sicu-
ro con noi.”
“Oh, non ne troppo convinto,” risponde Scuotivento, con un'orribile smorfia. “Non
ne sono per niente convinto.” Se me ne sto per fatti miei, pensa, possono capitarmi
solamente delle cose terribili di ordinaria amministrazione.
Cohen scrolla le spalle e poi si volta verso la radura circostante finché il suo sguardo
non si posa su una figura seduta un po' discosta dagli altri, che legge un libro.
“Guarda quello,” dice, con benevolenza, come un uomo che punta il dito verso un
cane che sta facendo un bel trucco. “Sta sempre col naso nei libri.” Alza la voce.
“Prof? Vieni qui e mostra a questo mago la strada per Hunghung.”
Si volta di nuovo verso Scuotivento. “Prof ti dirà qualunque cosa vuoi sapere, perché
sa tutto. Ti lascio a lui. Devo andare a fare una chiacchierata con Vincent il Vecchio.”
Agita la mano in modo sbrigativo. “Non che abbia qualcosa di sbagliato, per niente,”
aggiunge in tono difensivo. “E' solo che ha una pessima memoria. Ci ha dato qualche
problema mentre venivamo qui. Continuo a ripetergli che si tratta di prenderci le
donne e dare fuoco alle case.”
“Prendervi le donne?” commenta Scuotivento. “Non è proprio -”
“Ha ottantasette anni,” lo interrompe Cohen. “Non si rovinano i sogni ad un vec-
chio.”
Prof è un uomo alto e dinoccolato con un'espressione amabilmente distratta ed una
frangia di capelli bianchi tale che, visto dall'alto, lo si scambia per una margherita. Di
sicuro non lo si scambia per un brigante assetato di sangue, nonostante indossi una

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cotta di maglia leggermente abbondante ed un fodero gigantesco a tracolla sulla spal-
la, che non contiene una spada ma un'ampia varietà di rotoli di pergamena e di pen-
nelli. Sulla cotta di maglia c'è un taschino con dentro tre penne di colore diverso pro-
tette da una custodia di pelle.
“Ronald Cervellata,” si presenta, dando la mano a Scuotivento. “I gentiluomini sono
assai persuasi del mio considerevole sapere. Vediamo… Volete andare ad Hunghung,
si?”
Scuotivento ci pensa su.
“Voglio sapere come si arriva ad Hunghung,” risponde circospetto.
“Si. Bene. In questo periodo dell'anno dirigerei verso il tramonto fino a lasciarmi le
montagne alle spalle e poi raggiungerei la pianura alluvionale fin dove potrei rinveni-
re le tracce dei drumlins e di qualche squisito esempio di massi dai contorni all'evi-
denza bizzarri. Sono circa venti chilometri.”
Scuotivento lo guarda immobile. Le indicazioni di un brigante normalmente assomi-
gliano più a “sempre dritto o supera la città in fiamme e gira a destra quando passi
davanti a tutti i cittadini appesi per le orecchie.”
“I drumlins hanno l'aria di essere pericolosi,” dice.
“Sono solo una specie di collinetta di detriti glaciali,” risponde il Signor Cervellata.
“E quanto ai massi dai contorni bizzarri? Danno proprio l'idea di quel genere di cose
pronte a saltarti -”
“Sono solo massi trascinati lontano da casa da un ghiacciaio,” spiega il Signor Cer-
vellata. “Niente di cui avere timore. Il paesaggio non è ostile.”
Scuotivento non gli crede. Il suolo l'ha aggredito in più di un'occasione.
“Tuttavia,” aggiunge il Signor Cervellata, “Hunghung è un poco pericolosa al mo-
mento.”
“No, sul serio?” ribatte Scuotivento con aria stanca.
“Non si tratta esattamente di un assedio. Aspettano tutti che muoia l'Imperatore. E'
quel che da queste parti chiamano” - sorride - “momenti interessanti.”
“Odio i momenti interessanti.”
Gli altri dell'Orda sono a fare una passeggiata, addormentati o si lamentano a vicenda

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dei propri piedi. Da qualche parte in lontananza giunge la voce di Cohen: “Guarda,
questo è un fiammifero e questo è -”
“Sapete, avete l'aria di un uomo fin troppo educato per essere un barbaro,” dice
Scuotivento.
“Oh, povero me, non ho cominciato da barbaro. Facevo il professore. Ecco perché mi
chiamano Prof.”
“Cosa insegnavate?”
“Geografia. E nutrivo una vera passione per gli studi Aurientali17. Però ho deciso di
mollare tutto e di guadagnarmi da vivere con la spada.”
“Dopo essere stato un insegnante per tutta la vita?”
“Un cambio di prospettiva, si.”
“Però… ebbene… sicuramente… le privazioni, i pericoli terribili, il rischiare ogni
giorno la morte...”
Il Signor Cervellata s'illumina. “Oh, eravate insegnante anche voi, non è vero?”
Scuotivento si volta in direzione dell'urlo di qualcuno. Due dell'Orda stanno discu-
tendo naso a naso.
Il Signor Cervellata sospira.
“Sto cercando d'insegnargli a giocare a scacchi,” dice. “E' fondamentale per riuscire
a comprendere il modo di pensare Aurientale. Temo, tuttavia, che deficitino comple-
tamente del concetto di turno di gioco e che la loro idea di mossa d'apertura consista
nel Re ed in tutti i pedoni presi d'assalto sulla scacchiera all'unisono e nell'appiccare
il fuoco alle torri avversarie.”
Scuotivento si sporge più vicino.
“Senta, voglio dire… Gengis Cohen?” dice. “E' andato fuori di testa? Voglio dire…
va bene ammazzare una mezza dozzina di vecchi bacucchi e fregarsi qualche gemma
luccicante. Ma attaccare quarantamila guardie tutto da soli equivale a morte certa!”
“Oh, ma non sarà da solo,” replica il Signor Cervellata.
Scuotivento sbatte le palpebre. Cohen possiede un certo non so che. Le persone ri-
mangono contagiate dal suo ottimismo come fosse un comune raffreddore.
17 Il nome Ankh-Morporkiano del Continente Contrappeso e delle isole vicine. Significa “il posto dal
quale proviene l'oro.”

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“Oh, si, sicuro. Chiedo scusa. Me n'ero dimenticato. Sette contro quarantamila? Non
dovrei neppure pensare che potreste avere dei problemi. Dovrei semplicemente an-
darmene. Piuttosto in fretta, anche.”
“Abbiamo un piano. E' una specie di -” il Signor Cervellata esita. Gli occhi gli si ap-
pannano lievemente. “Sapete? Quella cose. Le api la fanno. Anche le vespe. E pure
un qualche tipo di medusa, mi pare… Ce l'avevo proprio qui sulla punta della lingua
un attimo fa… ehm… Sarà la più grossa mai vista, credo.”
Scuotivento lo fissa di nuovo inespressivo. “Sono certo di aver visto un cavallo di ri-
serva,” dice.
“Permettetemi di darvi queste,” dice il Signor Cervellata. “Poi forse capirete. E' tutto
qui, davvero...”
Allunga a Scuotivento un fascio di carte tenute insieme da un pezzo di spago fatto
passare attraverso uno degli angoli.
Scuotivento se lo infila sbrigativamente in tasca, badando soltanto al titolo sulla pri-
ma pagina.
Che recita:
COSA HO FATTO IN VACANZA
A Scuotivento le alternative percorribili paiono molto chiare. C'è la città di Hun-
ghung, sotto assedio, apparentemente brulicante di pericoli e rivoluzioni, e ci sono
tutti gli altri posti.
Perciò è importante sapere dove si trova Hunghung, così da non inciamparci per sba-
glio.
Ha prestato molta attenzione alle indicazioni del Signor Cervellata e, dunque, cavalca
in direzione opposta.
Potrà imbarcarsi su una nave da qualche parte. Naturalmente, i maghi saranno sor-
presi di vederlo tornare, ma potrà sempre dire di non aver trovato nessuno.

Le colline lasciano il posto alla steppa che a sua volta conduce ad una pianura fango -
sa apparentemente senza fine che contiene, nella lontananza avvolta dalla foschia, un
fiume talmente tortuoso che per metà del percorso scorre all'incontrario.

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La terra è una scacchiera di coltivazioni. A Scuotivento, in teoria, piace la campagna,
poiché di norma non gli si rivolta contro e preferisce stare ben discosta dalle mura di
una città, ma questa può a stento definirsi campagna. Sembra più un'unica grande fat-
toria priva di steccati.
Di quando in quando dei massi, dall'aria pericolosamente bizzarra, spuntano dai cam-
pi.
Qualche volta gli capita di vedere a distanza degli uomini che lavorano sodo. Per
quanto ne capisce, la loro principale consta nello spostare il fango.
Occasionalmente, vede un uomo immerso fino alle caviglie in un campo allagato con
un bufalo indiano legato all'altro capo di un pezzo di corda. Il bufalo pascola e ogni
tanto va di corpo. L'uomo tiene il pezzo di corda. Il che sembra costituire il suo unico
obiettivo e la sua sola occupazione nella vita.
Lungo la strada incontra poche altre persone. In genere spingono delle carriole cari-
che di letame di bufalo indiano o, forse, fango. Non prestano alcuna attenzione a
Scuotivento. In effetti si sforzano di non prestare alcuna attenzione: si affrettano a su-
perarlo fissando intentamente le scene offerte sui campi dalle dinamiche del fango o
dai movimenti intestinali dei bovini.
Scuotivento sarebbe il primo ad ammettere di essere un po' lento di comprendonio18.
Però è in giro da abbastanza tempo da riconoscere certi segnali. Queste persone non
gli prestano alcuna attenzione perché non vogliono saperne di chi va a cavallo.
Probabilmente discendono da un popolo che ha imparato che a guardare con troppo
interesse qualcuno in sella ad un cavallo, si ricava un'acuta sensazione dolorosamente
pungente simile a quella che si potrebbe ottenere da una bastonata dietro le orecchie.
Non guardare le persone in sella ad un cavallo è diventato un tratto ereditario. Quelli
che fissano le persone in sella ad un cavallo in un modo che viene considerato strano
non sopravvivono mai abbastanza a lungo da potersi riprodurre.
Decide di tentare un esperimento. La carriola che si avvicina faticosamente non tra-
sporta fango ma persone, una mezza dozzina, disposte ad ambedue i lati della grande
ruota centrale. Il metodo di propulsione secondario consta in una piccola vela issata a

18 A dire il vero, sarebbe all'incirca il settantatreesimo ad ammetterlo.

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catturare il vento, mentre quello primario è dato dalla principale fonte di forza moti-
va di una comunità contadina, ossia dal bisnonno di qualcuno, o quantomeno da
qualcuno che pare essere il bisnonno di qualcuno.
Per citare Cohen: “Ci sono uomini, da queste parti, capaci di spingere una carriola
per cinquanta chilometri con una ciotola di miglio con dentro qualche scarto. Cosa ti
suggerisce? A me che qualcuno s'è scrofanato tutta la carne.”
Scuotivento decide di esplorare le dinamiche sociali e di tentare anche un approccio
con la lingua. Sono passati anni dall'ultima volta che l'ha usata, ma deve ammettere
che Ridcully aveva ragione. E' davvero portato per le lingue e la lingua Agateana si
compone di poche sillabe essenziali. Sta tutto nel tono, nell'inflessione e nel contesto.
Oltretutto, la parola che indica un capo militare è pure usata per designare la marmot-
ta dalla coda lunga, l'organo riproduttivo maschile ed un pollaio decrepito.
“Ehi là, voi!” grida. “Ehm… a piegare le canne? Un'espressione di disapprovazione?
Ehm… Intendo dire… Stop!”
La carriola si ferma sbandando. Nessuno lo guarda. Guardano oltre le sue spalle, at-
torno a lui o in direzione dei suoi piedi.
Alla fine lo spingitore di carriole, alla stessa maniera di un uomo che sa di essere co-
munque nei guai non importa cosa faccia, biascica, “Cosa comanda Sua Signoria?”
Scuotivento sarà molto dispiaciuto, più tardi, per ciò che sta per dire.
“Datemi solo tutto il vostro cibo e… cani recalcitranti, d'accordo?”
Lo guardano impassibili.
“Dannazione. Voglio dire… scarafaggi aggiustati?… cascate a varietà?… Oh, ecco…
soldi.”
Tra i passeggeri è tutto un muoversi e frugare.
Poi lo spingitore di carriole avanza cauto verso Scuotivento, a testa bassa, e gli porge
il cappello. Dentro ci sono del riso, un po' di pesce essiccato, un uovo dall'aspetto
estremamente pericoloso ed all'incirca mezzo chilo d'oro in grosse monete tondeg-
gianti.
Scuotivento fissa l'oro.
L'oro, nel Continente Contrappeso, è comune quanto il rame. E' una delle poche cose

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che tutti sanno di questo posto. Cohen non ha alcun motivo di tentare una grande ra-
pina. C'è un limite a quanto chiunque può trasportare. Gli basterebbe rapinare un solo
villaggio di contadini per vivere da re per il resto della vita. E non è che dia l'impres-
sione di avere così tanti bisogni…
Il “più tardi” d'improvviso lo raggiunge ed in effetti si vergogna davvero un poco di
sé stesso. Queste persone possiedono a malapena qualcosa, tralasciando i mucchi
d'oro.
“Ehm. Grazie. Grazie. Si. Stavo solo controllando. Si. Potete riprendervi tutto ades-
so. Io… ehm... tengo… l'anziano bisnonno… per scappare di lato… oh, dannazio-
ne… pesce.”
Scuotivento è fermo da sempre sul gradino più basso della scala sociale. Non importa
quanto sia lunga la scala. La cima può stare più in alto o più in basso, perché tanto i
suoi piedi restano sempre nello stesso posto. Ma è comunque la scala sociale di
Ankh-Morpork.
Nessuno deve inchinarsi a nessuno ad Ankh-Morpork. E chiunque ad Ankh-Morpork
avesse provato a fare ciò che lui ha appena tentato, a quest'ora si sarebbe già ritrovato
a raspare la fogna con i denti ed a piagnucolare per il dolore all'inguine ed il suo ca-
vallo lo avrebbero ridipinto un paio di volte e venduto ad un uomo pronto a giurare
di avercelo da anni.
La cosa, stranamente, lo riempie d'orgoglio.
Gli sgorga qualcosa di insolito dalle profondità melmose dell'anima. E', con suo gros-
so stupore, un moto di generosità.
Scende da cavallo e ne porge le redini. Un cavallo è utile, ma lui è abituato a farne
senza. Inoltre, nei percorsi brevi, un uomo riesce a correre più veloce di un cavallo e
questo è un fatto molto caro al cuore di Scuotivento.
“Ecco,” dice. “Potete averlo. In cambio del pesce.”
Lo spingitore di carriole grida, afferra i manici del proprio mezzo di trasporto e fugge
precipitandosi alla disperata. Diversi passeggeri vengono sbalzati fuori, quasi lancia-
no un'occhiata a Scuotivento, anche loro gridando, e scappano anche loro di corsa.
Peggio delle fruste, come ha detto Cohen. Da queste parti hanno qualcosa peggiore

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delle fruste. Non gli servono più le fruste. Scuotivento spera di non scoprire mai di
cosa si tratta, se questo è quel che fa alla gente.
Cavalca attraverso un panorama infinito di campi. Non c'è nemmeno l'ombra di un
po' di sterpaglia ai bordi della strada né ci sono taverne. Lontano, tra i campi, s'intra-
vedono le sagome di quelli che potrebbero essere dei piccoli paesi o dei villaggi, ma
non c'è traccia di alcun sentiero che vi conduca, forse perché i sentieri finiscono per
diventare limo prezioso per l’agricoltura.
Alla fine si siede per il pranzo su una roccia che, presumibilmente, neppure i più
grossi sforzi congiunti dei braccianti sono riusciti a spostare, e si fruga nella tasca
alla ricerca del disonorevole pesce essiccato. La mano incontra il fascio di carte che
gli ha dato il Signor Cervellata. Lo estrae e lo usa come tovagliolo per le briciole.
E' tutto qui, ha detto il professore barbaro. Senza spiegare il significato di “tutto”.
COSA HO FATTO IN VACANZA, recita il titolo. E’ scritto in pessima calligrafia o,
piuttosto, pessima pittura – gli Agateani scrivono con dei pennelli e le parole sono
costituite da piccoli simboli messi insieme usando dei segni grafici di base. Un sim-
bolo non solo vale mille parole, è mille parole.
Scuotivento non è molto bravo a leggere la lingua. Ci sono davvero pochi libri Aga-
teani persino nella Biblioteca dell'Università Invisibile. E questo, comunque, trasmet-
te l'impressione che chiunque l'abbia scritto ha tentato di dare un senso a qualcosa di
sconosciuto.
Volta un paio di pagine. E' la storia di una Grande Città, piena di cose magnifiche -
“birra forte come un toro,” c'è scritto, e “tortini con dentro tante tante parti di maia-
le”. Tutti in città sembrano essere saggi, gentili, forti o tutte e tre le cose insieme, so-
prattutto un certo personaggio chiamato il Grande Mago, il quale pare ricorrere spes-
so nel testo.
E contiene dei commenti sconcertanti come “Ho visto un uomo pestare la punta dei
piedi di una Guardia Cittadina che perciò gli diceva “Tua moglie è un grosso ippopo-
tamo!”, al che l'uomo rispondeva “Ficcatelo dove la luce del sole non arriva, indivi-
duo spropositato”, per cui la Guardia [scritto con l'inchiostro rosso e con calligrafia
tremolante, come se l'autore fosse in preda all'eccitazione] non rimuoveva la testa

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dell'uomo, per rispetto ad un’antica usanza”.
All'enunciato segue il pittogramma di un cane che fa la pipì, che per qualche oscura
ragione è l'equivalente Agateano del punto esclamativo. Ce ne sono cinque.
Scuotivento scorre tra le pagine. Sono piene della stessa monotona solfa, di frasi che
descrivono l'ovvietà ma sempre seguite da diversi cani incontinenti. Tipo: “Il locan-
diere diceva che la Città esigeva la tassa ma che non intendeva pagare e quando gli
ho chiesto se non aveva paura ha giurato: “[Pittogramma complesso] tutti tranne uno
che può [pittogramma complesso] da solo” [cane che fa la pipì, cane che fa la pipì].
Poi ha aggiunto, “Il [pittogramma che indica il Sommo Governante] è [un altro pitto -
gramma che, dopo averci pensato su rigirandolo da tutti i lati, Scuotivento decide si-
gnificare “il didietro di un cavallo”] e puoi andare a dirgli che ho detto così”, al che
una Guardia che stava nella taverna non lo ha sbudellato [cane che fa la pipì, cane
che fa la pipì, cane che fa la pipì, cane che fa la pipì, cane che fa la pipì].”
Cosa c'è di così strano? Le persone parlano sempre così ad Ankh-Morpork o, almeno,
tengono atteggiamenti simili. Eccezion fatta per il cane.
Intendiamoci, un paese che cancella un'intera città per impartire una lezione alle altre
città è un posto da matti. Forse è un libro di barzellette e lui non le capisce. Magari i
comici di qui strappano grasse risate con battute tipo: “Dico, dico, dico, ho incontrato
un uomo mentre venivo a teatro e non mi ha tagliato le gambe, cane che fa la pipì,
cane che fa la pipì -”
Sente il tintinnio delle briglie sulla strada, ma non ci bada. Non solleva neppure lo
sguardo al suono di qualcuno che si avvicina. Il momento in cui pensa di dare
un'occhiata è già troppo tardi, perché qualcuno gli mette uno stivale sul collo.
“Oh, cane che fa la pipì,” dice, prima di svenire.

Nell'aria qualcosa sbuffa ed appare il Bagaglio, che atterra pesantemente su un cumu-


lo di neve.
Sul coperchio ha conficcata una mannaia.
Per un po' rimane immobile e, poi, muovendo i piedi in una piccola danza complica-
ta, gira di trecentosessanta gradi.

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Il Bagaglio non pensa. Non ha niente con cui pensare. Qualunque processo sia in atto
al suo interno, probabilmente ha molto più a che fare con il modo in cui gli alberi
reagiscono al sole, alla pioggia ed alle tempeste improvvise, però accelera assai velo-
cemente.
Dopo un momento sembra aver ritrovato l'orientamento e si avvia lentamente sulla
neve che si va sciogliendo.
Il Bagaglio, inoltre, non ha sentimenti. Non ha niente con cui provare emozioni. Però
reagisce, allo stesso modo in cui un albero reagisce ai cambiamenti delle stagioni.
Il passo si fa più svelto.
Manca poco a casa.

Scuotivento ammette che le grida dell'uomo hanno solide ragioni. Certo non
sull'essere il padre di Scuotivento il fegato malato di una qualche specie di panda di
montagna e sua madre un secchio di bava di lumache: Scuotivento non ha avuto co-
noscenza diretta di nessuno dei suoi due genitori, tuttavia ritiene che probabilmente
sono stati perlomeno vagamente umanoidi, anche se solo per poco. Ma sicuramente
sull’essere in possesso di un cavallo rubato ha beccato Scuotivento con le mani nel
sacco, con l’aggiunta, all’evidenza, di un piede sul collo.
Un piede sul collo è a tanto così dal costituire una rivendicazione del diritto di pro-
prietà.
Delle mani che gli frugano nelle tasche.
Un'altra persona – Scuotivento non riesce a vedere molto, apparte alcuni centimetri
di terreno alluvionato, ciononostante il contesto suggerisce trattarsi di una persona
sgradevole – si unisce all’impresa.
Scuotivento viene strattonato e messo in piedi.
Le guardie hanno proprio quell’aria da guardie identica in qualunque posto Scuoti-
vento ne abbia incontrate. Possiedono non più della esatta quantità d'intelligenza ne-
cessaria per prendere a botte le persone e trascinarle fino alla fossa degli scorpioni.
E sono dei veri assi nell'urlare contro la gente a pochi centimetri dal viso. Il che è
surreale considerato che le guardie non hanno un viso o, perlomeno, non un viso che

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possano definire proprio. Gli elmetti elaborati e smaltati di nero ed i volti ricoperti da
enormi mustacchi lasciano intravedere solamente la bocca scoperta del proprietario
cosicché possa, ad esempio, definire il nonno di Scuotivento una scatola di scadenti
escrementi di pesce rosso.
Gli sventolano in faccia Cosa ho fatto in vacanza.
“Sacco di pesce imputridito!”
“Non so cosa voglia dire,” dice Scuotivento. “Qualcuno me l'ha dato -”
“Barile di latte estremamente irrancidito!”
“Potreste magari non gridare così forte? Penso che mi sia appena esploso il padiglio-
ne auricolare.”
La guardia si placa, forse solo perché è rimasta senza fiato.
Scuotivento ha il tempo di analizzare la scena.
Ci sono due carri sulla strada. Uno sembra essere una gabbia su ruote: riesce a distin-
guere delle facce che lo guardano in preda al terrore. L'altro è un palanchino ricca-
mente ornato portato da otto braccianti; i lati sono coperti da tende sfarzose, ma nota
dove sono state tirate così da consentire a qualcuno all'interno di guardarlo.
Le guardie ne sembrano consapevoli. La cosa pare creargli dell'imbarazzo.
“Se solo mi lasciaste spieg -”
“Silenzio, boccaccia di -” La guardia esita.
“Hai usato tartaruga, pesce rosso e quel che probabilmente volevi fosse formaggio,”
dice Scuotivento.
“Boccaccia di ventrigli di pollo!”
Una lunga mano sottile emerge dalle tende e fa un cenno, uno soltanto.
Scuotivento viene spintonato in avanti. La mano ha il dito indice più lungo che abbia
mai visto su qualcosa che non fa le fusa.
“Prostrati!”
“Come prego?” dice Scuotivento.
“Prostrati!”
Sfoderano le spade.
“Non capisco cosa dite!” si lamenta Scuotivento.

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“Prostrati, per favore,” gli sussurra una voce all'orecchio. Non è una voce particolar-
mente amichevole, ma in confronto a tutte le altre è decisamente affettuosa. Dal suo-
no si direbbe appartenere ad un uomo piuttosto giovane. Che parla molto bene il
Morporkiano.
“Come?”
“Non sai come si fa? Inginocchiati, premi la fronte a terra. Se vuoi poter indossare
ancora un cappello.”
Scuotivento esita. E' un cittadino libero di Ankh-Morpork e sulla lista di cose che un
cittadino non fa compare il sottomettersi ad un qualunque, per dirla senza mezzi ter-
mini, straniero. D'altro canto, proprio in cima alla lista di cose che un cittadino non fa
compare il farsi mozzare la testa.
“Meglio. Ben fatto. Come sapevi di dover tremare?”
“Oh, a quello ci sono arrivato da solo.”
La mano fa un cenno con un dito.
Una guardia schiaffeggia Scuotivento con la copia incrostata di fango di Cosa ho fat-
to in vacanza. Scuotivento l'afferra con aria contrita mentre la guardia corre verso il
dito del padrone.
“Voce?” esordisce Scuotivento.
“Si?”
“Che succede se invoco l'immunità siccome cittadino straniero?”
“C’è una cosa davvero particolare che riescono a fare con un gilè di rete metallica ed
una grattugia da formaggio,”
“Oh.”
“E ci sono torture ad Hunghung che possono tenere in vita un uomo per anni.”
“Suppongo tu non stia parlando di salutari corse di primo mattino e di dieta a base di
fibre?”
“No. Perciò sta zitto e con un po' di fortuna verrai spedito a fare lo schiavo a palaz -
zo.”
“Fortuna è il mio secondo nome,” commenta Scuotivento, confusamente. “Sia chia-
ro, il primo è Disgrazia.”

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“Ricordati di farfugliare e strisciare.”
“Farò il meglio del mio meglio.”
La mano pallida emerge tenendo un ritaglio di carta. La guardia lo prende, si rivolge
a Scuotivento e si schiarisce la gola.
“Ascolta la saggezza e la giustizia del Commissario Distrettuale Kee, palla di esala-
zioni di palude! Non lui, tu!”
Si schiarisce nuovamente la gola ed avvicina ancora di più la carta, alla maniera di
chi ha imparato a leggere scandendo sottovoce ogni singola lettera con attenzione.
““Il pony bianco corre tra i… i...””
La guardia si gira e conversa a bassa voce con le tende, poi si volta di nuovo.
““… crisanti… temi in fiore
Il vento gelido agita
gli albicocchi. Che sia mandato
A fare lo schiavo a palazzo
Finché non cadono tutte le
Appendici.””
Molte delle altre guardie applaudono.
“Alza lo sguardo ed applaudi,” dice la Voce.
“Temo che mi cadano le appendici.”
“E' una grattugia davvero grande.”
“Bis! Superbo! Magnifico! Quella parte sui crisantitemi? Meravigliosa!”
“Bene. Ascolta. Sei di Bes Pelargic. Hai l'accento giusto, dannazione se ne capisco il
perché. E' un porto di mare e la gente di lì è un po' strana. Sei stato rapinato dai ban -
diti e sei fuggito con uno dei loro cavalli. Per questo non hai i documenti con te. Qui
per qualunque cosa c'è bisogno di un pezzo di carta, compreso per essere qualcuno. E
fingi di non conoscermi.”
“Io non ti conosco.”
“Perfetto. Lunga Vita Ai Cambiamenti Per Uno Stato Più Egualitario Nel Dovuto Ri-
spetto Delle Tradizioni Dei Nostri Antenati E Naturalmente Nessuno Tenti Di Tocca-
re L'Augusta Personalità Dell'Imperatore.”

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“Ottimo. Si. Che cosa?”
Una guardia calcia Scuotivento nella regione lombare. Il che suggerisce, secondo il
linguaggio universale dello scarpone, che deve alzarsi in piedi.
Riesce a sollevarsi su un ginocchio e vede il Bagaglio.
Non è il suo, e sono in tre.

Il Bagaglio trotterella sulla cresta di una collinetta e si arresta così in fretta da lascia-
re una serie di piccoli solchi sul terreno.
Oltre a non essere dotato di alcun equipaggiamento atto al pensare o al provare emo-
zioni, il Bagaglio non ha alcuno strumento per la vista. Il modo in cui riesce a perce-
pire gli eventi rimane un assoluto mistero.
Percepisce la presenza degli altri Bagagli.
Sono pazientemente allineati alle spalle del palanchino. Sono grossi. Sono neri.
I piedi del Bagaglio scompaiono al suo interno.
Un attimo dopo apre il coperchio con cautela, di una frazione appena.

Delle tre cose che più o meno tutti sanno dei cavalli, la terza è che, nei percorsi brevi,
non riescono a correre veloci quanto un uomo. Come Scuotivento ha avuto modo
d'imparare, devono fare i conti con più zampe. Inoltre, si aggiungono degli altri van-
taggi se: a=) le persone sopra i cavalli non si aspettano una fuga e b=) si dà il caso ci
si trovi, molto convenientemente, in un'atletica posizione da blocchi di partenza.
Scuotivento si solleva come un rigurgito di curry in uno stomaco sensibile.
E’ tutto un gran strillare ma la cosa confortante, la cosa fondamentale, è che è dietro
di lui. Presto cercherà di raggiungerlo ma è un problema che può aspettare. Forse do-
vrebbe pensare a dove scappare, ma un codardo patentato non si preoccupa mai di la-
sciarsi coinvolgere da dettagli quali il dove, quando e come.
Un corridore di minore esperienza si arrischierebbe a lanciare un'occhiata dietro di
sé, ma Scuotivento, istintivamente, sa tutto dell'attrito prodotto dal vento e della ten-
denza che hanno delle rocce inopportune a posizionarsi sotto un piede incauto.
Oltretutto, perché guardare indietro? Sta già correndo più velocemente che può.

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Niente di ciò che potrebbe vedere riuscirebbe a farlo correre più velocemente.
Davanti a lui intravede un villaggio dai contorni indistinti, all'apparenza costruito con
fango e letame. Nei campi antistanti una dozzina di contadini si distraggono dalle
loro fatiche all'approcciare del mago in corsa.
Forse è frutto dell'immaginazione di Scuotivento, ma quando li supera giurerebbe di
sentire gridare: “Durata Necessariamente Indeterminata All'Esercito Rosso! Morte
Disonorevole Senza Eccessiva Sofferenza Alle Forze Dell'Oppressione!”
Scuotivento s'immerge tra le capanne mentre i soldati vanno alla carica dei contadini.
Cohen ha ragione. Sembra esserci una rivoluzione in atto. Ma l'Impero esiste immu-
tato da millenni, la cortesia ed il rispetto del protocollo sono parte della sua struttura
portante e, a sentirli, i rivoluzionari non hanno neppure ancora imparato a destreg-
giarsi nell'arte degli slogan incivili.
Scuotivento preferisce correre a nascondersi. Nascondersi va più che bene, ma se si
viene scoperti si finisce sgozzati. Il villaggio, però, è l'unico rifugio disponibile a vi-
sta d’occhio ed alcuni dei soldati hanno un cavallo. Un uomo sarà pure più veloce di
un cavallo sul breve percorso, tuttavia in un paesaggio monotono di campi sconfinati
un cavallo può ben cogliere un uomo in flagrante.
Perciò si nasconde in una costruzione a caso spingendo la prima porta che gli capita
di trovare.
Sulla quale sono attaccate le parole: Concorso. Silenzio!
Quaranta visi in attesa e leggermente spaventati lo guardano dai loro banchetti. Non
sono bambini, ma adulti fatti e finiti.
In fondo alla stanza c'è una pedana con sopra una pila di carte sigillate con spago e
cera.
L’atmosfera risulta familiare a Scuotivento. L'ha già respirata, anche se in un altro
mondo. E' intrisa degli odori da sudore freddo per l'improvvisa consapevolezza che è
troppo tardi per quel ripasso che si è continuato a rimandare. Scuotivento ha affronta-
to molteplici orrori nel corso della sua esistenza, ma nessuno in grado di superare in
termini di terrore quei pochi secondi che seguono alla voce di qualcuno che dice “Po-
tete aprire i vostri questionari, adesso.”

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I candidati lo guardano.
Fuori, da qualche parte, si sente gridare.
Si precipita alla pedana, strappa lo spago e distribuisce i questionari quanto più in
fretta possibile. Poi si rituffa al sicuro dietro la pedana, si toglie il cappello ed è anco-
ra piegato in terra quando la porta si apre.
“Uscite!” grida. “C'è un concorso in atto!”
Le figura nascosta dietro la porta bisbiglia qualcosa a qualcun altro. La porta si ri-
chiude.
I candidati continuano a fissarlo.
“Ehm. Molto bene. Potete aprire i vostri questionari.”
Un fruscio, poi alcuni momenti di silenzio tipicamente carico di paura e, dopo, un
gran lavorio di pennelli.
Concorsi. Oh, si. Un'altra cosa dell'Impero nota a tutti. E' l'unico sistema di accesso
ad un impiego nel settore pubblico, con tutta la sicurezza economica che l’accompa-
gna. Le persone sostengono trattarsi di un ottimo sistema, poiché aumenta le oppor-
tunità di coloro che sono meritevoli.
Scuotivento prende uno dei questionari rimasti e lo legge.
L'intestazione recita: Concorso al posto di Assistente Operaio Stabbiatore per il Di-
stretto di W'ung.
Legge la domanda numero uno. Si chiede ai candidati di scrivere un poema di sedici
righe sulla nebbia che avvolge i canneti palustri al calar della sera.
La domanda numero due pare riguardare l'uso della metafora in un qualche libro del
quale Scuotivento non ha mai sentito parlare.
Poi c'è una domanda di musica…
Scuotivento rigira il questionario un paio di volte. Pare non menzioni mai, da nessu-
na parte, parole come “concime organico” o “secchio” o “carriola”. Magari in questo
modo si seleziona una classe operaia migliore rispetto al sistema di Ankh-Morpork,
che prevede una sola unica domanda:
“Hai una pala tutta tua, vero?”
Le grida all'esterno sembrano essere cessate; Scuotivento si arrischia a fare capolino

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dalla porta. In prossimità della via c'è un certo trambusto che non pare essere più
Scuotivento-orientato.
Scappa di corsa.
I candidati proseguono il loro concorso. Uno dei più intraprendenti, tuttavia, si arro-
tola la gamba dei pantaloni e ricopia un poema sulla nebbia che ha composto, con
grande sforzo, un po' di tempo prima. Dopo un po' le domande degli esaminatori si
riesce a prevederle.
Scuotivento prosegue spedito, tentando di seguire i fossati ovunque non siano inon-
dati di melma putrescente fino alle ginocchia. Non è un paesaggio fatto per nascon-
dersi. Gli Agateani coltivano i raccolti su ogni pezzo di terra in cui i semi non galleg-
gino. Apparte qualche occasionale affioramento roccioso, spicca l'evidente carenza di
posti in cui rannicchiarsi.
Nessuno bada troppo a lui da quando si è lasciato il villaggio alle spalle.
Sporadicamente un pascolatore di bufali indiani si volta a guardarlo finché non
scompare alla vista, ma senza manifestare particolare curiosità: è solo che Scuotiven-
to è marginalmente più interessante da guardare di un bufalo indiano che evacua.
Tiene attentamente d’occhio la strada e, al tramonto, raggiunge un incrocio.
Dove c'è una locanda.
Scuotivento non mangia nulla dal leopardo. Una locanda significa cibo, ma cibo si-
gnifica denaro. Ha fame, e non ha denaro.
Si rimprovera con sé stesso per certi pensieri negativi. Non sono un buon modo di af-
frontare il problema. Ciò che deve fare è entrare ed ordinare un pasto abbondante e
nutriente. Poi, invece di essere affamato e senza soldi, sarà sazio e senza soldi, con
un guadagno netto rispetto allo stato attuale. Certo, verosimilmente il mondo avrà di
che obiettare, ma Scuotivento sa per eseperienza che sono pochi i problemi che non
si possono risolvere con un grido e con un vantaggio di una decina di metri ai blocchi
di partenza. Ovviamente considerando anche il pasto rinvigorente appena consumato.
Oltretutto, gli piace il cibo Hunghungese. Alcuni rifugiati hanno aperto dei ristoranti
ad Ankh-Morpork e Scuotivento si considera un vero esperto sui loro piatti19.
19 Quali Piatto di Roba Marroncina Scintillante, Piatto di Roba Croccante Arancione Scintillante e
Piatto Di Morbidi Bitorzoli Bianchi.

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L'enorme sala comune è densa di fumo e, per quanto si riesce a capire tra le volute ed
i turbinii, piuttosto affollata. Una coppia di anziani è seduta davanti ad una pila di
complicate tessere d'avorio e gioca a Shibo Yangcong-san. Non sa dire con certezza
che cosa stiano fumando ma, a giudicare dalle loro facce, sono felici della scelta.
Scuotivento si fa strada fino al caminetto, dove un uomo emaciato sorveglia un cal-
derone.
Gli sorride allegramente. “Buongiorno! Posso avere un po' della vostra famosa preli-
batezza “Pasto per due con Nuvole di Gambero extra”?”
“Mai sentita.”
“Uhm. Allora… potrei avere un orecchio dolorante… un gracidio di rana… un
menù?”
“Cos'è un menù, amico?”
Scuotivento annuisce. Sa cosa significa quando uno straniero dice “amico” così. Nes-
suno che dice “amico” così è in animo di troppa gentilezza.
“Quello che avete da mangiare, volevo dire.”
“Noodles, cavolo bollito e baffi di porco.”
“E' tutto?”
“I baffi di porco non crescono sugli alberi, san.”
“E’ tutto il giorno che vedo bufali indiani,” replica Scuotivento. “Ma voi, gente, non
mangiate mai carne?”
Il mestolo precipita nel calderone schizzando. Da qualche parte dietro di lui una tes-
sera dello Shibo cade a terra. La nuca di Scuotivento formicola per tutti gli sguardi
intenti a fissarlo.
“Non serviamo ribelli in questo posto,” il locandiere alza la voce.
Magari è troppo stoppaccioso, pensa Scuotivento. Però gli sembra che la risposta fos-
se più per il mondo in generale che per lui.
“Sono lieto di sentirlo,” ribatte, “perché -”
“Si, certo,” lo interrompe il locandiere, a voce ancora più alta. “Nessun ribelle è ben-
venuto qui.”
“E' un bene per me perché -”

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“Se venissi a sapere di qualche ribelle di sicuro allerterei alle autorità,” grida il locan-
diere.
“Io non sono un ribelle, sono solo affamato,” dice Scuotivento. “Io, ehm, ne gradirei
una ciotola piena, per favore.”
La ciotola viene riempita. Sulla superficie oleosa scintillano dei motivi arcobaleno.
“Fa mezzo rhinu,” dice il locandiere.
“Nel senso che devo pagare prima di mangiare?” chiede Scuotivento.
“Dopo potresti non volerlo fare, amico.”
Un rhinu è più oro di quanto Scuotivento abbia mai posseduto. Si tasta teatralmente
le tasche.
“In effetti, sembra che -” comincia. Si sente un piccolo tonfo accanto a lui. Cosa Ho
Fatto In Vacanza è caduto sul pavimento.
“Si, grazie, questo è sufficiente,” il locandiere si rivolge alla sala in generale. Gli
spinge la ciotola in una mano e, con un solo movimento, raccoglie il libretto e lo fa
sparire nella tasca del mago.
“Va a sederti nell'angolo!” sibila. “Ti verrà detto cosa fare!”
“Ma sono certo di sapere cosa devo fare. Affondare il cucchiaio nella ciotola, portare
il cucchiaio alla bocca -”
“Siediti!”
Scuotivento scova l'angolo più buio e si siede. Le persone continuano a fissarlo.
Per evitare lo sguardo fisso di gruppo estrae Cosa Ho Fatto In Vacanza e lo apre a
caso, nello sforzo di capire perché ha avuto un effetto così magico sul locandiere.
“… venduto un panino con dentro quella che chiamano [pittogramma complicato]
fatta completamente con le interiora di maiale [cane che fa la pipì]” legge. “E cose
così possono essere comprate quando si vuole per una monetina, e i cittadini sono
così sazi che a fatica comprano queste [pittogramma complicato] dal chiosco di [pit-
togramma complicato, che sembra coinvolgere un rasoio]- san.”
Salsicce ripiene di pezzi di maiale, pensa Scuotivento. Beh, probabilmente chiunque
rimarrebbe stupito se, fino ad allora, una ciotola di risciacquatura con dei coaguli in
superficie avesse rappresentato la sua idea di pasto conciviale.

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Ah! Signor Cosa-Ho-Fatto-In-Vacanza, dovresti venire ad Ankh-Morpork la prossi-
ma volta, per provare quanto ti piacerebbe una delle vecchie… salsicce di Dibbler…
piene di genuini… derivati del maiale…
Il cucchiaio cade nella ciotola schizzando.
Scuotivento volta in fretta le pagine.
“… strade pacifiche, lungo le quali ho camminato, erano per lo più libere dal crimine
e dal brigantaggio...”
“Ovviamente lo erano, tu, piccolo quattr'occhi imbecille!” urla Scuotivento. “Perché
tutto questo è successo a me!”
“… una città in cui tutti gli uomini sono liberi...”
“Liberi? Liberi? Beh, certo, liberi di morire di fame, di essere rapinati dalla Gilda dei
Ladri...” Scuotivento parla con il libro.
Scorre un'altra pagina.
“… il mio accompagnatore era una Grande Mago [pittogramma complicato, ma ad
osservarlo meglio Scuotivento si rende conto, con un tuffo al cuore, che alcune linee
paiono l'equivalente Agateano di “vento”], il mago più insigne e potente dell'intera
regione...”
“Io non l'ho mai detto! Io -” Scuotivento s'interrompe. La memoria gli riporta infida-
mente alcune frasi come “Oh, l'Arcicancelliere ascolta tutto quello che dico” e “Quel
posto cadrebbe a pezzi senza di me”. Ma sono soltanto il genere di cose che si dicono
dopo qualche birra, di certo nessuno può essere tanto credulone da scrivere…
Nei ricordi di Scuotivento si fissa un'immagine. E' quella di un ometto felice e sorri-
dente, con degli occhiali enormi, che approccia la vita pieno di fiducia ed innocenza
e che semina terrore e distruzione ovunque vada. Duefiori è decisamente incapace di
persuadersi che il mondo è un brutto posto, soprattutto perché, per lui, non lo è. Il
brutto è interamente riservato a Scuotivento.
La vita di Scuotivento è stata relativamente priva di eventi, finché non ha incontrato
Duefiori. Dopodiché, per quanto ricorda, è stata stipata di eventi in enormi quantità.
E il piccoletto, poi, è tornato a casa, o no? A Bes Pelargic – l'unico porto dell'Impero
che può veramente definirsi tale.

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Di certo nessuno può essere tanto credulone da scrivere cose simili.
Scuotivento non è portato per la politica, ma alcune cose riesce a comprenderle e non
perché hanno a che fare con la politica, ma perché hanno molto a che fare con la na-
tura umana.
Delle immagini per niente gradevoli trovano la giusta collocazione in un brutto sce-
nario.
L'Impero è interamente circondato da una muraglia. Se si vive nell'Impero bisogna
imparare a improvvisare una zuppa con grugniti di maiale e sputi di rondine perché
non c’è altro con cui prepararla, e si subiscono le continue prepotenze dei soldati per-
ché è così che gira da sempre il mondo. Ma se qualcuno scrive un allegro libretto
su…
….cosa ho fatto in vacanza…
…in un posto dove le cose funzionano in maniera completamente diversa…
per quanto la società possa essere fossilizzata, comunque ci sarà qualcuno che farà
domande pericolose tipo “Dov'è il maiale?”
Scuotivento fissa cupamente la parete. Contadini dell'Impero, Ribellatevi! Non avete
niente da perdere, apparte le mani, la testa ed i piedi, per non parlare di quella cosa
che fanno con un gilet di maglia ed una grattugia…
Rivolta il libro. Il nome dell'autore non c'è. C'è solamente un breve messaggio: Fate
Girare La Fortuna! Fatene Delle Copie! Fate l'Impossibile Per Distribuire Infinita Al-
legria!
Anche ad Ankh-Morpork, di quando in quando, c'è qualche ribellione. Ma nessuno se
n'è mai andato in giro ad organizzare le cose. Ci si limita ad afferrare un'arma e scen-
dere in strada. Nessuno si preoccupa di un grido di battaglia ufficiale, preferendo
confidare nel ben collaudato “Eccolo che arriva! Prendetelo! L'avete preso? Mettete-
lo alla forca!”
Il punto è che… qualunque sia il fattore scatenante di questo genere di cose, normal-
mente non ne è mai anche la ragione. Quando Lord Batticassa è stato appeso per il

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cosiffatto20, non è stato veramente perché aveva costretto il povero vecchio Palude
Scucchiaia a mangiarsi il naso, ma per via delle ingegnose cattiverie reciproche che
si erano accumulate negli anni, finché le lamentele non avevano raggiunto -”
Un urlo terribile risuona dall'altro capo della sala. Scuotivento è già quasi in piedi
quando scorge il piccolo palco e gli attori.
Un trio di musicisti si è accovacciato sul pavimento. I clienti della locanda si voltano
a guardare.
In un certo modo, è piuttosto godibile. Scuotivento non segue bene la trama, ma è
qualcosa tipo: un uomo si prende le ragazze, un uomo perde le ragazze contro un al-
tro uomo, un uomo ne taglia un paio a metà, un uomo cade sulla sua stessa spada,
tutti tornano sul palco per un inchino al suono di quello che potrebbe essere l'equiva-
lente Agateano di “Felicità”. E' un po' difficile capirne la finezza in dettaglio perché
gli attori gridano spesso “Uuurrrrrraà!” e passano molto tempo a parlare con il pub-
blico e le loro maschere a Scuotivento sembrano tutte uguali. I musicisti se ne stanno
in un mondo tutto loro o, a giudicare dalla musica, ciascuno dei tre in un proprio
mondo a parte.
“Biscotto della fortuna?”
“Uh?”
Scuotivento riemerge dalle profondità della drammaturgia e si ritrova vicino il locan-
diere.
Un piatto di biscotti vagamente bivalve gli viene spinto sotto il naso.
“Biscotto della fortuna?”
Scuotivento allunga la mano. Proprio quando le sue dita stanno per prenderne uno, il
piatto viene spostato di lato di pochi centimetri così che ne prenda uno diverso.
Oh, d'accordo. Lo prende.
Il punto è che – i pensieri ricominciano a girare, intanto che lo spettacolo continua tra
le grida – ad Ankh-Morpork, almeno, si possono mettere la mani su delle armi vere.
Poveri diavoli. Ci vogliono molto più di qualche slogan ben concepito e di un sacco
20 Così riportano i libri di storia. Comunque, al pari di ogni altro giovane studente, Scuotivento aveva
cercato ottimista la parola “cosiffatto” nel dizionario ed aveva scoperto trattarsi di un “filoncino farci-
to con l'uvetta”. Il che significava o che il linguaggio era molto cambiato nel corso del tempo o che
dovevano esserci dei risvolti ripugnanti per arrivare ad appendere un uomo per un dolcetto da tè.

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di entusiasmo per mettere a punto una buona ribellione. Occorrono combattenti ben
addestrati e, soprattutto, un buon capo. Si augura che ne trovino uno dopo che sarà
andato via.

Srotola il biglietto del biscotto della fortuna e lo legge distrattamente, dimentico del
locandiere che cammina in tondo dietro di lui. Al posto del solito “Hai appena man-
giato un pessimo pasto” c'è un pittogramma complicato. Le dita di Scuotivento se-
guono la traccia delle pennellate.
“Molte… molte… scuse... Che razza di -”
Il musicista sbatte bruscamente i piatti.
Il manganello di legno rimbalza sulla testa di Scuotivento.
I due anziani che giocano a Shibo si scambiano un soddisfatto gesto d’intesa e torna-
no a giocare.

E' una bella mattina. Il covo riecheggia dei suoni dell'Orda d'Argento che si alza, gru-
gnendo, aggiustandosi vari supporti ortopedici fatti in casa, lamentandosi di non riu-
scire a trovare gli occhiali e incollandosi a torto la dentiera l'uno dell'altro.
Cohen si gode il sole, con i piedi in ammollo in una vasca di acqua calda.
“Prof?”
L'ex professore di geografia è tutto concentrato sulla realizzazione di un cappuccio.
“Si, Gengis?”
“Che va blaterando Hamish il Matto?”
“Dice che il pane è raffermo e che non riesce a trovare i suoi denti.”
“Rispondigli che se le cose ci vanno bene potrà avere una dozzina di ragazze che ma-
sticheranno il pane solo per lui.”
“Non è granché igienico, Gengis,” replica Signor Cervellata senza disturbarsi a solle-
vare lo sguardo. “Ricordi, vi ho parlato dell'igiene.”
Cohen non si prende neppure la briga di rispondere. Sta pensando: sei vecchietti. E
non si può fare veramente affidamento su Prof: è un pensatore, mica un combatten-
te…

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L'insicurezza non è qualcosa che trova abitualmente posto all'interno della scatola
cranica di Cohen. Quando si cerca di trasportare con sé una recalcitrante vestale ed
un sacco pieno di quanto trafugato dal tempio con una mano, e di combattere una
mezza dozzina di sacerdoti furiosi con l'altra, non si ha molto tempo per riflettere. La
selezione naturale ha fatto in modo che gli eroi di professione con la tendenza a do-
mandarsi, nel momento cruciale, cose come “Che senso ha la mia vita?” rimanessero
rapidamente senza né un senso né una vita.
Ma: sei vecchietti… e l'Impero ha arruolate quasi un milione di persone.
A considerare l'imparità della lotta nella luce fredda dell'alba, o persino nella più pia-
cevole luce tiepida dell'alba, si è costretti a fermarsi ed a fare i conti con l'aritmetica
della morte. Se il Piano fallisce…
Cohen si morde il labbro sovrappensiero. Se il Piano fallisce, ci vorranno delle setti-
mane per ucciderli tutti. Forse avrebbe fatto meglio a permettere a Thog il Macellaio
di unirsi a loro, nonostante fosse costretto ad interrompere i combattimenti ogni dieci
minuti per andare al gabinetto.
Oh, vabè. Oramai è in ballo, perciò è meglio che faccia funzionare le cose come de-
vono.
Quando Cohen era poco più che un ragazzo, il padre l'aveva condotto in cima ad una
montagna e gli aveva spiegato il credo dell'eroe e che non esiste gioia più grande del
morire in battaglia.
Cohen aveva capito immediatamente qual'era la pecca di quel ragionamento e l'espe-
rienza di una vita ne aveva rafforzata la convinzione che, in effetti, la gioia più gran-
de consiste nell'ammazzare il bastardo avversario in battaglia e finire seduti in cima
ad una montagna d'oro più alta di un cavallo. E tale conclusione gli è sempre tornata
enormemente utile.
Si alza stiracchiandosi nella luce del sole.
“E' una bella mattina, compari,” dice. “Mi sento splendidamente in forma. E voi?”
Il borbottio d'assenso risulta alquanto riluttante.
“Ottimo,” commenta Cohen. “Andiamo a prenderne qualcuno.”

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La Grande Muraglia circonda interamente l'Impero Agateano. Interamente dice tutto.
In genere è alta all'incirca sette metri e ripida dal lato interno. E' stata eretta lungo le
spiagge, nei deserti impervi e persino sull'orlo dei precipizi perpendicolari dove la
possibilità di attacchi dall'esterno è assai remota.
Sulle isole sottomesse come Bangbangoc e Tingling sono state edificate mura simili,
tutte metaforicamente parte della stessa muraglia, e la cosa risulta bizzarra a chi è do-
tato di una scarsa indole militare e perciò non ne comprende appieno la vera funzio-
ne.
E' molto più che una semplice muraglia: è una linea di demarcazione. Da una parte
c’è l'“Impero”, vocabolo che, in lingua Agateana, equivale ad “universo”. Dall'altra
parte c’è – il niente. Dopotutto, l'universo è tutto quanto c'è.
Oh, potrebbe sembrare ci siano delle cose come il mare, le isole, altri continenti e
così via. Potrebbero persino dare l'impressione di essere solidi, di poter essere con-
quistati, calpestati… ma al dunque non sono reali. La parola straniero, in Agateano, è
la stessa usata per dire fantasma e si discosta di solamente un colpo di pennello dalla
parola vittima.
Le mura sono ripide allo scopo di scoraggiare quelle persone fastidiose che persisto-
no nella convinzione che possa esserci qualcosa di interessante dall'altra parte.
Straordinariamente, anche dopo migliaia di anni, ci sono persone che non riescono a
cogliere l'allusione. Quelli vicini alla costa costruiscono delle zattere e salpano per
mari solitari verso terre che sono leggenda. Quelli dell'entroterra ricorrono a trasporti
singoli quali aquiloni e sedie alimentate da fuochi d'artificio. Il tentativo costa la vita
a molti, naturalmente. Parecchi degli altri vengono immediatamente catturati e co-
stretti a vivere momenti interessanti.
Però alcuni ce la fanno e raggiungono il caleidoscopico calderone di Ankh-Morpork.
Arrivano senza soldi – quelli che attraversano il mare caricano quanto potrebbe inte-
ressare il mercato, ossia più o meno tutto – ma hanno uno sprazzo di follia negli oc-
chi ed aprono negozi e ristoranti e lavorano ventiquattro ore al giorno. La gente lo
chiama il Sogno Ankh-Morporkiano (di accumulare pile di contanti in un posto in
cui, se muori, è poco probabile che la questione diventi di ordine pubblico). E lo so-

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gnano ancora di più quelli che soffrono d'insonnia.

Scuotivento talvolta pensa che la sua vita sia scandita dai risvegli. Non sono sempre
bruschi. Qualche volta sono semplicemente scortesi. Poche, pochissime volte – una o
due, forse – sono stati piuttosto piacevoli, soprattutto sull'isola. Il sole sorgeva con
affascinante monotonia, le onde s'infrangevano sulla spiaggia in maniera estrema-
mente noiosa ed in diverse occasioni riusciva ad emergere dall'incoscienza senza il
consueto breve urlo.
Questo non è solamente brusco. E' incontestabilmente insolente. Gli hanno procurato
un bernoccolo e qualcuno gli ha legate insieme le mani. E' buio, per via del fatto che
l'hanno incappucciato.
Scuotivento fa alcuni calcoli e giunge ad una conclusione. “Ad oggi è il diciassettesi-
mo giorno peggiore di tutta la mia vita”, pensa. Essere tramortito in un locale pubbli-
co rientra nell'ordinario. Se fosse capitato ad Ankh-Morpork probabilmente si sareb-
be svegliato o disteso sull'Ankh senza più un soldo o, se per caso una nave fosse stata
costretta ad una lunga e sgradita traversata, incatenato in qualche ombrinale chissà
dove senza altra possibilità, per almeno due anni, se non quella di spazzare le onde
dell'oceano21.
In genere, comunque, un aggressore preferisce lasciarti vivere. I Ladri della Gilda
sono piuttosto precisi sul punto. Dicono: “Colpisci un uomo troppo forte e potrai ra-
pinarlo una volta soltanto; colpiscilo non più del necessario e potrai rapinarlo tutte le
settimane.”
Se si trova in quello che pare essere un carro, allora qualcuno ha una qualche ragione
per volerlo vivo.
Vorrebbe non averlo pensato.
Qualcuno gli leva il cappuccio. Un volto terrificante lo guarda.
“Vorrei mangiarti il piede!” esclama Scuotivento.
“Non temere. Sono un amico.”
La maschera si solleva. Dietro c'è una ragazza – con il viso tondo, mortificato dal

21 Una prospettiva scoraggiante, soprattutto quando i cavalli continuano ad annegare.

100
naso ed assai differente da ogni altro cittadino Scuotivento abbia incontrato sino ad
ora. E' perché, comprende, lo guarda diritto negli occhi. Gli abiti, se non il viso,
l'ultima volta li ha visti sul palco.
“Non gridare,” dice.
“Perché? Che vuoi fare?”
“Avremmo voluto darti il benvenuto come si deve, ma non c'era tempo.” Si siede tra i
sacchi sul retro del carro traballante e lo soppesa attentamente con aria critica.
“Quattro Grossi Sandali dice che sei arrivato a cavallo di un dragone e che hai sgo-
minato un reggimento di soldati,” dice.
“Io?”
“E che poi con la magia hai trasformato un vecchio venerabile in un grande guerrie-
ro.”
“Davvero?”
“E che gli hai dato della carne vera, nonostante Quattro Grossi Sandali appartenga ad
un ceto inferiore.”
“Io?”
“Ed hai il cappello.”
“Si, si, ho il cappello.”
“E tuttavia,” dice la ragazza, “non hai l'aria di un Grande Mago.”
“Ah. Ebbene, il fatto è -”
La ragazza sembra essere delicata come un fiore. Ma ha appena estratto, da una qual-
che piega del costume, un coltello piccolo ma decisamente funzionale.
Scuotivento ha sviluppato un certo istinto per cose come questa. Probabilmente non è
il momento giusto per negare la Grande Magia.
“Il fatto è...” ripete, “che… come faccio a sapere di potermi fidare?”
La ragazza pare indignarsi. “Non sei dotato di straordinari poteri magici?”
“Oh, si. Si! Certamente! Ma -”
“Dì qualcosa da mago!”
“Ehm. Stercus, stercus, stercus, moriturus sum,” dice Scuotivento, con gli occhi sul
coltello.

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““O escrementi sono morto?””
“E'… ehm… un mantra speciale che recito per incanalare le correnti magiche.”
La ragazza si calma un po'.
“Però fare magie ti sfinisce,” dice Scuotivento. “Cavalcare i dragoni, trasformare ma-
gicamente dei vecchi in guerrieri… Posso fare questo genere di cose solo finché non
è tempo di riposare. Ora come ora mi sento molto debole per via delle tremende
quantità di magia che ho dovuto usare, capisci.”
Continua a guardarlo con sospetto.
“Tutti i contadini confidano nell'imminente arrivo del Grande Mago,” replica. “Ma,
come insegna il grande filosofo Ly Piccolo Imbonitore, “I molti che aspettano un
grosso stallone, riceveranno una formica con gli zoccoli.””
Lo soppesa nuovamente con lo sguardo.
“Quand'eri in strada,” dice, “Ti sei umiliato davanti al Commissario Distrettuale Kee.
Avresti potuto distruggerlo con un fuoco terribile.”
“Aspettavo il momento opportuno, tastavo il terreno, non volevo far saltare la mia
copertura.” farfuglia Scuotivento. “Ehm. Non è bene che mi riveli sin da subito, chia-
ro?”
“Sei sotto copertura?”
“Si.”
“E' davvero buona.”
“Grazie, perché -”
“Solamente un grande mago oserebbe sembrare un così patetico esemplare umano.”
“Grazie. Ehm… come sai che ero in strada?”
“Ti avrebbero ammazzato lì per lì se non ti avessi detto cosa fare.”
“Eri tu la guardia?”
“Dovevamo raggiungerti molto in fretta. E' stata una vera fortuna che Quattro Grossi
Sandali ti abbia visto.”
“Dovevamo chi?”
Ignora la domanda. “Sono solo dei soldati di provincia. Non ne sarei uscita viva ad
Hunghung. Però so recitare molti ruoli.”

102
Mette via il coltello, ma Scuotivento ha la sensazione di non averla convinta, salvo
che a lasciarlo vivere.
Cerca un qualche appiglio.
“Ho una baule magico con i piedi,” dice, con un certo orgoglio. “Mi segue in giro. Al
momento sembra essersi smarrito, ma è una roba piuttosto impressionante.”
La ragazza lo guarda inespressiva. Poi allunga una mano delicata e lo fa mettere di-
ritto.
“E',” chiede, “una cosa del genere?”
Scosta di lato le tendine in coda al carro.
Due bauli avanzano pesantemente nella polvere. Sembrano più malconci e meno pre-
giati del Bagaglio, ma all’evidenza dello stesso genere di specie, sempreché il termi-
ne possa estendersi pure agli accessori da viaggio.
“Ehm. Si.”
La ragazza si scatena. La testa di Scuotivento viene fatta sbattere contro sul fondo.
“Ascoltami bene,” dice. “Stanno succedendo un sacco di brutte cose. Io non credo
nei grandi maghi ma altre persone si e qualche volta la gente ha bisogno di credere in
qualcosa. E se queste altre persone muoiono perché il mago non è poi così grande, al-
lora costui sarà anche un mago davvero sfortunato. Forse sei il Grande Mago. Ma se
non lo sei, ti suggerisco di cominciare a studiare molto sodo per diventare grande. Mi
sono spiegata?”
“Ehm. Si.”
Scuotivento ha affrontato la morte in diverse occasioni. In tutte erano contemplate
spade ed armature. Stavolta ci sono solamente una ragazza carina ed un coltello, ma
in qualche modo riesce comunque a collocarsi tra le peggiori.
La ragazza si rimette seduta.
“Siamo una compagnia teatrale ambulante,” dice. “E' comodo. Gli attori Noh posso-
no viaggiare.”
“Non possono?” domanda Scuotivento.
“Non capisci. Noi siamo attori Noh.”
“Oh, non siete così male.”

103
“Grande Mago, il “Noh” è una forma simbolica non realistica di teatro che usa un
linguaggio arcaico ed una mimica stilizzata accompagnati da flauti e percussioni. La
tua simulata stupidità è magistrale. Al punto che persino io potrei credere che sei un
non attore.”
“Scusami, come ti chiami?” chiede Scuotivento.
“Bella Farfalla.”
“Ehm. Si?”
Lo guarda torva e se ne va sul davanti del carro. Che procede.
Scuotivento si stende con la testa su di un sacco che odora di cipolle e maledice siste-
maticamente tutto. Maledice le donne con i coltelli, la storia in generale, l'intero cor-
po docenti dell'Università Invisibile, il Bagaglio latitante e la popolazione dell'Impe-
ro Agateano. Ma ora come ora, in cima alla lista, colloca chiunque abbia progettato il
carro. Visto quel che prova, chiunque sia ad aver pensato che il legno rugoso e scheg-
giato potesse costituire la superficie giusta per un pavimento, deve essere la stessa
persona che ha pensato che “triangolare” sia una forma carina per una ruota.

Il Bagaglio è nascosto in un fossato, osservato dallo sguardo privo di interesse di un


uomo che tiene un bufalo indiano dall’altra estremità di un pezzo di corda.
Si vergogna, è confuso e smarrito. Smarrito perché tutto quanto intorno è… familia-
re. La luce, gli odori, la consistenza del suolo… Però si sente abbandonato.
E' fatto di legno. Il legno è sensibile a certe cose.
Uno dei suoi tanti piedi traccia distrattamente un contorno nel fango. Una sagoma a
caso e meschina, nota a chiunque sia costretto a restare in piedi di fronte alla classe
mentre viene rimproverato. Alla fine, giunge a qualcosa che probabilmente è la più
simile ad una decisione per del legname.
L'hanno dato via. Ha trascorso anni a stare al passo in posti strani, ad incontrare crea-
ture esotiche e saltargli sopra su e giù. Adesso è tornato nel paese dove un tempo era
un albero.
Perciò, è libero.
Non sarà una concatenazione logica tra le migliori, ma non è niente male se tutto ciò

104
di cui si dispone per pensare sono solo dei nodi legnosi.
E c'è qualcosa che vuole davvero davvero fare.

“Fatto, Prof?”
“Scusa, Gengis. Ho quasi finito...” Cohen sospira. L'Orda sfrutta la pausa per riposa-
re all'ombra di un albero e mentire gli uni con gli altri sulle proprie gesta epiche,
mentre il Signor Cervellata, in piedi in cima ad un masso, sbircia in un qualche at-
trezzo fatto in casa e scarabocchia sulle proprie mappe.
I pezzi di carta dominano il mondo, oramai, pensa Cohen tra sé. Di sicuro ne domi-
nano questa parte. E Prof… beh, Prof domina i pezzi di carta. Magari non è propria-
mente un eroe barbaro tradizionalmente inteso, malgrado la sua profonda convinzio-
ne che tutti i presidi andrebbero inchiodati alla porta di una stalla, però è un portento
coi pezzi di carta. E sa parlare l'Agateano. Beh, lo parla meglio di Cohen, che l'ha
imparato in maniera approssimativa e frettolosa. Dice di averlo studiato su qualche
vecchio libro. Dice che è straordinaria la quantità di roba interessante che si trova nei
vecchi libri.
Cohen arranca fino al suo fianco.
“Che stai architettando esattamente, Prof?” chiede.
Il Signor Cervellata strizza gli occhi verso Hunghung, appena visibile sull'orizzonte
polveroso.
“La vedi quella collina alle spalle della città?” risponde. “La grossa montagnola ton-
deggiante?”
“A me pare che somiglia al tumulo di mio padre,” replica Cohen.
“No, deve essere di origine naturale. E' troppo grande. C'è una specie di pagoda sulla
cima, vedo. Interessante. Forse, più in là, dovrei darle un'occhiata più da vicino.”
Cohen scruta la grossa montagnola tondeggiante. E' una grande collina tondeggiante.
Non è minacciosa e pare non possedere alcun valore. Fine della storia per quanto lo
riguarda. Ci sono questioni ben più importanti di cui occuparsi.
“Le persone vanno e vengono dalla città esterna,” prosegue il Signor Cervellata.
“L'assedio è più una minaccia che una realtà. Perciò entrare non dovrebbe essere un

105
problema. Naturalmente, riuscire ad entrare nella Città Proibita sarà molto più diffici-
le.”
“Che ne dici se li facciamo fuori tutti?” domanda Cohen.
“Un'ottima idea, ma impraticabile,” risponde il Signor Cervellata. “E suscettibile di
sollevare critiche. No, la mia corrente metodica si basa sul fatto che Hunghung si tro-
va ad una considerevole distanza dal fiume e ciononostante ha quasi un milione di
abitanti.”
“Metodica, già,” dice Cohen.
“E la geografia locale è piuttosto inadatta per i pozzi artesiani.”
“Già, proprio come pensavo...”
“E tuttavia non si vede un acquedotto, faccio notare.”
“Nessun acquedotto, esatto,” commenta Cohen. “Magari se ne vanno al Bordo d'esta-
te. Alcuni uccelli lo fanno.”
“Il che mi porta a dubitare alquanto del detto che neppure un topo riuscirebbe ad en-
trare nella Città Proibita,” dice il Signor Cervellata con giusto una punta di sufficien-
za. “Sospetto che un topo potrebbe entrare nella Città Proibita se sapesse trattenere il
respiro.”
“O cavalcarci una di quelle anatre invisibili,” replica Cohen.
“Sicuro.”

Il carro si ferma. Il sacco viene via. Invece della grattugia che Scuotivento si aspetta-
va segretamente di trovare, vede un paio di facce giovani dall'aria preoccupata. Una è
di sesso femminile, ma Scuotivento è sollevato nel notare che non è Bella Farfalla.
Questa sembra più giovane ed a Scuotivento fa pensare solo un po’ alle patate22.
“Come stai?” domanda, in discontinuo ma riconoscibile Morporkiano. “Siamo dav-
vero dispiaciuti. Va meglio adesso? Parliamo a te nella lingua della celestiale città di
Ankh-Molt-Pork. Lingua di libertà e progresso. Lingua di Un Uomo, Un Voto!”
“Già,” dice Scuotivento. L'immagine del Patrizio di Ankh-Morpork gli fluttua tra i ri-
cordi. Un uomo, un voto. Si. “L'ho incontrato. Indubbiamente si è preso il voto. Ma

22 Quando ci si trova su un'isola deserta, gli appetiti possono farsi un po' confusi.

106
-”
“Maggior Fortuna Agli Sforzi Del Popolo!” scandisce il ragazzo. “Progresso Giudi-
zioso!” Si ha come l'impressione che l'abbiano costruito con dei mattoni.
“Scusami,” s'intromette Scuotivento, “ma perché voi mi… una lanterna a forma di
papera per scopi cerimoniali… balla di cotone… avete salvato? Uh, cioè, quando
dico salvato intendo: perché mi avete preso a botte in testa, legato e portato in qua-
lunque posto sia questo qui? Perché il peggio che poteva capitarmi alla locanda era
una sonora sberla per non aver pagato il conto -”
“Il peggio che poteva capitarti era una morte agonizzante lunga diversi anni,” l'inter-
rompe la voce di Farfalla. Compare da dietro il carro e sorride amaramente a Scuoti-
vento. Ha le mani infilate con finto contegno nel kimono, presumibilmente per na-
scondere i coltelli.
“Oh. Salve,” saluta.
“Grande Mago,” risponde Farfalla con un inchino. “Io conosco te già, ma questi due
sono Fiore di Loto e Tre Tori Addomesticati, altri membri della nostra cellula. Abbia-
mo dovuto condurti qui così. Ci sono spie ovunque.”
“Morte Tempestiva A Tutti I Nemici!” esclama il ragazzo, sorridendo raggiante.
“Ottimo, si, bene,” replica Scuotivento. “A tutti i nemici, si.”
Il carro si trova in un cortile. Il livello medio del chiasso dall'altra parte delle mura
davvero molto alte suggerisce la presenza di una grande città. L'orribile certezza si
cristallizza.
“E mi avete portato ad Hunghung, vero?” domanda.
Gli occhi di Fiore di Loto si spalancano.
“Allora è vero,” dice, nella lingua madre di Scuotivento. “Tu sei il Grande Mago!”
“Oh, rimarresti impressionata dalle cose che riesco a prevedere,” risponde scoraggia-
to Scuotivento.
“Voi due, andate e portate i cavalli alla stalla,” dice Farfalla, senza staccare gli occhi
da Scuotivento. Quando corrono via, guardandosi indietro più volte, lei lo raggiunge.
“Loro credono,” spiega. “Personalmente, ho le mie riserve. Ma Ly Piccolo Imbonito-
re dice che “un mulo può fare il lavoro di un toro in un tempo senza cavalli”. Uno dei

107
suoi aforismi meno convincenti, ho sempre pensato.”
“Grazie. Cos'è una cellula?”
“Hai sentito parlare dell'Esercito Rosso?”
“No. Beh… Ho sentito qualcuno che gridava qualcosa...”
“Secondo la leggenda, uno sconosciuto noto solamente come il Grande Mago ha gui-
dato il primo Esercito Rosso ad un'impossibile vittoria. Naturalmente è vecchia di di-
versi millenni. Ma il popolo crede che lui – vale a dire, tu – tornerà per farlo di nuo-
vo. Perciò… dovrebbe esserci un Esercito Rosso pronto e in attesa.””
“Ebbene, ovviamente un uomo potrebbe essere giusto un pò cadavere dopo diversi
millenni -”
D'improvviso si ritrovano faccia a faccia.
“Personalmente sospetto ci sia stato un equivoco,” sibila lei. “Ma ora sei qui e sarai
un Grande Mago. Dovessi pungolarti ad ogni passo che farai!”
Gli altri due fanno ritorno. Farfalla passa da tigre rabbiosa a santarellina in un istante.
“E adesso devi venire ad incontrare l'Esercito Rosso,” dice.
“Non saranno un po' puzzo -” comincia Scuotivento e s'interrompe quando vede la
sua espressione.
“L'Esercito Rosso originale chiaramente era solo una leggenda,” parla disinvolta e
senza errori in Ankh-Morporkiano. “Ma le leggende hanno una loro utilità. E' meglio
che tu conosca la leggenda… Grande Mago. Quando Unico Spettro Solare combatte-
va tutti gli eserciti del mondo, il Grande Mago corse in suo aiuto e la terra stessa si
sollevò e combatté per il nuovo Impero. E ci furono lampi. L'esercito fu creato dalla
terra ma in qualche modo guidato dal fulmine. D'accordo, il fulmine può uccidere ma
sospetto che mancasse di disciplina. E la terra non può combattere. Ma è indubbio
che il nostro esercito di terra e cielo fosse né più né meno che un'insurrezione degli
stessi contadini. Ebbene, adesso abbiamo un nuovo esercito, ed un nome che infiam-
ma gli animi. Ed un Grande Mago. Io non credo nelle leggende. Però credo nel fatto
che gli altri ci credano.”
La ragazza più giovane, che ha cercato di seguire la conversazione, fa un passo avan-
ti e gli afferra il braccio.

108
“Tu vieni a vedere Esercito Rosso ora,” dice.
“Evoluzione Con Le Masse!” esclama il ragazzo, prendendo l'altro braccio di Scuoti-
vento.
“Parla sempre così?” domanda Scuotivento, intanto che viene gentilmente spinto ver-
so una porta.
“Tre Tori Addomesticati non ha studiato,” risponde la ragazza.
“Maggior Successo Attende I Nostri Capi!”
“Non Costa Niente, E' Bello Pieno!” esclama Scuotivento incoraggiante.
“Più Proprietà Di Mezzi Di Produzione!!”
“Come Sta Tua Nonna Senza Pane Né Sapone?”
Tre Tori Addomesticati sorride raggiante.
Farfalla apre la porta. Lasciando Scuotivento fuori con gli altri due.
“Sono degli slogan molto utili,” dice, spostandosi impercettibilmente di lato. “Ma
vorrei richiamare la tua attenzione sul famoso detto del Grande Mago Scuotivento.”
“Davvero, essere tutto orecchio,” replica educatamente Fiore di Loto.
“Scuotivento dice… Addiooooooooo -”
I sandali scivolano sull'acciottolato ma viaggia già spedito quando sbatte contro le
porte, le quali risultano fatte di bambù e si fracassano dividendosi facilmente.
Dall'altra parte c'è un mercato ambulante. Ecco qualcosa di Hunghung che a Scuoti-
vento rimarrà impressa: non appena si crea uno spazio, un qualunque tipo di spazio,
perfino lo spazio lasciato dal passaggio di un carro o un mulo, le persone ci si preci-
pitano, normalmente per discutere, a voce quanto più alta possibile, del prezzo
dell'anatra trattenuta a testa in giù starnazzante.
Con il piede trapassa una gabbia di vimini contenente alcuni polli, però non si ferma,
schiva la gente e aumenta il distacco. Al mercato ambulante di Ankh-Morpork una
cosa del genere avrebbe suscitato qualche commento, tuttavia, poiché tutti attorno a
lui sembrano già gridarsi sul viso a vicenda, Scuotivento non è che una mera seccatu-
ra irrilevante e momentanea, intanto che per metà corre e per metà zoppica tra le ban-
carelle con un piede starnazzante.
Alle sue spalle, la folla si accalca. Forse hanno fatto qualche tentativo di inseguirlo,

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ma è andato fallito nella baraonda.
Non si ferma finché non scova una piccola nicchia dimenticata tra una bancarella di
uccelli canterini ed un'altra che offre della roba che ribolle nelle ciotole.
Il suo piede chioccia. Lo sbatte sull'acciottolato finché la gabbia non si fracassa; il
galletto, esaltato dall'aria inebriante di libertà, lo becca sul ginocchio e fugge sbatac-
chiando le ali.
A giudicare dai suoni, non pare che lo stiano inseguendo. Comunque, il rumore di un
battaglione di troll faticherebbe a superare quello consueto del mercato di Hunghung.
Si permette di ricominciare a respirare.
Ebbene, è di nuovo padrone di sé stesso. Ciao ciao all'Esercito Rosso.
Certo, si trova nella capitale, ossia dove non vorrebbe, ed è solo una questione di
tempo prima che gli ricapiti qualcosa di spiacevole, ma almeno non gli sta capitando
adesso. Gli bastano ritrovare l'orientamento e cinque minuti di vantaggio e potranno
mangiarsi la sua polvere. O il suo fango. Ce n'è parecchio di entrambi da queste parti.
Così... questa è Hunghung...
Non sembrano esserci delle strade intese nel senso che Scuotivento attribuisce alla
parola. I vicoli sfociano in altri vicoli, tutti stretti e resi ancora più stretti dalle banca -
relle che vi sono allineate. C'è una variegata offerta di animali nel mercato. La mag-
gior parte delle bancarelle hanno la loro buona parte di polli in gabbia, anatre in sac-
co e strani cosi che si dimenano dentro delle vaschette. Da una delle bancarelle, una
testuggine in cima ad una pila di testuggini che si dibattono sotto un cartello con
scritto “una per 3r, ottima per lo Ying”, lancia a Scuotivento un lungo sguardo da “E
saresti tu quello con dei problemi?”.
In ogni caso, è difficile stabilire dove finiscono le bancarelle e cominciano gli edifici.
Delle cose rinsecchite appese ad un filo potrebbero essere della mercanzia o il bucato
di qualcuno o più probabilmente la cena della prossima settimana.
Gli Hunghunghesi amano stare all'aria aperta: a giudicare dalle apparenze, trascorro-
no la maggior parte del loro tempo in strada ed a voce quanto più alta possibile.
L'avanzare consta nello sgomitare brutalmente e nello spintonare le persone finché
non si scansano. Starsene fermi a chiedere “Ehm, permesso?” equivale ad un invito

110
all'immobilità. Tuttavia, la folla si divide all'eco di un gong e di una successione di
forti “pops”. Un gruppo di persone con indosso delle tuniche bianche passa danzan-
do, lanciando in giro fuochi d'artificio e percuotendo gong, padelle e strani pezzi di
metallo.
Scuotivento di quando in quando attira l'occhiata sconcertata di qualcuno che si fer-
ma a gridare abbastanza a lungo da notarlo. Forse è tempo di comportarsi come un
oriundo.
Si volta verso la persona più vicina e grida. “Niente male, eh?”
La persona, una piccola vecchia signora con un cappello di paglia, lo guarda disgu-
stata.
“E' il funerale del Signor Whu,” risponde seccata e si allontana.
Scorge un paio di soldati lì vicino. Ad Ankh-Morpork si dividerebbero una sigaretta
cercando di evitare di notare qualunque cosa potrebbe infastidirli. Ma questi hanno
uno sguardo vigile.
Scuotivento indietreggia immettendosi in un altro vicolo. Da queste parti un turista
sprovveduto potrebbe ritrovarsi in grossi guai.
Il vicolo è più tranquillo e, dall'altro capo, sfocia in qualcosa che sembra più largo e
deserto. Sul presupposto che anche le persone possono significare guai, Scuotivento
punta in quella direzione.
Qui, almeno, c'è più spazio. Molto più spazio, a dire il vero. E' una piazza lastricata
grande abbastanza da contenere due eserciti. Lungo i bordi crescono dei ciliegi. E,
data la folla ansimante in ogni altro posto, è sorprendente l'assenza di persone...
“Tu!”
... non considerando i soldati.
Compaiono d'improvviso da dietro ogni albero e statua.
Scuotivento tenta di tornare indietro, ma senza fortuna perché c'è una guardia dietro
di lui.
Una terrificante maschera corazzata si confronta con lui.
“Bifolco! Non sai che questa è la Piazza Imperiale?”
“Mi scusi, piazza è con la P maiuscola?” risponde Scuotivento.

111
“Non sei tu che fai le domande!”
“Ah. Lo prendo come un “si”. Allora è importante. Mi dispiace. Me ne vado
subito...”
“Fermo!”
Scuotivento trova incredibilmente strano che nessuno cerchi di afferrarlo. E poi si
rende conto che deve essere perché difficilmente ne hanno il bisogno. Le persone qui
fanno quel che gli viene detto.
C'è qualcosa di peggiore delle fruste nell'Impero, proprio come ha detto Cohen.
Capisce che ci si aspetta che s'inginocchi spontaneamente. Si accovaccia con le mani
leggermente poggiate di fronte a lui.
“Mi chiedevo se,” commenta con vivacità, sollevandosi in posizione da blocchi di
partenza, “posso richiamare la vostra attenzione su un famoso detto?”

Cohen ha una certa familiarità con le porte delle città. Ne ha buttate giù parecchie ai
suoi tempi, con l'ariete, assediandole armato e, una volta, a testate.
Ma le porte di Hunghung sono porte dannatamente buone. Non sono come le porte di
Ankh-Morpork, che di solito restano spalancate per attirare clienti danarosi e la cui
unica concessione ad una qualche strategia difensiva consiste in un cartello con scrit-
to “Grazie Perché Non Attaccate La Nostra Città. Bonum Diem.” Queste qui sono
enormi, in metallo e difese da un corpo di guardia e da una pattuglia affatto incorag-
giante di uomini con indosso delle armature nere.
“Prof?”
“Si, Cohen?”
“Perché lo stiamo facendo? Credevo che saremmo ricorsi all'anatra invisibile del sor-
cio.”
Il Signor Cervellata scrolla un dito.
“Quella è per la Città Proibita soltanto. Spero che la troveremo all'interno. Dunque,
ricordatevi le lezioni,” dice. “E' fondamentale che impariate tutti come comportarvi
in città.”
“Io lo so come diavolo ci si deve comportare in città,” commenta Rotella l’Incivile.

112
“Saccheggiare, rapire, racimolare, dare fuoco al dannato posto prima di andarsene. E'
come nei villaggi, solo che ci vuole più tempo.”
“Il che va più che bene quando si è solamente di passaggio,” replica il Signor Cervel-
lata, “ma che succede se si vuole ritornarci il giorno dopo?”
“Non ci sarà più un accidente di buono il giorno dopo, mister.”
“Signori! Abbiate pazienza con me. Dovrete imparare ad essere civili!”
Le persone non possono passare e basta. Bisogna fare la fila. E le guardie si radunano
minacciose attorno ad ogni visitatore intimidito per esaminarne i documenti.
E' il turno di Cohen.
“Documenti, vecchio?”
Cohen annuisce allegramente ed allunga al capitano della guardia un pezzo di carta
con su scritto, nella migliore calligrafia del Signor Cervellata:
SIAMO DEI PAZZI VAGABONDI SENZA DOCUMENTI. SCUSATECI.
La guardia solleva lo sguardo dal biglietto ed incrocia il sorriso smagliante di Cohen.
“Ma davvero,” dice sgarbatamente. “Non puoi parlare, nonno?”
Cohen, sempre sorridendo, si rivolge al Signor Cervellata con fare interrogativo.
Questa parte non l'hanno ripassata.
“Stupido idiota,” dice la guardia.
Il Signor Cervellata pare oltraggiato. “Credevo doveste mostrare particolare conside-
razione per i pazzi!” esclama.
“Non potete essere pazzi senza un documento che attesta che siete pazzi,” replica la
guardia.
“Oh, ne ho abbastanza,” esordisce Cohen. “Dicevo che non funzionava se beccava-
mo una guardia tonta.”
“Villano insolente!”
“Mai insolente quanto i miei amici qui presenti,” ribatte Cohen.
L'Orda annuisce.
“Che siamo noi, piedipiatti.”
“Fatti arrostire.”
“Cusa?”

113
“Soldato estremamente sciocco.”
“Cusa?”
Il capitano è colto alla sprovvista. L'abitudine all'obbedienza è profondamente radi-
cata nella psiche Agateana. Tuttavia, la venerazione dei propri antenati ed il rispetto
per gli anziani sono addirittura più forti ed il capitano non ha mai visto nessuno di
così vecchio ancora in posizione verticale. Praticamente sono degli antenati. Di sicu-
ro quello sulla sedia a rotelle puzza come se lo fosse.
“Conduceteli al corpo di guardia!” grida.
L'Orda si lascia condurre per mano ed in maniera assai convincente. Il Signor Cer-
vellata ha passato ore ad allenarli, consapevole di avere a che fare con degli uomini
la cui reazione ad un leggero colpetto sulla spalla consiste nel voltarsi e mozzare di
netto il braccio di qualcuno.
Il corpo di guardia straripa, per via dell'Orda, delle guardie e della sedia a rotelle di
Hamish il Matto. Una delle guardie abbassa gli occhi su Hamish, che si guarda in
giro torvo con sopra la coperta.
“Che hai lì, nonno?”
Una spada emerge dalla stoffa e si conficca nella coscia della guardia.
“Cusa? Cusa? Cusadicce?”
“Ha detto “Aargh!”, Hamish,” risponde Cohen, nella cui mano è comparso un coltel-
lo. In un sol gesto le sue braccia ossute stringono il capitano in una morsa, con la
lama alla gola.
“Cusa?”
“Ha detto “AARGH!””
“Cusa? Non sono neppure sposato!”
Cohen aumenta leggermente la pressione sul collo del capitano.
“Allora, amico,” dice. “Possiamo risolverla con le buone, come vedi, oppure con le
cattive. A te la scelta.”
“Maiale succhiasangue! Tu queste le chiami le buone?”
“Beh, non sono io quello che sta sudando.”
“Ti auguro di vivere momenti interessanti! Preferirei morire piuttosto che tradire

114
l'Imperatore!”
“Sta bene.”
Il capitano ci mette non più di un decimo di secondo a capire che Cohen, essendo un
uomo di parola, presume che lo siano anche gli altri. Avrebbe dovuto riflettere, ad
averne il tempo, che lo scopo della civiltà è di ricorrere alla violenza solo come risor-
sa estrema, mentre per un barbaro è la prima, preferibile, unica e soprattutto più di-
vertente soluzione. Ma è già troppo tardi. Precipita in avanti.
“Io trascorro sempre momenti interessanti,” dice Cohen, con il tono soddisfatto di
qualcuno che si dà molto da fare affinché rimangano interessanti.
Rivolge il coltello contro le altre guardie. La bocca del Signor Cervellata è spalanca-
ta dal terrore.
“Di regola toccherebbe a me pulire,” dice Cohen. “Ma non c'ho senso a disturbarmi
se si sporca di nuovo. Quindi, fosse per me vi ammazzerebbe subito tutti ma Prof,
qui, dice che devo smettere di fare così e diventare rispettabile.”
Una delle guardie guarda i compagni di sottecchi e poi si getta in ginocchio.
“Cosa desiderate, o padrone?” chiede.
“Ah, un ufficiale ragionevole,” replica Cohen. “Come ti chiami, compare?”
“Nove Alberi Aranciati, padrone.”
Cohen guarda il Signor Cervellata.
“Che faccio adesso?”
“Falli prigionieri, per favore.”
“Come si fa?”
“Ebbene… Immagino si debba legarli insieme o una cosa del genere.”
“Ah. E poi li sgozzo?”
“No! No. Capisci, una volta concessagli la clemenza, non ti è consentito ucciderli.”
L'Orda d'Argento, senza eccezioni, guarda fissa l'ex insegnante. “Temo che la civiltà
è sempre così che funziona,” aggiunge.
“Ma dicevate che questi bastardi non avevano manco una stramaledetta arma!” escla-
ma Rotella.
“Esatto,” replica il Signor Cervellata, con un leggero brivido. “Perciò non vi è per-

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messo ucciderli.”
“Siete fuori di testa? Avete dei documenti da matto, vero?”
Cohen si gratta il mento ispido. Le guardie rimaste lo osservano trepidanti. Sono abi-
tuate alla crudeltà ed alle punizioni inusuali, ma non anche a sentirne discutere pri-
ma.
“Non hai molta pratica militare, vero Prof?” domanda.
“Oltreché indiretta? Non tanta. Temo, però, che non si possa fare altrimenti. Mi di-
spiace. Avevi detto che volevi -”
“Beh, io voto per sgozzarli tutti subito,” lo interrompe Giovane Willie. “Non ci posso
avere a che fare con queste robe di prigionieri. Voglio dire, chi gli darebbe da man-
giare?”
“Temo dovreste farlo voi.”
“Chi, io? Nemmeno per sogno! Io voto per fargli ingoiare le palle degli occhi. Alzi la
mano chi è a favore.”
Dall'Orda si leva un coro di consensi e, tra le mani alzate, Cohen nota quella di Nove
Alberi Aranciati.
“Per cosa voti, compare?” chiede.
“Per favore, signore, vorrei poter andare in bagno.”
“Voi, statemi tutti a sentire,” dice Cohen. “Questa cosa del massacrare e macellare è
sorpassata oramai, d’accordo? Così dice il Signor Cervellata e lui sa come si scrivo-
no parole come “marmellata” che è più di quanto sapete voi. Perciò, sappiamo perché
siamo qui e sarà meglio che iniziamo a darci da fare se vogliamo andare avanti.”
“Già, ma tu hai appena ucciso quella guardia,” ribatte Rotella.
“Sto ancora facendo pratica,” risponde Cohen. “La civiltà bisogna impararla un pez-
zo alla volta.”
“Io insisto che dovremmo tagliargli la testa. E' questo che ho fatto al Demone Matto
Succhiapreti di Ee!”
La guardia inginocchiata alza nuovamente la mano circospetta.
“Per favore, maestro?”
“Si, compare?”

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“Potreste rinchiuderci in quella cella laggiù. Così non saremmo più d'impiccio a nes-
suno.”
“Bella pensata,” commenta Cohen. “Bravo ragazzo. Il ragazzo sa conservarsi la testa
nei momenti di crisi. Rinchiudeteli.”
Trenta secondi dopo l'Orda esce zoppicando e si avvia per la città.
Le guardie rimangono sedute nella cella angusta e calda.
Alla fine una dice, “Chi erano quelli?”
“Penso possano essere degli antenati.”
“Credevo si dovesse essere morti per diventare antenati.”
“Quello sulla sedia a rotelle sembrava morto. Almeno finché non ha infilzato Quattro
Volpi Bianche.”
“Dovremmo gridare per farci venire ad aiutare? Dovrebbero sentirci”
“Si, ma se non lo facciamo saremo costretti a restare qui. E le pareti sono molto spes-
se e la porta è davvero resistente.”
“Meglio.”

Scuotivento smette di correre in qualche vicolo chissà dove. Non si preoccupa di


controllare se lo stanno seguendo. E' vero – da queste parti, con uno scatto potente, si
può essere liberi. A patto che si riesca a capire che è una delle opzioni possibili.
La libertà, naturalmente, comprende l'antico diritto che ha un uomo non più giovane
di morire di fame. Sembra passata un'eternità dal suo ultimo vero pasto.
La voce irrompe più in là verso la fine del vicolo, neanche fosse fatto apposta.
“Tortini di riso! Tortini di riso! Comprate deliziosi tortini di riso fatti in casa! Tè!
Uova Centenarie! Compratele finché sono belle d'annata! Comprate deliz – Si, que-
sto cos'è?”
Un uomo anziano ha raggiunto il venditore.
“Rovinha-san, l'uovo che mi hai venduto -”
“Cos'ha, venerabile signore?”
“Vorreste cortesemente annusarlo?”
L'ambulante gli dà un'annusata.

117
“Ah, si, delizioso.” commenta.
“Delizioso? Delizioso? Quest'uovo”, lamenta il cliente, “quest'uovo, in pratica, è fre-
sco!”
“Se un giorno vale cent'anni, shogun,” replica allegramente il venditore. “Guardate il
colore del guscio, uniforme e nero -”
“Viene via!”
Scuotivento ascolta. Probabilmente, pensa, c'è qualcosa di vero nell'idea che il mon-
do è piccolo e fatto di poche persone. Ci sono un sacco di corpi, ma solamente poche
persone. Ecco perché si continua ad incontrare sempre le stesse. Magari da qualche
parte c'è conservato uno stampo.
“Dici tu che i miei prodotti sono freschi! Potessi Sbudellarmi Onorevolmente! Ascol-
ta, ecco cosa farò -”
Si, sembra proprio esserci qualcosa di familiare e di magico nell'affarista. Arriva
qualcuno a lamentarsi di un uovo fresco e tuttavia, nel giro di un paio di minuti, in
qualche maniera viene persuaso a lasciar perdere ed a comprare due tortini di riso ed
un qualcosa di strano avvolto nelle foglie.
I tortini di riso hanno un bell'aspetto. Quantomeno, migliore delle altre cose.
Scuotivento sgattaiola fuori. Il venditore, per passare il tempo, accenna qualche pas-
so di danza saltellando con i piedi e fischiettando piano, ma s'interrompe per rivolge-
re un largo, onesto, amichevole sorriso a Scuotivento.
“Un bell'uovo antico, shogun?”
La ciotola al centro del vassoio è piena di monete d'oro. Scuotivento si sente manca-
re. Con il prezzo di una delle uova taroccate del Signor Rovinha ad Ankh-Morpork ci
si potrebbe comprare una strada.
“Immagino non facciate… credito?” suggerisce.
Rovinha gli lancia un'occhiataccia.
“Fingerò di non aver sentito, shogun,” risponde.
“Ditemi,” continua Scuotivento. “Per caso avete qualche parente oltremare?”
Il che gli vale un'altra occhiataccia – di traverso, ed oltre modo indagatoria.
“Che cosa? Non c'è niente al di là del mare se non demoniaci fantasmi succhia san-

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gue. E' risaputo, shogun. Mi sorprende che non lo sappiate.”
“Fantasmi?” domanda Scuotivento.
“Che cercano di arrivare qui, per farci del male,” risponde Potessi-Sbudellarmi-Ono-
revolmente. “Magari persino rubarci la merce. Che s'ingoino una bella dose di bei
vecchi fuochi d'artificio, dico io. Non ci piacciono i botti belli forti, ai fantasmi.”
Riserva un'altra occhiataccia a Scuotivento, se possibile più lunga e più calcolatrice.
“Di dove vieni, shogun?” chiede, e nel tono della voce compare un'improvvisa punta
di sospetto.
“Bes Pelargic,” risponde in fretta Scuotivento. “Ecco il perché del mio buffo accento
e delle peculiarità che potrebbero altrimenti indurre le persone a pensare che sia una
specie di straniero,” aggiunge.
“Oh, Bes Pelargic,” commenta Potessi-Sbudellarmi-Onorevolmente. “Beh, in tal caso
di certo conosci il mio vecchio amico Cinque Lingue che abita in via dei Paradisi,
si?”
Scuotivento è preparato a questo vecchio trucco
“No,” risponde. “Mai sentito nominare, neppure la via.”
Potessi-Sbudellarmi-Onorevolmente spalanca un sorriso esultante. “Se grido “diavo-
lo straniero” abbastanza forte non riuscirai a fare più di tre passi,” parla in tono collo-
quiale. “Le guardie ti trascineranno via e ti porteranno nella Città Proibita, dove fan-
no questa cosa particolare con -”
“Ne ho sentito parlare,” Scuotivento lo interrompe.
“Cinque Lingue è stato Commissario Distrettuale per tre anni e via dei Paradisi è il
viale principale,” dice Potessi-Sbudellarmi-Onorevolmente. “Ho sempre voluto in-
contrare un fantasma straniero succhiasangue. Prendi un tortino di riso.”
Lo sguardo di Scuotivento schizza da una parte all'altra. Ma, cosa strana, la situazio-
ne non sembra essere pericolosa o, perlomeno, irrimediabilmente pericolosa. A quan-
to pare il pericolo è negoziabile.
“Supponiamo che ammettessi che provengo dall'altra parte della Muraglia?” azzarda,
mantenendo un tono di voce quanto più basso possibile.
Rovinha annuisce. Infila una mano nella veste e, con un movimento lesto, rivela e su-

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bito nasconde l'angolo di qualcosa che Scuotivento non è del tutto sorpreso di sco-
prire intitolarsi COSA HO FATTO…
“Alcuni sostengono che al di là della Muraglia non c'è nient'altro che deserto e fiam-
me sconfinate e fantasmi diabolici e mostri terribili,” dice Rovinha, “ma che mi dici
delle possibilità di espansione commerciale? Un uomo con i contatti giusti… Capisci
cosa intendo, shogun? Potrebbe fare un sacco di strada nella terra dei fantasmi suc-
chiasangue.”
Scuotivento annuisce col capo. Non intende porre l'accento sul fatto che se qualcuno
si presentasse ad Ankh-Morpork con una manciata d'oro, allora all'incirca trecento
persone si presenterebbero con una manciata d'acciaio.
“Per come la vedo io, tra l'Imperatore mezzo e mezzo e le voci di una ribellione e tut-
to il resto – Lunga Vita A Sua Eccellenza Il Figlio Del Paradiso, naturalmente – po-
trebbe giusto esserci una nicchiotta per un commerciante dalla mente pronta, ho ra-
gione?”
“Nicchiotta?”
“Nicchiotta. Del tipo… abbiamo questa roba”, si avvicina, “viene fuori dal [pitto-
gramma non identificato] dei bruchi. Si chiama… seta. E' -”
“Si, la conosco. Noi la importiamo da Klatch,” commenta Scuotivento.
“Oh, beh, c'è questo cespuglio, sai, secchi le foglie ma poi le metti nell'acqua bollen-
te e bev -”
“Il tè, si,” lo interrompe Scuotivento. “Quello lo importiamo da Howondaland.”
D.M.H. Rovinha ha l'aria di essere stato preso in contropiede.
“Allora… abbiamo questa polvere, la metti nei tu -”
“Fuochi d'artificio. Ce li abbiamo i fuochi d'artificio.”
“Che ne pensi di questa squisita porcellana, è cos -”
“Ad Ankh-Morpork abbiamo dei nani capaci di fare una porcellana che ci puoi legge-
re un libro attraverso,” dice Scuotivento. “Anche se ha delle note a piè di pagina pic-
colissime.”
Rovinha aggrotta la fronte.
“A quanto pare siete dei fantasmi succhiasangue dannatamente intelligenti,” replica

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arretrando. “Forse è vero e tu sei pericoloso.”
“Noi? Non preoccuparti di noi,” commenta Scuotivento. “A malapena abbiamo mai
ucciso gli stranieri ad Ankh-Morpork. Sarebbe quasi impossibile vendergli qualcosa,
dopo.”
“Cos'è che noi abbiamo e voi volete, allora? Continua, serviti un tortino di riso. Sulla
pagoda. Vuoi provare delle polpette di maiale? Sullo stecco?”
Scuotivento sceglie un tortino. Non vuole saperne dell'altra roba.
“Voi avete l'oro,” dice.
“Oh, l'oro. E' troppo morbido per farci granché,” replica Rovinha. “Va bene per i
flauti e per coprirci i tetti, però.”
“Oh… Io dico che ad Ankh-Morpork saprebbero bene come impiegarlo,” ribatte
Scuotivento. Il suo sguardo torna a posarsi sulle monete sopra il vassoio di Rovinha.
Una terra in cui l'oro vale quanto il piombo…
“Quello cos'è?” chiede, puntando l'indice su un rettangolo stropicciato mezzo coperto
dalle monete.
D.M.H. Rovinha abbassa lo sguardo. “E' una cosa che abbiamo qui,” risponde, par-
lando lentamente. “Chiaro che, probabilmente, per te è tutta una novità. Si chiamano
soldi. Così ci si porta appresso -”
“Intendo il pezzo di carta,” lo interrompe Scuotivento.
“Anch'io,” insiste Rovinha. “Quello è un biglietto da dieci rhinu.”
“Che significa?” domanda Scuotivento.
“Significa quello che c'è scritto,” spiega Rovinha. “Significa che vale dieci di que-
ste.” Gli mostra una moneta d'oro più o meno della misura di un tortino di riso.
“Perché mai vorreste comprarvi un pezzo di carta?” chiede Scuotivento.
“Non si compra, si usa per comprare le cose,” risponde Rovinha.
Scuotivento ha l'aria di non riuscire a capire.
“Vai a un banco del mercato,” spiega Rovinha, di nuovo con il tono lento che si riser-
va ai tonti, “e dici “Buongiorno macellaio, quanto per quei nasi di cane?” e lui ri -
sponde “Tre rhinu, shogun,” e tu dici, “Ho solo un pony, d'accordo?” (vedi, c'è inciso
sopra un pony, guarda, è questo che trovi sui biglietti da dieci rhinu) e lui ti dà i nasi

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di cane e sette monete in quello che noi chiamiamo “cambio”. Però, se hai una scim-
mia, che vale cinquanta rhinu, ti dirà “Non hai niente di più piccolo?” e -”
“Ma è un semplice pezzo di carta!” protesta Scuotivento.
“Per te sarà pure un pezzo di carta, ma per me sono dieci tortini di riso,” ribatte
Rovinha. “Voi succhiasangue stranieri che usate? Delle grosse pietre con un buco in
mezzo?”
Scuotivento fissa la banconota.
Ci sono dozzine di cartiere ad Ankh-Morpork e alcuni mastri della Gilda degli Inci-
sori sanno incidere il loro nome ed indirizzo sulla capocchia di uno spillo. D'improv-
viso si sente immensamente orgoglioso dei suoi concittadini. Saranno pure veniali ed
avidi, ma grazie al cielo sanno esserlo bene e non credono mai che non ci sia più
niente da imparare.
“Penso che scoprirai,” risponde, “che ci sono un sacco di edifici ad Ankh-Morpork
che hanno bisogno di un tetto nuovo.”
“Davvero?” replica Rovinha.
“Oh, si. Ci piove dentro.”
“E la gente può permettersi di pagare? E' che ho sentito -”
Scuotivento guarda di nuovo la banconota. Scuote la testa. Vale più dell'oro…
“Pagheranno con biglietti buoni almeno quanto questi,” risponde. “Probabilmente an-
che migliori. Metterò una buona parola per te. E adesso,” aggiunge frettolosamente,
“da che parte per l'uscita?”
Rovinha si gratta la testa.
“Potrebbe risultare un po' complicato,” dice. “Ci sono gli eserciti fuori. Hai un'aria
un po' straniera con quel cappello. Potrebbe risultare un po' complicato -”
Più in là nel vicolo si sente un gran baccano o, semmai, un più generale incremento
del baccano. La folla si divide alla maniera spiccia delle folle disarmate di fronte alle
armi ed un gruppo di guardie corre nella direzione di Potessi-Sbudellarmi-Onorevol-
mente. Che indietreggia sorridendogli con la cordialità di uno felice di praticare uno
sconto a chiunque abbia un coltello.
Due guardie trascinano qualcuno zoppicante. Quando gli passa davanti solleva leg-

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germente la testa insanguinata e riesce a dire “Durata Indeterminata all'Es -” prima
che un pugno inguantato lo colpisca sulla bocca.
Dopodiché le guardie raggiungono il fondo della strada. E la folla si ricompone.
“Ahiahi,” dice D.M.H. “Sembra che – Ehilà? Dove sei finito?”
Scuotivento ricompare da dietro un angolo. D.M.H. è impressionato. Quando Scuoti-
vento si è mosso si è sentito per davvero il suono di un piccolo fulmine.
“Ne hanno preso un altro. Probabilmente stava attaccando dei manifesti, immagino.”
“Un altro di cosa?” chiede Scuotivento.
“Dell'Esercito Rosso. Uh!”
“Oh.”
“Non ci bado troppo,” aggiunge D.M.H. “Dicono che qualche vecchia leggenda sugli
imperatori ed altra roba del genere sta per diventare vera. Io non ci credo.”
“Il tizio non aveva niente di leggendario, mi è parso”, replica Scuotivento.
“Già, certe persone se le bevono tutte.”
“Che gli faranno?”
“Difficile dirlo, per via dell’Imperatore che è quasi morto. Gli taglieranno mani e
piedi, probabilmente.”
“Che cosa? Perché?”
“Perché e giovane. Come gesto d’indulgenza. Un pelo più vecchio e ci infilavano la
sua testa ad uno degli spuntoni sopra le porte della città”.
“E’ questa la pena per aver attaccato un manifesto?”
“Così non lo fanno un’altra volta, capisci,” risponde D.M.H.
Scuotivento prende le distanze.
“Grazie,” dice, e corre via. “No, no,” dice, facendosi strada a forza tra la folla. “Non
mi farò coinvolgere da persone che si faranno tagliare la testa -”
E poi viene colpito di nuovo. Ma educatamente. Mentre cade sulle ginocchia, e poi
sul mento, si chiede che fine abbia fatto il buon vecchio “Ehi, tu!”

L’Orda d’Argento vaga per i vicoli di Hunghung.


“Non è mica così che si invade una città e si massacra ogni bastardo presente,” bron-

123
tola Rotella. “Quando stavo con Bruce l’Unno, non abbiamo mai attraversato la porta
di una città come un branco di femminucce fot -”
“Signor Incivile,” interviene in fretta il Signor Cervellata, “credete sia il momento
giusto per rammentarvi di quella lista che ho preparato per voi?”
“Quale maledetta lista?” replica Rotella, facendo sporgere la mascella con aria di sfi-
da.
“La lista delle parole civili accettabili, si?” Si rivolge agli altri. “Ricordatevi di quan-
to vi ho detto sul comportarsi ci-vil-men-te. Per la nostra strategia a lungo termine
una condotta civile è di vitale importanza.”
“Cos’è una strategia a lungo termine?” domanda Caleb lo Squartatore.
“E’ quello che faremo in seguito,” risponde Cohen.
“E cos’è, dunque?”
“E’ il Piano,” dice Cohen.
“Beh, farò una c -” comincia Rotella.
“La lista, Signor Incivile, solo le parole sulla lista,” scatta il Signor Cervellata. “Sen-
tite, m’inchino alla vostra competenza quando si tratta di affrontare la natura selvag-
gia, ma qui siamo nel mondo civile e perciò dovete adoperare delle parole adeguate.
Per favore?”
“Meglio fare come dice, Rotella,” lo redarguisce Cohen.
Rotella, di malavoglia, pesca un sudicio pezzo di carta dalla tasca e lo spiega.
““Acciderba?”” legge. “Chessarebbe? E che è questo “accidempoli” e “diamine”?”
“Si tratta di … imprecazioni civili,” risponde il Signor Cervellata.
“Beh, puoi prenderle e -”
“Ah?” lo blocca il Signor Cervellata, alzando un dito ammonitore.
“Puoi infilartele su -”
“Ah?”
“Puoi -”
“Ah?”
Rotella chiude gli occhi e stringe i pugni.
“Acciderba tutti gli accidempoli!” grida.

124
“Ottimo,” commenta il Signor Cervellata. “Così va molto meglio.” Si rivolge a Co-
hen, che ridacchia allegramente per le difficoltà di Rotella. “Cohen,” dice, “c’è un
banco di mele laggiù. Gradiresti una mela?”
“Si, forse,” ammette Cohen, con i modi cauti di qualcuno che consegna il proprio
orologio al prestigiatore, benché pienamente consapevole che l’uomo sta sorridendo
sardonico con un martello in mano.
“Bene. Dunque, bambi -, intendevo signori. Gengis vorrebbe una mela. Là c’è un
banco che vende frutta e noci. Cosa fa?” Il Signor Cervellata guarda ottimista i suoi
alunni. “Nessuno? Si?”
“Semplice. Ammazza il piccolo - si sente di nuovo un fruscio di carta spiegata - tizio
dietro il banco, poi -”
“No, Signor Incivile. Nessun’altro?”
“Cusa?”
“Dà fuoco a -”
“No, Signor Vincent. Nessun’altro...?”
“Saccheggia -”
“No, no, Signor Squartatore,” lo interrompe il Signor Cervellata. “Estrae una mo-
mo-?” Li guarda con l’aria di aspettarsi qualcosa.
“- moneta” risponde l’Orda in coro.
“- e poi… Cosa fa? Forza, l’abbiamo ripassato centinaia di volte. La…” Questa è la
parte più difficile. I visi dell’Orda s’increspano e raggrinziscono ancora di più mentre
cercano di costringere le proprie menti ad emergere dagli abissi dell’abitudine.
“Di...?” biascica Cohen esitante. Il Signor Cervellata gli fa un gran sorriso ed annui-
sce in segno d’incoraggiamento. “Diamo?... La diamo…” Le labbra di Cohen s’irri-
gidiscono nel pronunciare questa parola “… a lui?”
“Giusto! Ben fatto. In cambio della mela. Più avanti, quando sarete pronti, parleremo
del fare scambi e dire “grazie”. E adesso, Cohen, ecco la moneta. Vai.”
Cohen si deterge la fronte: sta cominciando a sudare.
“Andrebbe bene se lo tagliuzzassi appena un po’ su -”
“No! Qui siamo nella civiltà.”

125
Cohen annuisce imbarazzato. Raddrizza le spalle e dirige alla bancarella, dove il ven-
ditore di mele, che già prima ha osservato il gruppetto con sospetto, lo saluta con un
cenno del capo.
Gli occhi di Cohen diventano vitrei e le labbra si muovono mute, come se stesse ri -
passando una parte. Poi dice: “Ohè, grasso mercante, dammi tutte… una mela… ed
io ti darò… questa moneta…” Si guarda intorno. Il Signor Cervellata alza il pollice.
“Vuoi una mela, nient’altro?” domanda il venditore di mele.
“Si!”
Il venditore di mele ne seleziona una. La spada di Cohen è nuovamente nascosta sul-
la sedia a rotelle ma il venditore, come reagendo ad un sorta di consapevolezza ance-
strale, si assicura che sia un’ottima mela. Poi prende la moneta. Non senza qualche
difficoltà, poiché il cliente sembra riluttante a lasciarla andare.
“Su, lasciatela, venerabile,” dice.
Trascorrono sette densi secondi.
Dopo, quando sono al sicuro dietro l’angolo, il Signor Cervellata domanda: “Allora,
chi sa dirmi cosa ha sbagliato Gengis?”
“Non ha detto per favore?”
“Cusa?”
“No.”
“Non ha detto grazie?”
“Cusa?”
“No.”
“Ha dato al tizio una botta in testa con un melone e l’ha sbattuto in mezzo alle frago-
le e l’ha preso a calci sulle noci ed ha incendiato la bancarella ed ha rubato tutto il
denaro?”
“Cusa?”
“Esatto!” Il Signor Cervellata sospira. “Gengis, stavi andando così bene.”
“Non avrebbe dovuto chiamarmi come ha fatto!”
“Ma “venerabile” significa vecchio e saggio, Gengis.”
“Oh. Sul serio?”

126
“Si.”
“Ep-però… Gli ho lasciato i soldi della mela.”
“Si ma, vedi, credo tu gli abbia preso tutti gli altri soldi.”
“Ma la mela l’ho pagata,” ribatte Cohen in tono piuttosto seccato.
Il Signor Cervellata sospira. “Gengis, ho la netta sensazione che migliaia di anni di
studi certosini su ciò che è appropriato da un punto di vista fiscale in qualche modo ti
hanno scavallato.”
“Come, scusa?”
“Qualche volta è possibile che il denaro appartenga legittimamente a qualcun altro,”
spiega pazientemente il Signor Cervellata.
L’Orda ha bisogno di un momento per riuscire a far afferrare anche questo alle pro-
prie menti. In teoria, naturalmente, lo sanno che è la verità. I commercianti hanno
sempre del denaro. Però non sembra corretto pensare che gli appartenga: appartiene a
chiunque glielo sottrae. Non appartiene veramente ai commercianti, i quali si limita-
no a custodirlo fintanto che non viene reclamato da altri.
“D’accordo, là c’è un’anziana signora che vende le anatre,” dice il Signor Cervellata.
“La fase successiva - Signor Willie, non sono da quella parte, sono certo che qualun-
que cosa stia guardando sia molto interessante, ma la prego di non distrarsi - consiste
nel testare la nostre competenze in fatto di relazioni sociali.”
“Hi, hi, hi,” ridacchia sardonico Caleb lo Squartatore.
“Intendo dire, Signor Squartatore, che dovrete informarvi su quanto costa un’anatra,”
dice il Signor Cervellata.
“Hi, hi, hi – Che cosa?”
“E non le strapperete tutti i vestiti. Non è una cosa civile da farsi.”
Caleb si gratta la testa. Dalla quale cadono delle scaglie.
“Allora che dovrei fare?”
“Ehm… conversare con lei”
“Eh? Di che dovrei parlarci con una donna?”
Il Signor Cervellata esita di nuovo. Trattasi di materia della quale, per buona misura,
non sa niente neppure lui. La sua esperienza in fatto di donne, nella sua ultima scuo-

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la, si è limitata a qualche chiacchiera con la governante ed una volta la tenutaria gli
ha permesso di metterle una mano sul ginocchio. Solo a quarant’anni ha scoperto che
sesso orale non significava parlarne. Ha sempre considerate le donne come creature
strane, distanti e meravigliose, piuttosto che, a differenza degli altri uomini
dell’Orda, qualcosa da farsi. Si trova un po’ in difficoltà.
“Del tempo?” azzarda. La memoria ricorre ai vaghi ricordi dei principali argomenti
di conversazione con la zia nubile che l’ha cresciuto. “Della salute? Del problema dei
giovani d’oggi?”
“E dopo le strappo i vestiti?”
“Forse. Dopo. Se lei lo vuole. Devo richiamare la tua attenzione su quanto discusso
l’altro giorno relativamente al farsi regolarmente il bagno?” - o almeno un bagno, ag-
giunge tra sé – “e tagliarsi le unghie ed i capelli e cambiarsi più spesso i vestiti?”
“Questa è pelle,” risponde Caleb. “Non c’è bisogno di cambiarla, ci mette degli anni
ad imputridirsi.”
Il Signor Cervellata è costretto per l’ennesima volta a rivedere il proprio punto di vi-
sta. Credeva che la Civiltà potesse coprire l’Orda come una sorta di patina esterna.
Sbagliato. La cosa buffa, tuttavia – riflette, intanto che l’Orda osserva i penosi tenta-
tivi di Caleb di conversare con una rappresentante dell’altra metà del mondo umano
– è che nonostante siano quanto più differenti possibile dal genere di persone con le
quali normalmente si mescolerebbe in una sala professori, o forse proprio perché
sono quanto più possibile differenti dal genere di persone con le quali normalmente
si mescolerebbe in una sala professori, gli piacciono. Per ciascuno di loro un libro
vale sia come accessorio scatologico sia come esca per il fuoco portatile ed è convin-
to che l’igiene sia una forma di saluto. Però sono schietti (dal loro specialissimo pun-
to di vista) e onesti (dal loro specialissimo punto di vista) e considerano il mondo
come enormemente semplice. Rubano ai mercanti ricchi, nei templi ed ai re. Non ru-
bano alla povera gente; non perché la povera gente ha una qualche dote, ma sempli-
cemente perché la povera gente non ha soldi. E sebbene non si propongano di dare i
soldi ai poveri, comunque è ciò che fanno (sempreché si considerino poveri i locan-
dieri, le signore la cui virtù è negoziabile, i borseggiatori, i giocatori d’azzardo ed i

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parassiti in generale), perché nonostante siano capaci di percorrere lunghe distanze
per rubare dei soldi, alla fine ne hanno un controllo pari a quello di un uomo che cer-
ca di radunare una branco di gatti impazziti ad un incrocio. Li rubano per spenderli o
perderli. Sicché garantiscono il ricircolo del denaro, la qualcosa è sempre encomiabi-
le in qualunque società.
Non si preoccupano mai di ciò che pensano gli altri. Il Signor Cervellata, che ha tra-
scorso una vita intera a preoccuparsi dell’opinione degli altri e, come risultato, non è
mai stato preso in considerazione per una promozione e, più in generale, è stato trat-
tato come un pezzo di arredamento, trova questo modo di fare stranamente allettante.
E non si tormentano pressoché mai per qualcosa né si domandano mai se stanno fa-
cendo la cosa giusta. E si divertono sempre immensamente. Hanno una specie di sen-
so dell’onore. Gli piace l’Orda. Non sono come quelli della sua razza.
Caleb torna indietro e pare insolitamente pensieroso.
“Congratulazioni, Signor Squartatore!” esclama il Signor Cervellata, convinto soste-
nitore delle frasi d’incoraggiamento. “Sembra che abbia ancora tutti i vestiti addos-
so.”
“Già, che t’ha detto?” domanda Giovane Willie.
“Mi ha sorriso,” risponde Caleb. Si gratta a disagio la barba incolta. “Un po’, alme-
no,” aggiunge.
“Bene,” commenta il Signor Cervellata.
“Lei, ehm… dice dice che… non le dispiacerebbe vedermi… più tardi…”
“Ben fatto!”
“Ehm… Prof? Cos’è una rasatura?”
Cervellata glielo spiega. Caleb ascolta con attenzione, con qualche smorfia occasio-
nale. Di quando in quando si volta a guardare la venditrice di anatre, che lo saluta
con un cenno della mano.
“Acci,” dice. “Ehm. Nonso…” Si volta di nuovo. “E’ la prima volta che incontro una
donna che non si mette subito a scappare.”
“Oh, le donne sono come i cervi,” commenta Cohen saccente. “Non puoi semplice-
mente caricarle, devi braccarle -”

129
“Sississi – Mi dispiace,” dice Caleb, incontrando lo sguardo intransigente del Signor
Cervellata.
“Penso sia meglio che la lezione termini qui,” suggerisce il Signor Cervellata. “Non
vorremmo diventassi troppo civilizzato, no…? Propongo di fare due passi attorno
alla Città Proibita, d’accordo?”
L’hanno vista tutti. Domina il centro di Hunghung. Le mura sono alte dodici metri.
“Ci sono un mucchio di guardie ai cancelli,” sottolinea Cohen.
“Devono. C’è un grande tesoro al suo interno,” replica il Signor Cervellata. Tuttavia,
tiene gli occhi bassi. Sembra essere concentrato sul suolo, come se stesse cercando
qualcosa che ha perso.
“Perché semplicemente non ci precipitiamo là ed ammazziamo tutte le guardie?” do-
manda Caleb. Ancora un po’ scosso.
“Cusa?”
“Non fare lo stupido,” risponde Cohen. “Ci porterebbe via tutto il giorno. Comun-
que,” aggiunge, sentendosi suo malgrado orgoglioso, “Prof, qui, ci procurerà un’ana-
tra invisibile, non è così, Prof?”
Il Signor Cervellata s’immobilizza.
“Ah. Eureka,” dice.
“E’ Efebiano, ecco cos’è,” spiega Cohen all’Orda. “Significa “Passami un asciuga-
mano.””
“Oh, certo,” commenta Caleb, che sta cercando di districarsi i nodi della barba di na-
scosto. “E quand’è che sei stato ad Efebe?”
“C’ho stato una volta come cacciatore di taglie.”
“A chi davi la caccia?”
“A te, penso.”
“Ah! Mi hai trovato?”
“Nonso. Smuovi la testa e guarda se casca.”
“Ah. Signori… Stupitevi…”
I sandali ortopedici del Signor Cervellata picchiettano un quadrato di metallo orna-
mentale sul terreno.

130
“Stupitevi di cosa?” chiede Rotella.
“Cusa?”
“Dovremmo cercare altri di questi,” dice il Signor Cervellata. “Ma penso che ci sia-
mo. Dobbiamo solamente aspettare che faccia buio.”

E’ in corso una discussione. Scuotivento riesce a distinguere solamente le voci; sulla


testa ha legato un altro sacco, mentre lui stesso è legato ad una colonna.
“Almeno ha l’aspetto di un Grande Mago?”
“E’ quello che c’ha scritto sul cappello nella lingua dei fantasmi -”
“Lo dici tu!”
“Che mi dici del resoconto di Quattro Grossi Sandali, allora?”
“Era sovraccarico. Potrebbe esserselo immaginato!”
“Io no! E’ sbucato fuori dal niente, volando come un dragone! Ha atterrato cinque
soldati. E l’ha visto pure Tre Fortune Massime. E gli altri. E poi ha liberato un anzia-
no e l’ha trasformato in un potente guerriero feroce!”
“E parla la nostra lingua, proprio come dice il libro.”
“D’accordo. E se fosse il Grande Mago? Allora dovremmo ucciderlo subito!”
Nell’oscurità del sacco, Scuotivento scuote la testa furiosamente.
“Perché?”
“Si schiererà con l’Imperatore.”
“Ma la leggenda narra che il Grande Mago guida l’Esercito Rosso!”
“Si, in nome dell’Imperatore Unico Spettro Solare. Annientò il popolo!”
“No, annientò tutti i capi dei banditi! Poi costruì l’Impero!”
“Dunque? L’Impero è così meraviglioso? Prematura Dipartita A Tutte Le Forze
Dell’Oppressione!”
“Ma adesso l’Esercito Rosso sta dalla parte del popolo! Massimo Progresso Con Il
Grande Mago!”
“Il Grande Mago è Nemico del Popolo!”
“L’ho visto, te l’ho detto! Una legione di soldati è collassata al vento del suo passag-
gio!”

131
Il vento del passaggio comincia a spaventare anche Scuotivento. Tira sempre quando
ha paura.
“Se è un mago tanto grande, perché è ancora legato? Perché non ha fatto sparire i lac-
ci in sbuffi di fumo verde?”
“Forse risparmia la magia per una qualche impresa più importante. Non sprecherebbe
dei trucchi col botto per dei lombrichi.”
“Ah!”
“Ed ha il Libro! E’ noi che sta cercando! E’ destino che guidi l’Esercito Rosso!”
Tremarella, tremarella, tremarella.
“Possiamo guidarci da soli!”
Assenso, assenso, assenso.
“Non ci serve nessun Grande Mago dall’aria sospetta e di qualche posto che non esi-
ste!”
Assenso, assenso, assenso.
“Perciò dovremmo ammazzarlo subito!”
Assenso, as – Tremarellatremarellatremarella.
“Ah! Vi prende in giro! Aspetta solo di farvi esplodere la testa in spire di fuoco!”
Tremarella, tremarella, tremarella.
“Lo sapete che mentre discutiamo Tre Tori Addomesticati viene torturato?”
L’Esercito del Popolo conta più del singolo, Fiore di Loto!”
All’interno del sacco puzzolente Scuotivento fa una smorfia. Già ha in antipatia il
primo interlocutore, come normalmente succede con le persone che premono per
metterti a morte senza indugi. Ma quando quel genere di persone comincia a parlare
di cose che sono più importanti del singolo individuo, allora si capisce di essere in
grossi guai.
“Sono certa che il Grande Mago può salvare Tre Tori Addomesticati,” dice una voce
vicino al suo orecchio. E’ Farfalla.
“Si, può certamente salvare Tre Tori Addomesticati senza difficoltà!” esclama Fiore
di Loto.
“Ah! Voi dite? Riuscirebbe ad entrare nella Città Proibita? Impossibile! Equivale a

132
morte certa!”
Assenso, assenso, assenso.
“Non per il Grande Mago,” replica la voce di Farfalla.
“Chiudi il becco!” sibila Scuotivento.
“Preferite scoprire quant’è grossa la mannaia spaccaossa che ha in mano Due Erbe
Urticanti?” sussurra Farfalla.
“No!”
“E’ davvero grossa.”
“Si dice che entrare nella Città Proibita equivale a morte certa!”
“No. E’ solo probabile, come morte. Posso garantirti che se proverai a sfuggirmi an-
cora, quella sarà morte certa.”
Il sacco viene tolto.
La faccia che si trova immediatamente di fronte è quella di Fiore di Loto, ed un
uomo potrebbe vedere cose ben peggiori della sua faccia alla luce del giorno, la quale
lo fa pensare alla crema, a quantità enormi di burro ed alla giusta quantità di sale23.
Una delle cose che avrebbe potuto vedere, ad esempio, poteva essere la faccia di Due
Erbe Urticanti. Non è una bella faccia. E’ grassottella, ha le pupille degli occhi minu-
scole e pare la prova vivente del fatto che, nonostante le persone siano oppresse dai
re, dagli imperatori ed dai mandarini, potrebbero esserlo con altrettanta bravura an-
che dall’uomo della porta accanto.
“Grande Mago? Ah!” esclama Due Erbe Urticanti.
“Lui può riuscirci!” ribatte Fiore di Loto (e crema di formaggio, pensa Scuotivento,
con magari dell’insalata di cavolo di contorno). “Lui è il Grande Mago che è tornato
per noi! Non ha forse guidato il Maestro attraverso le terre dei fantasmi e dei vampiri
succhiasangue?”
“Oh, io non direi -” comincia Scuotivento.
“Un mago tanto grande vi avrebbe permesso di condurlo qui in un sacco?” domanda
Due Erbe Urticanti, sogghignando. “Che ci faccia vedere qualche trucco…”
“Un autentico grande mago non si presta a fare dei trucchetti così per divertimento!”
23 Molto più in là, Scuotivento sarà costretto ad andare in terapia per questo. Saranno coinvolti una
ragazza carina, un gigantesco vassoio di patate ed un bastone enorme con dentro conficcato un chiodo.

133
esclama Fiore di Loto.
“Esatto,” aggiunge Scuotivento. “Niente prestiti.”
“Vergogna a Erbe per averlo suggerito!”
“Vergogna,” concorda Scuotivento.
“Oltretutto, avrà bisogno di tutti i suoi poteri per entrare nella Città Proibita,” dice
Farfalla. Scuotivento si scopre ad odiare il suono della sua voce.
“Città Proibita,” biascica.
“Lo sanno tutti che è piena di insidie e trappole e tante, tante guardie.”
“Insidie, trappole…”
“Perché se la sua magia dovesse fallire per aver fatto qualche trucco per Erbe, si ri-
troverebbe nella più oscura delle segrete a morire a poco a poco.”
“A poco… ehm… quale poco in partic -”
“Vergogna vergogna a Due Erbe Urticanti!”
Scuotivento fa una smorfia nauseata.
“Per la verità,” esordisce. “Non sono così grande. Sono un po’ grande,” aggiunge in
fretta alla vista dello sguardo malevolo di Farfalla, “ma non molto grande -”
“Gli scritti del Maestro raccontano che hai sconfitto tanti maghi potenti e che sei
sempre riuscito a vincere in maniera schiacciante nelle situazioni pericolose.”
Scuotivento annuisce controvoglia. Più o meno corrisponde a verità. Ma per la mag-
gior parte delle volte non è a quello che mirava. Oltretutto la Città Proibita gli pare…
beh… proibita. Non sembra per niente invitante. Non ha l’aria di un posto in cui si
vendono cartoline. Verosimilmente, l’unico souvenir disponibile sono, forse, i propri
denti. In una bustina.
“Ehm… Immagino che Tre Tori si trovi in qualche oscura segreta, giusto?”
“La più oscura,” risponde Due Erbe Urticanti.
“E… non avete mai più rivisto nessuno? Di chi è stato fatto prigioniero, intendo.”
“Ne abbiamo rivisto qualche pezzo,” risponde Fiore di Loto.
“Di solito la testa,” precisa Due Erbe Urticanti. “Infilzata in cima alle porte della cit-
tà.”
“Ma non Tre Tori Addomesticati,” interviene fermamente Fiore di Loto. “Il Grande

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Mago si è pronunciato!”
“A dire il vero, non sono certo di avere detto -”
“Avete parlato,” lo interrompe determinata Farfalla.

Non appena Scuotivento si abitua all’oscurità, si rende conto di trovarsi in qualche


dispensa o cantina in cui i rumori della città, assai attutiti, provengono dal soffitto.
Per metà è occupata da barili e sacchi, ciascuno dei quali costituisce l’appoggio di
qualcuno. La stanza è assiepata.
Gli occupanti lo guardano con un’espressione rapita, ma non è l’unica cosa che li ac-
comuna. Scuotivento si volta alla sua destra.
“Chi sono tutti questi bambini?” chiede.
“Questi,” risponde Fiore di Loto, “sono la cellula dell’Esercito Rosso di Hunghung.”
Due Erbe Urticanti grugnisce. “Perché gliel’hai detto?” domanda. “Ora dovremo uc-
ciderlo.”
“Ma sono tutti giovanissimi!”
“Magari sono svantaggiati dall’età,” dice Due Erbe Urticanti, “ma sono anziani per
coraggio ed onore.”
“Hanno esperienza di combattimento?” domanda veemente Scuotivento. “Le guardie
che ho visto non apprezzano le persone simpatiche. Voglio dire, avete perlomeno
qualche arma?”
“Strapperemo le armi di cui abbiamo bisogno ai nostri nemici!” risponde Due Erbe
Urticanti. Lo acclamano.
“Sul serio? E come li convincerete a mollarle?” chiede Scuotivento. Punta il dito in
direzione di una ragazzina piccolissima, che arretra con il busto neanche il suo dito
fosse una pistola carica. Avrà all’incirca sette anni ed in mano tiene un coniglio di
pezza.
“Come ti chiami?”
“Unica Perla Favorita, Grande Mago!”
“E cosa fai nell’Esercito Rosso?”
“Ho ricevuto una medaglia per aver affisso i manifesti, Grande Mago.”

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“Robe… Tipo “Cose Leggermente Spiacevoli Per Piacere Capitino Ai Nostri Nemi-
ci”? Questo genere di robe?”
“Ehm…” la ragazzina è in difficoltà e guarda implorante Farfalla.
“La ribellione non è facile per noi,” dice la ragazza più grande. “Non abbiamo…
esperienza.”
“Ebbene, io sono qui per dirvi che non la si fa cantando belle canzoncine ed appicci-
cando manifesti e combattendo a mani nude,” ribatte Scuotivento. “Non quando c’è
da combattere con gente vera con delle armi vere. Voi…” Smette a poco a poco di
parlare rendendosi conto che un centinaio di paia di occhi lo guardano intensamente,
e duecento orecchie lo ascoltano attentamente. Riascolta le sue stesse parole nella ca-
mera di riverberazione della propria mente. Ha detto “Sono qui per dirvi…”. Stende
le mani e le agita freneticamente. “… il fatto è che, non sta a me dirvi qualunque
cosa.” Conclude.
“Corretto,” commenta Due Erbe Urticanti. “Noi vinceremo perché la storia è dalla
nostra parte.”
“Noi vinceremo perché il Grande Mago è dalla nostra parte,” ribatte aspra Farfalla.
“Vi dico una cosa!” grida Scuotivento. “Mi affiderei a me stesso piuttosto che alla
storia! Oh, cavoli, l’ho detto davvero?”
“Perciò aiuterai Tre Tori Addomesticati,” dice Farfalla.
“Per favore!” rincara Fiore di Loto.
Scuotivento guarda lei, le lacrime che ha agli angoli degli occhi ed il manipolo di
marmocchi che hanno soggezione di lui e credono davvero di poter sconfiggere un
esercito con dei cori d’incitamento.
C’è solamente una cosa che può fare, a ben rifletterci. Per il momento fingerà di stare
al gioco e poi se ne tirerà dannatamente fuori alla prima vera occasione. La collera di
Farfalla sarà pure sgradevole, ma una picca è una picca. Ovviamente, per un po’ avrà
la sensazione di essere tallonato, ma è esattamente questo il punto. Sentirà i talloni,
non le picche.
Il mondo ha già troppi eroi ed un altro gli serve. Oltretutto il mondo ha un solo Scuo-
tivento e perciò ha il dovere di preservarlo vivo per il mondo quanto più a lungo pos-

136
sibile.

C’è una locanda. C’è un cortile. C’è un recinto, per i Bagagli.


Ci sono bauli da viaggio grandi abbastanza da trasportarci quanto necessario ad
un’intera famiglia per un paio di settimane. E valige per i campionari dei rappresen-
tanti di commercio che sono più che altro delle semplici scatole quadrate con delle
zampe rudimentali. E ci sono delle ventiquattrore lucide ed eleganti. Si trascinano
inutili all’interno del recinto. Di quando in quando si sente un manico che sbatacchia
o lo scricchiolio di un cardine, ed una o due volte lo schiocco di un coperchio e lo
sbattere delle scatole che cercano di liberare il passaggio.
Tre di loro sono grandi e ricoperti di pelle borchiata. Hanno l’aria di accessori da
viaggio che stazionano fuori degli alberghi economici rivolgendo apprezzamenti
spinti alle borse da passeggio. Al centro della loro attenzione c’è un baule relativa-
mente più piccolo con il coperchio intarsiato e dei piedi raffinati. Si è già rintanato in
un angolo quanto più distante possibile. Un largo coperchio chiodato si è già spalan-
cato scricchiolante un paio di volte all’approssimarsi dei bauli più grossi. Il baule più
piccolo è talmente arretrato che i piedi posteriori tentano di arrampicarsi su per il re-
cinto. Dall’altro lato del muro del cortile si sentono correre dei passi. Si avvicinano e
poi si fermano bruscamente. Dopodiché giunge il suono di una vibrazione metallica,
simile a quella di un oggetto che atterra sulla copertura tesa di un carro. Per un atti-
mo, nel contrasto di luce della luna crescente, s’intravede la sagoma di qualcosa che
lentamente compie un salto mortale nell’aria della notte. Atterra pesantemente di
fronte alle tre grosse cassapanche, scatta in avanti e carica.
Alla fine diversi viaggiatori si riversano nella notte, ma oramai ci sono capi di abbi-
gliamento sparpagliati e calpestati per tutto il cortile.
Tre cassapanche nere, ammaccate e piene di cicatrici, vengono recuperate dal tetto,
ognuna che gratta le tegole e scalcia le altre nello sforzo di essere la prima a salire.
Gli altri bagagli sono andati nel panico ed hanno buttato giù il muro scomparendo
nella campagna circostante. Alla fine, li ritrovano tutti tranne uno.

137
L’Orda è piuttosto orgogliosa di sé stessa quando si mette seduta per la cena. Stanno
reagendo, pensa il Signor Cervellata, come fossero dei ragazzini che hanno appena
ricevuto il primo paio di pantaloni lunghi. E così è. Ogni membro ne indossa un paio
identico e sformato, abbinato ad una lunga cappa grigia.
“Abbiamo fatto spese,” dichiara Caleb orgoglioso. “Pagando le cose con dei soldi.
Siamo vestiti come persone civili.”
“Si, esattamente,” commenta indulgente il Signor Cervellata. Si augura che superino
la cosa senza che l’Orda scopra quale tipo di persone civili veste così. Le barbe costi-
tuiscono un problema, così come sono. Il tipo di persone che, nella Città Proibita, in-
dossano quel genere di vestiti, di solito non hanno la barba. Semmai, sono prover-
bialmente noti per non averla. In verità, sono molto più proverbialmente noti per non
avere altre cose ma, quasi che sia una conseguenza di questa mancanza, anche per
non avere la barba.
Cohen si agita. “Prudono,” dice. “Così fanno i pantaloni, vero? Mai indossati prima.
Uguale le camice. Cosa c’ha di buono una camicia che una cotta di maglia non
c’ha?”
“Ci siamo comportati davvero bene, però,” dice Caleb. Si è persino rasato, costrin-
gendo il barbiere a fare ricorso, per la prima volta in tanti anni di esperienza, ad uno
scalpello. Continua a strofinarsi il mento nudo rosa confetto.
“Già, siamo davvero civilizzati,” commenta Vincent.
“Tranne che per la parte in cui hai dato fuoco al negoziante,” replica Giovane Willie.
“Naaa, gli ho dato fuoco solo un pochino.”
“Cusa?”
“Prof?”
“Si, Cohen?”
“Perché hai detto a tutti quelli che conoscevamo che il commerciante di fuochi d’arti-
ficio c’è morto all’improvviso?”
Il piede del Signor Cervellata picchietta gentilmente contro l’enorme sacca sotto il
tavolo, accanto ad un bel calderone nuovo.
“Perché non s’insospettissero per quanto stavo comprando,” risponde.

138
“Cinquemila petardi?”
“Cusa?”
“Ebbene,” risponde il Signor Cervellata. “Ti ho mai raccontato che dopo aver inse-
gnato geografia presso la Gilda degli Assassini e la Gilda degli Idraulici, per alcuni
brevi semestri l’ho fatto anche presso la Gilda degli Alchimisti?”
“Alchimisti? Tutti matti quelli là,” commenta Rotella.
“Ma sono appassionati di geografia,” replica il Signor Cervellata. “Immagino abbia-
no bisogno di sapere dove finiscono quando atterrano. Mangiate, signori. Potrebbe
essere una lunga notte.”
“Che roba è questa?” domanda Rotella, infilzando qualcosa con le bacchette.
“Ehm. Chow,” risponde il Signor Cervellata.
“Si, ma cos’è?”
“Chow24. Una specie di… ehm… cane.”
L’Orda lo fissa all’unisono.
“Non c’è niente di male,” aggiunge in fretta, con la sincerità di un uomo che per sé
stesso ha ordinato germogli di bambù e tofu.
“Ho mangiato qualunque cosa,” replica Rotella, “ma non mangio cane. Avevo un
cane una volta. Rover.”
“Si,” interviene Cohen. “Quello con il collare borchiato? Quello che c’aveva l’abitu-
dine di mangiarsi le persone?”
“Dì quello che ti pare, ma io lo consideravo un amico,” replica Rotella, spingendo di
lato il piatto di carne.
“Schiattino di rabbia gli altri. Me lo mangio io il tuo. Ordinagli del pollo, Prof.”
“Ho mangiato un uomo una volta,” borbotta Hamish il Matto. “Durante un assedio,
fu.”
“Hai mangiato qualcuno?” chiede il Signor Cervellata, facendo un cenno al camerie-
re.
“Solo la gamba.”
“E’ terribile!”

24 Gioco di parole intraducibile incentrato sul vocabolo “chow” che, in termini colloquiali, si traduce
“sbobba”, ma che designa anche una specie di cane, appunto; n.d.t.

139
“Non con la mostarda.”
Proprio quando pensavo di conoscerli, riflette il Signor Cervellata… Prende il bic-
chiere da vino. L’Orda tutta prende anche lei il bicchiere da vino, intanto che lo os-
serva con attenzione.
“Un brindisi, signori,” propone. “E ricordate quanto vi ho detto sul non tracannare.
Tracannare non fa altro che bagnarvi le orecchie. Sorseggiate, semplicemente. Alla
Civiltà!”
L’Orda si unisce ciascuno con un proprio brindisi.
“Pcharn'kov!”25
“Stendetevi tutti a terra e nessuno si farà male!”
“Ti auguro di vivere in pantaloni interessanti!”
“Qual è la parola magica? Dammelooo!”
“Morte alla maggior parte dei tiranni!”
“Cusa?”

“Le mura della Città Proibita sono alte dodici metri,” spiega Farfalla. “Ed i cancelli
sono fatti di ottone. Ci sono centinaia di guardie. Ma ovviamente noi abbiamo il
Grande Mago.”
“Chi?”
“Tu.”
“Chiedo scusa, me n’ero dimenticato.”
“Già,” commenta Farfalla, soppesando Scuotivento con una lunga occhiata. Scuoti-
vento ricorda che i maestri lo guardavano così quando prendeva dei voti alti in qual-
che verifica semplicemente tirando ad indovinare le risposte. Abbassa rapidamente lo
sguardo sugli sgorbi tracciati da Fiore di Loto con il carboncino.
Cohen saprebbe cosa fare, pensa. Si aprirebbe un varco compiendo un massacro. Non
gli passerebbe mai per la testa di avere paura o di preoccuparsi. E’ l’uomo giusto per
situazioni come questa.

25 “Che ti mozzino i piedi e li seppelliscano a diversi metri dal tuo corpo così che il tuo fantasma non
possa camminare.”

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“Di certo conosci degli incantesimi che possono abbattere le mura,” dice Fiore di
Loto.
Scuotivento si domanda cosa gli farebbero se venisse fuori che non è così. Non mol -
to, si dice, se stessi già scappando. Naturalmente potrebbero maledirlo fino alla fine
dei suoi giorni e dirgliene di tutti i colori, ma c’è abituato. Bastoni e pietre potrebbe-
ro rompermi qualche osso, riflette. E’ vagamente consapevole che questa sarebbe so-
lamente la seconda parte, ma non se ne preoccupa perché la prima parte cattura tutta
la sua attenzione.
Persino il Bagaglio l’ha abbandonato. Il che rappresenta una questione meno impel-
lente, però gli manca lo scalpiccio di quei piccoli piedini…
“Prima di cominciare,” dice, “credo che dovreste intonare qualche canto rivoluziona-
rio.”
Alla cellula l’idea piace. Sovrastato dal canto sguscia vicino a Farfalla, la quale gli
sorride d’intesa.
“Tu sai che non posso farlo!”
“Il Maestro insegna che sei pieno di risorse.”
“Non posso bucare il muro magicamente!”
“Sono cerca che ti verrà in mente qualcosa. E… Grande Mago?”
“Si, che c’è?”
“Perla Favorita, la piccola con il coniglio di pezza…”
“Si?”
“La cellula è tutto ciò che ha. Lo stesso vale per la maggior parte di loro. Quando i
signori della guerra si mettono a combattere muore un sacco di gente. Di genitori.
Riesci a capirlo? Sono stata tra le prime a leggere Cosa Ho Fatto In Vacanza, Grande
Mago, e quello che vi ho trovato è un pazzo che per qualche ragione è sempre assisti-
to dalla fortuna. Grande Mago… per il bene di tutti spero che tu abbia una gran quan-
tità di fortuna. Specialmente per te.”

Le fontane fanno la pipì nei cortili dell’Imperatore Sole. Il richiamo dei pavoni ha un
suono simile a quello di qualcosa che non dovrebbe avere un aspetto così bello. Gli

141
alberi ornamentali distribuiscono la propria ombra come solamente loro sanno fare –
in modo ornamentale.
I giardini rappresentano il cuore della città ed è possibile sentire i rumori provenienti
dall’esterno, ma attutiti dalla paglia che ogni giorno viene sparsa sulle strade circo-
stanti e dal fatto che chiunque produce un qualunque rumore giudicato troppo forte è
condannato ad una breve detenzione.
Dei giardini, la parte esteticamente più amena è quella allestita su disposizione del
primo Imperatore Unico Spettro Solare. E’ tutta di ghiaia e pietre, ma disposta e ra-
strellata magistralmente e con raffinato senso artistico così da sembrare un torrente di
montagna. E’ qui che Unico Spettro Solare, sotto il regno del quale è stato unificato
l’Impero ed è stata eretta la Grande Muraglia, veniva a riposare l’anima ed a soffer-
marsi sull’unità fondamentale di tutte le cose, sorseggiando vino dal teschio di qual-
che nemico o alla bisogna di qualche giardiniere che era stato maldestro con il ra-
strello.
Al momento in giardino si trova Secondo Piccolo Pene26, Maestro del Protocollo, il
quale viene qui perché sente che gli distende i nervi.
Forse è colpa del numero due, si è sempre detto. E’ sfortunata come data di nascita.
Chiamarsi Piccolo Pene è semplicemente il risultato di una mancanza di riguardo,
equivalente ad un escremento di gabbiano paragonata all’enorme quantità di escre-
menti di bufalo che il Paradiso ha voluto incollare al suo personalissimo oroscopo.
Però deve ammettere di non essersi reso un gran servigio nel permettersi di diventare
Maestro del Protocollo. Inizialmente gli era parsa un’ottima idea. Ha fatto una gavet-
ta per nulla faticosa nell’amministrazione pubblica Agateana, primeggiando in quelle
arti imprescindibili per la pratica del buon governo e dell’amministrazione (come la
calligrafia, l’origami, gli addobbi floreali e le Cinque Forme Meravigliose della poe-
sia). Ha coscienziosamente portato a termine i compiti assegnatigli senza soffermarsi
troppo sulla circostanza che le fila degli alti funzionari dell’amministrazione si assot-
tigliavano sempre di più, finché un giorno un gran numero di mandarini anziani – la
maggior parte dei quali, si è reso conto in seguito, molto più anziani di lui – gli è cor-

26 Nel testo originale “Secondo Piccolo Pene”. “Wang”, in lingua anglosassone, è il termine volgare,
ma anche l’imprecazione, con cui si fa riferimento all’organo riproduttivo maschile; n.d.t.

142
sa incontro mentre cercava di trovare una rima con “fiore d’arancio” e si è con-
gratulata per la nomina a Maestro.
Il che accadeva tre mesi prima.
E delle cose che gli sono occorse nell’intervallo degli ultimi tre mesi, quella in asso-
luto più deplorevole è questa: ha raggiunta la convinzione che l’Imperatore Sole non
è, in effetti, il Signore del Paradiso, il Pilastro del Cielo ed il Grande Fiume delle Be-
nedizioni, ma è un pazzo malvagio la cui morte viene rimandata da troppo tempo.
E’ un pensiero esecrabile. E’ come odiare la maternità e il pesce crudo oppure deplo-
rare la luce del sole. La maggior parte delle persone sviluppa una coscienza sociale
quand’è giovane, durante il breve periodo intercorrente tra l’abbandono degli studi e
la decisione che l’ingiustizia non è necessariamente tanto brutta, ma è qualcosa di
quasi scioccante scoprirsene improvvisamente una a sessant’anni di età.
Non è che sia contrario alle Regole d’Oro. E’ perfettamente logico che ad un uomo
sorpreso a rubare vengano tagliate le mani. Gli impedisce di riprovarci e di macchiar-
si l’anima di conseguenza. Un contadino che non paga le tasse deve essere giustizia-
to, così da impedirgli di cadere nelle tentazioni dell’ignavia e del disordine pubblico.
E poiché l’Impero è stato creato dal Paradiso quale unico mondo abitato dagli esseri
umani, mentre tutto c’è al di fuori è una landa desolata popolata di fantasmi, è indub-
biamente sensato mandare a morte chiunque metta in discussione questo stato di fat-
to. Tuttavia sente che non è giusto ridersela di gusto mentre lo si fa. Non è divertente
quando succedono certe cose, è solamente necessario.
Da qualche parte, in lontananza, giungono delle grida. L’Imperatore sta di nuovo gio-
cando a scacchi. Preferisce usare pezzi viventi.
Secondo Piccolo Pene avverte il peso della consapevolezza. Ci sono stati tempi mi-
gliori. Adesso lo sa. Le cose non sono sempre andate così. Gli Imperatori non si com-
portavano da crudeli pagliacci attorno ai quali si era al sicuro come su un banco di
sabbia nella stagione dei coccodrilli. Non si scatenava sempre una guerra civile ad
ogni morte d’Imperatore. I signori della guerra non governavano il paese.
Il popolo aveva dei diritti oltreché dei doveri.
E poi un giorno è stata posta la questione della successione e c’è stata una guerra e da

143
allora le cose non sono più andate per il verso giusto.
Con un po’ di fortuna presto l’Imperatore sarà morto. Senza alcun dubbio c’è già
pronto un Inferno apposta per lui. E ci sarà la solita battaglia e poi un nuovo Impera-
tore e Secondo Piccolo Pene sarebbe davvero molto fortunato se si limitassero a de-
capitarlo, che è quanto tende a capitare a chi ha ricoperto alte cariche durante il regno
precedente. Il che è piuttosto ragionevole stando ai canoni invalsi, poiché sono tempi
in cui è possibile che si venga decapitati per aver interrotto i pensieri dell’Imperatore
o perché si stava nel posto sbagliato.
A questo punto, Secondo Piccolo Pene sente i fantasmi. Sembrano trovarsi proprio
sotto i suoi piedi. Parlano una lingua strana perciò per Secondo Piccolo Pene le paro-
le sono solamente dei suoni che fanno:
“Dove diavolo siamo?”
“Da qualche parte sotto il palazzo, ne sono certo. Cercate un’altra botola sul soffit-
to…”
“Cusa?”
“Ne ho piene le scatole di spingere questa dannata sedia a rotelle!”
“Me sono per un bel bagno caldo ai piedi dopo questo, ve lo dico io.”
“Questa per te è una via d’accesso alla città? Questa per te è una via d’accesso alla
città? Con l’acqua fino alla cintola? Non siamo mai entrati in una… scalognata… cit-
tà in questo modo quando stavo con Bruce l’Unno! Si entra in una… amabiliosa…
città invadendola con mille uomini a cavallo, ecco come si prende una città!”
“Certo, ma non c’entrerebbero tutti in questo tubo.”
I suoni sono cavernosi e rimbombanti. Con una sorta di affascinata perplessità Se-
condo Piccolo Pene li segue, camminando sulla ghiaia tutta curata in un modo di-
stratto che potrebbe dare adito all’immediata estrazione della lingua al proprietario
amante della pace e della tranquillità.
“Possiamo fare più in fretta? Vorrei fossimo fuori da qui quando il calderone esplo-
derà e non ho davvero avuto molto tempo per testare le micce.”
“Ancora non capisco la faccenda del calderone, Prof.”
“Spero che tutti quei fuochi d’artificio facciano un buco nelle mura.”

144
“Appunto! Allora perché non siamo là? Perché siamo in questo condotto?”
“Perché tutte le guardie si precipiteranno a vedere di che tipo di trasgressione si trat-
ta.”
“Esatto! Perciò dovremmo stare là!”
“No! Dovremmo essere qui, Cohen. Il termine esatto è diversivo. E’… più civile
così.”
Secondo Piccolo Pene preme l’orecchio contro il suolo.
“Ripetimelo, qual è la pena per essere entrati nella Città Proibita, Prof?”
“Credo una punizione equivalente all’essere appesi, eviscerati e dislocati. Perciò, ca-
pisci, sarebbe una buona idea se -”
Si sente un tonfo leggero.
“Com’è che ti eviscerano, allora?”
“Penso che ti taglino le viscere e te le facciano guardare.”
“A che scopo?”
“Davvero non saprei. Per vedere se le riconosci, suppongo.”
“Una cosa… tipo, “Già, quelli sono i miei reni, già, quella è la mia colazione”?
Com’è che ti dislocano27? E’ tipo che ti mettono in qualche posto?”
“Non credo, considerato il contesto.”
Per un po’ non si sente nulla apparte lo sciabordio di sei paia di piedi ed il cigolio che
sembra di una rotella.
“Allora, come ti appendono28?”
“Come prego?”
“Acci, acci, acci… scusa, scusa.”
Secondo Piccolo Pene inciampa su un bonsai vecchio di duecento anni e sbatte la te-
sta contro una roccia selezionata perché infonde una fondamentale serenità. Quando
rinviene, pochi secondi dopo, le voci sono svanite. Semmai ci sono state davvero.
Fantasmi. Girano un sacco di fantasmi di questi tempi. Secondo Piccolo Pene vorreb-

27 Nel testo originale, gioco di parole incentrato sui molteplici significati di “quartering” che, tra
l’altro, designa anche l’acquartieramento, oltreché l’atto dello smembramento e dell’essere diviso in
quattro parti; n.d.t.
28 Nel testo originale, gioco di parole incentrato sui molteplici significati di “hunging” che, tra l’altro,
designa anche l’impiccagione; n.d.t.

145
be avere qualche fuoco d’artificio da sparpagliare nei dintorni.
Essere Maestro del Protocollo è persino peggiore del cercare di trovare una rima con
“fiore d’arancio”.

Le torce illuminano i vicoli di Hunghung. Con il chiacchiericcio dell’Esercito Rosso


alle spalle, Scuotivento dirige lento verso le mura della Città Proibita.
Nessuno meglio di Scuotivento sa che è totalmente incapace di fare della vera magia.
Finora gli è riuscita solamente per caso. Perciò può stare certo che se agita una mano
e pronuncia qualche parola magica, con ogni probabilità le mura diventeranno sola-
mente un po’ meno piene di buchi di quanto non lo siano adesso.
E’ un peccato deludere Fiore di Loto, con quel corpo che a Scuotivento fa pensare ad
un piatto di patatine tagliate ad onde, ma è tempo che impari che non può contare sui
maghi.
Riuscirà a scappare. Cosa potrebbe fargli Farfalla se fallisse il tentativo? Inoltre, con
sua grande sorpresa, si scopre a sperare di poter dare un pugno in un occhio ad Erbe
nell’andarsene. Lo stupisce che gli altri non riescano a vederlo per quel che è.
Sono in una zona delle mura situata tra i cancelli. La vita di Hunghung ci si riversa
contro come un mare di fango; stalle e stivali sono dappertutto.
Scuotivento credeva che i cittadini di Ankh-Morpork vivessero in strada, ma soffrono
di agorafobia se paragonati agli Hunghunghesi. I funerali (fuochi d’artificio compre-
si) ed i ricevimenti di nozze e le cerimonie religiose si svolgono per le vie, e si me-
scolano con le pratiche che sono consuete per un mercato, come il bestiame informe
macellato ed i battibecchi di livello mondiale.
Erbe indica una zona deserta delle mura in cui sono ammassati dei tronchi.
“Proprio lì, Grande Mago,” sogghigna sprezzante. “Non sforzarti più del dovuto. Un
buco piccolo sarà sufficiente.”
“Ma ci sono centinaia di persone qui intorno!”
“E’ un problema per una mago di tale grandezza? Magari non riesci a farlo se ti guar-
dano?”
“Non ho dubbi che il Grande Mago ci stupirà tutti,” dice Farfalla.

146
“La gente che vedrà il potere del Grande Mago ne parlerà per sempre!” aggiunge
Fiore di Loto.
“Probabilmente,” borbotta Scuotivento.
La cellula si ammutolisce, sebbene sia possibile accorgersene solo perché hanno le
bocche chiuse. Il vuoto del loro silenzio è subitaneamente riempito dal brusio del
mercato.
Scuotivento si arrotola le maniche.
Non è neppure sicuro di un incantesimo che faccia esplodere le cose…
Agita leggermente una mano.
“Farei bene a stare indietro, gente,” commenta Erbe, sorridendo in maniera sgradevo-
le.
“Quanti canicula ilia in fenestre?29” pronuncia Scuotivento. “Ehm…”
Fissa disperatamente la parete e, con i sensi allertati che sviluppano coloro che si tro-
vano al limite del terrore, si accorge di un calderone seminascosto tra i ceppi. Sembra
ci sia collegato uno spago che scintilla.
“Ehm,” dice, “pare ci sia -”
“Qualche problema?” conclude astiosamente Erbe.
Scuotivento raddrizza le spalle. ““ - ”” dice.
Si sente un suono come di un marshmallow che cade gentilmente su un piatto, e tutto
davanti a lui diventa bianco. Poi da bianco diventa rosso, screziato di nero, ed il ru-
more assordante induce le mani a coprirgli le orecchie.
Un pezzo di qualcosa a forma di falce brilla, fendendogli la punta del cappello per
poi andare a conficcarsi nella casa più vicina, che prende fuoco.
Si sente un forte odore di sopracciglia bruciate.
Quando i detriti si posano Scuotivento si trova di fronte ad un buco piuttosto grosso
nelle mura. I mattoni attorno ai contorni, adesso di ceramica incandescente, comin-
ciano a raffreddarsi con un rumore simile ad un glinka-glinka. Si guarda le mani an-
nerite dalla fuliggine.
“Perdinci,” dice. E poi aggiunge, “Tutto apposto!”. Dopodiché si volta e comincia a

29 Nell’originale del testo; n.d.t.

147
dire, “Allora, che ve ne pare?”, ma la sua voce si affievolisce quando si rende conto
che sono tutti sdraiati a terra.
Un’anatra lo osserva sospettosa da dentro la gabbia. In conseguenza della scarsa pro-
tezione offerta dalle sbarre il piumaggio è diventato a strisce alternate naturali e croc-
canti.
Ha sempre voluto fare magie come quella. E’ sempre stato capace di visualizzarle
perfettamente. Semplicemente non è mai riuscito a farle…
Nella breccia compaiono un bel po’ di guardie. Una, la ferocia del cui elmo suggeri-
sce trattarsi di un ufficiale, guarda truce il buco bruciacchiato e, dopo, Scuotivento.
“L’hai fatto tu?” domanda imperativo.
“Stai indietro!” grida Scuotivento, ubriaco di potere. “Sono il Grande Mago, io! Vedi
quest’anello? Non farmelo usare!”
L’ufficiale fa un cenno ad un paio dei suoi uomini.
“Prendetelo.”
Scuotivento fa un passo indietro.
“Vi avverto! Chiunque osi toccarmi, mangerà mosche e rabbia per il resto della sua
vita!”
Le guardie avanzano con la determinazione di chi è pronto a correre il rischio incerto
della magia, a fronte della prospettiva certa di essere puniti per aver disobbedito agli
ordini.
“State indietro! Potrebbe finire male! D’accordo, allora, siccome mi costringete -”
Agita la mano. Schiocca le dita alcune volte.
“Ehm -”
Le guardie, dopo essersi assicurate di essere ancora intere, lo afferrano ciascuna per
un braccio.
“Potrebbe trattarsi di un effetto ritardato,” azzarda, quando stringono di più la presa.
“In alternativa, v’interesserebbe sentire una citazione famosa?” propone. Gli solleva-
no i piedi da terra. “O magari no?”
Scuotivento, che corre senza costrutto a mezz’aria, viene portato di fronte all’ufficia-
le.

148
“In ginocchio, ribelle!” comanda l’ufficiale.
“Lo farei, ma -”
“Ho visto come hai ridotto il Capitano Quattro Volpi Bianche!”
“Cosa? Chi è?”
“Portatelo… da… l’Imperatore.”
Mentre lo trascinano via Scuotivento vede, per un istante appena, le guardie che si
chiudono attorno all’Esercito Rosso con le spade sguainate…

Un tombino di metallo è scosso per un momento e poi cade sul pavimento.


“Attento!”
“Non sono abituato a stare attento! A Bruce l’Unno non importava -”
“Piantala con Bruce l’Unno!”
“Beh, accidenti anche a te!”
“Cusa?”
“C’è nessuno là?”
Cohen allunga la testa fuori dalla conduttura. Il locale è buio, umido e pieno di tuba-
ture e canalette di scolo. L’acqua è convogliata in tutte le direzioni per alimentare le
fontane e le cisterne.
“No,” si risponde da solo, con un certo disappunto.
“Molto bene. Tutti fuori.”
Il sonoro è un misto di imprecazioni e stridore metallico quando la sedia a rotelle di
Hamish viene manovrata fin dentro la lunga e bassa cella.
Il Signor Cervellata accende un fiammifero quando l’Orda si sistema ed esamina lo
spazio circostante. “Congratulazioni, signori. Credo che siamo dentro il palazzo.”
“Già,” commenta Rotella. “Abbiamo conquistato una fot – un’amabile conduttura.
Dove sta il bello?”
“Potremmo saccheggiarla,” propone Caleb ottimista.
“Ehi, questa cosa rotante gira…”
“Cos’è un’amabile conduttura?”
“A che serve questa leva?”

149
“Cusa?”
“Che ne dite di trovare una porta, correre fuori ed ammazzare tutti?”
Il Signor Cervellata chiude gli occhi. La situazione ha un che di familiare e capisce
cos’è. Una volta ha accompagnato un’intera classe in gita all’arsenale cittadino. La
gamba destra gli fa ancora male nei giorni umidi.
“No, no, no!” esclama. “Cosa ne verrebbe di buono? Giovane Willie, per favore non
tirare quella leva.”
“Beh, per cominciare mi sentirei meglio,” risponde Cohen. “Non ho ucciso nessuno
per tutto il giorno, tranne che una guardia, e quelle mica contano.”
“Ricorda che siamo qui per rubare, non per uccidere,” replica il Signor Cervellata.
Adesso, per favore, toglietevi tutti quella pelle bagnata ed infilatevi i vestiti nuovi.”
“Questa parte non mi piace,” dice Cohen infilandosi una camicia. “Mi piace che la
gente sappia chi sono.”
“Già,” concorda Giovane Willie. “senza la nostra pelle e la cotta di maglia la gente
penserà solamente che siamo un branco di vecchietti.”
“Esattamente,” dice il Signor Cervellata. “Questa è la parte del sotterfugio.”
“E’ come le tattiche?” chiede Cohen.
“Si.”
“D’accordo, però non mi piace,” commenta Vincent il Vecchio. “Metti che vinciamo?
Che razza di canzone potranno mai cantare i menestrelli su della gente che ha fatto
un’invasione dalle fogne?”
“Una risondondante,” risponde Giovane Willie.
“Non canteranno niente del genere,” interviene Cohen risoluto. “Se lo paghi abba-
stanza, il menestrello canta tutto quello che vuoi.”
Una schiera di passi bagnati dirige verso una porta. Il Signor Cervellata è già in cima
alla fila, in ascolto.
“E’ giusto,” commenta Caleb. “Si dice che chi paga il pifferaio sceglie la musica.”
“Ma signori,” replica il Signor Cervellata, con gli occhi che brillano, “chi tiene il col-
tello sulla gola del pifferaio scrive la sinfonia.”

150
L’assassino si muove lentamente per le stanze di Lord Magazzinai. E’ uno dei mi-
gliori della ristretta ma ben selezionata Gilda di Hunghung. Disprezza i ribelli. Sono
invariabilmente dei poveracci e, perciò, degli improbabili clienti.
Si muove in maniera particolare ed accorta. Evita il pavimento. Lord Magazzinai è
famoso per l’accordatura delle assi del pavimento. Fa un uso consistente dell’arreda-
mento e dei pannelli decorativi e, occasionalmente, anche del soffitto.
E l’assassino è davvero bravo in questo. Quando un messo entra nella stanza da una
porta distante si paralizza per un momento e, dopo, ne segue perfettamente il ritmo
fino alla sua preda, lasciando che i passi rumorosi del nuovo arrivato coprano i suoi.
Lord Magazzinai sta fabbricando un’altra spada. La piegatura del metallo e tutto quel
tedioso ma essenziale riscaldare e martellare trova siano utili per schiarirsi le idee. Il
puro ed eccessivo rimuginare non fa bene alla mente. A Lord Magazzinai piace usare
le mani di quando in quando.
Tuffa nuovamente la spada dentro la fornace ed attiva il mantice un paio di volte.
“Si?” dice. Il messo alza lo sguardo dalla posizione prona prossima al pavimento.
“Buone notizie, mio signore. Abbiamo catturato l’Esercito Rosso!”
“Ebbene, questa è una buona notizia,” replica Lord Magazzinai, Che osserva attenta-
mente la lama in attesa che cambi colore. “Compreso quello che chiamano il Grande
Mago?”
“Certamente! Ma non è così grande, mio signore!” esclama vivace il messo.
La sua gaiezza scompare quando Lord Magazzinai solleva un sopracciglio.
“Davvero? Al contrario, io sospetto che sia in possesso di poteri enormi e pericolosi.”
“Si, mio signore! Non intendevo -”
“Assicurati che vengano rinchiusi tutti. E recapita al Capitano Uno Cinque Stabili-
menti il messaggio di procedere con gli ordini che gli ho dato oggi.”
“Si, mio signore!”
“Ed ora, alzati in piedi!”
Il messo si alza tremante. Lord Magazzinai s’infila uno spesso guanto ed allunga la
mano verso il manico della spada. La fornace romba.
“Mento in su, ragazzo!”

151
“Mio signore!”
“Ora spalanca bene gli occhi!”
E’ un ordine superfluo. Lord Magazzinai scruta in quella maschera di terrore, nota un
impercettibile movimento, annuisce e, poi, con un solo movimento che pare un bal-
letto estrae la lama crepitante dalla fornace, si volta, stoccata…
Un breve grido ed un ben più lungo sibilo.
Lord Magazzinai lascia che l’assassino si spenga. Dopodiché libera la spada con uno
strattone ed ispeziona la lama fumante.
“Mmm,” dice. “Interessante…”
Scorge il messo.
“Sei ancora qui?”
“No, mio signore!”
“Fa che sia così.”
Lord Magazzinai gira la spada così che catturi la luce e ne esamina il bordo.
“E, ehm, devo far venire qualche servo per portare via, ehm, il corpo?”
“Che cosa?” domanda Lord Magazzinai, sovrappensiero.
“Il corpo, Lord Magazzinai?”
“Che corpo? Oh. Si. Provvedi.”

Le pareti sono decorate mirabilmente. Se ne accorge perfino Scuotivento, sebbene gli


passino accanto sfocate. Alcune hanno dipinti degli uccelli meravigliosi, o paesaggi
di montagna, o spruzzi di fogliame, con ogni foglia e germoglio realizzati con raffi-
nato dettaglio con due soli colpi di pennello.
I leoni di ceramica sovrastano dei piedistalli di marmo. Ai lati del corridoio sono alli-
neati dei vasi più grandi di Scuotivento.
Delle porte laccate si spalancano al passaggio delle guardie. Scuotivento scorge bre-
vemente le enormi sale adornate e deserte che si allungano su ambo i lati.
Alla fine superano un’altra serie di porte e lo scaraventano su un pavimento di legno.
In simili circostanze, ha imparato, è meglio non sollevare lo sguardo.
Infine una voce importuna dice: “Cos’hai da dire in tua difesa, verme miserabile?”

152
“Ebbene, io -”
“Silenzio!”
Ah. Quindi è quel genere di colloquio.
Una voce differente, una voce stentata, afasica e più anziana dice: “Dov’è il Gran-
de… Visir?”
“Si è ritirato nelle proprie stanze, Onorevole Grande Uno. Ha detto di avere mal di
testa.”
“Convocalo im… mediatamente.”
“Subito, Onorevole Grande Uno.”
Scuotivento, con il naso fermamente premuto contro il pavimento, azzarda qualche
ipotesi su quel che l’aspetta. Il Gran Visir non è mai di buon auspicio: in termini ge-
nerali significa che qualcuno sta per proporre il ricorso a qualcosa di letale e a delle
catene roventi. E quando le persone ricevono degli appellativi come “Onorevole
Grande Uno” si può stare sicuri che non esiste appello.
“Questo è un… ribelle?” La domanda è sibilata ansimante piuttosto che parlata.
“Sicuro, Onorevole Grande Uno.”
“Penso mi piacerebbe veder…lo più da vicino.”
Il mormorio generale che si eleva suggerisce che un gran numero di persone è rima-
sto molto sorpreso, poi giunge un rumore di mobilio che viene spostato.
Scuotivento crede d’intravedere una coperta ai margini della propria visuale.
Qualcuno spinge un letto su ruote sul pavimento…
“Fatelo… alzare.” Il gorgoglio nella pausa è simile a quello dell’acqua del bagno che
va via per lo scarico. Un risucchio bagnato quanto quello della risacca di un’onda.
Per l’ennesima volta un piede scalcia i reni di Scuotivento, formulando la solita ri-
chiesta esplicitata nell’Esperanto della brutalità. Si alza in piedi.
Il letto è sicuramente il più grande che Scuotivento abbia mai visto. Avvolto dai broc-
cati e quasi invisibile tra i cuscini c’è un anziano.
Scuotivento non ha mai visto nessuno dall’aria così malata. Il viso è pallido, con una
sfumatura verdognola; le vene sotto la pelle delle mani risaltano come vermi in un
barattolo.

153
L’Imperatore possiede tutti i tratti caratteristici di una salma eccezion fatta, all’evi-
denza, per quello fondamentale della vitalità.
“Sicché… questo è il nuovo Grande Mago di… cui abbiamo letto tanto, es… atto?”
chiede.
Quando parla, le persone attendono speranzose che a metà della frase emetta l’ultimo
definitivo gorgoglio.
“Ebbene, io -” attacca Scuotivento.
“Silenzio!” grida un ciambellano.
Scuotivento scrolla le spalle.
Non ha idea di come debba apparire un Imperatore, però, mentalmente, ha sempre
fatto spazio all’immagine di un uomo pingue con un sacco di anelli. Parlare con que-
sto è ad un pelo dalla necromanzia.
“Puoi mostrarci qualche altra… magia, Grande Mago?”
Scuotivento lancia un’occhiata al ciambellano.
“V -”
“Silenzio!”
L’Imperatore accenna un gesto con la mano, gorgogliando per lo sforzo, e rivolge a
Scuotivento un’altra occhiata inquisitoria. Scuotivento decide di cogliere l’opportuni-
tà.
“Ne ho una davvero buona,” dice. “Consiste in un trucco di volatilizzazione.”
“Puoi… farlo ora?”
“Solo se le porte sono tutte aperte e siete tutti di spalle.”
L’espressione dell’Imperatore rimane identica. La corte si ammutolisce. Poi si sente
un suono come di un branco di piccoli conigli che vengono soffocati a morte.
L’Imperatore ride. Una volta che è evidente per tutti, anche gli altri ridono. Nessuno
meglio di un uomo con il potere di mandare chiunque a morte con la stessa facilità
con cui si reca al gabinetto riesce a strappare l’altrui risata.
“Cosa dovremmo farci… con te?” chiede. “Dov’è il… Gran… Visir?”
Gli astanti si dividono.
Scuotivento si arrischia a dare una sbirciata. Quando si è alla mercé di un Gran Visir

154
si è morti. I Gran Visir sono sempre dei megalomani cospiratori. Probabilmente fa
parte dei requisiti di assunzione: “Sei un pazzo inaffidabile, deviato e portato per i
complotti? Ah, ottimo, allora forse potresti diventare il mio ministro più fidato.”
“Ah, Lord… Magazzinai,” saluta l’Imperatore.
“Pietà?” suggerisce Scuotivento.
“Silenzio!” urla il ciambellano.
“Ditemi, Lord… Magazzinai,” domanda l’anziano Imperatore. “Quale dovrebbe es-
sere la punizione per… uno straniero… che s’introduce nella Città Proibita?”
“L’asportazione di tutti gli arti principali, degli occhi e delle orecchie, dopodiché è li-
bero di andare,” risponde Lord Magazzinai.
Scuotivento alza la mano.
“Se è incensurato?” chiede.
“Silenzio!”
“In genere, non ci capitano mai casi di recidiva,” risponde Lord Magazzinai. “Che
razza di persona è?”
“Mi piace,” dice l’Imperatore. “Credo che dovrei… tenerlo. Mi fa… ridere.”
Scuotivento apre la bocca.
“Silenzio!” grida il ciambellano, forse imprudentemente inconsapevole della piega
che ha preso la faccenda.
“Ehm… Potresti smetterla di strillare “Silenzio!” ogni volta che cerco di parlare?”
azzarda Scuotivento.
“Certamente… Grande Mago,” risponde l’Imperatore. Fa un cenno ad alcune guar-
die. “Accompagnate il ciambellano… fuori e tagliategli… le labbra.”
“Onorevole Grande Uno, io - !”
“E le orecchie… anche.”
Il povero disgraziato viene trascinato via. Un paio di porte laccate si chiudono sbat-
tendo. I cortigiani applaudono unanimi.
“Ti piacerebbe… guardarlo mangiar… sele?” chiede l’Imperatore sorridendo allegra-
mente. “E’ tre… mendamente divertente.”
“Ahahaha,” risponde Scuotivento.

155
“Un’ottima decisione, signore,” commenta Lord Magazzinai. Si volta verso Scuoti-
vento. Con immensa sorpresa del mago, ed anche un po’ di orrore, gli fa l’occhiolino.
“Onorevole Grande Uno…” dice un cortigiano grassoccio, rimbalzando leggermente
in ginocchio ed avvicinandosi nervosamente all’Imperatore, “mi chiedevo se fosse
davvero saggio mostrare tanta pietà verso questo straniero immon -”
L’Imperatore abbassa lo sguardo. Scuotivento giurerebbe di vedergli cadere della
polvere di dosso.
I presenti si muovono impercettibilmente. All’apparenza nessuno fa niente di così
sfacciato come azionare i piedi, tuttavia attorno all’uomo inginocchiato si forma uno
spazio vuoto.
Poi l’Imperatore sorride.
“La tua preoccupazione è ben… accolta,” dice. Il cortigiano si arrischia ad una smor-
fia di sollievo. L’Imperatore aggiunge, “Tuttavia, non anche la tua presunzione. Uc-
cidetelo lentamente… fate che duri… diversi giorni.”
“Aaargh!”
“Esatta… mente! Un sacco di olio… bollente!”
“Un’idea eccellente, mio signore,” commenta Lord Magazzinai.
L’Imperatore torna a concentrarsi su Scuotivento.
“Sono sicuro che… Il Grande Mago mi è amico,” aspira.
“Ahahaha,” reagisce Scuotivento.
Si è già trovato in una situazione analoga prima, gli dei lo sanno bene. Ma ha sempre
dovuto affrontare un qualcuno – beh, di solito un qualcuno simile a Lord Magazzinai
-, non un quasi cadavere all’evidenza talmente fuori di testa da non potercisi ficcare
un po’ di sanità mentale neppure con un passone molto lungo.
“Ci divertiremo… parecchio,” dice l’Imperatore. “Ho letto… tutto di te.”
“Ahahaha,” commenta Scuotivento.
L’Imperatore fa nuovamente cenno con la mano alla corte.
“Adesso mi ritiro,” dice. Tutti si muovono e parecchi sbadigliano ostentatamente.
Chiaramente nessuno resta sveglio più dell’Imperatore.
“Imperatore,” interviene Lord Magazzinai con tono stanco, “cosa volete che faccia-

156
mo con il vostro Grande Mago?”
Il vecchio lancia a Scutivento l’occhiata che si riserva ai presenti quando le batterie
sono pressoché esaurite.
“Mettetelo nella cella… speciale,” risponde. “Per… ora.”
“Si, Imperatore,” replica Lord Magazzinai. Fa un cenno col capo ad un paio di guar-
die.
Scuotivento riesce a dare una veloce occhiata alle sue spalle mentre lo trascinano
fuori della sala. L’Imperatore è di nuovo sdraiato nel letto a rotelle, del tutto dimenti-
co di lui.
“E’ matto o cosa?” chiede.
“Silenzio!”
Scuotivento osserva la guardia che l’ha detto.
“Una bocca come la tua potrebbe mettere un uomo in grossi guai da queste parti,”
borbotta.
Lord Magazzinai si è sempre scoperto atterrito dalla generalità della condizione uma-
na. Gli è sempre parsa difettata. Priva di concentrazione. Come l’Esercito Rosso. Se
lui fosse stato un ribelle, l’Imperatore sarebbe già morto assassinato da mesi ed il
paese sarebbe in fiamme adesso, tranne che nelle zone troppo umide per bruciare. In-
vece? A dispetto di tutti i suoi migliori sforzi, i ribelli sono persuasi che l’attività ri-
voluzionaria consiste nell’appendere furtivamente manifesti con su scritte cose come
“Malevolezza Agli Oppressori Quando Opportuno!”.
Hanno tentato di dare fuoco ai corpi di guardia. Ottima cosa. Un’attività propriamen-
te rivoluzionaria, tranne per la parte in cui hanno cercato di farlo prendendo prima un
appuntamento. Era costata parecchia fatica, a Lord Magazzinai, rendersi conto che
l’Esercito Rosso era incapace di conseguire anche una sola vittoria.
Ebbene, ha dato loro il Grande Mago in cui confidano così ciecamente.
Non hanno più scuse oramai. E a giudicare dal suo aspetto, il malcapitato è un vile
privo di talento esattamente come Lord Magazzinai aveva sperato. Qualunque eserci-
to guidasse, se non battesse in ritirata, finirebbe annientato, spianando la strada ad
una controrivoluzione.

157
La controrivoluzione non sarebbe inefficace. Se ne assicurerebbe Lord Magazzinai.
Ma le cose devono farsi un passo alla volta. I nemici sono ovunque. Nemici sospetto-
si. Il sentiero dell’ambizioso è lastricato di usignoli. Un passo falso e smettono di
cantare. E’ un peccato che il Grande Mago si scopra essere così bravo con le serratu-
re. Gli uomini di Lord Sonanti saranno di guardia al blocco della prigione stanotte.
Naturalmente, se l’Esercito Rosso riuscirà a fuggire, nessun biasimo potrà verosimil-
mente colpire Lord Sonanti…
Lord Magazzinai si arrischia ad una risatina soffocata tra sé mentre rientra nelle pro-
prie stanze. Nessuna prova, questo è fondamentale. Non devono esserci prove. Anche
se la cosa non importerà più di tanto. Niente come una guerra spaventosamente gran-
de riesce a riunire il popolo, e la circostanza che il Grande Mago – ovvero il capo del
terribile esercito ribelle – sia un piantagrane di demonio straniero non è altro che la
scintilla con cui accendere il petardo.
Dopodiché… Ankh-Morpork [cane che fa la pipì].
Hunghung è antica. La cultura affonda le proprie radici nella consuetudine, nella pro-
duzione del tratto intestinale del comune bufalo indiano e nelle fondamenta del tradi-
mento. Lord Magazzinai è favorevole a tutte e tre, ma a nulla servono per arrivare a
dominare il mondo, cui Lord Magazzinai è particolarmente favorevole, a patto che
sia Lord Magazzinai a farlo.
Se fossi un Gran Visir del tipo tradizionale, riflette mentre siede davanti al tavolino
da tè, a questo punto starei schiamazzando dalle risate.
Invece, sorride tra sé.
E’ di nuovo tempo per la scatola? No. Certe cose è molto meglio pregustarsele.

La sedia a rotelle di Hamish il Matto induce molte teste a voltarsi, ma senza alcun
vero commento. L’eccessiva curiosità non è caratteristica che favorisce la sopravvi-
venza ad Hunghung. Si limitano a continuare il proprio lavoro, il quale sembra consi-
stere in una via vai senza fine di mucchi di carta che vengono portati su e giù per i
corridoi.
Cohen guarda quel che ha in mano. Nel corso dei decenni ha combattuto con molte

158
armi – spade, ovviamente, e archi e lance e mazze e… beh, se ci pensa su, pratica-
mente con tutto.
Tranne questa.
“Continua a non piacermi,” dice Rotella, “Perché stiamo trasportando dei pezzi di
carta?”
“Perché in un posto come questo nessuno fa caso a chi porta in giro dei pezzi di car-
ta,” risponde il Signor Cervellata.
“Perché?”
“Cusa?”
“E’ – una specie di magia.”
“Sarei più felice se fosse un’arma.”
“In effetti, possono essere l’arma più grande che ci sia.”
“Lo so, mi sono appena tagliato un po’,” commenta Giovane Willie, succhiandosi il
dito.
“Cusa?”
“Mettiamola in questi termini, signori,” dice il Signor Cervellata. “Siamo qui, pro-
prio dentro la Città Proibita, e nessuno è morto!”
“Appunto. E’ esattamente per questo che siamo inc… ci lamentiamo,” ribatte Rotella.
Il Signor Cervellata sospira. C’è un che nel modo in cui Rotella pronuncia le parole.
Non importa veramente cosa dice, perché quel che si ascolta in qualche bizzarra ma-
niera è proprio la parola che intendeva. Potrebbe appestare l’aria semplicemente pro-
nunciando la parola “calzini”.

La porta alle spalle di Scuotivento sbatte, come una cartuccia sparata nel posto giu-
sto.
Le prigioni dell’Impero sono piuttosto simili a quelle di casa. Quando si vuole impri -
gionare una creatura tanto geniale quanto un essere umano comune, si tende a fare
affidamento sulle buon vecchie sbarre di ferro e su grandi quantità di pietra. Appa-
rentemente questo sistema ben collaudato è in uso da molto molto tempo da queste
parti.

159
Ebbene, ha indubbiamente fatto centro con l’Imperatore. Per qualche ragione la cosa
non lo rassicura. Scuotivento ha la netta sensazione che sia il genere di uomo perico-
loso per i suoi amici almeno quanto lo è per i suoi nemici.
Si ricorda di Noodle Jackson, ai tempi in cui era ancora un giovane studente. Voleva-
no tutti essere amici di Noodle Jackson, ma sta di fatto che, se facevi parte della sua
combriccola, finivi calpestato o inseguito dalla Guardia, oppure picchiato in una rissa
che non avevi cominciato, mentre Noodle se ne stava rintanato da qualche parte ai
margini della scena facendosi grasse risate.
Oltretutto, l’Imperatore non è semplicemente sulla soglia di Morte, ma ben addentro
il corridoio, che ammira la tappezzeria e fa commenti sull’attaccapanni. E non occor-
re essere dei geni politici per sapere che quando qualcuno così muore, i conti vengo-
no regolati ancora prima che il suo corpo si raffreddi.
Chiunque abbia pubblicamente chiamato amico avrà un’aspettativa di vita di norma
più associata alle cose che si librano al di sopra di un torrente di trote al tramonto.
Scuotivento sposta un teschio da parte e si siede. Un’ipotesi possibile potrebbe essere
quella del salvataggio, riflette, se non fosse che l’Esercito Rosso andrebbe incontro
ad enormi difficoltà anche solo per impedire ad una papera di gomma di annegare. In
ogni caso, così finirebbe di nuovo nelle grinfie di Farfalla, la quale lo terrorizza quasi
quanto l’Imperatore.
Scuotivento ha bisogno di credere che gli dèi, dopo tutte le sue avventure, non abbia-
no in programma di farlo marcire in una segreta. No, aggiunge amaramente, proba-
bilmente hanno in mente qualcosa di molto più creativo.
Quel po’ di luce che rischiara la segreta proviene da una grata piccolissima ed ha
l’aria di essere parecchio consunta. Il resto dell’arredamento consiste in un tappeto di
quella che forse un tempo è stata paglia.
Bussano lievemente sul muro. Una, due, tre volte.
Scuotivento prende il teschio e risponde al segnale.
Bussano una volta di rimando.
Risponde ancora.
Bussano due volte.

160
Risponde bussando due volte.
Ebbene, la faccenda non gli è nuova. Comunicazione priva di senso… gli pare di es-
sere tornato all’Università Invisibile.
“D’accordo,” dice, con la voce che fa eco nella cella. “D’accordo, trés prigioniere-
sco. Ma che stiamo dicendo?”
Uno dei mattoni del muro, con uno stridolio sommesso, scivola fuori e cade sul piede
di Scuotivento.
“Aargh!”
“Quale grosso ippopotamo?” domanda una voce soffocata.
“Cosa?”
“Come?”
“Volevi sapere del codice a colpetti? E’ così che comunichiamo tra le celle, vedi. Un
colpetto significa -”
“Scusa, ma non stiamo comunicando, adesso?”
“Si, ma non ufficialmente. I prigionieri non sono… autorizzati… a parlare…”
La voce rallenta abbassandosi, come se l’interlocutore si fosse improvvisamente ri-
cordato di qualcosa di importante.
“Ah, certo,” dice Scuotivento. “Quasi me ne dimenticavo. Questa è… Hunghung.
Tutti… rispettano… le regole” Anche la voce di Scuotivento lentamente si affievoli-
sce.
Dall’altro lato del muro giunge un lungo, pensieroso silenzio.
“Scuotivento?”
“Duefiori?”
“Che ci fai qui?” chiede Scuotivento.
“Marcisco in prigione!”
“Anch’io!”
“Santi numi! Da quant’è?” domanda la voce soffocata di Duefiori.
“Come? Da quant’è cosa?”
“Ma tu… perché…”
“Hai scritto quel dannato libro!”

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“Ho solo creduto che le persone potessero trovarlo interessante!”
“Interessante? Interessante?”
“Ho creduto che le persone potessero considerarlo l’interessante resoconto di una
cultura straniera. Non intendevo fare danni.”
Scuotivento si appoggia al proprio lato del muro. No, naturalmente, Duefiori non
vuole mai fare danni. Esistono persone che non vogliono mai farne. Con ogni proba-
bilità l’ultimo suono che verrà ascoltato prima che l’Universo si arrotoli su sé stesso
come un foglio di carta sarà la voce di qualcuno che dice: “Che succede se faccio
così?”
“Deve essere stato Fato a portarti qui,” dice Duefiori.
“Si, è proprio da lui divertirsi a fare certe cose,” commenta Scuotivento.
“Ricordi quanti bei momenti abbiamo passati insieme?”
“Ne abbiamo passati? Mi sa che avevo gli occhi chiusi.”
“Che avventure!”
“Oh, quelle. Ti riferisci al rimanere sospesi nel vuoto ed altre cose così?”
“Scuotivento?”
“Si? Che c’è?”
“Sono più felice di come vanno le cose adesso che sei qui.”
“Stupefacente.”
Scuotivento si gode il comodo della parete. E’ di pietra consumata. Sente di poterci
fare affidamento.
“A quanto pare hanno tutti una copia del tuo libro,” dice. “E’ un documento rivolu-
zionario. E intendo proprio copie. Sembra che ognuno si sia fatto la propria e l’abbia
fatta girare.”
“E’ così, si chiama editare in proprio.”
“Che significa?”
“Significa che ognuna deve essere uguale all’altra. Oh, cielo. Pensavo fosse semplice
intrattenimento. Non credevo che la gente l’avrebbe preso sul serio. Spero tanto che
non stia causando troppi fastidi.”
“Beh, i tuoi rivoluzionari sono fermi alla fase degli slogan e dei manifesti, ma non

162
credo farà molta differenza se li prendono.”
“Oh, cielo.”
“Com’è che sei ancora vivo?”
“Non lo so. Penso possano essersi dimenticati di me. Sono cose che capitano, lo sai.
Colpa del lavoro d’ufficio. Qualcuno sbaglia una pennellata o dimentica di copiare
una riga. Sono certo che succede spesso.”
“Vuoi dire che tengono le persone in prigione ma nessuno ricorda perché?”
“Oh, certo”
“Allora perché non le liberano?”
“Suppongo si abbia la sensazione che devono aver fatto qualcosa. Tutto sommato,
temo che il nostro governo lasci un po’ a desiderare.”
“Un nuovo governo, ad esempio.”
“Oh, cielo. Potrebbero arrestarti per aver detto una cosa del genere.”

Il popolo dorme, ma la Città Proibita non dorme mai. Le torce baluginano tutta la
notte nel Dipartimento intanto che gli affari incessanti dell’impero vanno avanti.
Il che comporta, come dice il Signor Cervellata, un gran movimento di carte.
Sei Venti Benefici è Amministratore Distrettuale Aggiunto per il distretto di Lang-
tang e bravo a fare un lavoro che a malapena sopporta. Non è un uomo malvagio.
E’ vero, ha lo stesso senso dell’umorismo di un pollo in casseruola. E’ vero, suona la
fisarmonica per divertirsi e detesta profondamente i gatti, ed ha l’abitudine di tampo-
narsi il labbro superiore con il tovagliolo dopo il tè, in un modo che da anni induce la
Signora Venti Benefici a immaginarsi regolarmente di ucciderlo. E tiene i soldi in un
piccolo portamonete di pelle a forma di pala, e li conta con estrema minuzia ogni
volta che fa un acquisto, soprattutto se c’è la coda dietro di lui.
Di contro, però, è gentile con gli animali e contribuisce regolarmente alla beneficen-
za con delle piccole donazioni. Di frequente fa delle modeste elemosina ai mendican-
ti di strada, sebbene se le appunti in un piccolo taccuino che porta sempre con sé per
ricordarsi di tornare a fargli visita in veste ufficiale più in là.
E non prende mai alle persone più soldi di quelli che hanno per davvero.

163
Inoltre, diversamente dagli uomini di solito impiegati nella Città Proibita dopo il tra-
monto, non è un eunuco. Neanche le guardie sono eunuchi, ovviamente, e le persone
hanno aggirato la questione qualificandole ufficialmente come complementi d’arre-
do. E si è scoperto che pure gli esattori delle tasse hanno bisogno di tutti gli attributi
disponibili per contrastare le astuzie del plebeo medio, il quale ha la deplorevole ten-
denza ad evadere le tasse.
All’interno dell’edificio si trovano uomini ben più cattivi di Sei Venti Benefici e,
dunque, è solo per una sfortunata fortuna se le sue scartoffie e la sua porta di bambù
scivolano di lato per rivelare sette vecchi eunuchi dall’aspetto eccentrico, uno dei
quali su un marchingegno a rotelle.
Non fanno neppure l’inchino, né tantomeno s’inginocchiano. E se anche ha indosso
un semplice cappello rosso d’ordinanza, sopra c’è pur sempre un distintivo bianco!
Il pennello gli cade dalle mani quando gli uomini cominciano ad aggirarsi per il suo
ufficio come fosse il loro. Uno di loro fa dei buchi nel muro e borbotta.
“Ehi, il muro è fatto di semplice carta! Ehi, guardate, basta un colpetto con le dita
che ci si passa attraverso! Vedete?”
“Chiamerò le guardie e vi farò fustigare tutti!” grida Sei Venti Benefici, contenendosi
leggermente per via dell’età molto avanzata dei visitatori.
“Che dice?”
“Dice che chiama le guardie.”
“Oooh, si. Per favore lasciategli chiamare le guardie!”
“No, non è ancora tempo. Comportatevi normalmente.”
“Vuoi dire che posso tagliargli la gola?”
“Mi riferivo ad un genere di normalità più normale.”
“Per me è normale.”
Uno dei vecchi si mette faccia a faccia con il funzionario rimasto senza parole e spa-
lanca un enorme sorriso.
“Mi scusi, sua supremia… oh cielo, com’è quella parola?... carretto a vela?... immen-
sa roccia?... ah, giusto… venerabilità, però mi pare che ci siamo un po’ persi.”
Un paio di vecchi strascicano i piedi, si mettono dietro Sei Venti Benefici e comin-

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ciano a leggere ciò su cui sta lavorando.
Gli strappano un foglio di carta di mano.
“Che dice qui, Prof?”
“Fammi vedere… “Il primo vento d’autunno agita il fiore di loto. Sette Tronchi For-
tunati paga un maiale e tre [sembra un uomo con quattro braccia che agita una ban-
diera] di riso, pena un sacco di bastonate su [è un simbolo piuttosto stilizzato, davve-
ro non saprei dire]. Per ordine di Sei Venti Benefici, Esattore di Imposte, Langtang.””
Avverte un impercettibile cambiamento tra gli uomini. Adesso sorridono tutti, ma in
un modo che lo mette a disagio. Uno di loro, con i denti come diamanti, si piega su di
lui all’altezza del viso ed in pessimo Agateano dice: “Sei un Esattore delle tasse, Si-
gnor Bitorzolo sul Cappello?”
Sei Venti Benefici si chiede se può riuscire a chiamare la guardia.
Questi vecchi hanno un che di terribile. Non sono per niente venerabili. Sono orribil-
mente minacciosi e, sebbene non riesca a scorgere alcuna arma in vista, sa con asso-
luta certezza che avrebbe il tempo di pronunciare non più della prima sillaba prima di
venire ucciso. Inoltre, gli si è seccata la gola e gli si sono bagnati i pantaloni.
“Non c’è niente di male nell’essere un esattore delle tasse…” gracchia.
“Noi non l’abbiamo detto,” replica Denti di Diamante. “A noi fa sempre piacere in-
contrare gli esattori delle tasse.”
“Sono tra le persone che preferiamo, gli esattori delle tasse,” dice un altro vecchio.
“Ci risparmiano un sacco di fastidi,” aggiunge Denti di Diamante.
“Già,” rincara un terzo vecchio. “Tipo, cioè, che non c’è bisogno di girarsi tutte le
case ed ammazzare tutti per prendergli gli oggetti di valore, basta aspettare ed am-
mazzare -”
“Signori, due parole?”
Chi lo chiede ha un viso un po’ idiota che lo rende meno sgradevole degli altri. Que-
gli uomini tremendi gli si radunano intorno e Sei Venti Benefici ascolta delle sillabe
aliene in una stramba lingua straniera:
“Cosa? Ma è un esattore delle tasse! E’ a questo che servono!”
“Cusa?”

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“Una solida politica fiscale è fondamentale per il buon governo, signori. Per favore,
fidatevi di me.”
“Ho capito tutto fino a “Una solida.””
“In ogni caso, non sarebbe di alcuna utilità uccidere quest’operoso mietitore di tas-
se.”
“Sarebbe morto. Per me questo è d’utilità.”
Vanno avanti così per un po’. Sei Venti Benefici sobbalza quando il gruppo si divide
e l’uomo con la faccia un po’ idiota gli sorride.
“I miei umili amici sono intimiditi dalla vostra… varietà di prugna… piccolo coltello
per tagliare le alghe marine… presenza, nobile signore,” dice, con Rotella che gesti-
cola vigorosamente dietro le sue spalle mimando ogni parola come fosse una calun-
nia.
“Se ne tagliassimo solo un pezzettino?”
“Cusa?”
“Come avete fatto ad entrare?” domanda Sei Venti Benefici. “Ci sono un sacco di
guardie robuste.”
“Lo sapevo che ci stavamo perdendo il meglio,” commenta Denti di Diamante.
“Avremmo piacere che ci faceste fare il giro della Città Proibita,” dice Faccia da
Idiota. “Sono il… Signor Tubetto Farcito, credo diciate così. Si. Tubetto Farcito,
sono piuttosto sicuro -”
Sei Venti Benefici adocchia ottimista la porta.
“- e siamo qui per saperne di più sulla vostra… montagna… varietà di bambù… suo-
no dell’acqua corrente alla sera… accidenti… civiltà.”
Dietro di lui, Rotella offre agli altri dell’Orda l’energica dimostrazione di quel che i
Cavalieri Scheletrici di Bruce l’Unno hanno fatto una volta ad un esattore delle tasse.
Sono soprattutto gli impetuosi gesti del braccio a catturare tutta l’attenzione di Sei
Venti Benefici. Non capisce le parole però, per qualche ragione, non ha alcun biso-
gno di farlo.
“Perché gli parli così?”
“Gengis, mi sono perso. Non ci sono mappe della Città Proibita. Ci serve una guida.”

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Faccia da Idiota si rivolge di nuovo all’esattore. “Forse le piacerebbe venire con
noi?” chiede.
Fuori di qui, pensa Sei Venti Benefici. Si! Ci sono le guardie fuori!
“Aspetta un minuto,” interviene Denti di Diamante, quando annuisce. “Prendi il pen-
nello e scrivi quel che dico.”
Il minuto dopo sono fuori. Nell’ufficio dell’esattore resta solamente un biglietto di
scuse che recita come segue:
“Le rose sono rosse, le viole sono blu. Sette Tronchi Fortunati riceverà un maiale e
tutto il riso che riesce a portare, perché adesso è Uno Plebeo Fortunato. Per ordine di
Sei Venti Benefici, Esattore di Imposte, Langtang. Aiutatemi. Aiutatemi. Se qualcuno
sta leggendo sono prigioniero di un eunuco malefico. Aiutatemi.”

Scuotivento e Duefiori sono sdraiati ciascuno nella propria cella a parlare dei bei
vecchi tempi. Quantomeno, Duefiori parla dei bei vecchi tempi. Scuotivento lavora
ad un’incisione sulla pietra con un pezzetto di paglia, che è tutto quanto ha a portata
di mano. Ci vorranno diversi millenni prima che si veda qualcosa, ma non è una buo-
na ragione per arrendersi.
“Ci danno da mangiare qui?” chiede, interrompendo il fiume dei ricordi.
“Oh, qualche volta. Ma il cibo non è meraviglioso come quello di Ankh-Morpork.”
“Davvero,” mugugna Scuotivento, continuando a grattare. Un minuscolo pezzettino
di malta sembra già pronto a muoversi.
“Mi ricorderò per sempre del sapore delle salsicce del Signor Dibbler.”
“Lo fanno tutti.”
“Una di quelle esperienze che capitano una sola volta nella vita.”
“E’ frequente.”
La pagliuzza si rompe.
“Maledetta maledizione!” Scuotivento si rimette seduto. “Cos’ha di così importante
l’Esercito Rosso?” domanda. “Voglio dire, sono semplicemente un branco di bambi-
ni. Anche se pestiferi!”
“Si, temo che le cose si siano fatte un po’ confuse,” risponde Duefiori. “Uhm. Hai

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mai sentito di quella teoria per cui la storia tende a ripetersi ciclicamente?”
“Ho visto uno schizzo in uno dei taccuini di Leonardo da Quirm -” comincia Scuoti-
vento, tentando con un altro filo di paglia.
“No, intendo dire… come una… ruota, che gira. Che se resti fermo nello stesso posto
succede tutto di nuovo?”
“Oh, quella. Maledizione!”
“Ebbene, ci credono in tanti da queste parti. Pensano che la Storia ricomincia ogni
tremila anni.”
“Potrebbe essere,” commenta Scuotivento, il quale sta cercando un altro filo di paglia
e non lo ascolta veramente. Poi le parole fanno breccia. “Tremila anni? Un po’ poco,
non credi? Tutta quanta? Le stelle, gli oceani, l’intelligenza che si evolve dai diplo-
mati in arte, quel genere di cose?”
“Oh, no. Questa è solo… robaccia. La storia vera e propria è cominciata con la fon-
dazione dell’Impero da parte di Unico Spettro Solare. Il primo Imperatore. E del suo
servitore, il Grande Mago. E’ solo una leggenda, davvero. E’ il genere di cose che si
bevono gli zotici. Guardano a qualcosa come il Grande Mago e dicono, chissà che
cosa meravigliosa devono aver creato con la magia… E l’Esercito Rosso… probabil-
mente era soltanto un corpo sapientemente organizzato di combattenti ben addestrati.
Il primo vero esercito, capisci. Prima di lui magari c’erano state soltanto delle sem-
plici sommosse di plebaglia indisciplinata. Deve essere andata così. Nessuna magia.
Il Grande Mago non può davvero aver fatto… Quello in cui credono i contadini è
davvero sciocco…”
“Perché, cosa credono?”
“Dicono che il Grande Mago ha estratto la vita dalla terra. Quando tutti gli eserciti
del continente si sono schierati contro Unico Specchio Solare il Grande Mago… ha
fatto volare un aquilone30.”
“Mi sembra sensato,” replica Scuotivento. “Quando c’è aria di guerra prenditi una
vacanza, è il mio motto.”

30 Nel testo originale: “He flew a Kite”, lett. “Ha fatto volare un aquilone” ma, in termini colloquiali,
“Ha mandato tutti a quel paese”. Da cui l’intraducibile gioco di parole che origina il fraintendimento
tra Scuotivento e Duefiori; n.d.t.

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“No, non hai capito. Era un aquilone speciale. Intrappolava i lampi nel cielo ed il
Grande Mago li chiudeva nelle bottiglie e poi prendeva il fango e… lo impastava in-
sieme con i fulmini e così ha creato un esercito.”
“Mai sentito di un incantesimo simile.”
“Ed hanno delle idee bizzarre sulla reincarnazione, anche…”
Scuotivento non dubita ce l’abbiano. “Probabilmente è così che ammazzano le lun-
ghe ore bufaloidi: ehi, dopo morto spero di tornare da uomo… che tiene un bufalo in-
diano, però guardandolo da un’altra prospettiva.”
“Ehm… no,” commenta Duefiori. Non pensano affatto che si torni indietro. Ehm…
Sto sbagliando le parole, vero?... Sono un po’ consumato dalla lingua… Mi riferisco
proprio alla reincarnazione. Una rinascita all’indietro. Pensano che nasci prima di
morire.”
“Oh, ma veramente?” replica Scuotivento, graffiando la pietra. “Incredibile! Si nasce
prima di morire? La vita prima della morte? La gente deve essersi tutta eccitata quan-
do ne ha sentito parlare.”
“Non è esattamente… ehm. E’ tutto collegato agli antenati. Bisogna sempre venerare
gli antenati perché potresti essere uno di loro, un giorno, e… Stai ascoltando?”
Il piccolo pezzo di malta si stacca. Niente male per dieci minuti di lavoro, pensa
Scuotivento. Entro la prossima Era Glaciale saremo fuori di qui…
Gli sovviene che sta lavorando alla parete che lo separa dalla cella di Duefiori. Im-
piegare migliaia di anni per irrompere nella cella adiacente è da considerarsi una per-
dita di tempo.
Ricomincia da una parete diversa. Gratta… gratta…
Si sente un urlo terrificante.
Grattagrattagratta –
“Sembra che l’Imperatore si sia svegliato,” dice la voce di Duefiori dal buco nel
muro.
“E’ una specie di tortura mattutina, vero?” ribatte Scuotivento. Comincia a picchiet-
tare i grossi mattoni con un pezzo di pietra che si è staccato.
“Non è colpa sua. E’ solo che non capisce niente delle persone.”

169
“Davvero?”
“Lo sai che i bambini attraversano una fase in cui staccano le ali alle mosche?”
“Io non l’ho mai fatto,” risponde Scuotivento. “Non ci si può fidare delle mosche.
Anche se sembrano piccole possono diventare davvero cattive.”
“I bambini in generale, intendo.”
“Si? E allora?”
“Lui è un Imperatore. Nessuno si è mai azzardato a dirgli che non si fa. E’ tutta una
questione di, sai, ascesa al potere. Tutte e cinque le famiglie si battono tra di loro per
la corona. Lui ha ucciso il nipote per diventare Imperatore. Nessuno gli ha mai detto
che non sta bene uccidere la gente per divertimento. Perlomeno, nessuno che abbia
tentato di farlo è mai riuscito a finire la frase. Ed i Magazzinai e gli Zanna ed i So-
nanti ed i Cantori ed i McCrampis sono millenni che si ammazzano tra di loro. Fa
tutte parte della successione al trono.”
“McCrampis?”
“Una casata molto antica e ben affermata.”
Scuotivento annuisce cupo. Probabilmente è come nell’allevamento dei cavalli. Se in
un apparato gli assassini a tradimento tendono a prevalere, si finisce per allevare so-
lamente dei veri assassini a tradimento. E ci si ritrova in una situazione in cui è peri-
coloso chinarsi sopra una culla…
Un altro urlo.
Scuotivento inizia a tirare calci alle pietre.
La chiave gira nella serratura.
“Oh,” dice Duefiori.
Ma la porta non si apre.
Alla fine Scuotivento la raggiunge e prova a tirare il grosso batacchio di ferro. La
porta oscilla verso l’esterno, ma non troppo, perché il corpo supino di una guardia
funge da inusuale quanto efficace fermaporta.
Dalla chiave attaccata alla porta ne pende un intero mazzo da un anello…
Un prigioniero inesperto si precipiterebbe. Ma Scuotivento ha una specializzazione
post laurea nell’arte del restare vivi e sa che in simili circostanze la miglior cosa da

170
fare è lasciare uscire ogni altro singolo prigioniero, dando a ciascuno una veloce pac-
ca sulla spalla dicendo “Svelto! Stanno venendo a prenderti!”, per poi sedersi ad
aspettare in un posto carino e tranquillo finché l’inseguimento non svanisce in lonta-
nanza.
La cella di Duefiori è la prima che apre.
L’ometto è più magro e larvale di quanto ricordasse ed ha la barba a ciocche, tuttavia
conserva ancora, in maniera assolutamente significativa, il tratto che Scuotivento co-
nosce così bene – l’enorme, raggiante e confidente sorriso che suggerisce che qua-
lunque cosa brutta gli capiti sul momento non è che una specie di equivoco del quale
ridere e destinato ad essere risolto da persone ragionevoli.
“Scuotivento! Sei tu! Non avrei mai pensato di rivederti!” esclama.
“Già, anch’io avevo pensato lo stesso,” replica Scuotivento.
Duefiori fissa la guardia a terra al di là di Scuotivento.
“E’ morto?” chiede a proposito di un uomo che ha una spada semi conficcata nella
schiena.
“Estremamente probabile.”
“Sei stato tu?”
“Ero chiuso in cella!”
“Stupefacente! Bel trucco!”
A dispetto dei diversi anni trascorsi a contatto con la realtà delle cose, ricorda Scuoti-
vento, Duefiori non ha mai voluto afferrare il concetto che il suo compagno ha le
stesse abilità magiche di una comune mosca domestica. Ed è inutile tentare di dissua-
derlo. Significherebbe semplicemente fargli aggiungere anche la modestia alla lista
delle altre virtù non esistenti.
Prova alcune delle chiavi nelle serrature delle altre celle. Ne emergono diverse perso-
ne male in arnese, sbattendo le palpebre per la luce leggermente migliore. Una di
loro deve torcersi leggermente per riuscire ad attraversare la porta: è Tre Tori Addo-
mesticati. Dall’aspetto si capisce che l’hanno picchiato, ma potrebbe essersi trattato
solamente del tentativo di qualcuno di richiamare la sua attenzione.
“Lui è Scuotivento,” dice Duefiori orgoglioso. “Il Grande Mago. Lo sai che ha ucciso

171
la guardia dall’interno della cella?”
Esaminano educatamente il cadavere.
“Non l’ho fatto, sul serio,” nega Scuotivento.
“Ed è anche modesto!”
“Lunga Vita Agli Sforzi Del Popolo!” esclama Tre Tori Addomesticati dalle labbra
piuttosto tumefatte.
“Salute a tutti!” ribatte Scuotivento. “Prendi le chiavi che vanno nelle porte, compa-
re, tu faree usciree tuttii su su.”
Uno dei prigionieri liberati zoppica fin verso la fine del corridoio.
“Qui c’è una guardia morta,” dice.
“Non sono stato io,” Scuotivento ha un tono lamentoso. “Insomma, forse ho deside-
rato che morissero, ma -”
Le persone si scansano. Non è piacevole stare troppo vicini ad uno che riesce ad
esprimere i desideri così.
Ad Ankh-Morpork qualcuno avrebbe detto, “Oh, certo, come no? Gli ha magicamen-
te ficcato una spada nella schiena?” Ma perché ad Ankh-Morpork conoscono Scuoti-
vento e sanno che se un mago ti vuole davvero morto non ti rimane una schiena da
trafiggere.
Tre Tori Addomesticati riesce a destreggiarsi nella tecnica dell’aprire le porte.
Un’altra viene spalancata…
“Fiore di Loto?” osserva Scuotivento.
Si aggrappa al braccio di Tre Tori e sorride a Scuotivento. Gli altri membri della cel-
lula si ammassano dietro di lei.
Poi, con sorpresa di Scuotivento, guarda Duefiori, urla e gli getta le braccia al collo.
“Durata Indeterminata All’Amore Filiale!” intona Tre Tori Addomesticati.
“Maneggiare con cura!” esclama Scuotivento. “Ehm. Che sta succedendo, esattamen-
te?”
Un soldato Rosso davvero molto piccolo gli tira la toga.
“E’ il suo papà,” dice.
“Non mi hai mai detto di avere dei figli!”

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“Sono sicuro di si. Spesso,” risponde Scuotivento liberandosi dall’abbraccio. “Co-
munque… non è vietato.”
“Sei sposato!”
“Lo ero, certo. Sono sicuro di avertelo detto.”
“Probabilmente stavamo scappando da qualcosa quando l’hai fatto. Sicché c’è una
Signora Duefiori?”
“C’è stata per un po’,” risponde Duefiori, e per un momento la sua espressione quasi
di rabbia distorce il suo viso altrimenti benigno in maniera preternaturale. “Ora, ahi-
mé, non più.”
Scuotivento distoglie lo sguardo, poiché è meglio che guardare Duefiori in faccia.
E’ emersa pure Farfalla. E’ in piedi proprio fuori della porta della cella, con le mani
intrecciate sul davanti, che si guarda i piedi con falsa modestia.
Duefiori si precipita da lei.
“Farfalla!”
Scuotivento abbassa gli occhi sull’abbraccia conigli.
“Un’altra figlia, Perla?”
“Shi.”
L’ometto si avvicina a Scuotivento trascinando le ragazze.
“Hai già conosciuto le mie figlie?” chiede. “Lui è Scuotivento, colui -”
“Abbiamo già avuto il piacere,” lo interrompe Farfalla, solennemente.
“Com’è che siete tutti qui?” domanda Scuotivento.
“Abbiamo combattuto meglio che potevamo,” racconta Farfalla. “Semplicemente ce
n’erano troppi.”
“Spero non abbiate cercato di strappargli le armi,” commenta Scuotivento, quanto
più sarcasticamente gli riesce di osare.
Farfalla lo guarda truce.
“Mi dispiace,” replica Scuotivento.
“Erbe dice che è il metodo che va corretto,” aggiunge Fiore di Loto.
“Scommetto che ha elaborato un sistema migliore tutto da solo.” Scuotivento esami-
na la schiera di prigionieri. “Quelli come lui ce l’hanno sempre. Dov’è,

173
approposito?”
Le ragazze si guardano intorno.
“Non lo vedo qui,” dice Fiore di Loto. “Ma penso che quando le guardie ci hanno at-
taccati ha sacrificato la sua vita per la causa.”
“Perché?”
“Perché è ciò che ha detto che avremmo dovuto fare. Mi vergogno di non averlo fat-
to. Ma sembrava volessero catturarci, non ucciderci.”
“Io non lo vedo,” dice Farfalla. Lei e Scuotivento si scambiano un’occhiata. “Penso
che forse… non era là.”
“Vuoi dire che l’avevano già catturato?” chiede Fiore di Loto.
Farfalla guarda di nuovo Scuotivento. Capisce che mentre Fiore di Loto ha ereditato
la visione del mondo di Duefiori, Farfalla deve aver preso dalla madre. Pensa in ma-
niera molto più simile a Scuotivento, ovvero, il peggio di ognuno.
“Forse,” risponde.
“Fare Considerevoli Sacrifici Per Il Bene Comune,” dice Tre Tori Addomesticati.
“Ne Nasce Uno Ogni Minuto,” replica distrattamente Scuotivento.
Farfalla sembra tornare in sé.
“In ogni caso,” dice, “dobbiamo fare di questa la migliore delle opportunità.”
Scuotivento, che stava puntando alle scale, rimane di sasso.
“Cosa intendi, esattamente?” chiede.
“Non lo capisci? Nel complesso, siamo tutti dentro la Città Proibita!”
“Non io!” ribatte Scuotivento. “Io non sono mai stato nel complesso. Io sono sempre
stato da parte.”
“I nemici ci hanno condotti qui e adesso siamo liberi -”
“Grazie al Grande Mago,” interviene Fiore di Loto.
“- e dobbiamo sfruttare l’occasione!”
Prende una spada dalla guardia atterrata e la brandisce teatralmente.
“Dobbiamo colpire il palazzo come una tempesta, proprio così diceva Erbe!”
“Siete solamente in trenta!” esclama Scuotivento. “Non potete essere una tempesta!
Al più una doccia!”

174
“A malapena ci sono guardie all’interno della città,” replica Farfalla. “Se riuscissimo
a sconfiggere quelle di guardia alle stanze dell’Imperatore -”
“Vi farete ammazzare!” ribatte Scuotivento.
Si volta a guardarlo. “Perlomeno saremo morti per qualcosa!”
“Depurare Lo Stato Col Sangue Dei Martiri,” borbotta Tre Tori Addomesticati.
Scuotivento fa un giro su sé stesso e agita un dito sotto il naso di Tre Tori Addomesti-
cati, che è il punto più alto cui riesce a raggiungerlo.
“Ti tirerò un accidente di pugno se te ne uscirai fuori con un’altra cosa così!” grida e,
poi, fa una smorfia rendendosi conto di avere appena minacciato un uomo che è tre
volte più grosso di lui.
“Ascoltatemi, d’accordo?” si calma un poco. “Lo so che c’è gente che va cianciando
di sacrificarsi per il bene comune. Ma dannazione non parla mai di sé stessa! Quando
sentite un uomo che grida “Avanzata, coraggiosi camerati!”, state certi che è quello
nascosto dietro una maledetta roccia gigantesca con indosso l’unico vero elmo a pro-
va di freccia! Capito?”
Si blocca. La cellula lo guarda neanche fosse pazzo. Guarda quei visi da bambino
pieni di entusiasmo e si sente molto, molto vecchio.
“Ma ci sono cause per le quali vale la pena morire,” dice Farfalla.
“No, non ci sono! Perché di vita ne avete una sola, mentre di cause ne potete trovare
altre cinque ad ogni angolo di strada!”
“Per tutti gli déi, come puoi vivere con una filosofia del genere?”
Scuotivento fa un respiro profondo. “Continuativamente!”

Sei Venti Benefici pensa sia un piano piuttosto buono... I terribili vecchi si sono persi
nella Città Proibita. Nonostante l’aspetto muscoloso, simile a dei bonsai selvatici che
hanno trovato il modo di prosperare sopra una scogliera battuta dal vento, sono co-
munque molto vecchi e per nulla pesantemente armati.
Perciò li conduce in palestra.
Ed una volta dentro grida aiuto con quanta più voce ha. Con sua enorme sorpresa,
non si voltano per scappare.

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“Possiamo ucciderlo adesso?” domanda Rotella.
Un paio di dozzine di uomini muscolosi smettono di colpire pezzi di legno e cataste
di mattoni e li soppesano sospettosamente.
“Qualche idea?” chiede Cohen al Signor Cervellata.
“Oh, cielo. Sembrano proprio dei duri, non è vero?”
“Non ti viene in mente niente di civile?”
“No. Sta a voi, temo.”
“Ah! Ah! C’ho aspettato questo,” dice Caleb, spingendosi avanti. “C’ho fatto pratica
tutti giorno, vè? Con mio grosso blocco di tek.”
“Questi sono ninja,” spiega Sei Venti Benefici con orgoglio, mentre un paio degli uo-
mini si avvicina alla porta e la chiude sbattendola. “I combattenti migliori del mon-
do! Arrendetevi subito!”
“Interessante,” commenta Cohen. “Ehi, tu, col pigiama nero… Ti sei appena alzato,
vero? Chi è il migliore tra tutti voi?”
Uno degli uomini non stacca gli occhi da Cohen e spinge violentemente una mano
contro la parete più vicina. Che s’intacca.
Poi fa un cenno all’esattore. “Che sono questi vecchi che ci hai portato?”
“Credo siano invasori barbari,” risponde l’uomo delle tasse.
“Come – Com’è che lo sai?” chiede Giovane Willie. “C’abbiamo i pantaloni che pru-
dono e mangiamo con la forchetta e tutto il resto -”
Il capo dei ninja sogghigna. “Gli eroici eunuchi?” domanda. “Vecchi?”
“A chi hai detto eunuco?” domanda Cohen.
“Posso farci solo vedere come ho fatto pratica col mio blocco di tek?” chiede Caleb,
saltellando artritico da un piede all’altro.
Il ninja adocchia la barra di legno.
“Non riusciresti ad ammaccarla, vecchio,” dice.
“Sta a guardare,” replica Caleb. Solleva il legno all’altezza del braccio. Alza l’altra
mano al di sopra della spalla con un piccolo grugnito.
“La vedi questa mano? La vedi questa mano?” domanda.
“La vedo,” risponde il ridanciano.

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“Bene,” dice Caleb. Gli molla un calcio in pieno inguine e poi, mentre l’uomo si pie-
ga in due, lo colpisce sulla testa con il tek. “Così non veduto questo piede.”
E potrebbe finire così se di ninja ce ne fosse solamente uno. Invece i nunchaku sba-
tacchiano e delle lunghe spade ricurve vengono sfoderate.
L’Orda fa mucchio. Hamish scansa la coperta e scopre la loro armeria, sebbene quel-
la raccolta di lame intaccate sembri decisamente alla buona a confronto dei gingilli
scintillanti schierati contro di loro.
“Prof, perché non prendi il Signor Tasse e non andate in quell’angolo fuori portata?”
suggerisce Gengis.
“E’ una follia!” esclama Sei Venti Benefici. “Sono i combattenti migliori del mondo
e voi siete solamente dei vecchi! Arrendetevi subito e vedrò se riesco a farvi ottenere
uno sconto!”
“Calma, calma,” commenta il Signor Cervellata. “Non si farà male nessuno. Metafo-
ricamente, almeno.”
Gensis Cohen fa ondeggiare la spada alcune volte.
“D’accordo, compari,” dice. “Dateci il vostro ninjare migliore.”
Sei Venti Benefici osserva inorridito l’Orda che si prepara a combattere.
“Sarà una carneficina!” esclama.
“Temo di si,” replica il Signor Cervellata. Fruga nelle tasche alla ricerca delle menti-
ne.
“Chi sono questi vecchi pazzi? Cosa fanno?”
“Di solito gli eroi barbari,” risponde il Signor Cervellata. “Salvano le principesse, de-
predano i templi, combattono i mostri, esplorano antiche e terrificanti rovine… que-
sto genere di cose.”
“Ma hanno l’aria di essere talmente vecchi da essere morti! Perché lo fanno?”
Cervellata scrolla le spalle. “E’ quello che hanno sempre fatto.”
Un ninja fa un salto mortale, urlando, con una spada in ciascuna mano; Cohen aspet-
ta con un atteggiamento più simile a quello di un battitore di baseball.
“Mi stavo chiedendo,” dice il Signor Cervellata, “avete mai sentito parlare del termi-
ne “evoluzione”?”

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I due si incontrano. L’atmosfera si fa confusa.
Le urla proseguono, ma molto meno insistenti.
“Non ho neppure visto la spada muoversi!” esclama Sei Venti Benefici con un filo di
voce.
“Già. Capita sovente alle persone,” replica il Signor Cervellata.
“Ma… sono così vecchi!”
“Effettivamente,” risponde l’insegnante, alzando la voce per contrastare le grida, “è
palesemente vero. Sono degli eroi barbari davvero molto anziani.”
L’esattore è imbambolato.
“Gradite una mentina?” chiede il Signor Cervellata, intanto che la sedia a rotelle di
Hamish li supera rombando all’inseguimento di un uomo con una spada rotta ed un
crescente desiderio di restare vivo. “Potreste trovarla di conforto dovendo stare a
contatto con l’Orda per un po’.”
L’aroma che si sprigiona dal sacchetto di carta che gli viene offerto colpisce Sei Ven-
ti Benefici neanche fosse un lanciafiamme.
“Come si può annusare gli odori dopo averne mangiata anche una solamente?”
“Non si può,” risponde il Signor Cervellata allegramente.
L’esattore continua ad avere uno sguardo imbambolato. Il combattimento è rapido e
forsennato ma, non si capisce come, da una delle parti soltanto. L’Orda combatte
come ci si aspetta che combattano degli uomini anziani – lentamente, e con cautela.
Il fermento è tutto concentrato dalla parte dei ninja, ma non importa quanto bene sia-
no lanciate le stelle appuntite o siano veloci i calci, l’obiettivo è sempre, senza alcu-
no sforzo evidente, altrove.
“Visto che abbiamo un momento per parlare,” esordisce il Signor Cervellata, mentre
qualcosa munito di un sacco di lame s’innesta nella parete proprio sopra la testa
dell’esattore, “mi chiedevo: sapete dirmi qualcosa della grossa collina che sta proprio
fuori la città? Ha un profilo degno di rilievo.”
“Che cosa?” risponde Sei Venti Benefici distrattamente.
“La grossa collina.”
“Volete che ve ne parli? Adesso?”

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“La geografia è un mio piccolo passatempo.”
L’orecchio di qualcuno colpisce l’orecchio di Sei Venti Benefici.
“Ehm. Cosa? La chiamiamo la Collina Grande… Ehi, guardate, cosa sta facendo con
il suo -”
“Ha dei contorni notevolmente regolari. E’ una formazione naturale?”
“Cosa? Eh? Oh… Non lo so, si dice sia comparsa migliaia di anni fa. Durante una
terribile tempesta. Quando morì il primo Imperatore. Quello… Quello sta per essere
ucciso! Lo stanno per uccidere! Lo stanno per – Come c’è riuscito?”
Sei Venti Benefici d’improvviso ripensa a quando da bambino giocava a Shibo Yang-
cong-san con il nonno. L’anziano vinceva sempre. Non importava con quanta atten-
zione studiasse la propria strategia, il nonno riusciva comunque a piazzare innocente-
mente una tessera proprio nel punto cruciale esattamente l’istante prima che potesse
fare la sua mossa vincente. L’antenato aveva trascorso una vita a giocare a Shibo.
Questo combattimento funziona allo stesso modo.
“Oh, per la,” dice.
“Esatto,” commenta il Signor Cervellata. “Hanno passato una vita a non morire.
Sono diventati piuttosto bravi a farlo.”
“Ma… perché qui? Perché venire qui?”
“Ci siamo assunti l’impegno di commettere un furto,” risponde il Signor Cervellata.
Sei Venti Benefici, saggiamente, annuisce. La Città Proibita è leggendaria per le sue
ricchezze. Probabilmente ne hanno sentito parlare perfino i fantasmi succhiasangue.
“Il Vaso Parlante dell’Imperatore P'gi Su?” chiede.
“No.”
“La Testa di Giada Verde di Ts'uit Li Cantori?”
“No. Temo siate completamente fuori strada.”
“Non il segreto su come è prodotta la seta?”
“Santi numi. Dal didietro dei bachi. Lo sanno tutti. No. Qualcosa di relativamente più
prezioso di così.”
Suo malgrado, Sei Venti Benefici è impressionato. Apparte tutto il resto, sono sola-
mente sette i ninja ancora in piedi e Cohen sta tirando di scherma con uno di loro

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mentre si rolla una sigaretta con la mano libera.
Ed il Signor Cervellata riesce a scorgere il tutto che si fa chiaro negli occhi
dell’ometto pingue.
A lui è capitato lo stesso.
Cohen piomba nella vita delle persone come un pianeta stravagante in un pacifico si-
stema solare, e ci si sente trascinati altrove semplicemente perché una cosa del gene-
re capita non più di una volta nella vita.
Lui stesso se ne stava serenamente andando in cerca di fossili durante le vacanze sco-
lastiche quando, più o meno, è inciampato nell’accampamento di quei particolari fos-
sili chiamati l’Orda. Si erano mostrati abbastanza amichevoli per via del fatto che
non aveva né armi né denaro. E l’avevano portato con loro perché sapeva delle cose
che loro non conoscevano. E tanto bastava.
La decisione era stata presa lì sul momento. Forse era stato qualcosa nell’aria.
La vita per com’era stata fino ad allora gli era passata davanti e non era riuscito a ri-
cordarsi neppure di un giorno più divertente di quello. E gli era parso chiaro che po-
teva o unirsi all’Orda o tornare a scuola e, ben presto, dopo una debole stretta di
mano ed un giro di applausi, ritirarsi in pensione.
Cohen ha un qualcosa. Forse è quel che chiamano carisma. Riesce a sopraffare persi-
no il suo stesso odore da capra che ha appena finito di mangiare degli asparagi al cur-
ry. Non ne azzecca una. Maledice le persone ed usa un linguaggio che il Signor Cer-
vellata reputa molto offensivo nei confronti degli stranieri. Grida vocaboli che a
chiunque altro farebbero ottenere un taglio della gola gratuito con una molteplicità di
armi etniche piuttosto interessanti – ciononostante la fa franca, in parte perché è evi-
dente che non lo fa davvero con malizia, ma soprattutto perché è, beh, Cohen, una
sorta di forza elementale della natura su gambe.
La quale funziona con tutto. Quando non si batte seriamente con loro, riesce ad anda-
re d’accordo con i troll più di quanto non riescano le persone che pensano semplice-
mente che i troll abbiano dei diritti al pari di tutti gli altri. Persino l’Orda, guastafeste
individualisti senza eccezioni, ci casca.
Tuttavia il Signor Cervellata si era accorto che la loro vita mancava di uno scopo e

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perciò, una notte, aveva dirottato la conversazione sulle opportunità offerte
dall’Oriente…
C’è una luce nell’espressione di Sei Venti Benefici.
“Avete già un contabile?” chiede.
“Beh, no, a dire il vero.”
“Questo furto verrà considerato reddito o capitale?”
“Non ci ho mai davvero pensato. L’Orda non paga le tasse.”
“Come? A nessuno?”
“No. E’ buffo, ma sembra non riescano a tenersi i soldi troppo a lungo. Sembra che
svaniscano in bevute e donne e facendo la bella vita. Suppongo che dalla prospettiva
di un eroe sia l’equivalente del pagare le tasse.”
La bottiglietta d’inchiostro fa “pop” quando Sei Venti Benefici la stappa per poi lec-
care la punta del pennello da scrittura.
“Ma questo genere di cose costituiscono probabilmente delle spese deducibili per un
eroe barbaro,” dice. “Fanno parte delle mansioni di lavoro. E poi naturalmente biso-
gna considerare la rottura delle vesti, delle armi, degli indumenti di sicurezza… Cre-
do possano rivendicare almeno un perizoma nuovo all’anno -”
“Penso non ne abbiano rivendicato uno per un secolo.”
“E poi c’è la pensione, ovviamente.”
“Ah. Non usate quella parola. Pensano sia una parolaccia. Ma in un certo qual modo
è per questo che sono qui. E’ la loro ultima avventura.”
“Dopo che avranno rubato questa cosa preziosissima di cui non volete dirmi?”
“Esatto. Sareste veramente il benvenuto se voleste unirvi a noi. Forse potreste essere
un barbaro… contare i fagioli… un fazzoletto pieno di nodi… ah… ragioniere. Avete
mai ucciso qualcuno?”
“Non completamente. Ma ho sempre pensato che si potessero arrecare dei seri danni
con un Ultimo Avviso ben piazzato.”
Il Signor Cervellata sorride radioso. “Ah, certo,” dice. “La civiltà.”
L’ultimo dei ninja è ancora in posizione verticale, sebbene per poco; Hamish gli pas-
sa sopra un piede con la sedia a rotelle. Il Signor Crevellata dà un colpetto al braccio

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dell’esattore. “Scusatemi,” dice. “Devo sempre intervenire arrivati a questo punto.”
Con passo felpato dirige verso l’unico superstite, il quale si guarda intorno all’impaz-
zata.
Attorno al collo ha intrecciate sei spade, come se stesse prendendo parte ad una dan-
za popolare alquanto energica.
“Buon giorno,” saluta il Signor Cervellata. “Vorrei solo puntualizzare che il qui pre-
sente Gengis, a dispetto delle apparenze, è un uomo oltremodo sincero. Gli riesce
difficile capire il virtuosismo fine a sé stesso. Perciò ti suggerisco di astenerti da frasi
come “Preferirei morire piuttosto che tradire l’Imperatore” o “Continuate e fate il vo-
stro peggio”, a meno che tu non lo intenda proprio sul serio. Se desideri clemenza, un
semplice gesto con la mano sarà sufficiente. Ti consiglio vivamente di non cercare di
annuire.”
Il giovane sposta lo sguardo di lato verso Cohen, il quale gli sorride incoraggiante.
Al che fa un rapido cenno con la mano.
Le spade si aprono. Rotella colpisce la testa del ninja con una mazza.
“E’ tutto apposto, non c’è bisogno che mi dici cosa fare, mica l’ho ucciso,” dice im-
bronciato.
“Ahi!” Il Giovane Willie, per provare un nunchaku, si è colpito da solo sull’orecchio.
“Come possono combattere con questa robaccia?”
“Cusa?”
“Questi aggeggi di addobbi di Hogswatch parono che funzionare, però,” interviene
Vincent, prendendo una stella ninja. “Aaargh!” Si succhia le dita. “Inutile ciarpame
straniero.”
“Quella parte dove il tizio è saltato all’indietro attraversando la sala con le asce in
mano è stata impressionante, però.”
“Già.”
“Non avresti dovuto tirare fuori la spada a quel modo, pensavo.”
“Ha imparato una lezione importante.”
“Non gli servirà a granché là dov’è adesso.”
“Cusa?”

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Sei Venti Benefici per metà ride e per metà è scioccato.
“Ma… ma… Ho già visto combattere queste guardie!” esclama. “Sono invincibili!”
“Nessuno ci aveva informati.”
“Ma le avete battute tutte!”
“Eccome!”
“E siete solo degli eunuchi!”
Uno stridore d’acciaio. Sei Venti Benefici chiude gli occhi. Riesce a sentire il metallo
che gli sfiora il collo in almeno cinque punti differenti.
“Di nuovo quella parola,” è la voce di Cohen il Barbaro.
“Ma… siete… vestiti… da… eunuchi…” biascica Sei Venti Benefici, cercando di
non deglutire.
Il Signor Cervellata indietreggia, ridacchiando nervosamente.
“Vedete,” parla in fretta, “siete troppo vecchi per essere scambiati per delle guardie e
non avete l’aspetto di burocrati, così ho pensato che sarebbe stato, ehm, un ottimo
travestimento -”
“Eunuco?” ruggisce Rotella. “Vuoi dire che la gente mi guarda e pensa che vado in
giro camminando a piccoli passettini ed a dire Ciaooo, marinatoo?”
Al pari di molti uomini il cui testosterone è sempre tracimato persino dalle orecchie,
l’Orda non ha mai messo a punto un approccio con le più complesse aree della ses-
sualità. Insegnante fino al midollo, il Signor Cervellata non è stato in grado di cor-
reggerli, neppure in punta di spada.
“Significa “ballerini ingordi” e non, come sembri pensare, “ciao, marinaio”, che sta
per heus nauta,” spiega. “E gli eunuchi non dicono così. Non automaticamente.
Guarda, è un onore essere un eunuco nella Città Proibita. Molti occupano delle posi-
zioni molto elevate nel -”
“Allora preparati per le alte sfere, professore!” grida Rotella.
Cohen gli fa saltare la spada dalle mani.
“D’accordo, niente del genere. Non piace nemmeno a me,” dice, “ma è solo un trave-
stimento. Non dovrebbe contare niente per un uomo che una volta ha staccato la testa
ad un orso, o no?”

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“Si, ma… sai… non è… voglio dire, quando siamo passati accanto a quelle giovani
signore, prima, ridacchiavano tutte…”
“Forse più tardi riesci a trovarle ed a farle ridere più forte,” replica Cohen.
“Però avresti dovuto dircelo, Prof.”
“Mi dispiace.”
“Cusa? Chediceee?”
“Dice che sei un EUNUCO!” urla Giovane Willie nell’orecchio di Amish.
“Eccome!” risponde Hamish allegramente.
“Cosa?”
“Sono io! Il solo ed unico!”
“No, non intendeva -”
“Cusa?”
“Oh, non preoccuparti. Per te non fa granché differenza, Hamish.”
Il Signor Cervellata fa una stima della palestra distrutta. “Che ore saranno?” chiede.
“Ah,” gorgoglia Sei Venti Benefici, felice di alleggerire un po’ le cose.
“Da queste parti, sapete, abbiamo dei congegni straordinari alimentati a demoni che
indicano l’ora anche quando il sole non è -”
“Orologi,” l’interrompe il Signor Cervellata. “Li abbiamo anche ad Ankh-Morpork.
Solo che i demoni alla fine sono evaporati perciò adesso sono alimentati da -” fa una
pausa. “Interessante. Non avete una parola corrispondente. Ehm. Metallo sagomato
che funziona? Ruote dentate?”
L’esattore sembra spaventato. “Ruote con i denti?”
“Come chiamate quelle cose che macinano il grano?”
“Braccianti.”
“Si, ma con cosa macinano il grano?”
“Non lo so. Perché dovrei saperlo? Solo i braccianti hanno bisogno di saperlo.”
“Già, suppongo che questo spieghi tutto, davvero,” commenta tristemente il Signor
Cervellata.
“Manca un sacco prima dell’alba,” dice Rotella. “Perché non andiamo ad ammazzare
tutti nel sonno?”

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“No, no, no!” ribatte il Signor Cervellata. “Non faccio che ripetermi, dobbiamo fare
le cose per bene.”
“Potrei mostrarvi la casa del tesoro,” si offre Sei Venti Benefici.
“Non è mai una buona idea dare ad una scimmia la chiave della piantagione di bana-
ne,” commenta il Signor Cervellata. “Le viene in mente nient’altro che possa farli di-
vertire per un’oretta?”

Nel seminterrato un uomo parla del governo. A voce altissima.


“Non potete battervi per una causa! Una causa è semplicemente una cosa!”
“Allora combattiamo per i contadini,” replica Farfalla. Indietreggia. La rabbia fuorie-
sce da Scuotivento che sembra vapore.
“Oh? Li avete mai incontrati?”
“Io – li ho visti.”
“Oh, bene! E cosa vuoi ottenere?”
“Una vita migliore per il popolo,” risponde Farfalla freddamente.
“E credi che qualche insurrezione ed impiccagione basteranno? Ebbene, io vengo da
Ankh-Morpork e di ribellioni e guerre civili ne abbiamo avute molte più di voi… sa-
pientoni, e sai una cosa? I governanti sono ancora in carica! Lo sono sempre!”
Sorridono educati e nervosi con l’aria di non capire.
“Ascolta,” dice, sfregandosi la fronte. “Tutte quelle persone nei campi, il popolo del
bufalo indiano… Se viene la rivoluzione per loro andrà tutto meglio, è così?”
“Naturalmente,” risponde Farfalla. “Non saranno più sottoposti ai capricci crudeli e
bizzarri della Città Proibita.”
“Oh, questo è un bene,” replica Scuotivento. “Perciò saranno come una specie di pa-
droni di sé stessi, esatto?”
“Certamente,” risponde Fiore di Loto.
“Per mezzo del Comitato del Popolo,” aggiunge Farfalla.
Scuotivento si preme entrambe le mani sulla testa.
“Parola mia,” dice, “Non so perché, ma ho questa visone profetica!”
Sembrano impressionati.

185
“Ho quest’improvvisa sensazione,” continua, “che non ci saranno molti pastori di bu-
fali indiani nel Comitato del Popolo. In effetti… c’è una specie di… voce che mi dice
che la maggior parte del Comitato del Popolo, correggetemi se sbaglio, è proprio qui
davanti a me adesso?”
“All’inizio, naturalmente,” risponde Farfalla. “I contadini non sanno nemmeno leg-
gere e scrivere.”
“Mi aspetto che non sappiano neppure coltivare come si deve,” ribatte Scuotivento
amaramente. “Non dopo averlo fatto per solamente due o tremila anni.”
“Siamo indubbiamente consapevoli che saranno fatti alcuni miglioramenti, si,” repli-
ca Farfalla. “Se agiremo collettivamente.”
“Scommetto che saranno tutti davvero contenti quando gli mostrerete come,” dice
Scuotivento.
Fissa tetro il pavimento. Gli piace parecchio il lavoro di pastore di bufalo indiano.
Gli pare buono quasi quanto la professione del naufrago.
Desidera ardentemente il genere di vita in cui ci si può veramente concentrare sul
cic-ciaccare del fango sotto i piedi e riconoscere le cose nelle nuvole; il genere di vita
in cui ci si può lasciare trascinare dalla mente e speculare sull’ora in cui il bufalo in-
diano arricchirà nuovamente la terra grassa. Probabilmente, però, è già abbastanza
difficile così, senza che nessuno cerchi di migliorarlo…
Vorrebbe dire: come fai ad essere così carina e ciononostante così ottusa? La cosa
migliore che puoi fare per i contadini e lasciarli in pace. Lasciali stare come stanno.
Quando la gente che sa leggere e scrivere comincia a combattere a nome di chi non
lo sa fare, può finire soltanto con un altro genere di imbecillità. Se davvero vuoi aiu-
tarli, costruisci una grossa biblioteca o un’altra cosa così da qualche parte e lascia la
porta aperta.
Ma questa è Hunghung. Non si riesce a pensare così ad Hunghung. Qui la gente ha
imparato a fare quello che gli viene detto di fare. L’Orda l’ha capito.
L’Impero ha qualcosa di ben peggiore delle fruste. Ha l’obbedienza. Le fruste
nell’anima. Obbediscono a chiunque gli dica cosa fare. La libertà consiste nel sentirsi
dire cosa fare da qualcun altro.

186
Vi uccideranno tutti.
Io sono un codardo. E tuttavia di combattimenti ne capisco più di voi. Sono scappato
da alcuni davvero notevoli.
“Oh, usciamo di qui,” dice. Con cautela prende la spada di una guardia morta ed al
secondo tentativo riesce a tenerla dal giusto verso. La soppesa per un momento, poi
scuote la testa e la getta via.
La cellula pare molto più sollevata.
“Ma non intendo guidarvi,” dice Scuotivento. “Vi sto solamente mostrando la strada.
Ed è la strada per l’uscita, capito?”
Rimangono immobili con l’aria ferita, come sono solite fare le persone che si sono
prese una strigliata di diversi minuti. Nessuno dice niente, finché Duefiori non bisbi-
glia:
“Si comporta così ogni volta, sapete. E poi fa qualcosa di molto coraggioso.”
Scuotivento grugnisce.
In cima alle scale trovano il cadavere di un’altra guardia. La morte improvvisa pare
essere contagiosa. E, appoggiate contro la parete, ci sono un mucchio di spade. Con
attaccato un rotolo.
“Il Grande Mago ci ha mostrata la via per due minuti soltanto e già la fortuna ci sor-
ride di più,” dice Fiore di Loto.
“Non toccate le spade,” commenta Scuotivento.
“Ma se dovessimo incontrare altre guardie? Non dovremmo combatterle fino a che ci
rimane sangue nelle vene?” chiede Farfalla.
Scuotivento è impassibile. “No. Scappate.”
“Ah, si,” commenta Duefiori. “Per combattere domani bisogna sopravvivere all’oggi.
E’ un detto di Ankh-Morpork.”
Scuotivento ha sempre creduto che lo scopo del sopravvivere all’oggi fosse il fuggire
anche domani.
“In ogni caso,” aggiunge, “in genere le persone non si ritrovano misteriosamente li-
berate di prigione con un mucchio di armi a portata di mano e tutte le guardie fuori
combattimento. Ci avete almeno riflettuto?”

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“E con una mappa!” esclama Farfalla.
Le brillano gli occhi. Sventola il rotolo.
“La mappa spiega come uscire?” domanda Scuotivento.
“No! Come raggiungere le stanze dell’Imperatore! Guardate, è tutta segnata! E’ di
questo che parlava Erbe ogni tanto! Doveva essere stato a palazzo! Dobbiamo assas-
sinare l’Imperatore!”
“Una fortuna sfacciata!” esclama Duefiori. “Però sentite, sono sicuro che se provassi-
mo a parlargli prima -”
“Avete ascoltato anche solo una parola di quel che ho detto? Non andremo
dall’Imperatore!” sibila Scuotivento. “Non vi viene in mente che le guardie non
s’infilzano da sole? Che le celle non si aprono improvvisamente? Le spade non ven-
gono lasciate così provvidenzialmente in giro e non, davvero non si trovano delle
mappe con su scritto “Da questa parte, gente”! E in ogni caso, non si può ragionare
con qualcuno che è come un piatto di nuvole di gambero senza il resto del menù per
due!”
“No,” ribatte Farfalla. “Dobbiamo fare di questa la migliore delle opportunità.”
“Ci saranno un mare di guardie!”
“Ebbene, Grande Mago, avrai un sacco di desideri da esprimere.”
“Pensi che basti che schiocchi le dita perché tutte le guardie cadano stecchite? Ah!
Vorrei che fosse così!”
“Per queste due qui è così che è andata,” riassume Fiore di Loto dall’entrata alle se-
grete. Già era rimasta impressionata da Scuotivento. Adesso ne è positivamente terro-
rizzata.
“Pura coincidenza!”
“Vediamo di essere seri,” commenta Farfalla. “Abbiamo un simpatizzante all’interno
del palazzo. Forse è qualcuno che rischia continuamente la vita! Sappiamo che qual-
che eunuco è dalla nostra parte.”
“Suppongo non abbiano niente da perdere.”
“Hai un’idea migliore, Grande Mago?”
“Si. Tutti dentro.”

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“Cosa?”
“La faccenda mi puzza. Davvero uccideresti l’Imperatore? Voglio dire, proprio dav-
vero?”
Farfalla esita.
“Ne abbiamo sempre discusso. Due Erbe Urticanti diceva che se fossimo riusciti ad
assassinare l’Imperatore, avremmo acceso la torcia della libertà…”
“Certo. Sareste voi a bruciare. Ascoltate, tornate tutti in cella. E’ il posto più sicuro.
Vi chiuderò dentro e… andrò in perlustrazione.”
“Un prode suggerimento davvero,” commenta Duefiori. “Proprio da lui,” aggiunge
orgoglioso.
Farfalla lo guarda nel modo che ha imparato a temere.
“Un’ottima idea,” dice. “Verrò con te.”
“Oh, ma sarà senz’altro pericoloso… molto pericoloso,” replica svelto Scuotivento.
“Non potrà capitarmi niente di brutto se sarò con il Grande Mago,” ribatte Farfalla.
“Proprio vero. Proprio vero,” concorda Duefori. “A me non è mai capitato niente di
brutto, so che è così.”
“Oltretutto,” prosegue la figlia, “Ho preso la mappa. E sarebbe terribile se ti perdessi
ed accidentalmente ti ritrovassi fuori della Città Proibita, o no?”
Scuotivento si arrende. Non può che concludere che la moglie di Duefiori doveva es-
sere una donna estremamente intelligente.
“Oh, va bene,” acconsente. “Ma non devi intralciarmi. E devi fare come ti dico,
d’accordo?”
Farfalla fa un inchino.
“Fammi strada, Grande Mago,” conclude.

“Lo sapevo!” esclama Rotella. “Veleno!”


“No, no. Non devi mangiarlo. Devi strofinartelo addosso,” spiega il Signor Cervella-
ta.
“Sta a guardare. E diventerai quello che nella civiltà chiamano connestabile.”
La maggior parte dell’Orda è immersa fino alla vita nell’acqua calda, ciascun mem-

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bro con le mani castamente avvolte attorno al corpo. Hamish si è rifiutato di lasciare
la sedia a rotelle, perciò solo la testa emerge dalla superficie.
“Pizzica dappertutto,” dice Cohen. “E la mia pelle si stacca e si dissolve.”
“Quella non è pelle,” replica il Signor Cervellata. “Nessuno di voi ha mai visto una
bagno, prima?”
“Oh, io si,” risponde Giovane Willie. “In uno c’ho ucciso il Vescovo Pazzo di Pseu-
dopolis. C’ho preso” - solleva un sopracciglio – “bolle e roba così. E quindici fan-
ciulle nude.”
“Cusa?”
“Decisamente. Quindici. Me ricordo bene.”
“Così va meglio,” dice Caleb.
“Tutto quello che c’abbiamo noi da strofinare è questa cosa saponosa.”
“L’Imperatore viene abitualmente lavato da ventidue donne,” dice Sei Venti Benefici.
“Se volete vado a dare uno sguardo nell’harem degli eunuchi e li sveglio. Probabil-
mente sarebbe deducibile come Spesa d’intrattenimento.”
L’esattore sta prendendo confidenza con il nuovo lavoro. Ha capito che nonostante
l’Orda, individualmente considerata, si è procurata un sacco di contante nella carriera
da eroe barbaro che ognuno ha fatto, ha perso quasi tutto impiegandolo in altre attivi-
tà indispensabili al mestiere (che mentalmente ha catalogato come Pubbliche Rela-
zioni), le quali tuttavia gli danno diritto ad un ben cospicuo rimborso.
La circostanza che siano sconosciuti alle Agenzie di Riscossione di qualunque luo-
go31, non avendo mai prodotto alcuna dichiarazione dei redditi, costituisce un proble-
ma del tutto secondario. E’ il principio che conta. E gli interessi, anche.
“No, niente giovani donne, ribadisco,” interviene il Signor Cervellata. “State facendo
il bagno per essere puliti. Per le giovani donne avrete tutto il tempo più tardi.”
“C’ho appuntamento per quando tutto fatto,” dice con un po’ timidamente Caleb, ri-
pensando nostalgicamente ad una delle poche donne con cui abbia mai avuta una
conversazione. “C’ha una fattoria tutta sua, ha detto. Potrei andare bene con anatra.”
“Scommetto che Prof non vuole che dici così,” commenta Giovane Willie. “Scom-

31 Eccezion fatta per i manifesti con scritto: “Ricercati – Morti.”

190
metto che vuole che la chiami uccello acquatico.”
“Uh, uh, uhm!”
“Cusa?”
Sei Venti Benefici si avvicina furtivo all’insegnante intanto che l’Orda prova l’olio
da bagno, da principio bevendolo.
“Sono riuscito a capire cosa volete rubare,” dichiara.
“Oh, davvero?” replica il Signor Carvellata educatamente. Sta osservanto Caleb il
quale, avendo compreso che, per tutta la vita, potrebbe aver adottato un approccio
sbagliato, sta cercando di tagliarsi le unghie con la spada.
“E’ il leggendario Diamante della Tomba di Schz Yu!” esclama Sei Venti Benefici.
“No, Sbagliato di nuovo.”
“Oh.”
“Basta con il bagno, signori,” dice l’insegnante. “Penso… si… abbiate fatto pratica
di commercio, rapporti sociali -”
“- Uff, uff, uff… chiedo scusa -”
“- di principi della tassazione,” continua il Signor Cervellata.
“Lo abbiamo fatto? Allora che sono?” domanda Cohen.
“Avete portato via ai commercianti quasi tutti i soldi che avevano,” risponde Sei Ven-
ti Benefici passandogli un asciugamano.
“Oh, tutto qui? Sono anni che lo faccio.”
“No, gli portavate via tutto,” spiega il Signor Cervellata. “Questo è sbagliato. Ne uc-
cidevate troppi, e quelli che non uccidevate li lasciavate troppo poveri.”
“Il che è grandioso secondo me” commenta Rotella, scavando i contenuti cretacei di
un orecchio. “Commercianti poveri, noi ricchi.”
“No, no, no!”
“No, no, no?”
“Si! Non è civile!”
“E’ come con le pecore,” spiega Sei Venti Benefici. “Non si scuoiano tutte in una
volta, si tosano una volta l’anno.”
L’Orda è interdetta.

191
“Cacciatori di raccolti,” aggiunge il Signor Cervellata con un pizzico di disperazione.
“Metafora sbagliata.”
“Si tratta della meravigliosa Spada Canterina di Wong, non è vero?” bisbiglia Sei
Venti Benefici. “Ecco cosa volete rubare!”
“No. In effetti, “rubare” non è proprio il termine più adatto. Comunque, signori…
forse non siete ancora civilizzati ma almeno siete carini e puliti, e molte persone pen-
sano che le due cose si equivalgono. E’ tempo, credo, di… agire.”
L’Orda si mette sull’attenti. Sono di nuovo in un campo che riescono a capire.
“Alla Sala del Trono!” incita Gengis Cohen.
Sei Venti Benefici non è così bravo a capire al volo, tuttavia sa almeno fare due più
due.
“E’ l’Imperatore!” esclama, portandosi subito la mano davanti alla bocca con un or-
rore misto ad un piacere diabolico. “Intendete prenderlo!”
I diamanti brillano quando Cohen spalanca il sorriso.

Nel corridoio che conduce agli appartamenti privati dell’Imperatore ci sono due
guardie morte.
“Senti, secondo te com’è che vi hanno presi tutti vivi?” bisbiglia Scuotivento. “Le
guardie che ho visto hanno delle spade belle grosse. Com’è che non siete morti?”
“Immagino avessero intenzione di torturarci,” risponde Farfalla. “Ne abbiamo ferite
dieci.”
“Oh? Appiccicandogli addosso dei manifesti? Cantandogli canzoni rivoluzionarie
finché non si sono arrese? Senti, qualcuno vi voleva vivi.”
I pavimenti risuonano nell’oscurità. Ogni passo produce un coro di scricchiolii e ge-
miti, proprio come le assi del parquet dell’Università. Solo che non ci si aspetta que-
sto genere di cose in un palazzo tutto splendente come questo.
“Si chiamano pavimenti usignolo,” spiega Farfalla. “I carpentieri mettono delle pic-
cole fascette di metallo attorno ai chiodi così che nessuno possa insinuarsi di sorpre-
sa.”
Scuotivento abbassa gli occhi sui cadaveri. Nessuno ha la spada sguainata. Poggia

192
tutto il peso sul piede sinistro. Il pavimento scricchiola. Poi lo poggia sul piede de-
stro. Il pavimento geme.
“Non va bene, allora,” mormora. “Non si può cogliere qualcuno alla sprovvista su un
pavimento del genere. Perciò le guardie sono state uccise da qualcuno che conosce-
vano. Andiamo via da qui…”
“Proseguiamo,” replica Farfalla irremovibile.
“E’ una trappola. Qualcuno ci sta usando per fare il lavoro sporco.”
Scrolla le spalle. “Alla grossa statua di giada volta a sinistra.”

Le quattro del mattino: manca un’ora all’alba. Nelle sale di rappresentanza ufficiali si
trovano alcune guardie, ma non molte. Dopo tutto, si trovano ben dentro la Città
Proibita, con le sue alte mura e le porte minuscole. Non è che possa davvero succede-
re qualcosa.
Occorre una mente particolare per restare in piedi tutta la notte a fare la guardia a
delle stanze vuote. Unico Grande Fiume ce l’ha, che orbita gentilmente nell’altrimen-
ti beato vuoto del suo teschio.
L’hanno opportunamente chiamato Unico Grande Fiume perché ha la stessa taglia e
la stessa velocità dell’Hung. Si aspettavano tutti che diventasse un lottatore di tsimo,
ma ha fallita la prova d’intelligenza perché non ha mangiato il tavolo.
E’ impossibile che si annoi. Solo perché non ha abbastanza immaginazione. Tuttavia,
poiché la visiera del suo elmo gigantesco ha preimpostata un’espressione costante di
rabbia metallica, ha comunque coltivata l’arte del dormire in piedi.
Al momento sonnecchia placidamente, consapevole solamente di qualche scricchio-
lio occasionale, come quello di un topo estremamente cauto.
La visiera dell’elmo si solleva. Una voce chiede: “Preferiresti morire piuttosto che
tradire l’Imperatore?”
Una seconda voce aggiunge: “Non è una domanda a trabocchetto.”
Unico Grande Fiume sbatte le palpebre e poi guarda fisso verso il basso. Un’appari-
zione su una sedia con le rotelle cigolanti tiene una spada bella grossa puntata esatta-
mente nello sconveniente punto in cui la parte superiore dell’armatura non combacia

193
perfettamente con quella inferiore.
Una terza voce interviene: “Sono costretto a precisare che le ultime ventinove perso-
ne che hanno dato la risposta sbagliata sono… pesce essiccato sbudellato… chiedo
scusa, persone morte sbudellate.”
Una quarta voce dice: “E non siamo degli eunuchi.”
Unico Grande Fiume rimbomba nello sforzo di pensare.
“Penso preferisce vivere,” risponde.
Un uomo con dei diamanti dove dovrebbero esserci i denti gli dà una cameratesca
pacca sulla spalla. “Bravo ragazzo,” esordisce. “Unisciti all’Orda. Ci farebbe como-
do uno come te. Magari come arma da assedio.”
“Chi è voi?” chiede.
“Lui è Gengis Cohen,” risponde il Signor Cervallata. “Signore delle imprese corag-
giose. Uccisore di draghi. Saccheggiatore delle città. Ha comprato una mela una vol-
ta.”
Nessuno ride. Il Signor Cervellata ha scoperto che l’Orda non ha concezione alcuna
di tutto quanto riguarda il sarcasmo. Quasi sicuramente nessuno ha mai provato a far-
ne su di loro.
Unico Grande Fiume è stato cresciuto per fare quel che gli viene detto. E’ da una vita
che gli dicono tutti cosa deve fare. Si unisce all’uomo con i denti di diamante perché
è il tipo di uomo che bisogna seguire quando dice “seguimi”.
“Però, sapete, ci sono decine di migliaia di uomini che preferirebbero morire piutto-
sto che tradire l’Imperatore,” bisbiglia Sei Venti Benefici, intanto che sfilano lungo il
corridoio.
“Lo spero proprio.”
“Alcuni di loro saranno di guardia attorno alla Città Proibita. Li abbiamo evitati, però
sono ancora là. Dovremo farci i conti alla fine.”
“Oh, bene!” esclama Cohen.
“Male,” dice il Signor Cervellata. “Quello che è capitato con i ninja è stato solamente
frutto dell’entusiasmo -”
“- entusiamo -” mormora Sei Venti Benefici.

194
“- ma è meglio evitare un vero e proprio scontro all’aperto. Sarebbe un macello.”
Cohen si avvicina alla parete più vicina, decorata con dei meravigliosi pavoni, ed
estrae il coltello.
“Carta,” commenta. “Maledetta carta. Pareti di carta.” La trapassa con la testa. Un
gemito stridulo. “Oops, mi scusi, signora. Ispezione ufficiale del muro.” Tira fuori la
testa sorridendo allegramente.
“Ma non potete attraversare i muri!” esclama Sei Venti Benefici.
“Perché no?”
“Perché – beh, perché sono muri. Cosa accadrebbe se tutti se ne andassero a spasso
attraverso i muri? A cosa pensate servano le porte?”
“Penso che servano agli altri,” risponde Cohen. “Da che parte sta la sala del trono?”
“Cusa?”
“Si chiama pensiero laterale,” spiega il Signor Cervellata mentre lo seguono.
“Gengis è davvero bravo con un certo tipo di pensiero laterale.”
“Cos’è un laterale?”
“Ehm. Una specie di muscolo, credo.”
“Pensare con i muscoli… Si, capisco,” commenta Sei Venti Benefici.

Scuotivento sgattaiola in uno spazio tra la parete e la statua di un cane dall’aspetto


assai vivace con la lingua a penzoloni.
“Che c’è adesso?” domanda Farfalla.
“Quant’è grande l’Esercito Rosso?”
“Siamo in migliaia,” risponde Farfalla con insolenza.
“Ad Hunghung?”
“Oh, no. C’è una cellula in ogni città.”
“Lo sai per certo, vero? Le hai incontrate?”
“Sarebbe avventato. Solo Due Erbe Urticanti sa come contattarle…”
“Ma guarda. Ebbene, sai cosa penso? Penso che qualcuno voglia la rivoluzione. E
voi siete così dannatamente rispettosi ed educati che deve faticare non poco per orga-
nizzarne una! Ma basta che s’inventi dei ribelli che tutto diventa possibile.”

195
“Non può essere vero…”
“I ribelli delle altre città, compiono delle imprese rivoluzionarie epiche, vero?”
“Ne riceviamo continuamente i resoconti!”
“Dal nostro amico Erbe?”
Farfalla lo guarda male.
“Si…”
“Cominci a riflettere, non è vero?” chiede Scuotivento. “Finalmente le care vecchie
cellule cerebrali si sono messe in moto, vero? Ottimo. Ti ho convinta?”
“Io… non lo so.”
“Adesso torniamo indietro.”
“No. Adesso devo scoprire se quello che suggerisci è vero.”
“Morire per scoprire, eh? Santi numi, voi gente mi fate veramente arrabbiare.
D’accordo, osserva…”
Scuotivento raggiunge a grandi falcate la fine del corridoio. Ci sono un paio di grandi
porte, ai lati delle quali stanno un paio di dragoni di giada.
Le spalanca.
La stanza dietro quelle ha il soffitto basso ma è grande. Al centro, sotto un baldacchi-
no, c’è un letto. E’ difficile distinguere la forma di chi ci è sdraiato, ma ha quella cer-
ta immobilità che suggerisce il genere di sonno dal quale è piuttosto improbabile esi-
sta un qualche tipo di risveglio.
“Lo vedi?” dice. “L’hanno… già… ucciso…”
Una dozzina di soldati fissano Scuotivento stupefatte.
Alle sue spalle sente lo scricchiolio del pavimento e poi dei suoni come di fendenti
seguiti da un rumore simile alla pelle umida sbattuta contro la roccia.
Scuotivento guarda il soldato più vicino. In mano ha una spada.
La lama è percorsa da una goccia di sangue che, dopo un istante in cui rimane sospe-
sa con un effetto drammatico, cade sul pavimento.
Scuotivento alza gli occhi e solleva il cappello.
“Vogliate scusarmi,” dice allegramente. “Questa non è la stanza 3B?”
E fugge di corsa.

196
I pavimenti stridono sotto il suo peso ed alle sue spalle qualcuno grida il soprannome
di Scuotivento, che è: “Non fatelo scappare!”
Lasciatemi scappare, prega Scuotivento, oh, per favore, lasciatemi scappare.
Nel voltare l’angolo scivola, attraversa sbandando una parete di carta ed atterra in
una vasca ornamentale per i pesci. Ma Scuotivento in volo ha delle abilità feline, per-
fino messianiche. L’acqua a malapena s’increspa sotto i suoi piedi quando rimbalza
sulla superficie e fugge via.
Esplode un’altra parete e si trova presumibilmente nello stesso corridoio.
Dietro di lui, qualcuno atterra pesantemente su una pregiata carpa koi.
Scuotivento si lancia di nuovo in avanti.
Da: in qualunque stupida fuga costituisce il fattore più importante. Si scappa sempre
da. Il per dove viene da sé.
Supera una lunga rampa di bassi gradini di pietra, rotola verticale fino alla fine e par-
te spedito lungo un altro corridoio a caso.
Le gambe si sono organizzate oramai. Dapprima la corsa, folle e selvaggia, per sot-
trarsi all’immediato pericolo, e dopo un’andatura solida e costante per allontanarsene
quanto più possibile. E’ questo il trucco.
La storia racconta di un uomo che ha corso per sessantacinque chilometri, dopo una
battaglia, per riferirne l’esito vittorioso a coloro che erano in patria. E’ considerato,
tradizionalmente, il più grande corridore di tutti i tempi, ma se avesse dovuto riferire
di una battaglia imminente sarebbe stato surclassato da Scuotivento.
E tuttavia… qualcosa sta guadagnando terreno.

Un coltello spunta nella parete della sala del trono e taglia un buco grande abbastan-
za da fare spazio ad un uomo in piedi o ad una sedia a rotelle.
L’Orda borbotta.
“Bruce l’Unno non è mai passato da dietro.”
“Chiudi il becco.”
“Mai una volta dai cancelli sul retro, Bruce l’Unno.”
“Chiudi il becco.”

197
“Quando Bruce l’Unno ha attaccato Al Khali, ha puntato dritto sulla torre di guardia
principale, con un migliaio di uomini urlanti in sella a dei cavalli davvero piccoli pic-
coli.”
“Già, ma… l’ultima volta che ho visto Bruce l’Unno, aveva la testa infilata in una
picca.”
“Va bene, te lo concedo. Ma almeno era in cima al cancello principale. Cioè, alla fine
è entrato.”
“La sua testa l’ha fatto.”
“Oh santo…”
Il Signor Cervellata è compiaciuto. La stanza in cui entrano basta a mettere l’Orda a
tacere, sebbene per poco. E’ grande, ovviamente, ma non è il suo unico scopo. Unico
Spettro Solare, nel riunire le tribù, le regioni ed il piccolo stato-isola insieme, aveva
voluto costruita una sala che comunicasse ai capi tribù ed agli ambasciatori: questo è
lo spazio più grande in cui vi siate mai trovati, è assai più splendido di qualunque
cosa abbiate mai immaginato, ed abbiamo molte altre sale identiche a questa.
Aveva voluto che fosse impressionante. L’aveva molto chiaramente voluta affinché
risultasse intimidatoria per dei semplici barbari così che si arrendessero lì e subito.
Lasciate che ci siano delle statue immense, aveva detto. E degli enormi arazzi deco-
rativi.
Lasciate che ci siano colonne e sculture. Lasciate che il visitatore ammutolisca di
fronte al puro sfarzo. Lasciate che gli dica “Questa è la civiltà, e puoi o unirti a lei o
morire. E adesso inginocchiati o ti accorceranno in un altro modo.”
L’Orda le concede il beneficio di un’ispezione.
Alla fine Rotella dice: “Va tutto bene, suppongo, ma non regge il confronto con la
nostra casa lunga del capo tribù giù a Skund. Guardate, non c’è neppure il fuoco al
centro del pavimento.”
“Vistosa, per i miei gusti.”
“Cusa?”
“Tipicamente straniera.”
“Eliminerei quasi tutto e metterei della paglia decente sul pavimento e qualche scudo

198
appeso alle pareti.”
“Cusa?”
“Bada bene, con qualche centinaio di tavoli ci si potrebbe fare una baldoria del dia-
volo.”
Cohen attraversa l’enorme superficie e raggiunge il trono, il quale si trova sotto un
immenso baldacchino.
“C’ha sopra un ombrello, guardate.”
“Forse piove dal tetto. Non ci si può fidare delle tegole. Della buona paglia per tetti ti
conserva le ossa asciutte per quarant’anni.”
Il trono è di legno laccato, con incastonate diverse gemme preziose. Cohen si siede.
“Tutto qui?” chiede. “Abbiamo finito, Prof?”
“Si. Ovviamente, adesso devi farla franca,” risponde il Signor Cervellata.
“Scusate,” interviene Sei Venti Benefici. “Cos’è che avete fatto?”
“Hai presente quella cosa che siamo venuti a rubare?” risponde il professore.
“Si?”
“E’ l’Impero.”
L’espressione dell’esattore rimane identica per qualche secondo, poi sfocia in una
smorfia d’orrore.
“Penso sia necessaria una colazione prima di proseguire oltre,” dice il Signor Cervel-
lata. “Signor Venti, vorreste forse essere così gentile da chiamare qualcuno?”
L’esattore è ancora paralizzato con la smorfia sul viso.
“Ma… ma… un impero non si conquista così!” riesce ad esclamare. “Bisogna avere
un esercito, come i signori della guerra! Entrare semplicemente così… E’ contro le
regole! E… e… ci sono migliaia di guardie!”
“Si, ma sono tutte là fuori,” replica il Signor Cervellata.
“Che fanno la guardia a noi,” aggiunge Cohen.
“Oh davvero?” interviene Rotella. “E chi è che è morto e ti ha fatto Imperatore?”
“Nessuno deve morire,” risponde il Signor Cervellata. “Si chiama usurpare.”
“Esatto,” dice Cohen. “Basta dire, guarda qui, Gunga Din, sei fuori dai giochi, okay?
Togliti dalle scatole e vattene su qualche isola da qualche parte o -”

199
“Gengis -” lo interrompe il Signor Cervellata, “pensi di riuscire a trattenerti dal rife-
rirti agli stranieri in questa maniera piuttosto offensiva? Non è civile.”
Cohen scrolla le spalle.
“Comunque avrete dei grossi problemi con le guardie e tutto il resto,” osserva Sei
Venti Benefici.
“Forse no,” replica Cohen. “Diglielo, Prof.”
“Avete mai visto il, ehm, precedente Imperatore?” chiede il Signor Cervellata. “Si-
gnor Venti?”
“Naturalmente no. Difficilmente qualcuno ha visto -”
S’interrompe.
“Ci siete arrivato, dunque,” commenta il Signor Cervellata. “Siete bravo a capire al
volo, Signor Venti. Come si addice al Lord Capo Supremo dell’Esattoria.”
“Ma non funzionerà perché -” Sei Venti Benefici s’interrompe di nuovo. Le parole
del Signor Cervellata fanno breccia nella sua mente.
“Lord Capo Supremo? Io? Con il cappello nero con su il distintivo rosso rubino?”
“Si.”
“E con una piuma, se lo desideri,” aggiunge Cohen munifico.
L’esattore pare assorto nelle sue riflessioni.
“Perciò… se ci fosse, per dire, un semplice Amministratore Distrettuale che fosse in-
credibilmente crudele con i propri dipendenti, soprattutto con un operoso vice ag-
giunto, e che meritasse indiscutibilmente una bella ripassata -”
“In qualità di Lord Capo Supremo dell’Esattoria, ovviamente, la questione riguarde-
rebbe solamente voi.”
Sei Venti Benefici fa un sorriso che rischia di fargli saltare la cima della testa.
“Approposito del nuovo sistema di tassazione,” dice, “Ho sempre pensato che l’aria
fresca è troppo facilmente reperibile ad un costo di produzione ben inferiore -”
“Ascolteremo le vostre proposte con estremo interesse,” lo interrompe il Signor Cer-
vellata. “Nel frattempo, per favore provvedete per la colazione.”
“E fate convocare,” aggiunge Cohen, “tutti i bastardi che pensano di sapere che
aspetto ha l’Imperatore.”

200
L’inseguitore si avvicina.
Scuotivento gira l’angolo slittando e là, a bloccare il passaggio, trova tre guardie.
Sono vive, ed armate di spada.
Qualcuno carambola sulla sua schiena, lo spinge a terra e lo supera con un salto.
Chiude gli occhi.
Un paio di tonfi, un lamento e poi un rumore metallico davvero strano.
Di un elmo, che vortica sul pavimento.
Qualcuno lo strattona costringendolo ad alzarsi.
“Intendi restartene sdraiato tutto il giorno?” domanda Farfalla. “Andiamo. Non sono
troppo lontane!”
Scuotivento lancia un’occhiata alle guardie supine e poi segue la ragazza a grandi
passi.
“Quante ce ne sono?” riesce a chiedere.
“Adesso sette. Ma due di loro zoppicano ed un’altra fa fatica a respirare. Andiamo.”
“Li hai colpiti tu?”
“Sprechi sempre fiato a questo modo?”
“Non avevo mai incontrato nessuno capace di tenere il mio passo finora!”
Svoltano un angolo e quasi investono un’altra guardia.
Farfalla nenche si ferma. Fa un passo distinto, piroetta su un piede e calcia l’uomo
così forte su un orecchio da farlo girare su sé stesso ed atterrare sulla testa.
Fa una pausa, ansima e si rimette apposto una ciocca di capelli.
“Dovremmo separarci,” dice.
“Oh, no!” esclama Scuotivento. “Voglio dire, devo proteggerti!”
“Io tornerò dagli altri. Tu conduci le guardie da qualche parte lontano -”
“Sapete fare tutti così?”
“Naturalmente,” risponde seccata Farfalla. “Te l’ho detto che abbiamo combattuto
con le guardie. Dunque, se ci dividiamo uno di noi è obbligato a scappare. Che assas-
sini! Era programmato che ci prendessimo la colpa!”
“Non ho forse cercato di dirtelo? Pensavo che lo volessi morto!”

201
“Si, ma noi siamo ribelli. Quelle erano guardie di palazzo!”
“Ehm -”
“Non c’è tempo. Ci vediamo in Paradiso.”
Schizza via.
“Oh.”
Scuotivento si guarda intorno. E’ tutto tranquillo.
Delle guardie compaiono alla fine del corridoio, ma con cautela, come conviene a chi
ha appena incontrato Farfalla.
“Là!”
“E’ lei?”
“No, è lui!”
“Prendiamolo!”
Accelera di nuovo, svolta un angolo e scopre di essere finito in un cul-de-sac che in-
dubbiamente, stando ai rumori alle sue spalle, è una strada senza uscita. Però ci si af-
facciano un paio di porte. Ne spalanca una a calci, si precipita dentro, e rallenta…
L’interno è buio, ma i suoni e l’atmosfera suggeriscono trattarsi di uno spazio ampio,
mentre una certa componente flatulenta identifica un qualche genere di stalla.
Un caminetto, comunque, sprigiona un pò di luce. Scuotivento si avvicina con passo
svelto e vede un enorme calderone, delle dimensioni di un uomo, pieno di riso che
bolle.
E quando i suoi occhi si abituano all’oscurità si rende conto che alcune sagome giac-
ciono sdraiate su delle tavole poste lungo ambedue le pareti di una stanza sproporzio-
nata.
Russano dolcemente.
In effetti sono delle persone. Potrebbe trattarsi di esseri umani, o almeno di esseri con
degli antenati umani, finché qualcuno, centinaia di anni fa, non ha detto: “Vediamo
fino a che punto riusciamo a far crescere grosse e grasse le persone. Proviamo ad al-
levare dei bastardi davvero grandi.”
Tutte quelle corporature gigantesche indossano ciò che agli occhi di Scuotivento
sembrano pannolini e sonnecchiano beatamente accanto ad una ciotola contenente

202
una quantità di riso sufficiente a far esplodere una ventina di persone, per il caso che
si sveglino durante la notte ed abbiano voglia di uno spuntino leggero.
Un paio dei suoi inseguitori si affaccia alla porta d’ingresso e si blocca. Poi prosegue,
ma con molta prudenza, osservando attentamente i movimenti lenti di quelle monta-
gnole.
“Oi, oi, oi!” Scuotivento grida.
Gli uomini s’immobilizzano e lo guardano fisso.
“Sveglia, sveglia! Andiamo a guardare l’alba figlioli!” Afferra un mestolo massiccio
e lo sbatte contro il calderone del riso. “In piedi! Pigliate – ehm – qualunque cosa
riuscite a trovare e su con i calzini!”
I dormienti si stiracchiano.
“Oooorrrrr?”
“Ooooaaaoooooor!”
La stanza trena quando quarantatré gambe grosse come dei tronchi dondolano fuori
dalle tavole. Le carni si riassestano così che, nella penombra, a Scuotivento pare di
essere osservato da venti piccole piramidi.
“Haaaroooooohhhh?”
“Quegli uomini lì,” risponde Scuotivento, indicando alla disperata i suoi inseguitori, i
quali arretrano lentamente, “quegli uomini hanno un panino con del maiale!”
“Oorrry orrraaah?”
“Oooorrrr?”
“E la mostarda!”
“Oooorrrr!”
Venti teste molto piccole si voltano. Per un totale di ottanta neuroni specializzati che
si accendono improvvisamente di vita.
E poi il pavimento trema. I lottatori cominciano a spostarsi pieni di speranza verso
gli uomini, con una corsa lenta ma deliberatamente determinata a non essere interrot-
ta se non dalla collisione con un altro lottatore o un continente.
“Oooorrr!”
Scuotivento si precipita alla porta più lontana e la attraversa sfondandola. Un paio di

203
uomini sono seduti in una stanzetta a bere del tè ed a giocare a shibo, con un terzo
che li guarda.
“I lottatori sono incontenibili!” grida. “Temo sia in corso una fuga!”
Un uomo scaglia la sua tessera dello shibo. “Maledizione! E non sarà passata un’ora
da quando gli abbiamo dato da mangiare!”
Gli uomini afferrano diverse reti e pungoli e dei capi di abbigliamento di protezione,
lasciando Scuotivento da solo.
Un’altra porta. L’attraversa con fare disinvolto. Non ha mai tentato di fingersi disin-
volto prima d’ora, ma deve riconoscere che il pensare in fretta gli riesce disinvolto.
Un altro corridoio. Lo percorre velocemente, poiché l’assenza di inseguitori non co-
stituisce una buona ragione per smettere di correre.

Lord Magazzinai sta piegando della carta.


E’ un esperto in materia, perché quando lo fa gli dedica la massima attenzione. Lord
Magazzinai è dotato di una mente affilata come un coltello, seppure un coltello con
una lama curva.
La porta scorre di lato. Una guardia, con il viso arrossato dalla corsa, si getta sul pa-
vimento.
“Onorevole Lord Magazzinai, il quale è lodato -”
“Si, certamente,” lo interrompe Lord Magazzinai distrattamente, cercando di fare una
piegatura assai complessa. “Cos’è andato storto stavolta?”
“Mio signore?”
“Ti ho chiesto cos’è andato storto.”
“Uh… abbiamo ucciso l’Imperatore come ordinato -”
“Da chi?”
“Mio signore! Voi avete dato l’ordine!”
“Io?” replica Lord Magazzinai, ripiegando la carta nel senso della lunghezza.
La guardia chiude gli occhi. Ha una visione, una visione brevissima, del futuro. Con-
tiene una lancia. Prosegue con il resoconto.
“Ma… non riusciamo a trovare i prigionieri da nessuna parte, signore! Abbiamo sen-

204
tito qualcuno avvicinarsi e poi… ebbene, abbiamo visto due persone, signore. Le
stiamo inseguendo. Ma gli altri sono svaniti.”
“Nessuno slogan? Né manifesti rivoluzionari? Niente colpevoli?”
“No, signore.”
“Capisco. Resta qui.”
Le mani di Lord Magazzinai continuano a piegare mentre guarda l’altro presente nel-
la stanza.
“Hai qualcosa da dire, Due Erbe Urticanti?” domanda gentilmente.
Il capo rivoluzionario sembra imbarazzato.
“L’Esercito Rosso ci è costato parecchio,” dice Lord Magazzinai. “Solo per la stam-
pa dei manifesti… E non puoi dire che non vi abbia aiutati. Abbiamo aperto le serra-
ture ed ucciso le guardie ed abbiamo fornito ai tuoi miserabili compagni delle spade
ed una mappa, o no? E adesso è improbabile che possa rivendicare che hanno ucciso
l’Imperatore, possa restare morto per diecimila anni, perché non c’è traccia di loro.
Le persone faranno troppe domande. A stento posso ucciderle tutte. E pare che ci sia-
no anche dei barbari all’interno dell’edificio.”
“Deve essere andato storto qualcosa, mio signore.” Erbe è ipnotizzato dal movimento
delle mani che accarezzano la carta.
“Peccato. Non mi piace quando le cose vanno storte. Guardia? Farai ammenda del
tuo miserabile essere. Portalo via. Dovrò provare con un piano alternativo.”
“Mio Signore!”
“Si, Due Erbe Urticanti?”
“Quando avete… quando abbiamo… quando si è stabilito che l’Esercito Rosso sa-
rebbe stato volto in vostro favore, mi avete promessa l’immunità.”
“Oh, si. Ricordo. Ho detto, non è vero, che non avrei né pronunciato né scritto alcuna
condanna a morte per te? E devo mantenere la parola, altrimenti che persona sarei?”
Esegue un’ultima piega ed apre le mani, posando la piccola decorazione di carta sulla
scrivania laccata al suo fianco.
Erbe e la guardia la fissano.
“Guardia… portalo via,” comanda Lord Magazzinai.

205
Si tratta di una riproduzione in carta, meravigliosamente realizzata, di un uomo.
Ma pare non ci fosse abbastanza carta per la testa.

La corte strettamente considerata risulta consistere in circa un’ottantina di uomini,


donne ed eunuchi, tutti in diversi stati d’insonnia.
Sono sorpresi da ciò che vedono sul trono.
L’Orda è piuttosto sorpresa dalla corte.
“Chi sono ‘ste ragazzette con la faccia acida qua davanti?” bisbiglia Cohen, che per
passare il tempo lancia in aria un coltello e lo riprende al volo. “Non mi sprecherei
neppure a dargli fuoco.”
“Sono le mogli del precedente Imperatore,” sibila Sei Venti Benefici.
“Non dobbiamo sposarle, vero?”
“Penso di no.”
“Perché hanno piedi così piccoli?” chiede Cohen. “Mi piace vedere piedi grandi in
una donna.”
Sei Venti Benefici glielo spiega. L’espressione di Cohen s’indurisce.
“Sto imparando un sacco sulla civiltà, proprio un sacco,” commenta. “Unghie lun-
ghe, piedi storpi e servitori che se ne corrono in giro senza i gioielli di famiglia.
Pfui.”
“Cosa sta succedendo qui, di grazia?” chiede un uomo di mezza età. “Voi chi siete?
Chi sono questi vecchi eunuchi?”
“Chi sei tu?” domanda Cohen. Sfodera la spada. “Devo sapere cosa c’ho da scrivere
sulla lapide -”
“A questo punto magari delle presentazioni potrebbero essere di qualche effetto?” in-
terviene il Signor Cervellata. Fa un passo avanti. “Lui,” dice, “è Gengis Cohen –
mettila via, Gengis -, il quale, tecnicamente, è un barbaro, e loro sono l’Orda. Hanno
invaso la vostra città. E voi siete -?”
“Invasori barbari?” ribatte l’uomo sprezzante, ignorandolo. “Gli invasori barbari si
presentano a migliaia! Sono dei grossi uomini urlanti in sella a dei piccoli cavalli!”
“Ve l’avevo detto,” commenta Rotella. “Ma qualcuno mi ascolta mai?”

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“- e poi ci sono gli incendi, le rapine, i saccheggi e il sangue nelle strade!”
“Non abbiamo ancora fatto colazione,” dice Cohen, lanciando di nuovo il coltello in
aria.
“Ah! Preferisco morire piuttosto che sottomettermi ad uno come voi!”
Cohen scrolla le spalle. “Perché non l’hai detto prima?”
“Oops,” commenta Sei Venti Benefici.
Il lancio è davvero molto accurato.
“Ma chi era, tanto per sapere?” chiede Cohen, mentre il corpo si ripiega su sé stesso.
“Qualcuno sa chi era?”
“Gengis,” interviene il Signor Cervellata, “Devo sempre ripetermi: quando le perso-
ne dicono che preferirebbero morire, non intendono sul serio che preferirebbero mo-
rire. Non sempre.”
“Allora perché lo dicono?”
“E’ una cosa che si fa.”
“Si tratta ancora di civiltà?”
“Temo di si.”
“Chiariamo questa cosa una volta per tutte, d’accordo?” dice Cohen alzandosi in pie-
di. “Alzino la mano quelli che preferirebbero morire piuttosto che avermi come Im-
peratore.”
“Nessuno?” sonda il Signor Cervellata.

Scuotivento cammina lesto in un altro corridoio. Ma non c’è modo di uscire dal pa-
lazzo? Diverse volte ha creduto di aver trovato un’uscita, ma portava solamente ad
un cortile interno all’immensa costruzione, pieno di fontane zampillanti e salici.
Ed il posto si sta svegliando. Alle sue spalle – dei passi lo rincorrono.
Una voce grida, “Ehi -”
Si lancia attraverso la porta più vicina.
La porta dietro quella è piena di vapore. Che si alza torbido in nuvole fluttuanti.
Riesce a malapena ad intravedere una sagoma faticare duramente all’enorme ruota e
le parole “camera di tortura” gli attraversano la mente finché l’odore del sapone non

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le rimpiazza con la parola “lavanderia”. Delle figure assai pallide ma incredibilmente
pulite sollevano gli occhi dai tini e lo guardano con appena un pizzico di curiosità.
Non sembrano il genere di persone in stretto contatto con gli avvenimenti recenti.
Un po’ corre ed un po’ passeggia tra i calderoni ribollenti.
“Continua pure. Bravo. Proprio così, sfrega, sfrega, sfrega. Fammi vedere quegli
strizzatoi che strizzano. Ben fatto. C’è un’altra porta per uscire da qui? Ottime quelle
bolle, davvero delle ottime bolle. Ah…”
Uno degli addetti alla lavanderia, il quale sembra essere il capo, gli lancia un’occhia-
ta sospettosa e pare sul punto di dire qualcosa.
Scuotivento scarta per un cortile attraversato dalle corde per stendere il bucato e si
arresta, ansimante, con le spalle poggiate contro il muro.
Nonostante vada contro i principi generali, forse è tempo di fermarsi a pensare.
Le persone gli stanno dando la caccia. Il che significa che corrono dietro una sagoma
sfuggente con una cappa rossa sbiadita ed un cappello a punta piuttosto carbonizzato.
Scuotivento deve sforzarsi non poco per scendere a patti con l’idea, ma è possibile
che se indossasse qualcosa di diverso non lo inseguirebbero più.
Sul filo davanti a lui le maglie ed i pantaloni sventolano nella brezza.
Il taglio sta alla sartoria allo stesso modo in cui lo spaccare la legna sta alla carpente-
ria. Qualcuno ha imparato a padroneggiare l’arte della forma a tubo e là si è fermato.
Assomigliano proprio ai vestiti che quasi tutti indossano ad Hunghung.
Il palazzo è come una piccola città per com’è concepito, suggerisce la voce della ra-
gione.
Deve pullulare di persone impegnate in ogni genere di commissione, aggiunge.
Vorebbe dire… levarti il cappello, aggiunge ancora.
Scuotivento esita. E’ difficile per un non-mago sforzarsi di capire l’enormità di un si-
mile suggerimento. Un mago si ritroverebbe all’istante senza la toga, con i pantaloni
e poi rinuncerebbe al cappello. Senza il cappello, chiunque lo scambierebbe per una
persona comune.
Si sente gridare in lontananza.
La voce della ragione riesce a comprendere che deve andarci piano se non intende fi-

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nire morta insieme con il resto di Scuotivento e perciò aggiunge sarcasticamente:
d’accordo, teniamoci il miserabile cappello. Il maledetto cappello è la ragione princi-
pale per cui ci ritroviamo in questo casino dopo tutto. T’illudi forse che ti resterà una
testa su cui posarlo?
Le mani di Scuotivento, parimenti consapevoli che i momenti stanno per farsi estre-
mamente interessanti e decisamente brevi a meno che non prendano in loro stesse la
situazione, si allungano lentamente e staccano un paio di pantaloni ed una camicia e
li inzeppano nella cappa.
La porta si spalanca. Ha ancora le guardie alle calcagna ed all’inseguimento si sono
aggiunti anche un paio dei mandriani tsimo. Uno dei quali agita un pungolo verso
Scuotivento.
Supera rapidamente un arco e s’immette veloce in un giardino.
Nel quale si trovano una pagoda, dei salici ed una bella signora sopra un ponte che dà
da mangiare agli uccelli.
Ed un uomo che dipinge un piatto.

Cohen si sfrega le mani.


“Nessuno? Bene. Allora è tutto risolto.”
“Ehhem.”
Un ometto in prima fila ha fatto di tutto per restarsene al suo posto, però dice: “Mi
scusi… cosa accadrebbe se, per ipotesi, chiamassimo le guardie e la denunciassimo?”
“Sareste tutti morti prim’ancora che riescano ad attraversare la porta,” risponde Co-
hen in modo molto pratico. “Altre domande?” chiede al coro di rantoli.
“Ehm… L’Imperatore… cioè, l’ultimo Imperatore… aveva delle guardie davvero
speciali…”
Un tintinnio. Qualcosa di piccolo e con diverse punte rotola dai gradini e mulinella
sul pavimento. E’ una stella ninja.
“Avere incontrate,” dice Giovane Willie.
“Ottimo, ottimo,” commenta l’ometto. “Sembra tutto apposto. Possa l’Imperatore re-
gnare per diecimila anni!”

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Il grido viene condiviso, ma con scarsa coordinazione.
“Come ti chiami, giovanotto?” chiede il Signor Cervellata.
“Quattro Grandi Corna, signore.”
“Molto bene. Molto bene. Prevedo che farai molta strada. Che lavoro fai?”
“Sono il Gran Assistente del Lord Ciambellano, signore.”
“Chi di voi è il Lord Cimabellano?”
Quattro Grandi Corna indica l’uomo che ha preferito morire.
“Ecco fatto, vedi,” dice il Signor Cervellata. “Le promozioni arrivano in fretta per le
persone che sanno adattarsi, Lord Ciambellano. E ora, l’Imperatore farà colazione.”
“E cosa desidera?” domanda il nuovo Lord Ciambellano, sforzandosi di apparire bril-
lante e capace di adattarsi.
“Ogni sorta di cose. Per il momento, però, dei grossi pezzi di carne e tanta birra. Sco-
prirete che è molto facile accontentare i gusti dell’Imperatore.” Il Signor Cervellata
sorride con il piccolo sorriso d’intesa che talvolta sorride quando sa che è l’unico in
grado di capire la battuta. “L’Imperatore non è favorevole a quella che chiama “ro-
gnosa porcheria straniera piena di bulbi oculari e altra robaccia simile” e preferisce di
gran lunga del cibo semplice e salutare come le salsicce, le quali sono fatte con una
miscela di organi animali macinati dentro un tratto di intestino. Ahaha. Ma se volete
farlo contento, dei grossi pezzi di carne basteranno. Non è così, mio signore?”
Cohen fissa la gente di corte riunita. Quando sei sopravvissuto per novant’anni a
qualunque attacco possa essere sferrato da uomini, donne, troll, nani, giganti, robe
verdi con un sacco di zampe e, in un’occasione, ad un’aragosta furibonda, riesci a ca-
pire molto anche solo osservando le facce.
“Eh?” risponde Cohen. “Oh. Si. Abbastanza corretto. Grossi pezzi. Ehi, Signor Esat-
tore… che fa questa gente tutto il giorno?”
“Cosa vorreste che facesse?”
“Vorrei si levasse dalle scatole.”
“Come, mio signore?”
“[Pittogramma complicato],” spiega il Signor Cervellata. Il nuovo Lord Ciambellano
ha un’aria un pò sbigottita.

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“Come, qui?”
“E’ un modo di dire. Significa solamente che vuole che usciate tutti velocemente.”
La corte si precipita fuori. Un pittogramma sufficientemente complicato vale mille
parole.

Dopo la fuga disordinata l’artista Tre Solide Rane si alza in piedi, recupera il pennel-
lo dalla narice, tira via il cavalletto da dentro un albero e tenta di concentrarsi su dei
pensieri placidi.
Il giardino non è più lo stesso.
Il salice è stato piegato. La pagoda è stata demolita da un lottatore fuori controllo che
s’è ingoiato il tetto. Le colombe sono volate via. Il ponticello è stato rotto. La sua
modella, la concubina Jade Fan, è scappata via in lacrime dopo essere riuscita a issar-
si fuori dal laghetto ornamentale.
E qualcuno gli ha rubato il cappello di paglia.
Tre Solide Rane sistema ciò che rimane del suo abito e si sforza di ricomporsi.
Il piatto con lo schizzo è andato in frantumi, ovviamente.
Ne estrae un altro dalla sacca e prende la tavolozza.
C’è l’enorme impronta di un piede nel mezzo…
Ha voglia di piangere. Gli è rimasto solamente il blu. Ebbene, gliel’avrebbe fatta ve-
dere…
Tenta d’ignorare la devastazione che ha di fronte e si concentra sull’immagine nella
sua testa.
“Vediamo, ecco,” pensa. “Jade Fan inseguita sopra un ponte da un uomo che agita le
braccia ed urla “Levati di mezzo!” seguito da un uomo con un pungolo, tre guardie,
cinque addetti alla lavanderia ed un lottatore incapace di fermarsi.”
Dovrà semplificare un po’ le cose, naturalmente.

Gli inseguitori svoltano l’angolo, tranne il lottatore, il quale non è stato concepito per
una manovra così complicata.
“Dov’è andato?”

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Si trovano in un cortile. Da un lato ci sono i porcili e dall’altro dei mucchi di letame.
E, nel mezzo del cortile, c’è un cappello a punta.
Una delle guardie allunga un braccio ed afferra quello di un collega prima che possa
spingersi oltre.
“Sta attento.”
“E’ solo un cappello.”
“Allora dov’è il resto di lui? Non può essere semplicemente… svanito… dentro…”
Indietreggiano.
“Ne hai sentito parlare anche tu?”
“Dicono che ha fatto un buco nel muro semplicemente agitando le mani!”
“Questo è niente! Ho sentito dire che là sulle montagne è comparso in sella ad un
dragone invisibile!”
“Cosa diremo a Lord Magazzinai?”
“Non voglio finire a pezzetti!”
“Non voglio dire a Lord Magazzinai che l’abbiamo perso. Siamo già abbastanza nei
guai. Ed ho pagato solamente per questo elmo.”
“Beh… potremmo prendere il cappello. Sarebbe una prova.”
“Giusto. Prendilo tu.”
“Io? Prendilo tu!”
“Potrebbe essere circondato da terribili incantesimi.”
“Davvero? Perciò va bene se sono io a toccarlo? Grazie tante! Fallo prendere a qual-
cuno di loro!”
Gli addetti alla lavanderia indietreggiano: la costante obbedienza Hunghunghese è
evaporata come rugiada alla mattina. I soldati non sono gli unici ad aver sentito cir-
colare delle voci.
“Non noi!”
“Abbiamo un ordine urgente per dei calzini!”
La guardia si volta. Un bracciante sta uscendo con passo malfermo da un porcile, con
un sacco in spalla ed il viso coperto da un grosso cappello di paglia.
“Ehi, tu!”

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L’uomo si lascia cadere sulle ginocchia e picchia la testa sul selciato.
“Non uccidetemi!”
Le guardie si scambiano un’occhiata.
“Non vogliamo ucciderti,” dice una di loro. “Vogliamo soltanto che provi a prendere
quel cappello laggiù.”
“Quale cappello, onorevole guerriero?”
“Quel cappello là! Subito!”
L’uomo gattona come un granchio sull’acciottolato.
“Questo cappello, onorevole signore?”
“Si!”
Le dita dell’uomo si allungano furtive al di sopra del selciato e danno un colpetto alla
tesa semidistrutta del cappello.
Al che strilla.
“Tua moglie è un grosso ippopotamo! La mia faccia si sta sciogliendo! La mia stirpe
si sta sciogliiiiieendooo!”
Scuotivento aspetta che il rumore dei sandali in fuga scompaia del tutto, poi si alza in
piedi, scrolla la polvere la cappello e lo infila nel sacco.
E’ andata meglio di quanto si aspettasse. Ecco un’altra cosa utile da sapere sull’Impe-
ro: nessuno fa caso ai braccianti.
Devono essere i vestiti ed il cappello. Nessuno apparte le persone comuni veste così,
perciò chiunque vesta così deve essere una persona comune. E’ lo stesso principio di
notorietà che sta alla base del cappello a punta, ma al contrario. Quando si ha a che
fare con della gente che indossa un cappello a punta ci si comporta in maniera educa-
ta e prudente, così che non si offenda e reagisca fisicamente, mentre qualcuno con un
grosso cappello di paglia è un ottimo bersaglio per un “Ehi, tu!” ed un -”
Qualcuno alle sue spalle grida “Ehi, tu!” e colpisce Scuotivento tra le scapole con un
bastone.
Davanti a lui compare il viso adirato di un servitore. L’uomo agita un dito sotto il
naso di Scuotivento.
“Sei in ritardo! Sei un uomo cattivo! Entra immediatamente!”

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“Io -”
Il bastone colpisce nuovamente Scuotivento. Il servitore indica un’entrata distante.
“Insolente! Vergogna! Vai a lavorare!”
Il cervello di Scuotivento articola le parole: Oh, sicché sei convinto di essere un In-
telligentone-san solo perché hai un grosso bastone, vero? Ebbene, si dà il caso che io
sia un grande mago e quindi so io cosa puoi farci con il tuo grosso bastone.
Da qualche parte tra il cervello e la bocca diventano:
“Sissignore! Subito!”

L’Orda è rimasta sola.


“Ebbene, signori, ce l’abbiamo fatta,” dichiara il Signor Cervellata alla fine. “Avete il
mondo servito su un piatto.”
“Tutti i tesori che vogliamo,” dice Rotella.
“Esatto.”
“Non perdiamo tempo, allora,” replica Rotella. “Riempiamo qualche sacco.”
“Non avrebbe senso,” ribatte il Signor Cervellata. “Rubereste a voi stessi. Questo è
un Impero. Non potete semplicemente ficcarlo in una borsa e spartirvelo al prossimo
accampamento!”
“E che mi dici delle violenze?”
Il Signor Cervellata sospira. “Mi pare di capire che ci sono trecento concubine
nell’harem imperiale. Sono sicuro che saranno molto contente di vedervi, quantun-
que le cose migliorerebbero se vi sfilaste gli stivali.”
I vecchi hanno lo sguardo confuso che potrebbe presumibilmente avere un pesce che
tenta di comprendere il principio della bicicletta.
“Dobbiamo prendere solo cose piccole,” dice infine Giovane Willie. “Rubini e sme-
raldi, preferibilmente.”
“E dare fuoco al posto prima di andarcene,” aggiunge Vincent. “Con tutte ‘ste pareti
di carta ed il legno laccato prenderà che è una meraviglia.”
“No, no, no!” esclama il Signor Cervellata. “Già solo i vasi di questa stanza sono
senza prezzo!”

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“Naa, sono troppo grossi per portarseli dietro. Non ci stanno sul cavallo.”
“Ma vi ho mostrata la civiltà!” ribatte il Signor Cervellata.
“Già. Una visita è sufficiente. Non è così, Cohen?”
Cohen è rannicchiato sul trono e guarda storto la parete opposta.
“Cosa?”
“Dico di prenderci tutto quello che riusciamo a portarci dietro e di ripartire per tor-
narcene a casa, d’accordo?”
“Casa… si…”
“Era questo il Piano, giusto?”
Cohen evita di guardare in faccia il Signor Cervellata.
“Già… il Piano…” risponde.
“E’ un buon piano,” interviene Rotella. “Grande idea. Sei arrivato facendo il capo?
Ottimo. Bella mossa. Meno problemi. Nessun casino con le serrature e il resto. Così
possiamo tornarcene tutti a casa, d’accordo? Con tutto il bottino che riusciamo a por-
tare, d’accordo?”
“Per farne cosa?” domanda Cohen.
“Per farne cosa? E’ un bottino.”
Cohen ha l’aria di aver preso una decisione.
“Come hai speso il tuo ultimo bottino, Rotella? Dicevi di aver preso tre sacchi d’oro
e gemme da quel castello infestato.”
Rotella pare disorientato, come se Cohen gli avesse chiesto di cosa odora il viola.
“Come l’ho speso? Boh. Sai com’è. Che importa come lo spendi? E’ un bottino. Co-
munque… Tu come hai speso il tuo?”
Cohen sospira.
Rotella lo guarda a bocca aperta.
“Non starete veramente pensando di restare qui?” Guarda truce il Signor Cervellata.
“Che avete architettato voi due?”
Cohen tamburella le dita sul bracciolo del trono. “Tu dici di andare a casa,” risponde.
“Dove?”
“Beh… ovunque…”

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“E guarda Hamish -”
“Cusa? Cusa?”
“Vogli dire… Ha centocinque anni, esatto? Forse è ora che si sistemi.”
“Cusa?”
“Sistemarsi?” chiede Rotella. “Tu c’hai già provato una volta. Hai rubato una fattoria
e dicevi che avresti allevato i maiali! Hai rinunciato dopo… Quant’era?... Tre ore?”
“Cusadicce? Cusadicce?”
“Dice che E’ ORA CHE TI SISTEMI, Hamish.”
“Strzate!”

Le cucine sono in subbuglio. C’è finita metà della corte e, per la maggior parte, per la
prima volta. Il posto è affollato quanto la strada di un mercato, lungo la quale i servi-
tori cercano di badare ai propri compiti come meglio riescono. La circostanza che
uno di loro sembri non sapere con certezza in cosa consistano passa pressoché inos-
servata nel mezzo della confusione.
“L’hai annusato?” chiede Lady Due Rivoli. “Puzza!”
“Come una giornata afosa in un recinto per i maiali!” risponde Lady Petalo Di Pesca.
“Sono lieta di poter dire di non aver mai fatta una tale esperienza,” commenta Lady
Due Rivoli altezzosamente.
Lady Notte Di Giada, che è assai più giovane delle altre due, e la quale si è sentita al-
quanto attratta dall’odore da leone che non si lava di Cohen, tace.
Il capo cuoco chiede: “Solo questo? Grossi pezzi? Perché non si mangia una mucca
già che c’è?”
“Aspetta di sentire di questo cibo diabolico chiamato salsiccia,” dice Lord Ciambel-
lano.
“Grossi pezzi.” Il cuoco è sull’orlo delle lacrime. “Che bravura ci vorrà mai per fare
dei grossi pezzi di carne? Senza neppure una salsa? Preferirei morire piuttosto che
mettermi a scaldare dei grossi pezzi di carne!”
“Ah,” commenta il nuovo Lord Ciambellano. “Fossi in te ci rifletterei molto attenta-
mente. Il nuovo Imperatore, possa fare il bagno per diecimila anni, ha la tendenza ad

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interpretare la cosa come una richiesta -”
Il chiacchiericcio ammutolisce di colpo. La causa dell’improvviso silenzio risiede in
un piccolo rumore secco. Di un sughero che viene stappato.
Lord Magazzinai ha un talento da Gran Visir per comparire come dal nulla. Scanda-
glia le cucine con lo sguardo. Sicuramente l’unica faccenda domestica che abbia mai
fatto nella vita.
Viene avanti. Estrae una piccola boccetta nera dalla manica della sua veste.
“Portatemi la carne,” ordina. “La salsa farà il resto.”
Le persone radunate osservano con inorridito interesse. L’avvelenamento fa del tutto
parte dell’etichetta di corte Hunghunghese, ma le persone in genere vi provvedono di
nascosto dagli sguardi altrui, al riparo delle buone maniere.
“C’è qualcuno,” domanda Lord Magazzinai, “il quale ha qualcosa che vorrebbe
dire?”
Ha lo sguardo tagliente come una falce. Intanto che lo fa girare nella stanza i presenti
vacillano, ed esitano, e crollano.
“Molto bene,” commenta Lord Magazzinai. “Preferirei morire piuttosto che vedere
un… barbaro sul trono Imperiale. Lasciate che abbia i suoi… grossi pezzi. Portatemi
la carne.”
Si sente muoversi qualcosa sul pavimento, ed il suono delle grida e lo schiocco di un
bastone. Un bracciante scatta in avanti, riluttante a spingere un enorme carrello por-
tavivande con sopra un enorme piatto da portata.
Alla vista di Lord Magazzinai spinge il carrello di lato, si getta ai suoi piedi e stri -
scia.
“Distolgo lo sguardo dal vostro… un frutteto in posizione favorevole… dannazio-
ne… imbarazzo, mio signore.”
Lord Magazzinai pungola la figura prona con il piede.
“E’ bello vedere conservate le arti del rispetto,” osserva. “Togli il coperchio.”
L’uomo si alza e, restando inchinato ed a testa bassa, solleva il coperchio.
Lord Magazzinai capovolge la boccetta e la tiene così fino all’ultima goccia sfrigo-
lante. Gli spettatori sono pietrificati.

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“E adesso fatelo portare ai barbari,” ordina.
“Certamente, vostra celeste… pennello inchiostrato… fronda di salice… benevolen-
za.”
“Da dove vieni, bracciante?”
“Bes Pelargic, mio signore.”
“Ah. Lo immaginavo.”

L’enorme porta di bamboo si spalanca. Il nuovo Lord Ciambellano entra, seguito da


una carovana di carrelli portavivande.
“La colazione, mio signore per diecimila anni,” annuncia. “Grossi pezzi di maiale,
grossi pezzi di capra, grossi pezzi di bue e sette porzioni di riso fritto.”
Uno dei servitori solleva il coperchio da un piatto da portata. “Ma ascoltate il mio
consiglio e lasciate perdere questo maiale,” dice. “E’ stato avvelenato.”
Il Ciambellano piroetta voltandosi.
“Schifoso insolente! Morirai per questo.”
“E’ Scuotivento, vero?” chiede Cohen. “Assomiglia a Scuotivento -”
“Ho il cappello qui da qualche parte,” risponde Scuotivento. “Me lo sono dovuto in-
filare nei pantaloni -”
“Avvelenato?” domanda Cohen. “Sei sicuro?”
“Ebbene. D’accordo, era una piccola boccetta nera e sopra c’era un teschio con le
ossa incrociate e una volta stappata fumava,” risponde Scuotivento, mentre il Signor
Cervellata lo aiuta ad alzarsi. “Era un’essenza alle acciughe? Non penso proprio.”
“Veleno,” commenta Cohen. “Odio gli avvelenatori. Sono più o meno i peggiori, gli
avvelenatori. Se ne vanno in giro come ladri a mettere delle schifezze nella roba da
mangiare di qualcuno…”
Lancia un’occhiata sinistra al Ciambellano.
“Sei stato tu?” Guarda Scuotivento e gira di scatto il pollice in direzione del Ciam-
bellano che si sta facendo piccolo. “E’ stato lui? Perché se è così gli faccio quello che
ho fatto a quei matti dei Sacerdoti Serpente di Start, e stavolta userò tutte e due i pol -
lici!”

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“No,” risponde Scuotivento. “E’ stato uno che chiamano Lord Magazzinai. Ma sono
rimasti tutti a guardare mentre lo faceva.”
Il Lord Ciambellano emette un gridolino. Si getta sul pavimento e quasi bacia il pie-
de di Cohen finché non si rende conto che equivarrebbe a mangiare il maiale avvele-
nato.
“Pietà, o essere celestiale! Siamo solamente delle pedine nelle mani di Lord Magaz-
zinai!”
“Cos’ha di così speciale Lord Magazzinai, dunque?”
“E’… un uomo perbene!” farfuglia il Ciambellano. “Non direi mai una parola contro
Lord Magazzinai! Sono certo che non è vero che ha delle spie ovunque! Lunga vita a
Lord Magazzinai, ecco cosa rispondo!”
Si arrischia a sollevare lo sguardo e scopre di avere la punta della spada di Cohen
proprio davanti agli occhi.
“Già, ma chi temi di più in questo momento? Me o Lord Magazzinai?”
“Uh… Lord Magazzinai!”
Cohen solleva un sopracciglio. “Sono impressionato. Spie ovunque, eh?”
Si guarda intorno e gli occhi gli cadono su un vaso davvero enorme. Si avvicina con
aria noncurante e solleva il coperchio.
“Tutto bene lì dentro?”
“Ehm… si?” risponde una voce dalle profondità del vaso.
“Hai tutto quello che ti serve? Un taccuino di ricambio? Un pitale?”
“Ehm… si?”
“Vorresti, oh, che so, duecento litri di acqua bollente?”
“Ehm… no?”
“Preferiresti morire piuttosto che tradire Lord Magazzinai?”
“Ehm… posso avere del tempo per pensarci, per favore?”
“Nessun problema. Comunque ci vuole un sacco di tempo per far scaldare l’acqua.
Riposati, intanto.”
Rimette a posto il coperchio.
“Unica Grande Mamma?” chiede.

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“Quello è Unico Grande Fiume, Gengis,” risponde il Signor Cervellata.
La guardia riprende vita chiassosamente.
“Controlla questo vaso e se si muove di nuovo gli fai quello che una volta ho fatto al
Negromante Verde della Notte, intesi?”
“Non so cosa gli avete fatto, signore,” risponde il soldato.
Cohen glielo dice. Unico Grande Fiume s’illumina raggiante. Dall’interno del vaso
giunge il rumore di qualcuno che cerca di non dare di stomaco.
Cohen ritorna sul trono con passo deciso.
“Allora, raccontami qualcosa di più di questo Lord Magazzinai,” dice.
“E’ il Gran Visir,” risponde il Ciambellano.
Cohen e Scuotivento si scambiano un’occhiata.
“Vero. E lo sanno tutti,” interviene Scuotivento, “che i Gran Visir sono sempre dei -”
“- dei totali assoluti bastardi,” conclude Cohen. “Non so perché. Dagli un turbante
con un punto nel mezzo e la loro comesichiama morale viene corrotta. Li ho sempre
fatti secchi nell’esatto momento in cui li incontravo. Per risparmiarmi di doverlo fare
dopo.”
“Ho pensato che avesse qualcosa di sospetto non appena l’ho visto,” replica Scuoti-
vento. “Senti, Cohen -”
“E’ l’Imperatore Cohen, per te,” l’interrompe Rotella. “Non mi sono mai fidato dei
maghi, compare. Non mi sono mai fidato di un uomo con un vestito.”
“Scuotivento è apposto -” commenta Cohen.
“Grazie!” esclama Scuotivento.
“- ma è un mago dannatamente inutile.”
“Si dà il caso che abbia appena rischiato l’osso del collo per salvarti la vita, grazie
tante,” replica Scuotivento. “Ascolta, alcuni miei amici sono nel blocco delle prigio-
ni. Potresti… Imperatore?”
“Una specie,” risponde Cohen.
“Tempora’mente,” aggiunge Rotella.
“Tecnicamente,” chiarisce il Signor Cervellata.
“Significa che puoi mettere i miei amici in un posto più sicuro? Penso che Lord Ma-

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gazzinai abbia assassinato il vecchio Imperatore e voglia far ricadere la colpa su di
loro. Spero solamente che non vorrà credere che si stanno nascondendo nelle celle.”
“Perché nelle celle?” domanda Cohen.
“Perché chiunque abbia l’opportunità di evadere dalle celle di Lord Magazzinai la
coglie,” risponde Scuotivento con fervore. “Nessuno sano di mente tornerebbe dentro
se pensasse di avere l’opportunità di scappare.”
“Sta bene,” dice Cohen. “Giovane Willie, Unica Grande Mamma, radunate qualcuno
dei vostri compagni e portate qui quella gente.”
“Qui?” chiede Scuotivento. “Vorrei fossero messi in un posto più sicuro!”
“Ebbene, noi siamo qui,” replica Cohen. “Possiamo proteggerli.”
“Chi proteggerà voi?”
Cohen lo ignora. “Lord Ciambellano,” dice. “Non mi aspetto di vedere in giro Lord
Magazzinai… Però nella corte c’è un ragazzo con un naso da tasso. Uno sfigato obe-
so, è, con un grande cappello rosa. E c’è una donna ossuta con un viso odioso tutto
spigoli.”
“Sono Lord Nove Montagne e Lady Due Rivoli,” replica il Lord Ciambellano. “Ehm.
Non siete arrabbiato con me, mio signore?”
“Che gli dei ti benedicano, no,” risponde Cohen. “In effetti, capo, sono così impres-
sionato che ti affiderò delle altre responsabilità.”
“Signore?”
“Assaggiatore di cibi, per cominciare. E adesso va a prendere quegli altri due. Non
mi piace per niente la faccia che hanno.”
Nove Montagne e Due Rivoli vengono fatti entrare pochi momenti dopo. Il semplice
sguardo che fanno scorrere da Cohen al cibo intatto passerebbe inosservato a coloro
che non se lo aspettano.
Cohen gli fa allegramente cenno con la testa. “Mangiatelo,” dice.
“Mio signore! Ho fatto un’abbondante colazione! Sono completamente sazio!” escla-
ma Nove Montagne.
“E’ un peccato,” commenta Cohen. “Unica Grande Mamma, prima di andare dà uno
sguardo a Signor Nove Montagne qui e fagli un po’ di spazio all’interno così che

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possa fare di nuovo colazione. Lo stesso vale per la signora, se entro cinque secondi
non sento masticare. Un bel boccone pieno di tutto, capito? Con un sacco di salsa.”
Unico Grande Fiume sfodera la spada.
I due nobili tengono lo sguardo fisso sui mucchi luccicanti.
“Ha l’aria di essere buona,” Cohen usa un tono colloquiale. “Dal modo in cui la guar-
date, qualcuno potrebbe pensare che ha qualcosa che non va.”
Nove Montagne s’infila un pezzo di maiale in bocca con cautela.
“Estremamente saporita,” commenta indistintamente.
“Adesso ingoia,” replica Cohen.
Il mandarino inghiotte.
“Squisita,” dice. “E adesso, se sua eccellenza vuole scusarmi, io -”
“Non avere fretta,” risponde Cohen. “Non vogliamo che accidentalmente t’infili le
dita nella gola o roba del genere, giusto?”
Nove Montagne singhiozza.
Poi singhiozza ancora.
Dal fondo della veste si solleva del fumo.
L’Orda si tuffa in cerca di un riparo proprio mentre l’esplosione svanisce una parte
delle assi del pavimento, una zona circolare del soffitto e l’intero Lord Nove Monta-
gne.
Un cappello nero con uno stemma rosso rubino vortica sul pavimento per qualche
momento.
“E’ proprio come me con le cipolline sottaceto,” dice Vincent.
Lady Due Rivoli è immobile con gli occhi chiusi.
“Non ha fame?” chiede Cohen.
Annuisce.
Cohen si appoggia allo schienale.
“Unica Grande Mamma?”
“E’ “Fiume”, Cohen,” lo corregge il Signor Cervellata, intanto che la guardia si fa
sgraziatamente avanti.
“Portala con te e mettila in una delle segrete. Assicurati che abbia un mucchio da

222
mangiare, se capisci cosa intendo.”
“Si, eccellenza.”
“Ed il Signor Ciambellano qui può filare di nuovo giù in cucina e dire al cuoco che
stavolta mangerà insieme a noi, e che il primo boccone sarà il suo, intesi?”
“Si, assolutamente, eccellenza.”
“Questo lo chiami vivere?” prorompe Caleb mentre il Lord Ciambellano corre via.
“E’ questo che significa essere Imperatore, vero? Non potersi fidare neppure del
cibo? Probabilmente ci uccideranno tutti nei nostri letti!”
“Non ti ci vedo a essere ucciso nel tuo letto,” commenta Rotella.
“Già, perché non ci stai mai,” replica Cohen.
Raggiunge il grande vaso e gli dà un calcio.
“Hai annotato tutto?”
“Sissignore,” risponde il vaso.
Qualcuno ride. Ma con una punta di nervosismo. Il Signor Cervellata capisce che
l’Orda non è abituata a tutto questo. Se un vero barbaro intende uccidere qualcuno
durante un pasto, lo invita ad unirsi a lui con tutti i suoi scagnozzi, li fa accomodare,
ubriacare ed insonnolire e poi raduna i suoi uomini nascosti da qualche parte perché
li massacrino all’istante in maniera schietta, seria e decorosa.
Una cosa del tutto leale. Lo stratagemma del farli ubriacare e massacrarli tutti è il più
antico dei trucchi da manuale, o lo sarebbe se i barbari si disturbassero a scrivere dei
manuali. Chiunque ci caschi fa un favore al mondo a finire massacrato sopra un budi-
no. Quantomeno, però, ci si può fidare del cibo. I barbari non avvelenano le pietanze.
Non si potrebbe mai sapere a chi ne toccherebbe un boccone il prossimo giro.
“Perdonatemi, vostra eccellenza,” dice Sei Venti Benefici, indugiante, “penso che
Lord Rotella abbia ragione. Ehm. Conosco un po’ la storia. Il metodo corretto di suc-
cedere al trono consiste nell’avanzare faticosamente in un mare di sangue. E’ questo
che Lord Magazzinai ha in programma di fare.”
“Dici? Un mare di sangue, esatto?”
“O una montagna di teschi. Anche questa è una possibilità.”
“Ma… ma… Credevo che la corona imperiale passasse di padre in figlio,” interviene

223
il Signor Cervellata.
“Beh, si,” replica Sei Venti Benefici. “In teoria immagino che possa succedere.”
“Hai detto che una volta in cima alla piramide avrebbero fatto tutti quel che voleva-
mo,” Cohen si rivolge al Signor Cervellata.
Rotella posa lo sguardo prima su uno e poi sull’altro. “Siete voi due che avete archi-
tettato questa cosa?” domanda in tono accusatorio. “Si trattava solamente di questo,
vero? Tutto quell’imparare ad essere civili? E dall’inizio non hai fatto che ripetere
che sarebbe stato un furto di proporzioni enormi! Eh? Credevo che avremmo sempli-
cemente sgraffignato un bel po’ di roba e che poi ce la saremmo filata! Saccheggiare
e far bottini, è così che -”
“Oh, saccheggiare e far bottini, saccheggiare e far bottini, non ne posso più di sac-
cheggiare e far bottini!” esclama il Signor Cervellata. “Non riuscite a pensare a nien-
te di diverso dal saccheggiare e far bottini?”
“Beh, c’è pure la violenza,” risponde Vincent con un po’ di nostalgia.
“Odio dovertelo dire, però non hanno torto, Prof,” interviene Cohen. “Combattere e
saccheggiare… questo è quello che facciamo. Non mi ci ritrovo con tutta questa roba
dell’inchinarsi e strisciare. Non sono sicuro di essere tagliato per la civiltà.”
Il Signor Cervellata strabuzza gli occhi. “Anche tu, Cohen? Siete tutti così… ottusi!”
schiocca. “Non capisco perché mi preoccupo! Voglio dire, guardatevi! Sapete cosa
siete? Siete leggenda!”
L’Orda indietreggia. E’ la prima volta che vedono Prof perdere la calma.
“Da legendum, che significa “qualcosa di cui è scritto”,” spiega il Signor Cervellata.
“Nei libri, sapete. Leggere e scrivere. Il che, fra parentesi, vi è sconosciuto quanto la
Città Perduta di Ee -”
Rotella alza la mano con un pizzico di nervosismo.
“A dire il vero, io una volta l’ho scoperta la Città Perduta di -”
“Silenzio! Sto dicendo… Cosa stavo dicendo?... si… voi non sapete leggere, vero?
Non avete mai imparato a leggere? Allora avete sprecato metà della vostra vita. Avre-
ste potuto accumulare perle di saggezza invece che gemme di qualità inferiore. E’ un
bene che la gente possa solamente leggere di voi senza incontrarvi di persona perché

224
voi, signori, siete una grossa delusione!”
Scuotivento osserva affascinato aspettando di vedere cadere la testa del Signor Cer-
vellata. Il che non sembra succedere. Probabilmente è troppo infuriato per riuscire a
decapitarlo.
“Cos’avete fatto veramente, signori? E non venite a raccontarmi dei furti di gioielli e
del farla vedere ai demoni. Cos’avete fatto che sia davvero reale?”
Rotella alza di nuovo la mano.
“Ebbene, io una volta ho ammazzato tutti e quattro i -”
“Si, si, si,” lo interrompe il Signor Cervellata. “Avete ammazzato questo ed avete ru-
bato quello ed avete sconfitto il gigante mangia avocado di qualche altra parte, ma…
è solo… roba. Tutta tappezzeria, signori! Non cambia nulla! A nessuno importa! Ad
Ankh-Morpork insegnavo a dei bambini che pensano a voi come a dei miti. E’ questo
che siete riusciti a raggiungere. Non pensano neppure che esistiate veramente. Sono
convinti che vi abbia inventati qualcuno. Le vostre storie, signori. Quando morirete
non lo saprà nessuno, perché pensano tutti che siete già morti.”
Fa una pausa per prendere fiato e poi ricomincia, ma più lentamente. “Ma qui… qui
potete essere veri. Potete smettere di giocare alle vostre vite. Potete prendere questo
antico ed in qualche misura Impero marcescente e restituirlo al mondo… Quantome-
no…” si affievolisce. “E’ ciò che speravo. Ho davvero creduto che, forse, avremmo
potuto realizzare qualcosa…”
Si mette seduto.
L’Orda continua a fissarsi i vari piedi o ruote.
“Uhm. Posso dire una cosa? I signori della guerra si schiereranno contro di voi,” dice
Sei Venti Benefici. “Sono qui fuori adesso, con i loro eserciti. Di solito si combattono
tra di loro, però combatteranno tutti contro di voi stavolta.”
“Preferirebbero avere un avvelenatore come questo Lord Magazzinai al posto mio?”
domanda Cohen. “Ma è un bastardo!”
“Si, ma… è il loro bastardo, capite.”
“Possiamo tenere duro qui dentro. Questo posto ha delle pareti molto spesse,” osser-
va Vincent.

225
“Quelle che non sono fatte di carte, intendi.”
“Non ci pensate neanche,” commenta Rotella. “Niente assedi. Gli assedi sono un ca-
sino. Detesto mangiare stivali e ratti.”
“Cusa?”
“Dice NON VOGLIAMO UN ASSEDIO IN CUI ESSERE COSTRETTI A MAN-
GIARE STIVALI E RATTI, Hamish.”
“Sono ffinite le gambe, già?”
“Quanti soldati contano?” chiede Cohen.
“Credo…seicento o settecentomila,” risponde l’esattore.
“Vogliate scusarci,” replica Cohen scendendo dal trono. “Devo raccordarmi con la
mia Orda.”
L’Orda fa mucchio per consultarsi. Di quando in quando, tra i rauchi interscambi, af-
fiora un “Cusa?”. Poi Cohen si volta.
“Mare di sangue, esatto?” chiede.
“Ehm. Si,” risponde l’esattore.
La consultazione riprende.
Dopo qualche altro scambio Rotella fa capolino.
“Hai detto una montagna di teschi?” chiede.
“Si. Si, penso di aver detto così,” risponde l’esattore. Lancia un’occhiata nervosa a
Scuotivento ed al Signor Cervellata, i quali scrollano le spalle.
Mormorio, mormorio, Cusa...
“Scusa?”
“Si?”
“Una montagna all’incirca grande quanto? I teschi non si impilano facilmente.”
“Non so quanto grande! Un bel po’ di teschi!”
“Per sapere.”
L’Orda sembra aver raggiunto una decisione. Si voltano a guardare gli altri.
“Intendiamo combattere,” dichiara Cohen.
“Già, avreste dovuti informarci prima dei teschi e di Cappuccetto,” aggiunge Rotella.
“Vi mostriremo se sciamo vivi o morti!” schiamazza Hamish.

226
Il Signor Cervellata scuote la testa.
“Penso che abbiate capito male. La proporzione è di centomila a uno!” esclama.
“Ritengo che ciò dimostrerà alla gente che siamo ancora vivi,” replica Caleb.
“Si, ma il fulcro del mio piano era dimostrarvi che potete arrivare in cima alla pira-
mide del comando senza dover combattere per scalarla,” ribatte il Signor Cervellata.
“Il che è possibilissimo in una società antiquata come questa. Ma se cercherete di
combattere centinai di migliaia di uomini morirete.” E poi, con sua enorme sorpresa,
si scopre ad aggiungere: “Presumibilmente.”
L’Orda gli sorride raggiante.
“Le grandi proporzioni non ci spaventano,” dice Rotella.
“Ci piacciono le grandi proporzioni,” aggiunge Caleb.
“Vedi, Prof, una proporzione di mille a uno non è poi tanto peggiore di una da dieci a
uno,” espone Cohen. “I motivi sono -” Si conta le dita. “Uno, un vero soldato impe -
gnato a combattere per non restarci secco non si fa prendere per il collo quando in
giro ci sono tanti altri tizi che sono altrettanto buoni allo scopo, e due, non saranno
tanti quelli che riusciranno a venirci vicini in un sol colpo e staranno tutti lì a spinge-
re e sgomitare, e…” Si guarda le dita con l’espressione di aver raggiunta la fase ter-
minale di calcolo.
“… Tre…” interviene il Signor Cervellata, ipnotizzato dalla sua logica.
“… tre, giusto… La metà delle volte che fenderanno la spada colpiranno uno dei loro
compagni risparmiandoci un po’ della fatica. Vedi?”
“Ma anche se fosse vero potrebbe funzionare solo per poco,” protesta il Signor Cer-
vellata. “Anche se ne uccideste duecento sareste stanchi mentre delle truppe riposate
vi attaccherebbero.”
“Oh, sarebbero stanche anche loro,” replica Cohen allegramente.
“Perché?”
“Perché a questo punto, per arrivare a noi, dovrebbero correre in salita.”
“Questa è logica, ecco cos’è,” commenta Rotella in segno di approvazione.
Cohen dà una pacca sulla spalla allo scioccato insegnante.
“Non hai niente di cui preoccuparti,” dice. “Se siamo riusciti a prendere l’Impero con

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un piano come il tuo, ce lo terremo grazie ad un piano come il mio. Ci hai mostrato
la civiltà, perciò adesso ti mostriamo il barbarismo.”
Fa qualche passo e poi si volta, con una luce sinistra negli occhi.
“Barbarismo? Ah! Quando uccidiamo qualcuno lo facciamo lì per lì, guardandolo ne-
gli occhi, e saremmo felici di offrirgli da bere nell’aldilà, niente di male. Non ho mai
conosciuto un barbaro che taglia lentamente un uomo a pezzetti in delle piccole stan-
zette, o che tortura le donne perché sembrino carine, o che metta del veleno nella
roba da mangiare delle persone. Civiltà? Se questa è la civiltà, puoi ficcarla dove non
batte il sole!”
“Cusa?”
“Ha detto FICCALA DOVE NON BATTE IL SOLE, Hamish.”
“Ah? C’ho stato.”
“Ma c’è molto di più di questo nella civiltà!” esclama il Signor Cervellata. “C’è… la
musica, e la letteratura, ed il concetto di giustizia, e gli ideali di -”
La porta di bamboo scorre di lato. Intanto che entra un uomo con le articolazioni
scricchiolanti l’Orda tutta si volta con le armi spianate.
Gli uomini sull’uscio sono più alti e molto più riccamente vestiti dei braccianti, e si
muovono come fossero abituati a non avere nessuno ad intralciargli il passo. Tutta-
via, davanti a loro c’è un bracciante tremante con in mano una bandiera rossa in cima
ad un bastone. Viene spinto ad entrare in punta di spada.
“Bandiera rossa?” bisbiglia Cohen.
“Significa che chiedono udienza,” spiega Sei Venti Benefici.
“Sapete… è simile alla nostra bandiera bianca di resa,” aggiunge il Signor Cervella-
ta.
“Mai sentito parlarne,” replica Cohen.
“Vuol dire che non puoi ucciderne nessuno finché non sono pronti.”
Il Signor Cervellata tenta di mettere a tacere il brusio alle sue spalle.
“Perché non li invitiamo a mangiare con noi e li massacriamo tutti quando sono
sbronzi?”
“Hai sentito il tizio. Ce ne sono settecentomila.”

228
“Ah? Perciò dovrei limitarmi a qualcosa di semplice con la pasta.”
Un paio di lord entrano elegantemente raggiungendo il centro della sala. Cohen ed il
Signor Cervellata gli vanno incontro.
“Anche tu,” dice Cohen, strattonando Scuotivento che cerca di indietreggiare. “Sei
uno che usa subdolamente le parole quando sei nei pasticci, perciò muoviti.”
Lord Magazzinai gli riserva l’espressione sprezzante di un uomo i cui antenati gli
hanno tramandato l’abilità di guardare tutto dall’alto in basso.
“Sono Lord Magazzinai. Sono il Gran Visir dell’Impero. Vi ordino di liberare imme-
diatamente questi locali e di rimettervi a giudizio.”
Il Signor Cervellata si volta verso Cohen.
“Niente da fare,” risponde Cohen.
Il Signor Cervellata cerca di pensare.
“Uhm, che espressione dovrei usare? Gengis Cohen, capo dell’Orda d’Argento, pre-
senta i suoi omaggi a Lord Magazzinai ma -”
“Digli che può andarsene al diavolo,” insiste Cohen.
“Penso, Lord Magazzinai, che probabilmente abbiate percepito qual è l’opinione ge-
nerale corrente,” dice il Signor Cervellata.
“Dov’è il resto dei vostri barbari, bifolco?” domanda autoritario.
Scuotivento guarda il Signor Cervellata. Il vecchio insegnante sembra a corto di pa-
role stavolta.
Il mago vorrebbe scappare. Ma Cohen ha ragione. Per quanto folle possa suonare,
probabilmente è più al sicuro vicino a lui. Scappare lo porterebbe solamente più vici-
no, prima o poi, a Lord Magazzinai.
Il quale è persuaso che ci siano degli altri barbari da qualche parte…
“Vi dico questo, e questo solamente,” prosegue Lord Magazzinai. “Se lasciate subito
la Città Proibita morirete, quantomeno, in maniera veloce. E le vostre teste ed alcune
altre parti fondamentali saranno portate in parata per le città dell’Impero così che la
gente sappia della terribile punizione.”
“Punizione?” chiede il Signor Cervellata.
“Per aver ucciso l’Imperatore.”

229
“Non abbiamo ucciso noi l’Imperatore,” replica Cohen. “Non ho niente contro l’ucci-
sione degli Imperatori, ma non ne abbiamo ucciso nessuno.”
“E’ stato assassinato nel suo letto un’ora fa,” soggiunge Lord Magazzinai.
“Non da noi,” ribatte il Signor Cervellata.
“Da voi,” se ne esce Scuotivento. “Solo che è contro le regole assassinare l’Imperato-
re perciò volevate far sembrare che fosse stato l’Esercito Rosso a farlo.”
Lord Magazinai lo guarda come se lo vedesse per la prima volta e con l’aria di non
essere per nulla felice di doverlo fare.
“Date le circostanze,” replica Lord Magazzinai, “dubito che qualcuno vi crederà.”
“Che succederebbe se lo rivelassimo adesso?” chiede il Signor Cervellata. “Mi piace
sapere certe cose.”
“Allora morireste molto lentamente in… modi interessanti.”
“E’ la storia della mia vita,” commenta Cohen. “E’ da sempre che muoio molto lenta-
mente in modi interessanti. Quali sarebbero? Combattimento di strada? Porta a por-
ta? Tana libera tutti o cosa?”
“Nel mondo reale,” interviene uno degli altri lord, “diamo battaglia. Non ci azzuffia-
mo come barbari. I nostri eserciti vi incontreranno nella pianura antistante la città.”
“Antisticante la città cosa?”
“Intende davanti la città, Cohen.”
“Ah. Altre parole civili. Quando?”
“Domani all’alba!”
“D’accordo,” replica Cohen. “Ci metterà appetito per la colazione. C’è altro che pos-
siamo fare per voi?”
“Quant’è grande il tuo esercito, barbaro?”
“Non credereste mai a quant’è grande,” risponde Cohen, il che è probabilmente vero.
“Abbiamo invaso regioni. Abbiamo spazzato via dalle mappe intere città. Dove passa
il mio esercito, non cresce più niente.”
“Questo è vero, quantomeno,” commenta il Signor Cervellata.
“Non abbiamo mai sentito parlare di voi!” esclama il signore della guerra.
“Già,” replica Cohen. “Il che dimostra quanto siamo bravi.”

230
“C’è un’altra cosa da sapere sul suo esercito, a dire il vero,” dice qualcuno.
Si voltano tutti verso Scuotivento, il quale è sorpreso quasi quanto gli altri nel sentire
la propria voce. Ma un treno del pensiero ha appena raggiunto il capolinea…
“Si?”
“Forse vi state chiedendo perché abbiate visto solo i… generali,” prosegue Scuoti-
vento, lentamente, come se stesse elaborando intanto che parla. “Perché, vedete, gli
uomini in sé sono… invisibili. Ehm. Già. Fantasmi, in effetti. Lo sapete tutti, no?”
Cohen lo guarda a bocca aperta stupefatto.
“Fantasmi succhia sangue, per dirla tutta,” incalza Scuotivento. “Dopo tutto, lo sanno
tutti cos’è che c’è al di là della Muraglia, o no?”
Lord Magazzinai sogghigna. Tuttavia i signori della guerra fissano Scuotivento con
l’espressione di chi sospetta fortemente che le persone al di là della Muraglia siano di
carne ed ossa ma contano sul fatto che milioni di persone credano non sia così.
“Ridicolo! Voi non siete invisibili fantasmi succhiasangue,” dice uno di loro.
Cohen spalanca la bocca così che i diamanti luccichino.
“Esatto,” ribatte. “Fatto sta che… noi siamo del tipo visibile.”
“Ah! Che tentativo patetico!” esclama Lord Magazzinai. “Fantasmi o non fantasmi,
vi sconfiggeremo!”

“Ebbene, è andata meglio di quanto mi aspettassi,” osserva il Signor Cervellata men-


tre i signori della guerra escono a grandi falcate. “Ha fatto ricorso ad un pò di arte
della guerra psicologica, Signor Scuotivento?”
“E’ questo che era? Ne so qualcosa de ‘sta roba,” interviene Cohen. “E’ quando si
percuote lo scudo per tutta la notte prima della battaglia così il nemico non riesce a
dormire e intanto si canta: “Vi faremo a pezzi le cisterne,” e altre cose così.”
“Una cosa simile,” risponde diplomaticamente il Signor Cervellata. “Però temo non
abbia funzionato. Lord Magazzinai ed i suoi generali sono fin troppo sofisticati. E’
un vero peccato che non abbiate potuto tentarlo con i soldati semplici.”
Alle loro spalle si sente come un lieve squittio da coniglio. Si voltano e si trovano di
fronte la cellula ben più che minorenne dell’Esercito Rosso che viene accompagnata

231
dentro. Farfalla è con loro. Addirittura sorride debolmente a Scuotivento.
Scuotivento si è sempre affidato alla fuga. Ma qualche volta, forse, bisogna fermarsi
e combattere, se non altro perché non c’è un posto dove poter scappare.
Tuttavia non ci sa fare proprio con le armi.
Almeno, non con quelle del genere normale.
“Uhm,” dice, “se adesso lasciassimo il palazzo, ci ucciderebbero, giusto?”
“Ne dubito,” risponde il Signor Cervellata. “Si è trasformata in una questione di Arte
della Guerra oramai. Qualcuno come Lord Magazzinai probabilmente ci taglierebbe
la gola, ma adesso che la guerra è stata dichiarata le cose devono essere fatte secondo
consuetudine.”
Scuotivento fa un respiro profondo.
“La probabilità è una su un milione,” replica, “però potrebbe funzionare…”

I Quattro Cavalieri la cui Cavalcata presagisce la fine del mondo sono conosciuti
come Morte, Guerra, Carestia e Pestilenza. Ma anche degli eventi meno significativi
hanno i loro Cavalieri. Peresempio, i Quattro Cavalieri del Comune Raffreddore sono
Nasocolante, Espettorante, Narice Accortodifazzoletti; i Quattro Cavalieri la cui ap-
parizione presagisce qualunque festa comandata sono Burrasca, Tempesta, Nevischio
e Circolazione Alternata.
Tra gli eserciti accampati sulle vaste pianure alluvionali attorno ad Hunghung, sella-
no il cavallo gli invisibili cavalieri conosciuti come Disinformazione, Vociferare e
Pettegolezzo…
Un grosso esercito accampato soffre di tutti i tediosi problemi di una città ma senza
poterne sfruttare i vantaggi. I fuochi di bivacco ed i cordoni di picchetto dopo un po’
sono aperti anche agli indigeni locali, soprattutto se hanno qualcosa da vendere ed
ancora di più se sono donne la cui virtù ha una certa componente commerciale e
qualche volta perfino se sembrano vendere solamente qualcosa da mangiare che
spezzi la monotonia della dieta militare. Il cibo in vendita al momento fa certamente
al caso.
“Palle di porco! Palle di porco! Compratele finché sono…” Il venditore fa una pausa

232
mentre pensa a come poter completare la frase, e si arrende. “Palle di porco! Sullo
stecco! Voi che dite, shogun, avete l’aria - Ehi, ma non siete -?”
“Zittozittozitto!”
Scuotivento spinge D.M.H. Rovina all’ombra di una tenda.
L’ambulante osserva il viso angustiato incorniciato da un abbigliamento da eunuco
ed un grosso cappello di paglia.
“Sei il Mago, non è così? Come sta -?”
“Hai presente quanto fortemente vorresti diventare ricco con il commercio interna-
zionale?” chiede Scuotivento.
“Si? Possiamo cominciare?”
“Presto. Presto. Ma c’è una cosa che devi fare. Hai sentito di questa chiacchiera su
un esercito di invisibili vampiri fantasma che stanno venendo qui?”
Gli occhi di D.M.H. Rovina turbinano nervosamente. Però fa parte dei ferri del me-
stiere non apparire mai all’oscuro di niente tranne, forse, di come si dà il resto giusto.
“Si?” replica.
“Quella secondo cui sarebbero milioni?” incalza Scuotivento. “E davvero furiosi per
via che non hanno potuto mangiare durante il tragitto? E che il Grande Mago avrebbe
reso particolarmente feroci?”
“Uhm… si?”
“Ebbene, non è vero.”
“Non lo è?”
“Non mi credi? Dopo tutto, dovrei saperlo.”
“Mi pare giusto.”
“E noi non vogliamo che il popolo vada nel panico, vero?”
“Fa molto male agli affari, il panico,” commenta D.M.H., annuendo a disagio.
“Perciò ti assicurerai che la gente sappia che non c’è niente di vero in questa chiac-
chiera, d’accordo? Placane le menti.”
“Buona idea. Ehm. Questi vampiri fantasma invisibili… Hanno un qualche genere di
denaro?”
“No. Perché non esistono.”

233
“Ah, già. Dimenticavo.”
“E non sono in 2.300.009,” specifica Scuotivento. E’ piuttosto orgoglioso di questo
piccolo dettaglio.
“Non sono in 2.300.009…” ripete D.M.H., con gli occhi leggermente vitrei.
“Assolutamente. Non sono 2.300.009, non importa cosa dicono. Né il Grande Mago
li ha resi grandi il doppio del normale. Sei un brav’uomo. Adesso è meglio che vada
-”
Scuotivento corre via.
Il venditore resta fermo a riflettere per un pò. Gli sovviene che probabilmente ha già
venduto abbastanza per il momento e farebbe bene a tornarsene a casa e trascorrere
una notte tranquilla in un barile nella cantina seminterrata con un sacco sulla testa.
Il percorso lo costringe ad attraversare gran parte dell’accampamento. Si assicura che
i soldati che incontra sappiano che non c’è niente di vero nelle chiacchiere che si
sono diffuse, nonostante voglia dire, invariabilmente, prima di tutto, spiegargli quali
siano queste chiacchiere.

Un coniglio di pezza squittisce nervosamente.


“Ed ho paura dei grossi fantasmi vuampiro invuisibili!” singhiozza Perla Favorita.
I soldati attorno al fuoco da campo tentano di consolarla ma, sfortunatamente, non
c’è nessuno che consoli loro.
“E ho sentito che haanno già mangiuato alcuni uomini!”
Uno dei due soldati si guarda dietro le spalle. Non c’è niente che possa vedersi
nell’oscurità. Il che, comunque, non è per nulla rassicurante.
L’Esercito Rosso si sposta in diagonale di fuoco di bivacco in fuoco di bivacco.
Scuotivento è stato molto specifico. Ha trascorso tutta la sua vita da adulto - perlo-
meno, quelle parti in cui non è stato inseguito da cose con molti più piedi che denti -
all’Università Invisibile, perciò sente di conoscere ciò di cui ha parlato. Non dite
niente alle persone, si è raccomandato. Non diteglielo. Non si sopravvive da maghi
all’Università Invisibile credendo a quel che racconta la gente. Si crede in quel che
non viene raccontato.

234
Non ditegli nulla. Chiedeteglielo. Domandategli se è vero. Potete implorarli di dirvi
che non è vero. O potete persino dirgli che vi è stato detto di dirgli che non è vero, e
questa è la migliore di tutte.
Perché Scuotivento sa molto bene che quando i piuttosto minuti e infidi Cavalieri del
Panico montano in sella, un gran bel lavoro viene fatto da Disinformazione, Vocifera-
re e Pettegolezzo, ma che non sono niente in confronto al quarto cavaliere, il cui
nome è Smentita.
Dopo un’ora Scuotivento si sente assolutamente superfluo.
Le conversazioni irrompono ovunque, in particolare in quelle zone ai limiti esterni
degli accampamenti dove la notte si allunga vasta ed impenetrabile e così tanto pale-
semente vuota.
“Va bene, ma allora come fanno a dire che non sono in 2.300.009, eh? Se non ce n’è
nessuno, allora perché esiste un numero?”
“Ascolta, non esistono cose come i vampiri fantasma invisibili, d’accordo?”
“Oh, davvero? E tu che ne sai? Ne hai mai visto uno?”
“Senti, sono andato a chiedere al comandante e lui ha risposto che è sicuro che non ci
sono dei fantasmi invisibili là fuori.”
“Come può esserne sicuro se non può vederli?”
“Dice che in assoluto non esistono cose come i vampiri fantasma invisibili.”
“Oh? E com’è che lo dice tutto d’un tratto? Mio nonno mi raccontava che ce ne sono
milioni al di là -”
“Aspetta… Cosa c’è là...?”
“Cosa?”
“Avrei giurato di aver sentito qualcosa…”
“Io non vedo niente.”
“Oh, no!”
La faccenda deve essere trapelata fino all’Alto Comando perché, nell’approssimarsi
della mezzanotte, le trombe risuonano attorno agli accampamenti e viene letto uno
speciale proclama.
Conferma l’esistenza dei vampiri fantasma in generale, tuttavia ne smentisce una

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specifica esistenza in termini di qui e ora. E’ un capolavoro del genere, soprattutto
dal momento che riporta l’intera questione alle orecchie dei soldati che l’Esercito
Rosso non è stato ancora in grado di ragguagliare.
Un’ora più tardi la situazione ha raggiunto il punto di criticità e Scuotivento sente
dire delle cose che lui stesso non ha inventato e che, nel complesso, sarebbe molto
meglio non sentire.
Chiacchiera con un paio di soldati e dice: “Sono sicuro che non c’è nessun esercito di
vampiri fantasma affamati” e gli viene risposto “No, ci sono sette uomini anziani.”
“Solo sette uomini anziani?”
“Ho sentito che sono davvero molto anziani,” risponde il soldato. “Tipo, che sono
troppo vecchi per morire. Ho sentito dire da uno che sta a palazzo che sanno cammi-
nare attraverso i muri e sanno rendersi invisibili.”
“Oh, andiamo,” replica Scuotivento. “Sette vecchietti che combattono questo intero
esercito?”
“C’è di che riflettere, eh? Il Caporale Toshi dice che il Grande Mago li sta aiutando.
E’ innegabile. Non mi metterei a combattere un intero esercito se non avessi un sacco
di magia dalla mia parte.”
“Ehm. C’è nessuno che sa che aspetto ha il Grande Mago?” domanda Scuotivento.
“Dicono che è più alto di una casa e che ha tre teste.”
Scuotivento annuisce con aria incoraggiante.
“Ho sentito,” aggiunge un soldato, “che anche l’Esercito Rosso si batterà con loro.”
“E allora? Il Caporale Toshi dice che sono solo un branco di ragazzini.”
“No, ho sentito… il vero Esercito Rosso… sapete…”
“L’Esercito Rosso non si schiererà con gli invasori barbari! In ogni caso, non esiste
una cosa come l’Esercito Rosso. E’ solo un mito.”
“Come gli invisibili vampiri fantasma,” dice Scuotivento, dando un altro piccolo giro
di carica all’orologio dell’ansietà.
“Ehm… già.”
Li lascia che dibattono.
Nessuno diserta. Scappare nella notte pullulante di non-specificato terrore è peggio

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che restare all’accampamento. Il che è anche meglio, decide. Significa che quelli
davvero spaventati se ne resteranno seduti e cercheranno di ottenere delle rassicura-
zioni dai propri camerati. E niente funziona come qualcuno che ripete “Sono sicuro
che non esistono i maghi vampiri” e poi va alla latrina quattro volte in un’ora per in-
fondere un po’ di spina dorsale in un plotone.
Scuotivento procede lentamente verso la città, aggira una tenda nell’ombra, e sbatte
contro un cavallo che gli pesta pesantemente un piede.
“Tua moglie è un grosso ippopotamo!”
CHIEDO SCUSA.
Scuotivento resta raggelato, con ambedue le mani agganciate al piede dolente. Cono-
sce una sola persona con una voce simile ad un cimitero in pieno inverno.
Tenta di balzare all’indietro e sbatte contro un altro cavallo.
Scuotivento, ESATTO? chiede Morte. GIA’. BUONA SERA. NON CREDO TU AB-
BIA CONOSCIUTO GUERRA. Scuotivento, GUERRA. GUERRA, Scuotivento.
Guerra si tocca l’elmo in segno di saluto.
“Il piacere è tutto mio,” replica. Indica gli altri tre cavalieri. “Ho il piacere di presen-
tarti i miei figli, Terrore e Panico. E la mia bambina, Figlia della Guerra.”
I ragazzi intonano un “ciao”. Figlia della Guerra ha il broncio, all’incirca sette anni
ed indossa un elmo ed un distintivo del Pony Club.
NON MI ASPETTAVO DI VEDERTI QUI, Scuotivento.
“Oh, meno male.”
Morte estrae una clessidra dalla propria cappa, la solleva alla luce della luna e sospi-
ra. Scuotivento allunga il collo per vedere quanta sabbia c’è rimasta.
TUTTAVIA, POTREI –
“Non organizzare alcun trattamento speciale per me,” l’interrompe in fretta Scuoti-
vento. “Io, ehm… Immagino siate tutti qui per la battaglia?”
SI. PROMETTE DI ESSERE ESTREMAMENTE BREVE.
“Chi vincerà?”
SAI CHE NON TE LO DIREI, ANCHE SE LO SAPESSI.
“Anche se lo sapessi?” replica Scuotivento. “Credevo sapessi tutto!”

237
Morte solleva un dito. Qualcosa volteggia abbassandosi nell’oscurità. Scuotivento
pensa possa trattarsi di una falena, quantunque sembri meno leggera ed abbia uno
strano motivo a chiazze sulle ali.
Per un istante si accomoda sul dito allungato, dopodiché si solleva e vola via di nuo-
vo.
IN UNA NOTTE COME QUESTA, risponde Morte, L’UNICA CERTEZZA E’
L’INCERTEZZA. BANALE, LO SO, MA VERO.
Da qualche parte all’orizzonte i tuoni rimbombano.
“Allora, ehm, vedo di muovermi,” dice Scuotivento.
NON SPARIRE, lo saluta Morte, mentre il mago scappa via.
“Strano individuo,” osserva Guerra.
CON LUI QUI, PERFINO L’INCERTEZZA E’ INCERTA. E NON SONO SICURO
NEPPURE DI QUELLA.
Guerra estrae un grosso involto di carta dalla bisaccia.
“Abbiamo… vediamo… Uova e Crescione, Pollo Tikka e Formaggio Stagionato con
Sottaceti croccanti, penso.”
FANNO DELLE COSE STRAORDINARIE CON I PANINI DI QUESTI TEMPI.
“Oh… e Pancetta a Sorpresa.”
DAVVERO? COSA C’E’ DI COSI’ SOPRPENDENTE NELLA PANCETTA?
“Non saprei. Immagino sia un po’ una sorpresa scioccante per il maiale.”

Ridcully ha lottato a lungo con sé stesso, ed ha vinto.


“E’ ora che lo riportiamo qui,” dice. “Sono passati quattro giorni. E poi possiamo ri-
spedirgli indietro quella maledetta cosa a tubo. Mi fa venire il nervoso.”
I maghi anziani si guardano l’un l’altro. Nessuno è entusiasta di un’università con
una componente Scuotivento, ma il cane di metallo fa venire i nervi anche a loro.
Nessuno vuole avvicinarcisi. Gli hanno impilato dei tavoli tutto intorno e fingono che
non ci sia.
“Va bene,” dice il Decano. “Ma Stibbons insiste sul fatto che le cose devono avere lo
stesso peso, giusto? Se rispediamo indietro quell’affare, Scuotivento non tornerebbe

238
qui troppo velocemente?”
“Il Signor Stibbons ha detto che sta mettendo a punto un incantesimo,” risponde Rid-
cully. “Oppure potremmo accatastare dei materassi ad un’estremità della sala o qual-
cosa del genere.”
L’Economo alza la mano.
“Si, Economo?” domanda Ridcully incoraggiante.
“Olà, locandiere, una pinta della vostra birra migliore!” esclama l’Economo.
“Ottimo,” commenta Ridcully. “Allora è deciso. Ho già chiesto al Signor Stibbons di
cominciare a preparare -”
“Con quel congegno demoniaco?”
“Si.”
“Allora è sicuro che non ci saranno problemi,” il Decano è acido.
“Un cartoccio di aragosta, se voleste essere così gentile.”
“E l’Economo è d’accordo.”

I signori della guerra si sono riuniti nelle stanze di Lord Magazzinai. Si mantengono
prudentemente a distanza l’uno dall’altro, come conviene a dei nemici costretti alla
più inaffidabile delle alleanze. Una volta sistemati i barbari, la battaglia potrebbe pro-
seguire. Tuttavia vogliono ottenere delle rassicurazioni su un punto.
“No!” esclama Lord Magazzinai. “Voglio che sia assolutamente chiaro! Non esiste
un esercito di invisibili vampiri fantasma succhiasangue, avete capito? Le persone al
di là della Muraglia sono proprio come noi – tranne che sono enormemente inferiori
sotto ogni punto di vista, ovviamente. Ma del tutto visibili.”
Uno o due dei signori della guerra non sembrano convinti.
“E tutto questo gran parlare dell’Esercito Rosso?” chiede uno di loro.
“L’Esercito Rosso, Lord Sonanti, è solamente della plebaglia indisciplinata che deve
essere repressa con risoluta violenza!”
“Sapete di quale Esercito Rosso parlano i plebei?” insiste Lord Sonanti. “Dicono che
migliaia di anni fa -”
“Dicono che migliaia di anni fa un mago che non esiste ha preso del fango e dei ful-

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mini e ne ha ricavato dei soldati immortali,” lo interrompe Lord Magazzinai. “Si. E’
una storia, Lord Sonanti. Una storia che hanno inventato i contadini che non hanno
ben capito cos’era successo. L’esercito di Unico Spettro Solare semplicemente -
Lord Magazzinai accenna un gesto vago con la mano – aveva armature migliori e mi-
gliore disciplina. Non ho paura dei fantasmi e certamente non mi spaventa una leg-
genda che probabilmente non è mai neppure esistita.”
“Si, ma -”
“Divinatore!” schiocca Lord Magazzinai. Il divinatore, il quale rimane colto di sor-
presa, sobbalza.
“Si, mio signore?”
“Come procede con quelle viscere?”
“Ehm – sono quasi pronte, mio signore,” risponde il divinatore.
Il divinatore è piuttosto preoccupato. Deve trattarsi di una specie sbagliata di uccello,
si dice. L’unica cosa che le interiora sembrano svelargli è che, se ne uscirà vivo, lui,
il divinatore, potrebbe essere abbastanza fortunato da gustarsi una piacevole cena a
base di pollo. Ma Lord Magazzinai ha l’aria di un uomo pervaso dalla più pericolosa
impazienza.
“Cosa dicono?”
“Ehm – il futuro è… il futuro è…”
Le interiora di pollo non dovrebbero mai avere un aspetto simile. Per un momento gli
pare di vederle muoversi.
“Ehm… è incerto,” azzarda.
“Rendilo certo,” ordina Lord Magazzinai. “Vinceremo domani mattina?”
Delle ombre sfarfallano sul tavolo.
Qualcosa svolazza attorno alla lampada.
Sembra una falena di un giallo indefinibile, con dei disegni neri sulle ali.
Le abilità precognitive del divinatore, le quali sono considerevolmente molto più po-
tenti di quanto credesse, gli dicono: non è un buon momento per un chiaroveggente.
D’altro canto, non c’è mai un buon momento per essere orribilmente giustiziati, per-
ciò…

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“Senza alcun dubbio,” risponde, “il nemico sarà categoricamente sconfitto.”
“Come fai ad esserne tanto sicuro?” chiede Lord McCrampi.
Il divinatore si adombra.
“Vedete questo pezzetto tremolante vicino ai reni? Volete discutere con questa roba
verde gocciolante? D’improvviso sapete tutto del fegato? Giusto?”
“Ecco fatto, dunque,” commenta Lord Magazzinai. “Fato ci sorride.”
“Anche così -” comincia Lord Sonanti. “Gli uomini sono molto -”
“Potete dire ai vostri uomini -” attacca Lord Magazzinai. S’interrompe. Sorride. “Po-
tete dire ai vostri uomini,” prosegue, “che c’è un enorme esercito di invisibili vampiri
fantasma.”
“Cosa?”
“Si!” Lord Magazzinai inizia a cammminare su e giù, schioccando le dita.
“Si, un terribile esercito di fantasmi stranieri. Che ha fatto così arrabbiare i nostri
stessi fantasmi… si, migliaia di generazioni dei nostri antenati stanno cavalcando il
vento per respingere quest’invasione barbara! I fantasmi dell’Impero si stanno risve-
gliando! Milioni e milioni di loro! Perfino i nostri demoni sono furiosi per questa in-
trusione! Si poseranno come una nebbia di artigli e denti su – Si, Lord Cantori?”
I signori della guerra si guardano l’un l’altro in preda al nervosismo.
“Ne siete sicuro, Lord Magazzinai?”
Gli occhi di Lord Magazzinai sono infervorati dietro le piccole lenti.
“Fate i proclami necessari,” risponde.
“Ma solo poche ore fa abbiamo detto ai nostri uomini che non esistono -”
“Raccontategli una cosa diversa!”
“Ma si persuaderanno che esist -”
“Crederanno a quello che gli viene detto!” grida Lord Magazzinai. “Se il nemico
pensa che la sua forza risiede nel raggiro, allora noi useremo il loro raggiro contro di
loro. Dite agli uomini che miliardi di fantasmi dell’Impero gli copriranno le spalle!”
Gli altri signori della guerra tentano di evitare di incrociarne lo sguardo. Nessuno in
verità intende suggerire che il soldato medio non sarà affatto felice di essere circon-
dato ovunque da fantasmi, soprattutto in considerazione della volubilità dei fantasmi.

241
“Bene,” dice Lord Magazzinai. Abbassa lo sguardo.
“Sei ancora qui?” chiede.
“Sto solamente pulendo le mie rigaglie, mio signore!” urla il divinatore.
Prende i resti del pollo sconquassato e se la dà a gambe.
Dopo tutto, si dice mentre si precipita a rotta di collo verso casa, non è come se aves-
si detto il nemico di chi.
Lord Magazzinai viene lasciato solo.
Si rende conto che sta tremando. Probabilmente per la rabbia. Ma forse… forse le
cose, anche così, potrebbero volgere a suo vantaggio. I barbari provengono da fuori,
e per la maggior parte delle persone un qualunque posto là fuori è lo stesso. Si. I bar-
bari sono un piccolo dettaglio, di cui disporre facilmente, che se gestiti con cautela,
forse, potrebbero incastrarsi nella sua strategia globale.
Respira affannosamente, anche.
Dirige al suo studio privato e chiude la porta.
Estrae la chiave.
Apre la scatola.
Per qualche minuto tutto tace, tranne il fruscio della stoffa.
Poi Lord Magazzinai si ammira nello specchio.
Ha dovuto fare parecchia strada per procurarselo. Ha fatto ricorso a diversi agenti,
nessuno dei quali a conoscenza dell’intero piano. Ma il sarto di Ankh-Morpork ha
fatto bene il suo lavoro e le misure sono state rispettate alla perfezione. Dagli stivali
a punta alla calzabraca al farsetto, con il mantello ed il cappello con la piuma, Lord
Magazzinai sa di essere un perfetto gentiluomo di Ankh-Morpork. Il mantello è bor-
dato di seta.
Gli abiti sanno di scomodo e lo toccano in modi a lui inconsueti, ma si tratta di detta-
gli di poco conto. E’ questo l’aspetto che ha un uomo in una società che respira, si
muove, che può arrivare da qualche parte…
Camminerà per la città il suo primo grande giorno e le persone ammutoliranno rico-
noscendo in lui il loro capo predestinato. Non gli passa mai per la mente che
qualcuno potrebbe dire:

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“Ehi, che aritocratico! Iettimaoli ‘hifo un mattone a li!”

Le formiche corrono su e giù. La cosa che fa “parp” fa parp.


I maghi restano indietro. Non c’è molto altro da fare quando Hex lavora alla massima
velocità, tranne che guardare il pesce ed oliare le ruote di tanto in tanto. Occasional-
mente si sprigionano dei lampi di ottarino dai tubi.
Hex sta elaborando centinaia di incantesimi al minuto. Così, semplicemente. Un es-
sere umano impiegherebbe più di un’ora per la normale ricerca di un incantesimo.
Ma Hex riesce a trovarli più velocemente. Ancora ed ancora. Draga l’intero mare
dell’occulto alla ricerca di quell’unico pesce sfuggente.
Consegue, dopo novantatré minuti, ciò che altrimenti all’intero corpo docenti avreb-
be richiesto diversi mesi.
“Vedete?” dice Ponder con la voce leggermente scossa mentre prende la linea di tes-
sere dal raccoglitore di schede. “Dicevo che lui poteva farcela.”
“Lui chi?” chiede Ridcully.
“Hex.”
“Oh, intendete il coso.”
“E’ quel che ho detto, signore… ehm…si.”

Un’altra particolarità dell’Orda che il Signor Cervellata ha notata è l’abilità che han-
no di rilassarsi. I vecchi hanno la stessa capacità dei gatti di non fare niente quando
non c’è niente da fare.
Hanno affilato le spade. Hanno mangiato - grossi pezzi di carne per la maggior parte
di loro, ed un qualche tipo di pappetta farinacea per Hamish il Matto, che se l’è per lo
più sbrodolata sulla barba – accertandosi della salubrità del pasto trascinando dentro
il cuoco, inchiodandolo al pavimento per il grembiule e tenendogli sospesa sopra una
grossa ascia penzolante da una fune attaccata ad un trave sul soffitto, la cui altra
estremità era nelle mani di Cohen, mentre mangiava.
Hanno affilato di nuovo le spade, come d’abitudine e… si sono fermati.
Di quando in quando uno di loro fischietta il frammento di un qualche motivetto, at-

243
traverso quel che gli rimane dei denti, o ispeziona una qualche fessura corporale per
un pidocchio particolarmente nervoso. Tuttavia, principalmente, sono seduti e fissano
il nulla.
Dopo un bel po’ Caleb dice: “Sapete, non sono mai stato a XXXX. Andai ovunque.
Mi sono sempre chiesto com’è.”
“C’ho fatto naufragio una volta,” risponde Vincent. “Strano posto. Pieno di magia.
C’è castori col becco e ratti giganti con lunghe code che saltellano in giro e boxano
gli uni con gli altri. Dei tizi neri vagabondano ovunque. Dicono che sono in un so-
gno. Svegli, però. Mostragli un pezzo di deserto con un albero morto, e il minuto
dopo rimediano un pasto di tre portate che si chiude con frutta e noci. Anche la birra
è buona.”
“Sembra bello.”
Un’altra lunga pausa.
Poi:
“Suppongo abbiano i menestrelli qui? Un po’ un maledetto spreco, sarebbe, se ci am-
mazzassero tutti e nessuno ci scrivesse sopra una canzone.”
“E’ obbligata ad averci un sacco di menestrelli una città come questa.”
“Nessun problema, allora.”
“No.”
“No.”
Un’altra lunga pausa.
“Non che ci uccideranno.”
“Giusto. Non intendo cominciare a farmi uccidere a questo punto della mia vita,
haha.”
Un’altra pausa.
“Cohen?”
“Si?”
“Sei per niente religioso?”
“Ebbene, ho depredato mucchi di templi ed ucciso qualche sacerdote pazzo ai miei
tempi. Non so se questo conta.”

244
“La tua tribù cosa crede che capiti quando si muore in battaglia?”
“Oh, delle grassone con degli elmetti cornuti ti portano nel palazzo di Io dove si
combatte e gozzoviglia e tracanna per l’eternità.”
Un’altra pausa.
“Cioè, tipo, veramente per l’eternità?”
“Suppongo di si.”
“Perché in genere ti danno da mangiare pure il tacchino fino a circa il quarto giorno.”
“D’accordo, la tua gente cosa crede?”
“Penso che andiamo all’Inferno con una barca fatta di unghie di piedi che affonda.
Una cosa del genere, comunque.”
Un’altra pausa.
“Ma non vale la pena parlarcene perché oggi non ci uccideranno.”
“Lo dici tu.”
“Ah, non vale la pena morire se tutto quello che ti aspetta è avanzi di carne e galleg-
giare su una barca che puzza come i tuoi calzini, giusto, eh?”
“Haha.”
Un’altra pausa.
“Giù a Klatch credono che se fai una vita buona ti ricompensano mandandoti in un
paradiso con un sacco di giovani donne.”
“Questa è una ricompensa per te, vero?”
“Non so. Magari è la loro punizione. Però ricordo che mangi sorbetto tutto il giorno.”
“Ah. Quand’ero un ragazzo avevamo del vero sorbetto, in piccoli cosi a forma di
tubo e lacci di liquirizia da succhiarci insieme. Oggi non le trovi più certe cose. La
gente è troppo occupata ad andare di fretta.”
“Suona meglio che tracannare unghie dei piedi, però.”
Un’altra pausa.
“Hai mai creduto a quella faccenda che ogni uomo che uccidi sarà tuo schiavo nella
prossima vita?”
“Non so.”
“Quanti ne hai uccisi?”

245
“Cosa? Oh. Forse due, tremila. Senza contare i nani ed i troll, naturalmente.”
“Di sicuro non rimarrai a corto di spazzole per capelli o di qualcuno che ti apra la
porta dopo che sei morto, allora.”
Una pausa.
“Noi non stiamo decisamente per morire, giusto?”
“Giusto.”
“Intendo, una probabilità di uno a 100.000… ah. La differenza sono solo un mucchio
di zeri, giusto?”
“Giusto.”
“Voglio dire, dei compagni robusti che combattono al nostro fianco, un potente brac-
cio destro… Cos’altro potremmo volere?”
Pausa.
“Un vulcano sarebbe gradito.”
Pausa.
“Moriremo, vero?”
“Si.”
L’Orda si guarda l’un l’altro.
“Però, a voler trovare un lato positivo, mi viene in mente che devo ancora cinquanta
dollari a Fafa il nano per la spada,” dice Giovane Willie. “Sembra che potrei chiudere
la partita in vantaggio.”
Il Signor Cervellata si mette la testa fra le mani.
“Sono davvero costernato,” dice.
“Non preoccupartene,” risponde Cohen.
La luce grigia dell’alba s’intravede appena dalle finestre dei piani superiori.
“Sentite,” dice il Signor Cervellata, “non dovete morire per forza. Potremmo… ebbe-
ne, potremmo sgattaiolare fuori. Di nuovo dalle tubature, forse. Magari potremmo
trasportare Hamish. La gente va e viene di continuo. Sono certo che potremmo usci-
re… dalla città… senza… nessun…”
La sua voce si affievolisce fino a scomparire. Nessuna voce potrebbe sostenere la
pressione di certi sguardi fissi. Persino Hamish, il cui sguardo generalmente è foca-

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lizzato su qualche punto lontano vecchio di circa un’ottantina di anni, lo guarda tru-
ce.
“Non scappo,” dichiara Hamish.
“Non è scappare,” riesce ad elaborare. “E’ una ragionevole ritirata. Tattica. Santi
numi, è buon senso!”
“Non scappo.”
“Sentite, perfino i barbari sanno contare! Ed avete ammesso che morirete!”
“Non scappo.”
Cohen si allunga e dà delle piccole pacche sulla mano al Signor Cervellata.
“Fa parte dell’essere eroi, capisci,” spiega. “Chi ha mai sentito di un eroe che si dà
alla fuga? Tutti quei ragazzini di cui ci hai raccontato… lo sai, quelli che pensano
che siamo un’invenzione… ritieni che crederebbero che siamo scappati? Beh, dun-
que. No, non fa parte dell’accordo, scappare. Lascia che sia qualcun altro a scappa-
re.”
“Oltretutto,” interviene Rotella, “dove mai potrebbe capitarci un’altra occasione si-
mile? In sei contro cinque eserciti! E’ fot – è fantastico! Non stiamo parlando di leg-
gende qui. Penso che abbiamo delle ottime possibilità di entrare nel mito.”
“Ma… voi… morirete.”
“Oh, fa parte del gioco, te lo garantisco, fa parte del gioco. Ma che modo di andarse-
ne, eh?”
Il Signor Cervellata li guarda e si rende conto che parlano un’altra lingua di un altro
mondo. Uno di cui non ha le chiavi, né la mappa. Gli si può insegnare ad indossare
dei pantaloni interessanti ed a gestire il denaro ma qualcosa nelle loro anime rimane
esattamente immutabile.
“Gli insegnanti vanno in qualche posto speciale quando muoiono?” chiede Cohen.
“Non credo,” risponde il Signor Cervellata malinconicamente. Per un attimo si do-
manda se non ci sia un’eterna Ora Di Buco nel cielo. Non pare molto verosimile.
Probabilmente ci sarà da mettere dei voti.
“Beh, qualunque cosa accada quando sarete morti, se vi sentite in vena di una bella
bevuta, sarete sempre i benvenuti,” dice Cohen. “E’ stato divertente. Questo è

247
l’importante. Ed è stato formativo, non è vero, ragazzi?”
Si solleva un mormorio generale di assenso.
“Stupefacenti, tutti quei paroloni.”
“Ed imparare a comprare le cose.”
“E le relazioni sociali, hi, hi… scusate.”
“Cusa?”
“Peccato non abbia funzionato, ma non sono mai stato tipo da programmi,” dice Co-
hen.
Il Signor Cervellata si alza in piedi.
“Intendo unirmi a voi,” dichiara determinato.
“Cosa, per combattere?”
“Si.”
“Sai come si maneggia una spada?” chiede Rotella.
“Ehm. No.”
“Allora hai sprecato la tua vita.”
Il Signor Cervellata ha l’aria di essersi offeso.
“Conto di capire come funziona intanto che andiamo,” replica.
“Capire come funziona? E’ una spada!”
“Si, ma… quando si insegna, bisogna afferrare le cose al volo.”
Il Signor Cervellata sorride nervosamente. “Una volta ho insegnato chimica pratica
per un intero semestre quando il Signor Schism si è assentato per malattia per essersi
fatto saltare in aria da solo, e fino ad allora non avevo neanche mai visto un crogiuo-
lo.”
“Prendi.” Giovane Willie consegna una spada di riserva all’insegnante. Che la solle-
va.
“Ehm. Conto ci sia un manuale o qualcosa di simile?”
“Manuale? No. Impugni il manico e infili l’altra parte nelle persone.”
“Ah? Sul serio? Ebbene, sembra decisamente pratico. Pensavo ci fosse molto di più.”
“Sicuro di voler venire con noi?” chiede Cohen.
Il Signor Cervellata ha l’aria irremovibile. “Assolutamente. Dubito fortemente che

248
sopravviverei se perdeste e… beh, sembra che a voi eroi spetti un Paradiso migliore.
Devo dire che sospetto vi sia riservata anche una vita migliore. E davvero non saprei
dire dove finiscono i professori quando muoiono, ma ho il terribile sospetto che sia
pieno di insegnanti di ginnastica.”
“E’ solo che non sono certo che tu possa veramente diventare una furia,” insiste Co-
hen. “Ti è mai calata una nebbia rossa che poi ti risvegli e scopri di aver ucciso venti
persone a morsi?”
“In genere mi tacciavano di essere un uomo particolarmente irritabile quando c’era
troppo chiasso in aula,” risponde il Signor Cervellata. “E di riuscire ad essere qualco-
sa di letale con un gessetto.”
“Tu che dici esattore?”
Sei Venti Benefici indietreggia rapido.
“Io… penso che probabilmente sono più tagliato per indebolire il sistema dall’inter-
no,” risponde.
“Mi pare giusto.” Cohen guarda gli altri. “Non ho mai partecipato a questo tipo di
conflitto ufficiale prima d’ora,” dice. “Come ci si aspetta che vada?”
“Penso che semplicemente ci si allineerà gli uni di fronte agli altri e poi si darà la ca-
rica,” risponde il Signor Cervellata.
“Mi pare abbastanza semplice. D’accordo, andiamo.”
Si avviano per il corridoio a grandi passi o, in un caso, a rotelle, ed in un altro caso al
trotto garbato del Signor Cervellata. L’esattore li segue a distanza.
“Signor Cervellata!” grida. “Sapete cosa sta per succedere! Avete perso il lume della
ragione?”
“Si,” risponde l’insegnante, “ma potrei aver trovato qualcosa di migliore.”
Sorride a sé stesso. Tutta la sua esistenza, fino ad oggi, è stata complicata. Ci sono
stati programmi di lavoro ed elenchi ed un intero raccoglitore zeppo di cose che
avrebbe dovuto fare e non fare, e la vita del Signor Cervellata altro non è stata se non
quella piccola cosa che si dimena nel tentativo di sopravvivere a tutto questo. Ades-
so, però, d’improvviso tutto si è fatto semplice. Si regge un’estremità e s’infilza
l’altra nelle persone. Un uomo potrebbe vivere un’intera vita facendone una massi-

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ma. E, oltretutto, ricavarne un interessante al di là -”
“Tieni, ti servirà pure questo.” Caleb gli spinge in mano qualcosa di rotondo intanto
che escono nella luce grigia del mattino. “E’ uno scudo.”
“Ah. Serve a proteggermi, giusto?”
“Se proprio devi, dagli un morso.”
“Oh, questo lo so,” replica il Signor Cervellata. “E’ quando si diventa una furia, esat-
to?”
“Potrebbe essere, potrebbe essere,” risponde Caleb. “E’ per questo che un sacco di
guerrieri lo fanno. Però personalmente lo faccio perché è di cioccolata.”
“Cioccolata?”
“In battaglia mica si riesce a mangiare come si deve.”
Ed eccomi qua, pensa il Signor Cervellata, a marciare lungo la strada con degli eroi.
Sono dei grandi comb –
“E quando non sei sicuro di che fare, togliti tutti i vestiti,” suggerisce Caleb.
“A che scopo?”
“E’ sintomo di vera furia levarsi tutti i vestiti. Fa spaventare a morte i nemici. Se
qualcuno comincia a ridere, infilzalo per bene.”
Si muove qualcosa tra le coperte della sedia a rotelle.
“Cusa?”
“Ho detto, INFILZALO PER BENE, Hamish.”
Hamish agita un braccio che sembra un osso con sopra della pelle, apparentemente
troppo esile per riuscire a sostenere l’ascia che invece sta reggendo.
“Proprio così! Dritto negli zebedei!”
Il Signor Cervellata dà una colpetto di gomito a Caleb.
“Questa me la devo segnare,” dice. “Dove sono esattamente gli zebedei?”
“E’ una piccola catena di montagne vicina al Centro.”
“Affascinante.”

I cittadini di Hunghung si sono schierati lungo le mura della città. Non è cosa di tutti
i giorni assistere ad una battaglia come questa.

250
Scuotivento sgomita e scalcia per aprirsi un varco tra la folla finché non raggiunge la
cellula, la quale è riuscita a procurarsi una posizione privilegiata sopra il cancello
principale.
“Che andate ancora girando da queste parti?” chiede. “Dovreste essere a miglia e mi-
glia di distanza!”
“Vogliamo vedere cosa succederà, ovviamente,” risponde Duefiori, con le lenti che
scintillano.
“Io lo so cosa succederà! L’Orda verrà massacrata all’istante!” esclama Scuotivento.
“Cosa vi aspettate che succeda?”
“Ah, ma ti stai dimenticando degli invisibili vampiri fantasma,” replica Duefiori.
Scuotivento lo fissa.
“Cosa?”
“La loro arma segreta. Ho sentito dire che ne abbiamo qualcuno anche noi. Dovrebbe
essere uno spettacolo interessante da vedere.”
“Duefiori, non esistono gli invisibili vampiri fantasma.”
“Ah, già, si preoccupano tutti di negarlo,” interviene Fiore di Loto. “Perciò deve es-
serci qualcosa di vero.”
“Ma sono io che l’ho inventato!”
“Ah, forse pensi di averlo inventato tu,” insiste Duefiori. “Però magari sei solo una
pedina di Fato.”
“Ascolta, non esistono -”
“Il solito vecchio Scuotivento,” lo interrompe Duefiori, blandendolo. “Sei sempre
pessimista, ma alla fine si conclude tutto per il meglio.”
“Non ci sono fantasmi, né eserciti magici,” ribatte Scuotivento. “C’è solamente -”
“Quando sette uomini escono per combattere un esercito centomila volte più grande,
può finire solamente in un modo,” lo interrompe di nuovo Duefiori.
“Esatto. Mi fa piacere che te ne renda conto.”
“Vinceranno,” dichiara Duefiori. “Devono. Diversamente significherebbe che il mon-
do sta girando per il verso sbagliato.”
“Hai l’aria di una che ha studiato,” Scuotivento si rivolge a Farfalla. “Spiegagli per-

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ché sta sbagliando. E’ per via di una piccola cosa che abbiamo dalle mie parti. Non
so se ne hai mai sentito parlare – la chiamano matematica.”
La ragazza gli sorride.
“Non mi credi, vero?” domanda monotono Scuotivento. “Sei proprio come lui. Cosa
pensi che sia, questa, guerra omeopatica? Più esigue sono le vostre fila più è probabi-
le che vincerete? Ebbene, non è così. Vorrei che fosse così, ma non lo è. Niente lo è.
Non ci sono incredibili colpi di fortuna, né soluzioni magiche, e la brava gente non
vince perché è poca ed ha fegato!” Agita una mano indisponente verso qualcosa.
“Ne sei sempre uscito vivo,” osserva Duefiori. “Ci sono capitate delle avventure
straordinarie e tu ne sei sempre uscito vivo.”
“Pura coincidenza.”
“Te la cavi sempre.”
“E ci hai fatto uscire tutti interi di prigione,” rincara Fiore di Loto.
“Sono solo un mucchio di coinci – Potresti andartene!”
Una farfalla se ne svolazza via dalla mano che agita convulsamente.
“Esseri malefici,” borbotta. Ed aggiunge: “Beh, è tutto. Io vado. Non posso guardare.
Ho delle faccende da sbrigare. Inoltre, credo che una volta finito tutto queste persone
disgustose mi verranno a cercare.”
E poi si accorge delle lacrime negli occhi di Fiore di Loto.
“Noi… noi pensavamo che avresti fatto qualcosa,” dice.
“Io? Io non posso fare niente! Specialmente magie! Sono famoso per questo! Smette-
tela di credere che i Grandi Maghi possano risolvere tutti i vostri problemi, perché
non esistono e non lo faranno ed io dovrei saperlo bene visto che non sono uno di
loro!”
Indietreggia. Mi succede tutte le volte! Sto lì che penso agli affari miei e va tutto a
rotoli ed improvvisamente contano tutti su di me e dicono “Oh, Scuotivento, cosa
pensi di fare in proposito?” Ebbene, ciò che il piccolino della Signora Scuotivento
pensa di fare in proposito, sempreché, ovviamente, ci sia una Signora Scuotivento, è
niente, chiaro?
“Dovete sbrigarvela da soli! Nessun esercito mistico verrà – Potreste smetterla di

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guardarmi così? Non vedo perché la colpa sia mia! Ho altre cose da fare! Non sono
affari che mi riguardano!”
E poi si volta e scappa via.
La folla non fa troppo caso a lui.
Le strade sono deserte per gli standard di Hunghung, il che significa che spesso si
riesce addirittura a distinguere l’acciottolato. Scuotivento spinge e spintona per farsi
strada nei vicoli più vicini alla Muraglia, alla ricerca di un’altra uscita dove le guar-
die siano troppo impegnate per fare domande.
Sente dei passi alle sue spalle.
“Sentite,” dice, girando su sé stesso, “ve l’ho detto che potete tutti -”
E’ il bagaglio.
Si sforza di far sembrare di avere un po’ di vergogna di sé stesso.
“Oh, finalmente ci facciamo vivi, eh?” Scuotivento è arrabbiato. “Che ne è stato di
quella cosa del seguire – il padrone – ovunque?”
Il Bagaglio struscia i piedi. Da uno dei vicoli spunta una versione leggermente più
grande e molto più decorata di sé stesso. Nel coperchio ha degli intarsi decorativi ed
a Scuotivento sembra che abbia i piedi molto più raffinati di quelli callosi e dalle un-
ghie cornute del Bagaglio.
Inoltre, sulle unghie dei piedi hanno passato dello smalto.
“Oh,” dice. “Beh. Per tutti gli dèi. Mi sembra giusto, credo. Sul serio? Cioè…
d’accordo. Ebbene. Muoviamoci, allora.”
Raggiunge la fine del vicolo e si volta. Il Bagaglio spintona gentilmente la cassapan-
ca più grande, esortandola a seguirlo.
Le competenze sessuali di Scuotivento sono alquanto scarne, nonostante abbia visto
dei grafici. Non ha la benché minima idea di come possano applicarsi agli accessori
da viaggio. Chissà se dicono cose del tipo “Che cassa!” o “Guarda che paio di cardini
quella!”?
A ben riflettere, non ha alcun motivo per ritenere che il Bagaglio sia un maschio.
Deve ammettere che ha un’indole omicida, ma ce l’hanno anche parecchie donne che
Scuotivento ha incontrato, le quali diventano sempre un po’ più omicide in conse-

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guenza dell’incontrarlo. L’attitudine alla violenza, ha sentito dire Scuotivento, è uni-
sessuale. Non è sicuro di cosa significhi unisessuale, ma immagina equivalga a ciò
che di solito sperimenta.
C’è un cancelletto più avanti. Il quale sembra essere incustodito.
A dispetto della paura lo varca e si trattiene dal mettersi a correre.
Le autorità fanno sempre caso ad un uomo che corre. Il momento giusto per comin-
ciare a correre è all’incirca quello della “h” in “Ehi, tu!”
Nessuno gli presta attenzione. L’attenzione di tutti a ridosso della Muraglia è concen-
trata sugli eserciti.
“Guardali,” l’amarezza è rivolta all’universo in generale. “Idioti. Se fossero sette
contro settanta saprebbero tutti chi perde. Solo perché sono sette contro settecentomi-
la nessuno ne è sicuro. Come se improvvisamente i numeri non contassero più niente.
Uh! Perché mai dovrei fare qualcosa? Il tizio non lo conosco neppure tanto bene.
Ammetto che mi ha salvato la vita un paio di volte, ma non è una buona ragione per
finire ammazzati in modo orribile solo perché non sa contare. Perciò smettetela di
guardarmi così!”
Il Bagaglio indietreggia un poco. L’altro Bagaglio… Scuotivento ritiene che abbia un
che di femminile. Il bagaglio delle donne è sempre più grande di quello degli uomini,
o no? Per via di – si addentra in un territorio sconosciuto – tutti i fronzoli aggiuntivi e
l’altra roba. E’ solo una tra le tante altre cose, come il fatto che i loro fazzoletti sono
più piccoli di quelli degli uomini nonostante i loro nasi, di norma, abbiano un’identi-
ca grandezza. Il Bagaglio è sempre stato il Bagaglio. Scuotivento non è mentalmente
preparato a che ce ne sia più di uno. Ci sono il Bagaglio e… l’altro Bagaglio.
“Muovetevi voi due,” dice. “Ce ne andiamo via di qua. Ho fatto quel che potevo.
Non intendo preoccuparmene più. Non ha niente a che fare con me. Non capisco per-
ché debbano affidarsi tutti da me. Non sono affidabile io. Perfino io non mi affido a
me, ed io sono me.”

Cohen scruta l’orizzonte. Si stanno ammassando delle nuvole grigio blu.


“C’è una tempesta in arrivo,” commenta.

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“E’ una fortuna che non saremo vivi, allora, così non ci bagniamo,” replica Giovane
Willie allegramente.
“Che cosa strana, però. Sembra arrivare da tutte le parti in una sola volta.”
“Sporco tempo straniero. Non ti puoi fidare.”
Cohen rivolge la sua attenzione agli eserciti dei signori della guerra.
Pare abbiano raggiunto un qualche tipo d’intesa.
Si dispongono tutt’intorno alla posizione scelta da Cohen. La tattica appare piuttosto
evidente. E’ facile anticiparla. L’Orda riesce a vedere i comandanti che cavalcano su
e giù lungo le linee delle proprie legioni.
“Come si suppone che abbia inizio?” chiede Cohen, intanto che si alza il vento sfer-
zando quel che resta dei suoi capelli. “Qualcuno suona una sirena o cosa? O ci si li -
mita ad urlare a partire alla carica?”
“L’inizio normalmente è sancito di comune accordo,” risponde il Signor Cervellata.
“Oh.”
Cohen osserva la foresta di lance e stendardi. Centinaia di migliaia di uomini sem-
brano proprio tanti visti da vicino.
“Immagino,” scandisce le parole lentamente, “che nessuno di voi ha un qualche pia-
no stupefacente che ha tenuto per sé?”
“Pensavamo ne avessi uno tu,” risponde Rotella.
Diversi cavalieri si allontanano da ciascuno degli eserciti e si avvicinano all’Orda in
formazione. Si fermano a poco più della distanza di tiro di una lancia, poi si siedono
e restano a guardare.
“D’accordo, allora,” esordisce Cohen. “Detesto doverlo dire, ma forse dovremmo
considerare la resa.”
“No!” esclama il Signor Cervellata, e poi s’interrompe imbarazzato dal tono eccessi-
vamente alto della propria voce. “No,” ripete, un po’ più quietamente. “Arrendersi
equivale a non uscirne vivi. E’ morte certa ed istantanea.”
Cohen si gratta il naso. “Com’è quella bandiera… sai… quando vuoi parlargli senza
che ti uccidano?”
“Deve essere rossa,” risponde il Signor Cervellata. “Però ascolta, non è bene che -”

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“Non lo so, rosso per la resa, bianco per i funerali…” borbotta Cohen. “Essia. Qual-
cuno ha qualcosa di rosso?”
“Ho un fazzoletto,” replica il Signor Cervellata, “ma è bianco e comunque -”
“Dammelo.”
L’insegnante barbaro glielo consegna con estrema riluttanza.
Cohen estrae un piccolo coltello consumato dalla cintura.
“Non riesco a crederci!” esclama il Signor Cervellata. E’ quasi prossimo alle lacrime.
“Cohen il Barbaro che parla di resa con gente come questa!”
“Colpa della civiltà,” replica Cohen. “Probabilmente mi ha rammollito il cervello.”
Si incide il braccio con la lama e poi tampona il taglio con il fazzoletto.
“Ecco fatto,” dice. “Pronta una bella bandiera rossa.”
L’Orda annuisce in segno di approvazione. E’ un gesto straordinariamente simbolico,
radicale e soprattutto stupido, in ossequio alla più pura tradizione dell’essere degli
eroi barbari. Tuttavia, non sembra rimanere privo di effetti su alcuni dei soldati più
vicini.
“Ora,” prosegue Cohen, “conto su di te, Prof, e te, Rotella… voi venite con me e an-
dremo a parlare a queste persone.”
“Ti trascineranno nelle loro segrete!” esclama il Signor Cervellata. “Conoscono delle
torture capaci di tenerti in vita per degli anni!”
“Cusa? Cusadice?”
“Dice POSSONO TENERTI IN VITA PER DEGLI ANNI NELLE LORO SEGRE-
TE, Hamish.”
“Ottimo! Io ci sto!”
“Oh, cielo,” commenta il Signor Cervellata.
Segue gli altri due in direzione dei signori della guerra.
Lord Magazzinai solleva la visiera e fissa lo sguardo più in basso del suo naso intan-
to che si avvicinano.
“Bandiera rossa, guardate,” dice Cohen, sventolando l’oggetto madido che pare quasi
un’isola attaccata alla punta della spada.
“Si,” commenta Lord Magazzinai. “Abbiamo assistito al teatrino. Forse riesce ad im-

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pressionare i soldati comuni, ma di certo non impressiona me, barbaro.”
“Come ti pare,” replica Cohen. “Siamo venuti a parlare di resa.”
Il Signor Cervellata nota che alcuni dei signori inferiori di grado si rilassano un pò.
Poi pensa: ad un vero soldato probabilmente non piace questo genere di cose. Non
vuole ritrovarsi nel Paradiso dei soldati o dovunque finisca a raccontare che una volta
ha guidato un esercito contro sette vecchietti. Non è certo materiale per una meda-
glia.
“Ah. Ovviamente. Fine delle spacconate,” risponde Lord Magazzinai. “Allora depo-
nete le armi e verrete scortati a palazzo.”
Cohen e Rotella si guardano a vicenda.
“Prego?” chiede Cohen.
“Deponete le armi!” sbuffa Lord Magazzinai. “Significa posate le vostre armi.”
Cohen lo guarda con l’aria di non capire. “Perché dovremmo posare le nostre armi?”
“Non stiamo parlando della vostra resa?”
“La nostra resa?”
La bocca del Signor Cervellata si spalanca in un sorriso lento e folle.
Lord Magazzinai fissa Cohen.
“Ah! Non puoi davvero pensare che creda che siete venuti a chiederci…”
Si allunga sulla sella e lo guarda sinistramente.
“E’ così, non è vero?” chiede. “Stupidi piccoli barbari. E’ vero che sapete contare so-
lamente fino a cinque?”
“Abbiamo solo pensato che si potesse evitare alla gente di farsi male,” risponde Co-
hen.
“Avete pensato che voi avreste potuto evitare di farvi male,” replica il signore della
guerra.
“Sfido che anche alcuni di voi potrebbero farsi male.”
“Sono plebei,” dice il signore della guerra.
“Oh, già. Me n’ero scordato,” ribatte Cohen. “E tu sei il loro capo, giusto? E’ come il
vostro gioco degli scacchi, esatto?”
“Io sono il loro signore,” dichiara Lord Magazzinai. “Moriranno dietro mio ordine,

257
se necessario.”
Cohen gli spalanca un’enorme, pericoloso sorriso.
“Quando cominciamo?” chiede.
“Ritorna dalla tua… comitiva,” risponde Lord Magazzinai. “E dopo penso che po-
tremmo cominciare… a breve.”
Guarda torvo Rotella che srotola un pezzo di carta. Le labbra barbare si muovono
goffamente mentre fa scorrere un dito calloso sulla pagina.
“Miserabile… figlio di ignoto, ecco cosa sei,” dice.
“Parole mie,” commenta il Signor Cervellata, il quale ha creato la tabella di ricerca.
Come i tre fanno ritorno all’Orda il Signor Cervellata si accorge di un rumore stridu-
lo. Cohen si sta rimuovendo parecchi carati dai denti.
“Moriranno dietro mio ordine,” ripete. “Il fesso non sa nemmeno a cosa serve un
capo, bastardo! Lui e il suo cavallo.”
Il Signor Cervellata si guarda intorno. Sembra ci sia una discussione in corso tra i si-
gnori della guerra.
“Sai,” replica, “probabilmente cercheranno di prenderci vivi. Avevo un preside come
lui. Gli piaceva rendere la vita impossibile a tutti.”
“Vuoi dire che cercheranno di non ucciderci?” chiede Rotella.
“Si.”
“Significa che anche noi dobbiamo cercare di non ucciderli?”
“No, non credo proprio.”
“A me sta bene.”
“Adesso che facciamo?” domanda il Signor Cervellata. “Cantiamo un inno di batta-
glia o una cosa simile?”
“Aspettiamo e basta,” risponde Cohen.
“C’è un sacco da aspettare in guerra,” interviene Giovane Willie.
“Ah, si,” commenta il Signor Cervellata. “L’ho sentito dire. Si dice che ci sono lun-
ghi intervalli di monotonia seguiti da brevi momenti di euforia.”
“Non esattamente,” chiarisce Cohen. “E’ più un brevi intervalli di attesa seguiti da
lunghi momenti da morti.”

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“Dannazione!”
I campi sono solcati dai canali di drenaggio. Non pare esserci un sentiero rettilineo
da nessuna parte. Ed i canali sono troppo larghi per saltarli: hanno l’aria di essere ab-
bastanza profondi da poter essere guadati, ma solamente perché cinquanta centimetri
d’acqua ricoprono una soffocante profondità di fango denso. Il Signor Cervellata dice
che l’Impero deve la sua prosperità al fango delle pianure, e adesso come adesso
Scuotivento si sente estremamente ricco.
Inoltre ha quasi raggiunta la grossa collina che domina la città. E’ davvero tondeg-
giante, con una precisione all’apparenza fin troppo accurata per essere dovuta a cause
meramente naturali. Cervellata dice che le colline come questa sono drumlins, grossi
ammassi di strati fertili lasciati indietro dai ghiacciai. Gli alberi coprono i pendii più
bassi di questa qui e c’è una piccola costruzione sulla cima.
Riparo. Ecco una bella parola. La pianura è vasta e gli eserciti non sono troppo lonta-
ni. La collina ha un aspetto curiosamente placido, come se appartenesse ad un altro
mondo. E’ bizzarro che gli Agateani, che altrimenti paiono coltivare praticamente
ogni posto in cui i bufali indiani riescono a stare, l’abbiano lasciata stare.
Qualcuno lo osserva.
E’un bufalo indiano.
Sarebbe sbagliato dire che lo guarda con interesse. Lo guarda e basta, perché i suoi
occhi sono aperti e devono pur puntare da qualche parte e, casualmente, hanno scelto
quella che include Scuotivento.
Il muso conserva l’espressione totalmente serena di una creatura che ha da tempo
compreso che, fondamentalmente, è un tubo con le zampe e che è stata installata
nell’universo per, in linea di massima, produrre rendimento.
All’altro capo del laccio c’è un uomo, immerso fino all’anca nel fango del campo.
Ha un grosso cappello di paglia, come ogni altro pastore di bufali. Indossa lo stesso
identico pigiama da lavoratore-dei-campi Agateano. Ed ha un’espressione affatto
idiota, bensì preoccupata. Osserva Scuotivento. Come per il bufalo, solamente perché
i suoi occhi devono tenersi occupati.

259
A dispetto del pericolo incombente, Scuotivento si scopre sopraffatto dalla curiosità.
“Ehm. Buongiorno,” saluta.
L’uomo gli risponde con un cenno del capo. Il bufalo indiano emette un suono da ru-
minante rigurgitante.
“Ehm. Perdonami se è una domanda troppo personale,” prosegue Scuotivento,
“però… non posso fare a meno di chiedermi… perché te ne stai tutto il giorno qua
fuori con il bufalo indiano?”
L’uomo ci riflette su.
“Fa bene al terreno,” risponde alla fine.
“Ma non si spreca un sacco di tempo?” domanda Scuotivento.
L’uomo riflette attentamente anche stavolta.
“Cos’è il tempo per una mucca?” ribatte.
Scuotivento fa retromarcia e si reimmete sull’autostrada della realtà.
“Li vedi quegli eserciti laggiù?” chiede.
Il pastore di bufali concentra lo sguardo.
“Si,” decide.
“Stanno combattendo per te.”
L’uomo non sembra minimamente impressionato. Il bufalo indiano rutta gentilmente.
“Qualcuno vuole schiavizzarti ed altri vogliono che governi il paese, o almeno che
gli permetti di governare il paese mentre cianciano che in verità sei tu a farlo,” dice
Scuotivento. “Ci sarà uno scontro terribile. Non posso fare a meno di chiedermi… Tu
cosa vuoi?”
Il pastore di bufali assimila anche questo per le dovute considerazioni. Ed a Scuoti-
vento pare che la lentezza nell’elaborazione del pensiero non sia dovuta a stupidità
congenita, ma che abbia più a che fare con le dimensioni reali della questione. Riesce
a sentirla espandersi così da incorporare anche il suolo e l’erba ed il sole ed estender-
si fino all’universo tutto.
Alla fine l’uomo risponde:
“Un pezzo di laccio più lungo non mi dispiacerebbe.”
“Ah. Davvero? Bene bene. E’ un qualcosa,” commenta Scuotivento. “Parlare con te è

260
stato istruttivo. Addio.”
L’uomo lo guarda andarsene. Al suo fianco, il bufalo rilassa qualche muscolo e ne
contrae altri e solleva la coda e fa del mondo, in maniera davvero basica, un posto
migliore.
Scuotivento continua la sua marcia verso la collina. Le tracce degli animali e gli spo-
radici ponti di legno spuntano talmente a caso da sembrare condurre direttamente
verso quella. Se Scuotivento fosse in grado di pensare chiaramente, attività che non
gli capita più di fare da quando aveva all’incirca dodici anni, si porrebbe degli inter-
rogativi per questo.
Gli alberi sui pendii più bassi sono dei peri sapienti, e non si ferma a riflettere neppu -
re su questo. Le foglie si voltano a guardarlo intanto che si inerpica. Ciò di cui ha bi-
sogno al momento è una caverna o una comoda -
Fa una pausa.
“Oh, no,” dice. “No, no, no. Non mi farò fregare così. Entrerò in una comoda caver-
na e ci troverò una porticina o qualche vecchio saggio o un’altra cosa così e finirò
trascinato indietro nel bel mezzo degli eventi. Bene. Me ne resterò all’aperto, ecco.”
Un po’ si arrampica ed un po’ cammina verso la tondeggiante cima della collina, la
quale si staglia al di sopra degli alberi come una cupola. Adesso che è più vicino rie-
sce a vedere che non è levigata come invece pareva dal basso. Il tempo ha eroso il
terreno scavando fossi e scanalature e gli arbusti hanno presso possesso del regolare
ed accogliente pendio.
La costruzione sulla cima è, con sorpresa di Scuotivento, arrugginita. E’ fatta di ferro
– tetto a sesto acuto di ferro, muri di ferro, porta di ferro. Il terreno intorno, tranne
che per qualche vecchio nido ed alcuni detriti, è sgombro. E non è un buon posto per
nascondersi. E’ il primo in cui chiunque cercherebbe.
Il mondo è circondato da una parete di nuvole adesso. Dal cuore della quale sfrigola-
no dei lampi, insieme con il rumore dei tuoni – non il rimbombo bonario dei tuoni
estivi, bensì lo scricchiolante cracacac di un cielo che va in pezzi.
E tuttavia il caldo avvolge la pianura come una coperta. L’aria è spessa. Ancora un
minuto e pioverà a catinelle.

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“Trovare un posto dove non facciano caso a me,” borbotta. “Non dare nell’occhio. E’
l’unico modo. Perché dovrebbe importarmi? Non è un mio problema.”
Con il respiro affannato per il caldo, continua ad arrancare lento.

Lord Magazzinai è furioso. Quelli che lo conoscono potrebbero ben affermarlo, per-
ché parla lentamente e sorride continuamente.
“E come fanno gli uomini a sapere che i dragoni lampeggianti sono arrabbiati?” chie-
de. “Potrebbero semplicemente essere eccitati.”
“Non con un cielo di questo colore,” risponde Lord Sonanti. “Non è un colore di
buon auspicio per un cielo. Sembra come livido. Un cielo così è funesto.”
“E cosa, di grazia, pensate presagisca?”
“E’ solo funesto in termini generali.”
“Lo so cosa c’è dietro,” ringhia Lord Magazzinai. “Avete troppa paura di combattere
sette vecchietti, non è così?”
“Gli uomini dicono che sono i leggendari Sette Indistruttibili Saggi,” replica Lord
Zanna. Abbozza un sorriso. “Sapete quanto sono superstiziosi…”
“Quali Sette Saggi?” domanda Lord Magazzinai. “Ho un’estrema familiarità con la
storia e non ci sono Sette Indistruttibili Saggi.”
“Ehm… non ancora,” risponde Lord Zanna. “Uhm. Però… in un giorno così… Le
leggende devono pur cominciare da qualche parte…”
“Sono barbari! Oh, dèi! Sette uomini! Devo credere che abbiamo paura di sette uo-
mini?”
“Sa di sbagliato,” risponde Lord McCrampi. Ed aggiunge in fretta, “Così dicono gli
uomini.”
“Gli avete letto il proclama sul nostro celestiale esercito di fantasmi? Tutti quanti?”
I signori della guerra tentano di evitarne lo sguardo.
“Ehm… si,” risponde Lord Zanna.
“Deve averne risollevato gli animi.”
“Uhm. Non… completamente…”
“Che intendete?”

262
“Uhm. Molti uomini hanno disertato. Uhm. Per loro già i fantasmi stranieri erano una
rogna sufficiente, ma…”
“Ma cosa?”
“Sono soldati, Lord Magazzinai,” risponde aspro Lord Sonanti. “Ognuno di loro ha
qualcuno che non vuole incontrare. Voi no?”
Per un attimo appena, sulla guancia di Lord Magazzinai compare un principio di spa-
smo. Per un attimo soltanto, ma chi se n’è accorto non ha potuto non prenderne nota.
Il rinomato sguardo di Lord Magazzinai mostra un cedimento.
“Voi cosa fareste, Lord Sonanti? Lascereste che questi barbari insolenti se la
cavino?”
“Naturalmente no. Però… non vi serve un esercito per combattere sette uomini. Sette
uomini anziani. I plebei dicono… dicono…”
Il tono della voce di Lord Magazzinai è lievemente alterato.
“Avanti, uomo che parla con i plebei. Non state forse per svelarci cosa dicono di que-
sti assurdi ed insensati vecchietti?”
“Ebbene, proprio così, si. Dicono che se davvero sono così assurdi ed insensati…
come sono riusciti a sopravvivere tanto a lungo?”
“Fortuna!”
E’ la risposta sbagliata. Persino Lord Magazzinai se ne rende conto. Non ha mai cre-
duto nella fortuna. Ha sempre usato la sofferenza, in genere delle altre persone, per
colmare la vita di certezze. Però sa che gli altri credono nella fortuna. E’ una fissazio-
ne della quale è sempre stato contento di potersi servire. E adesso gli si sta rivoltando
contro pungendogli la mano.
“Non c’è niente nell’Arte della Guerra che spieghi come cinque eserciti debbano at-
taccare sette uomini anziani,” dichiara Lord Sonanti. “Fantasmi o non fantasmi. E
questo, Lord Magazzinai, perché nessuno ha mai pensato che qualcuno avrebbe fatto
una cosa simile.”
“Se siete tanto spaventato li caricherò a cavallo con solamente i miei 250.000 uomi-
ni,” commenta.
“Non sono spaventato,” replica Lord Sonanti. “Mi vergogno di me stesso.”

263
“Ogni uomo è armato di due spade,” prosegue Lord Magazzinai ignorandolo. “E vo-
glio vedere fino a che punto sono fortunati questi… saggi. Perché, miei signori, a me
basta essere fortunato una sola volta. Loro dovranno essere fortunati un quarto di mi-
lione di volte.”
Abbassa la visiera.
“Quanto vi sentite fortunati, miei signori?”
Gli altri quattro signori della guerra evitano di guardarsi a vicenda.
Lord Magazzinai prende nota del loro silenzio rassegnato.
“Molto bene, allora,” dice. “Fate suonare i gong ed accendete i petardi – per assicu-
rarsi la buona fortuna, ovviamente.”

Gli eserciti dell’Impero sono composti da molte file di soldati, parecchi dei quali
sono irriducibili. Tre Maiali Rosa e Cinque Zanne Bianche sono, parlando per ap-
prossimazione, soldati semplici, e non solamente perché sono pallidi, vulnerabili ed
inclini a raggomitolarsi e nascondersi quando il pericolo incombe.
In effetti, sono così semplici da essere chiaramente di riserva. Perfino i muli
dell’esercito hanno un grado superiore al loro, perché dei buoni muli sono difficili da
trovare, mentre uomini come Tre Maiali Rosa e Cinque Zanne Bianche si trovano in
qualunque esercito, là dove c’è bisogno che qualcuno pulisca la latrina. Sono talmen-
te insignificanti che hanno deciso, in separata sede, che per i fantasmi succhia sangue
stranieri sarebbe un inutile spreco di tempo prezioso attaccarli.
Sentono che è giusto, dopo che hanno fatto tanta strada, concedergli la possibilità di
uccidere malvagiamente qualcuno di più alto in grado.
Perciò, per ospitalità, hanno levato le tende appena prima dell’alba e adesso si stanno
nascondendo. Ovviamente, in caso di vittoria incombente, possono sempre rimontare
le tende. E’ improbabile che qualcuno ne noti la mancanza in mezzo a tutta l’agita-
zione, ma entrambi in qualche modo sono diventati esperti nel ricomparire sul campo
di battaglia in tempo per unirsi ai festeggiamenti per la vittoria.
Sono sdraiati nell’erba alta, ad osservare le manovre degli eserciti.
Da quest’altezza, ha l’aria di una guerra imponente. L’esercito, da un lato, è così pic-

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colo da essere invisibile. Naturalmente, ad accettare le davvero ferme smentite della
notte passata, è talmente invisibile da risultare invisibile.
E’ anche grazie alla loro posizione elevata che sono i primi a notare il cerchio attorno
al cielo. Appena sopra la rombante parete all’orizzonte. Dove i raggi del sole lo inter-
secano, s’illumina d’oro. Altrove è semplicemente giallo. Ma è costante, e spesso
come una minaccia.
“Che buffa nuvola,” dice Zanne Bianche.
“Già,” riconosce Maiali Rosa. “E allora?”
Proprio mentre si tengono occupati così e si spartiscono una piccola bottiglia di saké
che Maiali Rosa ha prelevato da un ignaro camerata la sera prima, sentono un lamen-
to.
“Oooooohhhhhh…”
Il sorso gli si ferma in gola.
“L’hai sentito?” chiede Maiali Rosa.
“Vuoi dire il -”
“Ooooohhhh…”
“Questo!”
Si voltano, molto lentamente.
Qualcosa è emerso da un canale alle loro spalle. E’ umanoide, più o meno. Gli cola
del fango rosso di dosso. Dalla bocca emette degli strani suoni.
“Oooooohhhhcavoli!”
Maiali Rosa afferra il braccio di Zanne Bianche.
“E’ un invisibile fantasma succhia sangue!”
“Ma io lo vedo!”
Maiali Rosa strabuzza gli occhi.
“E’ l’Esercito Rosso! Stanno uscendo dalla terra come raccontano tutti!”
Zanne Bianche, che ha molte più cellule celebrali di Maiali Rosa e, più importante, è
solamente alla seconda coppa di saké, osserva da più vicino.
“Potrebbe trattarsi soltanto di un uomo qualunque ricoperto di fango,” suggerisce.
Alza la voce. “Ehi, tu!”

265
La figura si volta e tenta di scappare.
Maiali Rosa dà un colpetto di gomito all’amico.
“E’ uno dei nostri?”
“Conciato così?”
“Prendiamolo!”
“Perché?”
“Perché sta scappando!”
“Lascialo scappare.”
“Forse ha del denaro. Comunque, perché sta scappando?”
Scuotivento scivola in un altro canale. Di tutte le fortune! I soldati dovrebbero stare
dove ci si aspetta che stiano. Che ne è stato del dovere e dell’onore e di quell’altra
roba del genere?
Il fondo del canale è ricoperto di erba secca e muschio.
Rimane immobile ad ascoltare le voci dei due uomini.
Si soffoca. E’ come se la tempesta in arrivo stesse spingendo tutta l’aria calda che ha
di fronte, trasformando la pianura in una pentola a pressione.
E poi il terreno scricchiola e d’improvviso cede.
I visi assenti dei soldati fanno la loro comparsa sopra il bordo del canale.
Un altro scricchiolio ed il terreno affonda di altri cinque o dieci centimetri.
Scuotivento non osa ispirare, nel caso che il peso aggiuntivo dell’aria lo renda troppo
pesante. Ed è chiaro che l’ultima iniziativa presa, cioè saltare, ha solo peggiorato le
cose…
Facendo molta attenzione, abbassa lo sguardo.
Il muschio secco è crollato. Pare poggiasse su una trave di legno sepolta nel terreno,
ma lo sporco che cade oltre quella suggerisce che sotto ci sia un buco. Da un momen-
to all’altro cederà e -
Scuotivento si lancia in avanti. Il terreno precipita in basso sicché, invece che sopra
un pezzo di trave che si sgretola lentamente, si ritrova penzolante con le braccia at-
taccate a quello che al tatto pare un altro tronco nascosto che, a giudicare dalla sen-
sazione che dà, è devastato dal marciume quanto il precedente.

266
Anche questo, probabilmente per un desiderio di adeguatezza, inizia a cedere.
E poi si ferma con un sobbalzo.
Le facce dei soldati svaniscono sullo sfondo quando le pareti del canale iniziano a
scivolare. Terra arida e piccoli sassi cadono passando sopra a Scuotivento. Riesce a
percepirli che sbatacchiano sugli stivali per poi precipitare a picco.
Sente, in quanto esperto in materia, di trovarsi sospeso sopra un qualcosa di profon-
do. Dal suo punto di vista, anche qualcosa di alto.
Il tronco ricomincia a spostarsi.
Il che lascia a Scuotivento, per come la vede, due sole alternative. Potrebbe mollare
la presa e tuffarsi verso un incerto destinto avvolto dall’oscurità, o potrebbe restare
aggrappato finché il legno non si spezza, e quindi tuffarsi verso un incerto destinto
avvolto dall’oscurità.
E poi, con suo grande piacere, si presenta una terza alternativa. La punta dello stivale
tocca qualcosa, una radice, o una roccia sporgente. Non importa. Sopporta un po’ del
suo peso. Quantomeno sopporta abbastanza da consentirgli un equilibrio precario –
non esattamente la salvezza, non esattamente la caduta. Naturalmente, si tratta sola-
mente di una misura temporanea, ma Scuotivento è da sempre persuaso che la vita
non è altro che una serie di musure temporanee collegate tra di loro.
Una farfalla di un giallo pallido con dei motivi interessanti sulle ali svolazza lungo il
canale e si posa sull’unico frammento di colore disponibile, che si rivela essere il ca-
pello di Scuotivento.
Il legno cede lievemente.
“Smamma!” esclama Scuotivento, tentando di evitare un linguaggio pesante. “Vatte-
ne.”
La farfalla chiude le ali e si scalda al sole. Scuotivento contrae le labbra e tenta di
farsi esplodere le narici.
Sbigottita, la creatura svolazza in aria e…
“Ah!” esclama Scuotivento.
… reagendo d’istinto di fronte alla minaccia, muove le ali così e poi così.
I cespugli fremono. Ed attorno al cielo le nuvole torreggianti curvano in delle forme

267
inconsuete.
Si forma un’altra nuvola. All’incirca delle proprorzioni di un furioso palloncino gri-
gio.
E comincia a piovere. Non pioggia in generale, ma pioggia nello specifico. Specifica-
mente su all’incirca trenta centimetri di terreno contenenti Scuotivento; specifica-
mente, sul suo cappello.
Un minuscolo dardo lampeggiante punge Scuotivento sul naso.
“Ah! Così abbiamo” - Maiali Rosa, che compare oltre la curva del canale, esita un
po’ prima di continuare con un pizzico in più di moderazione - “una testa in un
buco… sotto un temporale davvero piccolo.”
E poi gli sovviene che, tempesta o non tempesta, niente gli impedirà di tagliare qual-
che parte fondamentale. L’unica parte fondamentale disponibile è una testa, ma per
lui può andare bene lo stesso.
Al che, avendo il cappello di Scuotivento assorbito umidità a sufficienza, l’antico
pezzo di legno crolla per il peso e lo tuffa verso un incerto destinto avvolto dall’oscu-
rità.
E’ completamente buio.
La dolorosa confusione di buchi e sporcizia scorrevole è passata.
Scuotivento presume – o la piccola parte di lui che non sta singhiozzando per la pau-
ra presume – che la terra gli sia stata cavata da sotto i piedi. Cavare. Una parola elo-
quente. Lui è in una caverna. Allunga la mano con cautela, per verificare se sente
qualcosa, e sente qualcosa di piacevole.
E’ un bordo rettilineo. Che conduce ad altri tre bordi rettilinei che si chiudono ad an-
golo retto. Sicché… è questo che significa tavolo.
L’oscurità resta un lenzuolo di velluto soffocante.
Tavolo significa che deve esserci un’altra entrata, una qualche entrata come si deve.
Perfino adesso le guardie lo stanno probabilmente rincorrendo.
Forse il Bagaglio sta rincorrendo loro. Si comporta in maniera davvero buffa ultima-
mente, questo è certo. Probabilmente sta meglio senza. Probabilmente.
Si tasta le tasche, recitando il mantra che addirittura i non maghi invocano per trova-

268
re i fiammiferi, cioè dice: “Fiammiferi, fiammiferi, fiammiferi,” bisbigliando freneti-
camente. Ne trova alcuni e ne sfrega disperatamente uno con il pollice.
“Ouch!”
La fiamma gialla fumante non illumina niente, apparte la mano di Scuotivento e par-
te della manica.
Azzarda qualche passo prima di bruciarsi le dita e quando si spegne lascia un’ultimo
bagliore bluastro nell’oscurità del suo campo visivo.
Non si sente il rumore di piedi vendicativi. Non si sente affatto rumore. In teoria do-
vrebbe sentirsi lo sgocciolio dell’acqua, ma l’aria sembra piuttosto secca.
Prova con un altro fiammifero e stavolta lo solleva quanto più riesce e scruta davanti
a sé.
Un guerriero alto due metri gli sorride.

Cohen guarda di nuovo in alto.


“Tra un minuto pioverà a dirotto,” commenta. “Avete visto che razza di cielo?”
Gli ammassi contengono tracce di viola e di rosso, oltre l’occasionale bagliore mo-
mentaneo dei lampi da qualche parte all’interno delle nuvole.
“Prof?”
“Si?”
“Tu sai tutto. Perché quella nuvola è fatta così?”
Il Signor Cervellata guarda dove sta puntando Cohen. C’è una nuvola giallastra bassa
sull’orizzonte. Proprio attorno all’orizzonte – un’unica linea sottile, come se il sole
stesse cercando di trovare un modo per attraversarla.
“Potrebbe essere l’allineamento?” chiede Giovane Willie.
“Che allineamento?”
“Si suppone che ogni nuvola ne abbia uno d’argento.”
“Già, ma questo è più di colore oro.”
“Beh, l’oro vale meno da queste parti.”
“Sono io,” interviene il Signor Cervellata, “o sta diventando più grande?”
Caleb fissa le linee nemiche.

269
“Ci stanno un sacco di tizi al galoppo sui loro piccoli cavalli,” dice. “Spero si diano
una mossa. Mica vogliamo stare qui tutto il giorno.”
“Io voto per attaccarli quando non se l’aspettano,” esordisce Hamish.
“Calma… calma…” replica Rotella. Si sente il suono di molti gong ed il crepitio dei
petardi. “Pare che i bast- che i figli dell’amore si stanno muovendo.”
“Siano lodati gli dèi,” commenta Cohen. Si alza in piedi e spegne la sigaretta.
Il Signor Cervellata freme di eccitazione.
“Cantiamo una canzone per gli dèi prima di andare in battaglia?” chiede.
“Fallo tu se ne hai voglia,” risponde Cohen.
“Allora recitiamo un qualche canto o preghiera barbara?”
“Non direi,” replica Cohen. Solleva gli occhi sulla fascia che cinge l’orizzonte. E’ più
grande, adesso, ma meno palida. Per un momento si ritrova a desiderare che ci sia un
dio o una dea, da qualche parte, di cui non abbia profanato, depredato o bruciato il
tempio.
“Percuotiamo gli scudi con le spade e lanciamo la sfida?” domanda speranzoso
l’insegnante.
“Un po’ tardi, garantito” risponde Cohen.
Il Signor Cervellata ha un’espressione talmente abbattuta per quella carenza di splen-
dore pagano che l’antico barbaro, con sua stessa sorpresa, si sente di aggiungere:
“Ma sentiti libero di farlo, se è questo che vuoi.”
L’Orda sfodera le sue differenti spade. Nel caso di Hamish, da sotto la coperta viene
fuori un’altra ascia.
“Ci vediamo in Paradiso!” esclama il Signor Cervellata tutto eccitato.
“Si, già,” replica Caleb, intanto che adocchia la fila di soldati che si sta avvicinando.
“Dove ci sono banchetti e giovani donne e così via!”
“Si, si,” risponde Giovane Willie, saggiando la lama della spada.
“E si gozzoviglia e si tracanna, credo!”
“Potrebbe essere,” commenta Vincent, cercando di alleviare la tendinite al braccio.
“E faremo quella cosa, sapete, quando si lancia l’ascia e si tagliano le trecce delle si-
gnore!”

270
“Si, se ti va.”
“Ma -”
“Cusa?”
“I banchetti veri e propri… Sanno niente del cibo vegetariano?”
E l’esercito in avanzata urla e parte alla carica.
Si lanciano sull’Orda quasi alla stessa velocità con cui le nuvole arrivano ribollendo
da ogni direzione.

Il cervello di Scuotivento si sblocca lentamente all’interno dell’oscurità silenziosa


della collina.
E’ una statua, si dice. Tutto qui. Non c’è problema. Non è neppure particolarmente
bella. E’ solamente la grossa statua di un uomo con l’armatura.
Guarda, ce ne sono un altro paio, puoi intrevaderle proprio al limitare della luce…
“Ouch!”
Getta il fiammifero e si succhia le dita.
Quello che gli serve adesso è una parete. Le pareti hanno le uscite. Vero, possono an-
che fungere da entrata, ma al momento non sembra esserci alcun pericolo che le
guardie lo stiano rincorrendo qui. L’aria ha un odore antico, con una punta di volpe
ed una leggera traccia di temporale, ma sopra ogni cosa ha un sentore di disuso.
Procede lentamente, testando ogni passo con il piede.
Poi è luce. Un piccolo bagliore bluastro che salta giù dal dito di Scuotivento.

Cohen si sposta la barba. Tutta tesa sul viso verso l’esterno.


La frangia di capelli del Signor Cervellata si staglia dalla testa ed emette delle scosse
dalle estremità.
“Scariche elettrostatiche!” grida, al di sopra dello sfrigolio.
Davanti a loro le lance dei nemici scintillano sulla punta. La carica vacilla. Occasio-
nalmente qualcuno emette un gridolino quando le scintille rimbalzano da un uomo
all’altro.
Cohen solleva gli occhi.

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“Oh, mio,” commenta. “Dovete vederlo!”

Delle piccole scintille baluginano attorno a Scuotivento intanto che si lascia scivolare
delicatamente sul pavimento invisibile.
La parola tomba gli si è presentata per le dovute considerazioni, e se c’è una cosa che
Scuotivento sa delle grosse tombe è che i loro costruttori hanno sempre una vivace
inventiva in campo di trappole e spuntoni. Inoltre ci mettono pure delle pitture e delle
statue, presumibilmente per far si che la morte abbia qualcosa da guardare per il caso
diventino noiose.
Scuotivento si sposta cauto di lato con la mano che tocca la pietra.
Di quando in quando sfiora qualcosa di molle e soffice con il piede. Spera con tutto
sé stesso si tratti di fango.
E poi, proprio ad altezza di mano, trova una leva. Sporgente di buoni sessanta centi-
metri.
Vediamo… potrebbe essere una trappola. Ma le trappole di solito sono, beh, trappole.
La prima volta che le si riconosce è quando la propria testa rotola lungo il corridoio a
diversi metri di distanza. Ed i costruttori di trappole hanno la tendenza ad essere omi-
cidi in modo semplice e diretto e di rado richiedono alle proprie vittime di partecipa-
re attivamente alla propria distruzione.
Scuotivento la tira.

La nuvola gialla fluttua sopra le teste in tutti le sue milioni di componenti, che si
muovono assai più in fretta nel vento che esse stesse alimentano di quanto il lento
battito delle loro ali invece parrebbe suggerire. Alle loro spalle segue la tempesta.
Il Signor Cervellata batte le palpebre.
“Farfalle?”
Ambedue le parti avversarie si fermano quando le creature le superano come nevi-
schio. Si riesce addirittura a sentirne il fruscio delle ali.
“D’accordo, Prof,” dice Cohen. “Questo spiegamelo tu.”
“Po, po, potrebbe essere un fenomeno naturale,” replica il Signor Cervellata. “Ehm…

272
Le farfalle Monarca, ad esempio, sono famose perché… ehm… ad essere sinceri, non
lo so…”
La nuvola sciama in direzione della collina.
“Non è un qualche tipo di segno?” chiede Cohen. “Deve essrci qualche tempio che
non ho depredato.”
“Il guaio dei segni e dei portenti,” interviene giovane Willie, “è che non sai mai per
chi sono. Questo qui potrebbe essere buono per Lord Magazzinai e i suoi compari.”
“Allora glielo voglio fregare,” dichiara Cohen.
“Non puoi rubare un messaggio degli dèi!” esclama il Signor Cervellata.
“Ti pare sia inchiodato da qualche parte? No? Sicuro? Bene. Perciò è mio.”
Solleva la spada mentre le ritardatarie li superano svolazzando nell’aria.
“Gli dèi ci sorridono!” urla. “Hahaha!”
“Hahaha?” bisbiglia il Signor Cervellata.
“Solo per mettergli paura,” risponde Cohen.
Guarda gli altri membri dell’Orda. Ciascuno degli uomini annuisce, molto lentamen-
te.
“Sta bene, ragazzi,” dice tranquillamente. “Questo è tutto.”
“Ehm… Io che faccio?” chiede il Signor Cervellata.
“Pensa a qualcosa che ti fa arrabbiare di brutto. Che ti fa ribollire il caro vecchio san-
gue. Immagina che il nemico è tutto ciò che odi.”
“I presidi,” replica il Signor Cervellata. “Ottimo.”
“Gli insegnanti di ginnastica!” grida il Signor Cervellata.
“Si.”
“I ragazzini che masticano la gomma!” urla forte il Signor Cervellata.
“Guardatelo, le orecchie già gli fumano,” commenta Cohen. “Prima della prossima
vita, andiamoli a prendere. Carica!”

La nuvola gialla converge in massa sui pendii della collina e poi, muovendosi nel
vento crescente, s’innalza.
Anche la tempesta che ha sopra s’innalza, ammonticchiandosi ancora ed ancora e di-

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stribuendosi fino a dar forma a qualcosa di simile ad un martello -
Il quale si abbatte.
I lampi colpiscono la pagoda di ferro così forte da farla esplodere in frammenti al ca-
lor bianco.

E’ disorientante per un intero esercito essere attaccato da sette uomini anziani. Nes-
sun manuale di tattiche militari è in grado di offrire il giusto consiglio. La tendenza è
quella ad uno sconcerto generale.
I soldati arretrano di fronte all’attacco e poi, com’è d’uso comune nei grandi assem-
bramenti di uomini, si abbassano mettendosi al riparo.
Un cerchio compatto di scudi circonda l’Orda. Tentenna e barcolla nel pigia pigia de-
gli uomini, ed anche sotto i colpi che gli piovono addosso dalla spada del Signor Cer-
vellata.
“Forza, combattete!” grida. “Vorreste fumarmi addosso le vostre pipe? Tu! Quel ra-
gazzo laggiù! Rispondimi, eh! Prendete questo!”
Cohen guarda Caleb, il quale scrolla le spalle. Ne ha visti di pazzi furiosi brucianti di
rabbia nella vita, ma mai niente di tanto incandescente quanto il Signor Cervellata.
Il cerchio si spezza quando un paio di uomini tentano di schizzare nelle retrovie e ca-
rambolano violentemente sulla fila dietro la loro e poi rimbalzano sulle spade
dell’Orda. Una delle ruote di Hamish sferra un colpo brutale al ginocchio di uno dei
soldati e, quando si piega, una delle asce di Hamish gli va incontro dall’altro verso.
Non è per la velocità. L’Orda non può muoversi molto velocemente. Ma è per l’eco-
nomia di sforzi. Il Signor Cervellata ci ha riflettuto sopra. Semplicemente sono sem-
pre nel posto dove vogliono essere, che non è mai quello in cui si trova la spada di un
altro. Lasciano che siano tutti gli altri a correre su e giù. Un soldato non rischierebbe
mai di sferrare un colpo in direzione di Rotella per poi ritrovarsi Cohen che gli si
para davanti, con un sorriso maligno ed un fendente di spada, o il Giovane Willie che
gli riserva un cenno di saluto ed una coltellata. Occasionalmente qualcuno dell’Orda
si prende del tempo per parare un colpo destinato al Signor Cervellata, che è fin trop-
po eccitato per pensare a difendersi.

274
“Ritiratevi, maledetti idioti!”
Dietro la schiera compare Lord Magazzinai, con il cavallo impennato e la visiera
dell’elmo alzata.
I soldati tentano di obbedire. Finalmente, la pressione diminuisce un poco e poi sva-
nisce. L’Orda si ritrova in un cerchio più largo di scudi. Si sente qualcosa di simile
ad un silenzio, spezzato solamente dai tuoni incessanti e dallo scoppio dei lampi sulla
collina.
E poi, aprendosi rabbiosamente un varco tra i soldati, arriva una razza di guerrieri
completamente differente. Sono più alti, più pesantemente corazzati, con degli splen-
didi elmetti e dei baffi che di per sé stessi sembrano una dichiarazione di guerra.
Uno di loro guarda Cohen in tralice.
“Orrrrr! Itiyorshu! Yutimishu!”
“Cos’è quello?” chiede Cohen.
“E’ un samurai,” risponde il Signor Cervellata, tamponandosi la fronte. “La casta di
guerrieri più prestigiosa. Penso che abbia lanciato ufficialmente la sfida. Ehm. Vuoi
che li combatta io?”
Uno dei samurai fulmina Cohen con lo sguardo. Estrae un pezzo di seta dall’interno
dell’armatura e lo lancia in aria. Con l’altra mano afferra l’elsa della sua spada lunga
e sottile…
A malapena si sente anche solo un sibilo, ma tre pezzi di seta cadono dolcemente in
terra.
“Stai indietro, Prof,” dice Cohen lentamente. “Penso proprio che lui spetta a me. Hai
un altro fazzoletto? Grazie.”
Il samurai guarda la spada di Cohen. E’ lunga, pesante ed ha tante di quelle intaccatu-
re che la si potrebbe usare come sega.
“Non ce la farete mai,” dice. “Con quella spada? Mai.”
Cohen si soffia rumorosamente il naso.
“Dici?” replica. “Guarda questo.”
Il fazzoletto vola in aria. Cohen impugna la spada…
Decapita tre samurai intenti a guardare in su prim’ancora che il fazzoletto cominci a

275
cadere. Gli altri memnri dell’Orda, i quali hanno la tendenza a ragionare allo stesso
modo del loro capo, hanno fatto altrettanto con un’altra mezza dozzina.
“Caleb mi ha dato l’idea,” commenta Cohen. “E il messaggio è: o combatti o fai lo
scemo, a te la scelta.”
“Non hai alcun senso dell’onore?” grida Lord Magazzinai. “Sei un semplice farabut-
to?”
“Sono un barbaro,” urla Cohen. “E il senso dell’onore che ho, vedi, è il mio persona-
le. Mica lo vado a rubare ad un altro”
“Volevo prendervi vivi,” risponde Lord Magazzinai. “In ogni caso, non c’è ragione
per non cambiare politica.”
Sguaina la spada.
“Indietro, feccia!” grida. “State indietro! Fate entrare i bombardieri!” Volge nuova-
mente lo sguardo verso Cohen. Ha il viso paonazzo. E gli occhiali di sbieco.
Lord Magazzinai ha perso le staffe. E, come sempre accade, quando una diga crolla,
sommerge interi paesi.
I soldati retrocedono.
L’Ordia si ritrova nuovamente in un cerchio più largo.
“Cos’è un bombardiere?” chiede Giovane Willie.
“Ehm, credo siano delle persone che sparano proiettili di un qualche genere,” rispon-
de il Signor Cervellata. “Il termine deriva da -”
“Oh, degli arcieri,” lo interrompe Giovane Willie, e poi sputa.
“Cusa?”
“Dice che SCHIERANO GLI ARCIERI, Hamish!”
“Eheheh, gli arcieri non ci hanno fermati nella Battaglia di Koom Valley!” il decrepi-
to barbaro ridacchia.
Giovane Willie sospira.
“Quella era tra i nani ed i troll, Hamish,” lo corregge. “E tu non sei nessuno dei due.
Perciò da che parte stavi?”
“Cusa?”
“Ho detto DA CHE PARTE STAVI?”

276
“Dalla parte di chi mi pagava per combattere,” risponde Hamish.
“E’ sempre la parte migliore.”

Scuotivento si sdraia sul pavimento tappandosi le orecchie con le mani.


Il rimbombo del tuono riempie la camera sotterranea. La luce blu e viola brilla così
forte che riesce a vederla anche attraverso le palpebre degli occhi chiusi.
Finalmente la cacofonia si attenua. Si sentono ancora i rumori della tempesta fuori,
ma la luce è sfumata in un bagliore bianco azzurro, il cui suono si è trasformato in un
ronzio costante.
Scuotivento si arrischia a girarsi sulla schiena e ad aprire gli occhi. Sul soffitto ci
sono delle catene arruginite dalle quali pendono delle grosse sfere di vetro. Ognuna è
grande quanto un uomo e all’interno i lampi crepitano e sfrigolano, spingendo sul ve-
tro, nel tentativo di liberarsi.
Un tempo dovevano essere molte di più. Però dozzine di sfere si sono staccate nel
corso degli anni e sono finite in pezzi sul pavimento.
Ce ne sono ancora a decine appese in alto, a dondolare gentilmente sulle catene per
via dei temporali che imperversano in cerca di libertà.
L’aria ha un che di untuoso. Le scintille attraversano il pavimento strisciando e crepi-
tando in ogni angolo.
Scuotivento si alza in piedi. Ha la barba tutta riversa verso l’esterno come fosse una
massa di singoli peli.
Le sfere lampeggianti proiettano in basso la loro luce creando un lago tondeggiante
che, a giudicare dalle increspature, è di puro mercurio. Nel centro si trova una bassa
isola pentagonale. Mentre Scuotivento è intento ad osservare, una barca vira gentil-
mente per raggiungere la sponda dalla sua parte, producendo dei piccoli slupslup
nell’attraversamento del mercurio.
Non è tanto più grande di una barca a remi e, stesa sull’esiguo ponte di coperta, c’è
una figura con indosso un’armatura. O forse solamente un’armatura. Se fosse sola-
mente un’armatura vuota, allora sarebbe sdraiata con le braccia incrociate sul petto
nella posa che hanno le armature di chi è passato a miglior vita.

277
Scuotivento cammina furtivo attorno al lago finché non raggiunge una tavoletta di
ciò che sembra essere oro puro, posata sul pavimento di fronte ad una statua.
Sa che si trovano delle iscrizioni nelle tombe, tuttavia non ha mai ben capito chi ci si
aspetta che le legga. Gli dèi, presumibilmente, ma non dovrebbero già sapere tutto?
Non l’ha mai sfiorato il pensiero che potrebbero riunirsi in posti come questo a dire
cose tipo, “Però, “Amatissimo diletto”, era lui? Non lo sapevo.”
Questa qui riporta solamente: Unico Spettro Solare.
Nessun accenno alle sue grandiose conquiste. Né elenchi dei suoi strabilianti succes-
si. Nulla sulla sua saggezza o sull’essere padre del suo popolo. Nessuna spiegazione.
Chiunque conosca il suo nome, pare voler dire, sa già tutto. E non si fa concessione
alcuna all’eventualità che chiunque si sia spinto tanto lontano non abbia mai sentito il
nome di Unico Spettro Solare.
La statua sembra fatta di porcellana. Ed è dipinta in maniera molto realistica.
Unico Spettro Solare ha l’aria di un uomo come tanti. Non lo si noterebbe mai in
mezzo ad una folla come il vero Imperatore. Però quest’uomo, con il cappellino ton-
do e lo scudo rotondo e degli ometti tondetti su dei piccoli pony tondeggianti, ha in-
collato insieme migliaia di fazioni contrapposte in un unico grande Impero, sovente
usando il loro stesso sangue per riuscirci.
Scuotivento l’osserva più da vicino. Ovviamente non può che trattarsi di un’impres-
sione, ma nella disposizione della bocca e nella luce degli occhi c’è un’espressione
che l’ultima volta ha vista solo sul viso di Gengis Cohen.
E’ l’espressione di qualcuno cui assolutamente e completamente niente fa paura.
La barchetta punta verso la sponda opposta del lago.
Una delle sfere sfarfalla leggermente e poi si tinge di rosso. Scintilla. Seguita da
un’altra.
Deve trovare il modo di uscire.
Non è tutto, però. Ai piedi della statua, poggiati come fossero stati appena lasciati ca-
dere, ci sono un elmo, un paio di guanti di protezione, e due calzari dall’aria pesante.
Scuotivento solleva l’elmo. Non sembra tanto robuso, piuttosto sembra fin troppo
leggero. In genere non si preoccupa dell’abbigliamento protettivo, poiché la miglior

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difesa contro la minaccia di un pericolo consiste nel trovarsi in un altro continente,
tuttavia al momento l’idea di un’armatura ha il suo fascino.
Si toglie il cappello, indossa l’elmo, abbassa la visiera e poi incastra il cappello sopra
l’elmo.
Davanti agli occhi gli passa come un guizzo di luce e dopo Scuotivento si ritrova a
fissare la sua stessa nuca. L’immagine è a grana grossa ed è ombreggiata di verde
piuttosto che propriamente a colori, ma è decisamente la sua nuca quella che sta
guardando.
Solleva la visiera e sbatte le palpebre.
La pozza d’acqua è ancora lì davanti a lui.
Abbassa la visiera.
Ed eccolo lì, ad una quindicina di metri di distanza, con l’elmo sulla testa.
Sventola la mano su e giù.
La figura nella visiera sventola la mano su e giù.
Si volta per guardarsi in viso. Si. E’ proprio lui.
D’accordo, pensa. Un elmo magico. Che ti permette di vederti a distanza. Grande.
Puoi divertirti a guardarti cadere nelle buche che non riesci a vedere perché sono
troppo vicine.
Si volta di nuovo, solleva la visiera ed ispeziona i guanti.
Sembrano leggeri quanto l’elmo ma assai scomodi. Ci si può tenere una spada, ma
non molto di più.
Prova ad infilarsene uno. Immediatamente, accompagnata da un leggero sfrigolio,
sull’ampia polsiera s’illumina una fila di piccole figure. Le quali mostrano di essere
soldati. Soldati che scavano, soldati che combattono, soldati che si arrampicano…
Ah. Dunque… un’armatura magica. Un’armatura magica perfettamente normale.
Non ha mai preso piede ad Ankh-Morpork. Ovviamente è leggera. La si può rendere
sottile quanto un vestito. Ma tende a perdere potere senza avvisare. Molte volte le ul-
time parole di un lord decrepito sono state: “Non puoi uccidermi perché indosso una
magica aaargh.”
Scuotivento guarda i calzari, con il sospetto indotto dal ricordo dei guai che ha pro-

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vocato all’Università il prototipo degli stivali delle Sette Leghe. Le calzature che cer-
cano di farti compiere dei passi di trentaquattro chilometri ti costringono a spiacevoli
sforzi inguinali. Li hanno portati via agli studenti appena in tempo, ma deve ancora
indossare una protesi speciale per diversi mesi, ed odia alzarsi in piedi.
E sia, ma persino una vecchia armatura magica può tornare utile al momento. Non è
che pesi molto ed il fango di Hunghung non ha certo aiutato quel che rimane dei suoi
stivali. Li calza.
Pensa: Allora, cosa dovrebbe succedere adesso?
Si raddrizza.
Ed alle sue spalle, con il rumore di settemila vasi di fiori che vanno in pezzi all’uni-
sono ed i lampi che ancora sfavillano sopra le loro teste, l’Esercito Rosso si mette
sull’attenti.

Hex è cresciuto ancora durante la notte.


Adrian Semedirapa, che era di servizio per dare da mangiare al topo e rimettere
l’orologio e spazzare le formiche morte, giura di non aver fatto altro e che non è en-
trato nessuno.
Tuttavia, dove prima stava il grosso e pesante ammasso di tessere che permetteva di
leggere i risultati, adesso c’è una penna d’oca posta al centro di una rete di pulegge e
leve.
“Osservate,” dice Adrian, digitando nervosamente un problema molto semplice. “Se
n’è uscita con questo dopo tutti quegli incantesimi all’ora di cena…”
Le formiche corrono veloci. Le lancette dell’orologio vorticano. Le molle e le leve
scattano tanto bruscamente che Ponder fa un passo indietro.
La penna d’oca dondola sopra un calamaio, s’intinge, ritorna al foglio di carta che
Adrian ha sistemato sotto le leve ed inizia a scrivere.
“Sbava un po’,” commenta, con tono disperato. “Che sta succedendo?”
Ponder è da un po’ che ci pensa. L’ultima conclusione che ha raggiunta non è confor-
tante.
“Ebbene… noi sappiamo che i libri che contengono magia diventano un po’… sa-

280
pienti…” comincia. “E noi abbiamo costruito una macchina per…”
“Intendi dire che è viva?”
“Andiamo, non diventiamo tutti occulti per questo,” risponde Ponder, tentando di ri-
sultare gioviale. Siamo maghi, dopo tutto.”
“Ascolta, sai quel lungo problema sui campi thaumici che volevi gli sottoponessi?”
“Si. Ebbene?”
“Mi ha dato la risposta a mezzanotte,” lo informa Adrian, con il viso pallido.
“Ottimo.”
“Si, ottimo, tranne che di fatto non gli ho sottoposto il problema prima dell’una e
mezza, Ponder.”
“Mi stai dicendo che hai avuto la risposta prim’ancora di formulare la domanda?”
“Si!”
“Allora perché hai fatto la domanda?”
“Ho riflettuto ed ho concluso che forse dovevo. Cioè, non avrebbe potuto sapere
qual’era la risposta da dare se non le sottoponevo prima il problema, giusto?”
“Giusta osservazione. Ehm. Tuttavia hai dovuto aspettare per novanta minuti.”
Adrian si guarda gli stivali a punta.
“Io… mi stavo nascondendo nella latrina. Beh, Resettare Dal Principio avrebbe potu-
to -”
“Va bene, va bene. Vai e prenditi qualcosa da mangiare.”
“Ci stiamo immischiando in cose che non capiamo, Ponder?”
Ponder solleva gli occhi sul voluminoso apparato gnomico della macchina. Non ha
l’aria minacciosa, semplicemente… è altro.
Pensa: prima immischiarsi, poi capire. Prima bisogna immischiarsi un po’ per poi
avere qualcosa che si può tentare di capire. E la soluzione non è mai, proprio mai,
tornare sui propri passi per andare a nascondersi nel Gabinetto dell’Irrazionalità. Bi-
sogna provare a far girare la mente attorno all’Universo prima che possa impazzire.
Forse non avremmo dovuto darti un nome. Non ci abbiamo pensato. Ma avremmo
dovuto ricordarci che i nomi sono importanti. Una cosa con un nome è qualcosa di
più di una semplice cosa.

281
“Vai pure, Adrian,” risponde con fermezza.
Si siede e digita con estrema cautela:
Salve.
Le cose ronzano.
La penna d’oca scrive:
+ + + ?????? + + + Salve + + + Resettare Dal Principio + + +
Molto più in alto, una farfalla – con le ali di un giallo indefinibile, macchiate di nero
– svolazza dentro una finestra aperta.
Ponder comincia i calcoli per il trasporto da Hunghung ad Ankh-Morpork.
La farfalla si sofferma un momento sul labirinto di tubi di vetro. Quando si solleva di
nuovo, si lascia indietro una minuscola goccia di nettare.
Ponder, molto più giù, digita con attenzione.
Una piccola ma fondamentale formica, una delle tante migliaia che corrono avanti e
indietro, emerge da una fenditura del tubo e si concede qualche secondo per succhia-
re il liquido dolce prima di tornare al lavoro.
Poco dopo, Hex rilascia una risposta. Fatta eccezione per un piccolo ma decisivo
punto, è del tutto corretta.

Scuotivento si volta.
Accompagnato da un coro di scricchiolii e grugniti, anche l’Esercito Rosso si volta.
Ed è rosso. Ha lo stesso colore, nota Scuotivento, del suolo.
Si è imbattuto in alcune statue nell’oscurità. Non si era reso conto che fossero così
tante. Si mettono sull’attenti, fila dopo fila, fino al limitare più lontano delle ombre.
Tanto per provare, gira su sé stesso. Alle sue spalle insorge un altro coro di piedi che
si muovono pesanti.
Dopo qualche falsa partenza scopre che l’unica maniera di non averli di fronte è
quella di levarsi i calzari, voltarsi, e rimettersi i calzari.
Abbassa la visiera un istante e per un istante si vede abbassarsi la visiera.
Allunga un braccio. Loro allungano un braccio. Salta su e già. Loro saltano su e giù,
con un fracasso che fa dondolare le sfere. I lampi crepitano dai calzari.

282
D’improvviso avverte l’isterica ed urgente necessità di mettersi a ridere.
Si tocca il naso. Loro si toccano il naso. Con sinistra allegria, imita il gesto tradizio-
nale con cui si congedano i demoni. Settemila dita medie di terracotta si stagliano in
su.
Tenta di calmarsi.
La parola per cui la sua mente stava brancolando finalmente sale in superficie, ed è
golem.
Ce ne sono uno o due perfino ad Ankh-Morpork. Non si può fare a meno di incon-
trarne in qualunque posto ci siano maghi o sacerdoti con una mente portata per la
sperimentazione. In genere sono semplici figure umanoidi fatte di argilla ed animate
da qualche appropriata formula magica o preghiera. Lavoricchiano svolgendo strane
mansioni elementari, ma non sono molto di moda attualmente. Il problema non è in-
durli a lavorare ma farli smettere di lavorare: se si mette un golem a scavare in giar-
dino e ci si dimentica, al ritorno si scopre che ha piantato un filare di fagioli lungo
2500 metri.
Scuotivento abbassa gli occhi su uno dei guanti.
Con estrema cautela tocca la piccola immagine di un soldato nell’atto di combattere.
Il suono di settemila spade che vengono sfoderate simultaneamente è pari a quello di
una lastra di metallo che viene dilaniata. Settemila punte di lama sono puntate su
Scuotivento.
Indietreggia. Altrettanto fa l’esercito.
Si trova in un posto con migliaia di soldati artificiali armati di spada.
La circostanza che sembri averne il controllo non gli è di grande conforto. In teoria
ha avuto il controllo di Scuotivento per tutta la vita, e guarda com’è andata a finire.
Osserva di nuovo le piccole immagini. Una di loro mostra un soldato a due teste.
Quando la tocca, l’esercito fa rapidamente dietro front.
Ah.
Dunque, per uscire da qui…

L’Orda osserva il trambusto che c’è tra gli uomini di Lord Magazzinai. Degli oggetti

283
vengono trascinati in prima linea.
“A me non sembrano arcieri,” dice Giovane Willie.
“Quelli sono Cani Abbaianti,” spiega Cohen. “Dovevo prevederlo. Li ho già visti.
Sono come barili pieni di fuochi d’artificio e quando i fuochi d’artificio si accendono
dall’altro lato lanciano delle grosse pietre.”
“Perché?”
“Beh, tu resteresti in zona se qualcuno accendesse un fuoco d’artificio vicino alle tue
chiappe?”
“Qui, Prof, lui dice che “chiappe”, reclama Rotella. “Vedi, sul mio pezzo di carta qui
dice che non si dice -”
“Abbiamo gli scudi, no?” chiede il Signor Cervellata. “Sono certo che se li teniamo
ben stretti ed uniti sopra le nostre teste staremo benone.”
“Le pietre sono di circa trenta centimetri e vanno molto veloci e sono incandescenti.”
“Niente scudi, quindi?”
“No,” risponde Cohen. “Rotella, tu spingi Hamish -”
“Non andremo più in là di cinquanta metri, Gengis,” replica Caleb.
“Meglio cinquanta metri subito che sotto due metri di terra dopo, o no?” ribatte Co-
hen.
“Bravo!” esclama il Signor Cervellata.
“Cusa?”
Lord Magazzinai li osserva. Guarda l’Orda sollevare gli scudi attorno alla sedia a ro-
telle così da creare una rudimentale barriera protettiva e vede le ruote che comincia-
no a girare.
Solleva la spada.
“Fuoco!”
“Stiamo ancora pigiando le cariche, mio signore!”
“Ho detto fuoco!”
“Dobbiamo caricare i Cani, mio signore!”
I bombardieri lavorano alacremente, spronati dal terrore non tanto di Lord Magazzi-
nai, bensì dell’Orda impetuosa.

284
I capelli del Signor Cervellata ondeggiano al vento. Saltella nell’aria polverosa agi-
tando la spada ed urlando.
Non è mai stato tanto felice in tutta la vita.
Sicché è questo il segreto al cuore di tutto: guardare la morte diritta in faccia e cari-
care… rende tutto incredibilmente semplice.
Lord Magazzinai scaglia a terra l’elmo. “Fuoco, misercabili bifolchi! Voi feccia della
società! Perché devo ripeterlo! Dammi quella torcia!”
Spinge un bombardiere di lato, si accovaccia accanto ad un Cane, lo punta in alto
così che miri su Cohen che si avvicina dalla direzione opposta, alza la torcia -”
La terra si solleva. Il Cane s’impenna e rotola su un fianco.
Una testa rossa e rotonda, accennando un sorriso, emerge dal terreno.
Si sente urlare tra le truppe quando i soldati, vedendo il fango secco muoversi sotto i
loro piedi, cercano di scappare sulla superficie di quel terreno mobile per poi svanire
nella crescente nuvola di polvere.
Il terreno crolla.
Poi rimonta quando i disgraziati soldati si arrampicano l’uno sull’altro per scappare
perché, nel bel mezzo di quel trambusto, il suolo s’innalza lentamente assumendo
sembianze umane.
L’Orda si arresta sbandando.
“Che cosa sono? Troll?” domanda Cohen. Al momento sono dieci le sagome visibili,
intente a scavare industriosamente l’aria.
Poi si fermano. Una di loro volta la testa che sorride gentilmente di qua e di là.
Un sergente deve aver gridato ad un gruppo di arcieri di prendere posizione, perché
alcune frecce si fracassano sulle armature di terracotta, senza sortire effetto alcuno.
Alle spalle dei precedenti escavatori continuano ad arrampicarsi altri guerrieri rossi.
Cozzano tra di loro con un rumore come di stoviglie. Poi, come fossero un sol uomo
- o troll, o demone – sguainano le spade, si voltano e partono all’attacco dell’esercito
di Lord Magazzinai.
Alcuni soldati cercano di opporgli resistenza, ma solo perché la ressa alle loro spalle
è troppa per riuscire a scappare. Muoiono.

285
Non è che i soldati rossi siano bravi a combattere. Sono decisamente meccanici,
ognuno esegue all’unisono con gli altri un’identica stoccata, parata, affondo, senza
badare a quel che fa l’avversario. Ma sono semplicemente inarrestabili. Se il loro av-
versario schiva uno dei colpi ma non si sposta, allora gli passano sopra – e, per quel
che si vede, i guerrieri sono estremamente pesanti.
Ed il modo in cui quei cosi continuano a sorridere per tutto il tempo non fa che ag-
giungere terrore al terrore.
“Beh, però, che spettacolo,” commenta Cohen, tastandosi alla ricerca della sacchetta
del tabacco.
“Non ho mai visto dei troll combattere così,” aggiunge Rotella. Fila dopo fila escono
dal buco infilzando l’aria allegramente.
La prima fila si muove in una nuvola di polvere e grida. E’ dura per un grosso eserci-
to fare una qualunque cosa velocemente, e le varie divisioni tentano di spingersi
avanti per capire cos’è che ostacola le fughe individuali alla ricerca di un buco dentro
il quale nascondersi per dismettere permanentemente la divisa.
I gong vengono percossi e gli uomini tentano di urlare degli ordini, ma nessuno sa
cosa vogliano dire i gong né in che modo eseguire gli ordini, perché non sembra es-
serci abbastanza tempo.
Cohen finisce di arrotolarsi la sigaretta e si sfrega un fiammifero sul mento.
“Bene,” dice a nessuno in particolare. “Andiamo a prendere quel maledetto Magazzi-
nai.”
Le nuvole sopra le teste sono meno minacciose adesso. I lampi sono diminuiti. Però
ce ne sono ancora parecchie, di un nero verdastro, cariche di pioggia.
“Ma è incredibile!” esclama il Signor Cervellata.
Alcune gocce cadono in terra, fomando dei larghi crateri.
“Già, davvero,” risponde Cohen.
“In assoluto il più strano dei fenomeni! I guerrieri che insorgono dalla terra!”
I crateri si congiungono. Si ha come la sensazione che anche le gocce si stiano con-
giungendo. Inizia a piovere a dirotto.
“Non so,” replica Cohen, osservando un plotone ridotto a brandelli che li supera fug-

286
gendo. “E’ la prima volta che vengo qui. Magari capita spesso.”
“Intendo dire che è proprio come nel mito di quell’uomo che ha seminato denti di
drago e sono spuntati dei terribili scheletri guerrieri!”
“Non ci credo,” commenta Caleb, mentre corrono piano dietro Cohen.
“Perché no?”
“A seminare denti di drago dovrebbero spuntare dei draghi. No scheletri guerrieri.
Che c’era scritto sulla scatola?”
“Non lo so! I miti non menzionano mai il fatto di arrivare in una scatola!”
“Doveva esserci “Crescono Draghi” sulla scatola.”
“Non si può credere ai miti,” dice Cohen. “Io dovrei saperlo. Bene… eccolo là…”
aggiunge, indicando un cavaliere distante.
L’intera pianura è in subbuglio. I guerrieri rossi sono solo all’inizio. L’alleanza tra i
cinque signori della guerra era già fragile come il vetro e tutto quell’agitarsi in preda
al panico viene istantaneamente interpretato come un attacco a tradimento. Nessuno
presta attenzione all’Orda. Non recano alcuno stendardo colorato né gong. Non sono
nemici nel senso tradizionale del termine. E, inoltre, adesso il terenno è fangoso, ed il
fango è scivoloso, e dalla vita in giù sono tutti dello stesso colore e va peggiorando.
“Cosa stiamo facendo, Gengis?” chiede il Signor Cervellata.
“Stiamo tornando a palazzo.”
“Perché?”
“Perché è lì che è andato Magazzinai.”
“Ma è in corso questo stupefacente -”
“Senti, Prof, ho visto alberi che camminano e ragni dio e grandi cose verdi con le
zanne,” lo interrompe Cohen. “Non è bene andarsene in giro a dire “stupefacente”
tutto il tempo, non è così, Rotella?”
“Esatto. Sapevate che quando ho rincorso la Capra Vampiro dalle Cinque Teste, giù a
Skund, dicevano che non avrei dovuto per via che era una specie a rischio? C’ho det-
to, si, vale anche per me. Mi hanno forse ringraziato?”
“Uh,” risponde Caleb. “Avrebbero dovuto ringraziarti per via di tutte quelle specie a
rischio di cui preoccuparsi. Voltati e vattene subito a casa, soldatino!”

287
Un gruppo di soldati, che sta lottando per sottrarsi ai guerrieri rossi, scivola nel fan-
go, guarda terrorizzata l’Orda e fugge in un’altra direzione.
Rotella si ferma per prendere fiato, con la pioggia che gli cola a fiumi dalla barba.
“Non ci posso correre a così, però,” dice. “No se spingio la sedia a rotelle di Hamish
in mezzo a ‘sto fango. Facciamo una pausa.”
“Cusa?”
“Fare una pausa per prendere fiato?” chiede Cohen. “Per tutti gli dèi! Non avrei mai
pensato di vedere questo giorno! Un eroe che si riposa? Voltan l’Indistruttibile ha
mai fatto un riposino?”
“Lo sta facendo adesso. E’ morto, Gengis,” risponde Caleb.
Cohen vacilla.
“Cosa, il vecchio Voltan?”
“Non lo sapevi? E anche Jenkins l’Immortale.”
“Jenkins non è morto, l’ho visto giusto l’anno scorso.”
“Però adesso è morto. Gli eroi sono tutti morti, tranne noi. E non sono neppure del
tutto sicuro per quanto riguarda me.”
Cohen schizza in avanti ed afferra dritto Caleb per la camicia.
“Che mi dici di Hrun? Non può essere morto. Ha la metà dei nostri anni!”
“L’ultima volta che l’ho sentito si era trovato un lavoro. Sergente della Guardia da
qualche parte.”
“Sergente della Guardia?” chiede Cohen. “Come, per soldi?”
“Si.”
“Ma… come, tipo, pagato?”
“Mi ha detto che sarebbe potuto diventare Capitano l’anno prossimo. Ha detto… ha
detto che è un lavoro con una pensione.”
Cohen rilascia la presa.
“Non ce ne sono più molti come noi, Cohen,” dice Rotella.
Cohen gira in tondo.
“Essia, ma non ce ne sono mai stati molti come noi! Ed io non morirò! No se signifi-
ca lasciare il mondo nelle mani di bastardi come Magazzinai che non sa neppure

288
cos’è un capo. Feccia. E’ così che chiama i suoi soldati. Feccia. E’ come quel male-
detto gioco civile che ci hai fatto vedere, Prof!”
“Gli scacchi?”
“Esatto. I pedoni sono lì solamente per essere macellati dall’avversario! Mentre il re
se ne rimane al sicuro sul fondo.”
“Si, ma dall’altro lato ci sei tu, Cohen.”
“Esatto! Esatto… beh, si, è così se sono io il nemico. Ma io non spingo gli uomini
davanti a me per farli uccidere al mio posto. E non uso mai gli archi né quei cosi di
cane. Quando ammazzo qualcuno lo faccio da vicino e di persona. Eserciti? Tattiche
maledette? Esiste un solo modo di combattere, ed è caricare tutti insieme, brandendo
le spade ed urlando! Adesso in piedi e andiamolo a prendere!”
“E’ stata una mattina molto lunga, Gengis,” esordisce Giovane Willie.
“Non ci provare!”
“Ho bisogno della latrina. Colpa di tutta questa pioggia.”
“Prima prendiamo Magazzinai.”
“Se si è nascosto nella latrina a me sta bene.”
Raggiungono i cancelli della città. Sono chiusi. Centinaia di persone, tanto i cittadini
quanto le guardie, li osservano dalle mura.”
Cohen gli agita contro un dito.
“D’accordo, non lo ripeterò un’altra volta,” dice. “Sto entrando, va bene? Possiamo
risolverla con le buone, oppure possiamo risolverla con le cattive.”
Dei visi impassibili guardano giù in basso il vecchio scheletrico, poi su in alto la pia-
nura, dove gli eserciti dei signori della guerra combattono gli uni contro gli altri e
tutti, in preda al terrore, i guerrieri di terracotta. Giù. Su. Giù. Su.
“Essia,” procede Cohen. “Dopo non dite che non vi ci avevo avvertitici.”
Brandisce la spada e si prepara alla carica.
“Aspetta,” interviene il Signor Cervellata. “Ascolta…”
Da dieto le mura giungono delle grida e qualche ordine confuso e, poi, altre grida. E
dopo un paio di urli.
I cancelli si spalancano, tirati da dozzine di cittadini.

289
Cohen abbassa la spada.
“Ah,” commenta, “hanno ritrovato la ragione, vero?”
Con il respiro leggermente sibilante per l’affanno, l’Orda zoppicante attraversa i can-
celli. La folla li osserva in silenzio. Diverse guardie sono sdraiate in terra morte. As-
sai di più sono quelle che si sono tolte gli elmi ed hanno deciso di optare per un nuo-
vo e più brillante futuro da civili, in cui è meno probabile essere picchiati a morte da
una folla impazzita.
I visi di tutti guardano Cohen, voltandosi per seguirlo così come i fiori seguono il
sole.
Lui li ignora.
“Crowdie il Forzuto?” chiede a Caleb.
“Morto.”
“Non può essere. Era il ritratto della salute l’ultima volta che l’ho visto, circa un paio
di mesi fa. Si era imbarcato in una nuova impresa e tutto il resto.”
“Morto.”
“Cos’è capitato?”
“Sai del Terribile Ignavo Mangiauomini di Clup?”
“Quello che dicono stia a guardia del rubino gigante del dio serpente pazzo?”
“Proprio quello. Beh… era di guardia.”
La folla si apre per lasciar passare l’Orda. Una o due persone tentano un’acclamazio-
ne, ma vengono subito zittite. E’ un silenzio che il Signor Cervellata ha sentito sola-
mente nei più devoti dei templi.32
Tuttavia, un mormorio va diffondendosi in quel silenzio guardingo, come bolle in
una pentola d’acqua sopra un fuoco bollente.
E fa così.
L’Esercito Rosso. L’Esercito Rosso.
“Che mi dici di Organza Sgobbone? Andava ancora forte giù a Howondaland, l’ulti-
ma volta che l’ho sentito.”

32 L’unico suono che l’Orda ha mai sentito in un tempio è quello delle persone che gridano: “Infede-
le! Ha rubato l’Occhio di Gemma del – tua moglie è un grosso ippopotamo!”

290
“Morto. Avvelenamento da metallo.”
“Come?”
“Tre spade dentro lo stomaco.”
L’Esercito Rosso!
“Roncola Mungo?”
“Presunto morto a Skund.”
“Presunto?”
“Beh, hanno ritrovato solamente la sua testa.”
L’Esercito Rosso!
L’Orda si avvicina ai cancelli interni della Città Proibita. La folla li segue a distanza.
Anche questi cancelli sono chiusi. Piantonati da un paio di guardie tarchiate. Le quali
hanno l’espressione di uomini cui è stato ordinato di fare la guardia ai cancelli qua-
lunque cosa accada. L’esercito dipende dagli uomini a guardia di cancelli o ponti o
valichi qualunque cosa accada e dei quali si racconta sempre in poemi eroici in loro
onore, invariabilmente postumi.
“Gosbar lo Sveglio?”
“Morto nel sonno, ho sentito dire.”
“Non il vecchio Gosbar!”
“Abbiamo tutti bisogno di dormire ogni tanto.”
“Non è l’unica cosa che tutti devono fare, mister,” interviene Giovane Willie. “Ho
davvero bisogno di voi sapete cosa.”
“Beh, c’è la Muraglia.”
“Non davanti a tutti! Non è… civile.”
Cohen cammina spedito verso le guardie.
“Non sto qui per divertirmi, d’accordo? Preferireste morire piuttosto che tradire
l’Imperatore?”
Le guardie tengono lo sguardo diritto di fronte a loro.
“D’accordo, essia.” Cohen sguaina la spada. Un pensiero sembra coglierlo.
“Nurker?” chiede. “Grande Nurker? E’ tosto come un paio di vecchi stivali, lui.”
“Spina di pesce,” risponde Caleb.

291
“Nurker? Una volta ha ucciso sei troll con un -”
“Soffocato da una spina di pesce nella zuppa d’avena. Pensavo lo sapessi. Mi dispia-
ce.”
Cohen lo guarda fisso. Poi guarda la propria spada. E dopo le guardie.
Per un momento cala il silenzio, rotto solamente dal suono della pioggia.
“Sapete, compari,” dice, con un tono di voce improvvisamente così intriso di stan-
chezza che il Signor Cervellata sente scoperchiarsi una fossa, qui, nel momento del
trionfo, “Stavo per mozzarvi la testa. Ma… che senso avrebbe, eh? Voglio dire, alla
fin fine, perché prendersi il disturbo? Che razza di differenza può fare?”
Le guardie continuano a guardare fisse davanti a loro. Però gli occhi si sono spalan-
cati.
Il Signor Cervellata si gira.
“Finirete morti comunque prima o poi,” prosegue Cohen. “Beh, le cose stanno più o
meno così. Uno vive la vita meglio che può, ma alla fine non importa per niente, per-
ché tanto muore -”
“Ehm. Cohen?” lo chiama il Signor Cervellata.
“Voglio dire, prendete me. Ho mozzato teste per tutta la vita e alla fine cosa mi rima-
ne?”
“Cohen…”
Le guardie non si limitano più a fissare nel vuoto adesso. I loro visi si stanno scom -
ponendo in delle molto lodevoli espressioni di paura.
“Cohen?”
“Si, che c’è?”
“Penso che dovresti guardarti intorno, Cohen.”
Cohen si volta.
Una mezza dozzina di guerrieri rossi sta risalendo la via. La folla è indietreggiata e li
guarda in terrorizzato silenzio.
Poi una voce grida: “Lunga Durata All’Esercito Rosso!”
Le urla si levano qua e là tra la folla. Una giovane donna solleva una mano con il pu-
gno chiuso.

292
“Progresso Necessariamente Con Il Popolo Nel Dovuto Rispetto Delle Tradizioni!”
Altri si uniscono a lei.
“Meritata Rettifica Ai Nemici!”
“Ho perso Signor Coniglio!”
I giganti rossi si fermano producendo un rumore sordo.
“Guardali!” esclama il Signor Cervellata. “Non sono troll! Si muovono come una
specie di macchina. Non t’interessa?”
“No,” risponde Cohen. “Il pensiero astratto non è uno dei punti forti dei processi
mentali barbari. Allora, dov’ero rimasto?” sospira. “Oh, già. Voi due… preferireste
morire che tradire l’Imperatore, giusto?”
I due uomini sono paralizzati dalla paura.
Cohen solleva la spada.
Il Signor Cervellata fa un respiro profondo, afferra il braccio di Cohen che sorregge
la spada e grida: “Allora aprite i cancelli e lasciatelo passare!”
Per un attimo c’è solo silenzio.
Il Signor Cervellata dà un colpetto di gomito a Cohen.
“Vai,” sibila. “Comportati da Imperatore!”
“Cosa… intendi dire che devo ridacchiare, far torturare la gente e questo genere di
cose? Non ci penso nemmeno!”
“No! Comportati come un Imperatore dovrebbe comportarsi!”
Cohen guarda truce Cervellata. Poi si rivolge alle guardie.
“Ben fatto,” dice. “La vostra lealtà vi fa… come si dice… onore. Continuate così e
prevedo che sarete promossi entrambi. Adesso lasciateci entrare tutti oppure vi farò
mozzare i piedi dai miei giardinieri così dovrete inginocchiarvi nella fogna per cerca-
re la vostra testa.”
Gli uomini si guardano l’un l’altro, gettano a terra le spade e cercano di prostrarsi.
“E potete anche restare maledettamente dritti,” dice Cohen, con un tono di voce leg-
germente più gentile. Signor Cervellata?”
“Si?”
“Sono Imperatore, adesso, vero?”

293
“I… soldati della terra sembrano essere dalla nostra parte. Il popolo pensa che abbia-
te vinto. Siamo tutti vivi. Direi che abbiamo vinto, si.”
“Se sono Imperatore, posso dire a tutti cosa devono fare, giusto?”
“Oh, certamente.”
“Come si deve. Sai. Coi rotoli e l’altra roba. Con dei fessi in divisa che suonano le
trombe e dicono “Questo è quello che desideriamo facciate”.”
“Ah. Vuoi fare un proclama.”
“Già. Basta con questo maledetto prostrarsi. Mi dà la nausea. Nessuno deve più pro-
strarsi per nessuno, d’accordo? Se qualcuno m’incontra può salutarmi, o magari dar-
mi un po’ di soldi. Ma niente più teste che che sbattono per terra. Mi fa venire i nervi.
Ora, mettilo per iscritto abbellendolo con le parole che ci vogliono.”
“Subito. E -”
“Aspetta, non ho ancora finito,” Cohen si morde il labbro insolitamente meditabon-
do, mentre i guerrieri rossi si fermano sbandando. “Si. Puoi aggiungere che lascio an-
dare tutti i prigionieri, salvo che non abbiano fatto qualcosa di davvero brutto. Come
un tentativo di avvelenamento, per cominciare. Puoi lavorare sui dettagli. Verrà ta-
gliata la testa a tutti i torturatori. Ed ogni plebeo avrà un maiale gratis, o qualcosa del
genere. Lascio a te di metterci tutti quei pezzi coi ghirigori tipo “per ordine” e
quell’altra roba.”
Cohen abbassa gli occhi sulle guardie.
“Alzatevi,” dice. “Giuro, il prossimo bastardo che bacia la terra davanti a me rimedia
un calcio nella cara vecchia stia dei polli. D’accordo? Adesso aprite i cancelli.”
La folla applaude. Come l’Orda entra nella Città Proibita la segue, in una sorta di
commistione tra una carica rivoluzionaria ed una passeggiata rispettosa.
I guerrieri rossi restano fuori. Uno di loro solleva un piede di terracotta, che scric-
chiola un po’, e cammina verso la Muraglia sbattendoci contro.
Il guerriero barcolla come ubriaco per un attimo e poi riesce a collocarsi a uno o due
metri dalla Muraglia senza scontrarcisi.
Solleva un dito e, con grafia tremolante, scrive con la polvere rossa, che si trasforma
in una specie di vernice sull’intonaco bagnato:

294
AIUTO AIUTO SONOIO QUI FUORI SULLAA PIANURA AIUTO NON RIESCO
A TOGLIERMI QUESTA MALEDETA ARMATURA.
La folla si riversa in massa dietro Cohen, urlando e cantando. Se avesse una tavola da
surf, potrebbe scivolarci sopra. La pioggia batte rumorosamente i tetti e sgorga nei
cortili.
“Perché sono tutti così eccitati?” domanda.
“Pensano che stai per saccheggiare il palazzo,” risponde il Signor Cervellata. “Hanno
sentito parlare dei barbari, capisci. Ne vogliono un po’. In ogni caso, gli è andata a
genio l’idea del maiale.”
“Ehi, tu!” grida Cohen ad un ragazzo che li supera a fatica sotto il peso di un enorme
vaso. “Tieni le tue mani da ladro lontane dalla mia roba! Quello è prezioso, ecco!
E’… è…”
“E’ della Dinastia dei S’ang,” suggerisce il Signor Cervellata.
“Esatto,” commenta il vaso.
“E’ della Dinastia dei S’ang, ecco cos’è! Rimettilo a posto! E voi laggiù -”
Si volta e brandisce la spada. “Levatevi quelle scarpe! State graffiando il pavimento!
Guardate com’è già ridotto!”
“Non ti preoccupavi del pavimento ieri,” brontola Rotella.
“Non era il mio pavimento ieri.”
“Si, lo era,” lo corregge il Signor Cervellata.
“Non ufficialmente,” replica Cohen. “Cerimonia di conquista, ecco cos’è. Sangue. La
gente capisce il sangue. Ti limiti ad entrare e a prendere il potere e nessuno ti prende
sul serio. Ma un mare di sangue… Quello lo capiscono tutti.”
“Montagne di teschi,” approva Rotella.
“Prendi la storia,” prosegue Cohen. “Ogni volta che – Ehi, tu, uomo col cappello,
quello è il mio…”
“Tavolo di mogano intarsiato da Shibo Yangcong-san,” mormora il Signor Cervella-
ta.
“- perciò mettilo giù, hai sentito? Si, ogni volta che t’imbatti in un re e tutti dicono,
“Oh, era un buon re, sicuro”, puoi scommetterci i sandali che era un gran bastardo

295
con la barba che fracassava le teste ridendoci sopra un sacco. Ehi? Ma di un qualche
re che si è limitato a far passare qualche piccola legge e a leggere libri e a sembrare
intelligente… “Oh,” dicono, “oh, non era male, un po’ debole di carattere, non quel
che definirei un vero re”. Il popolo è fatto così.”
Il Signor Cervellata sospira.
Cohen gli spalanca il sorriso e gli dà una pacca sulla schiena così forte da farlo in-
ciampare su due donne che stanno cercando di trafugare una statua di bronzo di Ly
Piccolo Imbonitore.
“Riesco a malapena a capirlo, Prof, e tu? Riesci a fartelo entrare in testa? Non stare lì
a pensarci. Fondamentalmente, non sei un barbaro. Rimettete quella dannata statua al
suo posto, signora, o assaggerete la parte piatta della mia spada, perciò muovetevi!”
“Ma io pensavo che potessimo riuscirci senza che nessuno si facesse male. Usando il
cervello.”
“Non si può. La storia non funziona così. Prima il sangue, poi il cervello.”
“Montagne di teschi,” insiste Rotella.
“Deve esserci un’alternativa migliore al combattere,” commenta il Signor Cervellata.
“Eccome. Ce ne sono un sacco. Solo che non ne funziona nemmeno una. Caleb,
prendi quelle… quelle…”
“- raffinate miniature di giada Bhong -” mormora il Signor Cervellata.
“- riprendile da quel tizio. Ne ha una sotto il cappello.”
Un’altra serie di porte intagliate viene spalancata. La stanza è già affollata, ma le per-
sone arretrano trascinando i piedi quando le porte si dividono, e cercano di sembrare
entusiaste mentre evitano d’incrociare lo sguardo di Cohen.
Intanto che si staccano dalle altre, lasciano Sei Venti Benefici completamente solo.
La corte è diventata piuttosto brava in simili manovre.
“Montagne di teschi,” ripete Rotella, un uomo che non si arrende tanto in fretta.
“Ehm. Abbiamo visto l’Esercito Rosso insorgere dal sottosuolo, ehm, proprio come
predetto dalla leggenda. Ehm. Siete davvero la preincarnazione di Unico Spettro So-
lare.”
Il piccolo esattore ha la decenza di apparire imbarazzato. Mentre parla, devìa sul tea-

296
trale con una tirata equivalente a quella che, tradizionalmente, comincia con “Come
sapete, vostro padre - il re -” Oltretutto, non ha mai creduto nelle leggende fino ad
oggi – neppure a quella del contadino che ogni anno compila scrupolosamente la di-
chiarazione dei redditi.
“Già, certo,” commenta Cohen.
Cammina spedito verso il trono e pianta la spada, che perciò vibra, nel pavimento.
“A qualcuno di voi verrà tagliata la testa per il suo stesso bene,” dichiara. “Ma non
ho ancora deciso a chi. E qualcuno mostri la latrina a Giovane Willie.”
“Non è più necessario,” replica Giovane Willie. “Non dopo che quelle grosse statue
rosse mi sono comparse alle spalle così all’improvviso.”
“Montagne di -” attacca Rotella.
“Non ne so niente delle montagne,” l’interrompe Cohen.
“E dove,” chiede Sei Venti Benefici con voce tremolante, “dov’è il Grande Mago?”
“Il Grande Mago,” ripete Cohen.
“Si, il Grande Mago che ha convocato l’Esercito Rosso facendolo risorgere dalla ter-
ra,” spiega l’esattore.
“Non ne so niente,” risponde Cohen.
La folla entra barcollando intanto che sempre più gente si ammassa all’interno della
sala.
“Stanno arrivando!”
Un guerriero di terracotta si fa rumorosamente strada dentro la sala, con sul viso an-
cora quell’accenno di sorriso. Si ferma, dondolando leggermente e gocciolante di
pioggia.
La folla si rannicchia sullo sfondo in preda al terrore. Ma non l’Orda, nota il Signor
Cervellata. Di fronte ad un ignoto quanto terribile pericolo, l’Orda o s’infuria o si
confonde.
Poi si rallegra. Non sono migliori, semplicemente differenti. Sono tutti pronti a con-
frontarsi con delle gigantesche ed orribili creature, si dice, ma chiedigli di scendere
in strada per comprare un sacchetto di riso e vanno tutti in pezzi…
“Adesso che faccio, Prof?” bisbiglia Cohen.

297
“Ebbene, sei tu l’Imperatore,” risponde il Signor Cervellata. “Penso che tu debba
parlarci.”
“Okay.”
Cohen si alza in piedi e fa allegramente cenno con il capo al gigante di terracotta.
“’Ngiorno,” saluta. “Gran bel lavoro là fuori. Tu e il resto dei tuoi compagni potete
prendervi il giorno libero per piantarvi dentro dei gerani o qualunque cosa vogliate.
Ehm. C’è un gigante Numero Uno con cui povrei parlare?”
Il gigante di terracotta scricchiola nell’alzare un dito.
Dopodiché si preme due dita sull’avambraccio e poi di nuovo alza un dito.
I componenti la folla cominciano a parlare tutti insieme.
Il gigante si tira quel che rimane di un orecchio con due dita.
“Cosa vorrà dire?” chiede Sei Venti Benefici.
“Lo trovo un po’ difficile da credere,” risponde il Signor Cervellata, “ma è un antico
metodo di comunicazione in uso nella terra dei vampiri fantasma succhiasangue.”
“Riuscite a capirlo?”
“Oh, si. Credo di si. Bisogna provare a indovinare una parola o una frase. Sta tentan-
do di dirci… ehm… una parola, due sillabe. La prima sillaba suona come…”
Il gigante mette una delle mani a coppa, accostandogli l’altra con la quale esegue dei
piccoli movimenti rotatori.
“Svoltare,” dice il Signor Cervellata. “Avvolgere? Vorticare? Girare? Arrotare? Mo-
lare? Tagliare? Macinare -”
Il gigante si tamburella frettolosamente il naso ed esegue una pesantissima, rumoro-
sissima danza, facendo risuonare i pezzi dell’armatura di terracotta.
“Suona come macinare,” commenta il Signor Cervellata. “La prima sillaba suona
come macinare.”
“Ehm…”
Una figura malmessa si fa strada spingendosi tra la folla. Indossa degli occhiali, una
lente dei quali è crinata.
“Ehm,” dice, “avrei un’idea su quel che può significare…”

298
Lord Zanna ed alcuni dei suoi guerrieri più fidati si sono raggruppati sul versante
delle colline. Un buon generale sa sempre quando abbandonare il campo di battaglia,
e per quanto riguarda Lord Zanna è quando vede il nemico che viene a prenderlo.
Gli uomini sono sconvolti. Non hanno cercato di confrontarsi con l’Esercito Rosso.
Coloro che l’hanno fatto sono morti.
“Noi… dobbiamo radunarci di nuovo,” Lord Zanna ha il fiatone. “E poi aspetteremo
finché non cala la notte e – Questo cos’è?”
Dai cespugli più in alto sul pendio, dove il terreno franoso ha dato spazio ad un altro
crepaccio pieno di arbusti, giunge un rumore dal ritmo costante.
“Sembra un carpentiere al lavoro, mio signore,” risponde uno dei soldati.
“Quassù? Nel bel mezzo di una guerra? Va a vedere di che si tratta!”
L’uomo s’inerpica. Dopo un istante il rumore simile a quello di una sega s’interrom-
pe. Poi ricomincia di nuovo.
Lord Zanna cerca di elaborare un nuovo piano di battaglia, in conformità ai Nove
Principi Utili. Scaraventa la mappa a terra.
“Perché va ancora avanti? Dov’è il Capitano Nong?”
“Non è tornato, mio signore.”
“Allora vai a vedere cosa gli è capitato!”
Lord Zanna cerca di ricordare se il grande saggio militare ha mai avuto niente da dire
approposito del combattere delle invulnerabili statue giganti. Lui –
Il rumore di sega s’interrompe. Poi viene sostituito da quello di un martello che batte.
Lord Zanna si guarda intorno.
“C’è modo di farsi ubbidire ad un ordine da queste parti?” sbraita.
Prende la spada e s’inerpica sul pendio fangoso. I cespugli si dividono al suo passag-
gio. Trova una radura. Vede sfrecciare una sagoma, con centinai di piccoli pie– Uno
schiocco.

La pioggia cade così velocemente che le gocce si mettono in fila.


La terra rossa è profonda centinaia di metri in questi posti. Produce due o tre raccolti
l’anno. E’ ricca. E’ fertile. E’, quando è bagnata, estremamente appiccicosa.

299
Gli eserciti sopravvissuti sono sguazzati via dal campo di battaglia, rossi dalla testa
ai piedi al pari dei guerrieri di terracotta. Non considerando quelli che sono stati sem-
plicemente calpestati, l’Esercito Rosso in effetti non ha ucciso molte persone.
La maggior parte dell’impresa l’ha fatta il terrore. Per lo più una gran parte dei solda-
ti è rimasta uccisa nelle brevi lotte intestine al proprio esercito e, nel disordine della
fuga, dalle proprie stesse fazioni.33
L’esercito di terracotta ha il campo tutto per sé. Celebra la vittoria in diversi modi.
Molte guardie fanno il girotondo, muovendosi a fatica sul fango appiccicoso come
fosse, semmai, aria rarefatta. Un certo numero scava una trincea, un lato della quale
gli si riversa addosso sotto la pioggia battente. In pochi cercano di scalare un muro
che non c’è.
Diversi, presumibilmente in risposta allo sforzo seguito a centinaia di secoli di man-
cata manutenzione, sono esplosi spontaneamente in una valanga di scintille blu e di
schegge di creta incandescenti, le quali hanno costituito un fattore determinante nella
conta dei morti degli avversari.
E per tutto il tempo la pioggia non smette di cadere, formando una solida cortina
d’acqua scrosciante. Non sembra un fenomeno naturale. Pare quasi che il mare abbia
deciso di rivendicare la terra paracadutandocisi sopra.
Scuotivento chiude gli occhi. Il fango ricopre l’armatura. Non riesce più a recuperare
le immagini, oramai, il che gli concede un po’ di sollievo perché è piuttosto sicuro di
aver incasinato tutto. Si dovrebbe riuscire a vedere quello che gli altri guerrieri guar-
dano - almeno, presumibilmente, si dovrebbe riuscirci, a patto di capire quello che al-
cune delle figure più strane stanno davvero combinando e come premerle nel giusto
ordine. Scuotivento non è in grado e, in ogni caso, chiunque abbia fatto l’armatura
magica non ha pensato che sarebbe stata usata con il fango fino alle ginocchia e sotto
una fiumana verticale. Di quando in quando sfrigola. Uno dei calzari si sta surriscal-
dando.
Era cominciata così bene! Ma doveva essersi manifestato quello che inizia a conside-
rare come il fattore Scuotivento. Probabilmente qualche altro mago avrebbe fatto

33 Ufficialmente nota come “Pugnalata amica.”

300
uscire l’esercito a passo di marcia e non sarebbe piovuto e perfino adesso starebbe
sfilando in parata per le strade di Hunghung con la gente a tirargli i fiori e dire “Paro-
la mia, è proprio un Grande Mago, non c’è alcun dubbio.”
Qualche altro mago non avrebbe premuto l’immagine sbagliata così che quei cosi si
mettessero a scavare.
Si rende conto che sta sguazzando nell’autocommiserazione. Ancor più pertinente-
mente, sta anche sguazzando nel fango. E sta affondando. Tentare di tirare fuori un
piede è inutile – non serve, e l’altro piede semplicemente va ancora più a fondo e di-
venta più caldo.
Un fulmine si abbatte sul terreno lì vicino. Lo sente sfrigolare, vede il vapore, perce-
pisce la scossa di elettricità ed assapora il gusto di una rostiera rovente.
Un altro fulmine copisce un guerriero. Il torace gli esplode in una pioggia di appicci-
coso catrame nero. Le gambe fanno qualche altro passo prima di fermarsi.
L’acqua gli si riversa addosso, spessa e rossa ora che il fiume Hung è tracimanto. Ed
il fango continua a risucchiargli i piedi come una carie in un dente.
Qualcosa mulinella al di sopra dell’acqua fangosa. Sembra un pezzetto di carta.
Scuotivento esita, poi allunga goffamente una mano guantata e lo raccoglie.
Si tratta, come previsto, di una farfalla.
“Grazie tante,” il tono è aspro.
La pioggia gli cola dalle dita.
Chiude appena la mano e sospira e poi, quanto più delicatamente riesce, manovra per
sistemare la creatura sopra un suo dito. Le ali restano incollate al corpo apatiche.
La ripara con l’altra mano e le soffia piano sulle ali alcune volte.
“Dai, pussa via.”
La farfalla si volta. Gli occhi multisfaccettati scintillano di verde per un momento,
dopodiché saggia la tenuta delle ali agitandole un poco.
Smette di piovere.
Comincia a nevicare, ma solo nel punto in cui si trova Scuotivento.
“Oh, si,” commenta Scuotivento. “Si davvero. Oh, grazie veramente ma veramente
tanto.”

301
La vita, ha sentito dire, è come un uccello che vola fuori dall’oscurità ed attraversa
una sala affollata e poi entra in un’altra finestra dove ritrova il buio eterno. Nel caso
di Scuotivento deve avergli lasciato cadere un che d’incontinente nella cena.
La neve si ferma. Le nuvole si ritirano dalla volta del cielo ad una velocità sorpren-
dente, lasciando spazio alla luce calda del sole la quale fa quasi immediatamente sali-
re il vapore dal fango.
“Eccoti! Abbiamo cercato dappertutto!”
Scuotivento tenta di voltarsi, ma il fango glielo impedisce. Sente sbattere del legno,
come se un asse venisse posato sopra la fanghiglia umida.
“Neve sulla testa? In pieno sole? Mi son detto non può essere che lui.”
Sente il tonfo sordo di un altro asse di legno.
Una piccola valanga frana dall’elmetto e scivola sul collo di Scuotivento.
Un altro tonfo ed un asse di legno si spiaccica nel fango accanto a lui.
“Sono io, Duefiori. Stai bene, vecchio amico?”
“Penso che il mio piede sia cotto, ma apparte questo sono felice come non mai.”
“Sapevo che eri tu che giocavi a sciarada,” dice Duefiori, serrando le mani sotto le
ascelle del mago e tirando.
“Hai capito tu la sillaba “Vento”?” chiede Scuotivento. “Era davvero difficile da mi-
mare, con il controllo a distanza.”
“Oh, nessuno di noi c’è arrivato,” risponde Duefiori, “ma quando ha fatto “ohcavo-
liohcavoliohcavoli sto per morire” abbiamo indovinato subito tutti. Molto creativo.
Ehm. Sembra che tu sia incastrato.”
“Credo siano i calzari magici.”
“Non riesci a scuoterli neanche un po’? Questo fango si secca come – beh, come ter-
racotta al sole. Qualcuno potrebbe venire qui a scavarli, dopo tutto.”
Scuotivento cerca di muovere i piedi. Sente come una specie di substrato di fango
gorgogliante che gli libera i piedi, accompagnato da un suono soffocato simile a
qualcosa che lecca rumorosamente.
Alla fine, con uno sforzo considerevole, riesce a mettersi seduto sull’asse di legno.
“Mi dispiace per i guerrieri,” dice. “Sembrava tutto facile quando ho cominciato, e

302
poi mi sono confuso con tutte quelle figure ed è stato impossibile impedire ad alcuni
di loro di fare le cose -”
“Ma se è stata una vittoria clamorosa!” esclama Duefiori.
“Davvero?”
“Il Signor Cohen è stato incoronato Imperatore!”
“Sul serio?”
“Beh, non incoronato, nessuno l’ha incoronato, è semplicemente arrivato ed ha fatto
tutto da sé. E tutti dicono che è la preincarnazione del primo Imperatore e lui dice
che se vuoi essere il Grande Mago gli sta bene.”
“Scusa? Devo essermi perso…”
“Hai guidato l’Esercito Rosso, giusto? Li hai fatti o no insorgere nell’ora del bisogno
dell’Impero?”
“Ebbene, non direi esattamente che io -”
“Perciò l’Imperatore vuole ricompensarti. Non è gentile?”
“Che intendi per ricompensare?” chiede Scuotivento profondamente sospettoso.
“Non ne sono del tutto sicuro. In verità, quel che ha detto è…” gli occhi di Duefiori
diventano vitrei mentre cerca di ricordare. “Ha detto “Va e trova Scuotivento e digli
che sarà pure un gran babbeo ma almeno è schietto perciò può diventare Capo Mago
dell’Impero o comunque voglia farsi chiamare, perché non mi fido di voi stranieri…”
Duefiori strabuzza gli occhi al cielo nel tentativo di ricordare le esatte parole di Co-
hen “… aspetto della casa dei buoni auspici… odore di alberi di pino… sfigati.””
Le parole s’insinuano nell’orecchio di Scuotivento alla spicciolata, scivolano furtiva-
mente fino al cervello ed iniziano a rimbalzare sulle pareti.
“Capo Mago?” domanda.
“Così ha detto. Ebbene… in verità ha detto che voleva fossi una grande massa infor-
me di rigurgito deglutito, ma solo perché ha usato un tono basso e grave invece che
uno acuto e dubitativo. Intendeva decisamente dire mago.”
“Dell’intero Impero?”
Scuotivento si alza in piedi.
“Sta per succedere qualcosa di molto brutto,” è perentorio.

303
Il cielo è davvero azzurro adesso. Alcuni cittadini si sono avventurati fino al campo
di battaglia per prendersi cura dei feriti e rimuovere i cadaveri. I guerrieri di terracot-
ta stanno in piedi in vari angoli, immobili come rocce.
“Da un momento all’altro,” aggiunge Scuotivento.
“Non dovremmo tornare indietro?”
“Probabilmente si abbatterà un meteorite,” continua Scuotivento.
Diefiori osserva il cielo sereno.
“Tu mi conosci,” spiega Scuotivento. “Proprio quando sto per mettere le mani su
qualcosa di buono arriva Fato e mi schiaccia le dita.”
“Non vedo nessun meteorite,” replica Duefiori. “Quanto dobbiamo aspettare?”
“Sarà qualcos’altro, allora,” ribatte Scuotivento. “Salterà fuori qualcuno all’improv-
viso, o ci sarà un terremoto, o una cosa simile.”
“Se insisti,” risponde educatamente Duefiori. “Uhm. Preferisci aspettare qualcosa di
terribile qui o vuoi tornare a palazzo a farti un bagno e cambiarti i vestiti per poi ve -
dere che succede?”
Scuotivento riconosce che può anche attendere l’orribile destino circondato dalle co-
modità.
“Ci sarà una festa,” dice Duefiori. “L’Imperatore dice che insegnerà a tutti a tracan-
nare.”
Si fanno strada, asse dopo asse, fino alla città.
“Sai, giurerei che non mi hai mai detto di essere stato sposato.”
“Sono sicuro di averlo fatto.”
“Mi, ehm, mi è dispiaciuto sentire che tua moglie, ehm -”
“Cose che succedono quando c’è la guerra. Ho due figlie ubbidienti.”
Scuotivento apre bocca per dire qualcosa, ma il sorriso smagliante e dolceamaro di
Duefiori gli strozza le parole in gola.
Lavorano senza parlare, sollevando le assi di legno dietro di loro per allungare il
camminamento di fronte.
“Guarda il lato positivo,” Duefiori rompe il silenzio, “l’Imperatore dice che puoi dare
inizio ad una tua Università, se vuoi.”

304
“No! No! Qualcuno mi colpisca con una spranga di ferro, per favore!”
“Ha detto di essere più che a favore dell’istruzione per via che nessuno gliene ha for -
nita una. Sta emettendo proclami come un pazzo. Gli eunuchi hanno minacciato di
scioperare.”
L’asse di legno di Scuotivento cade nel fango.
“Cos’è che fanno gli eunuchi,” chiede, “che smettono di fare quando scioperano?”
“Servire da mangiare, rifare i letti, cose così.”
“Oh.”
“Fanno funzionare la Città Proibita, sul serio. Ma l’Imperatore li ha convinti del pro-
prio punto di vista.”
“Davvero?”
“Ha detto che se non la smettevano subito di rompere gli avrebbe tagliato anche il re-
sto. Uhm, penso che il terreno sia abbastanza solido adesso.”
Un’Università tutta sua. Il che lo renderebbe… Arcicancelliere. Scuotivento l’Arci-
cancelliere s’immagina in visita all’Università Invisibile. Potrebbe indossare un cap-
pello con una punta enorme. Potrebbe essere scortese con tutti. Potrebbe -”
Cerca d’impedirsi di pensare così. Andrà tutto in malora.
“Naturalmente,” dice Duefiori, “potrebbe essere che le cose brutte ti sono già capita-
te tutte. Ci hai pensato? Magari ti spetta qualcosa di bello?”
“Non provare a rifilarmi quella roba sul karma,” risponde Scuotivento. “La ruota del-
la fortuna ha perso qualche raggio dove sono coinvolto io.”
“Merita di essere preso in considerazione, però,” insiste Duefiori.
“Cosa, che il resto della mia vita sarà tranquillo e piacevole? Mi dispiace. No. Aspet-
ta e vedrai. Come girerò le spalle – bang!”
Duefiori si guarda intorno con un certo interesse.
“Non capisco perché pensi che la tua vita sia stata così brutta,” commenta. “Ci siamo
divertiti un mucchio quand’eravamo più giovani. Ehi, te lo ricordi di quando siamo
andati oltre il confine del mondo?”
“Sempre,” risponde Scuotivento. “Di solito verso le tre del mattino.”
“E di quando stavamo su un dragone e quello è scomparso a mezz’aria?”

305
“Sai,” replica Scuotivento, “qualche volta riesco persino a stare un’ora intera senza
ricordarmene.”
“E quella volta che siamo stati attaccati da quelle persone che volevano ucciderci?”
“A quale delle centoquarantanove occasioni ti riferisci?”
“Temprano il carattere, questo genere di cose,” risponde allegramente Duefiori. “Mi
hanno reso ciò che sono oggi.”
“Oh, si,” commenta Scuotivento. Parlare con Duefiori non è per niente faticoso. La
natura fiduciosa di quell’ometto non conosce il sarcasmo ed è dotata di un’abilità tut-
ta sua nel non ascoltare le cose che potrebbero turbarla. “Si, posso senza dubbio af-
fermare che questo genere di cose hanno reso anche me quel che sono oggi.”
Entrano dentro la città. Le strade sono praticamente deserte. La maggior parte delle
persone si è riunita nell’enorme piazza di fronte al palazzo. I nuovi Imperatori tendo-
no a dare mostra di generosità. Inoltre, la notizia che questo qui è diverso e che dà
via i maiali per niente ha fatto il giro.
“L’ho sentito parlare d’inviare dei messi diplomatici ad Ankh-Morpork,” dice Due-
fiori, intanto che sgocciolano risalendo la strada. “Prevedo che ci sarà un po’ di tram-
busto per questo.”
“Per caso era presente pure quel Potessi-Sbudellarmi-Onorevolmente?” chiede Scuo-
tivento.
“Si, in effetti.”
“Quando hai visitato Ankh-Morpork, hai mai incontrato un uomo di nome Dibbler?”
“Oh, si.”
“Se mai quei due dovessero stringersi la mano, penso che potrebbe verificarsi un
qualche tipo di esplosione.”
“Però potresti tornare indietro, ne sono sicuro,” dice Duefiori. “Nel senso che la tua
nuova Università avrà bisogno di ogni genere di cose e, beh, mi pare di ricordare che
la gente di Ankh-Morpork ha una vera passione per l’oro.”
Scuotivento digrigna i denti. L’immagine non vuole andarsene – quella dell’Arcican-
celliere Scuotivento che acquista una Torre delle Arti e ne fa contare ogni singola
pietra una ad una per farla spedire ad Hunghung; dell’Arcicancelliere Scuotivento

306
che assume l’intero corpo docenti come bidelli; dell’Arcicancelliere Scotiven…
“No!”
“Pardon?”
“Non incoraggiare certi pensieri! Nel momento in cui crederò che sta andando tutto a
meraviglia succederà qualcosa di spaventoso!”
Si muove qualcosa alle loro spalle ed un coltello d’improvviso gli preme sulla gola.
“La Grande Massa Informe Di Rigurgito Deglutito?” gli domanda una voce attaccata
al suo orecchio.
“Ecco,” risponde Scuotivento, “Lo vedi? Scappa! Non startene lì impalato maledetto
idiota! Corri!”
Duefiori lo guarda fisso un istante e poi si volta e taglia la corda.
“Lascialo andare,” dice la voce. “Lui non conta.”
Delle mani lo spingono nel vicolo. Ha una vaga sensazione di armatura, e fango;
quelli che l’hanno preso sono esperti nel trascinare un prigioniero in modo che non
abbia alcuna possibilità di prendere piede in qualsivoglia parte.
Poi viene scaraventato sull’acciottolato.
“A me non pare così grande,” commenta una voce imperiosa. “Alza gli occhi, Gran-
de Mago!”
Dai soldati arriva qualche risatina isterica.
“Stupidi!” infuria Lord Magazzinai. “E’ solo un uomo! Guardatelo! Vi pare tanto po-
tente? E’ solo un uomo che ha scovato qualche vecchio trucco! Vediamo quanto rie-
sce ad essere grande senza le braccia e le gambe.”
“Oh,” dice Scuotivento.
Lord Magazzinai si piega. Ha del fango sul viso e gli illuminati di pazzia. “Staremo a
vedere, allora, cosa riesce a fare il tuo Imperatore barbaro, non è vero?” Indica il te-
tro gruppo di soldati mezzo incrostati.
“Sai che per metà credono che tu sia veramente un grande mago? Semplice supersti-
zione, temo. Molto comoda il più delle volte, dannatamente sconveniente in
quest’occasione. Ma quando ti scorteremo nella piazza e gli mostreremo quanto
grande sei in realtà, penso che il tuo barbaro non durerà a lungo. Questi che sono?”

307
Strappa i guanti dalle mani di Scuotivento. “Giocattoli,” commenta. “Sciocche inven-
zioni. L’Esercito Rosso sono solo delle macchine, come i mulini e le pompe. Non
sono per niente magiche.”
Li scaglia da una parte e fa un cenno con la testa ad una delle guardie.
“E adesso,” dice Lord Magazzinai, “andiamo a Piazza Imperiale.”

“Ti piacerebbe essere governatore di Bangbangoc e di tutte le isole intorno?” doman-


da Cohen, mentre l’Orda studia con attenzione una mappa dell’Impero. “Ti piace il
mare, Hamish?”
“Cusa?”
Le porte della Sala del Trono si spalancano violentemente. Duefiori si precipita den-
tro, seguito da Unico Grande Fiume.
“Lord Magazzinai ha preso Scuotivento! Vuole ucciderlo!”
Cohen solleva lo sguardo.
“Può magheggiarsene fuori da solo, no?”
“No! Non ha più l’Esercito Rosso! Lo ucciderà! Dovete fare qualcosa!”
“Beh, ecco, sai com’è con i maghi,” risponde Rotella. “Ce ne sono fin troppi per
come -”
“No.” Cohen prende la spada e sospira.
“Andiamo,” dice.
“Ma, Cohen-”
“Ho detto andiamo. Noi non siamo come Magazzinai. Scuotivento è un furbastro, ma
è il nostro furbastro. Allora vieni o cosa?”

Lord Magazzinai ed il suo gruppo di soldati hanno quasi raggiunta la base della larga
scalinata che conduce a palazzo quando l’Orda fa la sua comparsa. La folla li circon-
da, contenuta dai soldati.
Lord Magazzinai trattiene saldamente Scuotivento con un coltello puntato alla gola.
“Ah, Imperatore,” parla Ankh-Morporkiano. “Ci s’incontra di nuovo. Scacco, direi.”
“Che intende dire?” sussurra Cohen.

308
“Pensa di averti costretto all’angolo,” spiega il Signor Cervellata.
“Come fa a sapere che non lascerò semplicemente morire il mago?”
“Psicologia dell’individuo, temo.”
“Non ha alcun senso!” grida Cohen. “Se lo uccidi, in pochi secondi sarai morto an-
che tu. Provvederei personalmente!”
“In verità, no,” risponde Lord Magazzinai. “Quando il tuo… Grande Mago… sarà
morto, quando il popolo vedrà con quanta facilità muore… per quanto pensi che re-
sterai ancora Imperatore? Hai vinto con l’inganno!”
“Quali sono le tue condizioni?” domanda il Signor Cervellata.
“Nessuna condizione. Non potete darmi niente che non possa prendermi da solo.”
Lord Magazzinai prende il cappello di Scuotivento da una delle guardie e lo ficca
sulla testa di Scuotivento.
“Questo è tuo,” sibila. ““Maggo!” ah! Non puoi nemmeno fare incantesimi! Allora,
maggo? Non hai niente da dire?”
“Oh, no!”
Lord Magazzinai sorride. “Ah, così va meglio,” commenta.
“Oh, noooooo!”
“Molto bene!”
“Aarrgh!”
Lord Magazzinai batte le palpebre. Per un momento la figura davanti a lui sembra al-
lungarsi del doppio e poi d’improvviso i piedi gli schioccano sotto il mento.
Dopodiché scompare, con un piccolo rombo.
La piazza è silenziosa, tranne che per il rumore di diverse migliaia di persone im-
bambolate instupidite.
Lord Magazzinai agita distrattamente la mano in aria.
“Lord Magazzinai?”
Si volta. Dietro di lui c’è un uomo basso, coperto di fango e sporcizia. Indossa un
paio di occhiali, una lente dei quali è crinata.
Lord Magazzinai gli concede a malapena un’occhiata. Pungola di nuovo l’aria, rilut-
tante a credere ai suoi stessi sensi.

309
“Mi scusi, Lord Magazzinai,” insiste l’apparizione, “ma non è che per caso vi ricor-
date di Bes Pelargic? All’incirca sei anni fa? Stavate discutendo, credo, con Lord So-
nanti? C’era una qualche scaramuccia. Alcune strade furono distrutte. Nessuna delle
principali.”
Lord Magazzinai batte le palpebre.
“Come osi rivolgerti a me!” riesce ad esclamare.
“Non ha alcuna importanza,” risponde Duefiori. “Ma è solo che mi faceva piacere ri-
cordarvelo. Sono… piuttosto arrabbiato per l’accaduto. Ehm. Voglio battermi con
voi.”
“Vuoi batterti con me? Sai con chi stai parlando? Ne hai una minima idea?”
“Ehm. Si. Oh, si,” risponde Duefiori.
L’attenzione di Lord Magazzinai alla fine si focalizza. Non è stata una bella giornata.
“Tu sciocco, stupido ometto! Non hai neppure una spada!”
“Ohi! Quattr’occhi!”
Si voltano entrambi. Cohen gli lancia la sua spada. Duefiori l’afferra goffamente e
quasi cade a terra sotto il suo peso.
“Perché l’hai fatto?” chiede il Signor Cervellata.
“Quell’uomo vuole fare l’eroe. A me sta bene,” risponde Cohen.
“Lo massacrerà!”
“Può darsi. Può darsi di si. Può darsi di no. Può darsi che vada così, certamente,” gli
concede Cohen. “Non dipende da me.”
“Padre!”
Fiore di Loto afferra il braccio di Duefiori.
“Ti ucciderà! Vieni via!”
“No.”
Farfalla prende l’altro braccio del padre.
“Non servirà a niente,” dice. “Andiamo. Troveremo un momento migliore -”
“Ha ucciso vostra madre,” l’interrompe Duefiori recisamente.
“Sono stati i suoi soldati.”
“Il che è peggio. Non lo sapeva neanche. Perfavore, state indietro, tutte e due.”

310
“Ascolta, padre -”
“Se non fate entrambe ciò che vi dico mi arrabbierò moltissimo.”
Lord Magazzinai sfodera la sua lunga spada. La lama scintilla.
“Sai niente di come si combatte, plebeo?”
“No, veramente no,” risponde Duefiori. “Ma la cosa importante è che qualcuno deve
tenerti testa. Qualunque cosa succeda dopo.”
L’Orda assiste con considerevole interesse. Duri come sono, il loro punto debole è il
coraggio privo di senno.
“Si,” replica Lord Magazzinai, levando lo sguardo sulla folla silenziosa. “Facciamo
vedere a tutti cosa succede.”
Solleva la spada.
L’aria crepita.
Il Cane Abbaiante cade sulle lastre di pietra davanti a lui.
E’ molto caldo. La corda è accesa.
Un breve sfrigolio.
Poi il mondo si fa tutto bianco.
Dopo un po’, Duefiori si riprende. Sembra essere il primo a rialzarsi; le persone che
non si sono gettate a terra sono svanite.
Tutto quello che resta di Lord Magazzinai è una scarpa, in fiamme.
Tuttavia una scia fumante risale le gradinate dietro quella.
Leggermente barcollante, Duefiori segue la scia.
Una sedia a rotelle è divelta su un fianco, con una ruota che gira nel vuoto.
Fa capolino da sopra.
“Sta bene, Signor Hamish?”
“Cusa?”
“Bene.”
Il resto dell’Orda è accovacciata in cerchio in cima alla scalinata.
Il fumo si leva a ondate tutt’attorno a loro. Nel suo passaggio inarrestato, la palla ha
dato fuoco ad una parte del palazzo.
“Riesci a sentirmi, Prof?” continua a ripetere Cohen.

311
“Ovvio che non ti sente! Come fa a sentirti ridotto così?” dice Rotella.
“Potrebbe essere ancora vivo,” risponde Cohen con aria di sfida.
“E’ morto, Cohen. Davvero, davvero morto. Le persone vive hanno molto più cor-
po.”
“Ma voi siete tutti vivi?” domanda Duefiori. “L’ho visto abbaiare proprio verso di
voi!”
“Ci siamo tolti di mezzo,” risponde Giovane Willie. “Siamo bravi a levarci di mez-
zo.”
“Il povero vecchio Prof non aveva la nostra esperienza nel non morire,” aggiunge
Caleb.
Cohen si alza in piedi.
“Dov’è Magazzinai?” domanda con ferma determinazione. “Lo farò -”
“Anche lui è morto, Signor Cohen,” lo interrompe Duefiori.
Cohen annuisce, come se fosse tutto perfettamente normale.
“Lo dovevamo al vecchio Prof,” commenta.
“Era un bel tipo,” ammette Rotella. “Aveva delle buffe idee sulle imprecazioni, bada
bene.”
“Aveva cervello. Ci teneva alle cose! E magari non ha vissuto da barbaro, ma danna-
zione verrà seppellito come tale, d’accordo?”
“Su una nave barbara, data alle fiamme,” suggerisce Giovane Willie.
“Caspita,” dice il Signor Cervellata.
“In una fossa enorme, in cima ai corpi dei suoi nemici,” suggerisce Caleb.
“Santo cielo, tutta la IVB?” domanda il Signor Cervellata.
“In una tomba,” suggerisce Vincent.
“Davvero, non vorrei arrecarvi tanto disturbo,” dice il Signor Cervellata.
“Su una nave barbara data alle fiamme, in una fossa enorme in cima ai corpi dei suoi
nemici, dentro una tomba,” conclude Cohen con fare deciso. “Niente è troppo per il
vecchio Prof.”
“Ma ve l’assicuro, mi sento bene,” dice il Signor Cervellata. “Davvero, io – ehm…
Oh…”

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RONALD CERVELLATA?
Il Signor Cervellata si volta.
“Ah,” risponde. “Si. Capisco.”
VORRESTE ESSERE COSI’ GENTILE DA SEGUIRMI?
Il palazzo e l’Orda si paralizzano e svaniscono gentilmente, come un sogno.
“E’ buffo,” commenta il Signor Cervellata, intanto che segue Morte. “Non mi aspet-
tavo fosse così.”
POCHE PERSONE SI ASPETTANO CHE SIA IN NESSUN MODO.
Della sabbia granulosa nera scricchiola sotto quelli che il Signor Cervellata suppone
di poter ancora chiamare i suoi piedi.
“Che posto è?”
IL DESERTO.
E’ vividamente illuminato e, tuttavia, il cielo è nero mezzanotte. Guarda fisso l’oriz-
zonte.
“Quant’è grande?”
PER ALCUNI, MOLTO GRANDE. PER LORD MAGAZZINAI, AD ESEMPIO,
CONTIENE UN SACCO DI FANTASMI IMPAZIENTI.
“Pensavo che Lord Magazzinai non credesse ai fantasmi.”
FORSE CI CREDE ADESSO. SONO TANTI I FANTASMI CHE CREDONO IN
LORD MAGAZZINAI.
“Oh. Ehm. Adesso che succede?”
“Andiamo, andiamo, mica ho tutto il giorno! Datti una mossa, amico!”
Il Signor Cervellata si volta e solleva lo sguardo su una donna a cavallo.
E’ un cavallo davvero grande ma, del resto, è una donna davvero imponente. Ha le
trecce, un cappello con sopra le corna ed un pettorale che deve essere costato una set-
timana di lavoro ad un carrozziere esperto. La donna gli lancia un’occhiata che non è
maleducata, ma impaziente sotto ogni punto di vista.
“Come scusi?” risponde.
“Qui dice Ronald Cervellata,” replica. “Il cosa?”
“Il cosa?”

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“Tutti quelli che carico,” risponde la donna, allungandosi, si chiamano “Tal dei tali il
Cosa”. Tu il cosa sei?”
“Mi scusi, io -”
“Allora ci scrivo Ronald il Contrito. Forza, salta su, c’è una guerra in corso, dobbia-
mo andare.”
“Dove?”
“Qui dice tracannare, gozzovigliare e tirare d’ascia ai capelli delle giovani donne?”
“Ah, ehm. Credo che forse ci sia stato un piccol -”
“Senti, vecchio mio, viene o cosa?”
Il Signor Cervellata osserva il deserto circostante. E’ completamente solo.
Morte è andata a badare ai propri affari essenziali.
Lascia che lo tiri su sistemandolo dietro di lei.
“Non è che magari hanno una biblioteca?” chiede speranzoso, mentre il cavallo si
solleva verso il cielo scuro.
“Non lo so. Nessuno l’ha mai chiesto.”
“Dei corsi serali, forse. Potrei far partire dei corsi serali?”
“In cosa?”
“Uhm. Qualunque cosa, veramente. “Come si sta a tavola, magari. E’ permesso?”
“Suppongo di si. Credo che nessuno abbia mai chiesto neppure questo.” La valchiria
si volta sulla sella.
“Sicuro che stai venendo nel giusto aldilà?”
Il Signor Cervellata valuta le possibilità.
“Nel complesso,” risponde, “Penso valga la pena fare un tentativo.”

La folla nella piazza si sta rialzando.


Guardano il poco che è rimasto di Lord Magazzinai e l’Orda.
Farfalla e Fiore di Loto raggiungono il padre. Farfalla fa scorrere la mano sul canno-
ne, alla ricerca del trucco.
“Visto,” Duefiori parla indistintamente perché riesce a malapena a sentire il suono
della propria voce, “ve l’avevo detto che è il Grande Mago.”

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Farfalla gli dà delle piccole pacche sulla spalla.
“E quelli?” chiede.
Una piccola processione avanza con cautela nella piazza. Davanti, riconosce Duefio-
ri, c’è qualcosa che una volta gli apparteneva.
“Era uno dei più economici,” dice, a nessuno in particolare. “Ho sempre pensato ci
sia un qualcosa di perverso in lui, ad essere onesti.”
E’ seguito da un Bagaglio leggermente più grande. E poi, in ordine discendente di
grandezza, da quattro piccole cassapanche, la più piccola delle quali della grandezza
di una borsa da passeggio. Che nel passare davanti ad un Hunghunghese che giace
prono siccome troppo stordito per scappare, si ferma per dargli un calcio sull’orec-
chio prima di correre dietro alle altre.
Duefiori guarda le figlie.
“Possono farlo?” chiede. “Crearne una nuova? Credevo ci fosse bisogno di un car-
pentiere.”
“Suppongo abbia imparato molto ad Ankh-Molt-Pork,” risponde Farfalla.
I Bagagli si riuniscono di fronte ai gradini. Poi il Bagaglio si volta e, dopo una o due
spiacevoli occhiatacce all’indietro, o quelle che potrebbero essere delle occhiatacce
se avesse gli occhi, se ne va al piccolo galoppo. Per quando raggiunge l’estremità più
lontana della piazza è già una macchia confusa.
“Ehi, tu! Quattr’occhi!”
Duefiori si volta, Cohen sta scendendo le scale.
“Mi ricordo di te,” dice. “Sai niente del Grand Visierando?”
“Niente di niente, Signor Imperatore Cohen.”
“Ottimo. Il posto è tuo. Datti da fare. Per prima cosa, voglio una tazza di tè. Forte ab-
bastanza da poterci far galleggiare lo zoccolo di un cavallo. Tre zollette di zucchero.
Entro cinque minuti. D’accordo?”
“Una tazza di tè in cinque minuti?” domanda Duefiori. “Ma non bastano neppure per
un cerimoniale breve!”
Cohen mette un braccio amichevole attorno alle spalle dell’ometto.
“C’è un nuovo cerimoniale,” replica. “Fa: “Il tè è pronto, capo. Latte? Zucchero?

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Ciambella? Ne vuoi un’altra?” E puoi dire agli eunuchi,” aggiunge, “che l’Imperato-
re è uno che ci prende tutto alla lettera e che ha usato la frase “cadranno delle teste”.”
Gli occhi di Duefiori brillano dietro le lenti crinate. In qualche modo, gli piace come
suona la cosa.
Sembra che dopotutto stia vivendo dei momenti interessanti –
I Bagagli se ne stanno seduti tranquilli, e aspettano.

Fato si distende appoggiandosi all’indietro.


Gli déi si rilassano.
“Un pareggio,” annuncia. “Oh, si. Può sembrare che abbiate vinto ad Hunghung ma
avete dovuto sacrificare il vostro pezzo di maggior valore, non è così?”
“Come prego?” risponde la Signora. “Davvero non vi seguo.”
“Per quanto riesco a capire di questa… fisica…,” replica Fato, “Non posso credere
che qualcosa possa essersi materializzato nell’Università senza morire quasi all’istan-
te. Una cosa è colpire un cumulo di neve, ma un’altra completamente diversa è anda-
re a sbattere contro un muro.”
“Non sacrifico mai un pedone,” ribatte la Signora.
“Come potete sperare di vincere senza sacrificare un occasionale pedone?”
“Oh, io non gioco mai per vincere.” Sorride. “Però gioco per non perdere. Guarda-
te…”

Il Consiglio dei Maghi si raccoglie davanti alla parete all’estremità opposta della
Sala Grande e guarda la cosa che adesso ne occupa quasi la metà.
“Un effetto interessante,” commenta Ridcully, alla fine. “A che velocità andava se-
condo voi?”
“All’incirca ottanta chilometri l’ora,” risponde Ponder. “Penso che forse ci siamo fat-
ti un po’ prendere dall’entusiasmo. Hex dice -”
“Da una posizione statica a ottanta chilotri l’ora?” domanda l'Interprete di Rune Re-
centi. “Deve avergli procurato uno choc.”
“Già,” replica Ridcully, “ma immagino sia stata una benedizione per la piccola crea-

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tura che sia durato così poco.”
“E, naturalmente, dobbiamo essere tutti grati che non fosse Scuotivento.”
Un paio di maghi tossicchiano.
Il Decano indietreggia.
“Ma cos’è?”
“Cos’era,” lo corregge Ponder Stibbons.
“Potremmo dare un’occhiata al Bestiario,” propone Ridcully. “Non dovrebbe essere
difficile da trovare. Grigio. Piedi lunghi uncinati come le scarpe di un clown. Orec-
chie da coniglio. Coda lunga ed a punta. E, ovviamente, non sono molte le creature
larghe sei metri, spesse tre centimetri, fritte bruciacchiate e che tendono a restringersi
un po’ sul davanti.”
“Non vorrei gettare un’ombra sulla vicenda,” esordisce il Decano, “ma se non è
Scuotivento, allora lui dov’è?”
“Sono certo che il Signor Stibbons può spiegarci come mai i suoi calcoli erano sba-
gliati,” risponde Ridcully.
La bocca di Ponder si spalanca.
Poi risponde, quanto più acidamente gli riesce, “Probabilmente ho dimenticato di te-
nere in dovuto conto che ci sono tre angoli retti in un triangolo, non è vero? Ehm.
Proverò a rimettere le cose apposto, ma penso che in qualche modo una componente
trasversale si sia inserita in quel che avrebbe dovuto essere un trasferimento sortilegi-
co bidirezionale. Probabilmente si trovava più marcatamente sull’effettivo punto me-
diano, facendo si che un nodo supplementare sia comparso nei trasferimenti in un
punto equidistante agli altri due come predetto nella Terza Equazione di Flume, e se-
condo la legge di Turffe la distorsione potrebbe essersi stabilizzata in maniera tale da
creare tre punti distinti, ognuno recante un’approssimativamente identica massa una
delle quali in movimento attorno al triangolo. Non sono certo del perché la terza
massa è arrivata a così forte velocità, ma penso che la crescente velocità possa essere
stata causata dall’improvvisa creazione del nodo. Naturalmente, potrebbe essere che
si muoveva piuttosto veloce già prima. Ma non credo che fritta rappresenti la sua
condizione naturale.”

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“Sapete,” commenta Ridcully, “che credo di averne davvero capita una parte? Sicura-
mente alcune delle parole più corte.”
“Oh, è straordinariamente semplice,” interviene l’Economo brillantemente. “Noi ab-
biamo mandato… quel coso a forma di cane ad Hunghung. Scuotivento è stato spedi-
to da un’altra parte. E questa creatura è stata spedita qui. E’ proprio come in Spedi-
zioni in Consegna.”
“Vedete?” commenta Ridcully rivolgendosi a Stibbons. “Usate un linguaggio che
l’Economo riesce a capire. Ed ha passato l’intera mattina a caccia della rana essicca-
ta.”
Il Bibliotecario entra nella sala barcollando sotto il peso di un atlante enorme.
“Oook.”
“Almeno potrete farci vedere dove pensate che si trovi il nostro uomo,” spiega Rid-
cully.
Ponder prende un righello ed un paio di compassi dal cappello.
“Beh, se assumiamo per dato certo che Scuotivento si trovava nel mezzo del Conti-
nente Contrappeso,” dice, “allora tutto quello che dobbiamo fare è tracciare -”
“Oook!”
“Ve l’assicuro, stavo per usare una semplice matita -”
“Eeek.”
“Quello che dobbiamo fare è immaginare, bene, un terzo punto equidistante dagli al-
tri due… ehm… a me sembra un qualche posto sull’Oceano Circolare, o probabil-
mente oltre i Bordo.”
“Non ce la vedo quella cosa nel mare,” replica Ridcully, dando un’occhiata al cada-
vere laminato di recente.
“In tal caso, deve essere nella direzione opposta -”
I maghi gli si radunano intorno.
C’è un qualcosa.
“Non è neppure abbozzato come si deve,” osserva il Decano.
“Questo perché nessuno è sicuro che esista veramente,” spiega il Matematico Anzia-
no.

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Galleggia nel mezzo dell’oceano, un piccolo continente per gli standard di Mondodi-
sco.
““XXXX”,” legge Ponder.
L’hanno solo messo sulla mappa perché nessuno sa come si chiami davvero,” spiega
Ridcully.
“E noi l’abbiamo mandato laggiù,” replica Ponder. “Un posto che non siamo neppure
sicuri che esista?”
“Oh, adesso sappiamo che esiste,” risponde Ridcully. “Deve. Deve per forza. Inoltre
deve trattarsi di una terra piuttosto ricca, se i ratti crescendo diventano così grossi.”
“Vedrò se possiamo riport -” comincia Ponder.
“Oh, no,” lo interrompe Ridcully fermamente. “No, grazie davvero tante. La prossi-
ma volta potrebbe trattarsi di un elefante che sfreccia sibilante sulle nostre teste e
quei cosi fanno dei gran tonfi. No. Date a quel povero vecchio un po’ di tregua. Do-
vremo trovare un altro modo…”
Si sfrega le mani. “Ora di cena, sento,” dice.
“Uhm,” riflette il Matematico Anziano. “Pensate che sia stato saggio accendere la
corda quando abbiamo rimandato indietro quella cosa?”
“Certamente,” risponde Ridcully, mentre si avvia a grandi passi. “Nessuno potrà dire
che non l’abbiamo restitutito esattamente nello stato in cui è arrivato…”

Hex sogna dolcemente nella sua stanza.


I maghi hanno ragione. Hex non è in grado di pensare.
Non esistono parole, tuttavia, per descrivere quello che è in grado di fare.
Perfino Hex non sa cos’è in grado di fare.
Però intende scoprirlo.
La penna d’oca raschia e sbava la propria strada sopra un nuovo foglio di carta e di-
segna, senza nessuna buona ragione, un calendario dell’anno sormontato da
un’immagine alquanto triangolare di un bracchetto, che se ne sta sulle zampe poste-
riori.

319
La terra è rossa, proprio come ad Hunghung. Ma mentre quella è un genere di argilla
così fertile che lasciare una sedia sul prato significa che nottetempo cresceranno
quattro piccoli alberi, questa terra è di sabbia che pare essere diventata rossa per es-
sere stata cucinata da un’estate lunga un milione di anni.
Occasionalmente si trova qualche ciuffo d’erba ingiallito e dei boschetti di bassi al-
beri grigio verdi. Ma l’unica cosa che c’è dappertutto è il caldo.
Il che si nota specialmente nello stagno all’ombra degli spettrali alberi della gomma.
Fuma.
Una sagoma emerge dalle nuvole di vapore, staccandosi distrattamente dalla barba i
ciuffi bruciacchiati.
Scuotivento aspetta finché il suo personalissimo mondo non smette di vorticare e si
concentra sui quattro uomini che lo osservano.
Sono neri e con delle linee e delle spirali dipinte sul viso ed indossano, complessiva-
mente considerati, circa sessanta centimetri quadrati di stoffa.
Sono tre le ragioni per cui Scuotivento non è razzista. E’ finito in troppi posti troppo
improvvisamente per sviluppare una simile mentalità. Inoltre, se ci pensa un po’ so-
pra, la maggior parte delle cose davvero terrificanti che gli sono capitate gliele hanno
fatte delle persone decisamente pallide con dei fornitissimi guardaroba. Queste sono
due delle ragioni.
La terza è che questi uomini, i quali si stanno appena sollevando da una posizione
mezza accovacciata, hanno tutti la lancia puntata su Scuotivento e c’è qualcosa nella
vista di quattro lance che puntano diritte alla tua gola che produce infinito rispetto e
fa venire spontaneamente in mente la parola “signore”.
Uno degli uomini scrolla le spalle ed abbassa la lancia.
“B’giorno, tizio,” dice.
Il che significa solo tre lance, che è già un miglioramento.
“Ehm. Questa non è l’Università Invisibile, vero, signore?” domanda Scuotivento.
Le altre lance smettono di puntargli contro. Gli uomini sorridono. Hanno dei denti
davvero bianchi.
“Klatch? Howondaland? Sembra Howondaland,” suggerisce Scuotivento ottimista.

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“Non ci conosco i tizi, tizio,” risponde uno degli uomini.
Gli altri tre gli si raccolgono intorno.
“Come lo chiameremo?”
“Lui è Tizio Canguro. No dubbio. Un minuto è canguro, minuto dopo è tizio. I vecchi
tizi dicono che ‘ste cose capitano tutto il tempo, in Sogno.”
“Penso che lui sembra meglio di così.”
“Già.”
“Uno certo senso per dire.”
L’uomo che all’apparenza è il capo del gruppo avanza verso Scuotivento con il gene-
re di sorriso che si riserva agli imbecilli ed alle persone con una pistola, e tira fuori
un bastone.
E’ piatto ed ha una piega nel mezzo. Qualcuno ha passato parecchio tempo a farci dei
disegni piuttosto belli collegando dei piccoli punti di colore. In qualche modo, Scuo-
tivento non è affatto sorpreso di riconoscerci anche una farfalla.
I cacciatori lo guardano con l’aria di aspettarsi qualcosa.
“Ehm, si,” commenta. “Molto bello. Un lavoro fatto davvero bene, si. Un effetto
puntinismatico interessante. E’ un peccato che non siate riuscito a trovare un pezzo di
legno più dritto.”
Uno degli uomini posa la lancia e si piega e prende un lungo tubo di legno coperto
dagli stessi disegni. Ci soffia dentro.
Il risultato non è spiacevole. Suona come suonerebbero le api se avessero inventato
un’orchestrazione completa.
“Uhm,” dice Scuotivento. “Si.”
E’ un test, ovviamente. Gli hanno dato quel pezzo di legno ricurvo. Deve farci qual-
cosa. Chiaramente è molto importante. Forse -”
Oh, no. Dirà qualcosa o farà qualcosa, è sicuro, e allora loro diranno si, tu sei il
Grande Tizio o qualcosa di simile, e lo trascineranno via e sarà l’inizio di una nuova
Avventura, vale a dire di un periodo terrificante e sgradevole. La vita è piena di truc-
chi come questo.
Ebbene, stavolta Scuotivento non intende cascarci.

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“Voglio andare a casa,” dice. “Voglio tornare a casa alla Biblioteca dove è sereno e
tranquillo. E non so dove sono. E non m’importa cosa mi farete, d’accordo? Non in-
tendo avere alcun genere di avventura o cominciare a salvare il mondo un’altra volta
e non potete indurmi a farlo con l’inganno dandomi un misterioso pezzo di legno.”
Afferra il bastone e lo scaraventa lontano con tutta la forza cui ancora riesce ad ap-
pellarsi.
Lo guardano fisso mentre incrocia le braccia.
“Non sto scherzando,” continua. “Non mi muovo da qui.”
Continuano a fissarlo. E poi spalancano il sorriso a qualcosa alle sue spalle.
Comincia ad arrabbiarsi parecchio.
“Avete capito? Mi sentite?” chiede. “Questa è l’ultima volta che l’universo riesce ad
ingannare Scuotiv -”

-FINE-

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