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1 Alessandro Pizzorno, nei suoi ripetuti interventi sul tema all’epoca dei fatti
(1992, 1993, 1998), pur modificando via via in modo impercettibile la sua
posizione, non tematizza adeguatamente il tema del finanziamento dei partiti,
specie nel primo intervento, quando enfatizza il ruolo del riconoscimento tra
cerchie di autorevolezza professionale (il giudizio dei pari).
decenni, trova nella Democrazia cristiana la sua espressione e la sua
difesa”2. L’argomento di Moro quando rifiutò di farsi processare nelle
piazze semplicemente era quello di poter contare su “la grande forza
dell’opinione pubblica”; ed è questa forza che gli consente di
sostenere lo scontro tra le ragioni del diritto e le ragioni della politica,
vale a dire la convinzione di vincere anche in una eventuale conta
elettorale condotta su questi temi. In secondo luogo, c’era la
conoscenza approfondita di tutti gli anfratti del cosiddetto
“consociativismo”, tradotto in termini nobili nella dizione
“democrazie consensuali” da Lijphart, con il messaggio neanche tanto
implicito sulle conseguenze di una rottura del patto informale tra
maggioranza e opposizione di sinistra (Cervetti, 1993).
Il tema dei finanziamenti illeciti da parte della Lockheed e di un
cartello molto ampio di multinazionali americane in almeno quindici
paesi stranieri era stato scoperchiato a Washington a partire dal 1975
dalla commissione Church del senato americano3, anche a causa delle
connessioni con il caso Watergate e con la procedura di messa in stato
di accusa del presidente Nixon. Le rivelazioni americane provocarono
polemiche e scandali in molti paesi, con procedimenti di tipo
giudiziario in particolare in Belgio, Germania, Giappone e Italia.
Praticamente ovunque, esse si conclusero senza gravi danni per i
politici.
Nel 1992 le cose in Italia non stavano più così e dobbiamo
comprenderne le ragioni. Anche perché quando una vicenda parallela
coinvolse Helmuth Kohl in Germania, gli avvenimenti presero una
piega molto diversa. Accusato nel 1999 di finanziamenti illeciti alla
Cdu nei primi anni novanta, in particolare in occasione delle elezioni
politiche del 1994, la vicenda di Kohl si concluse con il suo ritiro dalla
vita politica ma senza mettere in discussione l’esistenza del partito, il
quale, dopo la parentesi del socialdemocratico Schroder (1998-2005),
tornerà al governo ininterrottamente dal 2005 ad oggi.
2 La citazione è tratta da: Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, Atti
parlamentari. Resoconto della seduta comune di giovedì 9 marzo 1977.
3 Vedi la scheda dell’archivio del Senato degli Stati Uniti in https://www.senate.
gov/artandhistory/ history/minute/Church_Committee_Created.html
2. La Dc veneta, come in quasi tutte le regioni, era un crogiolo di
esperienze provinciali con una corrente egemone, i dorotei, in
contrapposizione alle regioni vicine (Lombardia, Emilia, Friuli). Dalla
generazione dei Rumor e dei Gui si passò, non senza traumi mai del
tutto cicatrizzati, alla generazione dei dirigenti nati negli anni venti, a
partire da Bisaglia (1929); ma poi, a livello regionale, troviamo
Tomelleri (1924) e i primi consiglieri regionali eletti nel 19704.
Sono loro, la terza generazione democristiana, all’epoca tra i
quaranta e i cinquant’anni, a dare avvio all’esperienza regionale nel
1970. Quella classe dirigente regionale prese alcune decisioni decisive
sul piano storico, mai rimesse in discussione nei decenni a venire. La
prima fu quella della sede della Regione a Venezia, oggi fatto
scontato, ma a quel tempo scelta sofferta a causa della competizione
con la naturale centralità geopolitica di Padova. La seconda fu
l’introduzione nello Statuto approvato nel 1971, all’articolo 2, unica
regione in Italia, dell’espressione “autogoverno del popolo veneto”
(sott. nostra) e, con legge regionale del 1975, l’adozione del gonfalone
con il leone marciano della Serenissima repubblica di Venezia. Infine
la terza grande scelta fu quella di affidare la presidenza della Giunta
regionale ad Angelo Tomelleri, un doroteo veronese, che sì aveva
ottenuto nelle prime elezioni regionali il maggior numero di
preferenze (32.276), ma soprattutto garantiva la possibilità di tenere
unita la regione attraverso un attentissimo dosaggio delle cariche più
importanti tra le sette province e le relative correnti. Poi, a metà degli
anni Settanta e negli anni Ottanta, arrivò la quarta e ultima
generazione, quella di Bernini (1938) e di Cremonese (1940)5. A loro
9 Va tuttavia ricordata, a partire dagli anni Ottanta, l’anomalia veneta in materia di enti
bilaterali regionali e di contrattazione collettiva regionale, come pure in materia di fondi
collettivi di previdenza complementare regionale (unica Regione a statuto ordinario),
tutte iniziative costruite in contrasto con le rispettive case madri di Roma ma sostenute
dalla classe dirigente di governo in Regione.
svolgere un ruolo che assomiglia molto, come già abbiamo detto, a
quello del party government nei sistemi bipartitici classici, almeno
sotto il profilo della maggiore responsabilità del partito di governo. Ne
seguì che il funzionamento dell’istituto regionale e più in generale
l’andamento del sistema economico regionale ricadevano nel bene
come nel male sulle spalle della Dc, al di là del fatto che i processi
sociali, economici e politici reali fossero davvero guidati dal partito
regionale. La stessa alta dirigenza finiva con l’identificarsi con il
partito-giunta. Anche quando lo spazio politico-amministrativo
regionale è stato movimentato da tensioni e conflitti, specie a partire
dal 1985 con le prime giunte di coalizione, dove inevitabilmente si
muovevano soggetti con aspirazioni diverse, a volte divaricanti (il Psi,
in primis), l’autorevolezza dell’alta burocrazia regionale funzionò da
ammortizzatore dei conflitti, una garanzia che impediva alle tensioni
tra i partiti di governo di esplodere in una crisi manifesta di giunta.
La via veneta al regionalismo efficiente fu dunque molto più
sfaccettata di quanto solitamente si dica. In moltissime testimonianze
di questo volume si incontrano gli ingredienti di questa mistura
alchemica fatta di professionismo politico, legittimazione popolare,
competenza amministrativa, capacità direttive, attraverso cui
filtravano giorno per giorno le risposte concrete agli interessi in gioco.
Angelo Tomelleri, Carlo Bernini e Franco Cremonese furono i
protagonisti della costruzione dell’istituzione regionale veneta e del
suo peculiare modo di funzionamento, di cui oggi sappiamo qualcosa
di più grazie alle eccellenze a quel tempo raggiunte, ad esempio nel
campo dell’agricoltura, dell’urbanistica, della sanità, della tutela della
montagna e delle aree interne.
4. È nel corso dei primi anni Ottanta che in Veneto emerge con
forza la prima “questione settentrionale”, agli inizi attraverso
movimenti regionalisti e localistici che generano una improvvisa
frattura tra politica e territorio. In pochi anni, a cavallo delle elezioni
regionali del 1980, si diffondono le prime leghe regionali, a partire
dalle province pedemontane in Veneto (con Rocchetta e Marin) e da
alcune prime iniziative locali in Piemonte (Farassino) e in Lombardia
(Bossi). I territori di primo insediamento leghista presentano una
storia pregressa comune, che li rende ben riconoscibili: sono aree a
forte influenza democristiana, costellate da una miriade di comuni a
bassa densità abitativa, basate su economie locali di piccola e
piccolissima impresa che in seguito cresceranno in misura violenta,
trasformando l’area veneta in una delle più industrializzate ed
urbanizzate d’Europa, con un modello di organizzazione sociale e
culturale fondato sul ruolo della chiesa locale e delle parrocchie.
Questo piccolo mondo antico, in apparenza composto da mille
localismi idiosincratici, presenta le stesse regolarità in un territorio
molto vasto, da Verona a Treviso, da Vicenza a Belluno. In queste
province venete, non metropolitane, di medie dimensioni, l’unica
variabile che cambia in modo davvero significativo è il dialetto nelle
sue infinite varianti locali. Sotto traccia, tra la fine degli anni Settanta
e i primi anni Ottanta, in molti angoli del Veneto (ma anche in Friuli,
Lombardia, e Piemonte), in coincidenza con le prime grandi
ristrutturazioni industriali dell’epoca, si diffondono i segnali di un
malessere nuovo, che attinge ai repertori all’epoca disponibili e non
utilizzati da nessun partito presente in parlamento: il sentimento
antimeridionale e la riscoperta delle identità locali, cioè la frattura
Nord/Sud e quella centro/periferia. Si tratta di fratture diffuse da
tempo nella cultura popolare, ma che fino ad allora nessun partito, né
di maggioranza né di opposizione, aveva trasformato in fratture nelle
identità politiche, forse perché estranee al patto fondativo della
repubblica e del sistema politico nazionale postfascista. Viene poco
sottolineato come una legittimazione alla loro emersione venga, in
modo preterintenzionale, dal dibattito metodologico di pochi anni
prima sulla “storia dal basso”, con la riscoperta e la valorizzazione
della dimensione locale. Il rilancio degli idiomi dialettali, delle storie
di paese, più la polemica – per la prima volta esplicita – contro i
“terroni”, sono i reagenti dei primi focolai del movimento leghista, e
possono attecchire in aree di militanza e di attivismo deluse dal
declino della mobilitazione politica e sociale fino ad allora concentrata
sul conflitto distributivo di tipo verticale. Le prime insorgenze leghiste
attingono, infatti, alcune importanti risorse organizzative dai
movimenti politici e sindacali entrati in crisi alla fine degli anni
Settanta e, in moltissimi casi, recuperano lì bacini di militanza delusa,
repertori di azione di base, strumenti di comunicazione popolare.
Dopo questo avvio tutto su basi localiste, lungo tutti gli anni
Ottanta, l’obiettivo polemico della propaganda leghista diventa lo
Stato centrale10, sempre più descritto come macchina burocratica ed
assistenzialista, che mette il freno allo sviluppo del Veneto attraverso
una forzosa redistribuzione fiscale a favore del Sud, dosi sempre più
massicce di centralismo, politiche di drenaggio fiscale e di spesa delle
risorse pubbliche. Si tratta, in sostanza, di un malessere di ampi ceti
sociali che sentono di aver conquistato una loro centralità economica,
ma che contemporaneamente avvertono di essere periferici dal punto
di vista politico11, danneggiati sotto il profilo redistributivo. Al
conflitto redistributivo verticale a base sociale, la propaganda della
Lega sostituisce il conflitto redistributivo orizzontale a base
territoriale, impugnando la bandiera federalista. Si tratta di un
obiettivo che incontra favori e attenzione in tutti gli schieramenti
politici, facendo leva sull’obiettiva natura centralistica
dell’amministrazione pubblica italiana. D’altronde, se per decenni un
paese rimane territorialmente diviso, l’unico modo di governarlo è
attraverso la centralizzazione delle politiche pubbliche e la
compressione delle autonomie territoriali. Diciamo meglio: se si vuole
davvero tenere unito un paese diviso, l’unico modo per farlo è
attraverso una forzosa redistribuzione fiscale svolta dal centro, oppure,
in alternativa, attraverso una strategia politi- co-economica che
conduca in tempi ragionevoli al riequilibrio tra le sue diverse parti12.
dopo la riunificazione nel 1990, quando le distanze in termini di Pil procapite tra i
lander dell’Est e dell’Ovest erano superiori a quelle tra le regioni del Sud e del Nord
in Italia.
13 Qui vale solo la pena ricordare quanto scrisse all'epoca dei fatti Luciano Cafagna,
uno dei pochissimi a non banalizzare e a prendere sul serio i problemi di lunghissimo
periodo che si nascondevano dietro l’inattesa riemersione della frattura Nord/Sud:
“Oggi sono convinto che (…) lo sviluppo del Nord Italia si sarebbe svolto, anche per
il seguito, egualmente bene, e forse meglio, anche senza la unificazione politica (…)
non è da escludere che anche il Mezzogiorno, restando autonomo, avrebbe potuto trovare
una sua più vantaggiosa via di sviluppo” (Cafagna, 1989, pp. 7-15).
14 La Liga Veneta si presenta per la prima volta sulla scena elettorale alle elezioni
regionali del 1980, ottenendo lo 0,5%.
rivoli, ed il movimento leghista fa segnare un calo alle elezioni
politiche del 1987. Subito dopo si affaccia sulla scena una nuova
ondata leghista, guidata dallo slogan “Roma ladrona”, dove gli ultimi
tratti localisti vengono definitivamente archiviati, mentre sale
prepotentemente alla ribalta l’ulteriore collante della polemica
antifiscale, antiburocratica, contro la politica corrotta e in cui
convergono istanze economiche, politiche e sociali, con la
delineazione di una sola frattura, segnata da una ferma opposizione
allo stato centrale inefficiente e assistenzialista e contro gli attori
politici che lo guidano. È la fase della protesta antistatalista,
antipolitica ed antipartitocratica, che può espandersi a rotta di collo
anche a causa di una condizione politica permissiva come la fine
dell’Unione sovietica, i cui riflessi interni sul sistema politico
postbellico sono stati grandemente sottovalutati da tutte le classi
dirigenti dell’epoca.
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