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Tratto da : Corriere della Sera (30 dicembre 2010)

il Lavoro Cambia la Sinistra No


La retorica che non difende la fabbrica
C' è nella sinistra italiana una radicata convinzione che lega lo stato di salute della nostra
democrazia alla temperatura dei rapporti sindacali in Fiat. La spiegazione di questa
tendenza affonda nella storia del movimento operaio italiano e nel suo dna torinese. Una
storia che ha via via esaltato gli scioperi del marzo ' 43 come l' anticipazione della
Resistenza, i moti di piazza Statuto come l' antipasto del ' 68 e, infine, la marcia dei
Quarantamila come l' inizio della «normalizzazione capitalistica». In tutte e tre queste
vicende gli storici di professione hanno già riconosciuto una sorta di ruolo anticipatore di
Torino e degli avvenimenti svoltisi attorno alla Grande Fabbrica, ma da allora le
discontinuità sono state tali e tante che voler prolungare la narrazione del Novecento,
oltre i suoi limiti, sembra servire solo a rimettere in circolo ideologie fuori corso e a
prolungare carriere politiche prematuramente interrottesi. È questa l' impressione che si ha
leggendo le dichiarazioni degli esponenti di punta della Fiom e degli intellettuali che ne
sostengono le tesi. Sergio Marchionne è stato associato persino a Benito Mussolini e l'
accordo raggiunto tra la Fiat e le organizzazioni sindacali è considerato «un incubo
autoritario», che pone fine addirittura «a un secolo di conquiste di civiltà». Ora, per carità,
l' intesa realizzata su Mirafiori è sicuramente perfettibile e Marchionne non sarà Henry Ford.
Da più parti, poi, si chiede alla Fiat di tradurre gli strappi in materia di relazioni industriali in
nuovi modelli di vetture capaci di influenzare significativamente l' andamento del
mercato dell' auto e dare così maggiore riprova delle qualità manageriali dell'
amministratore delegato. Ma stiamo parlando di questioni che vanno affrontate sul
terreno del negoziato e della dialettica politico-sindacale. Gli anatemi lasciano il tempo
che trovano e servono solo a demonizzare l' avversario, non certo a costruire soluzioni
alternative. La verità è che un pezzo importante della sinistra italiana fatica
maledettamente a fare i conti con la società globale. Chiede che il lavoro torni al centro
dell' agenda politica ma stenta a comporre una nuova mappa delle disuguaglianze, ha
una conoscenza limitata della condizione lavorativa moderna e delle sue mille
sfaccettature. Il suo resta un laburismo degli insider. Non è certamente un caso, infatti, la
sottovalutazione che da anni la sinistra fa del caso Prato e più in generale della presenza
cinese in Italia. Nella città toscana si scoprono a ritmo continuo laboratori clandestini in
cui lavorano in condizioni di schiavitù cittadini asiatici che non sanno neppure di trovarsi a
Prato. C' è stata una mobilitazione o anche solo un appello di intellettuali indignati? Non
ce n' è traccia, tutto è stato lasciato alla destra che ha conquistato alla grande il
Comune. L' intellighenzia di sinistra vuole davvero ridare centralità al lavoro debole? E
allora perché non interrogarsi (e indignarsi) sulla condizione di qualche milione di partite
Iva costretto a vivere sul mercato in regime di mono-committenza, senza tutele e con il
rischio di avere a fine carriera (si fa per dire) una pensione da fame? Anche in questo
caso si tratta evidentemente di lavoratori considerati di serie B e quindi non degni di
attenzioni e appelli. Meglio lasciarli alla destra. Se non si possiede una mappa aggiornata
del lavoro si finisce anche per discriminare (intellettualmente, per carità) tra alimentaristi e
metalmeccanici. Perché le deroghe e le flessibilità ampiamente negoziate per i primi,
diventano un viatico al fascismo se applicate ai secondi? E perché i lavoratori siderurgici
garantiscono alle loro controparti il massimo utilizzo degli impianti e la massima flessibilità
senza che nessuno li avverta di preparare così il tramonto della democrazia repubblicana?
Un mese fa, non un secolo fa, i lavoratori della ceramica hanno sottoscritto un' intesa che
permette alle imprese di modulare l' orario settimanale in presenza di esigenze produttive
temporanee, tecnologiche e organizzative. Non si sono resi conto i sindacalisti della Cgil,
che pure hanno firmato l' intesa, che stavano demolendo «un secolo di conquiste di
civiltà»? Infine i chimici, categoria che Sergio Cofferati conosce benissimo per averne
orientato negli Anni 80 la cultura contrattuale in chiave pragmatica in competizione
intellettuale con i metalmeccanici torinesi di allora. Ebbene le aziende chimiche possono
spalmare i turni su 4, 5 o 6 giorni con orari più o meno elevati a seconda delle necessità
produttive. E anche in questo caso a nessuno è venuto in mente un paragone con la
temperie che rese possibile il delitto Matteotti. Al di là delle polemiche cercare di ri-
comporre una mappa aggiornata delle disuguaglianze e delle soluzioni contrattuali non
ha la finalità di contrapporre lavoratori a lavoratori. Serve solo a dimostrare come l'
ideologia ai tempi della concorrenza globale non aiuti e rischi di assomigliare alla retorica
dell' ovvio. Serve anche a sostenere che non esiste in linea di principio negoziato o
accordo che un sindacato non possa sottoscrivere. Pessime intese si sono rivelate nel
tempo dei buoni compromessi e viceversa. Dipende di volta in volta dai rapporti di forza,
dai temi in discussione e soprattutto dalle alternative che si hanno a disposizione. La
società globale - e non Marchionne - obbliga tutti a essere pragmatici e a stilare un
alfabeto dei diritti e delle tutele diverso da quello del passato. Si tratta di provarci.

ddivico@rcs.it RIPRODUZIONE RISERVATA

Di Vico Dario
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