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Paolo Pejrone

Un giardino semplice
Storie di felici accoglienze
e armoniose convivenze

Einaudi
Un giardino semplice

A Ciadel per il suo compleanno


Introduzione

In giardino, e soprattutto nel mio giardino, ben vengano le emozioni, le esagerazioni, i


tentativi, la vita vivace, la paura, le speranze, le gioie e le sorprese: l’imprevisto, a questo punto,
diverrebbe parte del vivere, giorno dopo giorno. Evviva quindi i miei minuscoli prati di bucaneve
spontanei, cresciuti da soli, senza un impianto logico, che di anno in anno, fioritura dopo
fioritura, ci regalano, quasi all’improvviso, le piú belle e ripetute gioie. E come giudicare il
piccolo bosco «naturale» di davidie che sta crescendo ai margini del gruppo ormai adulto vicino
al ruscelletto o i numerosi Cornus kousa che nascono un po’ dappertutto nel giardino? Cosí come
le piccole piante di Daphne bholua, profumate e robuste, anche loro seminate e nate senza l’aiuto
dell’uomo. Tutti insieme danno la teorica certezza della continuità. Un futuro pieno di vita
quindi, in facile e impetuoso divenire.
Quando il giardino va da sé, quando cresce sicuro e tranquillo, quando si autoriproduce, può
tramutarsi in un’entità forte, che, non dipendendo piú dall’uomo, affronta le difficoltà, malattie in
testa, con grande sicurezza: l’importante è poter crescere un giardino robusto nel quale la
speranza divenga certezza e il futuro, che piova o non piova, che geli o non geli, che ci siano
funghi o cavallette, non possa che delinearsi felice, sereno e tranquillo.
Un paio di cesoie affilate per riequilibrare le forme scappate o per tagliarne i fiori sfioriti, un
po’ di zappa e di vanga per allontanare e annientare le piante invadenti (sempre in agguato), un
rastrello per creare pacciamature ricche e intelligenti, sono gli attrezzi primari per un giardino
che cresce in modo autonomo e «spontaneo».
Un giardino, quindi, ospitale, patria sicura per i piccoli animali che vi possono crescere e
vivere: dalle lucertole alle salamandre, dagli uccellini ai rospi, dai ricci ai topini di campagna, un
giardino accogliente e ricco, un variopinto serraglio di amici, di veri e vivaci compagni di
viaggio.
Il non aver abusato di trattamenti e veleni, il non aver coperto di cure ansiose e pericolose il
nostro microcosmo, darà grandi e durevoli vantaggi al futuro giardino. E il fatto che sia
intensamente abitato ne è la giusta ricompensa. Un giardino non è soltanto un posto per sole
piante.
Primavera
L’allegria della primavera.

A volte anche le piante, esattamente come noi, si permettono qualche bizzarria e al giardiniere
non resta che fare buon viso, adeguandosi, con un pizzico di ironia, ai piccoli ma spesso
graditissimi capricci della natura. Due precoci, belle e tiepide giornate non fanno primavera. Il
bravo giardiniere lo sa benissimo: la strada è ancora lunga e neve e gelo possono sempre
ritornare. Anche se sembra di essere avvolti da una primavera galoppante, una buona e vivace
memoria ci insegna che può ancora, ad aprile, capitare di tutto.
Qui, come tutti gli anni, a San Biagio, all’inizio di febbraio, le prime viole sono già in fiore:
sono le puntuali e precise avanguardie di quella primavera che San Benedetto ogni anno porta
con sé.
In primavera in giardino c’è ancora molto da fare: spesso c’è tanto da potare. Quest’anno, per
esempio, ci sono ancora da piantare (trapiantare) le felci ai piedi delle magnolie. C’è da finire di
«pulire» l’orto dove le piccole insalate sono già state seminate.
Non bisogna aver paura di seminare: è una delle pratiche piú gradevoli, ricca di speranze e di
poesia, forse una delle piú «generose» del giardinaggio. E non è proprio difficile. La cosa piú
importante è non interrare troppo il seme: «il suono delle campane deve arrivare fino a loro»,
diceva Charles de Noailles, ripetendo un’ antica e popolare frase giardiniera.
Quest’anno ho raccolto i grandi semi delle davidie, l’albero dei fazzoletti: sono tantissimi: un
secchio pieno! Li darò a Marco Sartori che, come l’anno scorso, li seminerà e in seguito metterà
in commercio tanti, nuovi, piccoli alberi. Una vera e autentica gioia: le davidie sono cosí belle,
sempre, nel corso dell’anno, da inverno a inverno!
I giardini sono fatti anche di questo, contribuiscono con semplicità e tranquillità a moltiplicare
le specie, a farle diventare piú facilmente reperibili (e perché no?) trasformano le rarità in
presenze quotidiane, alla portata di tutti. Riuscendo a diffondere i piaceri di un albero, di un
arbusto, di una verdura, di un bulbo.
Spesso le piante fanno molti semi, talvolta moltissimi: la sopravvivenza tra le piccole piante
infatti non è facile. Le specie devono pur salvarsi e riprodursi.
Nell’aria, in tutto il giardino, intanto aleggia quell’allegria che soltanto la primavera può
comunicare: forme, colori, sapori e profumi, anche se confusi e mescolati, combattono con
successo le noie austere e uniformi dell’inverno. È questione di poco: il cambiamento, con le
bizzarre cadenze che ne derivano, è alle porte. Radici, foglie e fiori si sono messi in movimento.
La famiglia allargata del fiore pop di primavera.

Che una primula faccia primavera è fuori discussione: nessun’altra pianta è mai riuscita a
contenderle il titolo, neanche le piante da bulbo piú coraggiose e caparbie, anche quelle che
fioriscono prima del tempo, in mezz’inverno.
Una volta nei giardini, come nei bordi dei boschi, c’erano quelle selvatiche (P. vulgaris): con
i loro ben noti piccoli fiori di un meraviglioso, pallido e delicato, giallo. Leggermente profumati
si appoggiano su foglie strette e allungate, belle, di color verde chiaro.
In Piemonte, nei mercati, dove esistono i banchi dei contadini, si possono trovare e comperare
insieme ad altre gradevoli erbette: fatte cuocere con ortiche, violette, tarassachi, margheritine e
Silene inflata (i cuiet del vecchio e poverissimo Piemonte) sono la base di primaverili e leggere
minestre. E di splendide frittate, adatte ai tempi e alle freschezze dei gusti che ne
caratterizzavano l’epoca. Oggi, nei negozi di semi e di piante e nei garden center, queste
«antiche» bellissime primule, dal sobrio e puritano aspetto, hanno ceduto il passo alle nuove e
variopinte (ma purtroppo non profumate) Primula polyantha, l’invasivo ibrido orticolo dai vivaci
colori (e spesso abbinati in modo ancor piú vistoso), con foglie e fiori maggiorati, compatti e
praticamente privi di fusto. Sgargianti e chiassose sono diventate ormai «le primule» per
eccellenza, apprezzate, conosciute e utilizzate in ogni angolo coltivabile: decisamente un fiore
«pop». Nel bene e nel male: nel bene perché, essendo piante molto rustiche, facili ed
economiche, sono accessibili e coltivabili da tutti, riuscendo con vigore a colorare anche i luoghi
piú spogli e desolati. Nel male perché vittime di ritmi di una società sempre piú frenetica e
consumista vengono trattate, forse per facilità e pigrizia, da piante annuali, pur essendo piante
biannuali e molto spesso perenni; un po’ come fossero fiori «usa e getta», vittime del sempre piú
comune giardino scenografico e «allestito», quello prêt-à-porter.
Tornando alle nostre primule non si può non notare la numerosa e bella famiglia ed è giusto
ricordare tante altre, deliziose e robuste piante, che in tutte le parti d’Italia crescono spontanee.
Oltre alla già citata P. vulgaris, per esempio, la P. elatior, i cui piccoli e pallidi fiori sono portati
da fusti alti anche trenta centimetri, o la profumata P. veris, dai fiori gialli con centro arancione,
leggermente campanulati e che sbocciano in primavera avanzata.
Sembrano fatte di vero e proprio velluto le aristocratiche P. auricula, chiamate «orecchie
d’orso» per la curiosa forma delle foglie. Già nel XVI secolo vennero selezionate numerose e
ricercate varietà bicolori. A metà Ottocento furono molto amate in Inghilterra, dove venivano
addirittura esibite come preziose opere d’arte, in appositi «teatrini» di legno rivestiti di velluto
scuro o nero adatti a esaltarne forme e colori. Trattate in modo piú rustico e meno scenografico,
timidamente stanno tornando di moda.
Popolari, invece, deliziose e bellissime, provenienti dall’Oriente, sono le P. obconica, le
primule da fiore coltivate normalmente in casa e in serra, dai toni del rosa, del bianco e del
malva. Cresciute seguendo alcuni semplici accorgimenti, possono vivere molto a lungo e
sopportare anche i caldi tropicali dell’estate, che normalmente non amano. In un punto luminoso
della casa, riescono a fiorire in modo gradevole e decoroso per buona parte dell’anno e, se forti
ed evidentemente ben accudite, possono cominciare a fiorire prima di Natale, addirittura in
autunno.
Le primule, tutte, sono piante facili, frugali e rustiche, preferiscono posizioni a mezzombra e,
come già detto, mal sopportano i caldi estivi, vogliono terreni neutri o leggermente calcarei e
soprattutto ben drenati. Insieme alle lumache, insaziabili divoratrici delle loro tenerissime e dolci
foglie, la troppa acqua, quella stagnante in testa, la calura ne è, in fondo, il piú insidioso e
comune nemico.
All’ombra fresca delle Giuseppine in fiore.

Con i loro eleganti e antichi (di colore e d’aspetto) fiori rosa e con le loro foglie un po’ grosse,
larghe e grandi, le «Giuseppine» difendono con caparbietà il loro dovuto buon posto tra le piante
di primavera e, se felici, sono molto ornamentali e gradevoli. Un tempo erano piante comuni nei
giardini e negli orti: riempivano sia i bordi dei prati ombrosi che le sponde piú fresche degli orti,
sicure della loro bella presenza, erano decisamente «trasversali».
Erano piante facili da propagare: piante che nascevano dalla divisione dei cespi, pratica questa
delle piú antiche e purtroppo dai giardinieri d’oggi delle meno seguite. Le nuove piante erano il
frutto della quotidianità del lavoro e di quella speciale passione che spesso coinvolgeva gli
ortolani «giardinieri» di un tempo. Tempo in cui economia e avvedutezza erano parte delle
quotidiane e ben professate virtú e il giardinaggio poteva essere giudicato la sobria e gradevole
conseguenza del puntuale sopravvivere dell’orto. Spesso ne diveniva un poetico e colorato
corollario.
Le «Giuseppine» detestano stare all’asciutto: amano i posti leggermente ombreggiati e
freschi. Le loro grandi foglie mal sopportano i colpi di sole: tendono ad afflosciarsi, quasi a
disidratarsi. In Italia sono piante, un po’ come le ortensie, da esposizione fresca, a nord.
Durante il XIX secolo, in seguito a ricerche botaniche, il mondo della selezione, prova di una
sollecitante richiesta di mercato e di estesa popolarità, si è approfondito piú di quanto si creda. E
di tutte le nuove «Giuseppine» la varietà Ballawley è forse la piú speciale e appariscente: fiera
delle sue foglie molto piú grandi della specie e dei suoi fiori piú vistosi e scuri, è pianta di
indiscussa personalità. È un po’ piú esigente della specie in quanto a clima e posizione:
bellissime infatti sono quelle che crescono nei giardini di Scozia e d’Irlanda, dove, come si sa,
piove spessissimo e dove il gelo, grazie alla generosa corrente del Golfo, non si accanisce troppo.
Da noi, se non seguite giorno dopo giorno con intelligenti innaffiature, molte volte aspettano un
buon periodo di siccità (d’aria e di terra!) per patire, soffrire e talvolta soccombere. Piú robusta e
di facile coltivazione è la varietà Silberlicht, dalle foglie larghe ed eleganti che possono diventare
d’autunno color del bronzo e del rame e i cui fiori lunghi e campanulati, in primavera, si aprono
tra il bianco piú sorprendente e il rosato. Bellissima è molto spesso piantata nei giardini olandesi,
tedeschi e scandinavi. Se ben coltivata e felicemente appagata può diventare una piú che preziosa
(e vistosa) presenza nel multicolorato bailamme del giardino primaverile.
Essendo sempreverdi le foglie delle «Giuseppine» danno in giardino un senso di vivace
continuità, che durante l’inverno spesso si apprezza: riescono ad attutire quel senso della
desolazione che il rigore, non soltanto termico, può imporre sul giardino stesso. Rigogliose e
spesso prorompenti e bellissime, si possono frequentemente vedere nei giardini rivieraschi, dove
possono gioire dei tepori invernali, pur necessitando d’estate di un continuativo, anche se non
ricco, innaffio a rinforzo della «guazza», la stessa rugiada estiva. Non bisogna dimenticare che
all’origine, nella lontana Siberia, sono piante abituate, durante l’inverno, a esser sepolte sotto la
neve (e quindi a esser protette) dalle feroci incursioni termiche del luogo.
Bergenia crassifolia è il loro nome botanico e appartengono alla grande e generosa famiglia
delle Saxifragae, famiglia ricca, come ben si sa, di bellissime e preziose piante da giardino. E
non soltanto.
Rustica e orgogliosa.

In giardino la Clematis armandii si è arrampicata, anno dopo anno, sui rami alti di un vecchio
pero: una nuvola bianca e profumata, che anticipa di un mese buono la fioritura (per la verità
ormai un po’ spargola e stentata) della vecchia pianta da frutto. È una clematide tra le piú robuste
e rustiche, che ben sopporta il gelo invernale ma che teme l’esposizione prolungata ai venti
freddi. Le sue lunghe foglie pinnate e coriacee sono belle, ornamentali e sempreverdi e i fiori,
semplici e riuniti in ricchi e soffici grappoli bianco crema, profumano di mandorla. Originaria
della Cina, venne portata in Europa agli inizi del XX secolo dall’inglese Ernest Wilson,
cacciatore di piante nelle lontane terre asiatiche. La Clematis armandii fu dedicata a un altro
botanico europeo innamorato dell’Oriente, Jean-Pierre-Armand David, missionario francese che
partí nella seconda metà dell’Ottocento per la Cina alla ricerca del mitico «albero dei fazzoletti»:
una ricerca durata l’intera vita ma che portò alla scoperta di molte specie oggi diffuse nei nostri
giardini.
Ne esiste una varietà dal colore rosato, la C. a. Apple Blossom, e una a fiore grande, chiamata
C. a. Snowdrift, cumulo di neve, che di tutte forse è la piú bella. La C. armandii richiede un
terreno fresco, umido e ben drenato e anche per lei vale la regola di tutte le clematidi: chioma al
sole e piede all’ombra.
Un fiore démodé.

I mughetti sono piante non alla moda: vengono di tanto in tanto coinvolti nei romantici
bouquet delle spose e nulla piú. Chi volesse piantarne qualche pianta in giardino, ricordandosi
della loro delicata bellezza e del tipico profumo, dovrebbe pensarci un po’ di tempo prima: i
rizomi vanno «previsti» e piantati sette-otto mesi prima del fiore. E non è detto che si trovino
facilmente nei cataloghi o nei garden center.
Quando qualche giardiniere piú previdente li espone in vasetti alla mostra mercato di Masino
o a quella della Landriana, io non esito un istante (e compro), e pianto i vasetti a piccoli gruppi
negli angoli piú dismessi e discosti del giardino cercando sempre dei posti freschi e umidi. Fanno
miracoli: e da un anno all’altro timidamente si allargano. In terrazza se c’è spazio alla semiombra
(dove il sole si dimentica normalmente di volteggiare), quello è il loro posto. Vanno piantati in
terriccio non troppo ricco ma non troppo povero. Un po’ di argilla non fa loro per niente male.
Sono piante molto facili, dai fiori e dalle foglie semplici, e sono proprio bellissime. Qui dopo
l’inverno glaciale, stanno, con enorme entusiasmo e vigoria, incominciando a «uscire». È pianta
da nord, da posti freschi e freddi: è inutile coltivare i mughetti dove non gela d’inverno.
Sono piante forti e resistenti, nonostante la loro aria delicata, propria delle piante «naturali»
non ancora aggredite dalle manipolazioni dell’uomo e dalle sue miopi frenesie consumistiche.
Spuntano le viole.

Quasi si liberino da un incubo (o da un reale pericolo), dopo l’inverno, le viole fioriscono


tutte insieme: altro che sottotono! Si producono in un’abbondante e inusuale esplosione di colore
e di profumo, quasi un garbato inno alla vita e alla gioia: un gran bel prologo all’anno
giardiniero.
A ben ragionarci è curioso come queste piante non siano piú «di moda». I giardini moderni
molto raramente annoverano le viole: sono giudicate, evidentemente, dei vecchiumi romantici. I
«nuovi» giardinieri sono concentrati su robusti piantamenti di essenze nuove, dalle abelie, cosí
alla moda perché «sempre in fiore», alle nandine, vere piacione, sempre belle, anzi «bellissime».
Le piante piú alla moda però, e da qualche anno, sono le «erbe», le graminacee ornamentali,
che se la spassano come le regine indiscusse del nuovo, dove per nuovo spesso s’intende un
«disegnato» insieme, spalleggiato da un’abbondante e fluttuante rassegna botanica, fatta di tanti
ricercati accostamenti. I «nuovi» giardinieri, fieri di aver abbandonato il Fiore e il Profumo come
secondari accessori o come inutili anticaglie, si buttano con fede e ricercata spavalderia tra gli
steli raffinati e poveri delle festuche & C. Sicuri e fiduciosi che i giardini «erbosi», quasi
immobili nell’aspetto e spesso decisamente ineleganti nel loro ondeggiare, siano pure di gran
facile manutenzione e soprattutto di «grafico» impatto. Del resto, un giardino di erbe è uguale
tanto sotto il cielo della California quanto sotto quello della Lituania.
Con le nostre belle erbe diventate delle vere e ruvide sentinelle di un mondo nuovo, ci si può
fare certamente un giardino nuovo, forse perché estrapolato dal locale contesto e dalle facili
memorie dei posti: la globalizzazione che è ormai parte della vita di tutti i giorni è venuta a far
parte prepotente anche dei «nostri» giardini.
La sostanza e la forma dei giardini «vecchi» sono molto spesso dettate dalla cultura e dalle
situazioni climatiche dei posti stessi: mi chiedo se si deve abbandonare tutto questo per poter
disporre di una «erbosa» globalizzazione all’insegna di un folto nuovo mondo «graminaceo». Per
me non è proprio facile vivere a contatto con giardini, sotto un certo aspetto, tutti «jeans e Coca-
Cola»!
Recuperiamo la bellezza del giacinto.

Marzo: il giardino ha i suoi tempi, le sue pretese e le sue generosità. I giacinti stanno
«uscendo», stanno facendo il loro outing annuale. All’ombra del cotogno mostrano tutta la loro
civile partecipazione.
Ho deciso che alcuni di quei bei giacinti azzurri dovranno esser sacrificati all’invasione delle
Aralia papyrifera recentemente piantate: non c’è posto per tutto. Sacrificati ma non sciupati o
peggio non uccisi: prenderò la mia piccola vanga tuttofare, che tengo ben nascosta a tutti i miei
eventuali aiutanti. È un vero toccasana per piccoli lavori di «fino», trapianti di singole pianticine,
interramento di bulbi, ecc., e con il suo aiuto spianterò buona parte di quei giacinti e con
decisione e risolutezza, in pochissime ore il lavoro sarà fatto. Ho scelto per il trapianto un posto
un po’umido: i giacinti non amano il secco troppo secco! Cosí come i narcisi.
Anche se sembra un’azione cruenta, quella dello strappare dalla terra in piena vegetazione
delle piante bulbose, all’atto pratico lo è molto meno di quanto si pensi. È dai risultati che lo si
può intuire: se tolte e piantate, soprattutto se fatto a inizio stagione e senza indugi, si possono
avere ottimi risultati.
Un giardino (o un terrazzo) fiorito, felice e in buona salute è fatto anche di decisioni spesso
rischiose. Il successo, come al solito, è fatto anche di coraggio, ma soprattutto di esperienza e
(perché no?) di semplice mestiere.
Complici alcuni giorni di sole, i giacinti stanno incominciando a spuntare fuori dal terreno:
escono robusti e vigorosi dalle foglie appositamente lasciate sul terreno a proteggerli. Sono i
giacinti orientali Delft Blue, gli azzurri e profumati epigoni di anni e anni di selezioni in terra
d’Olanda. Ricordano con il loro delicato azzurro i vecchi, nostrani, rimpianti «giacinti romani»,
passati, anzi trapassati, di moda. Non erano né costosi né rari: venivano chiamati giacinti romani
e venivano venduti a centinaia dai fiorai e nei negozi di semi. Erano i giacinti «selvatici», nella
loro essenziale semplicità, un trionfo di profumi e di bellezza. Erano soprattutto dei bulbi che se
appagati nelle loro povere esigenze e felici del loro posto, rifiorivano puntuali tutti gli anni. Gli
stradini e i vialetti delle piccole vigne della collina torinese spesso ne avevano i bordi ricoperti:
bianchi, azzurri e rosa erano il simbolo di una maniera vecchia e gentile di far giardinaggio.
Insieme ai garofanini bianchi e rosa, e a uno o due grandi ciuffi di peonie, chiudevano spesso il
cerchio della «grande» bellezza. Poche piante di ribes e le fragoline, spesso insieme, chiudevano
quello del «buon» gusto.
Cavoretto, Moncalieri, San Mauro, Chieri, erano i posti preferiti per quelle profumate
performance. I giacinti «romani» vi crescevano felicissimi soprattutto se non venivano molestati
da giardinieri troppo premurosi: un po’ come gli ellebori o le peonie. Piú erano lasciati tranquilli,
piú erano appagati.
Da alcuni decenni i giacinti romani sono diventati una vera rarità: uccisi dal disinteresse e
soprattutto da forme nuove e nevrotiche di giardinaggio, dove «il fare» può causare piú danni del
«non fare». Il colpo di grazia, i poveri giacinti romani, lo subirono dalla invadente e prevaricante
cultura olandese del bulbo: i meravigliosamente fotografati e promossi giacintoni rossi, rosa, blu,
azzurri, gialli, bianchi e crema, forti delle loro spigone profumate, irruenti nella loro quantità,
hanno avuto buon gioco con i nostri piú poveri e modesti. Una vera e autentica calata di barbari
supponenti (e purtroppo efficienti) li ha sostituiti. In pochi decenni il giacinto romano è diventato
quindi una rarità e col nome talvolta di Bellavalia fa raramente capolino qui e là, quasi fosse
stato la vittima di una congiura anti-italiana.
Tutti gli anni a metà marzo ne fiorisce un piccolo cespo al bordo di un orto, lungo la strada
che unisce Garessio ad Albenga: quando posso, accosto con la mia automobile in un minuscolo
spiazzo, e vado ad annusare. Il profumo di quei giacinti è tenue, attraente e prezioso e,
soprattutto, fa parte dei ricordi. Un profumo meno invasivo di quello dei giacinti orientali (quelli
comuni, tanto per intenderci) che mi rimanda chissà perché a certi prati fioriti che occhieggiano
con i loro modesti frutti di bosco tra i piedi degli eroi e delle eroine del salone baronale del
castello di Manta. Tutto questo sembra ormai lontanissimo, parte di una storia scomparsa ma che
ho avuto il privilegio d’aver visto ancora da vicino. Mai si sarebbe potuto pensare che il giacinto
romano diventasse prezioso e raro: in autunno i bulbi piccoli e squamosi tra il bianco, il viola e il
mordorè, in abbondanza erano offerti dall’eclettico Agostino Valerio a Torino in piazza
Paleocapa o da Ingegnoli a Milano o, ancora pochi anni orsono, dal grande e sempre ben fornito
Sgaravatti in quel di Roma. Nulla prevedeva la débâcle.
Ospiti.

La primavera si fa sentire: le rose cominciano a «muovere», stanno mettendo i loro piccoli


germogli. I tulipani e i giacinti, anche loro, stanno timidamente «uscendo». I canti, quelli
ripetitivi e sonori dei merli, o quelli sottili e un po’ nervosi dei pettirossi, si mescolano alla nenia
inconfondibile e gutturale delle cince. I loro refrain incominciano a essere insistenti: le coppie
sono praticamente fatte e per la scelta del nido è una questione di settimane. Mai è stata cosí
frequentata la mangiatoia: sarà la forza dell’abitudine (quattro-cinque anni di continuata e
puntuale «fornitura» invernale di semi di girasole). Le presenze negli ultimi anni sono state
particolarmente assidue e nei giorni di neve c’è stato un vero assalto. La mangiatoia ha segnato
un autentico successo: beccate, spintoni e svolazzi in ogni momento del giorno fino
all’imbrunire. E tutto questo «assalto» in un vivace e frenetico crescendo. Per tutti loro venire
vicino a casa è diventata un’abitudine: all’inizio le piú spavalde furono le cince, incominciando
in modo meno timido a becchettare i semi per scappare con la loro preda nel fitto intrico del
frassino a spolpare il loro takeaway. Ora anche qualche verdone si avvicina e, con loro, una
famigliola di fringuelli, molto piú timidi e sospettosi delle cince e piú modesti, si accontentano
pure di alcune briciole di pane.
Il giardino, quello vero, è fatto anche di questo: non soltanto di pratini e roselline. È il posto
adatto per nidi, ben proposti e ben sistemati, appoggiati tra gli alberi, nel folto dei rampicanti o
tra le canne di bambú, preferibilmente con «entrata» a mezzogiorno, verso sud. Alle «mie» cince
piacciono in modo speciale i nidi appoggiati nel folto delle rose che si arrampicano sulla casa.
Evidentemente un muro alle spalle e le spine tra i rami servono, nel loro immaginario, ad
allontanare gli eventuali nemici! Il «processo» normalmente è lungo: le mangiatoie, gli
abbeveratoi (quanto è importante un po’ d’acqua in giardino!) e i nidi, all’inizio sembra non
vengano presi in considerazione. Non è detto infatti che gli uccelli diano immediata
soddisfazione alle nostre offerte: se non abituati (o, peggio, digiuni di generosità) spesso ci
possono mettere anche un anno a capire (e a fidarsi!)
E ben sapendo che i loro tempi sono differenti dai nostri, è necessaria un po’ di testarda e
generosa volontà.
Se tutti i giardini avessero i loro due o tre nidi, la loro mangiatoia e il loro abbeveratoio si
potrebbe sperare di poter riequilibrare ai gravi e continui danni che possono arrecare loro
giornalmente automobili, gatti, vetri puliti e spietati uccellatori (nonostante tutto, ancora
esistenti!) Penso comunque siano necessarie una riflessione e una constatazione molto semplici
riguardo il cibo e l’ambiente: gli uccelli, non è proprio difficile capirlo, solitamente amano i
giardini «sporchi», non troppo manicurati, quelli non chimicamente «avvelenati». Sporchi fuori,
ma puliti dentro, con le loro foglie, rametti ed erbacce, accumulati in qualche angolo ombroso e
messi a compostare in modo del tutto naturale e senza additivi chimici. Vermi e insetti, se non
disturbati, diventano maglie di una semplice catena alimentare che la «nuova» floricultura, cosí
asettica, purista e spasmodicamente tesa allo spick-and- span ha eliminato dai suoi vasi e dalle
sue terre. Catena «bio» che, se vogliamo, nel nostro piccolo, possiamo ricreare: sarà sufficiente
«importare» in giardino una o due ricche forcate di letame maturo. Di quello vero: proveniente
da stalle (o scuderie) vere e sane. Ottimo per esperienza è il letame d’alpeggio, spesso e per
fortuna ancora «sporco» (e non troppo tartassato dall’uso sempre piú alla moda degli antibiotici).
Il breakfast inizia presto, dopo le otto, la merenda finisce verso le cinque: gli uccellini ormai
sono abituati a venire a beccare dove ce n’è, ma sempre nelle ore centrali del giorno. Da cinque
anni, d’inverno, la loro dispensa sul lungo balcone è sempre piena di semi di girasole: cerco di
non farli mancare mai, quasi fosse, tra di noi, un chiaro e onesto patto di convivenza. Tutto è
cominciato da un viaggio in Inghilterra, dalla mia amica Arabella: le due mangiatoie piene di
piccoli e differenti semi attraevano in continuo frotte di cince, pettirossi, capinere, merli e
passerotti.
Il bravo giardiniere sa benissimo che il giardino è un mondo molto piú ampio di quanto si
possa intuire, fatto di acqua, di pietre, di vasi, di terra, di concimi naturali, di verderame leggero,
di uccellini, di lucertole e rospi e (perché no?) pure di uno o piú cani. Nei giorni piú freddi
dell’anno gli uccellini vi saranno riconoscenti per un po’ di attenzione e per il vostro aiuto. Fin
da bambino, ai tempi del Natale, ci si azzardava, con successo, sempre su un balcone, con
briciole di pane o, quelle preziose, degli avanzi del panettone. Ma come mi assicurò Arabella era
soprattutto l’abitudine a fare l’en plein: giorno dopo giorno, anno dopo anno, da ottobre ad
aprile, lo stesso posto e gli stessi semi fanno il vero leitmotiv di una felice convivenza e
sopravvivenza invernale. Un sacchetto di semi di girasole, come già detto, può scomparire in due
o tre giorni; bellissimo, nelle giornate invernali, poter assistere a dieci ore di un continuo e
qualche volta anche affannato andirivieni: pochi semi di girasole (quanto di piú povero ed
economico) riescono a fare una vera festa. Nei momenti di maggior calma due o tre volte al
giorno si avvicina sospettoso il pettirosso: quasi fosse spaventato dalle cince e dai loro bruschi
modi, raccoglie con dignità piccole briciole e quasi irritato, di volta in volta, scappa veloce. Due
fringuelli e alcuni verdoni, che gli anni scorsi ci facevano lunghe visite, non sono piú tornati.
Non ci resta che aspettare: in quanto al posto e alla reperibilità la mia piccola «stazione di
servizio» è ben indicata, ed è facile da trovare, se non altro con tutto il movimento vistoso e
allegro che fanno le cince. L’emergenza farà pure i suoi miracoli!
Iris.

Eleganti e praticamente impassibili, visti in giardino hanno un’aria quasi casuale, gli iris sono
da sempre degli ottimi compagni di «percorso» per i giardini aridi. E sono pure facili: amano i
nostri soli brucianti, le nostre siccità prolungate e soprattutto si accontentano di poco. Le terre
troppo ricche danno loro quasi fastidio e in questo caso i terreni ben drenati sono indispensabili.
Amano crescere nelle terre piú povere. Belli, leggeri (e se pallidi, quasi evanescenti), gli iris sono
fiori del poco, quasi del nulla, fioriscono ai primi caldi e dormono lunghi letarghi: sono rustici e
robusti.
Di tutti, forse il piú «essenziale» e semplice è l’Iris florentino, profumato simbolo della città.
Sulla mia erta e assolata collina, è il primo a fiorire, tanto da cominciare a marzo quasi fosse
complice di una sfida antica, frugale, da vero «hidalgo». Scuro e quasi vellutato, di anno in anno,
con la ben conosciuta semplicità dei forti, «va avanti» imperterrito, sfidando tanto le turbolenze
delle primavere piovose e fredde quanto i tormenti delle estati assolate e aride. Sono sufficienti
poche piante, due o tre rizomi, per fare la festa: sono piante cosí robuste da poter anche
sopravvivere non interrate, quasi appoggiate, senza terra, sui tetti e sui pilastrini delle recinzioni
o addirittura sulle rocce del «mio» Mombracco, adattandosi al niente e sopravvivendo a tutto. E
qua e là anche fiorendo.
Una bella forma a fiore bianco ci ricorda quanto sia bello anche il poco colore (sempre che il
bianco sia un poco colore). Quell’iris opalescente e pallidissimo di cui Amerigo Gondi, sapiente
cultore di storiche (e amene) fiorentinità, amava ricordare come il nome, giaggiolo, fosse una
popolare semplificazione da ghiacciolo, il fiore del ghiaccio. E sempre Amerigo Gondi ricordava
come fosse antico e felice il matrimonio tra le «roselline della China» (non amava i neologismi!)
e i giaggioli e gli iris di Firenze. Iris e roselline infatti amano e richiedono analoghi trattamenti
(soprattutto amano i non-trattamenti!): molto felicemente vivono insieme e uniti nei famosi e bei
giardini del Granducato, da ben piú di due secoli.
Belle e pure robuste sono due «antiche» specie di iris, altrettanto comuni: quelli di Dalmazia e
quelli di Germania. L’Iris pallida dalmatica che fiorisce una o due settimane piú tardi di quelli di
Firenze: dritto, ben piú alto e gloriosamente pallido, fiero delle sue belle, acute e robuste foglie a
lama di spada, ama «diffondersi» con estrema facilità. Se piantato e abbandonato, non è pianta
complessata: non si offende, anzi, dai risultati sembra proprio che coraggiosamente si dedichi a
riscosse vistose. Pure lui di pochissime esigenze fiorisce a maggio con la puntualità degli
appagati e la perseveranza dei forti.
Indimenticabile per me fu la vista, a sorpresa, di un giardino, quasi un campo di Iris
germanica, in piena fioritura, vicino a una piccola chiesa a Metsovo, tra le «valacche» montagne
della Grecia. Il viola vivace e il giallo sbiadito dei suoi fiori, e soprattutto il loro profumo leggero
non si possono dimenticare. Come pure l’eleganza di un cosí semplice e massiccio
«assembramento». L’Iris germanica porta fiori di antica e attraente bellezza, rustico e robusto
non ha bisogno di nulla. Visto il mio stupore, mi fu offerto, dal pope che abitava accanto a quella
chiesa, un piccolo rizoma che felicemente portai qui nel mio giardino e piantai sull’angolo di
un’aiuola dell’orto: ora ogni anno puntualmente è in fiore. Questo semplice iris è per me uno dei
tanti e frequenti simboli della generosità tradizionale e giardiniera che, per fortuna, può essere
contagiosa. Da anni, in tanti altri giardini, i figli dell’iris di Metsovo stanno crescendo. Sono gli
schietti portatori di una bella e viva memoria. Moltissimi altri iris fanno da tempo parte del mio
mondo giardiniero. Numerosi quelli ibridi, spesso sofisticati e talvolta meno rustici. Trovo da
sempre molto belli, soprattutto, quelli un po’ sciocchi, sbiaditi e pallidi: quelli che furono
preferiti, a suo tempo, da Vita Sackville-West, che di fiori e di colori se ne intendeva non poco.
I grappoli del narciso.

A ognuno il suo narciso. Qui in giardino, da tempo, siam stati proprio fortunati: il nostro
Narcissus italicus è una delle varietà piú belle, con piccoli fiori a grappolo, profumatissimi, tra il
bianco e il giallo, quanto di piú vicino ai narcisi di un tempo e quanto di piú lontano dall’attuale
moda che preferisce ed esalta le infiorescenze piú vistose. Purtroppo il genere dei narcisi ne è
stato una delle tante vittime attraverso la selezione di ibridi a fiori grandi, dal portamento rigido,
quasi indistruttibili e totalmente inodori. E non si tratta di differenze di poco conto. Lo sa bene
chiunque abbia la fortuna di raccogliere alcuni fiori di Narcissus italicus per metterli in un
bicchiere: un profumo sottile, un po’ unico, simile a quello del bergamotto. In giardino sono
fioriti, godendo delle molte ore di sole e della posizione riparata, ai piedi del muro di pietra,
lungo il viottolo che costeggia gli ulivi. Altri, piantati piú in basso, vicino al vecchio albero di
cachi, non replicano con altrettanta generosità: sarà, penso, questione di differenti ombre estive.
Come per tutti i narcisi, o meglio come per tutte le bulbose, devono essere lasciate le foglie ben
oltre la fioritura, periodo che per gli inglesi è, con semplicità giardiniera, riassunto e ridotto nelle
ben conosciute five weeks, che determinano in modo pratico la durata minima dopo la quale si
possono tagliare le foglie praticamente a raso.
Profumo di primavera.

Il profumo della mia primavera è composto di tante preziose voci: dai narcisi alle violette,
dall’albicocco che è già in pieno fiore, ai peschi. La David Clulow, la grande profumata
magnolia bianca si sta aprendo di ora in ora, cosí come alcune camelie dal leggerissimo profumo
ma bellissime: come la Cornish Snow (che gareggia in bianco giustamente con la neve).
La primavera è cominciata: al bordo dei boschi piú riparati e meglio esposti gli iris
«fiorentini» hanno incominciato a fiorire. Nei boschi stessi il cerfoglio, robustissimo ai geli,
cresce timido e spontaneo. È bastato trapiantarne due piccole piantine nell’orto per riaverlo qui e
là, di anno in anno, di stagione in stagione. E che profumo!
Il cambiamento di stagione si sente e si afferra in tutti i modi, dalla vista all’odorato, dal gusto
al tatto.
I tarassachi (i denti di leone), i soncini (i sarset) e le silene (le cuiette) crescono nei prati con
timida abbondanza, nonostante la neve tardiva: stanno «muovendo». Sono un classico del
giardino che io amo di piú, non troppo «giardinato»
E la borragine? Con le sue foglie rugose, pelose e profumate dall’antico e casereccio gusto è
la vera ambasciatrice dei tempi, insieme agli asparagi selvatici e ai luvertin (i germogli del
luppolo). Le ortiche anche loro sono appena germogliate: tutti insieme sono parte di una vera e
alta sinfonia fatta di profumi e di gusti tenui e sottili.
Dal sapore pungente e aromatico, particolarmente gradevole, di grande e forte personalità, è
invece il dragoncello, l’estragon dei francesi. In Italia purtroppo è poco conosciuto. Non è erba
nostrana: verrebbe, a detta degli studiosi, da molto lontano, dall’Armenia, dalle terre orientali ed
estreme della Russia, pare addirittura dalla Siberia. Trasportata seguendo le migrazioni da est a
ovest, sarebbe arrivata in Italia (e in Europa) ai tempi delle crociate per diventare pianta molto
comune già nel tardo medioevo. Secondo Castore Durante e il suo Herbario nuovo, alla metà del
Cinquecento il dragoncello cresceva in tutti gli orti, non era per niente una rarità: condiva in
modo arguto e gradevole insalate, pollo, pesce, uova e aceto.
Averne una piantina in vaso o nell’orto è facile (ed è di pochissimo lavoro!): è importante
però seguire i consigli dei «vecchi». Innanzi tutto scegliere piante in vaso con profumo forte e
giusto. Infatti qualche volta ci si può imbattere in una pianta senza profumo, insipida. Una
quarantina di anni fa comperai in Francia una bustina di semi. Seminati, germogliati e trapiantati,
divennero una vera ossessione: non profumavano, sapevano di erba cattiva, anzi puzzavano. Con
il tempo imparai, sempre a mie spese, che le stesse piante di dragoncello, in speciali situazioni,
possono «degenerare». Anche se comperate giuste e profumate, possono perdere di fragranza nel
corso della coltivazione. Per esempio se coltivato in un posto troppo al caldo, molto
probabilmente a causa delle sue origini «fredde», può, appunto, cambiare. Ricapitolando:
scegliere bene, assaggiare e annusare prima di comperare. In secondo luogo tenere in vasi
comodi (40-50 cm di diametro) in un’esposizione luminosa e possibilmente a tramontana. Terzo:
piantare in posti freschi o, meglio, freddi (ma non all’ombra), in terreno particolarmente ben
drenato. Dicono anche che sarebbe bene pure cambiare di posto (e la terra del vaso) ogni due o al
massimo tre anni: un ortolano svizzero (e all’apparenza molto esperto) mi consigliò di cambiarlo
di posto ogni anno. Secondo lui, e secondo le usanze della sua famiglia, il trapianto, anche se
traumatico, avrebbe evitato gli eventuali e «depravati» cambiamenti di umore e di sapore. Una
pianta inquieta, quindi, senza fissa dimora, il dragoncello, che ama il movimento. La noia e la
quotidianità evidentemente lo mortificano: un vero e degno figlio di un Oriente lontano e
nomade.
Il gusto della stagione.

Fredo, anziano contadino del saluzzese, la chiamava «erba ciucarina», l’erba delle
campanelle. Silene inflata. Pochi minuti prima del tramonto, ne raccoglieva, per l’ora di cena, dal
prato, due manciate di germogli e, quasi fosse una misticanza naturale, le univa a qualche cespo
di girasul, Tarassacum officinalis. Al tutto non mancavano mai alcune foglie tenere di malva e di
ortica. E come gran finale, da fine marzo a tutto aprile, vi aggiungeva i saporiti e deliziosi
profumi del luvertin, Humulus lupulus. Tutte insieme grossolanamente tritate e mescolate alle
tenere e sperdute foglie di qualche cipolla, componevano una minestra saporita, carica dei gusti
leggeri e amari della primavera. Depurativa e fresca, recideva i miseri legami dell’inverno e
gettava nell’oblio soprattutto quelli durissimi e impietosi della povertà.
La conoscenza delle erbe era una vera cultura e veniva tramandata di padre in figlio «sul
campo», con semplicità e con efficiente sapienza. L’elenco poteva essere molto ampio, dettato
appunto dalla secolare e sofferta indigenza. In quella misera ed essenziale economia, ogni filo
d’erba aveva un senso e un uso. Il prezzemolo, il sedano e gli spinaci erano, per quei tempi, erbe
da ricchi (anche se definitivamente semplici e povere pure loro). L’aglio e il porro, nella
quotidianità dei posti, coprivano tutti i gusti: venivano piantati in luoghi non troppo ricchi di
letame (e possibilmente in terre un po’ drenate e sabbiose). Il sole caldo e pieno ne era il sincero
ed efficiente complice. Da metà marzo, per tutta l’estate, Fredo consumava l’aglio ursino che
naturalmente cresceva al fondo della valle, coprendo con le sue lucide e aromatiche foglie le
parti piú ombreggiate dei boschi: era l’aglio dei «poveri». L’aglio dei «ricchi» invece
accompagnava la dieta durante l’inverno: dopo esser stato messo a seccare al sole (e poi
all’ombra) durante l’autunno.
Da tempo il vecchio Fredo non c’è piú e le piante di «erba ciucarina» crescono ormai intonse
e indisturbate sulle neglette sponde della collina di Revello. E gli stessi luvertin, un tempo tosati
a zero da Fredo e dai passanti, si avvolgono «liberi e belli» e con vivace protervia sugli arbusti e
sui piccoli alberi, lungo i suoi sentieri. Di quel mondo sapiente e speciale dettato dalle regole
dell’indigenza e della sopravvivenza nessuno ne sa piú niente: con l’inurbamento e con il
benessere la tradizione delle erbe è praticamente scomparsa, per lasciare posto alla cultura del
supermarket. Il prét-à-porter delle verdure si concentra in asettici sacchetti, rigonfi di verdure
lavate, tagliate e sterilizzate.
La forza di una foglia tanto leggera.

All’apparenza non c’è nulla di piú fragile ed effimero delle felci, con le loro foglie leggere e
dalla trama minuta. In realtà questa grande e affascinante famiglia conta alcune tra le erbacee piú
resistenti e rustiche, come la bellissima e poco conosciuta (ma di anno in anno piú richiesta)
Dryopteris erythrosora. Proveniente dall’Asia orientale e nomenclata dal botanico di Lipsia Otto
Kuntze nella seconda metà del XX secolo, questa felce è una presenza preziosa anche durante
l’inverno, perché rimane sempreverde anche in climi rigidi come il nostro. Ogni primavera, poi,
accanto alle lunghe e particolarmente armoniose foglie verde chiaro, ne crescono di nuove color
del rame. Infatti dicono che le D. erythrosora, se ben collocate, possano moltiplicarsi in modo
libero e facile, colonizzando le zone piú ombrose e umide del giardino. Qui a Revello, dopo anni
di indecisa vita, hanno finalmente trovato alcuni posti a loro evidentemente adatti, semiombrosi e
freschi, e crescono ormai arruffate ed esuberanti come se fossero a casa loro. Amano i luoghi
prediletti dalle ortensie, con terreni acidi e leggermente sabbiosi, e non richiedono altra cura se
non, una volta all’anno, una buona pacciamatura e un po’ di ricco composto. Le D. erythrosora
crescono benissimo anche in vaso, come quelle che ho visto anni fa in un luminoso e
ombreggiato cortile di un antico palazzo romano.
Decorazioni naturali.

Per i botanici non è stato facile compito metter ordine tra le viti vergini, piante vigorose e
intraprendenti che riescono ad arrampicare, a coprire e a foderare con generosità muri, alberi e
tralicci, con facilità e velocità.
Vergini in quanto la piú antica e famosa proviene dalla Virginia: Parthenocissus virginiana,
che sta per definire quella bella vite rampicante che forte della sua robusta presenza, scandita da
cinque foglie in cinque foglie riesce ad arrivare in altissimi luoghi. In autunno diventa, come
quasi tutte le viti vergini, color rosso fuoco. Altra vite vergine, forse la piú comune e famosa (e
giustamente piantata in ogni dove), è il Parthenocissus tricuspidata veitchii, chiamato anche
Ampelopsis veitchii, la vite rampicante che copre con l’aiuto dei suoi piedini tutto quello che
può: dagli alberi ai muri, quasi fosse l’unico suo compito. Anche se proveniente dall’Estremo
Oriente (Giappone, Cina) è comunemente chiamata Boston Ivy.
I muri, ricoperti, diventano subito belli, ma quante paure e quanti sospetti! È chiaro che senza
piante rampicanti sui muri ci sarebbe meno lavoro e meno pulizie da prevedere. Del resto nulla
viene da nulla e avere una parete ben coperta di foglie può essere un affascinante (per noi e per
gli altri) metodo e un differente criterio di convivenza.
Anche se dalle viti vergini non c’è proprio nulla da temere, i detrattori delle case «tappezzate»
in Italia possono comunque essere tantissimi e frequenti. Al contrario, per esempio, di quello che
capita nella giardiniera (e civile!) terra d’Albione, dove molti sono gli entusiasti. È il frutto di un
altro approccio, di un’altra educazione: di quel Regno Unito dove le piante, anche le malerbe,
non sono viste come nemiche, ma come vivaci e vitali segnali ecologici di diversità e di buona
opportunità.
Se i nostri muri potessero essere foderati (durante la primavera, l’estate e parte dell’autunno)
di foglie e di piante coprenti, si vivrebbe meglio la città e con maggior facilità, e il calore dei
raggi del sole d’estate sarebbe certamente attenuato. E le case, a mio giudizio, sarebbero ben piú
affascinanti.
Il timore, la soggezione, la diffidenza, nascono dalla poca informazione. Ricordo il ridicolo
timore per il bambú e la sua «selvaggia» irruenza, mentre si sa che è sufficiente contenerli
(giganti o normali che siano) all’interno di una guaina separatrice interrata sessanta-settanta
centimetri: lavoro che non è per niente difficile. L’ignoranza miete sempre le «sue» vittime.
Famosa a Parigi la facciata «muta» dell’hotel Le Pavillon de la Reine che si apre sulla
splendida place des Vosges: la parete di destra, che supera di molto i venti metri di altezza e i
venti di larghezza, è interamente ricoperta di Boston Ivy. Dalla prima primavera fino a novembre
fa con costanza il suo lavoro vegetativo, culminando a fine corsa con un’abbondante coloritura:
il suo ultimo segnale di addio e di gioia. D’inverno, quasi fosse una disegnata e fantasiosa
silhouette, si tramuta in modo grafico in un grande ed elaborato ghirigoro.
Bentornate rose.

Sembrano fiori ma sono le prime foglie: dopo tanto freddo, ancora intirizzite, le rose del
Bengala, Rosa chinensis sanguinea, hanno incominciato a buttare nuovi germogli. Poche piante
di rose del Bengala possono essere delle facili compagne di giardinaggio e, in piú, una delle rare
rose sempreverdi. D’estate sopportano con estrema facilità le giornate di grande calore. Fiori a
cinque petali rosso scuro, rifiorenti e «ricchi» nella loro basica semplicità, con foglie rosate e
rossicce; sono sempre in fiore, come dicono i libri e i cataloghi, anche se il meglio lo danno
all’inizio della primavera o a fine settembre. L’arbusto se lasciato andare, quasi senza spine,
assume forme morbide e gradevoli: alcune piante qui in giardino, un po’ trascurate, sono
diventate elegantemente «rampicanti», quasi giocando a rimpiattino tra i rami di alcuni alberi di
leccio. Prestano un grande servizio di colore e di bellezza e rendono gli alberi molto meno statici
e rigorosi, quasi «fiorendoli». Un vero e gigantesco pasticcio botanico ma di grande e ormai
longevo effetto.
Al giardino della Landriana, vicino a Tor San Lorenzo, bellissima è una grande massa di
queste rose piantate piú di vent’anni fa: non troppo umiliate dalle forbici, sono diventate un vero
muro. Anna Peyron, l’italiana regina delle rose, mi assicura pure della rusticità: sono sufficienti
un muro o una siepe a nord. Anche se non è pianta «da freddo», è facile: non è mai ammalata, è
adatta al giardiniere che non ha tempo. In fondo detesta esser troppo potata o troppo curata:
indipendente e generosa vuole crescere, fiorire e appassire tutta sola.
Come si sa di rose ce ne sono tantissime, tant’è vero che negli ultimi anni dello scorso secolo
il professor Fineschi, vittima di una bulimia rodologa fortissima, cercò nel suo giardino di
Cavriglia di averle tutte, forse non immaginando o sottovalutando l’impegno e il lavoro che
questo sogno, che piú che sogno è un’utopia, comportava.
Piú o meno due secoli fa fu Josephine de Beauharnais, l’Imperatrice Josephine per i francesi,
la piú accanita coltivatrice di rose. Negli incredibili roseti del suo castello della Malmaison, le
preferite erano quelle provenienti dalla Cina. Vittoria, regina di Gran Bretagna, sempre per stare
nello stesso salotto, amava la rosa alba, fresca e innocente di forme e sensuale di profumi,
soprattutto la R. alba semiplena, la famosa White Rose of York. Secondo la tradizione, invece, il
cugino elegante di Oscar Wilde, il vecchio Lord Penzance, che di rose se ne intendeva
moltissimo, si incaponí per le rubiginose, non tanto per la forma dei fiori quanto per il loro
profumo finissimo e intenso: un vero must. Famose sono, appunto, le sue Penzance Rose che
hanno dato lustro, gioie e soprattutto sogni ai giardini inglesi dell’Ottocento. Il reverendo
Pemberton, padre di splendide e bellissime rose senz’epoca, che piacciono ai palati piú fini già
da ben piú di cent’anni, creò molte rose noisette profumate e soprattutto robustissime, dando loro
i nomi delle figlie: Cornelia, Penelope... Sono tra le piú belle rose di questi ultimi secoli, sia per
il portamento dell’arbusto sia per la delicatezza dei fiori. Mentre la grande disegnatrice di
giardini Gertrude Jekyll amò di amore profondo la rosa Aimée Vibert, che porta il nome
dell’immacolata figlia del grande rosaista francese Vibert. Gli Hanbury, proprietari del
bellissimo giardino della Mortola a Ventimiglia, diedero alla Rosa laevigata il posto d’onore, la
facciata a mare del palazzo Orengo. I suoi fiori a cinque petali, bianchi e quasi trasparenti, erano
i preferiti di George Washington, il padre degli Stati Uniti. Chiamata Cherokee Rose, fu
introdotta nei giardini dallo stesso Presidente, che pare la coltivò a partire da alcuni semi
provenienti dallo Stato della Georgia. Erroneamente giudicata americana e proveniente dagli
Stati del Sud, fu introdotta in realtà dalla Cina in tempi lontani e in occasioni sconosciute. La
Rosa eglanteria è la famosa églantine dei francesi, l’elegantissima rosa delle siepi, ricca di fiori e
di frutti perfetti, i famosi gratte cul, che meglio van chiamati cinorrodi, i semi ricchi di vitamina
C delle comuni rose selvatiche, le grandi madri di tutti i decotti del millennio passato. Le rose
églantine erano le preferite di Capability Brown e giustamente, perché sono capaci di conferire al
paesaggio un aspetto naturale e un po’ selvaggio. Russell Page, il grande maestro dei giardini del
secolo scorso, campione di britanniche raffinatezze e giardiniere, tra tutte preferiva la rosa
iceberg, una rosa nata nel 1867 col nome di Schneewittchen, Biancaneve. Rifiorentissima,
elegantissima, anche se poco profumata, riempiva di bianchi fiori i suoi giardini disegnati con i
crismi della tradizione e con i guizzi di una speciale intelligenza: unici e rari frutti di un raffinato
eclettismo. Vigorose ed esuberanti, le rose banksiae raggiungono il massimo della meraviglia
arrampicate sui rami dei grandi alberi, come gli inglesi ci hanno insegnato, sia nei loro raffinati
giardini della Riviera ligure sia in quelli del Portogallo, del Marocco e della Spagna. Non
stupisce che la rosa piú «grande» del mondo sia proprio una banksiae, piantata a Tombstone, in
Arizona, nella seconda metà dell’Ottocento. I guinness, tanto piú quelli botanici, lasciano sempre
un po’ il tempo che trovano, ma è innegabile che questa rosa, con i suoi oltre settecento metri
quadrati di pergolato e con un tronco di circa un metro e mezzo di diametro, abbia qualcosa di
davvero insolito e spettacolare. La R. banksiae arrivò in Inghilterra dalla Cina all’inizio del XIX
secolo, per merito di uno dei primi cacciatori di piante in terre asiatiche, lo scozzese William
Kerr, e del suo mecenate Joseph Banks, direttore dei Kew Gardens, alla cui moglie la nuova rosa
venne dedicata. Tra le diverse specie c’è un ibrido tutto italiano: la famosa e bellissima R. b.
purezza, creata da Quinto Mansuino, noto ibridatore sanremese, nel 1961. Come tutte le sorelle,
ha il pregio di essere una rosa sempreverde e completamente priva di spine, ma con alcune
particolarità che la rendono ancora piú preziosa. I fiori, semidoppi e di un bianco immacolato,
sono un poco piú grandi delle altre banksiae e soprattutto, unica rispetto alle altre specie, che
purtroppo fioriscono precocemente e una sola volta durante l’anno, è pigramente rifiorente.
Le rose provengono un po’ da tutto il mondo, ed essendo tantissime, fanno parte di una
enorme e numerosa famiglia e racchiudono ed enumerano di tutto un po’. Per merito e per
«colpa» dell’intervento dell’uomo, sono diventate, secolo dopo secolo, una famiglia sempre piú
grande e articolata. Ce n’è per tutti i gusti: ibridate, selezionate e innestate, sono ormai un
oggetto di mercato molto importante (e per fortuna alla portata di tutti). Sempre piú spesso
perdono, per troppa sofisticata ricerca, una speciale e specifica caratteristica, che delle rose
dovrebbe essere fondamentale: il profumo. Anzi, il profumo è diventato un vero e autentico
optional ed è un grave peccato: vivendo in tempi d’immagine, dove la fotografia (e l’aspetto
esteriore), il colore e la forma, hanno preso il sopravvento e il predominio, sono state trascurate e
andate perse altre caratteristiche piú difficilmente comunicabili. Come i profumi per l’appunto.
La libertà senza freni dei glicini.

Quanto è crudele coltivare i glicini in vaso: basterebbe vedere quelli fioriti tra Mergellina e
Posillipo! Non si può che essere stupiti dalla loro straripante e imponente presenza!
La loro voracità è proverbiale. Del resto non dovrebbe stupire: sono piante di crescita veloce e
decisa e, quando sono in salute, nulla riesce a fermarle. Ed è il loro bello: perché riescono a
insinuarsi con estrema facilità e con intuitiva aggressività nei posti piú insoliti. Soprattutto sono
ottime piante da «pergola». I grappoli colorati, penduli, eleganti e profumati, riescono a
commuovere anche i cuori piú duri. Il bello è che, se lasciati tranquilli, i glicini fanno tutto da sé:
scendono e salgono regnando con libertà assoluta. Nella sinfonia del giardino sono dei liberi e
preziosi strumenti.
Una lunga diatriba, da tempo, coinvolge la potatura: c’è chi li pota anche due o tre volte
all’anno, c’è chi non li pota affatto. Io faccio parte, in genere, dell’ultima schiera. A me
piacciono proprio per la loro affascinante libertà di azione. Tranne qualche buona pulizia
annuale, fatta di alleggerimenti del secco accumulato, i glicini, a mio giudizio, vanno lasciati
andare dove li porta il cuore. Anche lontano: i loro colori, il loro profumo e la loro elegante
bellezza, sono un importante prologo alla primavera.
Per il glicine l’importante è lo spazio: tanta terra per le radici e tanta, spesso tantissima,
superficie per crescere e vivere. Pure il sole è importantissimo: coltivare un glicine all’ombra
vuol dire mortificarlo, non valorizzarlo, umiliarlo. Vuol dire sottoporlo a un trattamento non
adatto, inutilmente sadico.
Con le loro fioriture grandiose, e abbondanti, tenuemente colorate, con il loro sottile profumo
comunicano pura bellezza. Il giardinaggio, se ben aiutato dalla conoscenza, dal coraggio, dal
gusto e (perché no?) dalla fortuna, può lambire, penetrare e convivere tra gli indefiniti confini
della bellezza: la vista dei fiori bianchi, di quelli pallidi e piú comuni tra il mauve e il pervinca,
non può esser facilmente dimenticata.
I glicini, già introdotti in Europa verso il 1830, trovarono (come le ortensie, poco piú tardi)
una loro collocazione speciale, dominando con i bambú, i rododendri e moltissime altre essenze
«esotiche» i giardini tardo romantici di quel secolo. Ma che secolo! Il giardinaggio (e non
soltanto), con l’arrivo continuo e sorprendente di piante nuove dall’Oriente, ebbe impulsi nuovi e
grandiosi trasformando i termini estetici e orticoli sia nella forma che nella sostanza: i glicini e le
ortensie, con le loro fioriture abbondanti e raffinate spalancarono le porte all’Art Nouveau, al
Liberty, a un nuovo concetto di giardino, soprattutto anticiparono una visione eclettica ed esotica
di un mondo lontano, raro e affascinante. Il tutto capitava tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento, un secolo, quest’ultimo, terribile, drammaticamente crudele e violento: l’opposto,
l’esatto contrario di un vagheggiato, variopinto, leggero, Shangri-la.
La felicità sostenibile dell’orto.

In Svezia, si sa, gli orti sono solamente estivi e i pomodori hanno difficoltà a maturare. Per
questa ragione a Linköping si costruirà una serra «metropolitana» alta quaranta metri, a vari
piani: conterrà orti famigliari e sarà, pare, la prima serra-orto comunitaria al mondo. Niente di
piú astruso per i giardinieri individualisti, come amiamo essere in Italia. Per fortuna baciati dal
sole ma soprattutto eredi di un mondo antico e agreste (come risposta alla sobrietà dei tempi), i
nostri orti privati e personali stanno invece dilagando anche in città, molte volte abbarbicati
addirittura sui terrazzi (e non soltanto).
La primavera è il giusto momento dei grandi lavori: svuotare i vasi, ingrassare la terra con
concimi naturali, con compost, con terricci specifici e soprattutto verificare o, meglio, risistemare
a buon uso i drenaggi. Le acque di cielo e di tubo devono evacuare con facile libertà. Sempre.
Quando si vede che nel vaso o nel contenitore l’acqua ristagna e non scorre via (e che piccoli
muschi iniziano a crearsi), con coraggio vanno affrontate le situazioni.
Per un orto facile e produttivo sono necessari vasi grandi: da quaranta centimetri di diametro
in su, piú grandi sono e migliore e piú facile sarà la produzione!
Seminare, appena si può, i ravanelli e le insalate da taglio (il famoso mesclún della Provenza),
trapiantare le lattughe (comperate nei mercati rionali) già cresciute nei loro vasetti. E con loro
pure le piantine del prezzemolo, se non lo si è già seminato. Non dimenticando che per il
prezzemolo, per il coriandolo e per l’aneto (il famoso dill) e per il deliziosissimo cerfoglio
possono andar bene vasi piú piccoli, dai venticinque ai trentacinque centimetri di diametro.
Anche per l’erba cipollina andrebbero bene vasi non grandi, ma provvisti di un degno
sottovaso. L’acqua deve essere abbondante al piede: in natura cresce lungo ruscelli e laghetti.
Decisamente all’opposto, il rosmarino, la salvia, la maggiorana e i timi amano terreni poveri,
quasi ghiaiosi, certamente ben drenati, in posti pieni di sole. Per chi volesse esagerare, in vasi
capienti (50, 60, 70 cm di diametro) si possono coltivare con estrema facilità i pomodori,
incominciando dalle varietà piú facili e piú adatte a colture «famigliari»: i piú facili, come i
ciliegini e i Pachino, possono produrre frutti ottimi e abbondanti. I peperoni (i piú generosi sono i
friarielli, quelli da consumare giovani e verdi) e le melanzane detestano le terre povere, come i
pomodori, i fagiolini e le zucchine. Le zucchine sono particolarmente felici d’esser coltivate in
vaso, prendendosi larghi spazi, per le loro foglie e i loro eventuali lunghi tralci. In pieno sole
possono produrre, nel periodo di gran caldo, giorno dopo giorno, quantità ragguardevoli di teneri
frutti. Il sole per un orto in vaso è, come si è visto, importantissimo e un po’ di vento, poi, non fa
che bene: allontana afidi e funghi. Dimenticavo: patate, piselli e taccole possono crescere in posti
non troppo gelidi anche durante l’inverno. Vanno comunque e tassativamente tralasciate le fave
che in città non si devono coltivare per ragioni di civile convivenza, come sanno e ricordano tutti
gli ortolani che si rispettano.
Un semplice orto può essere un buon motivo per iniziare una «nuova» vita in terrazza.
Successi e insuccessi si potranno accumulare, ma un alibi comunque resterà: la verdura colta e
consumata a chilometro zero (e soprattutto maturata al sole e all’aria «nostra») ha gusti ben
differenti. L’orto potrebbe essere un operoso simbolo dei nostri tempi: dove lavoro, impegno,
creatività e soprattutto sobrietà vi possono trovare un senso e una vera storia.
Un nemico insidioso.

Gli antichi bossi di Villa d’Agliè a Torino e gli innumerevoli di Villa Silvio Pellico a
Moncalieri stanno soffrendo, come molti altri, un attacco virulento di piralide. Arrivata dalle
parti di Como nel 2011, si è diffusa in modo veloce e strategico sui bossi dei giardini e delle
nostre campagne.
La piralide arriva silenziosa, si insinua tra le piante all’insaputa e in maniera subdola.
L’invadente lepidottero deposita le sue uova sulle pagine inferiori delle foglie e in primavera le
larve incominciano il saccheggio. Nascoste nella parte piú interna della chioma, occupano la
pianta con bozzoli biancastri che poi si trasformano in farfalle dalle ali chiare bordate di marron.
A noi giardinieri il bosso qualche piccolo fastidio ce lo ha dato in questi ultimi tempi, ma
erano stupidaggini, inezie, in confronto a quello che sta capitando. Un attacco fungino che dirada
e ingiallisce i preziosi bossi ci spaventa, dopo tutta la fatica e il tempo impiegati per la loro
crescita, ma è di gran lunga piú facilmente circoscrivibile della piralide. Sintomi simili ma da
valutare attentamente, perché le cause e le cure sono molto diverse.
Trasportata in Germania nel 2007, pare dalla Cina, la piralide non è stata minimamente
contrastata e si è rapidamente diffusa. Come purtroppo spesso accade, si è sottovalutato il
pericolo: perfino i grandi saggi dell’Organizzazione Europea per la Protezione delle Piante, in
assenza di sollecitazioni dei paesi europei colpiti, hanno deciso di cancellare il nemico del bosso
dalla lista d’allerta. E cosí, in territori ricchi di bossi secolari come in nessun’altra parte del
mondo, non ci sono divieti, né adeguati controlli, per monitorarne la diffusione e per contrastare
incauti importatori.
La resistenza all’assedio della piralide è affidata dunque alle nostre sole forze. Velocissima
nella sua evoluzione da uovo a farfalla, va bloccata immediatamente e in modo differente
secondo l’età. Penso che possa essere abbastanza facile per i bossi dei giardini e per quelli dei
vecchi parchi. Impossibile, credo, per quelli in natura. Temo una strage per quelli della Val Roja,
per quelli rigogliosi e caparbi che crescono nei boschi tra Vernante e Limone Piemonte, per
quelle non rare «stazioni» che costellano un’Italia ricca di risorse botaniche, ma pur sempre
delicate.
La piralide è affamatissima e risolutissima nel divorare foglie, germogli e cortecce delle
piante attaccate: la velocità e la dinamicità dell’intervento diventano obbligatorie. Al di là del
sempre valido ma faticoso rimedio della distruzione manuale delle larve, rimando a un buon uso
di Internet in quanto a prodotti da adoperare per eliminare l’aggressore nei diversi stadi della sua
evoluzione. Si va dagli elementi chimici a quelli biologici: è questione di scelte e, temo, di
urgenze. Certamente la mia personale simpatia va per questi ultimi, sempre pensando al piccolo
mondo che circonda il nostro giardino, la sua vita e quella dei vicini. Soprattutto temo per gli
uccelli o per i piccoli mammiferi e anfibi che possono cibarsi di larve avvelenate.
Pare che si possa approfittare dell’insaziabile fame delle giovani larve con un trattamento di
bacillo thuringiensis: se da esse ingerito procura una trucida morte per paralisi, senza essere
appetibile per gli altri abitanti del giardino. Una diversa strategia è quella di indirizzare altrove
l’ingordigia della piralide con trappole a feromoni sessuali, che hanno il pregio di essere
inoffensive per gli altri insetti e di coprire ampie aree con poco sforzo. Tranelli astuti, che si
prendono gioco delle debolezze del lepidottero e lo ingannano senza pietà, per la salvezza dei
nostri bossi e dell’intero ecosistema del giardino.
Povera Europa, ormai è la vittima di una preoccupante escalation di malattie: da quella
dell’olmo, praticamente scomparso, a quella virulenta del cipresso, ormai stabilizzata ma
all’inizio molto attiva e determinata; da quella del platano e dell’ippocastano all’ultima terribile,
che ha falcidiato i frassini del paese d’Albione: come molti di noi, purtroppo anche le piante
possono vivere periodi di profondo malessere.
Piogge d’aprile.

Per i giardinieri i giorni di pioggia intensi come quelli di aprile sono giorni di attenzione:
scoli, scoline, drenaggi e tombini vanno monitorati, vanno verificati e in molti casi aiutati. Se
sottovalutate, le foglie secche, pur nella loro leggera consistenza, possono essere un serio
problema: con niente riescono a tappare i tombini (sempre troppo piccoli e stretti!)
Nel microcosmo del giardino e del terrazzo va condotta con intelligenza e premura una
«politica» di lavori e di assistenza analoga a quella che si dovrebbe fare nel grande giardino di
tutti, che poi è il territorio. L’acqua, l’abbiamo visto, non scherza e non ama esser frenata: deve
poter scendere, evacuare, arrivare libera e tranquilla al mare! Niente di piú evidente e niente di
piú lapalissiano: già nel loro piccolo i vasi stessi devono avere funzionante il loro frammentato
drenaggio, fatto appunto di ghiaia, sabbia e cocci. Cosí come in giardino le scoline devono
esserci (frequenti e invitanti) e mandare con prudenza l’acqua fuori dal giardino stesso. I prati e i
piazzali devono essere previsti (e fatti) sempre in leggero declivio, due o tre centimetri di
pendenza per ogni metro.
Accortezze vecchie come il mondo, ma valide regole del gioco: un giardino che non le segue
è un giardino sbagliato.
I vecchi contadini e giardinieri, che erano generalmente e profondamente abbarbicati ai loro
territori e alle loro tradizioni, non temevano di fare fossi, a cielo aperto o canali sotterranei di
generose sezioni, cosa che i «nuovi» giardinieri (spesso improvvisati e spessissimo poco attenti)
il piú delle volte trascurano. I fossi, se ben drenati e ben concepiti, sono già di per sé degli ottimi
«scolmatori», cosí come i grandi alberi e gli arbusti, le cui radici fitte e vigorose trattengono,
frenano e «bevono», rendendo lente e riflessive le acque stesse.
È molto utile a questo punto osservare tutto ciò che i contadini con la loro saggezza e
malconosciuta intelligenza avevano e hanno previsto, forti dell’esperienza di decenni di vita in
contatto con il territorio. I canali, robusti, a sezione ampia e alta, indicano una scelta responsabile
e previdente: sono i segnali piú evidenti di un assetto di evacuazione proporzionato alla storia
meteorologica dei luoghi. Quello delle acque, del loro giusto impiego e della loro corretta
regolamentazione, per il giardino è un’attenta, complessa, anche se empirica, scienza. Quasi
fossero una piccola anticamera alla gestione intelligente e previdente del territorio circostante.
La pioggia, qui sempre benvenuta, pur sollevandoci dall’innaffiare, può provocare e imporre
ben altre giardiniere fatiche: in pochissimo tempo le erbacce crescono vorticosamente. Estirparle
con il terreno umido è per fortuna facile e spesso efficace. In giardino, quello che gli inglesi
chiamano weeding è uno dei lavori piú utili ed è uno dei piú semplici e discorsivi: estirpare,
sterrare, eliminare le malerbe, oltre a essere notoriamente e psicologicamente terapeutico, è
essenziale e utile al giardino stesso. I grandi ciuffi di malerbe, qui in giardino e nell’orto di
giorno in giorno vengono portati direttamente al pollaio, dove gallo e galline ogni volta, e con
convinzione sincera, esprimono apprezzamento e soddisfazione con suoni gutturali e
compiaciuti: un vero concerto di Rameau.
Anche per le ortiche è epoca di riscossa: possono diventare alte quasi un metro in pochi
giorni, e irsute difendono con caparbia antipatia le loro postazioni: munito di guanti spessi, ho
estirpato l’estirpabile ma quanto ancora c’è da fare! Durante tutte queste movimentate e vegetali
effervescenze, i rovi crescono in modo estremamente vistoso. E non sono proprio graziosi! Da un
angolo all’altro del giardino malevoli, fortissimi e invadenti serpeggiano con vigore ritrovato e
con baldanza, spudorati e aggressivi si mescolano, si accavallano, si appoggiano sui rami delle
piante vicine e, se lasciati fare e non fermati, possono tessere una rete quasi impenetrabile.
Anche in poco tempo.
Per distruggerli, senza aiuto di dissecanti e simili, c’è bisogno di forza e determinazione,
l’importante è estirparne da giovani le radici, molto utile in questo caso è il bidente, una «antica»
zappa a due denti aguzzi. Utilissimi i guanti, meglio se spessi, per poter aiutarsi pure con le
mani.
Ma il peggior nemico, qui, è il convolvolo, il vilucchione, che subdolo e tenace si avvolge in
tutto quello che trova e, in mancanza di meglio, addirittura su se stesso. Le sue radici friabili e
tenere se frammentate, e a pezzi, riproducono nuove piante con estrema facilità. All’inazione,
comunque, è preferibile l’azione, in guerra vale la pena tirare, strappare, estirpare, distruggere.
Stagione dopo stagione si ridurranno quasi diventassero deboli, imbarazzati e timidi. Ortiche e
rovi e robinie invece sanno benissimo come difendersi e distruggerli è un lavoro duro. Sta quindi
al perseverante, cocciuto e bravo giardiniere ridurli e decimarli! E la loro eliminazione può
trasformarsi in un vero inno alla pazienza: il weeding non è forse terapeutico?
Come far felice una peonia.

Le peonie erbacee, se coltivate in posti «caldi», vivono e fioriscono, ma non sono felici:
generose figlie delle terre alte, amano il fresco in tutte le forme e manifestazioni. Piú facili al
caldo e al secco sono le peonie arbustive: le loro ingorde e molto profonde radici sono una vera
garanzia di successo. Evidentemente le aridità della Cina e delle sue drenatissime terre fanno
parte del «pacchetto» della peonia arborea. Quelle erbacee (officinalis, mascula, japonica, ecc.)
sono meno adatte alle «arsure» estive: detestano e mal sopportano i luoghi troppo soggetti a
lunghe e bollenti canicole. La peonia erbacea non è un rosmarino! Vuole il trattamento opposto:
le mezzombre e le siccità non persistenti sono il suo sogno. Ama, senza per forza esigerle, le
terre non troppo povere e detesta al contrario i ristagni d’acqua: chi vuole uccidere una peonia
non ha che da darle acqua in continua quantità.
È sufficiente osservare quello che capita nei giardini abbandonati. Piante di peonie arbustive,
vecchie e addirittura antiche, fioriscono di anno in anno: quelle piú vigorose spuntano dai posti
un po’ piú elevati, spesso su muretti a secco, e se non toccate, non potate, non pulite, non
concimate, e soprattutto se non irrigate, danno generosamente il loro meglio. Forti e appagate di
un aiuto minimale durante i primi anni di vita, quando svezzate vogliono condurre una vita
indipendente e tranquilla dove l’uomo, che sia giardiniere o non, deve solo contemplare o,
tuttalpiú, pulire dai fiori secchi.
I fiori delle peonie, spesso enormi, spesso stradoppi, non hanno bisogno d’essere descritti. Le
piante sono sempre longeve, sempre robuste, e quasi sempre bellissime. Sono cosí vitali e
longeve da crescere e fiorire, appunto e anche, nei giardini abbandonati o trascurati.
In Piemonte negli ultimi vent’anni tre speciali e forniti vivai operano con caparbietà e
intelligenza nel moltiplicare e diffondere questo vistoso gioiello botanico. E con molto successo:
i giardini (e le terrazze) hanno sempre un posto assolato e ben drenato per loro (e con loro un
alibi indistruttibile e veritiero per coltivare una pianta forte e generosa). Sono diventate parte
gloriosa del giardino contemporaneo: di quel giardino robusto, sano e di poco lavoro, che tutti
sognano e inseguono.
La peonia Krincled White è talmente forte e robusta da venir adoperata da porta innesto. Qui
al bordo dell’orto fa la sua spettacolare e precisa figura e nessuno potrebbe immaginare che una
peonia cosí bella possa esser adoperata come una semplice «balia», come temporanea base di
vita per altre peonie. Krincled White è molto fiorifera, generosa e duratura: al taglio ha sette
giorni di «tenuta». E per una peonia recisa in vaso non è proprio poco. Come Raspberry Sunday
è tra le piú «serbevoli»: ben piú resistenti e durature delle peonie nostrali, quelle europee e
officinali, anche loro bellissime ma dal breve intermezzo fiorifero.
L’ibrido tra peonia erbacea e peonia arbustiva, chiamato intersezionale, è robustissimo ed è da
pochi anni felicemente proposto sui mercati piú specializzati: veloci nella crescita e precoci nella
fioritura. Sono piante un po’ piú costose, ma sempre piú ricercate: evidentemente gli italiani
spendono piú facilmente in peonie che in altre piante, tanto è vero che piacciono e vengono
piantate dai giardinieri con sempre maggior frequenza. L’aspetto rigoglioso e spavaldo può
portare all’errore: la peonia, opulenta ed effimera, sembrerebbe un fiore «cicala». Niente di piú
sbagliato: è molto piú «formichina» di quanto si pensi. Vuole vivere tranquilla, crescere nella
quiete, vuole esser addirittura trascurata! Longeva, può diventare un’amica di tutta una vita.
La polifonia dei tulipani.

Per il bravo giardiniere il successo sta nel benessere del giardino: non c’è niente di piú
appagante di piante sane e felici e a loro agio. Che i tulipani siano diventati selvatici sulle colline
di Gaibola a Bologna o sulle sponde del parco reale di Govone (e non soltanto) è motivo di
stupori «botanici». I Tulipa oculus solis del castello di Govone (l’elegante buen retiro dove Carlo
Felice, re di Sardegna, si dilettava di giardinaggio), da allora inselvatichiti, ricordano un fulgente
passato. Poco distante da Govone, il parco del castello di Pralormo è diventato ormai
l’«appuntamento» per chi ama le fioriture primaverili, e con i suoi famosi tulipani, ogni anno
vengono offerte differenti novità, che l’infaticabile e sempre originale Consolata di Pralormo
propone.
Che i tulipani siano i figli delle terre basse e sabbiose d’Olanda lo credono in molti,
dimenticando un’origine ben piú «elevata» ed esotica: le sponde boscose delle montagne del
Medio Oriente (e dintorni). A metà Cinquecento i tulipani diventarono di moda e con entusiasmo
arrivarono in varie mandate a conquistare i giardini d’Europa. Si racconta che fu un ambasciatore
presso la Sublime Porta a diffonderli per primo nei Paesi Bassi dove trovarono, per caso e per
fortuna, un posto ideale. Tanto comodo da diventare una «prima casa»! Primato che l’Olanda
detiene da piú di trecento anni. Arrivarono in seguito specie e ibridi di tutti i generi e di tutti i
colori, particolarmente graditi e molto sponsorizzati: primi fra tutti i tulipani della varietà
«acuminata» rossi, fatti a cuore, con il gambo garbato e stilizzato che ricordano quelli effigiati
nelle famose ceramiche di iznik.
In Turchia, selvatici, i tulipani crescono solitamente ai bordi dei boschi, tra il lusco e il
brusco, ma soprattutto in terre ricche dal drenaggio facile. Amano terre sciolte e non umide come
quelle che solitamente caratterizzano pure i polder olandesi. Chi ha mai visitato l’Olanda in
aprile lo sa bene: colore e bellezza, abbondanza e leggerezza conquistano i cuori piú duri.
I tulipani tutti, senza ombra di dubbio, sono affascinanti, da quelli nani a forma di peonia, che
onestamente non riescono a incantarmi, a quelli meravigliosi come Holland Glory, che piú rossi
e grandi non si può, e che furono il vecchio e risaputo amore di Russell Page. Un consiglio?
Anche se travolti dalle centinaia di varietà, è bene non dimenticare tante altre piante bulbose, dai
fiori profumati e non: dai giacinti ai narcisi, dalle giunchiglie ai tromboni, dalle scille ai gigli, dai
muscari ai bucaneve. Piante robuste, da provare almeno una volta tanto nei giardini quanto sui
terrazzi! Sono tutte facili: possono essere un ottimo e iniziatico esercizio per chi ha poca
esperienza.
Quella pianta cosí discreta contro le ansie di apparire.

Il Philadelphus è una pianta discreta, che certamente non ama le luci della ribalta e per buona
parte dell’anno riesce a passare quasi inosservata. Le sue verdi e «normali» foglie caduche sono
poco appariscenti. Anche i bellissimi fiori, di un bianco leggero e puro e dal profumo dolce e
intenso, cosí simile a quello della zagara, sbocciano proprio quando il giardino è già tutto un
tripudio di fioriture ben piú colorate e vistose. Tra rose e rododendri, iris e peonie, si sa, non è
certo facile emergere. D’altronde il Philadelphus ha da sempre avuto non pochi problemi di
identità: i tanti nomi con cui viene comunemente descritto rivelano una storia di equivoci e
fraintendimenti che attraversa tutta l’Europa. In Inghilterra era conosciuto come «falso arancio»
e in Germania come «falso gelsomino» e un po’ ovunque era confuso con il lillà, tanto che
ancora oggi in molte campagne italiane viene chiamato «siringa». Si dice che l’errore abbia
origini assai curiose e remote: Philadelphus e lillà furono infatti introdotti insieme in Occidente
dalla Turchia, a metà del Cinquecento, dal fiammingo De Busbecq, ambasciatore del Sacro
Romano Impero presso il Sultano. Pare che in terra ottomana le due piante, che hanno entrambe
rami sottili e cavi, venissero utilizzate per costruire i cannelli delle pipe. Insomma, la confusione
fu presto fatta.
Nelle campagne italiane, con un certo qual devoto pragmatismo, il Philadelphus venne e
viene ancora chiamato «peto dell’angelo», a ricordo del suo celestiale profumo. È il P.
coronarius, la forma piú diffusa e antica in Italia, un arbusto rusticissimo e molto resistente alle
malattie, che si adatta alle terre piú povere e non richiede praticamente nessuna cura: una di
quelle piante da «giardino abbandonato», ben felici se lasciate tranquille e quasi trascurate, un
po’ come i mughetti e i garofanini. Delicatezze fuori dal tempo, ma che nel tempo resistono a
tutti gli oblii e agli abbandoni. Non che una buona potatura ogni tanto non sia benvenuta, anzi un
taglio leggero appena finita la fioritura irrobustisce la pianta e garantisce per l’anno a venire
nuove profumate e graditissime sorprese. Il P. coronarius è forse l’arbusto piú numeroso nel
grande parco del castello di Racconigi, dove fu ed è adoperato come siepone lungo i viali:
all’ombra fitta dei maestosi e vecchi alberi fioriva e fiorisce raramente, ma in compenso aiutava,
con la sua folta vegetazione, a tenere tranquilli e concentrati i cavalli delle Reali scuderie nelle
ore di addestramento e di lavoro (oltre a nascondere le eventuali «magagne» del sottobosco).
In Europa l’epoca d’oro del Philadelphus fu proprio la seconda metà dell’Ottocento, quando
moltissimi nuovi ibridi vennero presentati nel suo vivaio di Nancy dal famoso Lemoine, il papà
dei moderni lillà (ancora una volta i destini delle due piante si incontrano): ben conosciuti sono
quelli a portamento ricadente, a fiore o doppio o semplice, col centro screziato di scuro, come il
P. sybille. Per chi ha spazio, il P. virginal è forse la varietà piú sontuosa: grande arbusto che ama
piú il freddo del caldo, ha profumatissimi fiori stradoppi e un portamento stretto ed eretto.
Qualche anno fa, alla Journées des Plantes di Courson, il vivaio belga Damien Devos, famoso
per i suoi alberi e arbusti, proponeva due Philadelphus rari e inusuali. Il P. coronarius aureus,
dal bel fogliame dorato che diventa di un verde chiarissimo in estate, ideale per dare luce agli
angoli ombreggiati del giardino (ma che purtroppo cresce molto lentamente), e il P. delavayi,
vigoroso arbusto proveniente dalle montagne del Tibet e del nord della Birmania. La piú bella è
forse la varietà P. delavayi melanocalyx: fiori bianchissimi sorretti da sottili steli color porpora.
Una pianta dal grande understatement, il Philadelphus: la sua eleganza cosí sobria e poco
esibita potrebbe diventare un messaggio forte e chiaro contro le sempre piú frequenti e sfacciate
ansie di apparire.
Una pianta che ha fatto la storia.

Per la storia economica e politica d’Italia il gelso è forse una delle piante di maggiore
«portata». Il gelso, in quanto padre e padrone della seta, fu il vero «carburante» per il complesso
e ben regolato processo che dai bigat portava di anno in anno al bozzolo e dal bozzolo alle
filande, filatoi e tessiture.
Sebbene non autoctono, immigrato dall’Oriente (Cina e dintorni), il gelso divenne, dopo
secoli di coltivazione, una pianta locale, comune, addirittura invasiva. Un po’ come il mais o le
patate: senza di loro non si sarebbe riusciti a combattere la fame. Senza la seta non ci sarebbe
stata l’industria. Il gelso, chiamato l’albero delle more, in latino Morus, era nei secoli passati la
pianta piú comune nelle nostre campagne dal nord al sud, importante e indispensabile fonte di
benessere: era coltivato per le sue foglie, vera e sostanziale ghiottoneria per i bachi. Ogni anno
portava una ricca produzione di frutti: le famose more buone per tanti usi e ricca e zuccherina
pietanza per merli, tordi, cesene e stornelli... e non solo. Importante nella gestione dei campi e
delle campagne fu pure la loro spargola ombra sotto il cui ridosso pur crescendo di tutto, dai
grani ai fieni, si assicurò al bestiame semibrado protezione nelle ore piú calde dell’estate. Con il
legno del gelso, poi, insapore e tenace, si facevano taglieri, botticelle, mestoli, tutto un vasto
apparato casalingo di stampo antico e artigianale. Last but not least, da non dimenticare, era la
caldissima brace del suo legno da ardere, famosa per il calore e la resistenza. Le sue fascine, poi,
erano ottime per portare i forni da pane alla dovuta temperatura: del gelso si usava con profitto
ogni sua parte.
Il gelso bianco (Morus alba) era da sempre il piú comune e di piú antica diffusione, famoso
per i suoi frutti che dal bianco passavano quasi a capriccio al rosso. Nell’antichità
particolarmente conosciuto fu il gelso descritto nel famoso Charneto di Giovanni Andrea di
Saluzzo, che nel maniero di Castellar, nel saluzzese, ben cinque secoli fa, il 10 giugno 1508,
venne saccheggiato di tutti i suoi frutti e, in seguito, tagliato a terra. Il tutto a opera del geloso e
goloso Giorgio di Saluzzo, che lasciò al cugino proprietario un albero divelto, vuoto e depredato
e la magra soddisfazione di una dura prigione al nobile malfattore. Dall’antica toponomastica si
può dedurre la popolarità del gelso: Moretta, Morè, Murello ne ricordano la importante presenza
su un piccolo territorio come il saluzzese. Curioso e saldo, ma forse spiegabile è il legame tra il
gelso e la famiglia reale inglese, che del Mulberry Tree si fece protettrice e propagatrice tanto da
coltivarne nel centrale parco di Buckingham Palace un’ampia national collection, fatta di tutti gli
esemplari possibili di gelso: una vera e seria rassegna botanica in un parco grandioso. Le specie e
le varietà infatti sono molte e molto differenti tra di loro: la provenienza dall’Asia, dal Nord o
Sud America o dall’Africa sta a marcarne un’origine decisamente worldwide. Anche i Windsor,
come il gelso, non sono proprio autoctoni, ma, sempre come i gelsi, sono decisamente
«integrati». Sarà forse questa curiosa affinità la ragione di tanto amore?
Il sapore delle fragole non è un optional.

Piantate da una decina d’anni in un piccolo quadrato dell’orto, le fragoline della Val Varaita
assicurano ogni anno un piccolo spettacolo di bellezza e una gradita sorpresa di sapore e
profumo. Belle anche le foglie, bellissimi i fiori bianchi dal cuore giallo, vigoroso il portamento:
sono le figlie delle figlie di alcune piante raccolte molti anni orsono sulle falde boscose fra
Brossasco e Sampeyre.
Sono piante da mezza montagna e, un po’ come i mughetti, amano crescere a nord, in luoghi
freschi, non troppo secchi. Amano il gran freddo d’inverno, non temono il gelo. Se coltivate in
vaso possono essere trasportate dopo «l’uso» in posti ombrosi e freschi e praticamente
abbandonate. Ma pur sempre nei giorni bollenti della canicola, leggermente innaffiate. Difetti?
Non rifioriscono: producono generosamente una volta soltanto all’anno.
Per avere frutti per un periodo piú lungo nel corso dell’anno furono necessari nei secoli
ibridazioni con «parenti» piú resistenti al caldo e rifiorenti che portarono a produrre fragole
belline ma, spesso, insapori e inodori. Di questi tempi è ormai praticamente impossibile ritrovare
dai venditori di semi e di piantine, un tempo comune e ora invece ricercata, la rara fragola Baron
Solemacher, che aveva e ha il grande pregio di unire prolificità e profumo. Travolti ormai dalle
rozze e sciape abitudini del consumismo, i profumi delle fragole sono diventati un vero optional.
Ma fu a Courson, alla mostra mercato di due anni fa, che dopo delusioni e incontri sbagliati,
finalmente le ho ritrovate, sono bastate una mezza dozzina di fragoline per tornare indietro di
almeno cinquant’anni. Erano proprio loro: avevano lo stesso profumo e lo stesso aspetto di
quelle che crescevano lungo lo stretto bordo del giardino di Revello. Erano in frutto per tutta
l’estate, generose di frutti lunghi e conici, particolarmente profumati.
Aver ritrovato con il nome di Reine des bois le fragoline del giardino-orto della mia infanzia
chiude un lungo periodo di «caccia» coronato da anni di delusioni: le fragoline che assaggiavo da
un giardino all’altro non erano mai quelle là e le avevo ormai date per perse, o peggio, mai
esistite. Come fossero state un sogno.
Rileggendo una seria e curiosa pubblicazione sulle fragole, scritta da Edward Hyams, dal
titolo Strawberry Growing Complete. A System of Procuring Fruit Throughout The Year, si può
capire come per le fragoline chiamate «di bosco» non si sia lavorato che di selezione (e non di
ibridazione). Selezione che data a tempi antichissimi: a quando l’uomo scelse di riprodurre le
piante cercando di fissare alcune caratteristiche di eccellenza, optando spesso tra quelle che
portano frutti piú grandi o frutti piú profumati o quelle con fruttificazioni piú lunghe nel tempo.
Pare, a detta sempre di Edward Hyams, che il centro piú attivo di questo millenario e selettivo
lavoro fossero le terre del «nostro» Moncenisio. Quindi posti a noi molto vicini: è curioso come
le raffinatissime caratteristiche della Reine des bois o della Reine des vallées o della profumata e
rispettatissima Baron Solemacher siano state individuate e selezionate nei nostri dintorni. Scelte
per motivi precisi che sempre secondo Edward Hyams sarebbero stati il particolare profumo,
l’ottimo gusto, la grandezza dei frutti (drupe), la scarsa o assente produzione di stoloni, la
abbondante rifiorenza. Quest’ultima basata probabilmente su una produzione di fragoline
«rifiorenti» adatte a una piú lunga stagione (che durava da maggio a ottobre).
Furono i francesi, per tradizione, i piú attenti studiosi e i piú raffinati coltivatori di piccole
fragole. Mentre gli inglesi lo furono per i «fragoloni»: la «loro» battaglia per una produzione di
piante di fragola a frutto grosso si combatté (a suo tempo, metà Ottocento, inizi Novecento) sui
campi della ibridazione: a iniziare il nuovo «ciclo» furono le fragole grosse (ma di tutt’altro
gusto da quelle di bosco) che crescevano sulle modeste alture dell’isola (piú botanica di quanto si
possa mai immaginare) di Chiloé, di fronte alla costa sud del Cile. A seguito di alcune fortunate
ibridazioni con altre fragole delle Americhe, a cominciare da quelle della Virginia, si iniziò un
nuovo e allettante universo fatto di fragole sempre piú grandi, spesso enormi, curiosamente
profumate di ananas. In certi casi si produssero dei frutti talmente grandi, come per le Cambridge
o le Souvenir de Charles Machiroux, addirittura da trentacinque grammi per un solo frutto.
Ricercando la grandezza, rifiorenza e serbevolezza, spesso però si trascurò la caratteristica (a
mio modesto giudizio) piú importante: il gusto. Quello dei fragoloni è un mondo «pop» che dà
priorità all’apparenza, dove la bellezza e la lucentezza hanno la meglio. Per le fragoline (per
fortuna) il tempo si è fermato: sono troppo poco commerciali per esser rivoluzionate.
Il sapore di una vera albicocca.

Secondo gli studiosi pare che l’albicocco sia originario delle regioni occidentali della Cina e
di quelle temperate del Tibet e che lentamente e inesorabilmente, sulle ali del suo gusto
profumato, si sia diffuso dal lontano Oriente verso l’Occidente. Prunus armeniaca è il vero
nome, che vuole ricordare (se non l’origine) la tappa certamente piú importante del suo lungo e
antico viaggio: la lontana Armenia. Ricordata ancora oggi in tante denominazioni popolari e
comuni come armugnan qui in Piemonte, armenille o amarille in Austria. Ad Alessandro Magno
invece è attribuita la sua diffusione nelle terre occidentali.
Vittima della grande distribuzione, anche la frutta da alcuni decenni è omologata e globale:
nel mondo occidentale viene coltivata per la bellezza, che deve essere accattivante e attraente, e
soprattutto per la resistenza ai viaggi, a scapito del gusto e del profumo, pregi che di questi tempi
passano sempre piú spesso in second’ordine.
Per fortuna appassionati, intraprendenti e giovani vivaisti stanno correndo ai ripari, cercando
di mettere sul mercato proprio le varietà in pericolo: questa primavera a Masino, alla semplice e
precisa richiesta d’avere una pianta di albicocco, la migliore e la piú profumata possibile, il bravo
Fiorini dei Vivai Belfiore mi ha consigliato e proposto l’albicocca pisana e pellecchiella. I loro
primi frutti sono stati un vero e autentico successo. Tardive e piuttosto piccole, colorate e
succose, riuniscono in sé tutta la storia della ricerca e della selezione del gusto, la sommatoria dei
sinceri e sublimi stimoli di antiche e attente civiltà.
Raccogliere un’albicocca dai rami stessi dell’albero (e non dai frigoriferi della grande
distribuzione!) può offrire (e ricordare) dei profumi e dei sapori unici e speciali. Una buona
albicocca val bene sacrifici di bellezza, di pezzatura o i rischi di precoci marcescenze.
Estate
Lo spettacolo dei papaveri.

Pochi spettacoli sono piú belli di un campo di papaveri in fiore. Rossi ed effimeri, sono
conosciuti da tutti: da sempre accompagnano la maturazione del grano nelle nostre campagne. Se
poi si aggiunge anche qualche fiordaliso, il colpo d’occhio può essere davvero eccezionale,
degno della miglior tradizione.
Fiordaliso, frumento e papavero fanno parte di un trio idilliaco che purtroppo è quasi
scomparso: non amati dai contadini, considerati alla stregua di erbacce parassite, i papaveri (e i
fiordalisi) sono ormai caduti vittime dei sempre piú frequenti e famigerati diserbanti selettivi (e
chimici). Come ben si sa, fanno molto piú danno che bene.
Non è facile vedere i papaveri nei giardini: un fiore dalla fioritura tanto breve è assai poco
benvoluto, quasi che la bellezza di una pianta e la gradevolezza di un giardino si misurassero in
termini di rarità, efficienza e durata. Seminare un prato fiorito di papaveri e altri fiori di campo,
se lo spazio lo permette, è invece un’idea semplice ed estremamente piacevole, che riesce a
rendere accattivanti e ospitali anche le zone incolte e meno frequentate trasformandole in un
luogo brulicante di vita: grilli, farfalle e api in testa. Se seminati in terreni poveri, i papaveri si
possono diffondere facilmente e naturalmente. Fin troppo. Non avendo bisogno di terre ricche,
assetati di sole piú che di acqua, possono crescere in tutti i giardini assolati, e con esuberante
vitalità possono prendere il sopravvento. Se si decide di piantare il papavero di campo, la varietà
piú bella è certamente il famoso e comune P. rhoeas Shirley, selezionato dal reverendo inglese
William Wilks negli anni Ottanta del XIX secolo. Fiorisce di un rosso talmente rosso da non aver
bisogno di alcuna descrizione.
Sempre molto usato nei giardini inglesi per i colori vivacissimi, che vanno dal bianco al rosa
shocking, dal vino al rosso fuoco, quasi a sfidare i «tradizionali» cieli grigi di quelle terre, è il
piacevolissimo e imponente Papaver orientale, dai fiori enormi e sorprendenti. Mentre sempre
affascinante è il P. somniferum, con la sua pesante aura di proibito: belle le foglie, bellissimi i
boccioli e i fiori, è pianta di grande ornamento e come tale senza rischi può essere coltivata
purché, come richiesto dal legislatore, in esigue quantità.
Immacolata, bellissima e robusta è invece la Romneya coulteri, lontana cugina dei nostri
papaveri, che cresce selvatica nel chaparral della California. Nei giardini la R. coulteri si
comporta spesso in modo capriccioso e per essere sicuri che attecchisca va «iniziata» con
intelligenza: pianta da deserto, esige in giardino tanto sole e un drenaggio meticolosamente
efficiente. Qui da anni invade senza remore né dubbi le impietose e assolate balze vicino alla
serra fredda, mostrando di gradire oltre misura quei terreni spesso asciutti e sempre ben drenati
che erano stati finora colonizzati soltanto dagli iris e dalle euforbie. I grandi fiori bianchi, setosi e
solitari, con un gran numero di stami gialli al centro, fioriscono dai primi di giugno ad agosto:
sono unici nel loro leggero profumo.
Il sogno segreto di tutti i giardinieri sono però i papaveri azzurri, le mitiche Meconopsis,
uniche per colore e per buon portamento, ma purtroppo difficili da coltivare nei giardini italiani,
soprattutto a causa del nostro clima caldo e secco: sono piante di montagna dove possono dare
facilmente il loro meglio. Originari delle falde dell’Himalaya e degli altipiani del Tibet, abituati
all’aria fresca e spesso umida di quelle terre, richiedono terreni ben drenati e piogge frequenti
durante l’estate. Arrivarono in Europa all’inizio del Novecento, portati dal botanico inglese
Francis Kingdon-Ward, che raccontò la loro scoperta nel suo libro, The Land of The Blue Poppy.
Erano le M. betonicifolia, color del cielo e con lunghi stami dorati, che Kingdon-Ward, in una
ventosa giornata d’estate, tra sogno e realtà, scambiò per uno sciame di farfalle azzurre. Niente di
piú bello.
Quel fico ibernato del Re Sole.

Un venticello di mistero l’albero di fico da sempre se lo porta dietro. E pure da lontano: a


detta dei pastori dell’antico Regno delle Due Sicilie, in caso di temporali e di lampi e tuoni,
ripararsi alla sua ombra poteva essere sicuro e salutare: l’albero «lavorerebbe» infatti come
gabbia di Faraday.
In alcune parti del Lazio si diceva pure che per domare un toro fosse sufficiente legarlo (se ci
si riusciva) all’ombra di un vecchio albero di fico.
O il venticello sarà forse stato ispirato dal suo traditore e fragile legno? Noto per andare
facilmente a pezzi, quasi fosse una ingannevole trappola vegetale?
E infine, a quale albero si appese Giuda: a un fico o a un caprifico?
Pianta da campo, da orto, da giardino, se convenientemente coltivato il fico può diventare
anche un eccellente albero da vaso e non solo: sotto i raggi caldi delle canicole anche il profumo
delle foglie si fa piacevolmente sentire. Le radici, note per la loro invasiva intraprendenza,
amano andare lontano a cercare cibo e freschezza preferendo lavorare in superficie, tanto da
mantenersi in vita in posti improbabili e difficili e compiacersi, con tutti i crismi della tradizione,
di luoghi poveri e impervi come le antiche mura di monumenti e di rovine.
Federico II, re di Prussia, aveva una vera passione per i fichi, e prima di lui il Re Sole, Luigi
XIV. Per loro le serre e le aranciere non riparavano soltanto agrumi: pesche, albicocche e fichi
rendevano unici e profumati dessert estivi e autunnali.
Per pittori, antiquari, studiosi e dilettanti il mondo classico non era soltanto fonte di
ispirazione: molto importanti erano le meraviglie pomologiche del Sud, con loro l’affascinante e
attraente mondo della frutta mediterranea, dall’uva (e dal suo vino) agli agrumi, dai melograni ai
gelsi, e dalle angurie ai meloni, dalle mandorle ai pistacchi, tutti facevano parte di un enigmatico,
ricco e praticamente sconosciuto universo vegetale. Fichi in testa: furono portati alla ribalta
dell’Europa già ai tempi delle crociate. Solo in seguito furono raccolti e diffusi per l’Europa dalle
serre e dalle aranciere medicee di Petraia e di Castello. Nella seconda metà del Settecento
Federico il Grande si spinse piú in là facendo costruire a beneficio (proprio) e dei suoi amati
fichi, nella grandiosa e raffinata Sans souci, una speciale parete a vetri, che captasse il piú
possibile il calore del mezzogiorno dei cieli della Prussia occidentale. Per l’occasione vennero
importate dalla Spagna, dall’Italia e dalle ricche sponde dei mari ottomani numerose e rare
varietà, distinte per colore e per forma, a cominciare da quelli bianchi a quelli verdi, marroni,
neri, bruni, da quelli grandi a quelli piccini. I fichi da «serra», con un preciso studio del clima e
un attento uso delle pareti a vetro, potevano protrarre a lungo la stagione di fruttificazione. Si
diceva addirittura fino a quattro-cinque mesi.
Il fico fu pure albero (e frutto) amato e studiato dal ligure Gallesio che, con passione, ne
rilevò le caratteristiche e trascrisse, nella sua splendida e insuperabile Pomona italica, note
precise e sempre attuali. Fu proprio Gallesio a individuare il famoso fico dell’osso, un frutto
curioso d’aspetto e di consistenza, la cui forma, bizzarra e composta dalla somma di due fichi, è
suggellata da un tipico e legnoso granello, chiamato appunto «osso».
Brogiotti o turchi, verdini o bianchi, fioroni o pisani, non è difficile per chi ha un po’ di
terreno incolto, drenato e soleggiato, mettere a dimora una veloce e ombrosa collezione di alberi
di fico: indenni, per ora, da fastidiose malattie e forse anche grazie al curioso «effetto serra»,
potrebbero essere un’autentica gioia per chi li coltiva (e per chi li coglie): un fico di buona
qualità, ben maturo, raccolto e consumato, non è forse una sublime meraviglia della vista, del
tatto e del palato? Bellissima in questi ultimi anni è Berna con le sue strade d’estate affollate di
fichi in vaso: il riverbero dei suoi muri e dei suoi selciati fa ben maturare i frutti, e le foglie, cotte
dal sole, felici, propagano profumi speciali a zaffate. Se coltivato in vaso il fico «pretende» un
adeguato contenitore e una proporzionata terra: è inutile e un po’ arrischiato coltivare fichi in
vasi piccoli, mentre da sessanta centimetri di diametro in su piú larghi stanno meglio crescono e
fruttificano! Gli alberi in vaso, lo sa bene il bravo giardiniere che in terrazzo deve fare i conti con
i pesi e i soliti malevoli pregiudizi degli atterriti coinquilini, hanno bisogno di terra abbondante.
Per anni ho mantenuto in vaso due fichi che, a detta del vivaista dovevano esser nani, e sono
stati a vivacchiare allo stretto; confidando nelle sue parole li passai in vasi sempre piú grandi: la
sorpresa fu immediata. Liberati da quella stretta prigione i due fichi hanno portato tantissimi
frutti, le foglie si sono ingrandite diventando dei veri alberi. Di piccolo rimasero i frutti, per altro
ottimi e gradevolissimi: evidentemente l’asserito «nanismo» non era che la legittima reazione
alla mancanza di spazio. Mentre una giusta «libertà» ha portato le piante a reagire di
conseguenza. Felici.
Un invitato informale.

Nei giardini italiani l’Althaea, conosciuta anche con il nome di «malvone», non vanta certo
una gran tradizione: per esserci c’è sempre stata, cresciuta qua e là, a ridosso dei fossi o lungo i
vecchi muri di pietra, ma ben raramente si è trattato di un invito formale. Di solito arrivava e
arriva in giardino per conto suo, trasportata sotto forma di semi dal vento e liberamente si sceglie
la posizione che ritiene piú adatta e che, se ne può star certi, non coincide quasi mai con quella
che avremmo voluto. La sua è una strategia molto intelligente (e libertaria): quando le piace il
posto cresce velocissima, in modo da prendere alla sprovvista il giardiniere. L’allegra e
prolungata fioritura estiva la rende poi benvoluta da tutti, proprio per l’effetto rustico e naturale
che riesce a donare al giardino. Basta un anno e già l’alleanza è siglata: ogni autunno un po’ di
semi vengono lasciati liberi di disperdersi nei posti vicini. Tutto sta a incominciare. Almeno in
Italia. Altrove l’Althaea è da secoli trattata come una pianta da giardino, seminata e cresciuta
dalla mano dell’uomo, addomesticata in vasi, aiuole e bordure. Come nella piccola casa-giardino
di Johann Wolfgang Goethe nei dintorni di Weimar, dove lunghi e fitti vialetti di Althaea
attraversavano gli ampi e curati prati. Goethe fu costretto a lasciare la casa controvoglia alcuni
anni dopo, perché ritenuta troppo semplice e modesta per un uomo del suo stato, ma il giardino
di malvoni, personalmente creato e curato, rimase per tutta la vita un rifugio amatissimo. E che
cosa dire poi dei rigogliosi e bellissimi orti-giardino che anni fa mi capitò di visitare nel nord
della Transilvania, dove l’Althaea fiorisce tra rose e dalie, in un insieme carico e disordinato e
incredibilmente attraente. In quelle terre ci sono villaggi nei quali la strada, l’unica strada su cui
si affacciano le case semplici e antiche, è interamente bordata di fiori di Althaea, di tutti i colori e
di tutte le fogge, doppi, semidoppi e semplici, che spesso poi crescono qua e là negli interstizi del
selciato. In Giappone le foglie di Althaea, molto probabilmente la nostra A. rosea, diffusissima
anche in Oriente, sono state per piú di due secoli e mezzo il simbolo del potente «shogunato»
Tokugawa: portare la sua effige ricamata sul kimono significava onori e ricchezza pressoché
illimitati.
L’A. rosea è una specie molto comune nelle nostre campagne e tra tutte è certamente la piú
spettacolare: ha fusti altissimi, anche oltre i due metri, grandi foglie chiare che andando verso
l’alto si fan via via piú piccole e soprattutto racemi di fiori che virano dal rosa al porpora, dal
bianco al giallo pallido. Fino alla famosa A. r. nigra, dai lucidi petali bordeaux, quasi nero,
talmente scuri che un tempo venivano utilizzati per colorare il vino. L’A. ficifolia ha invece fiori
delle piú belle tonalità di giallo, di oro e di arancio e, provenendo dalle fredde terre della Siberia,
è una delle specie piú rustiche e resistenti. Amatissima in passato è stata l’A. officinalis, dai
delicati fiori di un rosa quasi bianco: dalle sue radici si ricava l’estratto con il quale un tempo in
Francia si preparava la famosa pâte de guimauve, la raffinata progenitrice dei piú commerciali e
americanissimi marshmallow.
Come tutte le piante del suo genere l’Althaea sarebbe una perenne, anche se i geli invernali
prima e il taglio dei prati poi spesso mettono a rischio la sopravvivenza dei germogli. È molto
piú semplice riprodurla per seme. L’Althaea è infatti una pianta con poche pretese: ha bisogno
soltanto di luce e di sole, adattandosi a ogni tipo di terreno, purché ben drenato, e resiste alla
siccità grazie alle lunghe radici a fittone. Non per nulla è il fiore che piú di tutti occupa con
facilità le vecchie ferrovie dismesse.
E un fiore illumina la notte.

Il Calonyction aculeatum (oggi rinomenclato Ipomea alba) è conosciuto in Inghilterra con il


nome di Moonflower, il fiore della luna. Niente di piú affascinante ed evocativo. È infatti una
pianta che vive nelle notti d’estate, quando si aprono i suoi grandi fiori bianchi, evanescenti e
delicatamente profumati. Sbocciano al crepuscolo, nel giro di pochi minuti, ed è subito una festa
per le falene, attratte dal candido biancore e da un nettare raro, prezioso e ricercatissimo. Alle
prime luci dell’alba i fiori sono già avvizziti, ma basta una giornata di sole perché altrettanti ne
prendano il posto la sera successiva. Originario del Messico, il Calonyction aculeatum è un
rampicante vigoroso e quasi invasivo: si espande velocissimo nell’arco di un’estate,
avvinghiandosi a tutto ciò che trova a portata di ramo. Anche l’apparato radicale tende a
diffondersi a dismisura in poco tempo, in modo da riuscire a sorreggere la crescita intensiva della
chioma: per evitare spiacevoli sorprese e contenerne la carica dirompente, è certamente meglio
coltivarlo in grandi vasi. Sarà cosí possibile riparare il Calonyction in serra durante l’inverno: è
infatti una pianta sensibile al freddo, motivo per cui, pur essendo perenne, in Italia viene quasi
sempre coltivata come annuale.
I cisti amano l’estate.

I cisti vogliono tanto sole e pochissima acqua. Sembrano delicati, in realtà sono rustici e forti.
E bellissimi. Esalano sotto il sole un finissimo aroma: è il profumo estivo della Sardegna,
assolata e arida.
Cistus è il nome scelto da Linneo per questa piccola meraviglia delle nostre coste. Circa venti
sono le specie provenienti dall’Africa settentrionale, dalle Canarie, dalle zone dell’Egeo e
dall’Europa: bellissimi sono i loro fiori, stropicciati, bianchi e rosa, di varie tonalità. Visti in
natura, sopraffatti dal sole e dalla siccità, tutto ci si aspetterebbe ma non un aspetto cosí
evanescente e delicato.
I primi ad accorgersi del loro valore giardiniero, come spesso è accaduto nella recente storia
del giardino, furono gli inglesi. Un po’come fecero per le lavande, i rosmarini e le santoline, non
smentendo la loro fama di curiosi ed eccellenti «cacciatori di piante».
Fatti crescere nei posti meno irrorati dalle piogge, e soprattutto ben alloggiati in terre ghiaiose
e «iperdrenate», i cisti sono diventati, con il tempo, parte del «paesaggio» giardiniero del XX
secolo: giardini dall’aspetto «borghese», quelli del vero e appassionato giardiniere (nuova figura,
per l’epoca, che prevede un proprietario attivo, lavoratore e presente) e che, per prima, la grande
Gertrude Jekyll studiò, propose e costruí.
Giardini moderni fatti di piante adatte per posti adatti. Dove è essenziale avere delle piante
«libere», non obbligate a vivere in luoghi dove un proprietario (o peggio un architetto) si
interessi di piú agli effetti immediati che alla vita delle piante. Facendo diventare i giardini degli
effimeri allestimenti. E non dei duraturi compagni di vita.
Quello di Gertrude era un giardinaggio sapiente che prevedeva per le piante anche il loro
giusto periodo di riposo. Un giardinaggio fatto giustamente di pause e di silenzi «botanici» e, nel
caso dei cisti, riposi piuttosto prolungati. L’importante era (ed è) prevedere alternativi e
magistrali «colpi di scena» giardiniera atti a distogliere la vista delle parti «noiose». Maestra ne
fu Rosemary Verey che nel suo giardino del Gloucestershire, con l’uso attento di pochi ma
significativi interventi, con quasi nulla, riusciva a creare una speciale atmosfera emotiva.
Rosemary, sapiente, agí sulle ali delle vivaci esperienze inglesi e scozzesi del Seicento,
introducendo senza timori le piante che da tutto il mondo periodicamente arrivavano nei bulimici
vivai d’oltre Manica. Fu elegante e unica propositrice del poco (del resto il suo giardino era fatto
di tocchi piú che di masse). I cisti vi comparivano qua e là nelle loro robuste e gradevoli forme
ibride, come il Cistus x Alan Fradd, bellissimo per i suoi cinque petali bianchi, in leggera e
aperta coppa, sigillati da cinque piccole gocce di color porpora-bordeaux. Le belle foglie e
l’armonico arbusto sono coperti da giugno ad agosto da decine e decine di fiori leggeri, eterei ed
effimeri sia nell’aprirsi che nello scomparire. Belle sono pure le loro minute e rugose foglie un
po’ simili a quelle della salvia: un lungo periodo «sottotono» che accompagna il riposo
necessario a recuperare le energie per la fioritura dell’anno dopo. In giardino l’importante è
dividere i rischi e i ruoli e molto saggio è non mirare a grandi effetti massivi ma affidarsi invece
a poche pennellate decise e leggere. Anche Gertrude Jekyll la pensava in questo modo dirigendo
(nonostante la sua forte miopia) il balletto dei colori dall’alto della sua variopinta tavolozza
botanica. Non per nulla il grande successo delle sue idee (e dei suoi apprezzatissimi e ormai
storici giardini) riesce a influenzare ancora il giardinaggio consapevole (e sostenibile) di mezzo
mondo.
Un fascino antico e primitivo.

Quelli della Magnolia delavayi, originaria della Cina meridionale, sono fiori belli, grandi, rari
ed effimeri, i cui petali si schiudono normalmente in piena estate e soltanto di notte: leggermente
profumati, sono il simbolo della città di Chongqing, dove gli antichi la piantarono ai bordi delle
strade e ancora oggi fa bella mostra di sé: queste magnolie sono infatti ben note per la loro
particolare longevità. Devono il loro nome a Pierre-Jean-Marie Delavay, originario della Savoia,
botanico e gesuita del XIX secolo, missionario in Cina: uno dei piú esperti di quel ricchissimo
patrimonio botanico e soprattutto «vittima» felice di un intenso amore per lo Yunnan e per le sue
montagne selvagge, che egli affettuosamente chiamava «il mio giardino». Tanto da portare
Delavay, durante un’esplorazione botanica, a morirvi ancora giovane. Durante i suoi viaggi
raccolse, con grande cura ed esperienza, innumerevoli campioni di piante, che vennero inviati al
museo nazionale di storia naturale di Parigi: un contributo grandioso, se si considera che le
specie da lui scoperte ammontano a circa duemila.
La prima volta che vidi una Magnolia delavayi fu a Grasse, nell’affollato giardino di Charles
de Noailles, e fu, come si suol dire, un vero colpo di fulmine: pochi mesi dopo, dal sempre
fornitissimo vivaio Hillier di Winchester una piccola pianta con sole cinque foglie già partiva in
direzione di Revello. Adeguatamente e rudemente impacchettata, fece per fortuna buon viaggio e
riuscí a creare sin dal primo momento una profonda commozione. Oggi è diventata un albero
largo e vigoroso, che cresce di fronte alla casa, con i rami bassi che scendono lunghi e morbidi
fino a sfiorare la terra. La fioritura è uno spettacolo poco vistoso, piú sporadica e saltuaria
rispetto a quella delle altre specie, ma forse, proprio per questo, ancora piú emozionante: produce
i suoi fiori grandi color avorio e profumati. Profumo che aumenterebbe nelle ore notturne e con
l’età della pianta. La Magnolia delavayi è, per foglie e struttura, forse una delle piú imponenti tra
le magnolie sempreverdi che provengono dal Sud-est asiatico, e sono le foglie le vere
protagoniste: belle, coriacee e opache, di un elegantissimo grigio-verde, possono arrivare quasi ai
trenta centimetri di lunghezza, sempreverdi. Ama posizioni soleggiate e al riparo dai venti freddi
del nord, è una pianta robusta e di bocca buona, che predilige estati umide e calde, anche se,
aiutata con generose pacciamature, può ben tollerare estati secche e asciutte. Come tutte le
magnolie ama suoli profondi, ben drenati e acidi, anche se si dice che sopporti piú delle altre
specie un terreno leggermente calcareo. Una pianta bella e ricca di pregi, per il momento rara,
piantata da pochissimi e al grosso pubblico ancora sconosciuta. Probabilmente deve la sua poca
popolarità al noto anglocentrismo del secolo passato: la Magnolia delavayi non ama le fredde
temperature estive della terra d’Albione, dove non riesce a dare del «suo» meglio. Per cui no
party...
L’esplosione dell’orto.

I profumi dell’orto sotto i raggi caldi d’estate sono gradevolissimi, una vera delizia: colori e
forme sono il ritratto di un mondo raro e reale dove la pace e l’intelligenza regnano insieme
all’abbondanza. La diversità e il benessere sono il risultato, un vero distillato di antiche (e nuove)
sapienze. Ogni pianta coltivata, dallo zucchino al timo, ha la sua precisa regola di coltura.
Chi ha un orto, anche se piccolo, sa benissimo che con otto, dieci piante di pomodoro cuore di
bue può avere un’estate gradevole, profumata e insuperabile, e che con quattro piante di
pomodoro ciliegino si può togliere anche gli sfizi da grande cucina. È inutile ricordare come
sono buoni i pomodori maturati sulla pianta!
È tipico del profano esagerare sia nelle regole che nelle speranze: quando le piante sono
giovani (anche quelle dell’insalata, lattuga & C.) sembrano cosí piccole! L’orto del profano
appena piantato è bellissimo: tutte le piante vicine vicine, usando cosí gli spazi utili al futuro.
Crescendo però (e Dio sa quanto crescono le piante ben coltivate) le piante troppo vicine
facilmente si ammalano. Tutti gli ortaggi hanno bisogno di aria e sole, temono il cheek to cheek.
Un orto appena piantato deve essere come un largo e imbastito puzzle: deve far «aria»
dappertutto! Il sole è l’elemento piú importante e insieme alla buona terra è la base di una
convivenza di successo. Cocomeri, zucchine, melanzane, fragoline, patate, basilico e rughetta
sono i capisaldi dell’estate e con loro i peperoni (quanto sono buoni appena raccolti i famosi
friarielli del nostro profumato meridione!)
Se a suo tempo ben concimato, ben piantato, ben diserbato e correttamente e
abbondantemente innaffiato, l’orto può essere una vera boîte à surprises: con il caldo dell’estate
esplode e può trasformarsi in un vero torrente in piena. In un sol giorno le zucchine diventano
adulte, per non parlare dei fagiolini che, quando vanno in produzione, come verdi valanghe,
«pretendono» d’esser raccolti mattina e sera.
Meloni e cocomeri, pure loro velocissimi, gareggiano nel produrre. E le melanzane? Vere e
autentiche meteorologhe si bloccano alle prime giornate tiepide e velocissime vanno a
maturazione durante quelle della canicola!
Louis-Albert de Broglie nel suo rigoglioso orto vicino a Tours, in Touraine, coltiva piú di
seicento varietà tutte differenti di pomodoro: sono il simbolo di un’abbondanza impensabile,
quasi improponibile. Sono la palese certezza del successo che un singolo ortaggio, ormai
globalizzato, ha provocato e ottenuto, tra i coltivatori di tutto il mondo: dai pomodori neri della
Crimea ai ciliegini del siracusano. È sufficiente guardare (e non soltanto) un catalogo di semi
tutto italiano, quello di Ingegnoli: la strabordante abbondanza produttiva di un orto vi è descritta
con estrema semplicità e accattivante linguaggio. Proprietà e caratteristiche conducono l’ortolano
dilettante alla giusta scelta. L’orto può essere posto di prova e di curiosità e soprattutto una vera
e autentica palestra del gusto, della vista e dell’odorato.
Un pizzico di follia poi è sempre ben accetto: che cosa c’è di piú gratificante di qualche scelta
bizzarra e inusuale, quasi sperimentale?
Quali saranno le patate piú buone? Un catalogo francese, Graines Baumaux, ne enumera ben
piú di ottanta varietà differenti: una vera babilonia. A Sauze d’Oulx, il bravissimo Giuliano
Vitton ne elenca, magnificandole con semplici e giusti apprezzamenti, piú di venti ottime varietà:
la selezione della selezione. Tra compatte e farinose, tra precoci e tardive, tra nere e immacolate,
non c’è che il dubbio della scelta.
Se seminati e coltivati d’estate l’insalata gallinella (il sarset del Piemonte), il dill (il
profumato finocchietto dei paesi del nord), le carote e i ravanelli, sono un sicuro fallimento:
detestano il caldo impietoso dei lunghi giorni e delle brevi notti. Vanno seminati presto in
primavera o da settembre in poi.
Semplice e meraviglioso è invece il basilico: a foglia grande, a foglia piccola, quello genovese
da pesto o a foglia purpurea, può col suo magico profumo renderci complici di estive prove,
assaggi e confronti. Fin dall’antichità erba regale (tanto nomine!) può essere oggetto di
un’affollata e profumata collezione. Chi non ha visto a Masino (e non soltanto) le numerose
proposte dei fratelli Gramaglia?
Non molti sanno che i frutti dell’orto «se biologico» sono preziosissimi e che, se raccolti
maturi dalla pianta e seduta stante consumati, senza esser per forza trasportati o conservati,
hanno un ben altro profumo e gusto. Chi s’abitua è perduto! L’assuefazione è un autentico
pericolo perché l’orto di casa può diventare quasi una droga: non c’è confronto con gli ortaggi
che normalmente vengono offerti sui nostri asettici banconi. Ed è giustamente logico.
L’attività dell’orto tocca veri livelli di nevrosi durante il periodo di maggior produzione, che
spesso corrisponde con quello delle vacanze: l’ortolano, quello vero, come può abbandonare nel
momento piú caldo e piú generoso l’oggetto di tante cure? Spesso va piuttosto in vacanza
d’inverno, quando l’orto è in letargo. Infatti non è facile d’estate trovare dei supplenti che si
prendano cura, diserbino, innaffino, estirpino e si sostituiscano temporaneamente al vero
ortolano…
«Cut and come again cropping».

Si chiama cut and come again cropping e pare sia l’ultima moda: una tendenza figlia dei
tempi, che parla il linguaggio dei giovani, quasi fosse una nuova e allettante proposta per
coltivazioni a chilometro zero. Si tratta in realtà di una pratica antica, che i contadini delle nostre
campagne da sempre hanno applicato negli orti di casa: cimare a pochi centimetri dalla base le
insalate, le erbe e alcuni ortaggi da foglia, soprattutto quando sono ancora giovani e teneri,
stimolandone cosí la ricrescita e ottenendo raccolti teneri e periodici. Si può coltivare anche sui
davanzali, sui terrazzi e sui balconi e, massima sciccheria, seminando direttamente nei sacconi di
plastica del terriccio, stesi per terra e aperti come piccole aiuole. È questo il principio delle
famose growing bags, comode da trasportare, facilissime da coltivare: promettono le piú sicure e
le piú veloci tra le verdure biologiche e casalinghe. Le protagoniste sono soprattutto le insalate:
lattughe, cicoria, radicchio, rucola e indivia possono essere tranquillamente coltivate in città,
senza neanche bisogno di un travaso: zero chilometri e zero fatica (o quasi). Ciò che occorre è
innaffiare generosamente e tagliare le foglie poco alla volta: in questo modo l’insalata continuerà
a crescere senza arrivare a maturazione e, per ogni semina, saranno possibili addirittura tre o
quattro raccolte. In tarda estate, al riparo di una serra, si possono invece piantare le insalate
orientali, le piú resistenti: coriandolo, pak choi e senape in testa.
I crociati portarono lo scalogno.

La contesa tra cipolla e scalogno è antica e ben nota. Da sempre considerata un alimento
povero e fin troppo comune, guardata con sospetto e diffidenza per il suo gusto forte e marcato,
la cipolla sta «patendo» la gran moda dello scalogno (Allium ascalonicum), parente nobile e
ricercato: quel tocco in piú per palati fini, cosí tipicamente francese. Francese lo scalogno lo è
per adozione ormai da molto tempo: da quando i crociati lo portarono alla fine dell’XI secolo, di
ritorno dalla Palestina, vincitori nella battaglia di Ascalona (città dalla quale la pianta
prenderebbe il nome). Ed è infatti la Francia la principale coltivatrice di scalogno: bellissimi e
famosi i campi di Bretagna e della valle della Loira. In Italia la produzione si concentra in
Romagna, nelle assolate e ben drenate campagne intorno a Ravenna e a Forlí. È una pianta facile,
che ama posti secchi e temperati, vuole moltissimo sole e drenaggi sciolti: non patisce il caldo,
anzi! Lo scalogno va piantato a fine inverno, e si può già raccogliere a giugno, per consumarlo
fresco e aromatico, oppure nei mesi estivi, quando la parte aerea è ormai disseccata. Negli ultimi
anni dall’Olanda sono state proposte nuove colture da seme, ma pare proprio che la tradizionale
coltivazione per interramento del bulbo dia tutto un altro sapore.
Come ben differente è il sapore dell’erba cipollina (Allium schoenoprasum) con il suo
profumo fresco e gradevole: non ha imitazioni. Sono tutti e due sapori (anzi aromi o, meglio,
profumi) un po’ inusuali per le usanze culinarie italiane. Ma data la sempre piú auspicata (e
auspicabile) globalità del gusto e data la particolare sottigliezza dei sapori, e la non frequente
reperibilità, valgono bene la pena d’esser coltivate nell’orto o nei vasi del terrazzo. Sono piante
decisamente facili ma con due differenti, quasi opposti, approcci. L’erba cipollina infatti è pianta
di montagna e ama posti umidi, lo scalogno, al contrario, è pianta di posti secchi e temperati,
vuole sole e drenaggi sciolti, non patisce il caldo, anzi. L’erba cipollina è comune nelle «mie»
Alpi e la si può incontrare a ciuffi nelle alte zone paludose dove spesso, d’estate, mostra, con
abbondante generosità, i suoi bei fiori rosa. Da noi quindi va coltivata nei posti piú freschi e
luminosi ed è talmente sensibile al caldo che d’estate, nel meridione d’Italia, può andare in
palese sofferenza. Tanto da preferirne la coltivazione invernale quasi fosse una pianta stagionale:
soltanto costanti innaffiature possono farle sopravvivere le canicole.
Piccoli frutti da marmellata.

Il gusto del ribes è forte e inusuale come spesso capita per le piante «antiche», è molto
migliore in confettura che «a crudo». Qui è coltivato da sempre, non mancava mai nei bordi degli
orti di campagna. Insieme al rafano e alle fragoline di bosco, faceva parte delle piccole e
fondamentali gioie del palato. Uvaspine, lamponi e, giustamente, ribes e more erano i compagni
di un raffinato benessere contadino. Da pochi anni il ribes nero (la cassis per i francesi) e le more
sono diventate piante alla moda. Ora manipolate dall’uomo e migliorate dal punto di vista del
gusto, rese inoffensive e inermi, rese piú prolifiche e piú grandi del normale e «modificate» dal
punto di vista della forma, non lasciano il dubbio della scelta.
Nella parte piú fresca dell’orto ho deciso di piantare man mano, per prova, tutte le nuove
proposte dei vivai, per poi decidere a cose viste e a gusti confrontati su quali concentrare
l’attenzione. Per fortuna c’è ancora spazio. In quanto al ribes, il migliore mi sembra sempre
quello a frutto rosso e dai lunghi grappoli, mentre tra le more la sempre generosa mora senza
spine. Molta soddisfazione la danno anche alcuni ibridi tra mora e lampone dai frutti grandi e
succosi. Del sempre fornito catalogo Ingegnoli per ora ho provato la varietà Tayberry, che è
generosa e molto gradevole. Per le more è meglio un’esposizione assolata, mentre il ribes non
ama i posti troppo caldi e asciutti, a entrambi fa molto bene di tanto in tanto dell’acqua sulle
radici e soprattutto una abbondante pacciamatura estiva. Le loro radici sono superficiali e
soffrono a «cuocere» durante le piú bollenti canicole.
Un fiore di successo.

Dai giardini botanici ai round about, dai vivaisti specializzati ai garden center, da pianta rara a
pianta comune: il ceanoto, il lillà della California, in pochi anni ha conquistato un posto sempre
piú importante nei giardini. Sarà forse per il colore dei fiori, sempre netto e preciso o sarà per
l’armonico equilibrio tra foglie, fiori e arbusto?
Va dato merito ai giardini d’Inghilterra, Londra in testa, se in pochi decenni è diventato un
must: ritenuto comodo, robusto, soprattutto bello, è stato piantato in modo massiccio. È pianta
sempreverde molto apprezzabile sia per le sue foglie rugose e piccole, sia per i fiori leggeri e
minuti, quasi trasparenti nelle fioriture. Il ceanoto ama i posti assolati e pretende un buon
drenaggio e, se il terriccio in cui viene piantato è un po’ acido e non troppo povero, tanto meglio.
Sarebbe il piú bell’arbusto coltivabile a fiori azzurri a detta del grandissimo «vivaista» Sir
Harold Hillier (tra gli anni Trenta e gli anni Novanta, fu il piú sapiente propagatore di tante
piante belle, forti e poco conosciute). Il ceanoto, dal punto di vista botanico, con le sue
cinquantacinque specie, è una pianta relativamente «giovane» per i nostri giardini. Deve
probabilmente il suo successo al colore, in particolare a quell’azzurro che in tutte le sue forme è
da sempre il colore piú apprezzato dai giardinieri inglesi. Proveniente dalla California, dal
Messico e dalle montagne del Guatemala, il ceanoto deve tanta popolarità soprattutto ad alcuni
ibridi, come il recente e bellissimo Concha dal raro colore della genziana o a quelli piú vistosi
del Thyrsiflorus Trewithen Blue, vero e autentico royal blue: pianta velocissima nel crescere e
nel fiorire ma esigente di ripari, perché non sopporta il vento, dato il ridotto e debole volume
delle radici.
Utile ed emozionante per capirne di piú sulle rustiche e originali richieste del lillà della
California fu, per me, una visita sul «posto». Il primo ceanoto a essere avvistato era tenacemente
abbarbicato sulle sponde di una pietraia lungo la grande strada che collega Vancouver a San
Francisco, e fu una vera delusione: a stento sembrava un ceanoto, per nulla somigliante a quelli
dei giardini inglesi, dove vezzeggiato e curato, solitamente mostra un aspetto vivace e colorato.
Le piogge frequenti, le terre povere e i drenaggi ottimi e tanto sole erano le caratteristiche piú
salienti del posto.
Concha fu un regalo di Mab Wimborne, una delle piú esperte giardiniere inglesi, che crebbe
nel giardino di Abbotswood nel Dorset e costruí quello di Magnolia House dell’isola di
Guernsey. Fu la prima a capire il valore di quell’eccellente e nuovo ibrido californiano. Concha
ora è diventato per il suo intrinseco valore una gemma del giardinaggio mondiale. Come tutti i
ceanoti, suole compiere il suo generoso ciclo di crescita, fioritura e maturazione con una velocità
inaspettata: sotto il sole temperato d’Italia tutto avviene in dieci-quindici anni, mentre in posti
riparati, ma meno caldi (e un po’ piú a rischio) la vita del ceanoto può esser anche piú lunga. Di
grandissimo successo, in questi tempi, sono gli ibridi «nani», figli e nipoti di Griseus, gli ibridi
californiani altrimenti chiamati Carmel hybrids: prostrati e sempreverdi sono diventati una delle
piú comuni bordure di innumerevoli variopinti round about, da quelli di Auckland a quelli di
Belfast, da quelli di Vancouver a quelli di Canberra.
Veloci a crescere e veloci a deperire, quasi fossero il risultato di un contratto preciso e
programmato, questi splendidi arbusti sono la gioia di molti giardinieri «ansiosi» (e dei loro
giardini un po’ nevrotici) dove il «tutto e subito» ha una sua collocata e solida ragione di vita.
Una vita spartana.

La ginestra, quella gialla e semplice, profumata e che con estremo vigore cresce nei posti piú
poveri, lungo le strade o ai bordi dei boschi, è una delle piante piú belle della nostra macchia:
regina indiscussa delle terre povere e aride, vince con la sua forza tenace le piú malagevoli
difficoltà. Come una vera eroina, abbarbicata sui punti piú alti dei funzionali muretti «verdi» che
difendono i binari dei treni dell’alta velocità tra Milano e Bologna, ci ricorda la sua seria
dedizione al compito. Forte delle sue frugali esigenze è pronta (nel tempo, si spera) a essere
madre di tante altre ginestre. I suoi baccelli come tante piccole taccole portano solitamente a
maturazione centinaia e centinaia di piccoli semi. Chi volesse coltivare la ginestra, lo Spartium
junceum, sul terrazzo, non dovrebbe aver difficoltà, sarebbero necessari alcuni accorgimenti: vasi
larghi e alti (60 o 70 cm di diametro), terra non troppo ricca e soprattutto potature energiche tutti
gli anni in febbraio-marzo, fino a un centimetro dal legno vecchio (ma non di piú, perché non
«ripartirebbe»). Una vita spartana (e poca acqua) ne potrebbero condividere i successi di anno in
anno.
La piú amata dalle farfalle.

Seguendo l’abitudine dei giardinieri australiani e americani, da un po’ di anni in qua viene
chiamata la pianta delle farfalle, Butterfly Bush: scapigliata ed esuberante, la buddleia non è
pianta adatta per chi ama i giardini troppo «addomesticati». Tra siepi, bordure e aiuole non si
trova proprio a suo agio: gradevolmente invasiva, nelle nostre regioni preferisce le rovine (anche
recenti) e gioisce dei greti sassosi dei fiumi.
Che questo carattere forte e indipendente non piaccia a molti giardinieri non sembra turbarla
affatto. Quello con la buddleia è un amichevole accordo che segue da sempre regole chiare e
precise: se accettata e rispettata, la convivenza sarà senz’altro molto proficua. Per gran parte
dell’anno viene lasciata indisturbata, libera di crescere come piú le aggrada, mentre alla fine di
ogni inverno una buona potatura si rende necessaria, quasi inevitabile. Non bisogna avere
nessuna paura: tutte le buddleie, a eccezione della B. alternifolia e della B. colvilei, fioriscono sui
rami dell’anno e spesso una severa potata non può che fare del bene, ristabilendo in maniera un
po’ dura ma efficiente ordine e disciplina. D’altronde, si tratta pur sempre di una pianta da
giardino.
D’estate la buddleia offre uno spettacolo davvero unico ed eccezionale. Le sue lunghe
pannocchie viola, ricche di nettare e delicatamente profumate di incenso, attirano a centinaia e
centinaia le farfalle, di tutte le forme e di tutti i colori: un brulichio di vita e di bellezza, che
rende il giardino un luogo ancora piú piacevole per chi lo visita e per chi lo lavora.
Pur provenendo in gran parte dalle zone tropicali di Asia, Africa e America, le buddleie
nascono spesso spontanee in tutta Italia e in Europa e, da buone cosmopolite, hanno saputo
adattarsi un po’ a tutte le circostanze, anche le piú desolate e infelici. Si racconta che la Buddleia
davidii, indistruttibile e vigorosa, fu la prima a ricrescere sulle rovine dei bombardamenti aerei di
Londra, Liverpool e Birmingham durante il secondo conflitto mondiale. Di bocca buona, le
buddleia non chiedono altro che tanto sole e un buon drenaggio: anche la terra può rivelarsi quasi
un optional per queste rusticissime piante. Qui in Piemonte hanno qua e là colonizzato le sponde
ghiaiose dei fiumi. In questo periodo, e nei posti piú umidi, insieme alle impatiens selvatiche,
che già si preparano al loro tipico e rocambolesco rilascio dei semi, formano un quadro davvero
allegro e attraente.
La piú rustica e conosciuta, la buddleia per antonomasia, è la B. davidii, originaria della Cina,
dove è anche famosa con il nome di lillà estivo, per i fiori colore dell’ametista e profumatissimi.
Tante sono le varietà coltivabili in giardino, una per ogni possibile sfumatura di viola, di malva e
di blu: dalla severa ed elegante B. d. Black Knight, con lunghe pannocchie viola scuro, quasi
ardesia, alla popolarissima B. d. Dartmoor, con fiori rosso magenta. La piú famosa in Inghilterra,
e purtroppo poco conosciuta in Italia, è la B. Lochinch, un ibrido tra la B. davidii e la B.
fallowiana. È un arbusto di gran pregio, con foglie vellutate grigio-bianche e con fiori profumati
e color della lavanda, con un piccolissimo occhio arancione al centro.
La buddleia piú resistente al freddo e piú (giustamente) alla moda nei paesi anglosassoni è la
B. alternifolia, nota per il suo grande cespuglio a foglie decidue. Può diventare un piccolo albero,
dai rami aggraziatamente arcuati, coperto tra maggio e giugno da piccoli fiori lilla, delicatamente
profumati. Proveniente dalla Cina e introdotta nei giardini europei da circa un secolo da Reginald
Farrer (per la gioia di tantissime e indaffaratissime farfalle), è diventata una delle piante piú
comuni nei giardini di Inghilterra e Scozia.
Nel giardino Hanbury alla Mortola, desiderosa di caldo e felice del posto particolarmente
riparato, una spettacolare B. madagascariensis fiorisce su un grosso pergolone. A pochi metri dal
mare. I fiori gialli, in lunghi pannicoli, sono nel loro meglio durante tutto l’inverno: l’effetto è
davvero grandioso e inaspettato.
Rispettiamo l’eleganza delle ortensie.

L’ortensia è un po’ come la cicala: per tutta l’estate «canta» tra abbondanza e leggerezza,
sovrastando con la sua imponente e lieve presenza le mezzombre. Per l’Europa è pianta ormai
usuale e antica e ha conquistato una sua ben definita «posizione»: comune e popolare tanto da
dominare con la sua vistosa presenza i giardini piú freschi dello «stivale». Asiatica d’origine, fu
introdotta nei giardini europei dal Giappone. Con il nome greco-latino di Hydrangea fu ammessa
dal grande Linneo nel variopinto e allegro coro delle piante da giardino.
Le ortensie, quelle tradizionali e solite, quelle che dal rosa passando per il viola e per il bianco
arrivano all’azzurro, provengono, appunto, dal Giappone e come tutte le piante dell’arcipelago
amano, desiderano, vogliono essere avvolte da umidità ed esser irrorate da frequenti piogge (o
innaffi). Prediligono le umide enclave di giardini freschi e irrigati. Tutte detestano i terreni
alcalini e ardentemente desiderano il mulching, la utile e famosa pacciamatura fatta di foglie,
rametti, erbacce, zeppoli di corteccia, compost. Infatti le loro radici superficiali sono sensibili
alla siccità prolungata: un generoso materassino di materiale decomponibile o, meglio,
decomposto, rende piú uniti i nostri mediterranei e irragionevoli eccessi climatici, trasformando
le secche canicole in moderate «mezze stagioni». Se opportunamente sistemate, le comuni
ortensie possono diventare alte piú di due metri e vigorosamente allargandosi possono anche
occupare ognuna due o tre metri quadrati. Quando sono giovani e piccole si possono
tranquillamente piantare in ranghi piú serrati per un accelerato «pronto effetto», anche perché in
seguito possono essere facilmente trapiantate, diradate e avere piú ampi e consoni spazi a
disposizione. In maturità amano esser lasciate tranquille: mal sopportano i tagli severi ai quali
spesso vengono sottoposte da certi improvvidi giardinieri, quei numerosi, consumati e purtroppo
frequenti ghigliottinatori che manifestano e confermano la loro presenza con tagli e sforbiciate
forti e decise.
Corrinne Mallet, Anna Peyron ed Eva Boasso, tre famosissime «ortensiologhe»,
raccomandano sempre potature leggere, indicando con quel termine la pulitura dei fiori secchi e
una leggera spuntatura dei rami troppo ribelli. Ma soprattutto insistono per il taglio di alcuni (due
o tre al massimo) dei rami piú vecchi: in modo cosí da «ringiovanire» la pianta e nello stesso
tempo contribuire a un buon riciclo d’aria e di luce nel fitto dell’arbusto.
Seguiva i consigli di Corinne Mallet la fortunata giardiniera e sapiente proprietaria di alcune
vecchie piante di ortensie azzurre, coltivate tra le mezzombre di un rado boschetto a Fiesole.
Governate in grandi vasi da limoni, erano felici e appagate sia dal ricco e «acido» terriccio sia
dall’avaro ma opportuno innaffio. Erano talmente cariche di fiori da non lasciar vedere foglia:
soltanto fiori che in alcuni casi dall’azzurro pallido viravano, passando dal verde piú tenero, al
rosa. Quelle ortensie, proprio perché nel loro capiente vaso, erano a loro modo libere dalle
competitive radici del bosco circostante (lecci e querce); e sottoposte a un buono e costante
apporto d’acqua erano pure regolate da un perfetto e funzionante drenaggio. Le ortensie infatti
amano essere coltivate in vasi, purché proporzionatamente spaziosi e soprattutto ben drenati. In
piena estate, nelle giornate piú calde e piú secche, dovrebbero essere sobriamente innaffiate
anche due volte al giorno: non necessitano di grandi quantità. Non bisogna dimenticare che
all’apparenza vistose, spumeggianti e vaporose, sono pur sempre le rustiche figlie di una vita
modesta, morigerata, fatta di poco. Soprattutto d’acqua: meglio quest’ultima se piovana.
La finta salvia.

Per gli amanti delle piante a foglia argentea, la Phlomis fruticosa è una vera manna: bella,
facile e resistente, può diventare un piacevole leitmotiv del moderno giardino mediterraneo.
Proviene infatti dalle sponde orientali del Mare Nostrum e da qui le deriva l’affascinante nome di
«salvia di Gerusalemme»: in effetti le sembianze son simili a quelle della salvia, sia per il colore
che per la consistenza vellutata delle foglie, anche se di una salvia propriamente non si tratta. In
Italia cresce selvatica nelle regioni centrali e meridionali, in rupi e garighe aride, sassose e
prevalentemente calcaree, preferendo posizioni calde e assolate e terreni sempre ben drenati. O
meglio cresceva, perché oggi è purtroppo sempre piú rara come pianta spontanea: bellissime
sono da sempre quelle della conca del Fucino, in Abruzzo, e quelle delle coste rocciose che da
Otranto conducono al faro di Punta Palascía.
Splendide sono poi quelle coltivate nel piccolo giardino botanico di Lama dei Peligni, nel
Parco della Majella. Nonostante abbia origine in luoghi miti e temperati, può essere coltivata
anche nei giardini del Nord, almeno in quelli piú riparati, soleggiati e ben drenati: lo sanno bene
in Cornovaglia, dove pare che la Phlomis fruticosa, aiutata dalla famosa corrente del Golfo,
abbia trovato un ambiente ideale e si sia ormai naturalizzata.
Una rustica luminosità.

Da quasi tre secoli, con il nome bignonia sono state indicate numerose, variopinte ed esotiche
bellezze botaniche. Rampicanti e arbustive. Da piú di cinquant’anni invece i botanici hanno
cercato di mettere ordine in questa grande famiglia, dando nuovi nomi, smembrandola e
dividendola tra Campsis, Podranee, Tecoma, Bignonie e altre.
Le bignonie piú comuni nei nostri giardini, quelle che fioriscono abbondantemente, tra il
rosso e l’arancio, rampicanti, invadenti e vigorose sono state definitivamente chiamate Campsis.
Crescono bene sia nei giardini del nord, che in quelli temperati del sud. La piú conosciuta e
piantata nei giardini italiani è un ibrido ottenuto dalla Campsis grandiflora, che viene dalla Cina,
e dalla Campsis radicans che viene dalla West Coast dell’America del Nord. L’ibrido da piú di
un secolo è stato chiamato Bignonia tagliabuana, e ora Campsis tagliabuana, dal nome di un
intraprendente giardiniere lombardo del secolo XIX : robusta e vistosa e un po’ démodé, spesso
proposta e venduta nei vivai, è forse la piú comune. Di questi tempi con il nome romantico di
Campsis Madame Galen la si può trovare in vaso, pronta per il trapianto, tra le piante rampicanti
nei piú forniti garden center. Se piantata contro un muro, con spericolata abilità s’arrampica,
aiutandosi con i suoi piccolissimi piedi. Non ha bisogno di essere una pianta adulta per fare il suo
coloratissimo show: fiorisce anche da giovane, pregio giardiniero che per i nostri tempi affannosi
è molto importante.
Robusta e quasi invadente, la Campsis Madame Galen ama insinuarsi con forza tra i rami alti
di alberi vicini (molto bella, per esempio, tra il fogliame dei lecci), tramutando dei seri e
dignitosi alberi in un inusuale e decisamente piú frivolo quadro giardiniero.
La forma cinese, la Campsis grandiflora, ha l’aspetto particolarmente gradevole e
caratteristico: le «sue trombe» sono corte, aperte, accoglienti, ben differenti da quelle tubolari e
strette della Campsis radicans, quella americana. Gli stretti «tubi» possono diventare, secondo il
grande naturalista Catesby, delle vere trappole per i colibrí, gli uccelli mosca, i quali, curiosi e
piccini, nel periodo di fioritura amano alimentarsi dei nettari zuccherini delle infiorescenze. I
poveri colibrí, secondo Catesby, troppo ingordi e temerari, possono venir trattenuti dagli
appiccicosi nettari nelle strette gole della Campsis radicans, non riuscendo piú a uscirne. Quegli
stessi nettari che spesso attraggono nei giardini naturali, e quindi non troppo spick e span, le
formiche a centinaia per l’orrore di tanti «giardinieri non giardinieri».
Le Campsis d’America sono forti, rustiche e se adulte sopportano bene i geli: resistono
tranquillamente agli estremi dei nostri climi e non soltanto. Come tutte le bignonie amano
crescere in un terreno ricco e ben drenato: l’abbondanza di humus e una certa umidità ne aiutano
la vistosa crescita e l’abbondante ed estiva fioritura.
Un po’ meno resistenti ai geli sono le Campsis grandiflora, che in Toscana sono chiamate
comunemente le bignonie di Bolgheri, dove con estrema eleganza e vivacissima performance e
soprattutto in gran numero, scavalcano i vecchi muri di un giardino al punto estremo del lungo,
famoso e celebrato viale dei cipressi.
Poche piante sono belle come loro in questo momento di grande calore: robuste e soprattutto
sane amano non esser troppo potate. Il loro portamento, naturalmente molto elegante, non ne
avrebbe alcun vantaggio. Provenienti dalla Cina (e dal Giappone), sono state tra le prime a essere
portate in Europa dal grande botanico Kaempfer e crescono fino a cinque o sei metri: meno di
quelle americane che vanno altissimo, anche venti metri e piú.
Con i grandi ed eleganti fiori rosso amaranto e le foglie, lucide e lanceolate e sempreverdi, la
Bignonia buccinatoria è una pianta affascinante. Poco o nulla si sa sulla sua origine: proviene
probabilmente dal Messico o dalle Antille. L’introduzione in Europa dovrebbe risalire agli inizi
del XIX secolo, pare a opera di un botanico svizzero, il Mairet di La Chaux- de-Fonds. La
nomenclatura varia ed è cambiata piú volte: prima fu conosciuta come Bignonia cherere per
diventare Distictis buccinatoria, anche se talvolta è chiamata Phaedranthus buccinatorius.
Di qui si può dedurre una certa confusione nella vecchia sistematica bignognesca che, di
tempo in tempo, comunque venne adeguatamente aggiornata e ripresa. Buccinatoria perché i suoi
fiori tubulari ricordano le buccine, le trombe dei legionari romani.
Fu pianta molto frequente negli antichi giardini siciliani dove viene fatta arrampicare su
pergole e su pareti, come quella storica e famosa del giardino della Favorita, a Palermo o quella
un tempo bellissima di Villa Malfitano. Sono piante che non tollerano temperature al di sotto dei
cinque gradi: vigorosissime, se ben innaffiate e piantate in un suolo ricco e ben drenato, pare
possano svilupparsi fino a trenta metri. Lungo è il periodo di fioritura: copre ben due stagioni,
quella estiva e quella autunnale. Un proficuo e vantaggioso record.
Simpatici ospiti estivi.

Potere della narrativa: dopo aver letto Storia di Quirina, di una talpa e di un orto di montagna
di Ernesto Ferrero e Paola Mastrocola vien voglia di amare di piú e in modo piú profondo una
grande e storica nemica del giardino (e del giardiniere). Esiste infatti una dimensione del
giardino alla quale si pensa poco: quella sotterranea e nascosta, fatta di terra, di radici, di sassi e
(perché no?) di lunghi cunicoli. Come nella storia di Quirina, non sempre la convivenza è facile e
pacifica: quel sottosuolo misterioso, cosí incredibilmente vivo, è spesso vittima delle piú
recondite nevrosi giardiniere. Senza capire che, almeno entro certi limiti, è sempre meglio lasciar
fare alla natura: le talpe, cosí come le serpi e i lombrichi, non sono nemici infernali ma presenze
contraddittorie e, se solitarie, anche amiche e benigne. Come in tutte le cose, è un discorso di
equilibri.
Distruttrici di orti, di prati e di giardini, avide saccheggiatrici di spighe di cereali con cui si
diceva tappezzassero le tane, le povere talpe vengono spesso e da tutti accusate di essere
inconsce apripista, abusando delle loro gallerie, per donnole e topi campagnoli. I rimedi proposti
volevano essere drastici e radicali: una vera e propria escalation degna del piú terribile dei
conflitti. C’era chi consigliava di interromperne i cunicoli con grovigli di spinosissimi rami di
rosa e di biancospino, fino alle piú elaborate e crudeli tecniche di avvelenamento, come gherigli
di noce e virgulti di sambuco imbevuti di cicuta. Alcuni testi ottocenteschi lasciano libero spazio
alla fantasia: consigliando l’uso di granchi morti e putrefatti, di succo di cocomero impastato con
terra, fino a proporre addirittura radici di ricino polverizzate e ridotte in pasta con orzo, uova,
vino e latte!
Le trappole in ferro, semplici e micidiali, nelle loro piú antiche ed elaborate forme, erano le
armi piú comuni e diffuse, derivandone una vera e propria caccia, macabra e raffinatamente
sadica, con regole precise e complicate, alle quali erano iniziati pochissimi «professionisti» che
generazione dopo generazione imparavano il mestiere. Perché di un preciso mestiere si trattava e
ancora si tratta, benché oggi sia quasi scomparso, tranne in Francia, dove esistono ancora i rari
taupiers, richiesti un tempo da tutti: dall’ortolano al re. Ben lo sapeva Luigi XIV, che per liberare
dalle talpe la sua amata Versailles istituí addirittura la carica di Taupier du Roi, che rimase a
lungo a servizio nei giardini reali.
In realtà nei giardini e a piccole dosi, le talpe finiscono col fare piú bene che male:
voracissime di insetti, di lumache e del terribile verme bianco del punteruolo, aiutano il
drenaggio del terreno e forniscono al giardiniere, con i loro monticelli, terra sciolta, fertile e
pronta all’uso. Quando però diventano davvero un problema, scalzando e spezzando i risultati
delle nostre fatiche, si può provare ad allontanarle, senza ucciderle. Fino a pochi anni fa gli
ortolani sapienti e i contadini piantavano lungo il perimetro degli orti l’Euphorbia catapuzia
(Euphorbia lathyris), cosí velenosa e tossica in ogni sua parte, e nelle sue stesse radici «auree»,
da tenere ben lontane le talpe e gli altri ospiti poco graditi. Molto prolifica, robusta e
praticamente indistruttibile, l’E. lathyris ama posti assolati e non troppo umidi. Un altro rimedio
«vegetale» possono essere i bulbi di Fritillaria imperialis, la famosa e bellissima corona
imperiale, vera regina delle bulbose primaverili, simbolo del bello e del buono tra la Persia, la
Turchia e dintorni. I suoi grandi bulbi sprigionano un odore cosí disgustoso e penetrante da
offendere le delicate narici e mettere in fuga le sensibili e raffinate amiche-nemiche dei nostri
sottosuoli. Correre ai ripari per salvare il giardino può essere talvolta una scelta necessaria e
inevitabile: l’importante è agire sempre con rispetto e buon senso. In fondo l’arte del giardino
non è forse un esercizio continuo alla tolleranza?
Ospiti estivi meno simpatici.

I cinghiali quando arrivano in giardino hanno sempre una gran fame, non vengono certo per
fare una visita o una passeggiata. A loro piace, come vigorosi aratri, girare la terra ricca alla
ricerca di tutto un po’, dai lombrichi ai piccoli (e grandi) bulbi. Al grano maturo invece
schiacciano i cespi, lavorando come ottime mietitrebbiatrici. Per i giardinieri il passaggio del
cinghiale (che molto spesso sono tanti e in gruppo) è praticamente la fine del giardino o
dell’orto. Una battuta di bagordi sulle nostre terre non può che far solleticare istinti sanguinosi.
In poche ore producono danni grandissimi: d’estate, poi, il prato all’inglese è per loro vero
caviale, arandolo vi trovano ogni ben di Dio.
L’enorme incremento in numero e in sfacciataggine crea i presupposti per un odio profondo.
Il problema è che ci siamo dimenticati nel corso dell’ultimo secolo quanto sia importante un
buon fencing, delle valide e robuste chiusure. Un tempo non era pensabile un orto senza una
robusta siepe, appoggiata a una robusta rete o a una fitta staccionata. In certi casi i piú fortunati
potevano chiudere addirittura con un lungo muro. Cinghiali, caprioli, cani e ladruncoli non erano
certo ospiti ben accetti: chiusure, cancelli e chiavi custodivano il giardino e l’orto.
In Francia, Spagna, Germania e Austria è sempre stato cosí. In Italia sono stati l’alto numero
di cacciatori, l’agricoltura intensiva e l’opera di deforestazione a far diventare, nel secolo
passato, i cinghiali rari e paurosi. Caduti i presupposti sono iniziate le incursioni. I giardini
quindi devono adeguarsi: chiudersi bene. E, se troppo grandi, chiudersi in parte. E soprattutto,
anche per colpa dei cinghiali, si dovrebbe ripensare allo sfacciato abuso dei prati all’inglese e a
riconsiderarne l’opportunità.
Una pianta simbolo.

Nei giardini europei le piante di agapanto arrivarono tre secoli fa, passando, pare, dai porti
dell’Olanda: il Sud Africa ne è il posto d’origine. Furono in seguito i giardinieri inglesi
dell’epoca della regina Vittoria a decretarne il successo anche se erano giudicate piante delicate
al freddo, da coltivare in mastello e da ritirare in serra durante l’inverno. Per il colorato e
pomposo giardino tardo vittoriano, la vistosa fioritura di azzurro o di bianco, in piena estate,
divenne un must tanto da proporsi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento come uno
dei simboli viventi della diversità e della ricchezza dell’Impero. Esportati in tutti gli angoli di
quel grande ed etnico melting pot, gli agapanti entrarono a testa alta (e parlando di loro lo si può
ben dire!) nei messaggi, neanche tanto subliminali, di una politica imperial-estetico-vegetale.
Tipica pianta da giardino ricco, parte importante di una scenografia sovrabbondante e fastosa,
con il tempo divenne sotto gli impulsi generosi e intelligenti di Lewis Palmer (dalle terre e dalle
serre del suo giardino, Headbourne nell’Hampshire), una pianta popolare per tutti i giardini e
tutti i giardinieri, soprattutto rustica e resistente al freddo e all’incuria. L’idea di Lewis Palmer fu
di selezionare gli agapanti partendo dal luogo d’origine, in Sud Africa, scegliendoli tra le piante
provenienti dalle zone piú fredde, meteorologicamente disagiate dell’Orange, dello Swaziland e
del Drakensberg. Vagliando e ibridando ottenne addirittura piante resistenti a meno quindici
sottozero. Fu un vero successo: sottratti dall’obbligo di serre, vasi e cure, gli agapanti divennero
parte dell’ampio mondo delle piante facili e robuste, per tutti i giardini d’Inghilterra e non
soltanto. In Italia, dove le temperature permettono una vita molto piú facile, il processo fu invece
lento e distratto. Gli agapanti, quasi sempre ibridi del primo arrivato, l’africanus, dal bel fiore
blu, divennero una abituale comparsa dei giardini da Roma a Catania: usati come pianta facile e
coprente al posto di bordure e pratini.
Le foglie sempreverdi, belle, lucide, sane e dall’aria composta, sono grande parte del suo
successo giardiniero: un gruppo di agapanti può fare la sua bella figura nel corso dell’anno anche
senza fiore.
Pianta da tempo molto apprezzata e piantata in modo massiccio nelle due isole della Nuova
Zelanda, è diventata con gli anni un vero vanto e soprattutto l’oggetto di una ibridazione
massiccia e innovativa, tendente a dilatare la durata del periodo di fioritura, cercando (e
riuscendoci) con successo di renderla piú costante e scalare. I «nuovi» agapanti neozelandesi da
alcuni anni stanno conquistandosi uno spazio di tutto rispetto nei giardini: Timaru, alto poco piú
di sessanta centimetri, dai grandi fiori blu forte, è il favorito di Robin Lane Fox, Castle of Mey
oppure Ardernei, giganti da novanta centimetri di altezza, l’uno blu scuro e l’altro bianco.
Affascinante per me è Queen Mum, uno dei piú generosi e robusti nuovi ibridi, dall’enorme
fiore bianco con le gole azzurre e con foglie grandi e lucide. In questo momento è in fiore nel
giardino della Pergola ad Alassio, dove in pochi anni è stata creata e piantata una delle piú grandi
e complete collezioni di agapanti d’Europa. Una buona scusa per vedere i famosi giardini che
Lord Dalrymple prima, e la botanicissima famiglia Hanbury dopo, costruirono sulle scoscese
alture di Alassio. Tutto l’insieme conferma l’amore dei nuovi proprietari per il posto, ed è un
vero e vivente inno al coraggio e alla sapienza botanica. E alla sua speciale, stupefacente,
bellezza.
Piú famosa.

Le Magnolie grandiflora non hanno bisogno di descrizione. Sono tra le piante piú conosciute
in Italia e sono molto apprezzate anche dai non addetti ai lavori.
Chi percorre la via Appia tra Roma e i Castelli Romani, all’altezza delle Frattocchie, sulla
sinistra può notarne un robusto, bellissimo siepone. Una ventina di magnolie già rigogliose,
spavalde: un vero trionfo di salute e bellezza, potate ogni due o tre anni per evitare l’invasione
sulla strada consolare che, forse a causa della periodica sfrondatura, sono diventate una vera
meraviglia.
Le lucide foglie sempreverdi e soprattutto gli enormi fiori della Magnolia grandiflora sono
forse il simbolo piú appariscente della botanica estiva: di effimera bellezza, sono piacevolmente
e dolcemente profumati. Armonico ed equilibrato è pure il portamento degli alberi, tanto piú se
fatti crescere con i loro rami a terra, cosí da coprirne il piede e, con la vegetazione «rasoterra»,
nascondere le numerose foglie che dall’albero di giorno in giorno cascano sulle stesse radici (e
per la loro giusta protezione).
Provenienti dal Sud-est degli Stati Uniti d’America e arrivate in Europa verso l’inizio del
Settecento (pare prima in Galizia, in Spagna), non hanno fatto che mietere consensi entusiastici
in tutto il continente, diventando una delle piú ricercate e pregiate alberature sempreverdi.
Agli inizi furono giudicate alberi delicati, come spesso è capitato per le piante «nuove»,
diventando comunque lentamente ma senza indugi tra gli alberi piú répandu: occupando sia posti
caldissimi come Cagliari o Catania sia posti freddi, quasi alpini come Merano o Belluno. Per le
Magnolie grandiflora il grande problema non sono i freddi, sono piuttosto le nevicate pesanti. Le
grandi e coriacee foglie non «scaricano» bene e certe volte l’accumulo di neve ghiacciata, con il
relativo gravoso peso, può provocare la rottura di rami che, poco elastici, spesso sono fragili.
Vogliono terre profonde nelle quali far «lavorare» le loro avide e grosse radici, essenziali e
necessarie per mantenere (e soprattutto per far crescere e fiorire) un albero che può arrivare fino
ai venti-trenta metri.
Come già detto, è pianta che sopporta con estrema dignità (quasi con palese compiacimento!)
le potature (purché leggere!): maestose e spesso bene e puntualmente potate sono quelle che si
possono vedere nei giardini storici sui laghi. Sono un esempio di fortunate coincidenze: l’umidità
costante dell’aria, la temperatura e le nevicate leggere hanno da piú di due secoli permesso
spettacolari e riconosciuti successi.
Favorite dalla popolarità e agevolate dalla richiesta, come tutte le piante che si rispettano,
sono piante selezionate con cura dall’uomo. Bellissima ed estremamente popolare nelle isole
Britanniche è una varietà recente (1910) ottenuta nell’isola normanna di Guernsey: foglie forti,
lucide, specchianti e fiori enormi fanno di Goliath un vero e autentico trionfo di bellezza.
Talmente docile al taglio da poter essere coltivata schiacciata anche contro un muro (un muro
britannico! qui da noi nelle giornate di canicola potrebbe anche andare, poveretta, a fuoco!)
Fortissima, selezionata alle temperature piú gelide, è l’ibrido tra Magnolia virginiana e
Magnolia grandiflora Maryland: le foglie piú piccole della specie «sgrondano» in modo facile la
neve.
In ultimo, tra altre numerose e spettacolari varietà, si fa notare Little Gem quasi nana, di
ridotto sviluppo, adatta sia al terrazzo (con relativo buon contenitore) che al piccolo giardino.
Ottenuta di recente (1952) e ben propagandata in tutto il mondo, gode di grandissima popolarità:
è, senza dubbio, il momento degli alberi «piccoli» che, zitti zitti, stanno avendo la loro attesa e
sospirata rivincita.
Un’anima resistente.

La Phillyrea è pianta tipica della macchia mediterranea e cresce selvatica sulle coste
dell’Europa meridionale e dell’Asia Minore. La parentela stretta con l’ulivo è evidente nel tronco
e nelle foglie sempreverdi, anche se non nel loro colore, piú simile al verde del corbezzolo e
dell’alloro. Anche lei produce drupe nere, ma riunite in grappoli, piú rotonde e molto meno
allettanti delle olive. Dai cugini Osmanthus ha preso invece il gradevolissimo profumo, intenso e
dolciastro, dei piccoli fiori bianchi, che li rende meta privilegiata delle api mellifere e che le è
valso l’appellativo di finto ligustro.
La Phillyrea è una pianta robusta e senza pretese. Seppur molto lenta nella crescita, si rivela
un ottimo alleato per rimboscare scarpate franose o per creare siepi frangivento e ha il pregio di
rinnovarsi facilmente dopo il passaggio del fuoco. Preferisce esposizioni assolate (pur crescendo
bene anche nel sottobosco mediterraneo) e si adatta a qualsiasi tipo di terreno, anche quello
salmastro. In Italia sono spontanee due specie: la P. angustifolia, cespugliosa, dalle foglie lunghe
e strette, che preferisce gli ambienti costieri, e la P. latifolia, piccolo albero con foglie scure e
coriacee, piú resistente alle basse temperature. Molto utile e bella è poi la varietà P. latifolia
buxifolia, con la foglia piccola simile a quella del bosso. Poco utilizzata dai giardinieri, perché
forse troppo legata nell’immaginario collettivo a una vegetazione spontanea, forse «già vista», e
certamente «povera»: piú pianta da coro che da prima donna.
Ultima novità, e certamente molto benvenuta (dati i tempi brutti e difficili per i bossi, vittime
della micidiale piralide), la Phillyrea angustifolia nana, selezionata da Marco Sartori, adatta a
sostituire degnamente, anche nella topiaria, il vecchio caro bosso.
Un azzurro che rincuora.

Le piante, soprattutto quelle in vaso, innaffiamento dopo innaffiamento, dilavamento dopo


dilavamento, vanno col tempo in carenza, esauriscono il terreno e si possono indebolire. Cosí fu
per le mie plumbago: ora il caldo e il sole, e soprattutto l’abbondante concime «pellettato»,
hanno fatto la loro generosa parte. Le mie due plumbago in vaso non sono mai state cosí belle. È
lapalissiano: il concime in giardino può fare miracoli, tanto piú quello naturale, e non ne
andrebbe mai fatta economia. I tantissimi fiori, in armoniosi capolini, campeggiano con leggera
enfasi sulla scala del mio piccolo cortile. Gli ultimi due o tre anni non avevano «fatto» granché,
le piante avevano un aspetto triste e scontento, tanto da far pensare a un abbandono.
E dire che l’azzurro dei fiori della plumbago da sempre ha scatenato nel mio cuore moti di
simpatia, apprezzamento e piacere. Piú di tutto la Plumbago capensis azurea, dai fiori
decisamente meno sbiaditi, che da piú o meno di un ventennio domina, con i suoi colori vivi e
decisi i lunghi mesi estivi.
Tra giardinieri e vivaisti, nel tempo, si è discusso molto della Plumbago azurea,
probabilmente sbagliando: si pensava fosse piú delicata e meno rustica, cosa che non si è
riscontrata dopo anni di prove e impianti. Debolezza che forse, si diceva si riscontrasse pure con
la plumbago a fiore bianco, anche se ne ho viste tante e felici crescere e fiorire tra le
bouganvillee della costiera amalfitana senza problemi né tentennamenti, con uguale vigore di
quelle azzurre.
Le plumbago, come spesso tutte le piante lente, crescono in forme armoniche ed eleganti:
infatti non amano essere riportate a «nuovo». Se troppo potate diventano arrabbiate e soprattutto
perdono l’eleganza che tanta sofisticata incuria spesso produce.
Molte volte invece, e purtroppo, nei giardini rivieraschi, le plumbago vengono tosate a zero
(per i giardinieri è comodissimo far vedere d’aver lavorato, pulito e non aver dormito!) La
potatura a zero come quella a cui vengono sottoposte dai cattivi giardinieri anche le ortensie o le
rose, è la piú facile. Non è detto, secondo i vecchi e giovani giardinieri, che sia la migliore. Dal
mio punto di vista è di gran lunga la peggiore!
Il caldo di luglio.

Luglio. È il momento giusto per moltiplicare gli iris, i giaggioli: ci vogliono un po’ di
coraggio, una vanga e un coltello affilato. Se lasciati tranquilli a lungo, invecchiando, spesso si
indeboliscono fino a esaurirsi.
Ogni tre-quattro anni, consigliano gli esperti, andrebbero cavati, divisi e ripiantati: un piccolo
tour de force che, se fatto di anno in anno, a settori, non affatica piú di tanto.
I vecchi giardinieri consigliano la cavatura e la divisione, ma non l’immediata messa in opera:
tagliati, gli iris andrebbero per qualche giorno lasciati all’aria o meglio al vento a seccare, a
rimarginare le ferite dei tagli, il tutto dopo aver tagliato pure le foglie, corte corte. Asciugate le
ferite si possono ripiantare in un terreno ben arricchito di vecchio letame o di ricco compost.
Tra il taglio, «l’essiccazione» e l’impianto diretto in giardino, per abitudine preferisco
piantare i rizomi in piccoli vasi, quindici-venti centimetri di diametro, per ripiantarli la primavera
seguente sul posto. Il mio giardino è troppo rustico per delle nuove (e deboli) piantine: un
periodo di convalescenza è a mio giudizio necessario. Le erbacce, qui, sono forti, sempre pronte
a prendere il sopravvento sulle piante piú deboli.
Facendo il lavoro della divisione ci si accorge della inevitabile quantità di iris «nuovi» da
ripiantare (o in mancanza di posto, e meglio, da regalare a qualche altro giardiniere). Alla
fioritura, ogni anno, in primavera, ci sarà qualcuno che vi ringrazierà.
Le monete del Papa.

La Lunaria è una pianta molto comune nei boschi (a ombra leggera) del nostro paese. È
famosa per le belle silique che ne contengono i semi: con il calore dell’estate diventano diafane e
argentee, come tante piccole lune piene. In Italia è da sempre conosciuta con il nome di «moneta
del Papa»: un tempo veniva raccolta e fatta seccare ed era forse la pianta piú nota e piú comune
per le composizioni di fiori secchi tanto alla moda nell’Ottocento. Amante dell’ombra e dei
terreni freschi e umidi, la Lunaria si dovrebbe seminare tra giugno e la tarda estate. Sarebbe
meglio seminarla sul posto, perché sebbene rusticissima e di bocca buona, teme i trapianti, come
tutte le piante fittonanti. La piú comune e anche la piú bella è la L. annua, che nonostante il
nome è in realtà una specie biennale: dalle foglie cuoriformi e dai fiori viola, porpora o bianchi.
Ne esiste anche una rara varietà, a dire il vero un po’ troppo sofisticata, a fiori color malva e
foglia marginata di bianco, la L. a. corcyrensis, originaria dell’isola di Corfú. Sulle nostre Alpi
cresce selvatica la L. rediviva, perenne dai piccoli fiori lilla che di notte profumano intensamente.
Molto belle sono le sue «monete del Papa», simili a quelle della L. annua ma di forma ovale,
meno appariscenti ma altrettanto eleganti, possono essere pure loro fatte seccare e in inverno
«usate».
Campanule di roccia.

Insieme a euforbie, lentischi e asfodeli, la Campanula fragilis cresce bella e caparbia ai bordi
dei rocciosi massicci che separano Capri e Anacapri. Conosciuta anche con il nome di campanula
napoletana, è una pianta che poco sopporta i geli intensi. Ciò spiega probabilmente la causa del
nome, perché di fragile questa campanula ha ben poco: fiorisce a giugno inoltrato con colori del
cielo e del mare, tra le fessure delle vecchie rocce e le pietre dei muri a secco che anticamente
terrazzavano quei dirupi scoscesi, ventosi e assolati. La campanula napoletana è una viva
testimonianza di un’epoca in cui i sogni e le speranze avevano ancora una precisa dimensione
locale e ogni territorio, anche il piú difficile, era lavorato e spesso anche amato (e talvolta odiato)
dai suoi abitanti.
L’italianissima campanula sottolinea meglio di chiunque altro l’importanza del particolare:
sono infatti quasi trenta gli endemismi che crescono spontanei nel nostro paese, circoscritti in
piccolissime aree e ancora ben preservati nella loro specifica identità. Un patrimonio botanico
unico, un inestimabile e prezioso esempio di biodiversità. Le campanule potrebbero essere un
vegetale simbolo dell’Italia dei campanili: ogni zona, ogni piccola regione infatti ha la sua.
Molto diverse tra di loro per portamento e abitudini, hanno però (e per nostra fortuna) alcuni
minimi comuni denominatori: l’inconfondibile forma a campana dei fiori, il colore tra il viola e
l’azzurro e la preferenza abbastanza marcata per terreni calcarei e per posizioni non
eccessivamente soleggiate. Alcune campanule vivono in alta quota, nei ghiaioni e nei macereti
delle montagne del nord, e sono resistentissime ai geli invernali. Come la famosa C.
cochleariifolia, la campanula delle nostre Alpi, dal portamento prostrato e quasi strisciante,
riconoscibile per le foglie basali di forma rotondeggiante e, in estate, per i bellissimi fiori di un
viola leggero ma intenso. Un po’ piú tardiva, ancora piú bassa e compatta, è la C. morettiana,
proveniente dalle rupi sassose delle catene dolomitiche. La C. bertolae è invece un endemismo
tutto piemontese, in pieno fiore in questi giorni nei castagneti di una valle al confine con la
Francia. In Lombardia, nelle montagne che circondano il lago di Como e il lago Maggiore,
cresce la C. raineri, conosciuta anche con il nome di «campanula dell’Arciduca», nomenclata in
onore di Ranieri d’Asburgo, primo viceré del Lombardo-Veneto, appassionato di piante e
giardini. Sempre di origine montana, ma abituata a climi del tutto diversi, ben piú miti e
temperati, è poi la C. garganica, dai piccoli fiori lilla a forma di stella. Dal ponente ligure invece
proviene la bellissima C. isophylla, o campanula di Capo Noli, di piccole dimensioni, come la C.
garganica, e un tempo molto coltivata in vaso come speciale pianta da fiore, pendula e
sempreverde. Il legame che unisce questa campanula al suo territorio è ben simboleggiato dalla
facciata di alcune antiche costruzioni in pietra a vista della zona, nelle cui crepe la C. isophylla
cresce orgogliosa e testarda: una vera e propria simbiosi tra pianta e pietra, la bella e ben nota
pietra di Finale. Una simile simbiosi caratterizza anche la C. pyramidalis, detta comunemente
«stocco di san Pietro», alta fino a due metri e con bellissimi racemi di grandi e bizzarri fiori color
pervinca. Ama nascere tra le fessure dei muri a secco. Non di origine italiana, ma diffusa anche
nei prati del nostro paese, pare sia arrivata secoli fa dalla Dalmazia per mezzo della flotta
veneziana. Esiste infine una campanula tutta speciale, la C. rapunculus, il famoso e antico
raperonzolo, non coltivata per il fiore ma per la sua pianta che una volta era considerata una vera
leccornia e oggi quasi dimenticata. Sarà forse lei la futura vittima di quella cucina «innovativa».
Una sofferenza per le rose.

Alle rose il gran caldo non piace: patiscono e soffrono. Il piú delle volte se non aiutate da una
buona irrigazione possono diventare brutte e sofferenti. L’estate, per le rose, è un po’ come
l’inverno: un periodo di riposo e una poderosa e drastica potatura dopo le fioriture. In particolare
con le rose rampicanti è meglio esser decisi.
Perché (quasi) tutte le rose amano piú il freddo che il caldo e (quasi) tutte le rose amano,
durante le canicole, riposare. Le eccezioni? La rosa bracteata, tutte le ibride di moschata, le
banksiae che con il caldo (o nonostante il caldo) fanno delle fioriture ben piú belle di quelle
invernali: l’esatto opposto della rosa del Bengala (Rosa sanguinea) che d’estate fiorisce e
sfiorisce con una velocità (e un aspetto) decisamente fragile e poco appariscente, quasi avesse
fretta e nessuna soddisfazione nel fiorire e nell’apparire, come fosse un compito noioso, un
estivo dovere da «biffare».
In caso di bisogno Anna Peyron dice di innaffiare (sempre e soltanto sulle radici) anche nelle
ore piú calde: le radici delle rose sono molto profonde.
Quello che non va fatto, per esempio, è dare acqua tutti i giorni: quattro o cinque giorni di
pausa tra una innaffiatura e l’altra. Il caldo rendendole inermi in una specie di letargo le manda
in riposo e troppa acqua tutti i giorni potrebbe affogarle.
Altri consigli? Assolutamente non concimare. D’estate potrebbe esser rischioso, avendo tutto
l’inverno e l’autunno per farlo. Piuttosto pacciamare e anche tanto!
Gran caldo, gran riposo per le rose quindi. Tranquillità e attesa: l’autunno prima o dopo
arriverà!
Piante irrinunciabili.

Finito il gran caldo di metà agosto le Hoste plantaginee si mettono, con grande gioia di tutti, a
fiorire: profumate e vistose sono il palese segnale della «rottura» dell’estate che dal punto di
vista giardiniero è un momento molto importante. Le notti, decisamente piú lunghe di quelle di
fine giugno, stanno rinfrescando.
Le Hoste plantaginee, fiere delle belle e disegnate foglie e soprattutto speciali nella loro
piacevole e profumata fioritura, sono state piante molto usate a fine Ottocento e inizio
Novecento: il declino è stato lento, insieme a tutto quel «buon» giardinaggio tardo romantico. A
scapito dell’estate il novecento vide il trionfo di rose e azalee e, quindi, della primavera a scapito
dell’estate. Forse i giardini sono stati soppiantati dalle «nuove» villeggiature al mare e il
giardinaggio delle «seconde case» in campagna ha subito evidentemente un notevole
ridimensionamento.
Le Hoste plantaginee, come tutte le parenti, sono spesso facile vittima delle lumache: se non
difese vengono divorate quasi fossero eccellenze culinarie. Vita piú facile ce l’hanno quelle
coltivate in vaso che sono, per maggiore esposizione al vento e all’aria, meno attaccabili.
Bellissime sono le forme a fiore grande e a foglie maggiorate (tipo Royal Standard). Chi le ha
provate non le trascurerà mai piú: sono piante a mio giudizio irrinunciabili.
Non bisogna aver paura dei colori della zinnia.

Nella serra fredda (ma ben esposta!) di Val Salice a Torino, le zinnie venivano seminate a San
Giuseppe (19 di marzo); le piantine erano trapiantate in piccolissimi vasi di terracotta la prima
settimana di maggio e venivano definitivamente messe a dimora nell’orto poco prima di San
Roberto (7 di giugno). Viste in natura in Centro America ai bordi dei campi, nei prati piú poveri
e derelitti, le zinnie si presentano con estrema modestia: sono alte poco piú di una spanna,
sorrette da un gambo tozzo, il fiore semplice smagliante di un deciso color rosso arancio: niente
di piú sobrio e perbene. Troppo perbene per essere lasciate tranquille e quiete: negli ultimi
duecento anni l’uomo è intervenuto con selezioni e ibridazioni, ed è riuscito a fare di una
semplice pianta quel che si è abituati ormai a vedere: un vero, deciso, autentico e variopinto
carnevale. I colori ormai, a eccezione del nero e dell’azzurro, ci sono veramente tutti: e che
colori!
I piú vivaci e spesso i piú brillanti e decisi, tanto da farli diventare i piú popolari dell’estate:
non c’è orto dalla Germania alla Sicilia che non abbia una piccola fila di zinnie, quasi fosse un
angolo felice di libertà e di allegra follia, ben comprensibile nel contesto ordinato e serio di un
orto «ben temperato».
La zinnia pretende il sole e il caldo delle canicole e, come tutte le piante annuali «di rango»,
una buona e ricca terra. Compost e concime naturale la portano a esagerare sia nelle foglie che
nei fiori (e nell’altezza!) Certe zinnie ben alimentate diventano grandissime e bellissime come
pesanti crisantemoni. Nel secolo passato, in tutto il mondo, i piú conosciuti divulgatori furono i
Burpee che diffusero in particolare dalla West Coast i famosi e coloratissimi ibridi Super Giants:
un poderoso kitsch botanico praticamente all’opposto, dalla modesta e «originale» zinnia
angustifolia: un vero trionfo del tanto e del grande. Ma che visto in un orto, estrapolato dal
giardino, confrontato con gli ortaggi talvolta può diventare un gradevole e invasivo pendant di
allegria. Comunque niente, a giudizio di Charles de Noailles, il grande esteta e giardiniere
francese, sarebbe piú noioso e inutile di una truppa di zinnie di egual colore e di egual altezza. La
zinnia è bella se trattata con «anarchico» disordine, e con cromatica sregolatezza: i vivacissimi
contrasti di colore sono la base del suo successo. In Italia famosi erano gli ibridi che Carmine
Faraone Mennella proponeva dalle sue eclettiche e famose coltivazioni in Campania: piante
adatte a dare allegria anche agli stessi «campi di lavoro». In quelle belle officine all’aperto, serie
ed efficienti, nelle quali i letti di coltivazione erano cadenzati con spazi abbondanti ed eleganza
antica: pochi semi e un po’ di buona volontà erano sufficienti a provocare dei veri carnevali tra
quei sudati solchi. Tutt’altra storia hanno le forme nane, o quelle variegate, o quelle addirittura
tappezzanti ora tanto alla moda presso i «servizi giardini» delle grandi città (spesso generosi
fornitori di cattivi esempi di gusto e giardinaggio). Pretenziose e decisamente «antipatiche» a
mio giudizio hanno l’aspetto di tante, piccole ed egocentriche prime della classe (sempre cosí
perfette, sempre cosí perbene!) Del resto il mercato si impone con le sue rigide e miopi leggi e
l’esasperata ricerca degli estremi diventa assillante e genera molto spesso mediocrità. Con poche
e semplici mosse il miracolo può avvenire: una busta di semi per Natale, un vaso vicino ai vetri
di una finestra ben esposta per San Giuseppe, un trapianto e una fila di piantine messe a dimora
all’inizio di giugno e un po’ di cura e amore possono trasformare un pezzo di terra bruciata e
assolata in un luogo coloratissimo e allegro.
Al cappero piace soffrire.

Riesce a crescere nei terreni piú poveri e improbabili, talvolta affonda le sue radici nei muri, il
cappero è pianta rustica e povera: è figlia del poco, quasi del nulla. E riesce a far miracoli: i suoi
fiori profumati, leggeri e bellissimi (che aspettano la notte per aprirsi) sono tra i pochi segni di
vita che le terre aride e sassose, quasi bruciate dal sole, regalano d’estate. Tutto si deve alle sue
speciali radici che sensibili e intelligentissime riescono a insinuarsi nelle crepe dei muri vecchi e
porosi d’una volta. Non hanno bisogno di essere descritti: i bellissimi fiori, bianco rosati, sono
per leggerezza e consistenza tra le piú belle fioriture d’estate. I boccioli turgidi e ancora chiusi
sono un vero miracolo delle terre secche e assolate del Mediterraneo. I frutti a piccola pera,
deliziosi se piccini, un simbolo di generosa povertà e del suo «nulla si getta».
Vuole il sole pieno e ama le rifrazioni forti e i suoi bollori, gode delle bruciature degli
arroventati mezzogiorni d’estate e ugualmente sopporta le notti gelate.
Pochi arbusti sono cosí «mediterranei» e generosi e, nello stesso tempo, misteriosi: sono
piante molto conosciute ma raramente coltivate, spesso «interpretate» dai «si dice», a cominciare
dalla antichissima leggenda del fico. Si tramanda di come fosse indispensabile che un frutto di
fico contornasse il seme fresco del cappero (a suo futuro sostegno e nutrimento), quando
conficcato nelle fessure profonde dei vecchi muri. Ho provato, ho tentato, ma io non ci sono
riuscito…
Bellissimi e in pieno fiore, addirittura esagerati nell’abbondanza (e nell’eleganza), sono quelli
che crescono sugli spalti del castello di Passerano nell’astigiano, o quelli di due differenti varietà,
dell’arcipelago dei Galli, vicino a Positano. O quelli ancora famosi e apprezzati di Salina e
Pantelleria, la vera Rhur del cappero, il posto privilegiato per ottime e antiche coltivazioni. E
ottimi prodotti. Ogni muro di pietre a secco ben esposto d’Italia, sotto i cinquecento metri di
latitudine, in teoria potrebbe diventare una ripida palestra di bellezza e di bontà!
Anche se sembra parte di antiche favole è pur sempre curioso (e pare assodato) il matrimonio
tra le lucertole e i semi del cappero, unione, a detta di Giuseppe Barbera, antica e provata. I semi,
avvolti da uno zuccherino e scurissimo miele, pare (io onestamente non l’ho mai visto
consumarsi) s’incollino alla ruvida pelle del ventre delle lucertole che passeggiando tra buca e
buca a caccia di insetti (e insinuandosi con accortezza) sembra possano rilasciare gli stessi semi
negli anfratti piú reconditi (e adatti).
Non va dimenticato come le piante di cappero amino (appassionatamente!) il terreno calcareo
della nostra penisola, quello stesso che fa felice sia le viti che le rose. Con intelligenza e
caparbietà ultimamente si è anche riusciti a moltiplicarle producendo nuove piccole piante in
vaso. E a sostituire la pratica delle vecchie talee in terra sabbiosa con quella delle divisioni di
piante adulte. Ottimi vasetti sono quelli coltivati sulle falde dei monti Iblei in Sicilia da Enrico
Russino, a Cava d’Aliga in provincia di Ragusa. Molto spesso si riesce ad arrivare al voluto
traguardo dopo aver piantato le giovani piante tra pietra e pietra: come spesso ben sa il
contadino, il successo dipende da quello che il muro nasconde e protegge. Pare che i capperi,
messi ben al sole, e irrigati (con abbondanza ma di rado), possano fare dei miracoli. Sempre a
detta di Enrico Russino, bravo coltivatore di capperi in vaso, per avere fioriture abbondanti pare
che sia bene, di tanto in tanto, farli soffrire un po’. Ben vengano quindi le esistenze frugali, quasi
«travagliate»! Come sempre il troppo benessere può non far bene, anzi, per una specie di
contrappasso, può fare malissimo: fiera e dignitosa povertà, quindi una vera e faticosa odissea
fatta di sole, secco, radici, rovine, sassaie e sale.
L’insalata è la star dell’orto.

Qui nell’orto, nel posto piú assolato, l’indivia piantata ad agosto è al meglio, un vero trionfo
di foglie robuste e lucide: il suo «cuore», senza essere stato legato né «lavorato», è diventato
bianco (bellissimo alla vista e ottimo al palato). È un vero trionfo al quale non ero, con tutta
sincerità, abituato.
Anche se era, a dire il vero, abbastanza ridicolo parlare di cuori teneri e bianchi nell’insistente
caldo di piena estate, è stato il bravo venditore di semi e di piantine di Sanfront a pochi
chilometri da qui a insistere. Le pianticine erano piccole piccole nei loro vasetti, composte da una
sola fogliolina verde e opaca, ma la ripresa è stata immediata: già pochi giorni dopo, messe a
dimora, quelle piccole foglie avevano preso forma e consistenza. L’insistente acqua d’innaffio e
il terriccio ricco di materia organica hanno fatto il miracolo. Ma soprattutto l’esposizione giusta
in pieno sole ha portato molto di piú di quanto si possa immaginare. Infatti i raggi del sole
proteggono dai mali, dalle marcescenze, asciugano e soprattutto disinfettano. Il sole pieno è un
vero benessere per l’orto. Un orto in «buona esposizione» fa tutto da sé: non ha bisogno di
anticrittogamici né di insetticidi. Ben esposto e ben concimato (possibilmente senza apporti
chimici ma con apporti naturali che spaziano dal compost al letame), darà verdure certamente
saporite, gradevoli e sane. Le insalate prenderanno sapori veri e dimenticati.
Qui nell’orto le cicorie, che in questi giorni sono tutte belle e attraenti, e specialmente quelle
di Treviso, sembrano un prato di peonie color porpora. Mentre la cicoria spadona forte e
rigogliosa gareggia con i cavoli, i soncini, le gallinelle che nascono, chissà perché, sempre in
disordine, e sono pure loro cosí profumate. Seminati quando sono state trapiantate le indivie e le
cicorie, ora sono pronti per la raccolta. E dire che all’inizio sono stati difficili: non volevano
proprio germogliare, molto probabilmente soffocati dal caldo (e dalla conseguente siccità). In
certi periodi «bollenti» andavano innaffiati anche due volte al giorno, mattino e sera. Ma con il
primo fresco iniziò per loro, e non soltanto, un periodo di grande benessere. Sole, lavoro e cure
hanno ancora una volta reso concreto il miracolo dell’orto.
Il prezzemolo ha poca sete.

È segno dei tempi come il confine tra l’orto e il giardino sia sempre piú labile. Forse non
esiste nulla di piú spontaneo e gioioso, specie in questi momenti di crisi, del ritorno al buon
vecchio orto di campagna, in cui fiori da taglio, ortaggi e frutti riescono a unire l’utile al
dilettevole.
Anche il prezzemolo non fa eccezione e, come quasi tutte le piante aromatiche, con le sue
tenere e profumate foglie verdi può diventare una risorsa preziosa per la cucina. Le mie piantine
di prezzemolo, coltivate in vaso davanti a casa, in una posizione calda e assolata, hanno superato
un altro inverno: tagliati i cespi andati a fiore lo scorso anno, le nuove foglie stanno venendo su
rigogliose e profumate. Per chi volesse partire dal seme pare che sia bene seminarlo in luna
crescente, interrandolo molto leggermente, poi aspettare quasi quaranta giorni perché germogli.
Che in natura ami nascere tra le pietre lo rivela già il nome che Linneo gli diede: Apium
petroselinum. Proveniente dalle antiche terre di Tessaglia e di Macedonia, ama un terreno non
troppo ricco e ben drenato e pochi innaffi estivi, in modo da stimolare la pianta a sviluppare
radici profonde che le permettano di sopravvivere a lungo.
Molto irrigato produce una gran quantità di foglie, tutto a scapito dell’intensità del profumo.
L’abbondanza d’acqua è un bene per le insalate, per le bietole, i cavoli ma non per il prezzemolo,
per il basilico e il sedano che perderebbero di aroma e profumo.
Spuntano fiori azzurri.

Pur essendo una pianta bella, profumata e di facile coltivazione, il Caryopteris non ha avuto
un grande successo nei giardini ottocenteschi d’Europa. Il primo ad arrivare dalle desolate steppe
della Mongolia fu il C. mongolica, scoperto dal botanico di origine baltica Alexander von Bunge,
durante una spedizione in Estremo Oriente. Venne presto perso e dimenticato e fu soltanto negli
anni Trenta del secolo successivo che un ibrido ottenuto nel giardino di Clandon, il C. x
clandonensis, ebbe un enorme successo, rendendolo uno degli arbusti piú comuni tra le piante di
quel periodo. Pianta dalle foglie aromatiche di un bel verde argentato, fiorisce in un bellissimo
azzurro da agosto fino a ottobre ed è inoltre una preziosa risorsa per api e farfalle prima del duro,
inevitabile inverno. La varietà C. x c. Heavenly Blue è invece un clone di origine americana, che
produce un arbusto particolarmente compatto e fiori dal colore piú scuro e attraente: un vero
gioiello per un giardino assolato e drenato. Tutti i Caryopteris sono piante robuste e vigorose e
sopportano con baldanza le angustie di un terreno calcareo e argilloso. Per una forma di arbusto
compatta e una fioritura piú abbondante, si consiglia una potatura decisa e drastica durante
l’inverno.
L’eccessiva e barocca star delle nature morte.

Furono tra i primi i Medici, Granduchi di Toscana, a usare il cedro (Citrus medica) nei loro
giardini, coltivati nelle serre di Castello e di Petraia, vere wunderkammer botaniche, vietandone
qualsiasi diffusione all’esterno, un po’ come avvenne per il famoso mugherino, il celebre e raro
gelsomino indiano. Frutto tra i frutti, imponente, bello e profumato, doveva rimanere
appannaggio esclusivo della casata, simbolo palese di fasto e di prestigio. Tuttavia, lentamente e
di nascosto, le giovani piante di cedro incominciarono a diffondersi: la fortuna vuole che le
regole assolute nei giardini abbiano poca speranza d’attuazione. Il popolo ebraico lo celebra
durante il Sukkot, quando, secondo le prescrizioni del Levitico, insieme alla palma, al mirto e al
salice, è elemento della complessa cerimonia annuale. La varietà C. m. Etrog è notoriamente
quella richiesta per queste funzioni: un cedro acido che ha la rara particolarità di avere un albedo,
la parte bianca della buccia, dolce e succoso. Varietà che viene coltivata anche in Italia, insieme
al cedro liscio di Diamante (Citrus medica Diamante), dal grande frutto profumato ideale per la
canditura, sulle riparate e calde coste del cosentino, intorno a un paese non per nulla chiamato
Santa Maria del Cedro, poco lontano dalla stessa Diamante. Vicine alla costa del mare, le famose
cedraie possono essere il simbolo di un’Italia unica e speciale ma storicamente restia a farsi
conoscere nelle proprie eccellenze. Lí ogni estate, da tutta Europa, arrivano gli esperti delegati a
scegliere i frutti e a controllare che colore, forma, apice e peduncolo corrispondano alle
meticolose prescrizioni della tradizione ebraica.
Non si sa con certezza da dove il cedro provenga, forse dalla Birmania o dal Bhutan, ma pare
che in Europa sia arrivato già in tempi antichissimi, seguendo le migrazioni del popolo ebraico.
Egitto, Palestina, Persia e Grecia: questo il percorso che il cedro avrebbe intrapreso per arrivare
nel Sud Italia. Si dice pure che sia il cedro la pianta descritta da Plinio il Vecchio nella sua
Naturalis historia con il nome di «mela assira», frutto apprezzato non come alimento ma come
repellente per gli insetti nocivi. Le varietà del cedro si dividono in due grandi gruppi: a polpa
dolce e a polpa acida, anche se la distinzione non è poi cosí importante considerato che la quasi
totalità del frutto è costituita dalla buccia, spessa e profumata. Numerose le variazioni sul tema: il
C. m. maxima supera tutti per dimensione e peso del frutto, vera vedette delle nature morte dei
secoli barocchi, il C. m. aurantiata, o della Cina, porta cedri rugosi e di un bel giallo intenso
quasi arancio, quello della Corsica ha polpa dolce ed è ottimo se tagliato a fette sottili. Speciali e
purtroppo poco conosciute sono alcune cultivar tipicamente italiane: oltre al piú noto cedro di
Diamante, il bitorzoluto C. m. Vozza Vozza, siciliano, il cedro a forma di fuso che pare venga
dalla Campania o addirittura quello coltivato nelle famose limonaie del lago di Garda, chiamato
cedro di Salò.
Tutte le varietà portano fiori bianchi profumatissimi, che nei cedri acidi sono venati di viola
all’esterno, e per la gioia di chi li coltiva sbocciano generosamente ben tre volte durante l’anno,
da aprile a settembre, anche se i frutti migliori sono quelli che nascono dalla fioritura estiva. I
rami, piú o meno spinosi a seconda della varietà, sono molto fragili e poco elastici: occorre
proteggere la pianta dai venti e aiutarla con supporti adeguati, e quindi decisamente robusti, nel
periodo in cui gli abnormi frutti maturano. Ricco e barocco, bitorzoluto e mostruoso, il cedro è
stato per secoli il vistoso e bizzarro simbolo di una botanica fantastica e ridondante, fatta di
profumi e colori, miti e misteri.
Le ironiche foglie del banano.

Quello dei banani è un mondo affollatissimo, tanto vasto e complesso da aver messo in
difficoltà lo stesso Linneo. Musa paradisiaca e Musa sapientum erano gli antichi nomi, scelti da
Linneo stesso per distinguere le banane utilizzate per la produzione di amido da quelle
consumate come frutto, quest’ultime chiamate «sapientum» perché Plinio il Vecchio racconta
che fossero l’alimento preferito (forse anche l’unico) dai saggi asceti dell’India tropicale.
Classificazione erudita ma abolita in seguito, a favore di due specie «selvatiche», certamente
poco appetibili (tutte semi e niente polpa), ma a quanto pare madri di tutte le altre: Musa
acuminata e Musa balbisiana, che pare crescessero nelle foreste della Papua Nuova Guinea già
settemila anni fa. Di secolo in secolo, a furia di selezioni, i semi scomparvero e i frutti divennero
generosamente commestibili. Selezioni che portarono, infatti, a frutti sempre piú grandi, dolci e
appetibili, a scapito, come spesso avviene, della robustezza delle piante stesse. Facilmente
attaccabili da funghi e parassiti, come il dannosissimo mal di Panama (dovuto al micidiale
Fusarium wilt), che ne ha falcidiato le coltivazioni nel secolo scorso e che oggi, a detta della Fao,
potrebbe di nuovo diventare una nuova terribile minaccia.
I frutti del banano, conosciuti in Europa (piú per fama che per diffusione) già dai tempi di
Alessandro Magno, pare siano stati portati sulle sponde del Mediterraneo dalla conquista araba,
che ne diffuse la coltivazione anche in Africa. Da lí, per il tramite dei conquistadores spagnoli e
portoghesi, il banano debuttò in America centrale e fu un vero trionfo. Sebbene tropicale per
origine e per destinazione, venne studiato in modo scientifico in Inghilterra, dove venne coltivato
con perizia nel XIX secolo nelle calde serre d’Albione. La varietà oggi piú diffusa al mondo è
infatti la Musa cavendishii, cosí chiamata in onore di Sir William Cavendish, che ne fece
crescere alcune vistose piante provenienti dalle isole Canarie nelle sue famose serre di
Chatsworth, le prime in vetro e ghisa al mondo, costruite dal grande Joseph Paxton.
Nei giardini italiani non i frutti, ma le grandissime foglie sono le vere protagoniste, con il loro
verde brillante e la vistosa costolatura centrale.
Nel saluzzese, non sono piante rare: occupano, con esotica esuberanza, se riparate e protette
dai muri, luoghi curiosi. Vicino alla fontana dell’acquedotto, a Revello, da sempre c’è un ciuffo
di banani che raggiunge i cinque, sei metri d’altezza e anche di piú. A mia memoria, non è mai
stato concimato: gli sono sufficienti l’acqua e gli spruzzi della fontana pubblica. Riparato dai
venti, riempie maestoso la sua piccola e stretta piazza: poche piante sono piú ornamentali e
ricche di fascino di quei banani che, tra l’altro, in modo eroico hanno resistito ai «meno 12» di
qualche anno fa. Nelle regioni piú fredde le foglie possono essere tagliate a fine novembre,
quando le temperature sono sufficientemente basse da non provocare un inutile e pericoloso
dispendio di linfa. Una buona pacciamatura può servire a proteggerne i cormi, che preferiscono
non affondare eccessivamente nel terreno. In primavera le grandi foglie, a tempo debito seccate,
ricresceranno. I fusti piú vecchi, quelli già «fioriti», condannati inesorabilmente alla morte, si
moltiplicano generosamente con l’emissione laterale di numerosi polloni. Nel mio giardino da
anni il piccolo boschetto di banani ha imparato ad autogestirsi: è bastato scegliere una posizione
calda, soleggiata, molto ben riparata dai venti e soprattutto ricca di umidità durante l’estate.
Tanto che, sotto il caldo accanito e feroce dell’estate del 2003, alcuni miei banani euforicamente
produssero il loro piccolo casco, che quasi quasi arrivò a maturazione: insipide, piccole e
modeste erano purtroppo le cenerentole delle famose banane Chiquita.
L’importanza dell’acqua.

L’acqua, lo dicono gli esperti, sarà il grande problema del futuro e i giardini dovranno
adattarsi. Sarà necessario privarsi di piante da terreni «freschi»: azalee, rododendri, ortensie e
felci dovrebbero essere le prime vittime di un mondo sempre piú vicino ai deserti e sempre piú
lontano dalle gloriose, piovose e fotografatissime tradizioni anglo-scozzesi.
Qui da me le rose, i bossi, i tassi, gli agrifogli, i lecci, le filliree, i corbezzoli e le choisye sono
tra le piante ormai piú sicure: vanno per conto loro, non hanno bisogno di innaffi individuali,
sopportano tanto la siccità quanto l’eccessiva pioggia. Pacciamatura e buoni drenaggi sono la
«base» per una vita serena e per una crescita equilibrata.
Resistentissime ed eroiche tra le piante erbacee sono gli Ophiopogon, quasi tutte le bulbose, e
come no? gli agapanti, mentre sempre piú a rischio, come già detto, sono le felci (amatissime e
apprezzatissime: un vero leitmotiv del giardino stesso!) e gli ellebori, che, per esser felici, hanno
bisogno di una costante e buona umidità.
Di anno in anno dovrò purtroppo ridurre di numero le ortensie che ho piantato piú di dieci
anni fa cosí da far del posto a una nuova grande ondata «mediterranea»: liriopi, pungitopi, cisti,
filliree e corbezzoli faranno da capifila. Meno fiori e meno colore. Il giardino sta diventando,
anno dopo anno, siccità dopo siccità, un giardino dove le foglie e quindi i verdi, contrastati,
robusti, teneri, diventeranno dominanti: le nuove teorie degli esperti giardinieri inglesi che
prediligono i giardini di foglie a quelli di fiori stanno prendendo corpo.
Un prato vivo.

Un prato con trifogli, margheritine, tarassachi, ecc. è un prato all’italiana: sopporta il secco, è
robusto alle malattie e, a mio giudizio, ha pure un’aria casuale, decisamente gradevole,
casereccia e nostrana. Il prato all’italiana non vuole essere perfetto e, nelle sue imperfezioni,
dovrebbe essere un prato talmente rustico da non aver, d’estate, bisogno che di un taglio alla
settimana e soprattutto del minimo d’innaffio. Un innaffio generoso ma non frequente, quel tanto
da alleviare i morsi della disidratazione e renderli in qualche modo positivamente «verdi».
Spesso i giardini infatti, senza volerlo, vengono letteralmente affogati dall’acqua: l’apprensivo
giardiniere infatti tende a esagerare. Il poco diventa quindi un’arte e il giardiniere un vero artista:
il giardinaggio «moderno» non ama il troppo, anzi lo aborre. Del resto per una buona e saggia
convivenza la natura andrebbe agevolata, non violentata. Un terriccio troppo ricco spesso fa piú
male che bene e le piante da parte loro amano essere un po’ trascurate, cosí come non vogliono
(e non meritano) essere abbandonate. In moltissimi casi per un prato un impianto d’irrigazione
adoperato al minimo può rivelarsi ottimo.
D’estate (e d’inverno) non bisogna aver paura di un certo stress, lo sa bene il vero giardiniere:
un prato vellutato e smeraldino in molti casi, anche dal punto di vista estetico, può trasformarsi
in un vero pugno nell’occhio. Un prato «economico», invece, mantenuto con parsimonia,
sobriamente alimentato e soprattutto tagliato frequentemente, è forse il piú elegante dei risultati.
Soprattutto d’estate.
Nostalgia di gigli elbani.

Piante semplici e preziose che hanno sempre accompagnato le estati sulle spiagge dell’isola
d’Elba, erano «i giglietti»: i Pancratium maritimum, piccoli e graziosi gigli, vestivano le
sabbiose dune di Lacona, di Fetovaia, di Procchio e di Marina di Campo. Erano il segnale,
ancora evidente, della purezza dei suoli e della spiaggia. Ma soprattutto erano il ricordo di una
vegetazione antica, abbondante e misteriosa che viveva del niente di quella sabbia fine e inerte.
Amanti dell’asciutto, tenuti in vita dalle pesanti guazze estive, venivano da sempre trattati
dagli elbani con speciali attenzioni: i gigli, da parte loro, per forma, consistenza e profumo hanno
spesso declinato rispetto, purezza e sacralità.
In autunno per i fiori non colti avveniva la maturazione in pesanti capsule piene di scuri e neri
semi. Lucidi e spigolosi, erano facili da seminare e facili da crescere perché pieni di voglia di
vivere. Erano insofferenti alle eventuali troppe cure: pieno sole, sabbia pura, pochissima acqua e
soprattutto assoluta tranquillità erano per loro un «percorso» di vita e di benessere fondamentale.
Quella pianta dai mille nomi amica delle ombre.

L’Ophiopogon japonicus di nomi ne ha cambiati parecchi, vittima di un fervore classificatorio


che in botanica (e non soltanto) tende a diventare spesso scatenatissimo, quasi nevrotico. Era
chiamato in origine con un nome elegante e musicale, Eulalia, poi fu detto per un breve periodo
Liriope e piú tardi Convallaria, come il ben piú conosciuto mughetto. Ora, da pochi decenni, è
per tutti Ophiopogon e speriamo che sia la volta buona. Il suo sembra essere un destino segnato,
visto che il primo botanico a nomenclarlo, dopo averlo scoperto nelle lontane terre del Sol
Levante, fu l’inglese John Bellenden Ker Gawler, che con i nomi ebbe sempre qualche problema,
a cominciare dal suo: fece e disfece il proprio cognome per ben tre volte. Il nome attuale della
pianta ci ricorda il serpente (ophios) e la sua barba (pogon) e siamo in tanti a non riuscire a
capirne il perché: sarà per le foglie strette e nastriformi, che assomigliano a tanti piccoli,
simpatici e benevoli serpentelli.
In giardino l’Ophiopogon japonicus può fare dei veri miracoli, riuscendo a rendere accoglienti
e interessanti angoli bui e ombreggiati, quei posti che di solito, e a malincuore, ci si rassegna a
lasciare vuoti e sguarniti. Sono piccole desolazioni che un giardiniere può cercare di evitare,
specialmente se soffre, come soffriamo in tanti, per le terre «non coperte». Convallarie, Liriopi e
Ophiopogon, forti della loro robusta costituzione e della loro coriacea consistenza, sono una vera
benedizione per i posti piú ombrosi e difficili: possono essere un validissimo aiuto, spesso
insostituibile, per ovviare alle numerose lacune che i nostri giardini, per quanto amati e ben
curati, non finiscono mai di rivelare. Foglie strette o larghe a nastro, lunghe e fini o accovacciate,
offrono da tempo tutta una gamma inaspettatamente ricca e variegata di scelte grandi e piccole,
alte o nane e, volendo, anche variegate tra il giallo e il bianco. Come l’Ophiopogon japonicus
Silver Mist, dal fogliame striato d’argento: un po’ piú delicato rispetto alle altre varietà, può
diventare una delle presenze piú belle e gradite nelle zone ombrose del giardino. Cresce sicuro e
tenace, anche se non troppo veloce: il mio consiglio è di piantarne tanti, anzi tantissimi, e di
moltiplicarli in abbondanza, dividendo i cespi di lustro in lustro.
Resistentissimo e longevo, l’Ophiopogon japonicus è un’erba tappezzante tra le piú belle ed
eleganti: forma ciuffi folti e compatti e le foglie, di un verde scurissimo, sono lucenti, flessuose e
soprattutto sempreverdi. Fiorisce sobriamente a estate avanzata e i corti racemi di fiorellini tra il
bianco e il malva, seminascosti dalle foglie, sono un palese segnale che i grandi caldi sono ormai
volti al termine. Ben piú appariscenti sono le bacche di un raro e bellissimo blu cobalto, che pare
siano molto popolari come gioco tra i bambini giapponesi. L’Ophiopogon japonicus ama
posizioni fresche e ombrose e si adatta a qualsiasi tipo di terreno purché ben drenato: certamente
un suolo fertile e ricco di materiale organico può essere di grande aiuto. Che non sia però troppo
umido: come tutte le asparagacee, teme i marciumi radicali. Troppa acqua o troppo concime sono
alla lunga dannosi, cosí come la troppa luce: è una delle rare piante che preferisce crescere
indisturbata, quasi abbandonata a se stessa, lasciata libera di espandersi e di colonizzare. Non
teme freddo o gelo e le sue radici superficiali ma forti lo rendono perfetto per rallentare
l’erosione dei versanti piú scoscesi. Al piede di alberi e arbusti, anche di quelli a chioma fitta e
impenetrabile, dove neppure la rugiada riesce ad arrivare, l’Ophiopogon japonicus può dare
molto, anzi tantissimo: è un vero e autentico amico.
Borgia tra i fiori.

Profumi e veleni: con il nome di datura hanno riempito le cronache di storie e di misteri. Con
il nome «nuovo» di brugmansie cercano di rifarsi una migliore reputazione. Già Teofrasto nel III
secolo a. C. aveva per l’autoctona datura (D. stramonium) parole di precisa collocazione: tre
ventesimi di oncia potevano anche rendere il paziente «di buon umore», ma bastava poco di piú
perché l’esito fosse letale. Ben lo sapevano gli antichi sacerdoti di quelle terre, che la datura
utilizzavano per provocare raptus degni della piú nefasta profezia. Non si pensi però alle dature
come alle pecore nere delle solanacee, essendo quasi tutte velenose e tossiche: tanto che Ippolito
Pizzetti era solito definire questa famiglia come i Borgia del mondo vegetale. Non si sa per quale
contrappasso una pianta potenzialmente cosí nociva sia conosciuta nelle nostre campagne con il
nome di «trombone dell’angelo». Certamente è stato quello l’inizio del lungo restyling delle
dature, culminato con le ben note discussioni accademiche che hanno portato recentemente al
cambio del nome. Un tentativo assolutamente encomiabile se, con la scusa di far sistematica
botanica di alto livello, l’intento è quello di rendere «normali» delle piante belle come le dature,
che proprio per la loro dubbia fama sono da sempre tenute lontane dai giardini: una vera
ingiustizia per tanta bellezza. Se si considera poi che ogni datura che si rispetti fiorisce in genere
quattro, anche cinque volte all’anno, durante i mesi estivi fino ad autunno inoltrato, si può
facilmente comprendere la passione che per la pianta nutriva Sir Peter Smithers. Nel suo giardino
di Vico Morcote ne introdusse piú di cinquanta varietà, selezionando quelle piú resistenti e
fiorifere, per poi scartare tutti gli esemplari a fiore pendulo: «preferisco una pianta che mi guardi
negli occhi», amava ripetere il grande giardiniere. Asserzione che mi ha sempre lasciato un po’
interdetto di fronte a una cosí acuta e sollecita autorità botanica: le dature di Aubrey Beardsley
erano troppo difficili da cancellare dalla mia memoria e dal mio gusto. Sarebbe stato come
cancellare, con un semplice gesto, tutta la storia letteraria del suo contemporaneo Oscar Wilde.
Originarie per lo piú del Centro e del Sud America, le dature gradiscono un terreno argilloso,
una buona concimazione una volta l’anno e abbondanti innaffiature primaverili ed estive (mentre
d’inverno tollerano anche una completa siccità). In Piemonte è meglio coltivarle in vaso, per
ripararle in un luogo luminoso e protetto durante i mesi piú freddi, un po’ come per i limoni, gli
aranci e i piccoli kumquat. Con il vantaggio, di non poco conto, di poter spostare i vasi a seconda
delle esigenze e godere cosí, sul tardo pomeriggio, quando i fiori incominciano ad aprirsi, del
loro profumo dolce e intenso. Coltivati in vaso, facevano parte del famoso giardino bianco di
Vita Sackville-West a Sissinghurst Castle nel Kent.
Una delle piú belle e imponenti è la Datura suaveolens, un arbusto che forma quasi un piccolo
albero, dai grandi fiori profumati a forma di calice, bianchi e talvolta di un giallo pallido o di un
rosa arancio appena accennato. Meno appariscente e di dimensioni piú ridotte ma egualmente
bellissima e affascinante, è la Datura metel. Di origine cinese, è la datura per eccellenza, quella
che cresce ormai spontanea nei terreni sabbiosi dell’Italia meridionale, con foglie di un bel verde
opaco e fiori bianchi a cornucopia, dalla gola leggermente sfumata di viola. La Datura
stramonium non ha invece bisogno di descrizioni: anche se proveniente dalle Americhe, è ormai
autoctona nel bacino del Mediterraneo. Pianta erbacea, cresce frequentemente nei luoghi incolti
ed è conosciuta sia per i suoi fiori che per i suoi spinosissimi frutti. Tutte le dature sono piante
veloci nella crescita e ingorde: generose e nello stesso tempo letali, possono essere assunte come
un vivace e misterioso simbolo di naturali contraddizioni, vera ricchezza di diversità e palese
manifestazione di botanica pluralità.
L’albero guerriero.

È sufficiente guardarli nei giorni ancora bollenti (e terribilmente aridi) di settembre, per
capire: gli ailanti (Ailanthus glandulosa o altissima) sono rigogliosi e in ottima forma. Non
vogliono, non desiderano altro: caldo e secco nei mesi estivi e quel tanto di pioggia d’inverno.
Stanno bene con pochissimo, decisamente rustici e di bocca buona, amano mettere le loro
inesorabili e robustissime radici nei terreni sassosi e poveri. Visto il trend e visti i tempi, pochi
alberi sembrano piú adatti e felici.
Lungo le strade di tutta l’Italia, arida e secca di fine estate, dal Piemonte alla Maremma, dal
Veneto alla Puglia, soprattutto in posti incolti, nelle scarpate, in quei luoghi che Gilles Clément
chiama le friches, crescono, allignano e ormai dominano senza esser imposti dalla mano
dell’uomo. Data la quantità (e la vigoria) del seme prodotto non tarderanno a invadere, un po’
come nei due secoli passati fece la robinia (la nostra cara e pungente gaggia) in tutto il mondo.
Come se non bastasse (sempre come la robinia), l’ailanto si moltiplica con molta facilità dalle
radici: dove viene tagliato al piede quasi fosse un seguace di un’antica confraternita del
«contrappasso», si è sicuri d’averne, nel giro di un anno, un bel boschetto. Velocissimo e
invadentissimo.
Vederli spiccare nei giorni di settembre, tra ippocastani azzerati, tra tigli «cotti», tra robinie
(addirittura loro!) barcollanti, è una vera e felice sorpresa: quasi fossero un campestre inno alla
certezza e al benessere. Il che non è proprio poco, visti i tempi grami, fatti di contraccolpi e
cortocircuiti climatici: gli ailanti saranno i futuri padroni delle terre povere e aride? Come a
Brooklyn, tra il suo cemento e l’asfalto, o come nell’isola di Montecristo, nell’arcipelago
toscano, dove pare si siano in modo impertinente e aggressivo impossessati, mi dicono, ormai di
tutto il roccioso areale a scapito del leccio. Quando diventa un albero, e lo diventa velocissimo,
può arrivare a grandi altezze tanto da essere chiamato Tree of Heaven in Inghilterra e addirittura
Gottbaum, l’albero di Dio, in Germania.
In Italia non ha soprannomi «aulici» anzi, in alcune regioni invece viene chiamato «l’albero
puzzone», dato l’odore agro e sgradevole delle sue foglie e dei suoi giovani fusti. Piú spesso è
invece conosciuto come Ailanthus altissima (o glandulosa) in latino botanico e ricorda non
soltanto la sua facilità di crescita ma le altezze veramente speciali alle quali può arrivare (al
decimo piano delle nostre «palazzine»!) e dall’alto delle quali può spargere, tutto intorno e a
largo raggio, i suoi semi leggeri e volatili, contribuendo a una larga, abbondante e diffusa
riproduzione. Caparbio e inesorabile un vecchio cespo, in terra pietrosa e povera, tra la mia casa
e la strada, rasato a terra da anni, tutti gli inverni, riproduce tutti gli anni, senza intoppi, dei rami
alti fino a due metri di altezza. Se tagliati a luglio, già alti sul metro/metro e mezzo, riescono
nell’anno a riprodurre nuovi e alti virgulti. È pianta indomabile che resiste, ricrescendo sotto gli
attacchi dell’ascia e delle motoseghe. È altrettanto resistente e forte sotto quelli dell’aria sporca e
velenosa delle nostre città: la sua vigoria infatti non teme gli ambienti contaminati e la ripresa
spesso è sempre piú che vigorosa.
In natura i deboli soccombono: è la legge. E l’ailanto si sottrae al suo invasivo e invadente
compito: proveniente dal nord della Cina ha fatto tantissima strada, usando tutti i mezzi a sua
disposizione. In testa la sua generosa fertilità e la sua proverbiale e «innata» immortalità!
Che piaccia o non piaccia si avrà a che fare sempre di piú con loro.
Malinconia di fine stagione.

Poveri vecchi olivi! Poveri Matusalemmi sradicati e in vendita: è veramente triste vederli in
mostra appoggiati sugli anonimi terreni dei vivai, estirpati, strappati e coltivati per puro interesse,
non certo per amore o per passione.
Perché promuovere tali orrori botanici? Non è certo infatti l’amore per la pianta, per la sua
crescita, per la sua presenza che muove la scelta. Perché tanta e odiosa crudeltà mentale?
Piantati in ben visive posizioni (spesso errate), troneggiano spavaldi sui pratini di
numerosissime case, ricche ed esibite, del nostro paese. Ma non basta: da poco sovrastano
giardini pubblici o banali rotatorie.
Quanto è triste vedere come vengono trattati questi poveri, dignitosi e meravigliosi alberi,
frutto di una vita di lavoro! Agghindati, vilipesi e sbertucciati, trasferiti di brutto in un mondo
che non appartiene loro, tra il fiabesco e il fasullo, coperti ai piedi da «leggiadri» (e inutili)
pratini all’inglese.
Sono le vittime della loro rusticità e della loro innata robustezza, martiri della loro facile
adattabilità ai posti e, poveri loro, agli stessi trapianti.
Stroncati e brutalmente ridotti e «potati» da colpi inesorabili di motosega, sono fatti
rigermogliare in contenitori di tutti i tipi: mastelli, sacchi di plastica, montarozzi di terriccio.
Appoggiati in modo provvisorio lungo le strade di grande traffico o ridotti a oggetti da
marciapiede, sono diventati la costosa e facile preda di un giardinaggio ignorante, presuntuoso. E
grondante denaro.
La sentinella.

Luminosi, leggeri ed eleganti, i fiori dell’anemone giapponese sono un perfetto trait d’union
tra l’estate e l’autunno: vegliano, dall’alto dei loro steli, sul «cambio di stagione» e già
preannunciano, con le loro pallide tonalità di bianco, di rosa e di malva, i colori ben piú
sgargianti e vistosi dei prossimi mesi. Con grande approssimazione son chiamati anemoni
giapponesi: in realtà si tratta di specie differenti, provengono dalla Cina e dalla regione
himalayana. Il piú conosciuto è l’Anemone hupehensis japonica, dai lunghi e numerosi petali
raccolti intorno a un centro color oro, introdotto in Europa a metà Ottocento, nel giardino della
Royal Horticoltural Society a Chiswick. Il suo mentore fu Robert Fortune, il famoso cacciatore
di piante, che raccontò come gli antichi cinesi usassero piantarlo sulle tombe dei loro cari.
Perenni e a fioritura autunnale sono anche l’A. tomentosa e l’A. vitifolia, che da tempo sono
oggetto di dibattito per l’attribuzione della nomenclatura. Amano tutti posti freschi e luminosi e
rifuggono le terre troppo drenate e asciutte. Negli ultimi tempi, qui in giardino, sono
particolarmente belli: sono il felice frutto delle frequenti intemperie e delle lunghe giornate di
pioggia che preannunciano l’autunno.
Autunno
Il fascino del ciclamino.

I ciclamini sono fioriti all’ombra leggera dei lecci tra il muschio e le foglie naturalmente
compostate e quelle secche: bianchi e rosa, piccoli e leggeri, i loro fiori sono una delle sorprese
di inizio autunno (anzi, qui in giardino ormai una delle tradizioni) piú piacevoli e attese.
Nonostante l’origine mediterranea (il nome scientifico è infatti Cyclamen neapolitanum), nelle
mie fredde campagne si è saputo adattare con estrema facilità. E che dire delle foglie, belle e
decorative, a forma di cuore, screziate e reticolate, piatte e quasi rasoterra? Hanno un aspetto
estremamente attraente.
Il reciproco grande amore nacque in Corsica un bel po’ di anni fa, lungo una strada che unisce
Bastia a Corte, dove all’ombra di corbezzoli, di allori e di lecci, fiorivano e spero fioriscano
ancora, da settembre in poi, migliaia di ciclamini. Un vero e indimenticabile tappeto fiorito.
Scoprii alcuni anni dopo, che anche nelle ragnaie di alcuni celebri giardini toscani, all’ombra
degli «inseparabili» lecci, gli antichi giardinieri erano soliti piantarne a centinaia. Il ciclamino
detesta i ristagni idrici: un buon drenaggio, un terreno di foglie sfatte e ghiaia è per loro il
massimo del piacere.
Meno vistosi dei nostri comuni ciclamini in vaso, dall’aspetto piú delicato e soprattutto dalle
esigenze piú rustiche quelli napoletani possono essere o diventare dei preziosi abitatori delle
ombre dei nostri giardini e terrazzi.
Anche nei giardini in Francia e quelli in Inghilterra sono in pieno fiore. In quei posti sono
giudicati evidentemente delle piante «esotiche», e come tali degne di un giardino. Da noi sono
viste come piante comuni e selvagge, da campagna, da bosco, sottobosco e da clairières. Le
foglie simili all’edera sono bellissime, spesso marmorizzate, fanno bella mostra di sé a lungo,
sfidando i geli. Amano stare indisturbate e tranquille nel loro vaso o in terra alle leggere ombre
di un albero (anche) sempreverde. Se l’albero fosse un leccio o un corbezzolo o (perché no?) un
vecchio cedro ne sarebbero felicissime.
Piantati e lasciati vegetare senza affanni possono portare alla nascita di tante nuove pianticine,
che nascono da tanti piccoli semi protetti da robuste capsule sferiche e coriacee.
I fiori non hanno bisogno di descrizioni: rosa o piú raramente bianchi si aprono puntuali, alla
fine di agosto, uno dopo l’altro. Alternandosi, tengono il campo, leggeri e delicati, fino a metà
ottobre. Non sono profumati, a differenza di quelli del Cyclamen europaeus, ciclamino che
fiorisce in piena estate in posti piú freschi e quindi di mezza montagna: se non si può loro offrire
un posto ideale è inutile farli soffrire e deperire in posti troppo caldi e troppo asciutti nel periodo
estivo.
Per i cinghiali e i maiali i tuberi dei ciclamini sono una vera leccornia: vanno giustamente
protetti da eventuali incursioni. Non per nulla nelle campagne venivano e vengono chiamati pan
porcini. Con il nome di «unguento di Artanita» i carnosi e voluminosi tuberi nell’antichità erano
adoperati per i loro principî acri e purgativi.
Per piantarli per favore non fate i «cinghiali»! Non andate a sfrondare le nostre campagne, già
tanto maltrattate e defraudate! Degli eccellenti venditori di tuberi e bulbi li offrono in tutte le
migliori manifestazioni giardiniere e botaniche! L’importante è, una volta tanto, seguire i loro
consigli: se ben piantati e ben trattati, essendo piante facili e fedeli, vi potrete ritrovare di anno in
anno tra vecchi, gradevoli e generosi amici.
Una pianta al servizio delle città.

Di questi tempi la Lagerstroemia indica vive la sua età dell’oro, almeno in Italia: da quando
questo piccolo albero, cosí ordinato e resistente, è stato scoperto dalle sempre e purtroppo miopi
amministrazioni comunali, viene iper-proposto in aiuole, parchi e giardini. La vocazione agli
spazi pubblici gli appartiene già da millenni nella sua terra d’origine, la Cina, dove i lunghi
racemi di fiori rosa, simili a seta stropicciata, ornano spesso gli ingressi dei templi. In India
invece la L. i. era ed è conosciuta per usi piú profani (ma sempre al servizio della collettività): il
suo è un legno ricercato per la costruzione di ponti e di traversine ferroviarie, perché è talmente
duro e compatto da resistere agli attacchi delle termiti. Fu proprio in India che Magnus von
Lagerstroem, direttore della Compagnia delle Indie, la vide all’inizio del Settecento e decise di
spedirne alcune piantine a Linneo. Della L. i. non son belli soltanto i fiori, rosa, bianchi o
porpora, che sbocciano generosi a fine estate, ma anche la corteccia sfogliante e le foglie che
d’autunno assumono le piú calde tonalità di giallo e di arancio. È una pianta che non teme i
mediterranei freddi e non ha bisogno praticamente di nulla: sono sufficienti una posizione
assolata e un po’ di concime, una volta all’anno. Tra le varietà piú belle ce ne sono alcune
italianissime, selezionate nel pistoiese da Antonio Grassi, come le celebri L. i. rosea Grassi e
Bianco Grassi a ricco fiore doppio.
Pioggia scarlatta.

Quando arriverà la pioggia autunnale sarà un momento magico per i giardini e per le terrazze.
Qualsiasi acqua che piova dal cielo, che sia «acida» o sabbiosa è pur sempre benedetta: la
pioggia, se un po’ insistente, pulisce, innaffia e rinfresca. E soprattutto alleggerisce la quantità di
calcare che il quotidiano innaffio porta con sé. L’acqua è un elemento veramente importante per
il giardinaggio: una «buona acqua» fa già subito il giardino bello e sano. L’acqua che sta ferma e
che prende sole (e la temperatura «ambiente») è ottima e salutare e non soltanto per l’orto!
Un’acqua «buona» fa maturare bene gli ortaggi. Il meglio del meglio è l’acqua a scorrimento
(leggero e riflessivo) che va al profondo delle radici. Mentre spruzzi e spruzzetti vanno bene solo
e soltanto sui pratini all’inglese.
L’ideale è tanta acqua ogni volta e a tempi distanziati perché a detta dei «vecchi» un po’ di
sana sofferenza non fa male a nessuno, sempre che sia leggera: i mezzi toni e un buon senso
fanno del giardino un’oasi felice.
Le insalate e le cicorie sono a mio giudizio le uniche eccezioni. I francesi le chiamano piante
da posti umidi, i marais: ed è vero. Infatti gli orti, una volta, erano piantati nei posti piú vicini
all’acqua: il chilometro zero evidentemente è una vecchia e salutare invenzione…
Il giardino e il terrazzo con la pioggia vanno quindi molto d’accordo; l’acqua dal cielo è
talmente migliore di quella del rubinetto! Se poi le piogge sono frequenti possono, come già
accennato, essere cosí buone da sciogliere i sali e i calcari accumulati durante l’innaffiamento
estivo. E se la pioggia è un po’ violenta, tanto meglio! Aiuta a pulire in modo efficace le foglie
coperte da polveri, sabbie, calcari. L’importante comunque è che l’acqua in sovrappiú abbia un
posto, ben previsto e ben definito, per andarsene via: che sia un canalino, una scolina o un
tombino. È questione di scelte. Per i vasi il discorso è differente: è necessario verificare gli scoli
e i relativi drenaggi. Usare come «tappo» un pezzo di coccio rotto e riciclato è il metodo piú
casereccio, e di gran lunga forse il migliore. Ottimo è poi prevedere tutt’intorno una bella
manciata di ghiaia spezzata o magari di leca (per far meno pesanti le terrazze, ogni scusa è
buona!)
Ed è proprio dopo la pioggia abbondante che si dovrebbero ispezionare i nostri vasi e i nostri
drenaggi: dove si ferma l’acqua bisogna intervenire. Del resto è un «male» fisiologico: dopo un
po’ di anni le radici crescendo e il terriccio impoverendosi diventano praticamente impermeabili
e rendono difficoltosa l’evacuazione delle acque. Ogni ristagno purtroppo diventa motivo di
malattie e soprattutto di asfissie.
Bulbi da piantare.

Chi pianta bulbi sa di raccogliere fiori: con la semplicità piú disarmante, chi ha l’accortezza di
mettere sotto terra le «sue» cipolle sa che, dopo sei-otto mesi, raccoglierà. Quello del bulbo è un
giardinaggio tranquillo e decisamente remunerativo: gli olandesi queste cose le sanno e vivono
sui suoi risultati sicuri e seri (e sull’accattivante pubblicità). Da secoli, trascinati dal boom dei
tulipani e dalla facilità di moltiplicazione e di ibridazione, si sono sempre piú specializzati.
Allargando nell’ultimo secolo l’obiettivo su tutte le piante bulbose, inventando e (diventando)
una specie di «cartello» del bulbo mondiale. Dalle bellissime ed elegantissime Fritillarie
imperialis ai piú semplici bucaneve, dai profumati e ricchi giacinti alle piú tardive e meno note
forme di Scilla, le famose Blues Belles degli inglesi: quelle azzurre Scilla hispanica, il cui nome
è diventato una «icona» e che pur provenendo dalle terre d’Iberia sono diventate famose in
quelle d’Albione: nemo propheta…
Perché parlarne ora? Innanzi tutto per esser pronti e puntuali nell’impianto e per aver del
tempo a disposizione e soprattutto per fare le cose con comodo: i bulbi vanno piantati tra
settembre e ottobre. Per chi non ha giardino, sono sufficienti dei vasi (di terracotta: sono i piú
gradevoli e i piú sani!) da venti-venticinque centimetri di diametro, un po’ di terriccio (neanche
tanto ricco), e leggermente sabbioso. Pochi vasi potranno poi fare di un davanzale, di un balcone,
di una terrazza, un momento di grande soddisfazione primaverile. Che siano bucaneve, crochi,
narcisi, tromboni, giacinti, tulipani, fritillarie, ecc.
Ikea da anni l’ha capito e propone tutte le primavere migliaia di bulbose in fiore in piccoli
vasetti. Noi invece, che siamo dei semplici giardinieri e non delle multinazionali, le dobbiamo
piantare in autunno, meno fitte e meno prêt à porter. E con vasi maggiori. Senza mai esagerare
comunque nell’opposto: il troppo «rado» spesso è brutto e poco «sano»: è meglio stare in una
saggia via di mezzo. Se piantate in piena terra è bene ricordarsi di non farlo troppo all’ombra
perché tutte le bulbose, salvo rare eccezioni, amano il sole come amano, e mi ripeto, pure le terre
sciolte. Qualsiasi enciclopedia o manuale di giardinaggio spiega come piantare bene i bulbi: non
è difficile seguirne i consigli.
Tra le ultime e apprezzabili novità ci sono alcuni ibridi di tromboncino che fioriscono molto
piú presto del dovuto, anticipando in modo notevole il grande festival di colori delle piante
bulbose: l’Or de janvier, appena sciolta la neve, fiorisce. È una vera boîte à surprises.
Per il resto ci sono a mio giudizio cattive note: purtroppo i nuovi ibridi sono lo specchio del
nostro tempo e sono proprio, salvo rarissime eccezioni, decisamente brutti. Quasi che si
rincorressero i mostri (o ne fossimo invasi). Vanno da pochi anni in voga le forme piú strane e
contorte. I narcisi cosí belli nella loro basica e innocente semplicità vengono, dopo ibridazioni e
selezioni, messi sul mercato con forme che vanno dall’enorme all’abnorme e classificati con
nomi da sciarada. Cosí i tulipani, quelli bellissimi e famosi delle ceramiche turche di iznich,
elegantissimi e pregiatissimi fin dai tempi dei sultani ottomani, noti in tutto il mondo per la loro
esile e morbida leggerezza, sono diventati per la gloria delle floriades e delle aiuole delle nostre
città, dei tozzi cavoli stradoppi: l’arancio, il giallo e lo screziato dominano al posto
dell’elegantissimo cerise di un tempo (e della sua semplice forma a goccia).
Tutta questa ricerca affannosa della novità ha provocato (per fortuna!) una vera reazione. Si è
aperta da pochi anni, iniziando in Inghilterra, e ora in Olanda, la ricerca per la riproposta dei
bulbi «antichi»: robustezza, sobrietà e purezza di forme sono i cavalli di una degna e intelligente
battaglia. Ritornare sui passi perduti spesso può essere un gran segno di saggezza. Se non altro
perché, a lungo andare, con l’accanirsi per il nuovo, è molto facile perdere il filo del discorso.
Tra i bulbi che possono essere piantati in questo periodo uno dei piú preziosi (e amati) è
quello dello zafferano, Crocus sativus. Lo sanno bene i contadini del Kashmir, che ne coltivano
una delle varietà piú prestigiose e ricercate. In quelle terre lontane lo zafferano è trattato e
venerato come l’oro; i fiori violacei vengono raccolti prima del sorgere del sole e i suoi lunghi e
rossi stimmi sono divisi e messi a essiccare a uno a uno.
Originario dell’Asia Minore e arrivato in Spagna con la dominazione araba, pare sia stato
introdotto in Italia nel XVI secolo da alcuni padri domenicani. Nelle fredde terre piemontesi, dove
pare che il bulbo sia giunto coi pellegrini della Francigena, veniva coltivato a ridosso dei muri a
secco degli orti e delle vigne.
Quando ho deciso di piantarlo in giardino, mi è stata consigliata l’esposizione la piú assolata,
la terra piú sciolta e, possibilmente e robustamente, calcarea e soprattutto un drenaggio
impeccabile. Disobbedendo al venditore di bulbi, che mi aveva raccomandato un substrato
povero, ho aggiunto un po’ di ricco terriccio del pollaio, quello che ogni anno di questa stagione
viene rimosso e usato nell’orto. I miei crochi sembrano aver assai gradito, visto che anno dopo
anno si sono moltiplicati rigogliosi.
Quella per lo zafferano è una vecchia passione iniziata da ben piú di cinquant’anni, quando mi
resi conto della differenza tra quello coltivato nell’orto e quello comperato. Da allora non ho
avuto dubbi: potendo, perché rinunciare al colore e al profumo dello zafferano fresco?
Bulbi che fioriscono.

Anche l’autunno ha i suoi piccoli bulbi in fioritura, meno famosi, meno vistosi e certamente
meno comuni di quelli primaverili. Il Colchicum fiorisce nei prati e nei sottoboschi dall’inizio di
settembre, senza annunci e soprattutto senza lungaggini, con una puntualità quasi militaresca. Per
tutto l’inverno le sue foglie, lucide e forti, donano al giardino una ventata di benessere e di
freschezza: compaiono dopo la fioritura e scompaiono nella tarda primavera, al sopraggiungere
dei primi caldi. Il colchico è una pianta molto comune nei parchi inglesi: ogni autunno intere
distese fiorite ricoprono il piede dei grandi alberi o crescono benissimo pure tra le eriche e le
azalee, un po’ come un’ultima, attesissima fiammata di colore che sa essere di vero conforto
nelle lunghe giornate di grigio e di pioggia. Inspiegabilmente poco coltivato in Italia, è una
pianta adatta anche ai nostri giardini: l’importante, come mi diceva un bravo giardiniere del
senese, è che sia difesa dagli istrici, a quanto pare particolarmente golosi dei suoi «succulenti»
bulbi.
E dire che il Colchicum non può certamente considerarsi una prelibatezza per il palato,
tutt’altro. Avvolto da antiche leggende e vecchie paure, gode da sempre di un’aura malefica e
velenosa. Come ricorda il suo antico nome, il regno della maga Medea fu terra d’origine di
questa pianta: la mitica Colchide, l’odierna Georgia, dove cresceva e cresce sugli altipiani che
degradano verso il Mar Nero. In Italia era cresciuto, forse spontaneo, già in età medioevale, come
testimoniano gli antichi e nostrani trattati di farmacia e di stregoneria.
Il piú comune tra tutte le numerose specie, e forse anche il piú bello, è il C. autumnale: oltre
al «classico» rosa chiaro, ne esistono varietà a fiore bianco o quasi porpora, semplice, doppio o
stradoppio. Ricercatissimo è il C. speciosum album, diffuso un po’ dappertutto in Asia Minore,
dai bianchi fiori a forma di tulipano, appena macchiati di verde alla base, mentre il piú grande di
tutti è il C. giganteum, i cui fiori di un viola leggero, cosí simili a quelli del Crocus sativa,
possono raggiungere i trenta centimetri di altezza.
Piantati alla profondità tra cinque e dieci centimetri, i Colchicum prediligono terreni ricchi,
sciolti e abbastanza umidi, purché vi sia l’opportunità di un buon drenaggio. Se ben piantati, i
bulbi possono vivere molto a lungo e nel tempo, sempre se appagati e soddisfatti, e moltiplicarsi
con generosità: in pochi anni da un singolo bulbo ne possono uscire dei rigogliosi e fittissimi
cespi. L’esposizione che preferiscono è un’ombra alta e luminosa, un po’ come i ciclamini, ma
sopportano benissimo anche luoghi assolati e piú asciutti. Sul loro trattamento ci sono due
scuole: chi preferisce levarli da terra lustro dopo lustro e chi predilige invece un pigro e saggio
laissez faire, lasciandoli indisturbati nelle loro postazioni durante il riposo estivo. In ambedue i
casi è buona norma spargere sulla superficie del terreno del buon concime o, meglio ancora, del
ricco e grasso compost. Piú difficile pare sia la coltivazione in vaso: per chi vuole provare si
consiglia di seguire un antico esempio di coltura che è ancora praticato in Tirolo, dove i bulbi
(quelli del C. alpinum, precoce e resistentissimo al freddo) vengono ancora piantati, di anno in
anno, in una ciotola con un poco di sabbia o di muschio bagnati.
Fascino posato.

Anche se non sembra, gli Osmanthus sono cugini (lontani) dell’ulivo: provenienti dai paesi
del sud degli Stati Uniti e dall’Oriente (Cina, Giappone e vallate dell’Himalaya), queste
pregevoli piante sempreverdi sono diventate quasi onnipresenti nei giardini moderni a clima
freddo. Poco vistosi, dalle foglie scure di un bel verde lucido, sono talmente «normali» da
passare quasi inosservati agli occhi meno attenti. D’autunno si coprono di una sobria ed
elegantissima fioritura fatta di piccoli grappolini bianchi molto profumati. Da tempo gloria dei
giardini dei laghi e di quelli prealpini è l’Osmanthus fragrans, chiamato comunemente Olea
fragrans. Robusto e generoso, anche se lento nella crescita, è facile da coltivare. Felicemente
sana, per il momento indenne alle moderne malattie, può diventare pianta longeva. Preferisce le
posizioni assolate a quelle a mezzombra, e data la compattezza e l’equilibrio dell’arbusto, dà il
meglio di sé non potato (come purtroppo e spesso ci accade vedere nei giardini e non si sa
perché). Un osmanto dei piú diffusi tra le varie specie è l O. heterophyllus, chiamato anche finto
agrifoglio per analogia di foglia, rustico e robusto da esser diventato una delle piante piú adatte
per quel «giardino autosufficiente», che con un pizzico di utopia viene di tempo in tempo
proposto. E spesso sognato.
Frutti d’autunno.

Per l’Italia contadina, quella dei campi e dei frutteti, nessun periodo dell’anno è forse piú
importante dell’autunno. Non molti sanno che sono proprio i raccolti di questa stagione a
garantirci alcuni tra i suoi pochi primati internazionali: pere e kiwi, noci e castagne sono da
tempo diventati protagonisti, accanto a uve e olive, del sempre piú rinomato e famoso «made in
Italy». Che sia l’Italia il primo produttore di pere in Europa e il terzo al mondo, dopo Cina e Stati
Uniti, non deve stupire: la loro coltivazione è una tradizione antichissima nel nostro paese. Pare
risalga addirittura all’età romana. Con i secoli le varietà nostrane si sono adattate ai posti e
moltiplicate a dismisura. Pere estive e pere invernali, pere da mangiare fresche o da far cuocere,
pere gialle, verdi o color della ruggine, ogni regione, e anche di piú, ogni vallata, aveva le sue:
un patrimonio unico e ricchissimo, come testimoniano le numerose e rigogliose nature morte
medicee o gli antichi pomari, da quello del ligure Gallesio a quello dei piemontesissimi Fratelli
Roda. Non sono da dimenticare anche le originali e quasi uniche riproduzioni del conterraneo
Francesco Garnier Valletti. Pere dai nomi semplici ed evocativi, come la Bruttaebuona, che
cresceva (e chissà se ancora cresce) in quel di Giaveno, o la Bugiarda, dal piccolo frutto color
verde chiaro: Gallesio le definiva «rozze all’apparenza ma dalla polpa gentile e cosí ricca di
sugo». O la lunga serie delle Butirre, ritenute allora le regine delle pere, con le quali potevano
competere soltanto la reale, resistente a tutte le intemperie, e la spadona, una delle migliori fra le
pere invernine. Tenerne il conto è praticamente impossibile e ha il sapore di un’impresa quasi
archeologica: le varietà di pere coltivate in Italia sono pochissime, sempre le stesse e in gran
parte straniere. Già il Gallesio, quasi due secoli fa, aveva presagito il pericolo, ammonendo a
salvaguardare le pere nostrane, «migliori della piú gran parte delle Pere che i nostri dilettanti
fanno venire ogni giorno di Francia e di Savoia». Un monito rimasto evidentemente inascoltato.
Fu Luigi XIV, innamoratissimo delle sue pere, a vietare la coltivazione delle mele nel famoso
Potager Royal, ritenute invasive (e probabilmente troppo generose e facili di gusto). Le mele
venivano coltivate ad albero in appositi pomari, mentre le pere, coltivate nelle piú elaborate
forme di fila e di spalliera, arricchivano con vivace presenza le lunghe allée del grande Potager.
Esistono per uso ornamentale nei giardini moderni alcune varietà di pero dal fiore
ornamentale e bello, ma di non «buona» fruttificazione. Il piú famoso di tutti e molto piantato in
questi ultimi anni dalle amministrazioni comunali, per il suo portamento piramidale e non
invasivo per le strade e per una notevole resistenza all’inquinamento, è il Pyrus calleryana
Chanticleer: la bellissima fioritura autunnale lo rende evidentemente una pianta attraente per
giardini e parchi. Mentre tra i piú belli, vere piante da collezionista, sono il Pyrus nivalis e il
Pyrus pashia, purtroppo non molto comuni nei vivai, proveniente uno dal Sud Europa e l’altro
dalla Cina occidentale: fioritura bianca primaverile, meno effimera di quella dei ciliegi, foglie
chiarissime l’uno e minute l’altro, fruttificazioni ornamentali e persistenti tra l’autunno e
l’inverno e opportunamente edibili dagli uccelli quando maturi. Soprattutto bellissimi, per il loro
portamento e per l’abbondante e, nello stesso tempo, leggera fioritura. Vennero tutt’e due
annoverati tra i grandi amori della famiglia Nicolson-Sackville-West, potendo essere usati come
veri protagonisti del loro giardino: quel famoso giardino popolato soprattutto da piante semplici
ed essenziali. E spesso antiche.
Il ritorno del melograno.

In giardino i frutti del melograno (Punicum granatum), nella stagione autunnale, sono quasi
maturi: cince, merli e pettirossi sembrano attendere con trepidazione il momento giusto, quando
la scorza lucida e coriacea comincerà a fessurarsi e lascerà intravedere la polpa color rubino, cosí
gustosa e attraente. Come tutti gli anni, sarà un’equa ripartizione.
Quello dei melograni è un gran ritorno: i loro lucenti ed esotici frutti sono tornati sulle
bancarelle dei mercati con insistente prepotenza: è pianta decisamente alla moda ed è sufficiente
visitare un buon garden center o un attrezzato vivaio per facilmente imbattersi in grandi vasi di
vecchi melograni. Esemplari legnosi e frondosi strappati dalle calde terre dell’Andalusia sono in
attesa di nuova destinazione e di acquirenti. Un po’ la medesima e triste fine dei vecchi olivi che
ora vediamo, purtroppo, dappertutto. Piante che spesso vengono piantate nei posti meno adatti,
poveri alberi di giardiniero antiquariato spesso esibite e molto spesso poco amate.
Il frutto del melograno è lucido e attraente, quasi fosse cerato, e non ha bisogno di dettagliate
descrizioni: si dice che porti bene e porti ricchezza, e che sia simbolo di prolificità. È uno dei
frutti piú conosciuti da sempre, forse è il «frutto» per antonomasia. Saporito, sano e coriaceo, è
soprattutto bello: se tagliato in due, come una pagina aperta, può ricordare la sua storia fatta di
morbidezze e di asperità, di zucchero e di aromi, di ricchezza e di povertà. Il legame tra l’albero
e l’uomo è antichissimo, tanto che da sempre regna il dubbio che la «mela» dell’Eden non fosse
una «mela renetta» né tanto meno una «mela annurca» ma un lucido frutto del melograno; come
pure quello che Paride diede a Venere. Non dubbi invece ma carducciana sicurezza per la povera
pargoletta mano.
Col passare dei secoli la bellezza dell’arbusto, delle foglie e dei frutti collaborarono alla
costruzione del mito: la lucentezza e la perfezione del frutto infatti portano facilmente al sogno o
al racconto (che mescola fede, storia e religione spesso con poetiche alte e speciali), tanto da dare
il suo nome alla antica capitale dell’ultimo inglorioso regno «moro» di Spagna, la bellissima e
romantica Granada. E la fontana del Grenadier del castello di Issogne in Val d’Aosta? Rimandi,
evocazioni e simbologie che ci aiutano a capire come sia stata intensa la «frequentazione» tra
l’uomo e il melograno.
Belle pure sono le foglie caduche, lucenti, lanceolate: curioso il nome dei suoi fiori che si
chiamano balausti dai quali le balaustre, il nome dei pilastrini di analogo aspetto formanti le
«ringhiere» di pietra o marmo. Fiori che sono lunghi e solitari, accarezzati da cinque-otto petali
dall’aspetto sgualcito, mentre il calice ha consistenza coriacea e carnosa, di color rosso ed è
persistente.
Come il fico, il mandorlo e gli agrumi, il melograno preferisce di gran lunga i posti assolati e
riparati dai venti del nord. In latino già il suo nome Punica granatum sta a ricordarci la sua
solare mediterraneità, tanto che ai tempi di Le Notre nelle aranciere di Versailles anche il
melograno doveva offrire alla portata del Re Sole i profumi del Mediterraneo: la sua esuberante
presenza teneva banco e, coltivato giustamente in vaso, riproponeva tutta la sua raffinata e (non
esasperata) esoticità.
In qualche angolo riparato, contro un muro che lo difenda dai venti del nord, il melograno, in
Italia, viene da sempre coltivato fin dai tempi piú remoti: da secoli rivendica la sua indipendenza
dalle mele con le quali anche «botanicamente» non ha niente a che fare appartenendo a ben
differente famiglia (a quella delle punicacee). L’uomo nel corso dei secoli come per i banani, gli
albicocchi, gli agrumi, praticamente come con tutta la «vecchia» frutta vi ha «lavorato»
selezionando forme locali, speciali e ottenendo sia melograni nani, piccoli piccoli, dai frutti aspri
o melograni dal frutto particolarmente grande (addirittura come un pompelmo!) e dolce. I fiori
vermigli e le bucce dei frutti, trattati in modo consono e convenevole, possono essere ridotti a
colore: pare siano alla base dei piú raffinati vermigli dei famosi e bellissimi cuoi marocchini.
L’aspro che sarà di conforto.

I tre meli cotogni sono stracarichi di frutti. Il loro profumo, sotto i leggeri colpi di vento, si
sparge e si mescola insieme a quello dei fiori dei due oleandri e quelli dell’Olea fragrans. I frutti,
pare d’origine serba, e sempre pare i piú vigorosi e i piú profumati, sono grossi e pesanti: fanno
inarcare i rami sotto il loro peso. Quelli maturi finiranno gloriosamente in pentola: è il loro
destino, cotti «cotognati» e conservati accompagneranno le lunghe sere invernali. Il filo tra il
campo e la cucina è sempre stato diretto e i profumi intercambiabili: i pomari nei giardini ci sono
sempre stati. In fondo è cosí difficile scindere il bello dal buono! I giardini «scissi» e troppo
razionali o, peggio, troppo pensati e astratti, sono spesso tristi.
Nei giardini l’abbondanza è sempre cosí gradevole e beneaugurante! Un siepone di more o di
lamponi non è forse piú allettante di una siepetta di ibisco? Ci riportano a due mondi totalmente
opposti. Una pergola di zucche e zucchette, o di fiori delle passiflore, anche se stagionale, non è
forse qualcosa di piú vivo di una spessa coperta di vite vergine?
Andando avanti con gli anni i giardini un po’ pasticciati e azzardosi a me piacciono sempre di
piú! La natura forse, nelle sue intrinseche «razionalità», riscuote sempre maggior rispetto e
simpatia. E ama il disordine e l’esuberanza. Un giardino pieno di vitalità parte col piede giusto, e
può diventare proprio per la sua abituale generosità un ottimo e degno compagno di esperienze. I
giardini pulitini, razionali e regimentati saranno sicuramente vegetally correct ma che noia!
Ridurre un giardino a un simil vivaio è pur sempre una scelta: le piante, tutte o quasi tutte per
fortuna, hanno una loro dignitosa coerenza che il bravo giardiniere con coraggio cerca di
agevolare.
I miei tre alberi di cotogno hanno, negli anni, subito soltanto delle leggerissime correzioni
formali, delle minime e tenui spuntature. Qualche periodica e ricorrente passata di verderame,
qualche volenterosa innaffiatura durante le estati piú torride sono di prammatica. I loro frutti,
tanti e profumati, non sono forse il palese e riconoscente segno, in una vita di cure leggere, di
semplici intenti?
E il profumo delle cotogne, casereccio e antico, non ne è forse uno delle ricorrenti e piú
gradevoli testimonianze?
Il parente cinese del cotogno.

La Pseudocydonia sinensis è una pianta poco nota anche se particolarmente bella e curiosa.
A cominciare dal tronco a macchie simile al platano di Londra: molto armonioso è pure il
portamento dell’arbusto, che se lasciato crescere in modo naturale ama essere cespuglioso. La
sua fioritura rosa, a fiori simili al cotogno, è particolarmente gradevole in primavera, ma è
durante l’autunno che la Pseudocydonia dà il suo meglio. Dopo una ricca fruttificazione (mele
oblunghe, profumate e curiose), il fogliame, bello e leggermente coriaceo, si colora delle piú
intense sfumature di rosso, dal ruggine al vermiglio. È pianta che ama il sole e non disdegna
posizioni un po’ temperate, il caldo di un muro che la ripari dai venti del nord può essere di
grande aiuto. I frutti, dall’intenso e resinoso profumo, vengono utilizzati nella medicina cinese,
senza però riuscire a far breccia nei nostri palati. Lentissimo di crescita ma già bellissimo da
giovane, può essere prezioso elemento di un giardino eclettico.
In pieno autunno qui in giardino tutt’intorno alla Pseudocydonia c’è un tappeto di foglie
colorate, è il suo momento piú bello. Il vento le sparge in maniera irregolare e armonica e anche i
frutti, sotto le raffiche, cascano a terra uno dopo l’altro.
In Europa non le è stato ancora rifilato un nickname, un nome di fantasia, Pseudocydonia
sinensis è il nome che, dall’alto della sua eclettica cultura botanica, Camillo Schneider gli diede
nel 1906. Ma fu André Thouin nel secolo dei Lumi, giardiniere del re e figlio di un giardiniere
del re, direttore del Jardin des plantes a Parigi, a studiarle per la prima volta. Fu appassionato
sperimentatore di colture esotiche e, pare, cosí amante delle sue piante da abitare nelle antiche
serre dello stesso giardino. Era molto ammirato per la semplicità dei costumi e per la generosità
con la quale ogni anno inviava le sementi prodotte nel suo Jardin ai principali coltivatori
francesi, alle Colonie e ai giardinieri piú noti d’Europa.
Un vecchio esemplare, dal tronco robusto e dalla «testa» un po’ mal ridotta, lo si trova nel
parco del Castello di Racconigi, cosí come nel giardino del Torrione a Pinerolo, tutti e due molto
probabilmente piantati da Xavier Kurten, il grande giardiniere autore di questi due
importantissimi parchi piemontesi. Evidentemente la lezione di Thouin, morto nel 1824 nello
stesso Jardin des plantes dove era nato, si era giustamente diffusa tra gli amanti dei giardini di
tutta Europa e non solo. D’altronde i primi giardini botanici moderni e «ornamentali» ebbero vita
proprio da una profonda ricerca nata in Francia e in Inghilterra. Molto curiosi sono gli elenchi di
piante ordinate, in Francia, per il parco di Racconigi, per concretare la grandiosa visione del
principe di Carignano e di Xavier Kurten, suo giardiniere personale. Ricchissimi di voci e di
proposte cosí all’avanguardia da sembrare attuali: evidentemente il grande Jardin des plantes
stava egregiamente assolvendo ai suoi compiti. Ritornando alla nostra pianta, Thouin la chiamò
Cydonia sinensis, per via dell’origine, in contrapposizione alla diffusa e conosciuta Cydonia
japonica. Dopo quasi cent’anni fu però Camillo Schneider, noto botanico austriaco, a mettere
ordine.
Grandi o piccoli, comunque meravigliosi.

Degli ippocastani non c’è bisogno di descrizione: sono una vera bellezza. Piante di veloce
crescita, dalle foglie grandi e palmate, dai fiori a pinnacolo bianchi e rosa. Originari della
penisola balcanica e arrivati in Europa orientale attraverso le armate turche, divennero, per
l’Europa cristiana, il simbolo botanico della «riconquista». Incoraggiate da Marco d’Aviano, le
truppe austriache cacciarono le «orde» impossessandosi dei «loro» semi: semi che poi sono le
castagne belle e lucide che ben conosciamo e che cotte spesso erano date come cura ai muli, agli
asini e ai cavalli. Purtroppo, da piú di un decennio l’ippocastano è sotto stretto assedio: la
Cameraria ohridella attacca sia le giovani che le vecchie piante, con effetti disastrosi. Da alcuni
anni si sono trovate numerose cure: dalle iniezioni sotto corteccia ai trattamenti fogliari. E, tipico
fenomeno italiano, ogni vivaista e ogni fitopatologo ha la «sua». Dopo dieci anni (e piú) si è
ancora indecisi sul modo migliore per intervenire. L’unica sarà forse aspettare ancora un po’.
Alcune riflessioni: le piante in montagna (sui mille metri) non sono state per ora attaccate e se
lo sono, in modo molto marginale. Sarebbe accorto, nel caso di nuovi impianti, usare piante
selezionate tra quelle esenti da attacchi. Cosa assolutamente non facile. Non sarebbe il caso,
come per gli olmi, di aspettare un cambio di «rotta», per poi di nuovo piantare?
A differenza dell’Aesculus hippocastanum invece l’Aesculus parviflora è una pianta ancora (e
inspiegabilmente) poco nota nei nostri giardini. Nella sua terra d’origine, l’Alabama, è
conosciuto con il nome di «ippocastano nano», ma da noi, con un po’ di sano campanilismo
culturale, potrebbe anche venire chiamato l’ippocastano «dimezzato». Infatti ha foglie, fiori e
frutti piú piccoli ma molto simili a quelli del suo piú famoso parente, ma è privo del bellissimo
tronco grigio-bruno: non un albero dunque, ma un vigoroso arbusto, che può raggiungere anche i
cinque metri d’altezza. La chioma cresce larga e armonica, grazie ai numerosi polloni che
spuntano al piede. Ha foglie grandi e palmate, che in autunno assumono le piú belle sfumature di
giallo, e d’estate la pianta si ricopre dei ben noti pannicoli di fiori bianchi dalle lunghe antere
rosse. Portato in Europa nella seconda metà del XVIII secolo dal botanico scozzese John Fraser,
grande esperto di flora nordamericana e creatore di uno dei primi import-export botanici di
portata transoceanica, l’A. parviflora è una pianta rustica e di poche pretese, che preferisce
posizioni fresche, di mezzo sole. Non teme il freddo e non ha bisogno di potature: una vera
manna per giardini e giardinieri.
Il nespolo nostrano.

«Col tempo e con la paglia maturano anche le nespole»: è l’antico e saggio refrain di un
mondo agricolo che purtroppo non esiste piú.
Il nespolo delle nostre campagne, il Mespilus germanica (anche se il nome è stato ormai
usurpato dal piú diffuso e recente nespolo del Giappone), produce frutti curiosi, poco invitanti
all’aspetto. E dal gusto aspro: solo dopo averli lasciati per un certo tempo in un ambiente freddo
e buio, possono essere consumati, fino a quando, per virtuosa sublimazione di fermentazioni e
marcescenze, non siano «maturi». La buccia, dura e rugosa, e i numerosi semi interni ci riportano
ad antiche e frugali abitudini, ben lontane da quel mondo asettico in cui viviamo, fatto spesso di
pulizie estreme e levigatezze assolute. Non stupisce, quindi, come non ci sia piú posto per le
rugose nespole e per le loro maturazioni cosí empiriche e complicate.
Bianchi sono i fiori, grandi e semplici, ricordano come forma quelle del suo primo cugino il
cotogno, e hanno il pregio di sbocciare a primavera inoltrata, quando ormai le gelate tardive sono
soltanto un brutto ricordo. Molto belle sono le foglie verde opaco, che prima di cadere in autunno
diventano color della ruggine.
È indubbiamente pianta antica e rappresenta in fondo l’antitesi della globalizzazione, essendo
caparbiamente legata alla terra in cui cresce, alla piccola comunità che la coltiva, alle sue
tradizioni e ai suoi semplici mestieri. Pur presente in molti paesi europei e dell’Asia Minore,
dalla quale pare provenga, non è mai stata oggetto di una coltura intensiva e massiccia.
Volenteroso e tenace, il nespolo cresce ovunque, anche dove lo spazio è poco. Basta dimenticare
qualche seme nella terra. È un albero robusto, perché non richiede sostanzialmente alcuna cura.
Coltivato già dagli antichi romani, divenne un albero immancabile nei frutteti medioevali,
come prescriveva il Capitulare de villis, il ricco e dettagliato documento con cui il futuro
imperatore Carlo Magno stabilí le regole che dovevano essere seguite per il buon andamento
delle fattorie e delle campagne. Fu pianta, nei secoli, molto apprezzata anche per il legno,
utilizzato, secondo una fonte germanica del XVI secolo, per costruire i forti e robusti raggi delle
ruote dei carri. Indigeno in tutta l’Europa meridionale, da tempi immemorabili è stato piantato
anche nelle fredde regioni del nord: dalla Bretagna, dove è alla base di molte ricette locali,
all’Inghilterra, dove è anche chiamato «gelso nero» (Black Mulberry) e pare fosse coltivato già
dal 1000, addirittura prima delle crociate.
Fino a vent’anni fa si riteneva che esistesse una sola specie di Mespilus germanica: al
contrario, da poco tempo, è stato scoperto in Arkansas un bosco di alcuni esemplari di Mespilus
che producono frutti rossi e lucidi: una nuova specie, il Mespilus canescens.
Diverse sono le varietà presenti in Europa, tutte molto simili e spinose: dal M. g. monstruosa,
che dovrebbe fare frutti grandi come mele ma che io, onestamente, non ho mai visto, al M. g.
Nottingham, una delle cultivar piú antiche, con frutti piú dolci e di piccole dimensioni; oppure il
M. g. Royal, il piú comune di quelli a grande frutto, selezionato in Francia nella metà del XIX
secolo. Probabilmente lo stesso che è stato ritrovato coltivato in valle Ellero, nel Monregalese,
coltivato e proposto da Bartolomeo Gottero. Rustico e resistente al freddo, cresce bene in terreni
di qualsiasi tipo e non ama essere potato. Pianta longeva e robusta e non certamente alla moda, il
nespolo merita di essere coltivato, se non piú per i frutti, per fiori, foglie e buon portamento. Qui
in Piemonte, poi, l’albero dei puciu è di per sé una presenza antica, quasi storica, ed è qualcosa di
piú di un piccolo albero. Ricordi di povertà, memorie di indigenze, e testimonianze di sobrietà,
riescono spesso a prevaricare il suo semplice ruolo «vegetativo».
L’anarchico Hibiscus tardivo.

Chi lavora in giardino sa bene quanto sia importante capirsi: i nomi botanici fugano le
incomprensioni, gli errori e le conseguenti delusioni. Soprattutto parlano chiaro: se considerati
con attenzione possono rivelare informazioni importanti, spesso essenziali e, qualche volta,
anche divertenti. Come l’ibisco che ho trovato alla mostra mercato di Masino, il cui nome è già
tutto un programma: l’Hibiscus mutabilis immutabilis, eccezione dell’eccezione.
Tra i piú rustici del loro genere, gli ibischi mutabilis sono anche quelli a fioritura piú tardiva:
iniziano a sbocciare nella tarda estate, ma è d’autunno che danno il loro meglio. Se poi la
stagione è mite, continuano a fiorire ininterrottamente fino a dicembre, e non soltanto in Riviera,
ma anche nei freddi giardini del nord, piantati in un posto caldo e riparato, possono portare un
tocco di esotismo, forse un po’ incongruo, ma proprio per questo curioso e affascinante. Ma
venendo al nome, è mutabilis perché il fiore, effimero come in tutti gli ibischi, cambia colore
giorno dopo giorno: quando si schiude è bianco candido, per poi assumere tutte le tonalità del
rosa fino al lampone e, nella varietà rubra, al rosso scarlatto. Fiori chiari, appena sbocciati,
convivono sulla pianta con altri scurissimi e ormai già quasi appassiti.
Proveniente dalla Cina, fu portato in Europa verso la fine del XVII secolo da Costantinopoli,
dove da piú di un secolo i suoi famosi cugini, gli Hibiscus rosa sinensis, allietavano i ricchi ed
esotici giardini del Sultano. Dall’Europa arrivò negli Stati Uniti e lí fu vero successo, tanto che il
suo nome comune è proprio quello di Confederate Rose, il fiore della neonata Confederazione.
Altro nome comune è Cotton Rose, per via dell’ovario lanuginoso in cui maturano i semi.
D’altronde la famiglia non è la stessa di quella del cotone?
Tra tutti gli Hibiscus mutabilis ne esiste uno piú anarchico degli altri, che ama andare contro
regole ed eccezioni, non mutando affatto colore: per l’appunto l’Hibiscus mutabilis immutabilis,
che nasce, vive e muore sfoggiando un rosa magenta intenso, brillante e stabile. Me lo ha
proposto e consigliato Davide Picchi, del vivaio La Casina di Lorenzo, in Lucchesia: è una
recentissima selezione, dalle foglie profondamente palmate e dal fiore grande e semplice, forse
un po’ piú robusto degli altri. Oltre al lungo e precoce periodo di fioritura, ha molte altre qualità.
Se ben nutrito e soprattutto se molto innaffiato, cresce vigoroso e veloce, raggiungendo anche i
tre metri d’altezza. A differenza degli altri ibischi (soprattutto quelli mutabilis), anticipa la
fioritura di un buon mese, iniziando a sbocciare già in luglio, senza nulla togliere al successivo
show autunnale. Vuole un terreno umido e fertile, posizioni soleggiate e protette nei giardini piú
freddi, mentre al caldo tollera anche un’ombra leggera e luminosa. Dove d’inverno gela è spesso
coltivato come un’erbacea perenne, perdendo la parte aerea ogni anno: un’adeguata pacciamatura
comunque può fare dei veri miracoli.
Quella degli ibischi, nel mio giardino, è una vecchia storia. Il caldo e soprattutto la siccità di
luglio e agosto si sono sempre comportati da crudeli giustizieri.
Da poco tempo una piccola perdita d’acqua ha reso umido e agibile un lembo altrimenti
insignificante del mio orto: approfittando dell’inconveniente e a una certa distanza dall’H.
mutabilis immutabilis, è stato piantato un piccolo gruppo di Hibiscus Old Yella, un ibrido a
grandi fiori molto pallidi, color della luna, arrivati pure loro da pochi mesi da un vivaio svizzero.
Spavaldi e robusti (fin troppo) e soprattutto molto fioriferi, quasi riescono a non far rimpiangere i
freddolosi e troppo delicati (per il posto) Hibiscus rosa sinensis: belli e qui impossibili, se non
coltivati in vaso e ritirati a fine autunno in una serra fredda e luminosa.
Il Prunus di Charles.

Per Charles di Noailles la grande passione per il Giappone si manifestò nella coltivazione di
molte piante provenienti dall’Arcipelago e soprattutto dei ciliegi da fiore, in particolare nel
piccolo grande bosco di Prunus subhirtella autumnalis: luminoso e trasparente, rimaneva da
novembre a marzo in fiore. L’anomalo show ben si accompagnava alla collezione di camelie
sasanqua, anch’esse a suo tempo importate dal Giappone e piantate nelle scoscese balze del
giardino di Grasse. Quel Giappone lontanissimo ma presente nel suo giardino con estrema
vivacità, a cominciare dai rari carpe koi dalle inusuali tonalità azzurro-argento, regalo, pare,
dell’imperatore Hiroito. Il suo amato giardino fu un esempio d’avanguardia di come si poteva
lavorare in giardino in maniera globale, unendo le masse sempreverdi della macchia
mediterranea con le piante provenienti da tutte le parti temperate del mondo. Le Vicomte riuscí
con mano leggera a esaltare le gradevoli bellezze di un nipponico Shangri-La, senza cascare nei
pedissequi stereotipi del ponticello, ruscelletto e lanternino. Amico di «Cherry» Collingwood
Ingram, non perse l’occasione di piantare i «nuovi» ciliegi che il colonnello inglese aveva
importato in grandi quantità dall’impero del Sol Levante. «Cherry» fu il piú noto cercatore e
raccoglitore di piante rare e speciali: espertissimo di ciliegi ornamentali (che fece diventare parte
del quotidiano per il giardino occidentale), a lui si deve l’aver salvato dall’estinzione il
bellissimo Prunus Tai Haku, dai grandi e bianchi fiori. La sua monografia sui ciliegi giapponesi
fu pubblicata a Londra nel 1948, in un mondo ancora lacerato dai conflitti e dalle distruzioni
atomiche, a dimostrazione che le piante erano capaci di unire, in modo molto piú saldo di quanto
si potesse credere, luoghi e persone. In Italia, negli anni Settanta, una vastissima selezione degli
innumerevoli ciliegi di Collingwood Ingram era coltivata nel vivaio di Carlo Cappellini di
Carugo Brianza, e presentata in un catalogo unico e affascinante, curato da Nena Balsari
Berrone.
Tra i subhirtella, come già detto, vi sono alcune varietà che amano andare controcorrente e
fiorire già in questa stagione. Che l’eccezione confermi la regola è un vecchio e abusato
ritornello e in giardino si rivela quanto mai fondato. Il Prunus subhirtella autumnalis ha fiori
bianco rosati da novembre fino a primavera, ancora piú preziosi per il contrasto con le atmosfere
grigie, umide e ovattate dell’autunno. È una pianta robusta e preferisce, come tutti i ciliegi
giapponesi, i terreni ben drenati e i posti freschi e non troppo assolati. In ottobre le foglie
diventano color bronzo e, quando cadono, i sottili e numerosissimi rami si ricoprono di pallidi
fiori profumati di mandorla. Fiori piccoli, quasi evanescenti, ma cosí numerosi da dare tutti
insieme l’impressione di una leggerissima nuvola. Sembrano fragili, ma sono in realtà capaci di
sfidare la neve con temeraria dignità. Il Prunus subhirtella è bello a cespuglio, piantato in gruppi
e con un buon sottofondo sempreverde, come giustamente spiegava Charles de Noailles alla vista
del suo coraggioso boschetto. Purtroppo spesso viene foggiato ad alberello, mentre come sanno i
cultori e gli appassionati dei ciliegi da fiore giapponese si possono avere dei problemi gravi per
la salute della pianta nelle congiunture di innesto. Fiorifere e generose fin da giovani, non sono
però piante molto longeve: a trenta-quarant’anni sono già mature e spesso alla fine del loro ciclo
vitale.
Di subhirtella autumnalis ne esiste una varietà pendula, che Charles de Noailles trovava
brutta e sgradevole: del resto una natura resa preziosa dall’inusuale può essere fastidiosa e
grottescamente autoreferenziale. E con ragione: non c’è niente di piú fastidioso di un giardino
fatto di stranezze, curiosità e contorsioni, soprattutto se inutili.
Una gigantessa gentile.

Forse troppo alta, sproporzionata, certamente affascinante proprio per il suo gigantismo, la
Dahlia imperialis è da sempre giudicata una pianta da collezione o da giardini botanici: è specie
solitamente trattata come rarità, anche se molto facile da coltivare. Questa dalia, dall’alto dei suoi
sei metri (e piú!) di gambo, può essere una curiosa e vistosa vedetta del giardino: una vera
Gulliver delle piante da fiore.
La prima volta che ne vidi una fu a Villa Hanbury alla Mortola in un autunno di una
cinquantina di anni fa: rimasi esterrefatto di fronte a una pianta cosí strana, bella e gigante. Una
rarità che gli inglesi, con il loro innato intuito botanico e la loro passione per l’eccentrico,
ampiamente diffusero nei giardini temperati della Riviera e della Sicilia. Dopo la Grande Guerra
se ne persero le tracce, forse caduta vittima dell’abbandono, del disinteresse o di qualche gelata
piú severa del solito. Fu soltanto negli anni Trenta che Mario Calvino, celebre padre di celebre
figlio, direttore della Stazione sperimentale di floricoltura di Sanremo, la reintrodusse
direttamente dal Guatemala. Gli altipiani del Centro e Sud America sono il suo luogo d’origine
(come per tutte le dalie, pare) e sembra che gli ingegnosi Aztechi usassero gli alti fusti legnosi
della Dahlia imperialis, cavi come quelli del bambú, come tubi per trasportare l’acqua dalle
sorgenti alle case e ai campi. Una vera risorsa rinnovabile e velocemente «rinnovata» quindi.
Ogni anno in inverno la Dahlia imperialis perde la parte aerea che poi in primavera ricresce dal
tubero con una velocità spesso superiore al metro per mese. Fu segnalata per la prima volta nel
Libellus de medicinalibus indorum herbis del 1552, il manoscritto in antica lingua atzeca che
descrive e raffigura con accuratezza le piante medicamentose utilizzate dagli indigeni messicani.
Tutte le dalie, eccetto l’imperialis, furono introdotte nei giardini Europei molto piú tardi,
soltanto nel XVIII secolo, quando l’abate Cavanilles, illuminato direttore del Giardino botanico di
Madrid, ne ricevette i semi da oltreoceano. Prima di tutto sperimentò la coltivazione delle dalie a
scopo alimentare ma il mefitico sapore ne decise un uso puramente ornamentale tanto da
diventare di moda col nome azteco di cocoxochitl ed essere coltivate come variopinte novità nei
giardini di Spagna e in particolare come un fantastico prato di crisantemi, nel giardino cimiteriale
dell’Escorial. Mentre col nome di georgine nel secolo successivo si diffusero in tutta Europa.
A differenza delle sue sorelle, però, la Dahlia imperialis arrivò molto dopo e non conobbe
mai la fortuna (o la sfortuna) di essere un fiore di moda. La portò intorno al 1870 l’austriaco
Benedikt Roezl, già famoso scopritore di orchidee, affascinato dai grandi fiori campanulati.
Nei suoi numerosi guinness di eccezionalità, annovera anche il ruolo del «fuori stagione», con
il gradevolissimo pregio di fiorire a inizio novembre, quando il resto del giardino, se non è già
andato, normalmente va in riposo.
Preferisce terreni freschi, profondi, ben drenati e vigorosamente concimati, poiché tanto
vigore vegetativo richiede un’adeguata, abbondante e ricca alimentazione. Piantai la Dahlia
imperialis nel giardino di Revello negli anni Settanta: in quindici anni, spesso bruciata dai
frequenti primi geli di novembre, riuscí a fiorire soltanto tre o quattro volte, e non superò il
grande freddo del 1985. È evidentemente una pianta molto meno rustica di quello che sembra:
nei climi continentali è necessario scegliere una posizione molto soleggiata e molto ben riparata
dai venti. E soprattutto avere l’accortezza di ritirare il tubero a fine novembre dopo la fioritura, o,
meglio, coprirlo con una robusta e spessa coperta di foglie. Una buona pacciamatura invernale,
piú che auspicabile, è necessaria, oltre che per proteggere, per far ben crescere questa grande,
grossa e un po’ scoordinata gigantessa.
Per le camelie sasanqua la vera primavera è l’autunno.

Estemporanee, discrete, leggere e profumate, le camelie autunnali, quando di notte non ha


ancora gelato e di giorno può fare ancora caldo, sono nel loro momento piú splendido. Le
camelie sasanqua non aspettano altro. Qui, sullo stradino che va al pollaio da anni cresce, molto
lentamente, una camelia sasanqua, bella, generosa e puntuale, a fiore bianco doppio. Ma senza
nome purtroppo, perso nei traslochi di un giardino a tutti gli effetti «mobile». Sempre in fiore, da
ottobre alla prima forte gelata, smette di fiorire, con estrema discrezione, generalmente verso
Natale.
Di tanto in tanto va sottoposta a qualche leggera potatura: le camelie sasanqua non hanno, in
genere, il comportamento compatto (e spesso un po’ noioso e troppo perbene) delle camelie
primaverili. Molto spesso vanno contenute, soprattutto se invadono uno stradino come la bianca
sconosciuta.
I rami un po’ lassi e scomposti, rendono comunque la pianta affascinante. Per adoperare meno
le forbici bisognerebbe, avendo spazio a disposizione, esser grandiosi e spendaccioni e piantarne
alcune della stessa varietà insieme, a gruppi di tre o quattro. Le fantasie di crescita, a quel punto,
andrebbero a vantaggio dell’insieme e le sgraziate e furtive braccia diventerebbero,
abbracciandosi, un insieme ampio, gradevole e forte, pieno di vigore.
Pochi giorni fa ho trovato una «nuova» camelia sasanqua in un garden center, a mio giudizio
bellissima, dai rari colori scuri del rosso e del vino e dell’oro dei pistilli, si chiama yuletide, e
penso che andrebbe pure lei piantata a gruppi.
Il colore del fiore è raro e attraentissimo, è una vera sorpresa e sorpassa con i suoi sei petali,
ogni aspettativa. Penso purtroppo che avrei dovuto essere meno avaro: avrei dovuto comperarne
altre due. In gruppo di tre (almeno) sarebbero state certamente di ottimo aspetto. Ma dati i tempi
non è forse meglio aspettare un po’?
Del resto visto il successo delle camelie sasanqua nei giardini italiani, forse è meglio tenere
spazi pronti per nuovi arrivi. Diventando a tutti gli effetti una pianta alla moda sarà «vittima» di
nuove e allettanti offerte: il mercato ha le sue diaboliche leggi.
Il castagno.

Per chi predilige precise nomenclature, il castagno (Castanea sativa) è una vera sfida.
Tantissime sono le varietà, piú di cento nel solo Piemonte, spesso confuse, sovrapposte e difficili
da distinguere: sono il risultato di impollinazioni casuali e di selezioni antichissime, simili e
diverse da regione a regione e da vallata a vallata. Nella sua celebre Pomona italica, Giorgio
Gallesio scriveva che qualsiasi tentativo di catalogazione dei castagni sarebbe stato
«un’intrapresa troppo difficile»: quello del castagno è il regno degli endemismi e (giustamente,
perché no?) dei campanilismi.
Grandi o piccole, tonde o cuoriformi, striate o unite, sono pressoché infinite le variazioni sul
tema: la castagna è forse uno dei simboli piú evidenti di un’Italia ricchissima di biodiversità ma
purtroppo molto restia nel difenderla e nel valorizzarla. Fino a mezzo secolo fa, infatti, il nostro
paese ne era il primo produttore al mondo, con Campania, Calabria, Lazio e Piemonte in testa, e
spesso nelle mense piú povere sostituiva per un lungo periodo dell’anno il pane e il companatico.
Oggi anche questo primato è perso, a favore della Cina e a tutto discapito del sapore: i frutti del
Castanea mollissima, il castagno coltivato in Cina e molto diffuso anche negli Stati Uniti, dove
ha sostituito le specie locali purtroppo attaccate dal terribile cancro corticale (causato dal fungo
Cryphonectria parasitica), o quelli della Castanea crenata, robusta primadonna in Giappone,
non sono per nulla paragonabili. Testimonianze di questo glorioso passato sono tutt’intorno a
noi: i boschi di castagni rappresentano uno dei landmarks piú tipici delle nostre colline e delle
nostre montagne. È un albero che cresce in tutte le terre, ben preferendo quelle di mezza
montagna e le meno ricche di calcare. Alcuni sono esemplari vecchissimi, forse i piú vecchi
d’Europa, come il castagno dei Cento Cavalli, a Sant’Alfio, sulle pendici dell’Etna, che pare
possa contare piú di duemila anni. Molto famoso all’estero e, come al solito, quasi sconosciuto in
Italia, la leggenda vuole che sotto le sue generose fronde abbiano trovato riparo la regina di
Napoli Giovanna e l’intero suo seguito nel lontano XIV secolo. Un albero dei primi al mondo a
essere oggetto di un apposito atto di tutela e oggi un ammonimento vivente di fronte ad
amministrazioni spesso cosí lente e titubanti in fatto di verde.
Castagni di tutti i tipi e per tutti i gusti sono stati presentati a Masino dalla Floricoltura
Lusernese, guidata dal giovane ed entusiasta Michele Bounous. Ed è stato un vero successo,
soprattutto per la rara e famosa castagna Bouche de Bétizac, una varietà a frutti grossi che pare
resistere meglio di tutte le altre al cinipide galligeno del castagno, la famigerata vespa che
provoca vistosi rigonfiamenti su foglie e germogli, responsabile di vere e proprie stragi nei nostri
castagneti. Come tutti gli ibridi eurogiapponesi, ottenuti dall’incrocio del nostro C. sativa con il
nipponico C. crenata, è un albero a sviluppo piú contenuto, che entra in produttività molto
presto, ha frutti precoci e resiste meglio agli attacchi di fitoftora e cancro corticale. Davvero
degna di nota è poi la collezione di varietà piemontesi: accanto ai tradizionali marroni della Val
Susa e della Val Pellice (e a quelli rinomatissimi d’oltralpe, come i Marron de Redon e i Marron
sauvage), le migliori pare siano le Brunette della Val Macra, le Castagne della Madonna, tipiche
dei Roeri, e le Neirane della Val Susa, di piccola pezzatura ma gustosissime, ideali da arrostire. È
sempre bene, quali che siano le prescelte, affiancarle con varietà diverse, in modo da favorirne
l’impollinazione reciproca. È infatti molto saggio porre le migliori basi a profitto della natura in
modo che possa essere libera e soprattutto efficace: per il giardiniere è forse uno dei piaceri piú
profondi.
Lo spettacolo del ginkgo.

Tradizionalmente (e, forse, geneticamente) i francesi sono portati alla gloire e lo chiamano
l’Arbre aux mille écus: l’albero dai mille scudi. Gli inglesi invece, piú giardinieri e botanici, lo
indicano come Maidenhair Tree, l’albero del capelvenere. Il suo vecchio nome, Salisburia
adiantifolia, voluta dal botanico Smith, è ormai da tempo decaduto: voleva celebrare i Salisbury,
i membri della famiglia Cecil, sempre presenti, di secolo in secolo, sia nel governo dell’impero
inglese che nei loro famosi e storici giardini. Adiantifolia ricordava invece le foglie a ventaglietti
del capelvenere, simili e bellissime se non per forma, per dimensione!
Tutti gli autunni le «nostre» foglie gialle, del piú bel zafferano, dei ginkgo biloba coprono con
enormi tappeti i prati a loro sottostanti e quelli vicini. Lo spettacolo romantico e luminoso si
ripete di anno in anno ed è, se si tratta di piante adulte e isolate, sempre grandioso. Poche piante
«perdono» le foglie in modo cosí massiccio e spettacolare: foglie coriacee, consistenti e nervose,
composte di tanti aghi uniti gli uni agli altri. Aghi, perché i ginkgo biloba sono delle conifere. E
come molte conifere, da giovani, crescono magre e dinoccolate mentre con la maturità, come i
cedri del Libano o quelli dell’Atlante, si trasformano in enormi e larghi alberoni.
Conifere però uniche nella loro specificità, tanto da renderle un’eccezione vegetale di grande
rarità e, per nostra fortuna, di grande bellezza!
Il ginkgo biloba è pianta di introduzione relativamente recente: in Occidente è arrivato due
secoli e mezzo fa, forse dal Giappone e in seguito dalla Cina, della quale è invece originario. In
Occidente fu subito molto apprezzato come pianta bella e curiosa, particolarmente degna degli
arboreti ed elegantemente utile nei parchi dell’epoca, tanto che nei grandi e vecchi parchi delle
isole britanniche venivano copiosamente piantati e cresciuti soprattutto per la loro «scena»
autunnale sia come piante «da parete» sia da «tappeto». In natura, nei boschi originari, non
coltivati, pare ce ne siano rimasti ben pochi: furono trovati all’inizio del secolo scorso soltanto
nelle regioni dello Chekiang. Dai cinesi infatti venivano coltivati da tempi immemorabili per
ornamento e per devozione vicino ai templi buddisti e tanto se ne diffuse l’usanza fino a
coinvolgere quelli dello stesso Giappone.
Da giovani, i ginkgo biloba, magrolini e anonimi, sembrano schizzinosi e difficili,
mostrandosi lenti a crescere e nello stabilirsi. E come spesso capita per i grandi alberi con il
tempo diventano, al contrario, piante veloci, aggressive e voluminose.
In Italia il ginkgo biloba è pianta facile perché di «bocca buona»: nel senso che pur amando le
nostre temperate terre del Nord e del Centro Italia, può crescere in un’ampia «forbice» climatica,
dal Trentino alla Sicilia, preferendo giustamente i terreni profondi e ricchi, mal sopportando
quelli troppo ventosi, secchi e rocciosi.
Appagati, felici e famosi a Torino sono i vecchi alberi in piazza Cavour, che forti della loro
forma adulta imponente sono diventati le vere e smaglianti sentinelle dell’autunno in città. Un
consiglio? Evitare le piante «femmine», quelle che portano semi: è meglio preferire (e
richiedere) piante sterili. I semi, vittime di una noiosa e odorosa fermentazione, puzzano e spesso
anche molto forte! I cinesi e i giapponesi si dice usino invece mangiarne arrostiti i «noccioli».
Perché non provare?
Le foglie dell’acero.

Gli aceri di Montpellier (Acer monspessulanum), con la loro chioma giallo pallido,
infiammano le campagne dell’Italia centrale nei giorni di fine autunno. Qui in giardino hanno
mantenuto le foglie fino al solstizio, che per una pianta a foglia caduca è già quasi un record:
piccole e trilobate, sostenute da un quasi invisibile picciolo, si muovono leggere alla minima
brezza. Piantati in giardino al bordo di un piccolo bosco di lecci, questi aceri formano un vivo e
gradevole contrasto con le masse compatte e ombrose dei loro vicini. Parente stretto del ben piú
comune acero dei campi, l’Acer campestre, e del bellissimo Acer creticum, l’acero semi-
sempreverde che cresce nelle pittoresche zone dell’Epiro e della Grecia insulare, l’Acer
monspessulanum è una pianta rustica e frugale, ottima per rimboschire terreni secchi, sassosi e
calcarei. Come quelli degli altipiani del Causse, nel sud della Francia, o in Corsica, dove li vidi e
ne rimasi incantato lungo la strada che porta alla «foresta di fango». Decisi subito che ne avrei
piantati alcuni nel giardino di Revello, ma la ricerca delle giovani piante si rivelò piú difficile del
previsto. Proposte sui cataloghi, al momento della richiesta non erano mai disponibili. Penso che
fossero giudicati alberi fuori moda (come credo anche ora). Ne trovai finalmente alcune piante,
quasi dimenticate, nel vivaio Casa Fiorita a L’Île-Rousse, sempre in Corsica. E dire che è una
pianta facile da moltiplicare, perché porta numerosissimi semi, le belle samare, e sarebbe
sufficiente metterli in un vaso ricoprendoli con un centimetro di terra buona e sciolta. Un piccolo
bosco di aceri di Montpellier potrebbe essere il figlio di pochi semi ben seminati e poche piante
ben piantate.
Inverno
Un buon giardino si vede nei momenti difficili.

Come diceva Christopher Lloyd, un giardino ben «temperato» dà il suo meglio nelle stagioni
difficili, quando nulla sembra possibile se non grigiore e attese. Da anni, piano piano e con
temeraria fiducia, sto cercando di portare i miei scoscesi metri quadri a dimostrare la saggezza
giardiniera del grande e vecchio. Come le camelie sasanqua, con i loro bellissimi fiori e le loro
prolungate fioriture, vengono a temperare l’autunno e il primo inverno, cosí i sottoboschi di
bucaneve e di ellebori, con l’aiuto del quartetto piú formidabile: albicocco da fiore, daphne,
hamamelis e calicanto, ci ricordano che non per tutte le piante i sonni sono uguali. Al fondo del
viottolo, di dubbia provenienza (soltanto perché è arrivata tanti anni fa e non mi ricordo proprio
piú da dove), profumatissima notte e giorno, al sole e al freddo, la Lonicera fragrantissima
assolve in maniera sobria e taciturna, senza strilli né proclami, al suo umile e gradito compito. In
confronto al calicanto, il piú precoce di tutti, è una pianta dall’aria sommessa e un po’ sottotono,
capace però di regalare un profumo intenso e prezioso, proprio perché inaspettato. D’altronde il
nome parla chiaro.
La vidi per la prima volta molti anni fa, poco dopo Natale, nell’allora ricchissimo giardino di
Villa Hanbury alla Mortola e la sorpresa fu veramente grande, in contrasto con i suoi fiori
bianchi minuti e delicati, quasi insignificanti. Avrei voluto spiccarne una talea, perché non
pensavo proprio di trovarla in altri vivai: non c’è nulla di piú comune tra gli appassionati
giardinieri che la tentazione delle talee con furto. Tuttavia la sottile certezza di ritrovare la pianta
sul ricchissimo catalogo di Allegra, l’allora famoso vivaio di Catania, mi trattenne. Per la
cronaca, il catalogo Allegra la Lonicera fragrantissima non ce l’aveva disponibile, la trovai in
seguito, ma non ricordo dove.
La L. fragrantissima, proveniente dalla Cina, fu portata in Europa soltanto alla fine del XIX
secolo e trovò un’immediata accoglienza nei giardini inglesi grazie alla massima rusticità che la
contraddistingue. Anche se non famosa per longevità, una delle piú note al mondo è quella del
giardino del castello di Chatsworth nel Derbyshire, che avrebbe piantato Joseph Paxton. È
curioso che sia stato proprio lui, l’inventore anche delle prime serre in vetro, a nomenclare,
insieme all’appassionato e noto botanico John Lindley, una pianta come questa Lonicera che di
serre proprio non ne ha bisogno. È infatti resistentissima a tutti i freddi e ben si adatta a qualsiasi
terreno, anche al piú povero. E tanto per arricchire la lista dei pregi di questo arbusto umile e
modesto, l’ombra non lo spaventa e non richiede praticamente potature, se non un leggero
contenimento dei rami dalla curiosa forma a fontana, sottili e lievemente ricadenti. Le foglie
sono coriacee, di un bel verde scuro, e cadono tardivamente, proprio prima che inizi la fioritura:
nei climi piú miti possono addirittura comportarsi da sempreverdi. In primavera ai fiori seguono
le bacche, che piú tardi diventano rosso acceso e costituiscono una ghiotta risorsa per i merli e
per i tordi. Si moltiplica in maniera estremamente semplice, poiché interrando parte dei rami si
riescono a provocare efficaci propaggini, e, come tutte le Lonicera e soprattutto come tutte le
caprifoliacee, è di crescita veloce. Arruffata e generosa, sobria e rustica, estemporanea e
fragrantissima, non è una pianta primadonna: è una validissima comparsa, purtroppo poco
conosciuta proprio perché non ama i protagonismi. Un po’ l’opposto della quasi contemporanea
forsizia, sempre brillante e vistosa: tutto colore e niente profumo. Una pianta da riscoprire, la
Lonicera fragrantissima, che ben può diventare uno dei pilastri del sempre piú corteggiato
giardino shabby chic.
Una pianta composta.

Il Pyracantha navaho è piccolo, denso, di bel portamento, coperto di piccole foglie strette e
lanceolate, e in confronto ai Pyracantha usuali è nano. Le bacche sono particolarmente
gradevoli: rotonde e un po’ appiattite (a forma di mini mandarini), sono rosso arancio.
Maturando con lentezza, da pallide verdi e opache, diventano arancio-rosso, all’inizio
dell’inverno, come seguissero le lente evoluzioni del sole, concentrando i colori piú vivi e maturi
nel periodo di maggior buio. Quasi fosse una risposta, una compensazione.
Sono piante forti e soprattutto difficilmente attaccate dal famigerato «colpo di fuoco», il
terribile male che colpisce da anni crateghi, biancospini, certa frutta e contro il quale c’è ben
poco da fare. Anzi, il piú delle volte non c’è proprio niente da fare.
Forte dei suoi antenati, tutti cinesi, sta conquistando per i suoi meriti (e di quelli che li hanno
ottenuti e selezionati) la gloria dei giardini di tutto il mondo. «Figlio» di Pyracantha angustifolia
(del quale ricorda le foglie grigie e piccole) e «nipote» di Pyracantha rogersiana (dal quale
eredita il famoso e bell’arancio delle bacche), è pure «nipote» di Pyracantha atalantioides, un
bellissimo Pyracantha dalle grandi foglie, proveniente dalle terre occidentali della Cina. È
diventato in pochi anni una vera vedette dei giardini pubblici e privati: dove si comporta da
saggio e perfetto inquilino. Non stravacca, non si impone e, lentamente e con perseveranza, si
allarga sul terreno facendosi notare per i bellissimi e bianchi fiori di maggio e per le colorate
bacche invernali.
In giardino, qui, non li ho ancora piantati: non ho ancora individuato il posto giusto. E
soprattutto non voglio che il mio diventi un giardino «botanico»: spero e faccio di tutto perché
sia soltanto un giardino. Interessante e forse bello.
Ne ho piantati invece in due giardini privati: me li ha fatti provare insistendo un po’ il bravo e
sapiente Silvio Armando, vivaista in Verzuolo. Appena visti, ancora nel loro vasetto, ho capito: i
Pyracantha navaho sono particolarmente gradevoli sebbene arruffati e decisamente allegri anche
se spinosi. Ed è facile capire il loro successo: introdotti sul mercato soltanto negli anni Settanta,
provenienti da ibridi americani ottenuti nel National Arboretum di Washington, sono un buon
esempio di innovativo vivaismo di qualità. Con compostezza, con generosità e con allegria si
sono velocemente conquistati un posto nei giardini, un vero posto al sole.
Rischiare.

Molte volte un bel giardino è anche il risultato di scelte audaci, anche incoscienti e, come ben
si sa, l’eccessiva prudenza spesso rischia la noia. Incantato dalle sue enormi foglie a ventaglio,
con questo spirito, anni fa ho deciso di piantare il Tetrapanax papyrifer nel giardino di Revello.
Visto fino ad allora soltanto nei giardini temperati di Villa Hanbury o dell’Orto botanico di
Palermo, lo incontrai con grande stupore in un giardino al confine tra il Trentino e il Veronese,
sui bordi dell’Adige. Un gran cespo di Tetrapanax, piantato forse per errore da un giardiniere
temerario, era pieno di vitalità e vigore. Fu un invito a provare.
Sempreverde nel suo ambiente di origine, l’isola di Formosa, con i freddi degli inverni
piemontesi si comporta come una pianta perenne: perdendo d’inverno la parte aerea, per
rivegetare dalle radici sotterranee in primavera. In poco tempo, di anno in anno se ne vedono i
risultati, superiori alle aspettative. Protetto dal muro della casa esposta a mezzogiorno, raggiunge
ogni anno, e rapidamente, i due metri d’altezza e conserva fino all’inverno le sue foglie lobate,
piú scure sulla pagina superiore, ricoperte da una sottile lanuggine sulla inferiore. Purtroppo non
riesce a fiorire, ma non si può certo pretendere l’impossibile. Si è trovato bene accanto alle radici
di alcune piante di bosso e il suo fogliame, che cresce apicale sui lunghi steli, crea un armonico
contrasto con i minuti e compatti vicini. Forte e robusto ha esondato dai posti di origine, si è
espanso in modo casuale, conferendo al giardino un che di vivace e misterioso. Le sue foglie
imponenti e coriacee hanno vistosamente scombussolato la zona, prima appunto sobria e
ordinata, rendendola prorompente e selvaggia.
Solitamente conosciuto nei nostri giardini per le sue qualità ornamentali, il Tetrapanax ha una
storia molto meno «futile» di quanto si creda. Nella sua terra d’origine era una risorsa preziosa e
concreta per la finissima carta che si ottiene lavorando il midollo dei rami, chiamata dagli inglesi,
con un’approssimazione tipicamente colonialista, «carta di riso» per il colore bianco purissimo,
quasi traslucido. Fino alla metà del XIX secolo questo arbusto era pressoché sconosciuto in
Europa; soltanto nel 1852, con notevoli difficoltà e infinite premure, fu portato il primo
esemplare vivente ai Kew Gardens e lí messo sotto osservazione da William Hooker, che lo
descrisse nell’Hooker’s Journal of Botany and Kew Garden Miscellany. In questo testo si
racconta l’affascinante storia della pianta, utilizzata già dal III secolo d. C. per produrre eleganti
fiori di carta, dai colori sgargianti, che decoravano le feste dell’Imperatore e della sua corte. La
«carta di riso» si ottiene attraverso un processo lungo e faticoso, che dura almeno un anno.
Sempre in Cina, i fogli di carta, incorniciati da nastri di seta, divennero il supporto per
raffinatissimi dipinti ad acqua, che raffiguravano paesaggi, giardini e in alcuni casi carte
geografiche. La reazione della filigrana all’acqua conferiva al disegno una caratteristica vivacità.
Pare che nella Cina meridionale esistano veri e propri boschi di questa utile pianta e non
stento a crederlo, poiché anche nelle fredde terre cuneesi si riproduce con facilità e in modo quasi
invasivo e, se lo spazio di coltivazione non è ampio, è bene inserire delle barriere per contenerne
i polloni. Gli accorgimenti che richiede sono pochi e semplici: posizione calda e riparata, terreno
ricco e permeabile e un minimo d’innaffio nei periodi piú asciutti. A mio giudizio, anche se nelle
terre piemontesi il Tetrapanax papyrifer non rimane sempreverde e non riesce a fiorire, a
differenza di quelli della Riviera e dei posti piú temperati, vale la pena provare a coltivarlo.
Correre ai ripari.

Guardando meglio ho scoperto di aver dimenticato fuori, in giardino, al freddo di dicembre,


un grande vaso di vaniglie (Heliotropium arborescens): anche se strapazzate dalle prime gelate
(per fortuna leggere e non persistenti), sono ancora vive. Le ho portate immediatamente in una
stanza luminosa che funge d’inverno da serra temperata. Spero sopravvivano: è pianta
semitropicale, delicata ai freddi, da posti ben riparati, infatti dà il suo meglio nei cortili assolati o,
come in Inghilterra, nelle stesse serre da giardino. Con i gelsomini di Catalogna ha inondato di
dolcezze, negli ultimi due secoli, aranciere e serre d’Europa. Meritandosi senza dubbio il ruolo di
Arbre magique per il giardiniere.
Provenendo dall’America del Sud (dal Perú per l’esattezza), l’Heliotropium arborescens e i
suoi ibridi fioriscono bene profumando, qui da noi, da aprile a ottobre: hanno colori speciali che
vanno dal viola scuro, quasi nero, al viola chiaro, dal mauve al bianco. Corroborate da
snobbissimi nomi come Chatsworth, Princess Marina, Regal Dwarf e Lord Roberts, sono state il
simbolo di un giardinaggio ricco e fastoso (e ora del tutto démodé) fatto, appunto, anche di nomi
roboanti.
Era normalmente riprodotta, nelle sue varietà, con facili talee erbacee che, con il caldo della
serra e della stagione riuscivano a fiorire bene e presto. Durante il variopinto regno delle annuali
di eduardiana memoria la faceva da garbata prima donna, tanto che, trattata da perenne, poté
diventare felice protagonista di bordi misti nei giardini inglesi d’Italia. Da Villa Hanbury a Villa
Rufolo, dalla Pergola di Alassio a Villa Malfitano a Palermo, dove piantate a migliaia,
profumavano intensamente e giustificavano la loro gradevole e quieta presenza.
Preparare l’estate.

È arrivato il momento di pensare ai lamponi, gradevolissimi e profumati compagni dell’estate:


dicembre è il mese migliore per mettere a dimora le nuove piantine e per potare senza paura
quelle vecchie, riducendole a circa sessanta centimetri dal suolo. Nelle varietà rifiorenti, quelle
che generosamente offrono una prima raccolta a giugno-luglio e una seconda a fine settembre,
sui polloni dell’anno, si può anche pensare a una soluzione piú radicale: con un taglio netto, a
livello terra, si ha un solo raccolto all’anno, quello autunnale, ma dalla inaspettata abbondanza.
Tra le tantissime specie esistenti, compresa quella nordamericana a frutto nero, cosí simile
alla mora, il lampone europeo (Rubus idaeus), quello color del rubino, è a mio giudizio sempre il
migliore. La vecchia varietà rossana, una delle piú tardive tra le rifiorenti, qui nelle mie
montagne veniva raccolta ancora dopo i Santi: un ultimo incoraggiamento prima del lungo
inverno.
Il lampone, per ora, non ha malattie: è una pianta rustica e robusta. Ama terreni freschi,
subacidi e soprattutto molto ben drenati: il ristagno idrico è infatti il suo piú pericoloso nemico.
Date le sue radici superficiali, vitale è la pacciamatura. Nei mesi freddi e piovosi uno spesso
strato di letame maturo non può che fare del gran bene, proteggendo e nutrendo la pianta in
modo naturale e continuo.
Anche le rose, se a radici nude, vanno piantate quando vanno in dormienza, con il freddo.
Mentre, se in vaso, possono essere piantate in ogni momento dell’anno: ben sapendo comunque
che, per i trapianti, l’inverno è sempre consigliabile. L’importante è comunque piantarle bene, in
terra ricca, profonda e, possibilmente, ben distanti le une dalle altre. Quella di piantarle fitte è
una vecchia e discutibile eredità che data al secolo passato: chissà perché i giardinieri di un
tempo (anche quelli bravissimi, gli eredi, tanto per dire, degli insuperabili Roda, dei Giacomasso,
degli stessi Barni di Pistoia) piantavano le rose dei roseti a trenta-quaranta centimetri di distanza.
Fitte, vicine e purtroppo pronte a essere malate e continuamente indebolite!
Come quasi tutte le piante, le rose non fanno eccezione: per crescere bene e sane hanno
bisogno di aria e di tanto sole. Il famoso e comune mal bianco per scatenarsi, dilagare e infierire,
non aspetta che arie pesanti, soli razionati e piogge intermittenti.
Purtroppo i grandi giardinieri (come pure i meno esperti) hanno da sempre pensato ai roseti
come posti di guerra attiva dove i veleni sotto forma di anticrittogamici e di insetticidi potevano
imitare i fronti di guerra piú noti: di tutti i posti di un giardino sono stati le vittime preferite di
quel concetto, per fortuna vecchio e sorpassato, che ne faceva un ospedale asettico e velenoso.
Le rose andrebbero, per evitare il piú possibile malattie, piantate con una bella area a
disposizione, altro che trenta centimetri! Per quelle dei «vecchi» roseti, come la tea, un buon
metro e anche piú le une dalle altre potrebbe essere soltanto il giusto.
L’ho provato, a suo tempo, con delle iceberg: fu un vero successo, facili da pulire e
generosissime nelle fioriture, furono un ottimo esperimento. Piantate larghe, felici delle ariose
situazioni, svilupparono bene e generosamente e soprattutto non ebbero bisogno di aiuti chimici
esterni. Il mio non si può chiamare un roseto, non né ha le caratteristiche né la superficie: si può
parlare di alcuni gruppi di rose piantate vicine per fare massa. Massa modesta ma sana e robusta:
il sole e il vento sono di gran lunga i migliori insetticidi e anticrittogamici!
E il giardino, roseto compreso, cresce con vita facile: da qualche posto, anche piccolo e
ridotto, bisognerà pure incominciare a rendere «sostenibile» e pulita la terra che abitiamo.
Il dolce dell’inverno.

In Italia il primo cachi fu piantato nel giardino di Boboli nel 1871 e fu detto proveniente dal
Giappone. Anche se, come per molte altre piante, era invece proveniente dalla Cina: si tratta
della solita e frequente babele botanica dovuta forse all’ampiezza dei posti e alla lentezza dei
tempi.
È specie decorativa, elegante e soprattutto molto generosa, tanto da essere chiamato dagli
stessi cinesi l’albero delle «sette» virtú che, in modo un po’ meticoloso, cerchiamo di ricordare.
Prima: la sua longevità. Seconda: la sua folta ombra. Terza: l’ospitalità agli uccellini. È un albero
che piace: evidentemente dà loro un sicuro e apprezzato posto per ben nidificare. Quarta: pianta
robusta e sana, non è attaccata, per il momento, da malattie e da parassiti. Quinta: il colore
autunnale delle foglie rosse e arancio e resistenti per lungo tempo sull’albero. Sesta: la
consistenza e il carattere dell’ottimo legno che, vicino parente dell’ebano, è durissimo (e bello).
Settima starebbe nella ricchezza che, a foglie cadute, si può riscontrare di anno in anno nel
terreno circostante l’albero.
Ricco di tutte queste «virtú» l’albero del cachi fu talmente apprezzato e amato, da esser
richiesto molti secoli fa in Corea e in Giappone e, in seguito, da loro fino a noi, dove tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento ebbe un momento di grande popolarità: in Italia,
soprattutto nel salernitano, dove trovò posti adatti a grandi piantamenti e a coltivazioni. E con il
nome di Diospyros kaki entrò nel novero delle piante da frutta pregiata e ricercata. Famosi in
Sicilia divennero i cachi di Misilmeri, vicino a Palermo: dolci, consistenti e molto apprezzati
ricordano nella forma dei mega e opalescenti mandarini schiacciati ai poli.
È pianta robusta ben adatta ai nostri frutteti e ai nostri giardini, non ama il freddo pur
sopportando un «buon» meno dieci. In Piemonte viene (giustamente) e normalmente piantata in
posti riparati e ben esposti.
Ogni anno l’albero carico di frutti e spoglio delle foglie, straricco e generoso, mi ricorda
grandi e speciali gioie non soltanto estetiche: indimenticabile la fortuna di avere numerosi frutti a
tavola nei freddi e invernali giorni del dopoguerra, quando lo zucchero e i dolci erano ancora un
autentico privilegio.
Duemila anni di selezione e di «lavoro» da parte dell’uomo, e soprattutto da parte degli
esperti giardinieri d’Oriente, non sono passati indenni: i cachi vaniglia o i cachi mela sono le piú
note varietà tra le innumerevoli.
Infatti la famiglia dei cachi, i Diospyros, è decisamente allargata, tanto da contarne
quattrocentosettantasei specie, che vanno sia dall’Ebano (e dal suo nero, duro e famoso legno), ai
cachi della Virginia, coltivati questi ultimi piú per ornamento che per i frutti, curiosi,
piccolissimi, vere miniature di quelli nostrani.
Da queste parti, e praticamente in tutta Italia, un buon drenaggio, una esposizione in pieno
sole, meglio se riparata dai venti di tramontana, servono a far diventare una delle piante piú belle
del frutteto (e del giardino) un solido ed efficace compagno di vita: i frutti sono pure
generosamente gradevoli anche per i piccoli uccelli (dalle cince ai merli). Maturi possono
diventare i palesi testimoni di un gioioso scambio di profonde felicità.
L’agrifoglio.

L’agrifoglio fu pianta molto amata da Roger de Candolle, l’ultimo di una famiglia di grandi
botanici che per piú di due secoli illustrarono la storia del raffinato e autorevole mondo
giardiniero di quei tempi: nel suo giardino del Vallon, nei boschi che chiudono Ginevra verso il
confine con la Francia, De Candolle ne riuní una collezione enorme, raffinata, completa e unica
al mondo.
È pianta autoctona in molti posti d’Europa, tanto nelle foreste dell’Irlanda che sulle montagne
della Sicilia: potrebbe essere presa a simbolo dell’unità d’Europa, almeno di quella botanica.
Considerato un po’ ovunque pianta «eccezionale», forse per le sue foglie sempreverdi, lucide e
coriacee e per le drupe, di un bel rosso vivo, che colorano l’albero durante le giornate invernali e
hanno ormai acquisito un’aria universalmente natalizia. In passato è stato spesso oggetto di
venerazione popolare per molte culture pagane; pare infatti che i Celti lo venerassero durante la
festa dello Yule, nel giorno del solstizio d’inverno, come simbolo della rinascita del sole e che
proprio lo stesso giorno, in occasione dei Saturnali, i romani ne portassero ramoscelli in
processione.
Dalla Sassonia alla Bretagna, dove lo si ritrova ancora nel nome di molte località, all’arrivo
dell’inverno l’agrifoglio veniva esibito sulle porte delle case e delle stalle per proteggere dal
male uomini e bestie con le sue foglie spinose. Usanza diffusa al punto che il cristianesimo non
riuscendo a sradicare il culto di un albero cosí amato, fu costretto a sovrapporvi nuovi significati
legati alle spine della Passione di Cristo.
L’Ilex aquifolium, nome attribuito alla fine del XVI secolo dal botanico svizzero Gaspard
Bauhin, dà il suo meglio se piantato a gruppi: i vecchi giardinieri consigliavano di inserire un
albero «maschio» ogni tre esemplari «femmina». Ogni pianta porta infatti fiori di un unico sesso
e soltanto quelli «femmina» producono le bellissime bacche rosse. Bellissime ma velenose per
l’uomo: l’agrifoglio non è albero che si dovrebbe usare per decorare i cortili delle scuole, almeno
di quelle per i piú piccoli. Dei frutti sono invece ghiotti gli uccelli, che amano anche proteggersi
tra il fogliame spinoso per scappare dai grandi predatori. Un piccolo bosco di agrifogli può
rendere il giardino un luogo pieno di accoglienza e di vita.
Quella dell’Ilex aquifolium è infatti una famiglia numerosissima, che conta centinaia di
variazioni sia per forma che per colore delle foglie e delle drupe, tutte variabili che dipendono
anche dal diverso luogo d’origine (dai paesi piú caldi, come il Nord Africa, il Portogallo, le isole
Canarie a quelli piú freddi, come l’Olanda e l’Inghilterra). Sono tutti ugualmente rustici, ma nei
climi piú rigidi è consigliabile scegliere una posizione riparata, in pieno sole, cosí come buona
norma è coprirne le radici con ricca e buona pacciamatura. Una delle piú antiche varietà è lo
spinosissimo I. a. ferox, non per nulla chiamato agrifoglio del porcospino, è ottimo per delimitare
i confini, ma purtroppo non porta frutti. Molto proposte sul mercato e numerose sono anche le
varietà a foglia variegata, delle quali non riesco a capire il fascino. L’agrifoglio è stupendo nelle
sue forme semplici e non gli serve null’altro per impressionare. È una pianta facile da coltivare.
È sufficiente evitare terreni con ristagni d’acqua e non infastidirla con numerosi trapianti. La
lentezza della crescita è compensata da una straordinaria longevità. Lo sanno bene gli agrifogli
giganti del Pian dei pomi sulle Madonie, in Sicilia: ormai da quattrocento anni formano un bosco
fitto eppure luminoso. Un vero miracolo.
Una delizia spinosa.

Non si sa esattamente da dove provenga, pare dal bacino mediterraneo: il cardo era già molto
apprezzato nelle mense greche e romane.
Amarognolo e laborioso da cucinare, il cardo evoca antiche tradizioni contadine e da pochi
anni storie recenti di recupero e valorizzazione. Come quella del riscoperto cardo gobbo di Nizza
Monferrato, oggi presidio Slow Food.
Il notevole sviluppo vegetativo, in altezza e larghezza, e il conseguente apparato radicale
molto sviluppato richiedono zolle profonde, ben lavorate, ben concimate e ben drenate. Un mese
prima della raccolta, per renderli piú teneri e dolci, i cardi vengono rincalzati con la paglia o con
la terra, per proteggerli dal freddo (infatti non resistono alle gelate). Lo sa bene chi da secoli
coltiva il cardo Spadone, nelle terre sabbiose del fiume Belbo: ogni settembre viene coricato su
un lato, ricoperto di terra e costretto a crescere gobbo. Le varietà di cardo sono numerosissime e
vanno dall’Etiopia fino alla Scozia, del qual regno il cardo diventò lo spinoso simbolo. In Italia
famosi sono il gigante di Romagna e il cardo di Bologna, dalle foglie grigie, ma le eccellenze
provengono proprio dalle fredde terre sabaude: accanto al già richiamato «gobbo», soprattutto il
cardo riccio di Asti e quello bianco di Chieri. Se trascurati o meglio se lasciati tranquilli i cardi e
i carciofi portati a fiore possono essere preziose e vistose presenze nei giardini, affascinanti e
degne del piú rigoroso Art and Crafts. Orto, cucina e decorazione, se di qualità, possono avere
legami ben piú stretti di quanto si possa pensare.
D’inverno piantiamo soltanto.

In giardino servono pochi verbi, facili e con un significato chiaro e univoco. Termini levigati
dal tempo e dall’uso, ricchi di senso pratico: piantare, potare, pacciamare, diserbare, vangare e
cosí via. Sinonimi eruditi sono utili solo fino a un certo punto e i neologismi vanno guardati con
una certa, sana diffidenza, soprattutto se inutili e brutti di suono.
Ne è un esempio evidente il verbo piantumare. Gli alberi a mio giudizio si piantano, si
possono mettere a dimora, ma piantumare proprio no. I principali dizionari di italiano non lo
contemplano, cosí come per il sostantivo piantumazione. Segno che la nostra lingua
fortunatamente resiste (per quanto ancora?) a eccessivi involgarimenti. Per qualcuno piantumare
è un termine che si riferisce alla risistemazione di grandi spazi secondo un progetto coerente, una
questione di quantità e di visione d’insieme dunque, che non si capisce perché dovrebbe
trasformare il semplice gesto di chi pianta in qualcosa di asettico e quasi meccanico. Già nel
XVIII secolo lo Spallanzani parlava di piantuma per indicare la piantina coltivata nel semenzaio e
in attesa di trapianto e pare che il coltissimo Leopardi, in una lettera a un vivaista, ne abbia fatto
uso. Ma si trattava di un’espressione gergale, diffusa tra i vivaisti, che nulla ha a che fare con il
verbo piantumare, d’origine tardo novecentesca. Compare nel dialetto lombardo, come verbo
piantumà, ma non significa piantare ma piuttosto travasare. Lasciamo questo neologismo ai testi
di legge, dove viene sempre piú spesso richiamato; è evidentemente una parola da burocrazia e
da appalti. In giardino, per favore, piantiamo! Piantiamo soltanto.
Le viole di Natale.

Coglierne almeno una, avvicinarla al naso e sentirne il profumo, è un gesto antico: le violette
vanno colte e annusate da vicino. Sotto il muro a secco, sono già fiorite le prime due: una sfida?
Timide, impacciate, il gambo corto e tozzo sulle loro ben note foglie a cuore, appiattite. Nei
momenti difficili evidentemente la statura è d’impaccio e nelle giornate di gelo non esporsi è
ragione di vita.
Quelle fiorite sotto il muro a secco sono violette «antiche», a memoria d’uomo sono sempre
cresciute e fiorite in quel breve tratto e da sempre quel cespo è fiorito prima di Natale. Fanno
parte, con altre piccole e modeste osservazioni, della felice memoria di quei luoghi.
Di anno in anno le viole odorate (le mammole!) ci ricordano i veri profumi di una volta: sono
fedeli, antichissimi documenti di un’era trascurata, sepolta e perduta. Sono profumi antichi e per
fortuna intatti, non sollecitati e falsati dall’uomo: selvatiche in natura, libere da manipolazioni le
violette odorose, insieme ai mughetti di maggio, ai gigli di San Luigi e ai ciclamini di montagna
(quelli che fioriscono a luglio) esalano profumi antichi e puri. E sono ormai rari: i ciclamini di
montagna, per esempio, a differenza di quelli tardivi e settembrini, i Cyclamen neapolitanus sono
leggermente profumati, appunto, di ciclamino! Profumo praticamente scomparso dall’orizzonte
quotidiano.
Le violette (in questo caso le mammole) non sono piante alla moda: dati i tempi sono
evidentemente troppo poco vistose. Gli standard dei piaceri botanici e giardinieri di oggi sono
ben differenti! Profumi e fiori devono essere insistenti, vistosi e sempre belli e buoni! Coltivare
piante semplici che danno poco o niente per dieci-undici mesi all’anno, sembra infatti al
giardiniere «benpensante» una vera follia: non si può sottrarre troppo spazio alle vistose e
intrusive piante dei nostri garden center!
E dire che due secoli fa, verso l’inizio dell’Ottocento, anche per le violette odorate ci fu
un’intensa attenzione e relativo «traffico botanico»: furono divulgate, ibridate e coltivate in
abbondanza e divennero, chissà perché, con N maiuscole, aquile, api e saette, uno dei simboli piú
inaspettati (e gradevoli) dei Bonaparte. E fu proprio in quei tempi e in terra di Francia che si
produssero decine e decine di «novità»: queste ultime specialmente profumate e vistose! A
cominciare dalla rifiorente violetta Des quattre saisons, o dalla famosissima Baronne Alice de
Rothschild, o dalla strana, inaspettata e patriottica Cœur d’Alsace (a fiore color salmone!) Alte di
gambo e profumate Le Czar (giustamente ibrido della profumatissima violetta di Russia, la Viola
suavis) o la enorme, piú recente e ancora molto popolare nelle isole britanniche The Princess of
Wales.
E con esse nacquero altre nuove viole anche a fiore semidoppio. Molta e speciale popolarità
ebbe la bizzarra Conte de Brazzà (screziata tra il bianco e il viola), mentre famose tra le famose
furono Marie Louise e Duchesse de Parme, fortemente profumate, dai colori tenui e speciali (tra
il lavanda e il malva): ebbero grande popolarità e toccarono gli apici della gloria, segnando con il
loro immaginario prezioso e profumato un grande e speciale momento del ducato di Parma (e
della sua saggia e asburgica reggitrice). I loro fiori e il loro soavissimo profumo, con il tempo, si
identificarono in un periodo e ne suggellarono un’ambizione: la violetta di Parma fu infatti molto
piú di un fiore. Fra le degne figlie del suo tempo, proveniente da una modesta e rustica pianta
degna figlia di quelle terre dure e forti, divenne il profumato e perdurante ben stabilito mito di
quella civiltà e di quella cultura.
Le rose di Natale.

Rosa di Natale: Helleborus niger. Ha veramente del prodigioso che una pianta possa fiorire
quando fa freddo e addirittura quando può gelare. Per i giardinieri invece è norma, è quotidianità:
le «rose di Natale» fioriscono un po’ prima (e un po’ dopo) del solstizio d’inverno.
I loro fiori bianchi e rosati dominano con altezzosa semplicità le foglie scure, pesanti e belle
che a raggiera coprono le radici: radici nere, colore inusuale (ed evidentemente misterioso), che
nel medioevo (e dopo) venivano usate dalla farmacopea per combattere i mali della neurastenia
e, pare, quelli della follia.
Da alcuni anni, con il popolare e meritevole intento di aver sempre qualcosa in fiore nel
giardino, l’elleboro nelle sue varie forme orticole, da quelle «orientali» a quelle «occidentali»,
sta volando sulle ali della popolarità. Come al solito fu il Regno Unito (regno botanico e
giardiniero per eccellenza), a determinarne e a dettarne i primi successi. Prima di tutti fu
Gertrude Jekyll e in seguito Helen Ballard, grandissime giardiniere, a svilupparne le prime
selezioni. Cosí come in Germania fu il vivaio Zeppelin (parente strettissimo dei famosi dirigibili)
che insieme alle peonie erbacee ne regolò e propose le vendite. E fu comunque e sempre dal
Regno Unito che si imparò, cominciando da quelli che vengono chiamati Lenten Roses, ben
sapendo che Lenten, quaresima, vuol dire fiorire un buon mese e mezzo di ritardo! Sono gli
Helleborus orientalis che ci ricordano i lontani posti d’origine: un vasto areale che comprende
anche le fredde montagne dell’Asia Minore. Foglie belle e fioriture maestose e colorate ne fanno
una pianta molto adatta ai giardini. Vogliono terre ricche, sabbiose e ben drenate ed esposizioni
luminose meglio se non troppo assolate. Ci si dovrebbe regolare un po’ come con le peonie
erbacee, delle quali sono parenti appartenendo alla famiglia delle ranuncolacee.
Susanna Tavallini del Vivaio La Montà, frazione Sant’Eusebio di Roasio (Vercelli), è la
«decana» italiana degli ellebori: da anni ne è accanita coltivatrice. Imitata da alcuni altri ha pur
sempre l’ultima parola. I suoi ellebori, per un verso o per l’altro, dominano da decenni i giardini
del Nord Italia: indiscussa precorritrice e moltiplicatrice ha diffuso e «accasato» migliaia e
migliaia di piante. Gli ellebori amano essere diffusi e non disdegnano i trapianti.
Un posto a sé andrebbe assegnato al sempre meraviglioso elleboro della Corsica, Helleborus
corsicus, che ama crescere in posti freddi pure lui: proviene dalle montagne della Corsica e
produce meravigliose foglie sempreverdi e lucide, di forma, a mio giudizio, un po’ gotica! Ha
bisogno di spazio, è sufficiente vedere le piante nei boschi intorno al Monte Cinto per rendersene
conto. Bellissimi sono i fiori verde chiaro, luminosi, a grappolo. Nessuna pianta è, forse, piú
sofisticata (e adatta) a un giardino eclettico: è incredibile come la natura nella sua scabra
semplicità possa esser complicata e «rastremata».
Chi visita le mostre mercato si sarà accorto come molti giardinieri propongano varie forme,
semplici e doppie di ellebori orientali, Helleborus orientalis, da quelli scurissimi color
dell’ardesia a quelli bianchi e verdi, rosati, porpora, addirittura gialli e, da pochi anni, albicocca.
Tutto questo vuol dire che l’uomo (e il mercato) si sono messi in moto: i vivaisti stanno
adeguandosi. Non è passato un ventennio, ma sembrano secoli, da quando, a Varengeville sur-
Mer, Greta Sturdza incominciò a piantarne a masse coltivandoli in modo perfetto (e con enormi
soddisfazioni). La pacciamatura con i suoi modi e le sue «buone» maniere ne agevolarono il
glorioso debutto nel gran mondo del total global.
Un’alternativa all’albero addobbato.

La Cerasa marina, il corbezzolo, l’Arbutus unedo di Linneo, ci ricorda, in questi giorni


d’inverno, con il vivacissimo rosso delle sue bacche, che non tutto riposa, anzi. La leggera
pioggia di fiori bianchi a grappoletto (tanti e profumati e già fioriti qui in giardino) fa da brillante
contrappunto con lo sfondo delle sue foglie verdi, lucide, persistenti e robuste. Ancor piú vistosi
sono i frutti rosso fuoco cosí simili per rugosità alle fragole di bosco. Purtroppo, però, al gusto
sono insipidi: belli, anzi bellissimi, ma scipiti.
Se i popoli del nord avessero mai potuto crescere nei loro boschi il corbezzolo, lo avrebbero
certamente scelto come simbolo del loro Natale. La pianta, d’estate, con il caldo dorme sonni
pesanti quasi fosse in lenta attesa dello show invernale. Mostra con orgoglio i suoi tronchi e le
sue foglie lucide, gradevolmente coriacee. Il portamento dell’arbusto, in vecchiaia può diventare
un albero, tanto che in Spagna col nome di madrona o manzanilla, viene annoverato come uno
degli elementi piú comuni della penisola insieme alle querce da sughero, ai lecci, ai cipressi e ad
altri alberi da bosco.
Se cresciuto in un terreno acido (e d’inverno non troppo gelato) è pianta felice e veloce, se
avvolto e ben protetto dai rovinosi venti della Siberia, cresce sano e bene. Ama la macchia del
Mediterraneo, anzi, ne è uno dei componenti di spicco. In casa un ramo di corbezzolo in fiore e
in frutto, dentro un vaso e con acqua, può durare a lungo. Nello stesso momento coperto di fiori e
frutta, potrebbe (come spesso avveniva nelle case della Corsica e meno comunemente in quelle
della Sardegna) diventare il surrogato mediterraneo dell’abete di Natale.
Una forma aperta e larga, talvolta sghemba (e mediterraneamente molto piú disordinata del
rigido abete), può essere una piacevolissima presenza tra i muri di casa. E poi chi l’ha detto che
per «fare» Natale sia veramente necessario sacrificare un albero? Varrebbe bene la pena di
pensarci un po’ su, una volta per tutte.
Tagliare o non tagliare?

I fiori: tagliarli o non tagliarli? Certi giardinieri, come la mia amica Orsola, se ne guardano
bene. Non li tocca, non li taglia a eccezione di quelli secchi delle rose del suo roseto. Grandi o
piccoli i roseti, un po’ démodé, ma sempre affascinanti, servivano proprio a quello: sopperivano
all’uso di fiori per la casa. Un po’ come le insalate o le zucchine a quello della cucina.
Qui sul mio tavolo di lavoro ci sono una o due camelie sasanqua, le ultime, quelle non ancora
rovinate dal gelo. Sono state tagliate (da me) e sono appoggiate in un piccolo bicchiere sulla
scrivania: con la loro «bella» presenza fanno da tramite tra casa e giardino (e a me, il loro fiorire,
ricorda persone e momenti).
A Natale in casa mia ci saranno pochi fiori: come tutti gli anni qualche grappolino di
corbezzolo accompagnato da qualche frutto rosso e smagliante e con loro qualche fiore di
viburno tino (della varietà Gwellan fiore grande, bianco e rosato). Come tutti gli anni ci saranno
pure le piccole e rosse mele del Malus Red Sentinel mescolate ai mandarini di stagione.
Qualche timida foglia di felce spunterà tra i due o tre bicchierini. Niente oro, niente argento:
lusso e spatusso a me, in fondo, non sono mai piaciuti.
Il profumo del nostro Natale.

Il suo nome è Chimonanthus praecox ma in giardino, in casa e in vivaio si è sempre (e


soltanto) chiamato calicanto. E, piú che una pianta, era un simbolo: il «nostro» Natale aveva quel
leitmotiv. Un profumo fresco e dolce, mescolato ad altri profumi (cera, pino e, in seguito,
panettone), ma quello del calicanto primeggiava. Tanto che presi da fantasiosa passione si tentò
anche di farne un profumo casereccio, distillando chili di fiori e riuscendo in modo artigianale e
velleitario a produrre un nauseante e noioso pasticcio.
Un arbusto di Chimonanthus praecox è sufficiente a profumare un giardino e, dati i tempi, è
già una bella e gloriosa vittoria. Pianta robusta e di bocca buona, adatta a qualsiasi terra e a
qualsiasi esposizione, preferisce il sole all’ombra. Il calicanto viene, come molte altre bellissime
piante, dalla Cina. I fiori color paglia sono particolarmente eleganti e graziosi. Anche se nella
varietà molto poco comune Chimonanthus praecox lutea dà il suo meglio dal punto di vista
estetico. Il giallo pallido dei suoi fiori, in giardino e in casa (tagliate le punte e messe in vaso!)
dominerà, con la sua leggera trasparenza, sul resto. Io non ho mai capito perché non venga
proposto piú spesso in vivaio e in giardino. Dicono che sia complicato e difficile nella
moltiplicazione.
In tutta la mia lunga vita giardiniera non ho mai visto, incontrato, potuto apprezzare invece la
varietà grandiflora descritta molto spesso nei vecchi cataloghi. Non mi stupisco: fa parte del
gioco.
Fiori tenaci.

Molto piú robusti e determinati di quanto possano sembrare, i piccoli fiur dla fioca
occhieggiano tra la neve: resistono a tutto con fiera risolutezza. Nulla li ferma.
Fiori del latte, Snow Drops per gli inglesi, Perce-neige o, meglio, Galantine, per i francesi,
Galanthus nivalis per i botanici. Suoni (e nomi) comunque evocativi e semplici per una bulbosa
particolarmente bella e singolare che, fuori dal coro, quasi a sorpresa, attacca il suo canto
solitario. I bucaneve già prima dei giorni della merla, quasi fosse una sfida, forando foglie, terra
e neve, tutti insieme, puntuali e precisi, fanno il loro outing: escono allo scoperto. Ricordo come,
secondo la ottima e utile enciclopedia del «Reader’s Digest, i bucaneve fossero denunciati come
piante «non facili». E fu proprio per questo avviso che, con estrema prudenza e forse eccessiva
cautela, iniziai a piantarne qualcuno, veramente pochi, in vari posti «freddi» e a mezzombra.
Dopo due o tre anni, quasi all’improvviso, come fossero mossi da un ordine superiore, o forse da
un’estate poco calda e piovosa, si sono scatenati in quantità, come se avessero dovuto (in un
posto solitamente ospitale) prendere forza e vigore per manifestarsi.
Qui in giardino il trionfo è ormai veramente grande.
Timidi all’apparenza, il loro aspetto li rende subito simpatici: con il loro fiore,
sommessamente piegato all’ingiú, compreso nella sua invernale missione.
Appartenenti alla variegatissima famiglia delle Amaryllidaceae, e praticamente indenni da
malattie, se a loro piacciono sia il posto sia il clima prescelto, abbondantemente si riseminano tra
le foglie disfatte delle quali amano aver ricoperti i bulbi.
Non sono piante da posti secchi e assolati, ma da nord, un po’ come le felci, i mughetti o le
ortensie. E non disdegnano proprio d’esser piantati vicino a loro.
L’ideale? Terreni ben drenati dove l’acqua se ne possa andare bene e al piú presto.
La bellissima e relativamente recente collezione di Timothy Whiteley, a Brackley, è ormai
famosa in tutto il mondo botanico inglese e non solo. Si «sviluppa» tra le alte e leggere ombre di
un bosco misto del Northamptonshire: tra fine febbraio e inizio marzo le visite sono un vero
privilegio. È una grande e fornitissima collezione nata con caparbia e ferma volontà una trentina
d’anni fa, quando i bucaneve erano appannaggio di rari e curiosi esperti.
Numerose (circa quattordici) sono le specie. Molte provenienti dal Caucaso, dall’Asia
Minore, dalla penisola balcanica e dalla Grecia, come si può scorgere dai loro nomi botanici
(spesso ormai obsoleti o vecchi): G. bulgaricus, G. graecus, G. ikariae, G. byzantinus.
E il raro e «rivoluzionario» Galanthus reginae olgae, che il bravissimo botanico greco
Orphanides dedicò alla sua russa regina? Fiorisce in ottobre tanto per fare un po’ di speciale
disordine: non comune, anzi, rarissimo in Italia. Che io sappia, se ne possono vedere alcune
piante sull’Isola Madre, ben protette da Gianfranco Giustina, il suo direttore, coltivatore, e fan
entusiasta. Furono regalate tempo fa ai Borromeo dal sempre rimpianto Sir Peter Smithers, il
famoso e appassionato diplomatico-botanico di Vico Morcote, in Canton Ticino.
Il mondo della botanica è molto piú ricco e vario di quanto si possa immaginare ed è pure
estremamente curioso, generoso di sorprese (e addirittura talvolta di sorprese delle sorprese!)
Informarsi e soprattutto tentare e provare in giardino sono occasioni uniche per capire di piú e
stare vicino a un mondo affascinante fatto anche di piccoli miracoli.
L’oro di gennaio.

Il suo nome è Or de janvier, oro di gennaio, robusto, forte delle caratteristiche dei nuovi
arrivati di successo e puntualissimo: fiorire un buon mese e mezzo prima degli altri non è
certamente da poco e chi traffica in giardino e nell’orto sa benissimo quanto sia importante la
«primizia». Chi può dimenticare le prime foglie di insalatina? La tenerezza dei primi piselli, dei
baccelli o delle prime carote? E le patate novelle? Quello delle primizie è stato sempre un mondo
appassionante (e soprattutto vincente): gli ortolani rivieraschi lo sanno benissimo. La saggia
lentezza della natura è sempre stata, per chi la bazzica, una specie di amato-odiato fenomeno: e
per nulla scalfita dalle primizie (o dalle «tardizie») ha da sempre avuto un ruolo equilibratore
importante.
Gli steli robusti (e non facilmente pieghevoli) di Or de janvier, le trombe e le corone gialle
(dello stesso giallo) ci ricordano la forza di questa pianta bulbosa di nascita «recente» e per ora
poco conosciuta: pare abbia meno di quarant’anni, Si tratta quindi nella storia millenaria dei
bulbi di un «nuovo» ottenimento di successo e di una vera sorpresa di precocità nei cataloghi.
Viene proposta come pianta fiorente addirittura sotto la neve! Premessa la rarità (della neve!) e
preso in considerazione l’adattamento a tutto (o a quasi tutto) delle piante bulbose, gli Or de
janvier sono effettivamente talmente precoci da fiorire nello stesso periodo dei bucaneve. E, a
differenza dei bucaneve stessi, qui resistono molto bene in posti anche secchi e assolati (e molto
caldi d’estate). Andrebbero forse piantati e provati in posti piú temperati del mio. Chissà che
anticipando la fioritura non si arrivi ad avere i narcisi fioriti a dicembre o per Natale.
A ben pensare, però, tutta questa corsa in avanti sa piú di nevrosi che di vero benessere.
Contrasta, nei suoi tempi, con il quieto e scorrivo mondo del giardino sempre e fortunatamente
cosí lento e cadenzato. Sarà l’ennesimo e inutile inghippo del nuovo millennio?
Bellezza nascosta.

È importante in giardino saper osservare e, molto spesso, chi osserva sa che le cose piú belle
possono essere anche le piú piccole e nascoste. Qui in giardino, poco prima della primavera, è il
momento dei bucaneve, degli ellebori e dei minuscoli «piè di gallo». Affini agli ellebori e
appartenenti alla stessa famiglia delle ranunculacee, gli Eranthis hyemalis stanno dando il loro
personale e preziosissimo contributo, con i piccoli fiori a coppa, di un giallo intenso quasi oro,
fieri del loro discreto «rasoterra». È un rizoma locale, che nasce all’ombra dei boschi dalla
Francia del sud ai Balcani e in particolare cresce bene nelle zone collinari, a ridosso degli alberi a
foglia caduca, in modo da ricevere sole d’inverno e ombra d’estate. È una pianta rustica e
resistente al freddo, che in terreni umidi e ben drenati cresce velocemente, creando dei veri e
propri tappeti naturali. I fiori, che nei climi miti sbocciano già a gennaio, si aprono al sole, ma
durante la notte o nelle giornate nuvolose rimangono timidamente chiusi in se stessi. Alcune
varietà portano fiori giallo intenso, quasi arancio (tra le quali l’E. h. aurantiaca), altre hanno
tonalità piú pallide come i bellissimi E. h. Zitronenfalter o l’E. h. Moonlight, che si possono
trovare nel periodo autunnale dal sempre fornitissimo vivaio Raziel di Padova: per lo piú
semplici, ne esistono anche a fiore doppio o semidoppio, come l’E. h. flore pleno o l’E. h.
Gothenburg. Un’unica avvertenza: come molte ranunculacee, può essere pianta tossica per
l’uomo. Lo sanno bene i saggi inglesi, che sono soliti chiamarlo Winter Aconite. Del resto molte
piante da ombra possono essere «pericolose», anche quando sembrano piccole e ingenue.
Al lavoro.

Giorni della merla: abbiamo ancora da fare molto, anche se, per fortuna, molto abbiamo già
fatto. Si è praticamente finito di potare e di pulire il giardino vicino a casa. Grandissime quantità
di foglie, rami e sterpi trasportate a carrettate, si accumulano sotto i bassi rami dei boschetti di
lecci! Lo spesso materasso vegetale è sistemato ai piedi degli alberi con la speranza che possa
diventare al piú presto un’ampia, morbida lettiera, apportatrice generosa di utili benesseri.
Veder crescere un bosco ha quasi del miracoloso, come se fosse la definitiva concretizzazione
di un antico sogno: dare la possibilità agli alberi di crescere, di stabilirsi su di un posto, d’essere i
felici testimoni di un’avventura che possa sfidare i tempi, non è cosa da poco. Un bosco, piccolo
o grande che sia, emana, se felice, qualcosa di speciale che spesso trascende dal semplice e
vivace insieme di alberi e arbusti: la forza vitale, l’armonia, l’equilibrio che lo aiutano a crescere
e che lo mantengono si fanno sentire, quasi facessero parte di un disegno superiore, quasi fossero
interpreti di una antica liturgia.
Ai piedi dei piccoli boschetti piantati negli ultimi quindici anni e cresciuti lentamente ma con
un sicuro e palpabile successo, qui, a Revello, spero sempre di veder spuntare, durante i periodi
«giusti», qualche fungo, come se la loro presenza ne suggellasse la avvenuta maturità, e ne
chiudesse un fantastico ciclo. Forse bisognerà aspettare ancora: sarà questione di tempo? O sarà
questione soltanto di spore? Il fitto strato di pacciamatura spero possa favorire sempre di piú i
processi di «naturalizzazione» dei miei boschetti: non per nulla serpi, ricci e salamandre da un
po’ di anni vi trovano alloggio e, felicissimi, si moltiplicano.
Come al solito è questione di tempo e di maturazione, e lo si può intuire dal generoso e felice
aspetto del primo gruppo di lecci piantati (da me) nel 1962: sono passati cinquant’anni! E sono
diventati dei bellissimi grandi alberi: di notte sono la gioia e il sicuro e stabile rifugio di
numerosissimi uccelli. Tra i loro rami evidentemente saranno riparati dal freddo e piú sicuri!
Perché non piantare, non adottare e far crescere, tutti insieme, tanti piccoli boschi? Soprattutto
nei terreni difficili e magri (e spesso abbandonati)? Non importa che siano comunali, affittati,
adottati, affidati o privati! Potrebbero forse essere una concreta risposta ai sempre piú diffusi
campi fotovoltaici! Un bosco, anche se minuscolo, non potrebbe essere una sfida naturale,
concreta e sincera a un vero e longevo futuro?
Falsa primavera.

Il sole di febbraio colpisce con vivace intensità i tronchi degli alberi: non ci sono piú le foglie
a fare da filtro. Coperti da tormentate cortecce, i vecchi castagni ci ricordano ciò che rimane di
un antico e organizzato mondo agricolo: da anni, vittime di una feroce epidemia, sono ormai
ridotti a pochi, vecchi tronchi e a pochissimi rami.
Le cortecce profondamente incise e ruvide sono tutt’altro che mute: raccontano gli anni e
forse addirittura i secoli, chiacchierano, parlano, ricordano. Sono fatte appunto di rughe, di ferite,
sono coperte di licheni e di muschi.
Le cortecce delle querce sono molto simili a quelle dei castagni e sono adatte ai luoghi
soleggiati e aperti, mentre quelle dei faggi, grigie, chiare e lisce sono piuttosto da ombra, da
bosco fitto: hanno tutta un’altra tessitura. Quelle dei platani, poi, marezzate e maestose, ci
ricordano la loro globalizzata e controversa origine. Prevarrà negli ibridi l’origine mediterranea o
quella nordamericana?
Segno di diversità, le cortecce spesso sono bellissime: da quelle elaborate e affascinanti e utili
del sughero a quelle lisce e «similpelle» del bagolaro, da quelle lucide e cerate dei corbezzoli
americani a quelle marezzate delle parrotie della Persia, da quelle fessurate e «vissute», appunto,
delle querce, a quelle bianche, lisce e cartacee delle betulle.
Se si legge con attenzione il famoso libro-catalogo che a metà del secolo scorso Sir Harold
Hillier produsse per illustrare il suo vivaio-museo di Winchester si può trovare, verso la fine, un
piccolo capitolo, una breve ed efficiente guida delle piante pregiate «da tronco», con le cortecce
particolarmente belle e attraenti. Se ne contano un buon numero e vengono da tutte le parti del
mondo: gli eucalipti d’Australia, i mirti delle Ande, gli aceri del Giappone e del Nord America, i
salici, le stewartie, le lagerstroemie delle Indie, certe idrangee, le criptomerie, i ciliegi del
Giappone, le sequoie della California, i rovi dell’Himalaya, certi rododendri «tropicali».
In questo momento dell’anno i «tromboni» mostrano la loro puntuale e vivace ripresa
mostrando le prime foglie, verdi azzurre, color foglia d’ulivo, dritte e fitte: sembra vogliano
affermare il loro «ci siamo», anzi «ci risiamo».
Sommessamente preannunciate dalle sempre piú precise previsioni aspettiamo le prime
giornate di Föhn. Vento e caldo: il tempo ideale per lavorare in giardino.
La fuga dalla tenaglia invernale, la pronta e immediata ripresa è palese, senza rimpianti né
remore. Quasi sfacciata: già potate in modo deciso prima di Natale, anche le rose rampicanti,
dopo poche ore di Föhn, cacciano fuori con mal sopito vigore le gemme del futuro.
Può sembrare impossibile, ma tra pochi giorni ritornerà tutto come prima: l’acqua rigelerà, la
neve cascherà, anche abbondante, come se l’inverno dopo una breve vacanza (quasi fosse un
week-end ai tropici) fosse ritornato a casa, al suo grande e intenso freddo di «stagione».
Ottimo, durante i giorni di Föhn, è potare con la sicurezza che il taglio sarà asciugato e
disinfettato dal sole e dai refoli del vento, lasciando appunto funghi e crittogame deluse e a bocca
asciutta.
Ottimo sarebbe pure, per chi non l’ha fatto ancora, vangare l’orto e zapparlo, e appena fatto
seminare le verdure e i legumi da primavera, carote, prezzemoli, piselli, taccole, fave, insalate,
ravanelli. È bene pure ricordare che l’orto e il giardino, se non ancora concimati, andrebbero
comunque un po’ «aiutati», un buon apporto di letame sotto le raffiche del Föhn spargerebbe,
diluendoli abbondantemente, i suoi odori, ben sapendo che se trattati non chimicamente, ma
naturalmente, orto e giardino saranno certamente molto piú sani (e profumati!) Sia per noi sia per
gli abitanti del giardino stesso. Dalle lucertole ai fringuelli, dai rospi ai merli.
Curioso è vedere come le viole del pensiero, piantate presto, come da alcuni decenni si usa,
addirittura a ottobre e a novembre, possano riprendersi, dopo le frustate del gelo, quasi con
esposta indifferenza sotto le nuove e favorevoli circostanze climatiche. Qui, nonostante siano
abituate a una siccità lunga, quasi endemica, stanno tutte bene. Anche per loro vale il discorso
dei tagli: funghi e crittogame con i climi secchi non hanno proprio nessun motivo d’esser forti,
felici e insistenti. Tutto questo con grande gioia del giardiniere (e del suo stesso giardino!)
Di nuovo il freddo.

Il freddo di febbraio prolunga la stagione: forse è l’ultima occasione per i ritardatari. È


necessario approfittare di queste settimane per finire di potare le rose: niente di grave per chi non
l’ha fatto, ma va fatto. È il momento buono invece per i trapianti. Le semine nell’orto, quelle
delle insalate, possono ancora essere fatte tranquillamente: la primavera, già annunciata da
qualche camelia in fiore o da qualche elleboro, con calma sta per arrivare. Tra un mesetto
arriveranno le rondini, le notti saranno piú corte e il tepore delle giornate però farà il suo dovere:
prepariamoci pulendo a fondo il giardino dalle ultime foglie, dagli ultimi rami secchi, dalle
piantine fuori posto, dalle ultime erbacce tralasciate qua e là per pigrizia e per distrazione. Sarà
anche il momento buono per verificare lo stato dell’impianto di irrigazione: lavoro tutt’altro che
divertente, ma necessario. L’acqua deve pur arrivare in periferia con la dovuta pressione.
È anche il momento buono (e siamo già un po’ in ritardo…) per fare una buona revisione agli
attrezzi piú sofisticati del giardino: motoseghe, tagliaerba, tagliasiepi vanno ripuliti, cambiati
d’olio e anche loro rimessi a nuovo.
La primavera anche se lenta, arriverà quasi all’improvviso e ci sarà tanto da fare, tutto quello
che si può sistemare prima sarà tanto di guadagnato.
Bisogna però non esagerare negli anticipi: pomodori, zucchine, fagiolini & C. vanno piantati a
geli finiti, da metà aprile in poi. Assolutamente non prima.
Il fascino di un fiore invernale.

Cinque giunchiglie dal profumo intenso, una là una qua, tutte addossate però ai muri di pietra
con il caldo che rifrange e i fiori che anticipano: sembrano un vero miracolo della natura. Le
giunchiglie bianche e gialle e soprattutto intensamente profumate vengono esaltate dal tiepido
sottofondo invernale. Con i calicanti e i viburni tini sono le uniche piante in fiore. Le notti
lunghissime e fredde tengono il mio giardino in obbligato e stretto riposo: le foglie sempreverdi
degli ulivi, quelle piú contrastate e lucide dei lecci, i cipressi esclamativi e opachi, le tenere
foglioline delle filliree, quelle pelose e coriacee dei viburni tini e i sempre bellissimi bossi, fanno
da allegri e preziosi compagni.
Un giardino ben costruito e generosamente accogliente non teme le piante sempreverdi anche
se non deve per forza essere coperto soltanto da loro: le foglie nuove, i fiori sugli alberi spogli
sono parte di un quadro vivo e dinamico del giardino stesso.
Si può prendere come valido esempio la nostra povera e bella Italia: dove il matrimonio
leccio, cipresso, macchia e ulivo la fa da padrone mai negando, anzi quasi favorendo, lo spazio a
querce, carpini, frassini, faggi & C. Tutti alberi forti e robusti e allo stesso tempo complici e
dispensatori di ombre estive (e di luminose viste invernali). In fondo un giardino cupo di
sempreverdi non è certamente il preferito di molti di noi.
Anche se al giorno d’oggi il giardino «chiuso», che abbia pareti sempreverdi è certamente un
giardino saggio e previdente: non si sa cosa possa mai capitare di nuovo, infatti, alle viste vicine
e lontane. Il cambiamento (sempre purtroppo in peggio!) del paesaggio crea già di per sé una
delle grandi differenze tra giardino nuovo e quello tradizionale (e antico), dove un tempo le viste
erano importanti e praticamente immutabili.
Poco tempo fa mi sono imbattuto in un grande albero di lauro ceraso non potato: mi ha colpito
la sua sana e inserita presenza nel paesaggio agreste circostante. Perché non «adoperarlo» tanto
di piú? Perché non piantarlo con preveggenza e generosità ai confini dei nostri giardini? Spesso
viene tosato, tagliato e ferito nella sua dignità cosí da mostrare il suo lato peggiore, mentre se
libero non è per niente banale. Se non «liftato» e se maturo e rigoglioso, è affascinante, possente
e lussureggiante. Giustifica il suo antico e aulico nome, ormai desueto, di lauro regio!
Fuoco giapponese.

Buisson ardent, l’arbusto di fuoco per i francesi: un nome molto colorito per una pianta
bellissima (e in anticipo sulle altre fioriture). Il suo vecchio e botanico nome era Cydonia
japonica, che ne denunciava evidentemente l’origine: pochi fiori sono infatti piú «giapponesi» di
lei. Da un po’ di anni le Cydonia sono state rinominate, si chiamano Chaenomeles, complicando
tutto, anche se con le migliori intenzioni. Sono piante facili, amano qualsiasi tipo di terreno,
anche quelli calcarei e sono piante «per fortuna» molto comuni. In Piemonte (e non soltanto) non
c’è orto che non abbia in qualche angolo una cydonia; essendo pianta relativamente lenta nella
crescita non crea problemi di ombra e di spazio. Piú di vent’anni fa nel ricchissimo e bulimico
giardino di Mount Congreve, in Irlanda, ho visto per la prima volta quella che ora viene chiamata
la varietà Chaenomeles japonica Apple Blossom, a fiore bianco rosato che non ha niente di
«ardent», i brillanti fuochi della pianta madre sono attutiti, moderati, bellissimi anche se non piú
incandescenti. Quel colpo di frusta di colore vivace, quasi accecante, è svanito: rimane invece un
garbato e forse un po’ sottile e accattivante senso della bellezza e al limite della falsa modestia.
Da qualche anno Apple Blossom si può trovare anche nei vivai italiani. Forse che la sobrietà, vera
o non vera, stia diventando di moda?
Una nuova primavera.

Le viole del pensiero anticipano la primavera, e anche di molto. I loro colori vivaci e violenti,
se mal accostati, certe volte stonano: possono diventare invasivi, quasi insolenti: roba da
carnevale. Ma che bel genere di pop-impertinenza! Allegra, semplice, facile e qualche volta un
po’ vieux jeu!
Le viole del pensiero possono essere molto belle se coltivate come piante singole in piccoli
vasi o, meglio, se in gruppo, in vasi piú capienti. Bellissime quando quelle di colore tenue sono
mescolate a quelle di colore violento: tutte insieme possono offrire vibrati e caserecci crescendo.
Dall’azzurro al bianco, dal giallo all’arancio, dal viola al prugna, squillano con vigore sui grigiori
prolungati di febbraio e marzo: sta certamente a chi le pianta equilibrarne le tonalità e gli
accostamenti.
Se coltivate in vaso, se alleggerite con un po’ di attenzione dai fiori appassiti, e non portate a
seme, possono fiorire molto a lungo, fino a giugno, fino ai giorni piú caldi dell’estate, anche se,
con il tempo e sotto il furore effervescente della primavera, tendono a perdere di glamour e di
vigore. Trattate giustamente da annuali, vengono in genere spiantate a metà maggio e sostituite
con altre annuali estive, da gerani, petunie e lobelie. Adatte pure loro a vivere in vaso e avvezze,
a loro volta, agli strapazzi delle estati piú calde, danno segni evidenti di noia di vivere e di
infelicità.
I vivaisti hanno bisogno di questi tempi, di qualche conforto, sono tempi duri: cerchiamo di
comperare loro delle piante, e perché no? Anche delle viole del pensiero. Passiamoci un po’ di
allegria, risolleviamoci dopo un inverno pesante e lungo.
E se siamo presi da furori solidali o mangerecci: seminiamo pure insalate, prezzemolo o
rughette! Ma soprattutto piantiamo di tutto negli angoli vuoti, nei vasi trascurati, pensando un
futuro ricco di tante e piccole soddisfazioni. Dati i tempi, ogni sforzo per migliorare (e
migliorarsi) può produrre piccoli e variopinti miracoli.
Il libro

SEGRETI E LE S T R AT E G I E DI PAOLO PEJRONE PER RICORDARCI CHE IL SUCCESSO DI UN

I giardino felice in ogni stagione è fatto di coraggio, ma soprattutto di esperienza e, perché no, di
mestiere.

Un giardino felice asseconda i tempi e le esigenze della natura, e racconta tante storie delle quali il
giardiniere è scrittore e custode. Dietro la disposizione di ogni albero, di ogni rosa e ogni filo d’erba sta
nascosta una visione del mondo, un ideale ordine delle cose, la capacità di immaginare un microuniverso in
perfetto equilibrio, composto da tante forme di vita che necessitano di cure e attenzioni, e custodiscono
grandi segreti.
Paolo Pejrone, senza alcun dubbio nostro «giardiniere» per eccellenza, ci accompagna in un’ideale
passeggiata tra i colori e i profumi di un giardino che rispetta il ritmo delle stagioni. Ci mostra la magia del
bianco discreto e primaverile di un filadelfo, e quella del giallo dorato di un narciso che fiorisce tra la neve
di gennaio. Ci ricorda quale sapore ha un’albicocca quando è matura al punto giusto, e quanto è piú dolce
una fragolina di bosco. E ci svela con ironica vivacità e prosa elegante alcuni dei suoi trucchi, dal poter avere
rose brillanti tutto l’anno scegliendole e trattandole bene, a come mantenere un orto sempre ricco
assecondando il lento e naturale succedersi delle stagioni.

Con 16 illustrazioni di Anna Regge.


L’autore

Paolo Pejrone nasce a Torino nel 1941. Vive in Piemonte, nel Saluzzese. Si laurea in Architettura al
Politecnico di Torino. Allievo di Russell Page, frequenta lo studio di Roberto Burle Marx a Rio de
Janeiro. Dal 1970 lavora in Italia, Francia, Spagna, Svizzera, Arabia Saudita, Grecia, Inghilterra,
Germania e Austria come architetto di giardini. Collabora da parecchi anni con «La Stampa», «la
Repubblica», «Gardenia» e «Ville Giardini». È autore di Per un giardino di estro garbato (1982), In
giardino non si è mai soli (2002), Il vero giardiniere non si arrende (2003), I miei giardini (2008), Gli
orti felici (2009), Cronache da un giardino (2010), In giardino, d’inverno (2013), Foglie d’autunno
(2014). Per Einaudi ha pubblicato La pazienza del giardiniere (2009 e 2011).
© 2016 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
In copertina: illustrazione di Anna Regge.
Progetto grafico: 46xy.

Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito,
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www.einaudi.it
Ebook ISBN 9788858422625
Table of Contents
Un giardino semplice
Introduzione
Primavera
L’allegria della primavera
La famiglia allargata del fiore pop di primavera
All’ombra fresca delle Giuseppine in fiore
Rustica e orgogliosa
Un fiore démodé
Spuntano le viole
Recuperiamo la bellezza del giacinto
Ospiti
Iris
I grappoli del narciso
Profumo di primavera
Il gusto della stagione
La forza di una foglia tanto leggera
Decorazioni naturali
Bentornate rose
La libertà senza freni dei glicini
La felicità sostenibile dell’orto
Un nemico insidioso
Piogge d’aprile
Come far felice una peonia
La polifonia dei tulipani
Quella pianta cosí discreta contro le ansie di apparire
Una pianta che ha fatto la storia
Il sapore delle fragole non è un optional
Il sapore di una vera albicocca
Estate
Lo spettacolo dei papaveri
Quel fico ibernato del Re Sole
Un invitato informale
E un fiore illumina la notte
I cisti amano l’estate
Un fascino antico e primitivo
L’esplosione dell’orto
«Cut and come again cropping»
I crociati portarono lo scalogno
Piccoli frutti da marmellata
Un fiore di successo
Una vita spartana
La piú amata dalle farfalle
Rispettiamo l’eleganza delle ortensie
La finta salvia
Una rustica luminosità
Simpatici ospiti estivi
Ospiti estivi meno simpatici
Una pianta simbolo
Piú famosa
Un’anima resistente
Un azzurro che rincuora
Il caldo di luglio
Le monete del Papa
Campanule di roccia
Una sofferenza per le rose
Piante irrinunciabili
Non bisogna aver paura dei colori della zinnia
Al cappero piace soffrire
L’insalata è la star dell’orto
Il prezzemolo ha poca sete
Spuntano fiori azzurri
L’eccessiva e barocca star delle nature morte
Le ironiche foglie del banano
L’importanza dell’acqua
Un prato vivo
Nostalgia di gigli elbani
Quella pianta dai mille nomi amica delle ombre
Borgia tra i fiori
L’albero guerriero
Malinconia di fine stagione
La sentinella
Autunno
Il fascino del ciclamino
Una pianta al servizio delle città
Pioggia scarlatta
Bulbi da piantare
Bulbi che fioriscono
Fascino posato
Frutti d’autunno
Il ritorno del melograno
L’aspro che sarà di conforto
Il parente cinese del cotogno
Grandi o piccoli, comunque meravigliosi
Il nespolo nostrano
L’anarchico Hibiscus tardivo
Il Prunus di Charles
Una gigantessa gentile
Per le camelie sasanqua la vera primavera è l’autunno
Il castagno
Lo spettacolo del ginkgo
Le foglie dell’acero
Inverno
Un buon giardino si vede nei momenti difficili
Una pianta composta
Rischiare
Correre ai ripari
Preparare l’estate
Il dolce dell’inverno
L’agrifoglio
Una delizia spinosa
D’inverno piantiamo soltanto
Le viole di Natale
Le rose di Natale
Un’alternativa all’albero addobbato
Tagliare o non tagliare?
Il profumo del nostro Natale
Fiori tenaci
L’oro di gennaio
Bellezza nascosta
Al lavoro
Falsa primavera
Di nuovo il freddo
Il fascino di un fiore invernale
Fuoco giapponese
Una nuova primavera
Il libro
L’autore

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