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1
A. Burgio, Eguaglianza interesse unanimità. La politica di Rousseau, Napoli 1989,
p. 40.
2
Ivi, p. 29.
3 Disc., p. 134
1
Ivi., p. 170. Tutti i corsivi delle citazioni sono nostri.
2
Per una contestualizzazione di questa idea russoiana, di un’assenza di police nelle
società selvagge, e della complessa influenza che le relazioni provenienti dall’America
hanno avuto nel pensiero europeo, vedi l’amplissima documentazione presente
nell’ormai classico S. Landucci, I filosofi e i selvaggi (1580-1780), Bari 1972.
3
Cfr. Ivi., p. 157.
1 Ivi, p. 154
2
Lasciamo pure da parte il grossolano errore di quanti, come Polin, riferiscono non
all’uomo primitivo ma al selvaggio già socializzato la posizione « à des distances égales
de la stupidité des brutes et des lumières funestes de l'homme civil », e dunque anche la
limitazione da parte della ragione. Si tratta infatti di un caso del tutto esemplare di come
un radicato pregiudizio interpretativo possa rendere sordi alla concretezza e addirittura
all’evidenza del testo (cfr. R. Polin, La politique de la solitude. Essai sur J.-J. Rousseau,
Paris 1971, p. 19).
3
R.D. Masters, The political philosophy of Rousseau, Princeton 1968, p. 171.
4
Cfr. Disc., p. 171, dove appare senz’altro «stridente» (cfr. S. Landucci, I filosofi e i
selvaggi, cit., p. 381) questa attribuzione da una parte di una crudeltà sanguinaria, e
dall’altra di bontà e felicità.
1
Un’opposizione, questa tra diverse forme di socializzazione, tutta interna allo stato
di natura, perché il criterio che viene assunto qui per distinguere stato di natura e stato
civile è ormai quello dell’istituzione di un’autorità politica, e non più quello della
semplice socializzazione: in questo modo tanto la morale quanto l’economia vengono
incluse però nella sfera di ciò che è naturale. La medesima ambiguità del concetto di
«stato di natura» – che in un’accezione “etnologica” «est opposé à la vie civilisée» e in
una giuridica, invece, «est opposé à l’état civil» – era già registrata, come suo secondo e
terzo significato, nell’articolo di L. de Jaucourt, «Etat de nature», nel vol. VI
dell’Encyclopédie (1756). Per una discussione dei diversi modi di intendere lo stato di
natura, cfr. S. Landucci, I filosofi e i selvaggi, cit., p. 333 sgg. Sul debito contratto da
Rousseau verso Pufendorf in questa disgiunzione, contro Hobbes, di società e Stato, cfr.
anche ivi, p. 146.
2
Il ruolo di un vero e proprio spartiacque è costituito qui dall’evento di una relazione
tra gli uomini fondata non più sulla loro reciproca indipendenza, sulle loro libere
decisioni, ma su una divisione dei compiti e delle risorse tale che ognuno, non più
soltanto nella ricerca della stima, ma per la sua stessa sopravvivenza, viene a dipendere
oltre che da tutti gli altri membri della comunità e dalla fedeltà, all’interno di
quest’ultima, al proprio ruolo, anche da un sistema il quale, nella sua impersonalità ed
oggettività, si è ormai separato dalle volontà di ogni singolo. Tale evento, infatti, separa
la storia umana in due parti che nonostante ogni loro interna articolazione vengono a
opporsi, almeno in apparenza, nel modo più netto, come una storia dell’indipendenza,
della libertà da una parte, e una storia della reciproca dipendenza, della coercizione
dall’altra; in una parola, come storia della natura l’una, e storia della politica l’altra.
3
Disc., p. 171.
1
Cfr. R.D. Masters, The political philosophy of Rousseau, cit., p. 171.
2
Cfr. S. Landucci, I filosofi e i selvaggi, cit., p. 368, ma cfr. anche la nota 122 a p.
375, dove si dice che il rigore di questa dissociazione «non può trovare attenuazioni». La
motivazione di Landucci circa l’ovvietà della dissociazione tra uomo primitivo e
selvaggio verte in realtà sull’opposizione, istituita dal nostro testo, tra la dolcezza del
primo e la crudeltà del secondo. Anche su questo piano, però, non si può non ricordare
come già l’uomo naturale fosse a più riprese definito da Rousseau pericoloso e «feroce»
(cfr. Disc., p. 135, dove l’uomo viene implicitamente definito una bestia feroce tra le
altre; cfr. anche ivi, p. 136, dove quelle bestie evitano di attaccare l’uomo, di cui
conoscono la ferocia; cfr., infine, ivi, p. 157, dove gli uomini sono esplicitamente definiri
«plus farouches que méchans»; è dunque in funzione di questa già stabilita ferocia, unita
al già citato ardore per il benessere, che trova una sua plausibilità l’esempio dell’«homme
dépravé, assés paresseux, et assez féroce» fornito in Disc., p. 161).
1
P. Burgelin, La philosophie de l’existence de J.-J. Rousseau, Paris 1952, p. 198.
2
Il presupposto di questo metodo, in effetti, è proprio quello che possa essere la
«filosofia» – la speculazione – a supplire alla mancante testimonianza dei fatti, alle
mancanze della storia (cfr. Disc., p. 163).
3
P. Burgelin, La philosophie de l’existence, cit., p. 197.
1
Cfr. Disc., p. 123, dove si parla di «ce qu’il y a d’originaire […] dans la Nature
actuelle de l’homme». Distinguere, all’interno di questa «natura attuale dell’uomo», ciò
che è originario da ciò che invece non lo è, significa respingere la riduzione del naturale
all’originario.
2
Cfr. Disc., p. 133, dove si legge: « Mon sujet intéressant l'homme en général, je
tâcherai de prendre un langage qui convienne à toutes les Nations, ou plutôt, oubliant les
temps et les Lieux…».
3
Ivi, p. 122.
4
La descrizione russoiana dell’uomo naturale ha, per così dire, una funzione
“straniante”, che consiste nello spingere il lettore – l’uomo civile – a prendere le distanze
dalla propria identità e condizione, guardandole come “dall’esterno”, nella contingenza
della loro genesi, e non più “dall’interno”, come un semplice dato di fatto che si può
bensì constatare senza poterlo però rimettere in discussione, o come l’esito necessario cui
la storia non poteva non tendere, e al quale, dunque, non ci si può che rassegnare. Questo
effetto “straniante”, però, può essere raggiunto solo a patto che sia comunque consentita
all’uomo civile una qualche “immedesimazione” nell’uomo naturale, la possibilità di
poter riconoscere il selvaggio come un proprio simile, sé stesso come simile al selvaggio.
5
Disc., p. 138.
6
J. Starobinski, note 3, ivi, p. 1311.
1
D. Diderot, «Droit naturel», in Encyclopédie, Paris 1986, vol. I, p. 336.
2
J. Starobinski, Jean-Jacques Rousseau. La trasparenza e l’ostacolo (1958), trad. it.
di R. Albertini, Bologna 1982, p. 58.
3
P. Burgelin, La philosophie de l’existence, cit., p. 227.
4
B. Carnevali, Romanticismo e riconoscimento. Figure della coscienza in Rousseau,
Bologna 2004, p. 75.
5
R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo (1950), trad. it. di R.
Ferrara, Bologna 1993, p. 202.
6
J. Starobinski, Jean-Jacques Rousseau. La trasparenza e l’ostacolo, cit., p. 338.
7
Ivi, p. 319.
8
Ivi, p. 13.
9
R. Derathé, Le rationalisme de J.-J. Rousseau, Paris 1948, p. 14.
1
M. Reale, Le ragioni della politica. J.-J. Rousseau dal “Discorso
sull’ineguaglianza” al “Contratto”, Roma 1983, p. 123.
2
Ibidem.
3
Ivi, p. 206.
4
P. Burgelin, La philosophie de l’existence, cit., p. 209.
1
M. Reale, Le ragioni della politica, cit., p. 115.
2
J. Derrida, Della grammatologia (1967), trad. it. a cura di G. Dalmasso, Milano
1998, p. 344.
3
A. Philonenko, J.-J. Rousseau et la pensée du malheur, I, cit., p. 146.
4
Cfr. J.-J. Rousseau, Du contract social, in Œuvres complètes, cit., vol. III (d’ora in
poi: Contr.), II, 7, pp. 381 e sgg.
1
Cfr. K. Barth, La teologia protestante del XIX secolo (1946), trad. it., Milano 1975,
pp. 268-69.
2
Cfr. J. Starobinski, Jean-Jacques Rousseau. La trasparenza e l’ostacolo, cit., p. 39.
3
Ivi, p. 48.
4
Cfr. M. Reale, Le ragioni della politica, cit., p. 279.
1
Disc., p. 138.
2
Ibidem.
1
J. Starobinski, nota 3, ivi, p. 1311.
2
Ivi, p. 141.
1
Il testo del Discours non afferma, come talvolta lo si legge, che riguardo
all’intelletto non vi sia alcuna «distinction spécifique» tra uomo e animale, ma solo che
«ce n'est donc pas tant l'entendement qui fait parmi les animaux la distinction spécifique
de l'homme que sa qualité d'agent libre»: la facoltà intellettuale, come qualità distintiva,
non scompare, ma perde solo il suo primato rispetto alla libertà. Ciò nonostante, poiché
gli animali sono dotati anch’essi di intelletto, senza che ciò permetta di riferir loro alcuna
spitualité, l’intelletto umano può essere incluso nella definizione dell’esprit solo a patto
di cancellare la sua separazione dalla libertà, di subordinarsi ad essa. Cfr. ivi, pp. 141,
dove si passa senza soluzione di continuità dalla considerazione della differenza tra
intelletto animale ed umano a quella della differenza tra la mera istintualità della bestia e
l’umana libertà, e proprio l’assenza di ogni chiarimento riguardo a questo passaggio da
una differenza all’altra sembra lasciar intendere che esse non siano, alla radice, che
un’unica differenza, e che cioè la vera differenza dell’intelletto umano con quello
animale sia da individuare, prima ancora che nella sua maggiore capacità di combinare le
idee, proprio in quel suo legame con la libertà che lo priva del saldo fondamento che
l’animale, nel combinare le proprie idee, può trovare nell’istinto. La differenza tra
l’entendement animale e l’umano sembra ridursi, a prima vista, a quella «du plus au
moins». A ben vedere, però, l’intelletto umano, in quanto appartenente a un soggetto
capace di distinguersi dalla natura, è posto dal suo nesso immediato con la libertà in una
differenza non più quantitativa ma qualitativa rispetto all’analoga facoltà animale. Se
«tout animal […] combine même ses idées jusqu’à un certain point», il punto è che
nell’animale questa “combinazione” è solo uno strumento usato dall’istinto per realizzare
sé stesso, mentre nell’uomo l’assenza di un istinto priva l’operare dell’entendement di
qualunque fondamento.
2 Disc., p. 142
1
A. Philonenko, J.-J. Rousseau et la pensée du malheur, I, cit., p. 185.
2
Cfr. R. Polin, La politique de la solitude, cit., p. 57.
1
Cfr. J.-J. Rousseau, Emile, ou de l’éducation, in Œuvres complètes, cit., vol. IV
(d’ora in poi: Émile), p. 601.
2
Disc., p. 138.
3
Ivi, p. 140.
4
Ivi, p. 138.
5
Ivi, p. 139.
1
Ivi, p. 143.
1
È proprio per questo, come sappiamo, che l’uomo naturale è essenzialmente,
strutturalmente innocente: perché la «voix de la Nature» – quella stessa «voix» attraverso
la quale deve farsi sentire la «loi naturelle» – non ha altro senso se non quello che la
volontà stessa (nella sua unità con l’entendement-réflexion) «concorre» a determinare, o
a chiarire, ed è allora perfettamente insensato parlare di una violazione da parte
dell’uomo di quella regola che egli stesso ha deliberatamente imposto a sé stesso.
2
Cfr. ivi, p. 141.
3
J. Starobinski, Du Discours de l’inegalité au Contract social, in AA.VV., Études
sur le «Contrat social» de J.-J. Rousseau, Paris 1964, p. 99.
4
B. Baczko, Rousseau. Solitude et communauté, Paris-La Haye 1974, p. 90.
5
L. Pezzillo, Rousseau e Hobbes. Fondamenti razionali per una democrazia politica,
Genève-Paris 1987, p. 37.
6
R. Polin, La politique de la solitude, cit., p. 51.
1
Cfr. Disc., p. 161. Per l’importanza generale che ci pare rivestire questa lunga
digressione russoiana, ci riserviamo di parlarne più diffusamente altrove. Per ora,
ricordiamo soltanto che ad essere ammessa nel passo citato è la possibilità di una
depravazione la quale, per quanto incapace di successo, è comunque tutta interna al puro
stato di natura, e determinata da condizioni in ultima istanza assolutamente naturali, e più
precisamente dalla «ferocia», che abbiamo già visto propria dell’uomo naturale, e da
quella pigrizia che con l’«ardore per il benessere» è tutt’uno, e che in Disc, Note x, p.
211 viene detta comune alla «plûpart des animaux, sans en excepter l’homme».
2
Sarebbe ciò nonostante impossibile, oltre che ingeneroso, affermare che esso sia
privo di qualunque fondamento nel testo russoiano stesso. L’intento dichiarato
dell’opera, infatti, è quello di spiegare l’insorgere e il progressivo sviluppo, assieme alla
disuguaglianza, di quell’«excès de corruption» da cui è caratterizzato il dispotismo,
questo stato di natura capovolto (ivi, p. 191). Il metodo costantemente usato da Rousseau
è però quello di lasciar sempre balenare la corruzione, già quando essa è assente, in
relazione a quegli elementi che, pur ancora incorrotti, si sa già retrospettivamente che
dovranno contribuire alla sua produzione. Il fatto che nella ricostruzione genealogica
della modernità messa a punto attraverso il Discours la meta – la corruzione dell’uomo
civilizzato – sia data per così dire già prima dell’inizio, costringe il racconto a
risussumere ad essa ogni propria movenza, assumendo così il ritmo e l’apparenza di un
progressivo farsi manifesto di un destino che sembra sempre già presente – già compiuto,
già scritto – all’orizzonte. (Sulla fine del racconto come già data, cfr. A. Burgio,
Necessità della storia e storia impossibile. Per un’analisi metodologica del «Discours
sur l’inégalité» di Rousseau¸ «Studi settecenteschi», vol. 11-12, 1988-89, p. 138, dove si
legge che «è il giudizio di condanna dello stato attuale delle cose, che determina la forma
complessiva del racconto e il suo stesso esordio»). Riguardo alla riflessione, ad esempio,
potrebbe quasi sembrare – come spesso si è preteso – che la descrizione del suo
“insorgere” rappresenti una forma secolarizzata di spiegazione dell’originario avvento
della corruzione “morale”, del peccato originale, dell’orgoglio. In realtà essa non
costituisce se non la presa di consapevolezza, da parte dell’uomo, della propria
superiorità in quanto membro della specie umana sugli altri animali. A presentarsi, cioè,
è da una parte una prima forma di coscienza di specie, e dall’altro il riconoscimento di
una superiorità cui l’uomo, se è vero – come Rousseau ripeterà in diversi luoghi della sua
opera – che egli è il «Roy de la terre» (Emile, p. 582), può andare a giusto titolo
orgoglioso. Se infatti ci si sofferma sull’aspetto “morale”, poi, si vede bene che in Disc.,
p. 165-6: a) il presentarsi della riflessione non è, già di per sé, quello del vizio
dell’orgoglio, della pretesa, cioè, di essere superiore al proprio simile, ma solo un fattore
da cui l’orgoglio è “preparato”, che ne costituisce cioè una condizione necessaria sì, ma
insufficiente: la necessaria condizione di possibilità, ma non la necessità del suo attuarsi;
b) il primo esito della riflessione è, nell’atto stesso in cui si produce la consapevolezza
della propria superiorità sugli altri animali, il riconoscimento della propria somiglianza
con l’altro uomo, che è al tempo stesso riconoscimento dell’uguaglianza col proprio
simile. Si vuol forse dire che il riconoscimento della naturale uguaglianza tra gli uomini
sia per Rousseau un peccato?
1 Ivi, p. 136
2
Ivi, p. 166.
3
Ibidem.
4
Ivi, p. 145.
5 Ivi, p. 132
6
Ivi, p. 125.
7
Ivi, p. 133.
8
Ivi, pp. 145.
C'est la Philosophie qui l'isole ; c'est par elle qu'il dit en secret, à l'aspect
d'un homme souffrant : péris si tu veux, je suis en sureté. Il n'y a plus que
les dangers de la société entiére qui troublent le sommeil tranquille du
Philosophe, et qui l'arrachent de son lit. On peut impunément égorger son
semblable sous sa fenêstre ; il n'a qu'à mettre ses mains sur ses oreilles et
s'argumenter un peu pour empêcher la Nature qui se révolte en lui, de
l'identifier avec celui qu'on assassine. L'homme Sauvage n'a point cet
admirable talent […], on le voit toujours se livrer étourdiment au premier
sentiment de l'Humanité.4
1
Ivi, p. 125.
2
Ivi, pp. 156-7.
3
Cfr. ivi, p. 155.
4
Cfr. ivi, p. 156.
1
Cfr. J.-J. Rousseau, Préface au Narcisse, in Œuvres complètes, cit., vol. II, p. 969
1
Ivi, p. 144.
2
Ivi, p. 157.
3
Ivi, p. 144.
4
Ivi, p. ultima pagina del discorso.
5
Ivi, p. 153.
6
Ivi, p. 175.
7
Ivi, p. 145.
8
Ivi, p. 192.
9
Ivi, p. 177.
1
Cfr. A. Kramer-Marietti, Droit naturel et état de nature, in AA.VV., J.-J. Rousseau
et la crise contemporaine de la conscience, Paris 1978, pp. 175-208, e in particolare pp.
186-7.
2
R. Polin, La politique de la solitude, cit., p. 43.
3
J. Starobinski, Introduction a Disc., p. lvi.
4
Ivi, p. 165.
1
Ivi, p. 146.
2 Ivi, p. 142.
3
Ibidem.
1
Cfr. ivi, pp. 149-150.
2
Cfr. ivi, p. 141.
3
Ivi, p. 149: « C'est une des raisons pour quoi les animaux ne sauraient se former de telles
idées, ni jamais acquérir la perfectibilité qui en dépend». Si tratta di capire, in realtà, se tale
affermazione vada letta nel senso che sia “tutta” la perfettibilità o piuttosto solo una
qualche “parte” a dipenderne: «la perfectibilité, qui en dépend» o «la perfectibilité qui en
dépend»? La versione russoiana, in realtà, è la seconda. Né il mutamento che la
perfettibilità rende possibile è tale da riguardare, nell’uomo, solo le sue idee o
conoscenze, rimanendo esterno, per tutto il resto, all’identità profonda dell’uomo, né può
essere il sapere o non sapere ad essere assunto come suo fondamento unico, come se il
corso della storia dipendesse solo dalla conoscenza, dalla consapevolezza dell’uomo.
Senza approfondire qui questi problemi, non si può non notare come sia proprio
nell’assenza di una semplice virgola, nel vuoto che questa assenza spalanca tra
perfettibilità e conoscenza, che giunge a farsi presente l’interezza del pensiero russoiano,
della sua antropologia come della sua concezione della storia.
4
Cfr. Disc., p. 142: «faculté qui, à l’aide des circonstances, développe
successivement toutes les autres», dove le «circostanze» – come le parole per il pensiero
– vengono nominate appunto come un «aiuto» alla perfettibilità.
1
Cfr. J.-J. Rousseau, Essai sur l’origine des langues, in Œuvres complètes, cit., vol.
V, p. 7.
2
R. Polin, La politique de la solitude, cit., p. 11.
3
Ivi, p. 4.
4
P. Burgelin, La philosophie de l’existence, cit., p. 251.
1
R. Esposito, Communitas. Origine e destino delle comunità, Torino 1998, p. 40.
2
R.D. Masters, The political philosophy of Rousseau, cit., p. 150: «l’uomo primitivo
è diverso dagli altri animali […] perché egli ha una specie di scelta, che a quelli manca».
3
R. Polin, La politique de la solitude, cit., p. 41.
4
Ivi, p. 35.
5
Cfr. V. Goldschmidt, Anthropologie et politique. Les principes du Système de
Rousseau, Paris 1974, pp. 276-84.
6
I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau. Per la storia del concetto democratico
di libertà (1960), trad. it. di L. Derla, Milano 1972, p. 23.
7
Contr., I, 8, p. 364; dove sembra che umanità e intelligenza vengano a coincidere.
8
Ivi, II, 7, p. 381, dove si parla appunto di «changer […] la nature humaine»
9
Disc., p. 142.
1
V. Goldschmidt, Anthropologie et politique, cit., p. 288.
2
L. Strauss, Diritto naturale e storia (1953), trad. it. di N. Pierri, Venezia 1957, p.
262.
3
J. Lovejoy, L’albero della conoscenza. Saggi sulla storia delle idee (1949), trad. it.,
Bologna 1982, p. 54.
4
V. Goldschmidt, Anthropologie et politique, cit., p. 273.
5
M. Reale, Le ragioni della politica, cit., p 189.
6
L. Strauss, Diritto naturale e storia, cit., p. 263.
7
A. Illuminati, Rousseau, solitudine e comunità, Roma 2002 (che è una ristampa, con
una nuova prefazione, di J.-J. Rousseau e la fondazione dei valori borghesi, Milano
1977), p. 78.
8
R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, cit., p. 183.
1
Cfr. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio,
Torino 1949, p. 113, in cui si afferma che come l’uomo produce la società, così è «la
società a produrre l’uomo in quanto uomo».
1
Disc., p. 146.
2
Ivi, p. 147.
3
Cfr. Ivi, p. 151. Su questo passo, cfr. A. Philonenko, J.-J. Rousseau et la pensée du
malheur, I, cit., p. 199.
4
V. Goldschmidt, Anthropologie et politique, cit., p. 303.
1
Disc., p. 134.
2
Ivi, p. 151.
3
Ivi, p. 146.
4
Ivi, p. 151.
5
Ivi, p. 148.
6
L. Strauss, Diritto naturale e storia, cit., p. 263: dove peraltro, enunciandolo come
quello della semplice simultaneità, Strauss indica sì l’essenzialità del nesso tra ragione e
linguaggio, ma in modo del tutto generico, indeterminato, senza affrontare cioè il
problema vero e proprio.
7
R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, cit., p. 203.
1
Ivi, p. 185.
2
Ci limiteremo qui a notare che la Seconde partie svolge in un senso assolutamente
naturalistico il tema della genesi congiunta di linguaggio e società, seguendolo in quelle
sue diverse tappe – libere associazioni, famiglia, società nascente – che si susseguono
senza alcun bisogno di patteggiamenti. L’assimilazione dell’uomo ai lupi e alle scimmie,
ad ogni modo, sta ad indicare anche nel Discours, come nell’Essai, l’originalità di una
qualche pur occasionale dimensione gregaria, di branco, ed è a questa dimensione che
all’inizio della Seconde partie viene collegata una forma embrionale di linguaggio, che è
dunque impossibile escludere dal puro stato di natura. La nostra ipotesi, su cui torneremo
brevemente nel terzo paragrafo, è che come la competizione, anche le prime forme di
cooperazione – occasionali, prive di regole esplicite, legate a un fine determinato,
all’«intérêt présent et sensible» – debbano essere incluse all’interno del puro stato di
natura russoiano. Esse non solo sono strutturalmente descritte esattamente nei medesimi
termini in cui viene descritta quella originaria forma di «association libre» (Disc. p. 166),
di cooperazione che è il rapporto sessuale, ma introdotte inoltre all’inizio della Seconde
partie: in un contesto, come vedremo tra breve, che sembra sì mettere in scena nuovi
elementi, e che in realtà si limita a chiarire il senso di quelli già nascostamente presenti
nella Première partie. Tali forme di associazioni «n'éxigeoit pas un langage beaucoup
plus rafiné que celui des Corneilles ou des Singes, qui s'attroupent à peu près de
même», di modo che «Des cris inarticulés, beaucoup de gestes et quelques bruits
imitatifs durent composer pendant longtemps la langue universelle » (Ivi., p. 167).
Questa langue universelle, però, è esattamente la stessa di cui la Première partie
riconosceva la presenza nel puro stato di natura, nel quale, prima che si stabilisse tra loro
«une communication plus étroite» (ma dunque una qualche communication era già
presente) «le premier langage de l’homme, le langage le plus universel, le plus
énergique, et le seul dont il eut besoin, […], est le cri de la nature» (ivi, p. 148).
1
Cfr. V. Goldschmidt, Anthropologie et politique, cit., p. 303.
2
Disc., p. 146
1
Disc., p. 152.
2
R. Polin, La politique de la solitude, cit., p. 11.
3
Che infatti «parloient de l’Homme Sauvage et […] peignoient l’homme Civil»
(Disc., p. 132), ed erano anzi «obligés de faire de l'homme un philosophe avant que
d'en faire un homme» (ivi, p. 126).
1
Cfr. P. Burgelin, Hors des ténèbres de la nature, «Annales de philosophie
politique», 5, 1965.
2
Cfr. Disc., p. 144.
3
V. Goldschmidt, Anthropologie et politique, cit., p. 267, dove va notata la
confusione della ragione «coltivata» con la ragione tout court.
4
Cfr. M. Reale, Le ragioni della politica, cit., p. 111, dove tale intrinseca
contraddittorietà è riferita non alla sola ragione «coltivata», ma anche a una ragione sia
pur solo «embrionale».
5
Disc., p. 160.
1
Ivi, p. 142.
2
Cfr. J. Starobinski, note 2, ivi, p. 1307, dove perentoriamente si afferma che
«l’uomo è sprovvisto d’istinto», e R.D. Masters, The political philosophy of Rousseau,
cit., p. 149.
1
Ivi, p. 126.
2
Ivi, p. 155.
3
Ivi., p. 126.
1
C.E. Vaughan, Introduction a The political writings of J.-J. Rousseau, trad. ingl.,
Cambridge 1915, p. 449.
2
R. Pezzillo, Rousseau e Hobbes, cit., p. 58.
3
Su questo punto, poco considerato dalla letteratura critica, cfr. P. Vernière, Spinoza
et la pensée française avant la revolution, Paris 1954, p. 482: «Niente più leggi naturali
esprimenti l’origine divina dell’uomo o le sue esigenze religiose: Rousseau si rifiuta
all’atto di fede di Voltaire, di Pufendorf, di Locke». Cfr. anche V. Goldschmidt,
Anthropologie et politique, cit., p. 319.
4
Cfr. V. Goldschmidt, Anthropologie et politique, cit., p. 270, dove si distingue una
prima sezione dedicata all’uomo “fisico”, il cui l’esempio centrale è quello
dell’esclusione della malattia; da una seconda, il cui oggetto è l’uomo “metafisico”, e ciò
che in particolare viene escluso è la presenza del linguaggio; da una terza, incentrata
sull’aspetto “morale” del selvaggio e, a titolo esemplificativo, sulla sottrazione all’uomo
naturale dell’aspetto “morale”, appunto, dell’amore.
1
Disc., p. 136.
2
Ibidem.
3
Ivi, Note ix, p. 203
1
Ivi, p. 74.
2
Cfr. ivi, p. 152.
3
Cfr. supra, penultimo capoverso di § 1.2.
4
Disc., p. 166. In questo senso, bisogna ritenere che la pietà, che pure gli si può
opporre, non è un «motivo» radicalmente diverso, irriducibile, duale rispetto all’amore di
sé, ma solo una sua interna determinazione, legata all’identificazione immaginativa tra sé
e l’altro, della sofferenza dell’altro come la propria. Non ci pare dunque che si possa
opporre il Discours all’Émile, come se il primo presentasse una dualità di princìpi
affettivi elementari che il secondo giungerebbe invece a superare.
1
Ivi, p. 156.
2
Ivi, p. 126. Si può notare, qui, che espoir e préférence sono entrambe indissociabili
da un qualche impiego della riflessione.
3
Ivi, .p. 155.
4
Cfr. ivi, p. 154.
5
Ivi, p. 156.
6
Ibidem (corsivo di Rousseau).
7
M. Reale, Le ragioni della politica, cit., p. 213, che però trae motivo, da questa
constatazione, per escludere la pietà dal quadro del puro stato di natura.
8
A. Loche, Immagini dello stato di natura in J.-J. Rousseau, Milano 2003, p. 47.
1
Ivi, p. 125
2
Per alcune rapide considerazioni al riguardo, da un diverso punto di vista, ci
permettiamo di rinviare al nostro Il diritto, i costumi. Dal «Discorso sull’origine della
diseguaglianza» al «Contratto sociale», «Il cannocchiale. Rivista di filosofia», 2008, n.
1, pp. 68-90.
3
Disc., p. 143.
4
Ivi., p. 144.
5
Ivi, p. 143.
1
Ivi, p. 144.
2
A. Burgio, Necessità della storia e storia impossibile, cit., p. 117.
3
Ivi, p. 157.
4
Disc., p. 132.
5
Ivi, p. 161.
6
Ivi, p. 132.
7
Ivi, p. 125.
8
Ivi, p. 160.
1
Ivi, p. 143.
2
A. Philonenko, J.-J. Rousseau et la pensée du malheur, I, cit., p. 137.
1
Disc., p. 140.
2
Cfr. Ivi, p. 160, dove si parla di «peu de passions».
3
Cfr. Ivi, p. 157.
4
Ivi, p. 143
5
Ivi, p. 144.
6
P. Burgelin, La philosophie de l’éxistence, cit., p. 226.
7
Ivi, p. 230.
1
J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 250.
2
M. Reale, Le ragioni della politica, cit., p. 189
3
J. Starobinski, Jean-Jacques Rousseau. La trasparenza e l’ostacolo, cit., p. 58.
4
Ibidem.
5
R. Polin, La politique de la solitude, cit., 71.
1
A stagliarsi sullo sfondo, qui, è l’idea di un’essenziale priorità del momento pratico
su quello cognitivo: è innanzitutto l’agire a produrre e determinare le conoscenze che
esso stesso esige, e non una conoscenza, già acquisita a prescindere dall’azione, a
determinarla ed indirizzarla dall’esterno.
2
Cfr. Disc., pp. 149-150.
1
Ivi, p. 150.
2
Si noti che quest’ultima esclamazione non può in nessun modo essere considerata
una svista, perché viene ripresa quasi alla lettera («l’arte periva con l’inventore», ivi, p.
68) diverse pagine dopo, e proprio al momento di fornire un riassunto degli esiti già
raggiunti.
3
Rousseau si domanda infatti «combien de fois […] chacun de ces secrets n’est-il
pas mort avec celui qui l’avoit découvert?». Il dominio del fuoco, come apprendimento di
un’«arte», di una qualche padronanza tecnica sui fenomeni naturali, non può costituire di
per sé stesso il superamento dello stato di natura, perché questo stato è caratterizzato
innanzitutto dalla solitudine. È questa solitudine, che non ne viene intaccata, che
costringe la scoperta a perire con l’inventore, e per ciò stesso ad una indefinita
reiterazione.
1
Ivi, p. 146.
2
Ivi, p. 142.
3
Ivi, p. 160.
4
Ivi, p. 142.
5
Ivi, p. 123.
6
Ivi, p. 160.
1
Cfr. H. Gouhier, La perfectibilité selon Rousseau, «Revue de théologie et de
philosophie», CX, 1978, p. 329, dove si afferma che la perfettibilità «designa un fatto
molto semplice: la reazione dell’esercizio sulla facoltà che si esercita», il fatto cioè che le
facoltà siano concepite non come cose, ma come «funzioni» le quali «sono naturalmente
perfezionate dal loro funzionare».
2
Disc., p. 142.
1
Cfr. J.-J. Rousseau, Œuvres complètes, cit., vol. IV, p. 951. Sull’applicazione di
questa metafora biologica (infanzia, maturità, decrepitezza…) alla storia del genere
umano all’interno della settecentesca filosofia del progresso, cfr. S. Landucci, I filosofi e
i selvaggi, cit., p. 235.
2
Da una parte, come si è già visto, è certamente vero che per l’uomo «apercevoir et
sentir sera son premier état, qu’il lui sera commun avec tous les animaux»; dall’altra,
però, non è meno vero che, se «vouloir et ne pas vouloir […] seront les premiéres […]
operations de son ame» (cfr. Disc., pp.142-3), quell’apercevoir e quel sentir devono
essere in realtà proprio il «sentiment» e la «conscience» – diversamente che in qualunque
altro animale – di quella «puissance», o «liberté».
1
R. Derathé, L’homme selon Rousseau, in AA.VV. Études sur le «Contrat social» de
J.-J. Rousseau, cit., pp. 203-17.
1
Cfr. V. Goldschmidt, Anthropologie et politique, cit., p. 759. Su questa particolare
struttura concettuale, nonché sul rapporto tra indeterminatezza e determinazione di
facoltà e desideri, ci permettiamo di rimandare inoltre al nostro Passione,
riconoscimento, diritto nel «Discorso sulle origini della disuguaglianza», «Post-filosofie.
Rivista di pratica filosofica e di scienze umane», 4, 2007, pp. 129-57.
1
Cfr., ad esempio, ivi, p. 136.
2
Cfr. ivi, p. 135: «S’il avoit eu une échelle, grimperoit-il si légérement sur un
arbre?».
3
Cfr. ibidem: «Accoutumé des l’enfance aux intempéries de l’air, et au rigueur des
saisons».
4
Cfr. ivi, p. 140: «Païs chauds… Païs froids».
5
Ivi, p. 136.
6
Ivi, p. 140.
7
Ivi, pp. 144. L’unico tema completamente assente nella prima metà dell’opera – o
meglio nominatovi solo en passant, quale premessa ipotetica di un ragionamento per
assurdo (cfr. ivi, p. 145) –, a ben vedere, è quello dell’incremento demografico. Non è un
caso allora che proprio su di esso molti interpreti (cfr. ad esempio, L. Strauss, Diritto
naturale e storia, cit., p. 265; A. Philonenko, J.-J. Rousseau et la pensée du malheur, I,
cit., p. 195; B. Carnevali, Romanticismo e riconoscimento, cit., p. 72) si siano trovati a
far leva nel tentativo di chiarire dove possa mai essere collocata, all’interno della cornice
del Discours, l’origine della storia, a quale elemento riferita la scintilla che, innescando
l’inarrestabile meccanismo dell’evoluzione, segna il passaggio dell’uomo al di là del
«puro stato di natura». Ad una simile interpretazione del problema dell’origine della
storia – o del passaggio ad essa – intesa come «un processo naturale, dovuto non all’uso
buono o cattivo della libertà, o a una necessità essenziale, ma alla meccanica causalità»
(L. Strauss, Diritto naturale e storia, cit., p. 266), all’«attività incosciente di riproduzione
della specie» e al carattere illimitato «attività sessuale» (A. Philonenko, J.-J. Rousseau et
la pensée du malheur, I, cit., p. 195), che determina assieme sovrappopolazione e
migrazioni, può esser mossa in realtà – ad un livello, per il momento, di semplice critica
testuale – almeno un’obiezione. Leggendo il testo con attenzione si nota subito un primo
indizio. Il prodursi della «différence […] dans leur manières de vivre», legata al differire
«des terrains, des Climats, des saisons», viene infatti connessa al progressivo “estendersi
del genere umano” come a una sua conseguenza (Disc., p. 165). È in forza cioè di un
incremento demografico che l’uomo, costretto a migrare per sopravvivere, si imbattere in
quella «différence» e ne viene costretto egli stesso a mutare. Se però si tiene conto, in
primo luogo, di come la differenza di climi e stagioni fosse già stata introdotta nella
Première partie come un elemento interno del puro stato di natura, e in secondo luogo di
come sia Rousseau stesso a parlare, esattamente nel riassunto degli esiti già raggiunti
proprio nella Première partie, di «diverses maniéres d’exister», non si vede come
potrebbe allora negarsi un’identica “interiorità” a ciò che pure, di questa differenza dei
climi e dei modi di vivere, è la causa: alla migrazione e all’accrescimento numerico che
la occasiona e necessita. Lungo l’intera produzione russoiana, in effetti, è presente un
nesso imprescindibile tra estensione della popolazione e felicità (basti qui ricordare
Contr., III, 9, «Des signes d’un bon gouvernement», p. 420, dove « leur [dei cittadini]
nombre et leur population» sono un segno evidente della conformità dell’associazione
politica al proprio fine, e cioè – almeno in questo passo – «la conservation e la prospérité
de ses membres»). Anche in un frammento politico che originariamente doveva costituire
proprio la risposta a un problema posto e non risolto dal Discours (cfr. Disc., p. 152), si
può leggere che «quicinqye renonçant de bonne foi à tous les préjugés de la vanité
humaine, réfléchira sérieusement à toutes ces choses, […] concluera, malgré tous les
sophismes des raisonneurs, que le pur état de nature est celui de tous où les hommes
seroient le moins méchants, le plus heureux, et en plus grand nombre sur la terre» (cfr.
J.-J. Rousseau, Fragments politiques, In Œuvres complètes, cit., vol. III, p. 475). Questo
per dire non che la diffusione del genere umano nei vari luoghi del globo fosse un dato
originario, ma che essa dovette rappresentare un’altra delle interne evoluzioni dello stato
di natura, insufficiente, di per sé stessa, ad infrangerne i confini.
1
Ivi, p. 162.
però, come abbiamo visto in precedenza, le tracce anche di questa «prudence» sono
rinvenibili all’interno del puro stato di natura, allora quella genesi non altrove potrà
essere collocata se non all’interno di questo stato stesso.
1
Ivi, p. 165.
1
B. Carnevali, Romanticismo e riconoscimento, cit., p. 75
2
M. Viroli, J.-J. Rousseau e la teoria della società ben ordinata (1988), trad. it.,
Bologna 1993, p. 28.
3
Y. Belaval, La théorie du jugement dans l’«Emile», in AA.VV., J.-J. Rousseau,
Neuchâtel-Paris 1978, p. 151.
1
Disc., p. 149.
2
J.-J. Rousseau, Œuvres complètes, cit., vol. IV, p. 1122.
1
In modo ancora più radicale, si può supporre che «l’applicazione degli esseri diversi
a sé stesso» stia ad indicare non solo l’uso degli strumenti, ma qualunque contatto col
mondo. In questo senso, generalizzando le nostre conclusioni, si può affermare che è solo
la riflessione ad organizzare una serie di dati sensibili nell’oggettività propria del mondo
dell’esperienza, consentendo ad esempio di riferire una serie di sensazioni di per sé stesse
irrelate ad un medesimo oggetto.
1
Disc., p. 142.
1
Ibidem.
2
Ivi, p. 122.
3
Émile, pp. 279-80.
4
Ivi, p. 246.
1
Disc., p. 144.
2
Émile, p. 280.
3
Disc, p. 154
1
Ivi., p. 147.
2
Ivi, p. 154, dove a proposito delle madri si parla «des perils qu’elles
bravent, pour les [i figli] en garantir».
3
Cfr. ivi, p. 155, 162.
1
P. Burgelin, La philosophie de l’existence, cit., p. 247.
1
Disc., p. 166. Sulla base di una pretesa incompatibilità di storia e natura, però, si
ragiona allora così: se è vero che dove c’è società c’è storia, e dove c’è riflessione non
può non formarsi la società, allora è anche vero che, dove fosse presente la riflessione,
dovrebbe non esserlo più la natura, e anzi non esserlo mai stata, se alla riflessione si
attribuisce un carattere originario; poiché però la negazione dell’identità di natura ed
origine che ne risulterebbe cozza evidentemente con tutta l’argomentazione russoiana, la
riflessione non può essere qualcosa di originario. Non dovrebbe essere difficile, giunti a
questo punto, intuire l’equivoco concettuale che sta a fondamento di un simile
ragionamento.
1
M. Reale, Le ragioni della politica, cit., p. 213; cfr. anche A. Burgio, Eguaglianza
interesse unanimità, cit., p. 31.
2
Disc., p. 160.
3
Ivi, p. 146
4
Cfr. ivi, p. 122.
1
Cfr. C. Lévi-Strauss, Jean-Jacques Rousseau, fondateur des sciences de l’homme,
in J. Guehenno, C. Lévi-Strauss, J. Starobinski et al., Jean-Jacques Rousseau, Neuchâtel
1962, tradotto in italiano come «Postfazione» a J.-J. Rousseau, Emilio, a cura di P.
Massimi, Milano, 2004, di cui vedi p. 707.
2
S. Pufendorf, De jure naturae et jentium, 1672, lib. II, cap. III, § 18 (citiamo,
traducendo a nostra volta, la traduzione francese di Barbeyrac, Droit de la nature et des
gens, Amsterdam 1706). Anche su questo punto sarebbe forse necessario un
aggiornamento dell’operazione di contestualizzazione già magistralmente compiuta da
Derathé (il quale però, proprio su un problema così importante, non riesce a scorgere il
nesso che stringe assieme “Rousseau e la scienza politica del suo tempo”): ferma
restando la radicalità della rottura col pensiero giusnaturalistico, infatti, non per questo è
opportuno misconoscerne, quando siano evidentemente presenti, i debiti e le influenze
(su questo punto, da un altro punto di vista, cfr. A. Burgio, Necessità della storia e storia
impossibile, cit., p. 134, dove si parla di come «si riducano le distanza che Rousseau
pretende enormi dai propri avversari»).
1
Disc., p. 155.
2
Ivi, Note xv, p. 219.
1
Una virtù, si badi, che non può essere intesa nella sola accezione “fisica” del
termine, nel senso cioè in cui virtù sarebbe una qualità che può contribuire alla
conservazione dell’individuo (cfr. ivi, p. 152): in che senso, infatti, nel puro stato di
natura, in cui non può aspettarsi nulla in cambio, l’aiuto che un uomo presta ad un altro
sarebbe utile alla sua propria conservazione?
2
Ivi, p. 126.
3
Il riconoscimento dell’identità del loro «maniére de penser et de sentir», ovvero
della loro natura, spinge immediatamente gli uomini tanto a comprendere «les meilleures
régles de conduite que pour son avantage et sa sureté ul lui convînt de garder avec eux
[gli altri uomini]», quanto a riunirsi «en tropeau, ou tout au plus par quelque sorte
d’association libre qui[…] ne duroit qu’autant le besoin passeger qui l’avoit formée» (ivi,
p. 166). Si capisce come precisamente il riconoscimento di quell’identità e di questo
«vantaggio» vengano a rappresentare, senza nessun bisogno di patteggiamenti, tutto ciò
«que les hommes ont dû employer pour l’établissement de la société» (ivi, p. 125).
1
J.-J. Rousseau, Œuvres complètes, cit., vol. III, p. 476. Si tratta di un frammento
immediatamente legato alla stesura della pagina del Discours che stiamo considerando. È
forse interessante notare che nell’atto stesso di indicare queste «libere associazioni», che
duravano quanto il particolare bisogno che le aveva occasionate, come di volta in volta
formate per il conseguimento di un qualche «fine determinato», Rousseau fa
implicitamente riferimento a un’associazione il cui fine rimane del tutto “indeterminato”:
nulla di particolare, cioè, o tale da poter essere conseguito una volta per tutte. Quale sia
questo fine – la riproduzione della società stessa? lo sviluppo dell’umanità? l’impossibile
soddisfazione dell’amour-propre? – rimane peraltro, come è giusto, indeterminato.
2
Cfr. R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, cit., p. 185, dove però
la socievolezza viene considerata come un sentimento bensì innato, e capace però di
attivarsi solo in società: l’uomo, infatti, «diventerà veramente socievole solo dopo aver
vissuto tra gli uomini».
3
Non è un caso allora che proprio la conclusione della Première partie, nell’atto
stesso di parlare della «perfectibilité, les vertus sociales, et les autres facultés que
l’homme Naturel avoit reçues en puissance», si trovi a includere le «vertus sociales» nel
più ampio insieme delle “facoltà potenziali”, di quelle «puissances» cioè che, come
abbiamo visto, trovano in sé stesse – sebbene, è vero, solo col «concours fortuit de
plusieurs causes étrangeres» – la forza di “passare” all’atto (cfr. Disc, p. 162).
4
Non è privo di interesse, a questo punto, notare che l’affermazione contenuta nella
Lettre à Philopolis, per la quale «la société est naturelle à l’espéce humaine comme la
décrepitude à l’individu» (J.-J. Rousseau, Œuvres complètes, cit., vol. III, p. 232), limita
di fatto il ruolo delle «circonstances extérieures» a quello di rallentare o accelerare un
processo che viene pensato come inevitabile. Il fatto che cioè la società «découle de la
nature du genre humain, non pas immédiatement», ma solo in relazione a quelle
circostanze, non significa che possa non scaturirne, ma da una parte che la socievolezza è
solo “implicita” nella natura umana, derivando – ma in modo necessario – solo dalla
mediazione di amore di sé e pietà (cfr. Disc., p. 219); dall’altra, come si capisce bene
1
Disc., p. 151. Dove è da notare che se è vero, da una parte, che in ivi, p. 166
l’«association libre» viene definita appunto come quella in cui gli uomini si uniscono in
«troupeau», altrettanto vero, d’altra parte, è che anche delle scimmie, in ivi, p. 167, si
dice que «s’attroupent». Se l’uomo naturale e una scimmia hanno il medesimo bisogno
del proprio simile, e se però le scimmie si uniscono in troupeau, allora la libre
association non può essere se non una possibilità tutta interna al pur état de Nature.
2
Ivi, p. 167.
3
Ivi, p. 160.
4
Per il linguaggio cfr. ivi, p. 167 e p. 148, e cfr., supra, la nota relativa in § 2.2.; per
la previdenza, poi, p. 167 e p. 144.
1
A. Burgio, Eguaglianza interesse unanimità, cit., p. 41.
2
R.D. Masters, The political philosophy of Rousseau, cit., p. 169.
3
Cfr. Disc., p. 136: «Il n’est pas venu dans l’esprit de la plupart des nôtres [i filosofi]
de douter que l’Etat de Nature eût existé». Questa negazione dell’esistenza dello stato di
natura (ma subito dopo si precisa: del «puro stato di natura») deve essere presa alla
lettera, e non come una forma di autocensura. Punto, questo, che è indubitabilmente
confermato dalla precisa dichiarazione successiva, nella quale si afferma che, scartando i
fatti, si procederà nel Discours tramite «des raisonnemens hypothétiques et
conditionnels; plus propres à éclaircir la Nature des Choses qu’à montrer la véritable
origine» (ivi, p. 153). Il riferimento immediatamente successivo ai Livres Sacrés e agli
Ecrits de Moïse non serve a stemperare l’originalità del proprio discorso, ma semmai ad
evidenziarla: la maggior parte dei filosofi non solo, come si è detto poco sopra (cfr. ivi, p.
132), non riesce a pensare il «puro stato di natura», ma neppure a metterlo in dubbio,
nonostante i contrari indizi di quella tradizione biblica, e l’ossequi che ogni Philosophe
Chrétien è tenuto a prestarle.
1
V. Goldschmidt, Anthropologie et politique, cit., p. 241.
2
M. Reale, Le ragioni della politica, cit., p. 116.