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SIKELIA 2

Infatti, “dalla sconfitta di Sesto Pompeo alle incursioni


vandaliche, se si eccettua qualche sporadica occasione, in cui,
secondo gli studiosi moderni, è possibile che l’Isola sia stata
minacciata dalle ribellioni che interessarono o che potevano
interessare l’Africa Proconsolare, la Sicilia rimase, come osservava
Cassio Dione agli inizi del III secolo d. C., una provincia ‘pacifica’,
al punto che le cinte murarie cittadine (esclusa quella di Siracusa)
non sembrano aver subito interventi ricostruttivi fino al secolo V d.
C. ”27 Inoltre, le truppe germaniche mancavano di una vera e
propria tradizione di addestramento al tiro con l’arco. Questa
debolezza strutturale, secondo Procopio, costò loro la guerra e il
regno d’Italia.
“Alla metà del VI secolo, quindi, pur se parte della costa
meridionale della Spagna e della Francia rimane sotto il controllo dei
regni germanici, la possibilità di controllare le Baleari, la Corsica, la
Sardegna e la costa sud della Spagna, soggiogando nuovamente
l’antica nemica Cartagine, ha ormai restituito il Mediterraneo al
controllo imperiale.”28

IL SIGNIFICATO DELLA SPEDIZIONE DI COSTANTE II29

Della spedizione in Italia e della successiva permanenza a


Siracusa dell’imperatore monotelita Konstantinos Pogònatos (ovvero
il Barbuto), detto Costante, ho già parlato nel mio primo libro. Sono
state date di volta in volta interpretazioni diverse e spesso
contrastanti dei fatti e molte questioni restano ancora aperte.
Tuttavia, finché non saranno scoperte altre fonti documentarie,
indipendenti da quelle già note, probabilmente non si potrà chiarire
in modo veramente definitivo e soddisfacente quali furono le ragioni
che indussero Costante a partire per l’Italia seguendo quel
determinato itinerario, né si potrà stabilire con certezza assoluta il
motivo per il quale fu assassinato.

27 C. Soraci, La Sicilia romana. Secc. III a. C. -V d. C., 2016, p. 130.


28 F. Tiboni, Dal Mare Nostrum alle repubbliche marinare, 2018, p. 278.
29 Cfr. R. Maisano, La spedizione italiana dell’imperatore Costante II, 1975.

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Riassumiamo brevemente i fatti salienti: nel ventesimo anno


del suo regno, cioè nel 660-661, questo imperatore lasciò
Costantinopoli via mare e dopo due tappe a Tessalonica e ad Atene,
approdò a Taranto all’inizio del 663. Giunto sotto le mura di
Benevento, governata dal giovane duca Romualdo, figlio di
Grimoaldo, re dei Longobardi, Costante cinse d’assedio la città.
Romualdo chiese di venire a patti, forse nella speranza di
guadagnare tempo fino all’arrivo del padre da nord con un esercito
di rinforzo e Costante acconsentì a togliere l’assedio, dopo aver
ottenuto in ostaggio Gisa, sorella del duca.
Il 5 luglio, l’imperatore giunse a Roma, dove fu ricevuto dal
pontefice Vitaliano, dal clero e dal popolo; appena entrato in città, si
recò in pellegrinaggio a San Pietro. Nei giorni successivi visitò le
principali basiliche romane offrendo doni sugli altari, mentre i suoi
uomini spogliavano la città di tutto il bronzo disponibile. Il 17 luglio
ripartì per Napoli, poi scese a Reggio Calabria. Sembra fra l’altro che
sia dovuta a lui la creazione del Ducato di Calabria, che era una
dipendenza del tema di Sicilia: quando non ci fu più esarca in Italia,
il patrizio di Sicilia divenne il più alto funzionario bizantino
d’Occidente. Ma anche prima che Ravenna e Roma fossero perdute,
Siracusa era la vera capitale di tutti i possedimenti bizantini nell’Italia
Meridionale.
Alla corte di Bisanzio, dall’epoca di Costante II, ci si abituò
a considerare la Sicilia e la Calabria come un’unica regione; i due
termini erano costantemente associati dagli storici del tempo; sotto
Costante II, come sotto Leone III, primo imperatore iconoclasta, le
medesime imposte straordinarie colpirono il tema di Sicilia e il
ducato vicino.30
Sul finire del 663, Costante attraversò lo stretto di Messina e
giunse a Siracusa: “in questo porto privilegiato stabilì il suo quartiere
generale con l’intenzione di organizzare la difesa dei possedimenti
occidentali dell’Impero che vedevano da vicino la minaccia
dell’Islam. A partire da questo momento Siracusa si convertì nella
capitale effettiva dell’Impero provocando scandalo e polemica nella
corte costantinopolitana, la quale si oppose alla cristallizzazione
30 J. Gay, op. cit., pp. 6-7.

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definitiva di questa translatio imperii impedendo il viaggio della


famiglia imperiale in Italia a causa del carico simbolico che tale gesto
comportava. D’altra parte, il presunto soggiorno permanente
dell’imperatore in Occidente allarmò le monarchie vicine, che
temevano un conseguente aumento della influenza bizantina nella
regione.”31
Tre anni dopo, per esattezza il 10 marzo, l’imperatore
decretò l’autocefalia di Ravenna da Roma come ricompensa per non
aver preso parte al concilio romano indetto da papa Martino nel
649, per la lealtà del suo vescovo Mauro durante la ribellione
dell’esarca Olimpio e per il sussidio alle campagne imperiali con le
risorse economiche che la Chiesa di Ravenna possedeva in Sicilia.
Il 15 luglio (o il 15 settembre) del 668, Costante fu ucciso
dal cortigiano Andrea, figlio di Troilo, il quale gli versò sul capo
acqua calda e sapone mentre si trovava in una vasca dei bagni di
Dafne e poi, approfittando della momentanea cecità, lo colpì sulla
testa con un vaso di bronzo. Caduto nell’acqua privo di sensi,
l’imperatore affogò, mentre l’omicida si allontanava indisturbato. I
cortigiani e i capi dell’esercito siciliano misero sul trono l’ufficiale
armeno Mezezio, tuttavia, l’usurpatore non trovò il sostegno che si
aspettava. Dopo la morte dell’imperatore, gli eserciti di stanza in
Italia e in Sardegna si rifiutarono di obbedirgli e marciarono su
Siracusa; la flotta, inviata da Costantino IV Pogònato, figlio di
Costante e suo legittimo successore, ebbe ragione degli insorti, che
furono condotti nella capitale e giustiziati.
La fonte occidentale più importante che riferisce questi
avvenimenti è il capitolo del Liber Pontificalis, contenente la vita del
pontefice Vitaliano (657-672), la cui gran parte è dedicata ai rapporti
tra Vitaliano e Costante e alla vicenda italiana di quest’ultimo.
Sembra che il Papa, appena eletto, abbia voluto creare da subito un
rapporto nuovo con Costantinopoli, inviando diplomatici alla corte
per annunciare la sua elezione in segno del confermato
riconoscimento della subordinazione di Roma a Bisanzio. In questa
prospettiva è indicativo il fatto che Costante, che era un eretico
monotelita e suo figlio Costantino fossero definiti piissimos principes.
31 R. Zapata Rodriguez, Italia bizantina, 2006, p. 28.

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È evidente che il compilatore del Liber pontificalis qui si sia


servito di una fonte favorevole all’imperatore, come pure nel
resoconto della spedizione in territorio italiano in cui non si dà
notizia delle devastazioni compiute da Costante e i Longobardi non
sono neppure nominati. La requisizione degli oggetti di bronzo e la
spoliazione della cupola del Pantheon non sono taciute, ma nessuna
parola di critica è aggiunta dal compilatore. Dopo poche notizie
sulla sottrazione di arredi sacri ai danni delle chiese dell’Italia
meridionale, segue il laconico accenno alla morte violenta di
Costante nel bagno di Dafne. Le informazioni tramandate dal Liber
pontificalis sono una fonte attendibile, ma ovviamente riportano le
opinioni del papato: il giudizio è positivo quando si parla del
rapporto di sottomissione e reciproca stima del pontefice Vitaliano
con la corte di Costantinopoli e della venuta a Roma di Costante II,
mentre la sua partenza da Roma e il soggiorno in Sicilia sono visti
come un vero flagello per la Chiesa e per il popolo.
Al Liber pontificalis si rifà Paolo Diacono per la sua Historia
Langobardorum: fra i due testi, infatti, ci sono poche differenze che
consistono solo in sue considerazioni e illazioni. Proprio in uno di
tali ampliamenti personali è contenuta l’affermazione, che si è
tramandata fino agli studi degli autori moderni, che l’imperatore
partisse da Costantinopoli desideroso di liberare l’Italia dai
Longobardi. L’inciso compare solo in Paolo Diacono, quindi è
evidentemente una sua opinione. E comunque quest’opera riporta i
fatti visti secondo la prospettiva dei Longobardi.
Fino a qui ciò che hanno tramandato le fonti occidentali. Le
fonti orientali mostrano invece divergenze con le prime, dovute alla
diversità dei punti di vista. Il capostipite di tutti i cronisti bizantini
che si sono occupati della spedizione italiana di Costante è
certamente Teofane che narra la vicenda in due riprese. La prima
volta ricorda in poche righe che l’imperatore lasciò la capitale con
l’intenzione di trasferire a Roma la sede del governo e che, giunto a
Siracusa, mandò invano a chiamare la moglie e i figli, alla partenza
dei quali i costantinopolitani si opposero. La seconda volta, invece,
dopo aver riferito che Costante fu ucciso a tradimento nel bagno di
Dafne nel ventisettesimo anno del suo regno, si sofferma a

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descrivere l’antefatto. L’imperatore aveva lasciato Costantinopoli per


l’odio dei concittadini e per paura. Aveva tentato di condurre con sé
la moglie e i figli, ma due cortigiani si erano opposti.
Dopo aver trascorso sei anni in Sicilia, un tale Andrea, figlio
di Troilo, lo aveva assassinato; infine, nonostante l’opposizione
dell’interessato, i cortigiani elessero imperatore Mezezio, un armeno
“di bell’aspetto”. Teofane attinge molto probabilmente a fonti
diverse, come sembra suggerire l’accenno ripetuto due volte
all’opposizione costantinopolitana alla partenza dei familiari
dell’imperatore, con la notevole differenza che nel primo brano
l’opposizione è attribuita al popolo, nel secondo ad alcuni cortigiani.
In ogni caso le fonti ignorano completamente la spedizione militare
di Costante contro i Longobardi e la sua tappa a Roma.
Una spia importante dell’entità dei silenzi di Teofane è data
dal fatto che nella sua cronaca non fa cenno all’esistenza di un
complotto ai danni di Costante, ma poco più avanti afferma, senza
dare spiegazioni, che Mezezio fu ucciso dagli emissari del legittimo
imperatore “insieme agli altri assassini”. Teofane è animato da
sentimenti di avversione personale nei confronti dell’imperatore
eretico e persecutore della Chiesa ed è in questa prospettiva che
bisogna comprendere l’enfasi da lui posta sul fatto che Costante
intendeva trasferire l’impero in Occidente e viceversa, il suo silenzio
intorno al viaggio a Roma e allo scontro con i Longobardi. Preme,
infatti, al cronista rendere evidente soprattutto il sentimento di astio
della corte e della Chiesa bizantina verso Costante, per cui avrebbe
troppo nociuto a questa ricostruzione anche solo accennare alla
campagna contro i Longobardi, la conoscenza della quale avrebbe
inevitabilmente ridato vigore alle nostalgie espansionistiche di
Costantinopoli nei confronti dell’Italia.
Da Teofane derivano direttamente o indirettamente tutte le
altre fonti orientali. Molti altri cronisti bizantini considerano inoltre
essenziale far notare che Costante intendeva abbandonare
definitivamente Costantinopoli per trasferire la capitale a Roma.
Vista la faziosità dei documenti sia occidentali sia orientali,
si può prendere in esame un ristretto gruppo di testimonianze che
contribuiscono a chiarire alcuni punti oscuri e soprattutto,

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determinati atteggiamenti rilevati nelle fonti letterarie. Il documento


senza dubbio più discusso e più discutibile è la cosiddetta “Prima
lettera di Gregorio II a Leone Isaurico”, traduzione in greco di un
originale latino, la prova della diretta partecipazione del clero
siciliano al complotto. Se ne può ricavare l’indicazione che i vescovi
siciliani non furono probabilmente complici diretti dell’assassinio,
ma certamente contribuirono a ricreare intorno alla figura
dell’imperatore la fama di eretico, che Costante stesso negli anni
precedenti aveva cercato di mettere in ombra, nel tentativo di
ristabilire, come abbiamo già visto, relazioni amichevoli col papato e
con i sudditi bizantini d’Italia. I congiurati non ebbero sicuramente
bisogno della connivenza ecclesiastica, ma certo trassero vantaggio
dalla fama che si era creata intorno all’imperatore per opera del
clero, per agire con maggiore sicurezza. È prova di ciò il fatto che la
reazione al loro delitto giunse non dalla Chiesa né dal popolo
siciliano, ma dal continente.
La seconda fonte è un’epigrafe giudaica trovata a Venosa, in
Basilicata, nella quale, tra gli officianti presenti al funerale di una
fanciulla ebrea di nome Faustina, sono citati due rabbini e due
apostoli. Questi erano esponenti delle più alte gerarchie ecclesiastiche
nell’esilarcato ebraico babilonese: essi collaborarono con gli Arabi in
più di un’occasione, favorendone l’espansione e contribuendo con le
proprie infiltrazioni allo sgretolamento della resistenza bizantina.32
La loro presenza in Lucania nel VII secolo giustifica
ampiamente le preoccupazioni sia di Costante II sia del Pontefice.
Infatti, la parte avuta dagli apostoli dell’esilarcato nell’invasione araba
della Spagna è stata ampiamente dimostrata. Questa fonte getta una
luce notevole sul piano di Costante e di papa Vitaliano. Il pericolo
longobardo e arabo era reso più concreto dall’esistenza di un solido
tramite tra le due forze e questo tramite era rappresentato appunto
dalle colonie di rifugiati ebraici esistenti ai confini meridionali del
ducato. L’imperatore, dopo lo sbarco a Taranto, seguì un itinerario
tortuoso prima di giungere sotto le mura di Benevento. Le
testimonianze epigrafiche, numismatiche e archeologiche mostrano
32Sul fatto che gli ebrei sentissero di avere maggiore affinità con gli Arabi piuttosto che
con i cristiani, torneremo più avanti (vd. § Gli ebrei nella Sicilia tardoantica e bizantina).

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che la penetrazione longobarda nelle zone percorse da Costante fu


trascurabile; per cui, se il nemico da battere fosse stato solo il
longobardo, certamente i Bizantini non si sarebbero soffermati a
colpire con tanta violenza i villaggi della Lucania e della Puglia. Tra
le fonti documentarie da considerare, c’è anche una lunga iscrizione
greca, trovata a Porto Torres, in Sardegna, che è stata oggetto di vari
studi.33
In questa epigrafe, scritta in onore di Costantino IV
Pogònato, figlio e successore di Costante II, è contenuto un
importante accenno a un tentativo d’invasione della Sardegna da
parte dei Longobardi e degli ‘altri barbari’. Con queste parole, sono
indicati con molta probabilità gli Arabi, il che conferma l’esistenza di
un’alleanza di fatto tra questi e i Longobardi, giustificando in tal
modo l’impresa di Costante e i timori di Vitaliano, che vedeva ormai
Roma e i resti dell’Italia bizantina circondati e minacciati da ogni
parte.
Infine, alcuni sigilli rinvenuti in Sicilia ci vengono in aiuto
per fornire nuove e alternative interpretazioni dei fatti rispetto a
quelli tramandati dai documenti scritti, ma ne parlerò in dettaglio
nell’ultimo capitolo.
In conclusione, un elemento ricorrente a proposito di
ognuna delle fonti considerate è la matrice religiosa, che, in varia
misura, condiziona sia la visione politica sia quella psicologica dei

33 Lungo la parete della navata destra nella Basilica di San Gavino, si conserva un grande
blocco di marmo, che era uno stipite di porta di un edificio romano, reimpiegato come
architrave in una modesta chiesa bizantina, ubicata non lontano dalla stazione
ferroviaria. Al centro c’è una croce, simbolo del trionfo contro gli infedeli, dal cui
braccio orizzontale pendono le lettere a e w (alfa e omega). L’iscrizione bizantina consta
di sette righe la cui traduzione, data dal Motzo, è la seguente: Vinca la fortuna del re e dei
Romani. Te, unico trionfatore, di tutta la terra abitata Signore, distruttore dei nemici Longobardi e
degli altri barbari (riconosciamo). Per terra e per mare era travagliato lo Stato, quando le navi e le armi
dei Barbari mossero sui Romani. Ma tu, Costantino, con la saggezza del tuo comando armatoti contro,
dimostrasti allora ai sudditi il divin verbo che rasserena il mondo. Perciò della vittoria i simboli offre, di
tutta la terra abitata al Signore, Costantino il molto lodato console e duca, (per) la rovina dei tiranni
Longobardi e degli altri Barbari armatisi per asservire questa a Te fedele isola dei Sardi. La data
esatta dell’iscrizione e della guerra cui si riferisce non trova concordi gli studiosi.
Dovrebbe orientativamente appartenere alla seconda metà del VII secolo. Da A.
Mastino, C. Vismara, Turris Libisonis, 1994, pp. 68-69. Cfr. anche L. Pani Ermini, Ancora
sull’iscrizione bizantina di Turris Libisonis, 1989.

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singoli autori. Costante è stato quindi considerato sempre in primo


luogo un eretico e un persecutore e in secondo luogo un vessatore
di sudditi, a causa delle tassazioni da lui imposte alle popolazioni
bizantine dell’Italia meridionale, compresi i possedimenti
ecclesiastici.
Un fatto che non sarà mai messo abbastanza in rilievo è
appunto quello fiscale. “L’imperatore intraprese una serie di riforme
fiscali e militari, destinate a mobilitare tutte le risorse finanziarie e
umane possibili per la guerra. Ciò può spiegare la revisione catastale,
l’incremento delle tasse sul traffico marittimo e l’aumento delle
imposte personali, tasse che si ripercossero pesantemente
sull’economia italiana e sollevarono un tale risentimento fra i
contemporanei che rimase riflesso nelle cronache dell’epoca.”34
Inoltre, il principale contribuente dell’imperatore, in Sicilia come sul
continente, era proprio il pontefice.
Il patrimonium Sancti Petri, specialmente dopo il pontificato di
Gregorio Magno, era ben organizzato e aveva un’estensione più che
rispettabile. L’invasione longobarda aveva ridotto in parte
l’ampiezza di questo patrimonio, ma la zona più ricca era certamente
la Sicilia, dove i possedimenti erano così vasti da essere divisi in due
circoscrizioni amministrative: il patrimonium in partibus Panormitanis a
occidente, e il patrimonium in partibus Syracusanis a oriente. Nel cuore
di quest’ultima circoscrizione, che comprendeva anche i territori di
Agrigento, Catania e Messina, si era insediato l’imperatore col suo
esercito e la sua corte. Non è dunque difficile comprendere quale sia
stata, insieme alla Chiesa di Ravenna, la vittima più illustre della
pressione fiscale, né è difficile rendersi conto delle preoccupazioni
del pontefice di fronte al pericolo arabo e del suo ripensamento
dopo cinque anni di governo imperiale diretto sull’Isola.
Per questi motivi non deve meravigliare il risalto negativo
che è stato dato a Costante dalle fonti, né il silenzio sui successi da
lui conseguiti. Ma la notizia di questi ci giunge per altra via. Fin
quando visse Costante II, il pericolo arabo rimase lontano, anzi egli
riuscì per un certo periodo a riconquistare una parte dei territori
africani.
34 R. Zapata Rodriguez, op. cit., p. 28.

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Dal Liber Pontificalis, inoltre, sappiamo dell’esistenza di un


exercitus Africae, attivo nel 663 e quindi sicuramente riorganizzato da
lui. Contro il califfo Muʿāwiya, infine, che fece un’incursione in
Africa nel 665 per cercare di approfittare del malcontento diffuso tra
i sudditi bizantini, mandò un contingente guidato dal patrizio
Niceforo e nello stesso anno inviò un’altra armata dalla Sicilia a
soccorrere l’esarcato di Ravenna.
Naturalmente il programma di Costante aveva radici
lontane. Già Maurizio e dopo di lui, Eraclio avevano compreso
l’importanza di un impegno personale e diretto in Occidente, se si
voleva salvaguardare l’Oriente e già nella mente di costoro si era
affacciata l’idea di trasferire in Occidente, almeno per un certo
periodo, la sede del governo. Costante, dopo aver sottomesso con
una vittoriosa campagna gli Slavi, stanziatisi in Macedonia nel 657 e
dopo aver stipulato con il califfo una tregua vantaggiosa in Africa,
realizzò questo progetto e attirò su di sé l’odio duraturo delle alte
gerarchie religiose e laiche di Costantinopoli, come si comprende
dalle tracce rimaste anche nelle cronache bizantine assai posteriori
agli avvenimenti.
Gli studiosi moderni sono quindi concordi nell’indicare
come causa principale della congiura, che portò a suo assassinio,
l’esasperazione provocata nei sudditi dalle eccessive tassazioni. C’è
sicuramente del vero in questa interpretazione, tuttavia, poiché
conosciamo con esattezza i nomi e le cariche di molti congiurati,
tutti appartenenti alla corte, diventa strano che proprio l’esercito e i
cortigiani, mantenuti grazie a questo regime fiscale, si
pronunciassero contro chi li favoriva.
Inoltre, l’usurpatore Mezezio, proclamato imperatore subito
dopo l’assassinio di Costante, era comes Obsequii, cioè medico di corte
a Costantinopoli e apparteneva alla nobile famiglia armena degli
Gnunidi: era stato quindi a contatto, per la sua origine, per la sua
carica e per la stirpe dei soldati ai suoi ordini, col mondo islamico
che in quel periodo si espandeva in Oriente.
A partire dal 640 gli Arabi, prima con scorrerie isolate, poi
con spedizioni militari vere e proprie, erano penetrati nella regione,
conquistandosi l’appoggio della popolazione indigena e di alcuni

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maggiorenti. Costante dovette promuovere un’intensa attività


diplomatica, ma non riuscì mai a riconquistare il favore perduto.
Anzi, secondo quanto narra Teofane, nell’anno 667, poco prima
della congiura siracusana, lo stratega del tema degli Armeniaci,
Saburro Persogene, padrone del territorio confinante con gli Arabi e
con i loro alleati armeni, cercò l’appoggio del califfo Muʿāwiya per
proclamarsi egli stesso imperatore e a tale scopo, inviò ambasciatori
a Damasco.
L’invio a Muʿāwiya di legati imperiali da Siracusa impedì la
riuscita di questo progetto, ma la notizia è sufficiente per
comprendere fino a che punto fosse equivoca la posizione degli
Armeni e come possa essere indicativa la nazionalità dell’usurpatore
per cercare di ricostruire il retroscena del complotto. In secondo
luogo, dobbiamo ricordare che la politica fiscale, assai prima che in
Sicilia, aveva provocato malcontento e sommosse in Africa,
soprattutto a Cartagine e che la ‘gestione’ del malcontento popolare
era stata subito assunta dagli Arabi, che ne avevano approfittato per
apparire alle popolazioni indigene come dei veri liberatori,
ottenendo facili successi a danno di guarnigioni bizantine ormai
isolate e malviste. In terzo luogo, infine, ricordiamo che gli eserciti
istriano, sardo e campano, che non erano di stanza in Sicilia, cioè le
forze militari estranee a contatti e influssi arabi, subito dopo la
notizia del colpo di stato siracusano, si mossero da tutte le parti
contro i loro colleghi, prima ancora di avere l’ordine dalla lontana
Costantinopoli.
L’insieme di questi dati induce a pensare che l’elemento che
favorì la congiura non poté essere costituito che dagli Arabi. Questi,
nella speranza di essere agevolati anche in questa circostanza dal
malcontento popolare e dagli odi religiosi, tentarono in Sicilia ciò
che era riuscito loro molte volte altrove. D’altronde le loro mire
espansionistiche dovevano essersi appuntate sulla Sicilia già da
molto tempo, poiché fin dal 641 erano sbarcati a Messina.
L’espansione islamica non poteva fare a meno di servirsi
delle infiltrazioni e della propaganda clandestina per creare discordie
e disordini nel campo avversario, come nel caso dell’alleanza con le
colonie ebraiche nella Spagna visigota e probabilmente in Lucania;

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ed è lecito sostenere che perfino nelle ambizioni autonomistiche


dell’esarca Olimpio l’elemento arabo giocò un ruolo decisivo.
La prontezza con cui le forze militari d’Italia si mossero
contro l’usurpatore è una riprova indiretta ma assai indicativa di che
cosa rappresentasse l’ambiguo pronunciamento siracusano agli occhi
di tutta l’Italia bizantina e del Pontefice che chiamò tali eserciti a
raccolta: una porta aperta all’invasione araba della Sicilia e della
Penisola. Quando giunse da Costantinopoli la flotta mandata dal
legittimo successore Costantino IV, il gioco era in pratica già
concluso ed era stato risolto dagli occidentali stessi, preoccupati per
la propria sicurezza. A Costantino non restò che esprimere la
propria gratitudine al Papa.
Come evidenziato da Sardella, “Siracusa venne attratta nella
geopolitica degli imperatori bizantini anche per ragioni economiche
e culturali. L’evoluzione demografica modifica la struttura urbana
delle città siciliane e di Siracusa in particolare, nel cui porto si
incrociava un fiorente commercio internazionale gestito dai vescovi,
proprietari fondiari e armatori di flotte, ma anche da greci, siriani ed
ebrei. Così, insieme alla dislocazione geografica anche la situazione
economica garantiva mezzi e risorse tali da suggerire all’imperatore
Costante di scegliere Siracusa capitale dell’impero nell’ambito di un
disegno politico complesso: arginare la minaccia musulmana,
strappare ai longobardi l’Italia in loro possesso, sostenere la sua
politica antipapale. Troppi nemici, forse, perché il disegno
riuscisse.”35

ORGANIZZAZIONE TEMATICA, INCURSIONI ARABE,


FORTIFICAZIONI

Con la caduta definitiva della capitale dell’esarcato d’Africa,


avendo l’espansione islamica abbracciato a grandi linee tutto il
Maghreb, gli Arabi poterono piombare in Sicilia con più prepotenza
nel 673. Questa seconda incursione araba prese di mira addirittura la
capitale, Siracusa, che doveva essere ancora circondata dalle mura
35 T. Sardella, Storia mondiale della Sicilia, cit., pp. 179-180.

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