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Conservatorio Statale di Musica “Girolamo Frescobaldi” Ferrara

Ministero dell’Università e della Ricerca

Alta Formazione Artistica e Musicale

Diploma accademico di I livello

Triennio jazz ordinamentale

Corso di Chitarra

Analisi e didattica attraverso il solismo di Jim Hall

Un percorso esplorativo attraverso le caratteristiche del solismo di Jim Hall alla


ricerca di quelle che sono state le maggiori influenze per il suo stile chitarristico,
individuando spunti didattici che portino allo sviluppo di una maggior
consapevolezza sullo strumento

Relatore presentata da
Antonio Cavicchi Davide Tardozzi

Sessione I

Anno accademico

2011/2012
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INDICE

- Introduzione….……………………………………………………… 2
- Premessa..……………………………………………………………. 9

- Capitolo 1, LA CURA DEL SUONO

False Fingerings e ricerca del colore............................................ 10

Il Legato..................................................................................... 17
Analisi del solo su Waltz New……………………………………… 21

- Capitolo 2, COERENZA NARRATIVA


- Lo sviluppo di un’idea……………………………………………… 29
Analisi del solo su Interplay ………………………………………… 34

- Capitolo 3, L’INFLUENZA PIANISTICA


- Il supporto armonico ………………………………………………….46
- Analisi del solo su Petite Belle……………………………………….50

- Conclusioni…………………………………………………………….55
- Bibliografia; Ringraziamenti……………………………………….57

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INTRODUZIONE

Il chitarrista jazz che si accinge a prendere in mano lo strumento per la


prima volta deve sapere che, paradossalmente parlando, è già in debito: è
infatti in debito verso Django Reinhardt prima di tutto, ma forse ancora di
più verso Charlie Christian: è con lui infatti che la storia vede la vera
affermazione della chitarra elettrica come strumento solista. Nato a
Bonham, in Texas, il 29 Luglio 1916 e approdato in giovanissima età al
cospetto di Benny Goodman, è riuscito a dirottare la chitarra dalle retrovie
orchestrali al centro della scena, conferendole un ruolo di indubbio
spessore, laddove era relegata unicamente a scopi ritmici (Freddie Green
ne è un esempio lampante). La breve vita di Charlie Christian, morto
neppure ventiseienne nel 1942, ha segnato in modo talmente profondo la
musica a venire che, parlando di lui, si fa fatica a capire se “abbia avuto
maggiore importanza per l’evoluzione dello stile chitarristico o per quella
della musica jazz”.
Sarebbe infatti nato in quegli anni il bebop, il movimento considerato di
rottura per eccellenza all’interno della storia jazzistica, movimento che
volta (almeno apparentemente) la faccia con disprezzo alle orchestre
swing, capitanato su tutti da Charlie Parker e Dizzy Gillespie. La realtà dei
fatti vuole però che lo stesso Parker, per sua ammissione, fosse stato
influenzato da Charlie Christian che, nonostante l’evidente proiezione del
suo pensiero verso il futuro, rimaneva comunque con i piedi ben radicati
dentro le orchestre swing e poco aveva a che vedere con il filo di pensiero
dei boppers.
Christian, primo vero ambasciatore della chitarra elettrica (scrisse
addirittura un articolo sulla rivista Downbeat nel dicembre del 1939, una
sorta di “dichiarazione di guerra” rivolta agli strumenti a fiato, perché
prendessero coscienza delle nuove frontiere che si aprivano alla chitarra
grazie alle possibilità di amplificazione), creò una vera e propria
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discendenza multidirezionale: dal jazz al blues fino al rock, l’opera di C.
fu assimilata e rimase alla base di tutti i chitarristi (e non) a venire. Nella
scena del chitarrismo jazz in particolare, ognuno deve qualcosa a C. : chi
ne ha assimilato il linguaggio di matrice blues in maniera più diretta (Wes
Montgomery), chi magari è passato attraverso i boppers (Tal Farlow,
Jimmy Raney).
Obiettivo di questa tesi è concentrare l’attenzione su un chitarrista in
particolare, il cui debito verso Charlie Christian è troppo evidente per
permettermi di non citarlo in questa introduzione: il mio lavoro andrà a
interrogare il solismo di Jim Hall mettendone in luce le caratteristiche
principali ed esaltandone gli spunti didattici per chi, come me, sta
affrontando, non senza difficoltà, lo studio della chitarra jazz.

Breve biografia e parziale discografia


James Stanley Hall nasce a Buffalo nel 1930; entrato in contatto con la
sfera musicale in giovanissima età grazie alla madre pianista, riceve a
dieci anni la prima chitarra e comincia i suoi studi. In quel periodo viene a
conoscenza di Charlie Christian e ne rimane fortemente impressionato,
decidendo di voler dedicare la sua vita alla musica.
Trasferitosi a Los Angeles, studia chitarra classica con Vicente Gomez, ed
è proprio lì che viene raccomandato a Chico Hamilton per il suo quintetto,
in cui milita per un anno e mezzo, dopodichè entra a far parte del Giuffre
Three. È il 1957, e con l’entrata nel trio di Jimmy Giuffre comincia quella
che sarebbe stata una delle esperienze più formative per il suo stile
chitarristico.
Il trio vive un primo periodo con un contrabbasso come terzo elemento
(Pena, Atlas), poi sostituito dal trombone (Brookmeyer). Inoltre quell’anno
vede anche l’uscita di Jazz Guitar (Pacific Jazz, 1957), il primo disco a

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suo nome, registrato in trio con Carl Perkins al piano e Red Mitchell al
contrabbasso.
Lascia poi la formazione per andare in tour con Yves Montand e Ella
Fitzgerald, ma, arrivato in Sud America e venuto a contatto con i ritmi
locali, ne rimane incuriosito a tal punto che decide di rimanere sei
settimane a Rio de Janeiro, assimilando la neo nascente Bossa Nova e
riportandola successivamente negli Stati Uniti, come possiamo sentire
dalle collaborazioni dei primi anni 60 con Sonny Rollins (What’s new?,
Victor 1962, considerato il primo disco jazz con evidenti contaminazioni
latinoamericane) e Paul Desmond (Take Ten, Victor 1963 e Bossa Antigua,
Victor 1964).

Dagli anni 60 la figura di Jim Hall è attivissima e comincia ad affermarsi a


livello internazionale. è il periodo della prolifica collaborazione con Bill
Evans (dallo storico Undercurrent, United Artists 1962, registrato in duo,
passando per Interplay, Riverside 1962, Loose Blues, Milestone 1962, per
arrivare infine a un altro disco in duo, Intermodulation, Verve 1966), del
sopracitato incontro con Sonny Rollins (come non citare The Bridge,
Bluebird/RCA 1962) delle numerose registrazioni con il trio di Art Farmer
(Steve Swallow, Pete La Roca). Collabora e registra anche con artisti del
calibro di Gerry Mulligan, Quincy Jones e Herbie Hanckock.

Gli anni 70 vedono un ritorno alla formazione in “duo”, non nuova a Jim
Hall, questa volta però con il contrabbassista Ron Carter (Alone Together,
Milestone 1972, collaborazione dall’esito tutt’altro che negativo,
riconfermata da due successivi dischi, Telephone (Concord 1985) e Live at
the Village West, Concord 1995). Nel 1975 escono sia Concierto (CTI),
registrato con Ron Carter, Chet Baker, Paul Desmond, Roland Hanna e

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Steve Gadd (contenente una parte dedicata all’adagio del “Concierto de
Aranjuez”, riarrangiato da Don Sebesky), che il disco in trio Jim Hall
Live! (Verve) con Terry Clarke e Don Thompson. Il trio verrà poi ampliato
da due elementi (Art Farmer e Tommy Flanagan) che collaboreranno
l’anno successivo alla registrazione del disco Commitment (A&M 1976).
Con Clarke e Thompson registrerà altri due dischi durante un tour in
Giappone: Live in Tokyo (Paddle Wheel, 1976) e Jazz impressions of
Japan, che contiene unicamente composizioni originali.

Gli anni 80 vengono ricordati soprattutto per il disco live Power of Three
(Blue Note) disco a nome di Michel Petrucciani registrato con Hall e
Wayne Shorter al Montreux Jazz Festival nel 1986, ma vedono comunque
un Jim Hall attivo e propositivo: dall’ormai affermato sodalizio Hall -
Clarke - Thompson nasce infatti Circles (Concord 1981), con Ron Carter
registra il sopracitato Telephone , mentre in Jim Hall’s Three (Concord
1986), registra con Steve La Spina e Akira Tana.

In By arrangement (Telarc, 1998) Jim Hall fa emergere il suo lato di


arrangiatore; questo disco, nella sua eterogeneità (si va infatti da intere
sezioni di fiati a duetti chitarra - viola), vede la partecipazione di molti
musicisti, tra cui il chitarrista Pat Metheny, con cui registrerà l’anno
successivo il disco Jim Hall & Pat Metheny (Telarc 1999).

Dalla sterminata discografia di Jim Hall nominerò ancora tre dischi: i più
recenti Duologues (Cam Jaz 2004), un altro disco in duo, come si può
evincere dal titolo, un ritorno alla formazione piano-chitarra, registrato
con il pianista Enrico Pieranunzi; Hemispheres (ArtistShare 2008) disco in
trio con la partecipazione di Bill Frisell, e Conversations (ArtistShare
2010) registrato in duo col batterista Joey Baron.

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Un’incredibile figura quella di Jim Hall, vera pietra miliare nello scenario
della chitarra jazz, in continua ricerca e rinnovamento, un anello di
congiunzione tra tradizione e modernità che, nel corso dei quasi 60 anni di
carriera ha saputo muoversi tra le più varie situazioni portando avanti quel
processo, iniziato da Charlie Christian, di affermazione della chitarra in
veste di strumento solista nello scenario jazz.
Ma non è solo questo: la pesante quanto inevitabile eredità di C. è
cresciuta e si è evoluta anche con Jim Hall, prendendone l’impronta
inconfondibile, rifinendosi e modernizzandosi con gli anni, senza tuttavia
perdere la propria identità. Pat Metheny dirà, parlando di Hall: “Secondo
me Jim è il padre della chitarra jazz in chiave moderna, è stato lui a
inventare una concezione che ha permesso alla chitarra di essere
funzionale all’interno di molte situazioni musicali che non erano nemmeno
prese in considerazione come possibili prima della sua nascita come
musicista. Jim trascende lo strumento.”
Hall è quindi padre della chitarra jazz moderna, senza aver mai voltato le
spalle alla tradizione e alla discendenza christianiana, in quanto egli stesso
ama parlare del suo suono come “una combinazione di Charlie Christian e
di una chitarra classica”. Ed è stata proprio l’improvvisazione del giovane
texano su Solo flight ad aprire gli occhi all’allora tredicenne Jim, che si
sarebbe cimentato in seguito nella trascrizione di uno dei pochi soli (per
sua ammissione) imparati a memoria “nota per nota”, ovvero il solo di
Christian su Grand Slam (Boy meets Goy).
La prima domanda che mi sono posto prima di cominciare questo lavoro è
stata: “Sei sicuro?”, facendomi tornare alla mente quell’incontro di
qualche mese fa, quando ho avuto l’immenso piacere di vederlo dal vivo in
trio con Steve La Spina e Anthony Pinciotti il 20 novembre 2012
all’interno della rassegna teatrale del Duse di Bologna, partecipando anche
all’incontro pomeridiano con il pubblico in cui, per un’ora abbondante, ha

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gentilmente risposto alle domande che gli venivano poste; devo dire che ho
apprezzato molto il fatto che, al di là delle varie influenze musicali di cui
non ha mai fatto segreto, egli abbia affermato che il suo modo di suonare
in fin dei conti combacia con il suo modo di essere “umano”: “We’re
human beings”, ha risposto più volte, in barba a chi gli domandava in che
modo e in che quantità fosse stato influenzato da Sonny Rollins piuttosto
che da Beethoven!
Dopotutto la storia è stata scritta dalle persone e non fa eccezione quella
del jazz: cervelli pensanti e cuori pulsanti quindi, che filtrano come una
rete le influenze esterne, facendole proprie attraverso una volontà
totalmente soggettiva e indefinibile (un po’ come il pescatore che decide
quale pesce passerà indisturbato tra le maglie della rete e quale invece è
abbastanza grosso da restarne intrappolato).
Rileggendo queste ultime parole, mi accorgo che vanno a pesare come un
macigno sul lavoro che mi sto accingendo a fare, caricandomi di non poco
senso di responsabilità: sto per analizzare il solismo di Hall
interrogandone il suono, le soluzioni chitarristiche adottate e le eventuali
motivazioni, ma così facendo, secondo sua stessa ammissione, scenderei
inevitabilmente sul piano personale, portando avanti un’analisi di Jim Hall
“as a human being”.
Ritornando alla domanda che mi ero posto, ho trovato la risposta
nell’aspetto didattico di Jim Hall, in poche parole, nell’analisi delle
caratteristiche del suo solismo da cui io (as a human being), nei panni di
diretto interessato nello studio della chitarra, ho tratto maggiore
ispirazione e stimolo.

Andrò a prendere in considerazione nei successivi capitoli tre aspetti del


solismo di Jim Hall:

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• la cura del suono, con una particolare attenzione all’uso delle
diteggiature e alla tecnica del legato, mirata a eliminare l’attacco
provocato dal rumore del plettro, avvicinando così il fraseggio a quello
di uno strumento a fiato (tecnica che tanto ha influenzato la generazione
successiva, da Pat Metheny a John Scofield);
• La coerenza narrativa all’interno di un solo: metterò in evidenza lo
sviluppo motivico nell’improvvisazione di Hall, soffermandomi
sull’evoluzione dell’idea germinale attraverso i chorus.
• L’influenza pianistica sullo strumento, riferita non tanto all’uso di
certi voicings o al fraseggio, quanto piuttosto all’uso del supporto
armonico per aggiungere colore, ma anche per contrappuntare il suo
solismo.

Per ognuno dei punti trattati porterò una trascrizione completa con relativa
analisi, supportata da esempi tratti dal repertorio. Inoltre cercherò di
soffermarmi sui punti che più per me hanno rappresentato uno spunto
didattico, avanzando proposte per svilupparli sullo strumento.

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PREMESSA

Prima di cominciare vorrei fare una piccola premessa: estrapolare un


elemento singolo, una caratteristica, da un contesto come per esempio il
solismo di un jazzista, è certamente utile da un punto di vista didattico, ma
per capirne appieno l’intenzione bisogna ricordarsi che non può
prescindere da tutti gli altri aspetti. Dimenticandosene c’è il rischio di
cadere nella trappola del “pacchetto”: imparare una nozione prendendola
com’è, senza sfaccettature, solo perché “c’è scritto così”. Tra l’altro
ragionare a posizioni - diteggiature prefabbricate senza una piena
coscienza dello strumento rappresenta un rischio facile sulla chitarra.
In altre parole, se parliamo di Jim Hall dobbiamo tener sempre presente
che lo sviluppo di un’idea si può muovere su determinate diteggiature
“legate” ed è influenzato da suono che cerca sullo strumento, così come il
contrappunto armonico è influenzato dal ritmo e dal suono! In sostanza,
prima di entrare nel dettaglio bisogna avere coscienza dell’intenzione. Lo
stesso Hall dice che preferisce cercare di capire il feeling di un solo
piuttosto che trascriverne le singole note, ed è sicuramente per questo che
si parla del Jim Hall solista come di uno storyteller, un narratore che sa
dove deve andare perché sa da dove viene, un architetto che costruisce
nota su nota consapevole di ciò che gli sta accadendo intorno, perché,
come probabilmente direbbe, “Listening is still the key”.

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1. LA CURA DEL SUONO

False Fingerings e ricerca del colore


Requisito principale di un musicista è quindi “saper ascoltare”, che vuol
dire “valutare il terreno su cui si andrà a costruire il solo”, in un continuo
susseguirsi di azioni e conseguenti reazioni chiamato Interplay, ma non
basta. Non è infatti sufficiente proiettare l’ascolto esclusivamente
all’esterno; il musicista sa che parte della sua attenzione deve essere
rivolta anche a ciò che esce dallo strumento. Non sto parlando di scale o
patterns, ma dell’essere coscienti della varietà di suoni e colori che la
tavolozza dello strumento propone.
La chitarra da questo punto di vista offre enormi possibilità, molto spesso
sottovalutate. Sapere quale colore uscirà suonando la stessa nota presa su
due o più corde diverse (di conseguenza in punti differenti del manico)
conferisce quindi al musicista un grande potenziale espressivo: non si
tratta più unicamente del colore di una determinata nota in funzione
dell’armonia sottostante, ma si svolge su un altro piano, ovvero il colore
di una nota in funzione dell’uso dello strumento che la produce.
Quella che inizialmente è senza dubbio una difficoltà che certo non va a
gettar luce sul cripticismo della chitarra in fatto di immediatezza visiva, si
trasforma dunque in un suo punto di forza: la scelta non si limita a un
determinato colore, bisogna decidere infatti anche il pennello da usare
(mano sinistra) e il tipo di pennellata (mano destra).
Con l’amplificazione e un maggiore controllo sui toni e sulle dinamiche
queste possibilità sono aumentate in modo esponenziale, ma per esplorare
le facoltà “fisiche” dello strumento, dettate dalla sua natura cordale,
prendo spunto proprio da un esercizio che Jim Hall riporta nel suo metodo
Exploring Jazz Guitar, svolto su un suo brano, Big Blues.

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“I feel that the blues is really a kind of a story, with two questions and an
answer”. Così Jim Hall introduce la sua Big Blues, un classico blues di 12
misure in F, con un tema che rispecchia proprio il modello di domanda /
risposta sopracitato (battute 1 – 4, affermazione o domanda; battute 4 – 8,
riaffermazione o nuova domanda; battute 8 – 12, conclusione o risposta).
Questo modello antifonale deriva dalla tradizione africana, in cui il blues
rappresentava il corrispettivo profano dello spiritual, nato a stretto
rapporto con i canti di lavoro (field hollers) e di prigionia, molto spesso
con tematiche riguardanti amore, povertà o discriminazione razziale legate
all’esperienza individuale del cantante:

“I woke up this morning with a awful aching head,


I woke up this morning with a awful aching head,
My new man had left me, just a room and a empty bed.”
(Bessie Smith, Empty bed Blues, 1928)

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Nello specifico possiamo vedere come il tema di Big Blues rispecchi
questo modello: l’idea ritmica delle prime quattro battute è infatti ripresa
in modo identico nelle battute 4-8. Per quanto riguarda le note le
differenze sono minime: il salto di terza minore discendente (Ab – F) di
battuta 1 è sostituito a battuta 5 con un salto di ottava discendente (F-F);
riguardo al resto della frase, mentre da 1 a 4 ha un andamento discendente
verso il F ribattuto (batt. 3), da 5 a 8 agisce per moto contrario risalendo
verso il Ab ribattuto (batt. 7).
Nelle ultime quattro battute l’idea ritmica iniziale rimane immutata, per
poi andare a svilupparsi solamente a battuta 12, vera e propria conclusione
del tema. Il brano è giocato interamente sulla pentatonica minore di F, con
l’aggiunta di un colore, o meglio, di una blue note: il Dob, quinto grado
bemolle della tonalità:

Un tema decisamente semplice quindi, in cui l’interesse principale di Jim


Hall riguarda appunto il suono l’intenzione: infatti il tema di Big Blues è
stato ispirato dal modo di suonare del sassofonista Stanley Turrentine. Le
note ribattute devono richiamare alla mente le cosiddette “false
fingerings”, ossia le diteggiature alternative utilizzate in strumenti a fiato
come sassofono e clarinetto per riprodurre la stessa nota.
Come nella chitarra però, a posizioni differenti corrispondono colori
differenti: per questo Jim Hall, per andare a enfatizzare questa differenza,
ripete gli ottavi delle battute 3 e 7 (rispettivamente F e Ab) su due corde
diverse e adiacenti. Ne risulta una diteggiatura così:

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Come si può vedere i due F di battuta 3 vengono ribattuti su due corde
diverse e adiacenti (rispettivamente la quinta e la quarta); si ha il
passaggio da una nota più calda e tonda a una nota più aperta e pungente.
La stessa identica cosa accade a battuta 7, dove il Ab ribattuto sarà preso
con la stessa diteggiatura, rispettivamente sulla quarta e terza corda.
Cercare di ottenere un suono pulito nell’esecuzione del tema è
fondamentale al fine di ottenere l’effetto richiesto, soprattutto per quanto
riguarda il cambio di corda a battuta 7, in cui i due Ab vanno presi
rispettivamente nei tasti 6 e 1 delle due corde, cosa che richiede,
nonostante la diteggiatura favorevole, un ampio movimento della mano. Ne
risulta quindi un effetto “doo-wah” che, per certi versi, ricorda anche il
suono prodotto da una tromba grazie a un determinato uso della sordina.
Andando a interrogare la storia però, vedremo che l’uso dell’effetto false
fingering (mutuato da uno strumento a fiato), non è una soluzione nuova
nella chitarra.
Ecco emergere già nel primo aspetto del solismo jimhalliano trattato in
questa tesi un’evidente discendenza christianiana: Charlie Christian infatti
aveva costruito il suo suono ispirandosi al sax di Lester Young (che a sua
volta cercava di far “cantare” lo strumento ispirandosi alla voce umana),
ed era avvezzo a queste soluzioni sullo strumento. Ne porta la conferma
una registrazione (bootleg) del 12 Maggio 1941 in cui, nel corso di una
jam session tenutasi al Minton’s Playhouse di New York si può sentire
Christian suonare una versione di Stompin’ at the Savoy. Il brano, scritto
nel 1934 da Edgar Sampson, contraltista dell’orchestra di Chick Webb, ha
una tipica struttura AABA di 32 misure in cui la A fa perno sul centro
tonale di Db con un turnaround continuo, mentre la B si muove per
cadenze V – I partendo da Gb (su cui ci si arriva dominantizzando il Db
alla fine della seconda A) fino ad arrivare ad A (Gb – B – E – A), che,

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inteso come sostituzione di tritono di Eb scende cromaticamente a Ab a
battuta 24 per fare di nuovo la cadenza verso il Db dell’ultima A.
Un brano strettamente di natura tonale incentrato sul turnaround, non
molto dissimile da un anatole, che tanti spunti offriva al fraseggio di
Charlie Christian. Egli stesso non era nuovo all’esecuzione del brano, in
quanto era solito eseguirlo anche con l’orchestra di Goodman. Oltre
all’importanza storica di questo documento, in cui si individuano
chiaramente elementi precursori del bebop per quanto riguarda fraseggio e
interplay (il tutto in seno alla cultura swing), si possono trovare, tra le
frasi di Christian, anche diteggiature mirate a ribattere le note ricreando
l’effetto false fingering.

Si può andare a vedere come al terzo chorus di solo, Christian entri nella
seconda A (batt. 73) iniziando a ribattere un Bb già dalla battuta
precedente. Questa nota, sesta maggiore dell’accordo sottostante (Db),
viene appunto suonata su due corde, rispettivamente la seconda a livello
dell’undicesimo tasto, (con l’indice), e la terza a livello del quindicesimo
tasto (con l’anulare). Tecnica che, unita all’esuberante freschezza ritmica
della frase di Christian, diventa ulteriore motivo d’interesse per
l’ascoltatore, spiazzato dal cambio repentino di colore della nota, che
diventa tumultuosa, quasi impazzita.
Esuberanza che non si ferma e si ripete alla ripresa dell’ultima A dl
chorus (battute 89 – 92):

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In questo caso la nota ribattuta è il Db, fondamentale dell’accordo
sottostante; l’effetto viene creato suonando la nota sulla terza e quarta
corda, nel primo caso in corrispondenza del sesto tasto (con l’indice), nel
secondo caso a livello dell’undicesimo tasto (con l’anulare).
Allo “stallo” melodico Christian quindi non solo fa corrispondere
un‘esaltazione della parte ritmica (a modello dei riffs , aspetto
caratteristico della swing era), ma, rifacendosi alle sonorità dei fiati,
cambia letteralmente il colore delle note, che passano dal caldo al
tagliente, dal rotondo allo spigoloso, creando un contrasto di indubbia
efficacia solistica.
Jim Hall questo lo sa bene, e non a caso riutilizza questa tecnica per
modellare il suo suono e, didatticamente parlando, andare a far leva su un
altro aspetto: la conoscenza dei colori delle note sullo strumento.
Rimanendo proprio su Big Blues la esamina a fondo, proponendone
appunto una versione “didattica”: invita infatti a limitare il numero di
corde su cui eseguire il tema, fino ad eseguirlo su una corda sola, proprio
per andare a scovare le sonorità “innaturali” (se così si può dire),
idealmente scomode, al di fuori della logica della diteggiatura e dei
meccanicismi (quindi con un pensiero di fondo orizzontale più che
verticale, che avvicina il chitarrista al tipo di approccio che potrebbe
avere con la tastiera di un pianoforte). Lo sviluppo di questo aspetto
chitarristico va a favore di una maggiore possibilità espressiva, ma non
solo: aiuta infatti anche a svincolarsi dalle rigide diteggiature dei
cosiddetti “box”. L’esercizio su due corde adiacenti torna utile inoltre
anche per visualizzare il passaggio da una diteggiatura a un’altra, data la
necessità del cambio di posizione durante l’esecuzione del tema.
Suonando Big Blues su una corda sola (nello specifico Hall prende in
considerazione la quarta) è inoltre possibile andare a interrogare il suono
ancora più a fondo: Jim Hall si sofferma ad ascoltare il cambiamento di

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colore di una nota ribattuta a seconda del dito usato per premere il
tasto. Non avendo intenzione di rinunciare all’effetto false fingering, ma
dovendo per forza di cose ribattere le note sulla stessa corda, decide di
prendere sia i due F a battuta 3 che i due Ab a battuta 7 rispettivamente
con le dita 1 e 3 (indice e anulare), garantendo un respiro tra gli ottavi
(causa lo stacco dovuto al movimento della mano) e mettendone così in
risalto le sfumature differenti. Jim Hall crea così la sua tavolozza dalla
quale andrà a pescare il colore più appropriato da utilizzare in un
determinato contesto.
Riguardo alle capacità espressive e alle soluzioni chitarristiche derivanti
dall’amplificazione dello strumento, Hall è molto chiaro: “Sembra quasi
che, dal momento che c’è l’amplificatore, il suo volume debba per forza
essere tenuto alto. […] Per quanto mi riguarda, il mio utilizzo
dell’amplificatore è mirato allo scopo di suonare più piano (softer)[…],
cerco di usare l’amplificatore per ottenere un suono più pastoso.”
Così diceva a Dave Rubin in un’intervista del 2005, ma ha avuto molte
occasioni per ribadirlo (l’ha detto infatti anche durante l’incontro al teatro
Duse a cui ho partecipato), affermando però che, dal punto di vista
solistico, un aumento di volume può essere utile per avvicinare il suono a
quello di uno strumento a fiato.
Ecco quindi che si apre un’altra importante parentesi sulle caratteristiche
del suono di jimhalliano. Infatti l’aumento dinamico va a rendere più
fluido e di maggior effetto l’utilizzo della tecnica del legato, di cui Hall è
fiero ambasciatore.

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Il Legato
L’aumento di volume va infatti a influire sul sustain, della nota prodotta,
che dura più a lungo, permettendo così di “legare” le frasi tra di loro,
limitando le pennate e affidando alla mano sinistra una funzione
percussiva sulla corda. Questa peculiarità, vero e proprio marchio di
fabbrica del solismo di H., deriva dal periodo in cui egli militava nel
Giuffre Three, il trio a nome di Jimmy Giuffre che vide, oltre ad H.,
l’alternarsi dei contrabbassisti Ralph Pena e Jim Atlas (ma ci furono
registrazioni anche con Red Mitchell, Ray Brown e Wilfred Middlebrooks)
e, successivamente, in sostituzione proprio del contrabbasso, il
trombonista Bob Brookmeyer.
L’idea alla base del trio (specialmente dopo l’arrivo di Brookmeyer) era di
avere “tre strumenti lineari che improvvisassero collettivamente. […] Per
lui (Giuffre) non faceva alcuna differenza il fatto che il gruppo avesse o
non avesse il basso o la batteria”. Così H. ricorda la sua esperienza, non
nascondendo le difficoltà iniziali (anche dovute alle irregolari e complesse
strutture dei pezzi che portavano la firma di Giuffre), ma riconoscendo
come nel giro di un anno il lavoro li abbia portati a grandi risultati in fatto
di timing e interplay. se nella formazione precedente la chitarra ricopriva
un ruolo intermedio tra il contrabbasso e Giuffre, principalmente con
funzione armonica, con l’entrata del trombone diventò un fondamentale
perno ritmico.
Tanti furono gli accorgimenti che H. prese al fine di creare una pasta
sonora soddisfacente: fu proprio Giuffre infatti a invitarlo a trovare un
modo alternativo per suonare le frasi da lui scritte, poiché non gradiva il
rumore del colpo di plettro. Per un periodo inoltre accordò la chitarra
addirittura una quarta sotto (B-E-A-D-F#-B).
Andando a interrogare il repertorio, alla ricerca dell’uso del legato, si può
trovare un riscontro nel brano Song of the wind, (termine che, guarda caso,

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indica non solo il vento, ma anche la famiglia degli strumenti a fiato):
registrato con Red Mitchell al contrabbasso, il pezzo comincia con un tema
suonato all’unisono da H. e Giuffre. Se ne possono vedere qui trascritte le
prime 8 battute:

Il tema presenta una forma irregolare: AABA di 34 misure (la B è di 10).


Evidenti stilemi si notano già dal pick-up iniziale di tre quarti, una cascata
di sedicesimi a 215 b.p.m. che, se per Giuffre corrisponde a un flusso
continuo d’aria nel clarinetto, a Jim Hall non lascia alternative se non
quella del legare le note tra di loro limitando le pennate ai cambi di corda.
Discorso analogo per il filare di crome di battute 5-7, in cui si può sentire
come Hall “scivoli” letteralmente sulla corda andando a enfatizzare
soprattutto i cromatismi. Lo scivolamento implica uno spostamento della
mano lungo il manico mantenendo una pressione costante del dito sulla
corda, pressione che va a garantire la continuità del suono legando le note.
E’ molto utile, per esempio, per andare a pescare i suoni subito al di fuori
di una determinata diteggiatura, per poi rientrare nel box facendo scorrere
il dito avanti o indietro, ma può anche rompere le barriere visive dettate
dalle diteggiature, permettendo il lavoro su meno corde, aiutando quindi in
ogni caso a sviluppare la concezione di pensiero orizzontale.
Ecco un esempio di scivolamento per quello che potrebbe essere un
esercizio di sviluppo di una scala lungo il manico a note “legate”:

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La frase, frammento della scala maggiore di Bb, viene suonata interamente
sulla quarta corda (partendo dal terzo tasto), sfruttando quindi un’unica
pennata e utilizzando lo scivolamento e la funzione percussiva delle dita
della mano sinistra come legante tra le note. Come si può vedere dalla
diteggiatura, l’indice scivola lungo la corda, da F a G, cambiando subito
box! Questa breve frase si prefigge il Bb come punto d’arrivo, per poi
tornare indietro in modo identico. Un esercizio valido è cercare di
visualizzare le scale secondo questa logica di pensiero. Provando ad
applicare lo scivolamento (e il legato) a tutta la scala maggiore, per
esempio, si potrebbe avere questo:

In questo caso ho costruito la diteggiatura per scivolare soltanto con il dito


1, infatti lo scivolamento è regolarmente al secondo e sesto ottavo di
entrambe le battute, conseguente al cambio di corda.
Si può vedere come il concetto di box venga annullato, in quanto la
diteggiatura qui proposta è talmente larga e dilatata da cominciare nel
primo tasto della quinta corda e arrestarsi, due ottave dopo,
nell’undicesimo tasto della seconda corda.
Utile e interessante è cercare nuove soluzioni mantenendo fisso il punto di
partenza, cercando di scivolare lungo la corda con lo stesso dito, ripetendo
l’esercizio per tutte e 4 le dita. Una volta fatto ciò, è importante anche
cercare di mischiare, unire tra di loro le diteggiature ottenute, in funzione
anche del suono, cercando di ottenere la combinazione più scorrevole e
fluida.

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Tornando al tema di Song of the wind, a battuta 8 si ripete la cascata di
sedicesimi che lancia la seconda A. Altri riscontri dell’utilizzo della
tecnica del legato e dello scivolamento vengono fuori anche nel solo di H.,
in cui si può sentire la chiara reiterazione di cellule ritmiche suonate su
una sola corda.
Un discorso in tutto e per tutto simile a quello che si può vedere nella
trascrizione del solo su Waltz New nella versione live al Montreux Jazz
Festival del 1986 contenuta nel disco “Power of Three”. Waltz New è un
brano in Bb di 32 misure, uno studio scritto da Hall sullo scheletro
armonico di Someday my prince will come, con un’unica differenza: a
battuta 14 Hall inserisce una cadenza un semitono sopra, verso Cb (batt.
15), per poi riprendere da dove aveva interrotto a batt. 16 e cadenzare
nuovamente con un II-V verso Bb.
Il titolo del brano rimanda a Valse Hot, un brano di Sonny Rollins, il cui
tema (a detta di H.) ricorda appunto quello scritto per Waltz New.
La versione da me scelta è eseguita in uno dei tanti “duo” chitarra-piano
della carriera jimhalliana: quello con Michel Petrucciani. Nella pagina
seguente si può vedere la trascrizione del tema di Waltz New, seguita dai
tre chorus di solo di Jim Hall.

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Questa rielaborazione jimhalliana di Someday my prince will come è intrisa
dell’influenza dei fiati, più in particolare di Sonny Rollins. Come detto
prima infatti, il titolo è un tributo a Valse Hot, date alcune affinità melo-
ritmiche, ma non solo: anche l’approccio chitarristico di Hall verso il tema
di Waltz New è vicino a quello di uno strumento a fiato. Le note prese sulla
stessa corda sono infatti tutte legate, fatta eccezione per le note ribattute e
per quelle indicate volutamente “staccate” in partitura (batt. 4). Il risultato
è un filare di note fluido, una corrente sonora continua che viene interrotta
magistralmente da H. creando punti di sospensione e interesse. “Respiro è
la parola magica” confessava proprio Jim Hall in un’intervista del 2001.
Questi respiri però non cadono casualmente, bensì con una precisa idea
ritmica di fondo, frutto degli studi di composizione fatti in giovane età che
andranno ad influenzarne anche il solismo. (cap. 2)
Il primo chorus di solo è all’insegna del minimalismo melodico, a favore
di un’efficace figura ritmica ricorrente che parte ribattendo un Bb e sale
cromaticamente fino al D a battuta 48, per poi tornare giù e ricominciare
la sua scalata. Il Bb, fatto cantare per quasi 8 battute, veste quindi i panni
di fondamentale (su Bbmaj7), #5 (su D7), 5 (su Ebmaj7), #9 (su G7), b7
(su Cm7), e così via per le altre note fino ad arrivare al D, tredicesima del
F7 sottostante, che torna su Bbmaj7, accompagnato dalla chitarra di Hall,
che ripete la stessa frase di inizio chorus.
Stessa cosa per le 16 battute successive, con la nota Bb che raggiunge
cromaticamente il D su Fm7 (batt. 57), che a sua volta viene portato avanti
per 3 battute, diventando quindi 3 (su Bb7), maj7 (su Ebmaj7). Il
turnaround finale vede una frase dal sapore bluesy, di influenza
christianiana.
Si può vedere come le frequenti terzine di croma risultino tutte legate tra
di loro, dal momento che vengono suonate tutte sulla quarta corda,
risalendo il manico. Un primo chorus quindi all’insegna del pensiero

25
orizzontale, svincolato dai box, da cui emerge una forte componente
ritmica che va a dare spinta alle poche note ribattute, grazie anche alla
tecnica del legato, che avvicina davvero la concezione solistica di Hall a
quella di un sassofono.
Il secondo chorus comincia abbandonando le nervose terzine di croma,
enfatizzando con un arpeggio discendente di semiminime, la triade di Bb
maggiore (batt. 65). L’intenzione è più rilassata, Hall si muove con
arpeggi, mettendo in risalto le note guida degli accordi sottostanti. Esempi
di più note legate tra di loro si possono comunque trovare per esempio nei
sedicesimi di batt. 68 e 82, ma anche nella reiterazione ritmica di batt. 86-
88. Molto utilizzato è lo scivolamento per passare da una diteggiatura a
un’altra legando due note col movimento della mano (lo si può trovare
infatti in quasi tutte le battute, specialmente nei passaggi da una battuta
all’altra). A differenza del chorus precedente, Hall resta più ancorato ai
box, dimostrando però di sapere benissimo quando uscirne per concentrarsi
su poche note privilegiando l’aspetto ritmico, offrendo all’ascoltatore
nuovi motivi di interesse: si può vedere come ragioni con un pensiero più
orizzontale nelle battute 73-79 (in cui sposta ritmicamente due note a
intervallo di semitono lungo una corda) e 84-85 (in cui, usando lo
scivolamento, reitera una figura ritmica arrivando all’appuntamento
melodico con il Eb di batt. 85). Interessante è vedere come scivola
orizzontalmente lungo la corda:

La serie di bicordi (bluesy) che comincia a batt. 94 serve a lanciare il terzo


chorus, che parte a batt. 97 (le doppie acciaccature vengono rese anch’esse
legando le tre note con una pennata sola).
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Il terzo chorus è il più “chitarristico” nel senso stretto del termine. Il
pensiero di fondo è più strettamente verticale, Hall ricorre meno al legato e
lavora su più corde, ragionando sulle “forme” dei voicings quartali. Si può
vedere però anche come cerchi di estendere sul piano orizzontale un
pensiero necessariamente verticale come quello dettato dalle forme: a
battute 109-112 porta avanti la mano lungo il manico, sempre mantenendo
la forma del voicing quartale, una figura ritmica che gira in 2/4 e si arresta
sull’ultimo quarto di battuta 112. Questa figura, unita all’ascesa della
melodia, si impone prepotentemente, creando un grande climax tensivo per
l’ascoltatore, climax che culmina a battuta 113, punto di arrivo,
temporaneo però, poiché Hall comincia un’altra scalata, lunga quattro
battute. Parte da C suonando tre semiminime per battuta arrivando
puntuale all’appuntamento col Eb una decima sopra (batt. 117).
Le ultime 12 battute vengono utilizzate per ridiscendere il manico,
cambiare gradualmente registro andando volutamente a smorzare la
tensione creata, preparando l’entrata al solo di Petrucciani.

A differenza del solismo, la pasta sonora dell’accompagnamento di Hall


presenta caratteristiche diametralmente opposte: “Si ponga attenzione al
modo in cui il plettro di Jim enfatizza l’ordito degli accordi, come per
esaltarne la grana […] quasi a voler recuperare sul piano armonico cioè
che aveva sacrificato su quello monodico: le qualità organiche e
strutturali dello strumento”.
Questa è la tesi avanzata da Roberto Colombo, tesi supportata dai fatti: il
microfono posto davanti alla chitarra durante i concerti indica infatti una
precisa volontà di non perdere la componente acustica dello strumento.
Ricordo come al concerto al teatro Duse, durante l’esecuzione del brano
Beija Flor, abbia affidato l’esposizione del tema al contrabbasso di Steve
La Spina, proponendo un comping acustico, azzerando totalmente il

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volume dell’amplificatore e uscendo solamente dal microfono posto
dinanzi allo strumento. Un esempio analogo può essere ritrovato per
esempio nel comping della versione di All the things you are contenuta nel
disco Live at Village West registrato nel 1974 in duo con Ron Carter, ma
anche nell’accompagnamento sotto il solo di Bill Evans in entrambe le take
di My funny Valentine in Undercurrent (1962).
In fin dei conti è proprio questo il succo della questione trattata finora: la
visualizzazione dello strumento in funzione del suono ricercato: che si
suoni su sei corde o su una corda sola, amplificati o meno, è sempre la
chitarra a sottostare alle esigenze di Hall che, disponendo di un’immensa
tavolozza (allargatasi anche grazie all’affermarsi del suo stile chitarristico,
che, citando nuovamente Pat Metheny, “trascende lo strumento” ),
esercita un costante controllo sullo strumento (“strumento” inteso anche
come “veicolo espressivo”), conoscendo benissimo dove trovare le zone
più adatte su cui andare a lavorare per sviluppare le sue idee.
Nel prossimo capitolo verrà posta attenzione proprio a questo sviluppo,
alla forma, alla coerenza narrativa di Hall.

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2. COERENZA NARRATIVA

Lo Sviluppo di un’idea
Una volta portata a fondo un’accurata analisi introspettiva sullo strumento
per creare la cosiddetta “tavolozza di colori”, l’orecchio del musicista deve
curarsi del contesto musicale su cui andare a lavorare, la tela del quadro.
Compito del solista è riuscire a far arrivare il suo messaggio, la sua storia
all’ascoltatore, trasmettergli qualcosa, tenendo conto anche delle
possibilità espressive garantite dall’interplay tra il solista e gli altri
musicisti.
Ho accennato nelle pagine precedenti alla figura di Jim Hall solista come a
quella di uno storyteller, un narratore quindi, che traduce in musica le sue
storie. Il risultato è un susseguirsi di linee con un preciso filo logico di
fondo: l’affermazione di una determinata idea, ritmica o melodica (o
entrambe!) e il suo sviluppo attraverso i chorus.
Questo segno di stile molto evidente nel solismo di H., risente di varie
influenze. La prima deriva senz’altro dalla filosofia solistica di Lester
Young (e di Charlie Christian attraverso quest’ultimo), consistente nella
capacità di “raccontare una storia”. Charlie Christian aveva appreso
appieno questa lezione e la rifletteva nei suoi assolo, arrivando ad
influenzare fortemente Jim Hall. Quest’ultimo parla proprio di Christian
quando cita un esempio di solo narrativo, portando avanti l’esempio più
importante per lui, l’improvvisazione di Christian che ha rappresentato una
svolta nella sua vita, quella su Grand Slam.
La seconda influenza, non meno importante, è rappresentata dagli studi di
composizione del giovane Hall al Cleveland Institute of Music. Non a caso
si è sempre definito “Un compositore a cui è capitato di suonare la
chitarra”, amando anche parlare dell’improvvisazione come di una sorta di
“composizione estemporanea”, fino ad arrivare a gettare uno scheletro, una

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forma base, che cerca costantemente di rispettare: “Mi piace che i miei
assolo abbiano un inizio, una parte centrale e una fine”. Secondo i criteri
“narrativi”, il solista deve accompagnare l’ascoltatore attraverso le tre fasi.
Per far ciò, Hall si affida appunto allo sviluppo motivico, l’evoluzione di
un’idea. Quest’attitudine è stata maturata prima nel trio di Jimmy Giuffre,
che appunto professava lo “sviluppo di un’idea germinale originale”, poi
con Sonny Rollins (formatosi presso la scuola monkiana), che vedeva la
costruzione di un solo come un processo evolutivo che si basa sui criteri
dell’improvvisazione tematica: il solo secondo Rollins deve andare a
svolgere il tema, fornendo appunto le idee, le cellule melo-ritmiche da
andare a sviluppare. Hall non ha mai nascosto l’influenza esercitata da
Sonny Rollins su di lui: “riesce a girare e rigirare un brano fino a
mostrarne tutte le possibili sfaccettature […]Ha un modo di prendere un
pezzo da parte e smontarlo davanti ai tuoi occhi.. il suo modo di suonare
ha influenzato il mio”.

Retaggio degli studi di composizione è anche la struttura “cellulare”del


tema della sopracitata Waltz New.
Andando ad analizzare più a fondo questo tema, si può vedere come sia
costruito attorno a una cellula ritmica di tre note in modo da creare una
forma di dialogo a botta-risposta. Ecco le prime 8 battute:

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Si può vedere a battute 1-2 e 7-8 come il meccanismo botta e risposta sia
localizzato sempre sui primi due quarti della battuta con la medesima
figura ritmica (tre crome – due crome e una semiminima). Ciò che avviene
tra battuta 3 e battuta 5 è più dilatato, gioca sulla ripetizione della
melodia, che prima sale sempre con due crome e una semiminima, poi
discende suonando sui tempi deboli (levare del 2 e del 3 a batt. 4; levare
dell’1 a batt. 5) riproponendo però la stessa figura melodica.
Altro esempio lo si può trovare a battuta 17, quando si ripete il background
armonico delle battute 1-8.

Jim Hall infatti incomincia la nuova frase riproponendo la stessa figura


ritmica di battuta 1. Inoltre anche qui le cellule “perno” del tema stanno
entro i primi due quarti delle battute. La cellula ritmica a battuta 19 è una
riaffermazione della risposta di battuta 18. Lo dimostra il fatto che una è la
continuazione dell’altra dato che riparte dalla stessa nota senza tradirne
l’andamento ascendente. Queste cellule sono le fondamenta attorno a cui è
costruito il tema, nel senso che, anche togliendo tutto il resto, permettono
comunque all’ascoltatore di capire la direzione del pezzo. Addirittura a
volte non è necessario aggiungere altro, lasciando scoperta la “struttura
base” del tema. È quello che accade per esempio a battuta 29-30:

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Questi criteri si possono vedere anche nel solo che segue l’esposizione del
tema (analizzato nel capitolo precedente), di cui il primo chorus è un
chiaro esempio di pensiero evolutivo.
Altra caratteristica che emerge dal solismo di H. è l’innegabile maestria
sul tempo. Si è visto nell’analisi del solo precedente come alle frasi
“orizzontali” (in cui spesso gira attorno a poche note) Hall facesse
corrispondere una maggior impetuosità ritmica (influenzato anche dallo
stile di Charlie Christian). Questo aspetto risente anche dell’influenza di
Rollins e della sua capacità di mostrare tutte le sfaccettature di un brano.
Così succede infatti nei primi due chorus del solo su St. Thomas, in cui
“Newk” volta e rivolta sulla struttura la stessa semplicissima cellula
ritmica, formata da due note:

In questo primo chorus si può vedere chiaramente la figura reiterata da


Rollins, con la nota G a fare da perno melodico situato sopra i movimenti
cromatici delle altre note (C-C#-D-E). Il secondo chorus riparte sulla scia

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del primo, girando sempre attorno alla stessa cellula ritmica nelle prime 5
misure, sfociando poi in un lungo filare di crome (di stampo più bop) che
tesseranno il pezzo passando attraverso i vari voicings nei chorus
successivi:

Jim Hall non resta indifferente a questo modo di suonare “sciolto e


avventuroso” venendone influenzato e andando ad affinare la filosofia di
pensiero evolutivo maturata nel Giuffre Three. Riassumendo, si può
quindi dire che il solismo (ma anche l’accompagnamento) di Jim Hall
risente fortemente di un approccio compositivo muovendosi attraverso tre
fasi ideali (inizio-parte centrale-conclusione) mediante l’evoluzione di
varie cellule ritmiche e/o melodiche, che possono essere di derivazione
“tematica”. L’improvvisazione halliana lascia quindi una scia lineare, che
non viene interrotta da immotivati cambi di direzione, ma si sviluppa,
facendo capire ancora più chiaramente all’ascoltatore la direzione del suo
percorso. Non si tratta però di “prevedibilità”, (molte volte H. trova
soluzioni che spiazzano l’ascoltatore) ma di chiarezza e trasparenza
esecutiva (maturata molto grazie anche all’esperienza nel Giuffre Three).
Nelle pagine seguenti si può vedere un esempio di pensiero evolutivo nel
solismo di Hall: il solo su Interplay, brano registrato in quintetto con Bill
Evans, Freddie Hubbard, Percy Heath e Philly Joe Jones per l’omonimo
disco (Interplay, Riverside 1962). Riporto qui di seguito i 5 chorus di
assolo di Jim Hall.

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Il brano, che porta la firma di Evans, è un blues minore in Fm di 12
misure. Già a prima vista si può individuare il filo rosso che tiene unito il
solo di Jim Hall: a partire da battuta 1 infatti, H. propone un’idea che non
abbandonerà mai, sviluppandola attraverso ognuno dei cinque chorus. La
cellula consiste in un arpeggio minore discendente che parte dalla 9 del
relativo accordo, scende alla fondamentale, tocca tutta la triade minore (in
primo rivolto) per poi scendere nuovamente sulla nona un’ottava sotto. Nel
caso di Fm6 le note dell’arpeggio sono G-F-C-Ab-G.
Si può vedere come nelle prime 8 battute Hall giochi ritmicamente con la
stessa cellula melodica, trasportandola pari pari una quarta sopra quando il
blues modula verso Bbm6 (l’arpeggio diventa quindi C-Bb-F-Db-C).
L’arpeggio viene eseguito da Hall con l’uso della tecnica dello sweep
picking, che riduce il movimento della mano destra, sfruttando la direzione
della pennata per andare a toccare più note su corde differenti.
Questa continuità di movimento della mano destra assicura fluidità e
leggerezza alla frase, fungendo quasi da legante tra le note.
Il secondo chorus comincia all’insegna del primo, proponendo varianti
ritmiche dell’arpeggio iniziale (batt. 13-15), e riprendendolo in modo
identico a battute 17-18. Lo stesso arpeggio è anche la frase di apertura del
terzo chorus. le frasi vanno a chiudersi quasi sempre sui tempi forti,
rimarcandoli spesso anche con note ribattute: questi appuntamenti ritmici
così marcati permettono a Hall di stare più libero e rilassato sul tempo
nelle sue frasi, rimanendo però sempre e comunque coerente e intellegibile
(chiarezza e trasparenza esecutiva sul piano ritmico).
Hall si muove quindi liberamente attraverso i 5 chorus, riuscendo a
spiazzare l’ascoltatore (di grande effetto tensivo il G fatto cantare per oltre
4 misure a batt. 36-40), rimanendo però fedelissimo alla sua “storia” sia
sul piano ritmico (si pensi all’esaltazione delle terzine) che sul piano
melodico (l’arpeggio iniziale vuole essere infatti un modo per approcciare

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la nona dell’accordo sul primo e sul quarto grado del blues. L’idea
melodica è quindi più strettamente costruita attorno a quel colore. Non a
caso a battute 36-40 la nota fatta cantare per 4 misure è proprio un G, nona
del Fm6 sottostante).
Jim Hall viaggia, e con lui viaggia l’ascoltatore, rimanendo sorpreso
soprattutto alla fine della corsa, scoprendo non essersi mai veramente
allontanato da casa. Questo è l’aspetto che più mi ha colpito: la capacità di
stupire e spiazzare facendo perno sulla coerenza e sulla discorsività.
Lo sviluppo dell’idea melodica è evidenziato nell’analisi riportata nelle
pagine seguenti: si può chiaramente vedere l’idea iniziale, germinale e il
seguente sviluppo in tutte le sue sfaccettature. I cerchi rossi e blu
sottolineano rispettivamente l’esaltazione della nona su Fm6 e Bbm6; i
riquadri gialli isolano l’idea dell’arpeggio iniziale e le successive
variazioni ritmiche attorno ad esso.

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Altri aspetti importanti che giocano a favore della coerenza narrativa si
possono vedere a batt. 8-12 in cui riutilizza lo sweep picking portando
avanti l’idea dell’arpeggio, suonando una frase che verrà poi ripresa in
modo molto simile due chorus dopo (batt. 45-47). Infine i “botta e
risposta” ritmici di battute 54-55 e poi di batt. 57-58 sono anch’essi chiari
esempi della grande capacità discorsiva e comunicatrice di Hall.

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Inoltre, per collegarsi agli argomenti trattati nel capitolo precedente, è
interessante notare come i Bb di batt. 28-29 vengano suonati sulla seconda
e terza corda (rispettivamente undicesimo e quindicesimo tasto) andando a
ricreare l’effetto false fingering (cap. 1).

La prima frase dell’assolo su Interplay è quindi il fulcro attorno a cui


nascono i 5 chorus, il cuore dell’esecuzione.
Il pensiero narrativo di Hall è evidente, così come era evidente anche nel
primo chorus dell’assolo su Waltz New: in quel caso infatti la cellula
veniva reiterata per la quasi totalità delle prime 32 misure, lasciandosi
“vestire”, come abbiamo visto, dagli accordi dell’armonia sottostante.

Un’ulteriore esempio dello sviluppo motivico lo si può ritrovare anche


sulle due sezioni A del primo chorus su Angel Eyes nella versione
contenuta in Live! (Verve, 1975), disco suonato in trio con Don Thompson
e Terry Clarke: in questo caso è sempre la frase iniziale a ripetersi, ma a
differenza di Waltz New, in questo caso è “statica”. Viene infatti sempre
ribattuta sullo stesso accordo (Am) e funge ogni volta da trampolino di
lancio venendo sviluppata in maniera diversa.
Jim Hall trasforma quindi una cellula in un “appuntamento melodico”,
condizionando di conseguenza l’improvvisazione e lo sviluppo,
mantenendo tutto il tempo un filo logico riconducibile appunto alla frase di
partenza (batt. 1, 5, 9, 17, 25). Vi è come una compresenza di forze
opposte: la forza centrifuga che spinge la frase ad evolversi e a
svilupparsi attraverso il chorus deve convivere con un’altra forza,
centripeta, che comporta, al contrario, una involuzione, un ritorno al
frammento germinale originale. Riporto nella pagina seguente la
trascrizione parziale dell’improvvisazione.

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Tra Aprile e Maggio del 1962 Jim Hall si trovava in studio per registrare,
in duo con Bill Evans il celebre disco Undercurrent (United Artists).
Il disco si apre con una bellissima versione del brano My funny Valentine:
già dall’esposizione del tema si capisce l’intenzione contrappuntistica, con
Bill Evans che suona la melodia e Jim Hall che costruisce una linea
sottostante, in un complesso gioco di incastri che andrà a sfociare nel solo
di Hall, costruito (per le prime 16 misure) attorno alla reiterazione di una
nervosa cellula ritmica di tre note. Ascoltandolo, il pensiero ritorna
automaticamente ai primi due chorus del solo di Sonny Rollins su St.
Thomas, registrata tre anni prima, nel 1959. È interessante a questo
proposito sapere che tra gennaio e febbraio di quell’anno (1962) Hall
aveva lavorato proprio con Rollins, registrando il disco The Bridge
(Bluebird/RCA). Non solo: le due sessioni di registrazione per
Undercurrent portano la data di 24 Aprile e 14 Maggio, mentre le sessioni
di registrazione di What’s New? (RCA/Victor, 1962), altro disco di Rollins
che vede in formazione Jim Hall, furono il 18 e 26 Aprile e ancora l’8 e il
14 Maggio. In quest’ultima data infatti i pezzi registrati (Jungoso e
Bluesongo) non vedono la partecipazione di Hall alla chitarra: proprio quel
giorno infatti stava registrando My funny Valentine con Bill Evans! È
intuibile quindi come il solo non possa non risentire dell’influenza
stilistica esercitata da Rollins su H, visti gli stretti rapporti che c’erano tra
i due in quel periodo.
In questo caso si può vedere come l’aspetto ritmico prevalga su quello
melodico: Hall sposta la cellula (composta da tre ottavi) creando un grande
climax tensivo, amplificato anche dall’accompagnamento scarno, nervoso
e contrappuntistico di Evans. Questo climax andrà a risolversi sul pedale
di Bb che caratterizza la sezione B.
Inoltre i grandi spazi lasciati da Evans conferiscono alle note di Hall
un’importante funzione armonica: vediamo infatti come nelle prime 4

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battute la cellula ritmica giri attorno al B naturale, anche a battuta 3, dove
il Cm7 sottostante prevederebbe l’uso del Bb. Hall però suona sulle prime
4 battute pensando a Cm(maj7), G7alt, Cm(maj7), F7 (#11) rimanendo
sempre col pensiero sulla minore melodica di C. Un esempio analogo si
ripete a battute 9-11. Ma vediamo appunto la trascrizione delle prime 16
misure:

Anche se l’effetto tensivo e disorientante è (volutamente) forte, rimane


chiara la direzione che Jim Hall fa prendere alla sua cellula ritmica,
facendola scende fino a batt. 12 per poi farle iniziare una rapida ascesa che
si risolverà solo a battuta 17 con l’inizio della sezione B.
A questo proposito è utile ricordare che il forte impulso ritmico che
pervade il solismo di Hall (anche in mancanza di basso e batteria) è
retaggio degli anni passati in trio con Jimmy Giuffre, in cui la chiarezza e
la trasparenza nell’esecuzione erano fondamentali. (cap. 1.2)

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Dal punto di vista didattico, quello dello sviluppo motivico è
probabilmente l’aspetto che offre più spunti: è proprio lo stesso Hall a
mostrare esercizi utili a questo fine, quando nel primo dei tre video
intitolati Jazz Guitar Masterclass (Jazz Basics) sviluppa una frase, prima
attraverso un blues, poi sulla struttura armonica di I should care.
Il lavoro può essere quindi svolto sia prendendo una cellula ritmica, anche
di due sole note, sviluppandola, girandola sul tempo, spostandone gli
accenti, sia prendendo una cellula melodica (un semplice intervallo per
cominciare può andare bene), muovendolo lungo il manico, prima solo
melodicamente, poi magari anche ritmicamente.
È interessante e utile andare a svolgere questo lavoro anche su una nota
sola, concetrandosi su di essa (magari girandoci attorno diatonicamente o
cromaticamente, come per esempio su Waltz New) cercando di mantenerla
sulla struttura finchè l’armonia lo permette, per poi stabilire una direzione
da seguire e salire o scendere orizzontalmente lungo la corda,
approcciando un’altra nota dell’accordo piuttosto che una sua tensione.

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3. L’INFLUENZA PIANISTICA

Il supporto armonico
Cimentandosi nell’ascolto del repertorio ci si accorge che sono molteplici
gli esempi in cui Hall ricorre all’uso dell’armonia come supporto al
solismo. Questo sostegno può avere funzione coloritiva, creando voicings
al di sotto della melodia, oppure contrappuntistica, andando a lavorare
ritmicamente in risposta alle frasi a note singole.
L’uso di queste soluzioni dipende anche dalla presenza o meno di altri
strumenti armonici (pianoforte su tutti) che, lavorando sullo stesso
registro, andrebbero a interferire con la chitarra. Durante la registrazione
di dischi come Interplay o Loose Blues, per esempio, il ruolo svolto da
Hall è accostabile a quello di uno strumento lineare come può essere la
tromba di Freddie Hubbard (o il tenore di Zoot Sims), piuttosto che al
ruolo più strettamente armonico ricoperto dal piano di Bill Evans. A
supporto di questa tesi si può notare come, sempre per evitare interferenze
dovute all’uso dello stesso registro, nella versione di My funny Valentine
citata nel capitolo precedente, all’accompagnamento di Hall corrisponda
un’improvvisazione a una mano (la destra) da parte di Evans. È possibile
tuttavia sentire un utilizzo di gran lunga maggiore del supporto armonico
in chiave sia contrappuntistica che coloritiva nei dischi registrati in trio
“chitarra – contrabbasso – batteria” (Live! giusto per citarne uno) o nei
vari dischi in duo “chitarra-contrabbasso” come Alone Together e Live at
village West registrati con Ron Carter, ma anche Jim Hall & Red Mitchell
(Artists House, 1978), in cui Hall (lavorando al di fuori del registro del
basso) sfrutta magistralmente le possibilità armoniche dello strumento,
portandole anche all’interno dell’improvvisazione.
È proprio H. a dichiararlo a Don Nelsen nel 1965: “mi piacerebbe
estendere gli orizzonti della chitarra […] vederla suonata in uno stile più

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pianistico, una combinazione più originale e bilanciata di improvvisazioni
a note singole e ad accordi”.
Una visione della chitarra come una combinazione di sax e piano che si
traduce, dal punto di vista solistico, in un fraseggio horn-inspired,
(capitolo 1) alternato ad accordi che ricordano all’ascoltatore le grandi
potenzialità della chitarra come strumento armonico.
C’è chi, puntando il dito contro Hall, ha parlato di “devianza strumentale”,
cioè una specie di tradimento nei confronti del pensiero chitarristico; come
detto prima però, l’intento di H. è proprio quello di andare oltre i confini
dello strumento, confini dettati dalla scarsa immediatezza visiva che può
portare a incasellare scale e voicings secondo un pensiero eccessivamente
verticale. In difesa di Jim Hall interviene anche Jack Richardson, che
sostiene il suo merito di aver “salvato la chitarra dalla prostituzione”,
chitarra considerata uno strumento lascivo e servile per vocazione.
Inoltre ogni accusa di devianza strumentale viene a cadere se si pensa che
il padre della chitarra jazz Charlie Christian aveva costruito il suo modo di
suonare cercando di riprodurre le linee dei sax.
Per approcciare uno stile più pianistico H. ha ascoltato fin dai tempi del
Giuffre Three pianisti come Tommy Flanagan e Jimmy Jones. Inoltre non
ha mai nascosto l’influenza esercitata da Bill Evans sul suo chitarrismo.
Afferma nell’intervista con Dave Rubin del 2005 (per la rivista Guitar
Player): “Ho suonato molto spesso in duo con Ron Carter […] cercavo di
proposito di restare fuori dal suo registro mentre accompagnavo o facevo
un assolo, cercando di aggiungere qualcosa senza però suonare la
fondamentale degli accordi, quindi, in qualche modo, è un aspetto più
pianistico, quello di delineare l’armonia senza suonare l’accordo per
intero”. È interessante a questo punto andare a interrogare il repertorio:
riporto nella pagina seguente il terzo chorus della versione di Autumn
Leaves contenuta nel disco Alone Together , in duo proprio con Carter.

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Si può vedere come nelle prime due A del chorus l’intenzione sia alternare
frase e contrappunto armonico praticamente ad ogni misura. Gli accordi,
non vanno a toccare la fondamentale, basandosi principalmente sui guide
tones dell’accordo di riferimento, o su eventuali tensioni: nei due grappoli
a battuta 1 per esempio, H. muove una voce interna e l’accordo da Cm
(suonato con Eb G D, rispettivamente 3, 5 e 9 dell’accordo) diventa F7
(suonato con Eb A D, cioè 7, 3 e 13). A battuta 3 non suona accordi ma
rimarca le note guida, facendo sentire la discesa cromatica da Ab a G; a
battuta 5 invece si concentra proprio su terza e settima degli accordi.
Naturalmente è importante interrogare il solo ricercando anche la traccia,
il filo del pensiero evolutivo di Hall, ricerca che porta a vedere uno
sviluppo, se non altro dal punto di vista tensivo, degli accordi suonati sulla
sezione A successiva.
La B comincia con una cellula poliritmica reiterata per tre battute, formata
da bicordi a un tono di distanza che giocano sul colore della scala
esatonale e scendono cromaticamente; il resto è suonato principalmente a
note singole. Le ultime 8 battute, che rappresentano la sezione C, vedono
una prevalenza dell’uso dell’armonia rispetto alle singole note, senza
tralasciare però l’aspetto ritmico, come si può vedere dal “botta e risposta”
di battute 27-28. Anche in questo caso i voicings non sono mai suonati con
la fondamentale al basso, proprio per non andare a interferire con le linee
di Ron Carter. È evidente quindi in questa esecuzione un uso del supporto
armonico con funzione contrappuntistica, che avvicina l’idea della
chitarra a quella di un pianoforte, ma non tanto come disposizione delle
voci degli accordi che rimangono prettamente chitarristici: “il pianoforte
come monito quindi più che come modello” (scrive Colombo) “sorta di
promemoria critico che mortifica lo spirito di emulazione del chitarrista
arrogante e rammenta le caratteristiche funzionali dello strumento
armonico”.

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Questo solo è tratto dal Live in England del 1964, concerto presente anche
nella collana di DVD “Jazz Icons” , e vede Jim Hall militare nel quartetto
di Art Farmer (insieme a Steve Swallow e Pete La Roca). Il brano, che
porta la firma di Farmer, ha una struttura non convenzionale di 30 misure e
si sviluppa su un impianto tonale minore (Gm).
Jim Hall improvvisa sulla struttura per due chorus, utilizzando il supporto
armonico come divisorio tra primo e secondo chorus, conferendo anche
una spinta evolutiva e dinamica all’improvvisazione.
Nel primo possiamo vedere come inizialmente l’idea di Hall consista nel
girare attorno alle note degli accordi (il E naturale, sesta di Gm6 a batt. 1-
4; la discesa cromatica da A a F# facendo perno ogni volta su Eb a battute
7-8). A batt. 10-11 e poi ancora a 12-13 si possono notare due esempi di
“botta e risposta” che giocano sulla stessa idea melo ritmica conferendo
alle frasi una direzione ascendente. Hall, come nel caso precedente sfrutta
l’armonia senza affidarsi alle fondamentali dell’accordo, lasciandole
suonare al contrabbasso. Così infatti succede a batt. 18, quando suona sul
D7 il grappolo F# C e F, che altro non è che la parte superiore dell’accordo
di D alterato con la fondamentale presa sulla quinta corda.
È interessante vedere come le battute 23-29 di entrambi i chorus (nel
secondo sono rispettivamente battute 53-59) ripropongano esattamente il
tema del pezzo.
Il secondo chorus è per buona parte giostrato attorno all’uso di due voci a
una terza di distanza (in rari casi la distanza tra le due voci sale a una
quarta): comincia infatti a usarle a battuta 31, suonando sesta e
fondamentale su Gm6 (E, G), per poi scivolare indietro di un semitono,
raggiungendo nona bemolle e terza su D7 (Eb, F#).
Sopra queste strutture viene fatto cantare un D, suonato sulla prima corda.
La scelta delle due voci in questo caso, unita all’ utilizzo di note lunghe,
che si estendono per la quasi totalità delle battute, svolge appieno un

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importante ruolo coloritivo all’interno del solo, che cresce sia a livello
tensivo che a livello dinamico (si veda anche come Hall nel primo chorus
suoni con il pollice per ottenere una pasta sonora più morbida e tonda, e
come invece all’inizio del secondo si munisca di plettro).
A batt. 40-43 Hall comincia una serie di frasi ascendenti armonizzate
sempre a due voci a una terza di distanza: in questo caso la visualizzazione
orizzontale degli intervalli che salgono lungo manico della chitarra
rimanda mentalmente allo stesso tipo di approccio che si ha verso la
tastiera di un pianoforte.

Come detto prima, le ultime 8 battute del solo ripropongono il tema, con
l’unica differenza della trasposizione un’ottava sopra rispetto al chorus
precedente.
L’uso dell’armonia ha quindi in questo caso una maggiore funzione
coloritiva, andando ad aggiungere “sostanza” a una melodia che, anche in
mancanza di un altro strumento armonico, risulta chiara e completa.
Si può inoltre notare come l’entrata della seconda voce tra i due chorus
abbia permesso un’evoluzione narrativa che (citando il capitolo
precedente) può essere riconosciuta nel passaggio da una fase iniziale a
una fase intermedia dell’assolo. Per finire, l’uso alternato di pollice e
plettro è il segnale che rimanda alla cura del suono di cui si è parlato nel
primo capitolo. Come avevo scritto nella premessa infatti, è importante
cercare di mantenere attraverso i tre capitoli una visione d’insieme:
sarebbe stato peraltro impossibile e comunque poco sensato parlare di Jim
Hall (la cui carriera è stata anch’essa all’insegna dell’evoluzione stilistica)
inscatolandolo, isolandone una caratteristica senza tener conto del resto.

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Ed è per questo che cerco di considerare gli altri aspetti trattati anche nel
pensare ad un possibile esercizio didattico.

In questo caso è lo stesso Jim Hall a venire incontro a me e a chi come me


vede nel suo stile chitarristico un modello da prendere come esempio,
proponendo l’esercizio che potrebbe riassumere lo scopo didattico di
questa tesi: nel seminario tenuto all’edizione datata 1995 di Umbria Jazz,
ha infatti proposto una versione del celebre standard All the things you are
suonando prima il tema solamente sulla seconda corda (capitolo 1, la
cura del suono, Big Blues), poi ha eseguito un assolo sulla struttura,
sempre però rimanendo sulla seconda corda (capitolo 1, il legato, primo
chorus del solo su Waltz New; capitolo 2, lo sviluppo di un’idea cercando
di limitarsi all’uso di una corda sola). Ha poi ripetuto il tutto su due corde
adiacenti (seconda e terza) e poi ancora su tre corde adiacenti (seconda,
terza e quarta). A questo punto la seconda corda esprimeva la melodia,
mentre sulle altre due veniva sviluppata una linea contrappuntistica
indipendente (capitolo 3, il supporto armonico, Autumn Leaves).
Un ulteriore spunto didattico potrebbe consistere anche nell’andare ad
ampliare un esercizio citato nel capitolo precedente, ovvero quello in cui,
si cercava di sviluppare un’idea partendo da un’unica nota, stabilendo una
direzione, provando a rimanere su quella nota il più a lungo possibile per
poi salire o scendere orizzontalmente lungo la corda andando a prendere la
nota cordale o la tensione più vicina. Uno sviluppo su questo esercizio
potrebbe essere visto cercando di creare un background armonico alla nota
al canto, andando ad aggiungere due o tre voci per esempio, visualizzando
le note guida, in modo da svincolarsi dalle posizioni “pacchetto” degli
accordi “classici” lavorando in maniera trasversale su melodia e armonia,
ampliando la conoscenza del manico e andando a incrementare
consapevolezza e sicurezza sullo strumento.

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CONCLUSIONI

Uno dei tanti lati affascinanti della musica (non solo jazz) deriva dal fatto
che, non essendo propriamente una scienza esatta, non risponde a regole
definitive. Per carità, le regole ci sono, ma come in tutti i campi in cui la
scienza si interseca con l’arte, viene dato libero spazio anche all’estro
creativo e al gusto personale di colui che la studia e la pratica, in modo
tale che, una volta venuto a conoscenza delle regole, può anche permettersi
di ignorarle. Abbiamo visto infatti come nella storia del jazz, nomi come
Parker piuttosto che Christian, Monk piuttosto che lo stesso Hall (e poi mi
fermo perché la lista sarebbe infinita) abbiano piantato un paletto,
segnando anche punti di rottura, evolvendo la musica stessa, cucendola
attorno al loro pensiero, che non era sottomesso a nulla, nemmeno alla
tecnica applicata allo strumento (abbiamo visto infatti come Hall abbia
letteralmente costruito nuove diteggiature per venire incontro a
determinate esigenze stilistiche). L’evolvere della musica va a sviluppare
anche quel processo di astrazione che la rende sempre più forma artistica
e sempre meno scienza perfetta. Il musicista sa bene che l’aspetto teorico
rimane comunque fondamentale, però, proprio per i motivi esposti, lo
studio non può essere collegato a un metodo definitivo.
Quello che voglio dire è che la libertà del musicista comincia dal momento
che elegge (molto spesso per gusto personale) un esempio didattico da
seguire piuttosto che un altro: per quello che mi riguarda, la scelta di Jim
Hall come oggetto di questa tesi risponde a una parte del percorso
didattico che sto percorrendo, lasciandomi anche influenzare dagli aspetti
musicali che sento più vicini ai miei gusti. Scriverla è stato un processo di
studio e di scoperta. Nel farla non ho avuto pretese di divulgazione
didattica, ma mi sono seduto dalla parte dello studente che cerca di
imparare qualcosa da determinati aspetti che soddisfano la sua concezione

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estetica, musicalmente parlando, stimolandolo a svilupparli. L’aspetto
didattico è insito nel solismo Hall ed io in questa tesi ricopro il ruolo di un
semplice beneficiario.
È nello scrivere queste ultime righe che la mia mente ritorna alla frase
ripetuta da Jim Hall a Bologna: la didattica, con tutto ciò che ne consegue,
ricopre un ruolo importantissimo ma è importante capire che rimarrà
sempre e comunque subordinata al pensiero, alla volontà che si manifesta
quotidianamente per il semplice fatto di esistere, as a human being.

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BIBLIOGRAFIA

- Roberto G. Colombo, “Il Chitarrista di Jazz (Charlie Christian e


dintorni)” Erga Edizioni, 2009
- Jim Hall, “Exploring Jazz Guitar”, Hal Leonard, 2005
- Victor Magnani, “Everything I need to know I learned from Jim Hall.
Life lessons from the greatest living jazz guitarist”
- Dave Rubin, “Jim Hall” intervista pubblicata sulla rivista Guitar
Player, settembre 2005.
- Italo De Angelis, “Harmonic finesse”, articolo pubblicato sulla
rivista Axe, novembre/dicembre 1995.
- Arrigo Polillo, Jazz, Mondadori, 1975.

RINGRAZIAMENTI

Vorrei ringraziare innanzitutto le persone che mi hanno seguito e stimolato


durante questi anni in cui mi sono appassionato allo studio del jazz:
Antonio Cavicchi, Luca Bragalini, Roberto Spadoni, Daniele Santimone e
tutta la scuola di musica “G. Sarti” di Faenza; ringrazio Franco Ranieri per
il supporto, i miei amici musicisti Giovanni Minguzzi, Marco Gardini,
Gian Maria Fano, Nicola Nieddu, Antonio Cortesi per le esperienze
condivise. Un ringraziamento speciale va a Giovanni Bertelli, compagno di
studi, che mi ha insegnato molto. Desidero anche ringraziare i miei
genitori e tutti i miei amici.

Davide Tardozzi, febbraio 2013

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