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intr Paolo Feltrin

Appunti per una storia dei democristiani veneti


negli anni della “prima Regione” (1970-1992)

1. L’epoca storica della “prima Regione” si concluse in


quell’inizio d’estate del 1992, in coincidenza con la brusca
interruzione della carriera politica di Franco Cremonese. La quinta
legislatura proseguì fino alla sua fine naturale – le elezioni del 23
aprile 1995 – ma la successione di tre presidenti di giunta in circa due
anni e mezzo è sufficiente a ricordare che si trattò di una sorta di
agonia protratta nel tempo, poco di più o poco di meno a seconda dei
punti di vista. Nonostante i segnali di malessere che agitavano il
Veneto nella seconda metà degli anni Ottanta, ancora nel 1990 la Dc
veneta aveva ottenuto il 42,3% dei voti nelle elezioni regionali, poi nel
1992, in occasione delle elezioni nazionali, i consensi erano scesi sì al
31,5%, la percentuale più bassa dell’intero dopoguerra, ma pur sempre
a dimensioni più che ragguardevoli qualsiasi sia il metro di misura
adottato.
Come è noto, la Dc come partito nazionale non riuscì ad
organizzare una linea di difesa adeguata di fronte alla bufera
giudiziaria che prese l’avvio nei primi mesi del 1992; ma
l’interrogativo non va posto a Roma, come troppe volte è stato fatto
senza grandi risultati, ma a Milano e a Venezia, nelle capitali del
nuovo boom economico, quello degli anni ’70 e ’80. Infatti, nei due
decenni della “prima Regione”, l’economia dei distretti aveva avuto
nel lombardo-veneto a egemonia democristiana il suo epicentro, pur
senza trascurare l’analogo successo, ma solo in seconda posizione,
dell’Emilia-Romagna a guida comunista. Lo schianto della Dc
lombarda e della Dc veneta, avvenuto quasi senza reagire, attende
ancora una ricostruzione e una spiegazione convincenti. Il problema
non sta nella cronaca degli errori tattici nella gestione di quei mesi
convulsi, o meglio non sta solo in questo, ma dipende – questa è
l’ipotesi di lavoro – dall’accumularsi di problemi strutturali di lungo
periodo di una democrazia fragile, anche a livello locale, al cui
fronteggiamento – che non significava, come è inevitabile, risoluzione
dei problemi – venne spesso delegata la magistratura in funzione
supplente. L’analisi di quella resa senza resistenza va ripresa, essa
merita un adeguato approfondimento al di fuori della temperie di
allora, anche per rispetto agli esponenti di quella classe dirigente,
Cremonese in testa, che ne furono schiacciati senza possibilità di
appello neppure in sede storico-politica.
Quindici anni prima, il 9 marzo 1977, Aldo Moro, giusto un anno
prima del suo rapimento, poteva dare all’azione dei giudici quella
risposta politica che nel 1992 non fu più possibile mettere in campo.
Moro, nato nel 1916, doveva difendere la sua generazione, quella dei
dirigenti politici che avevano attraversato le asprezze della guerra
fredda. Parlava di fronte alle due camere, riunite in seduta comune,
per decidere il rinvio a giudizio di fronte alla Corte costituzionale di
Luigi Gui, padovano, nato nel 1914, accusato di finanziamenti illeciti
nell’affaire Lockheed, dopo che la posizione di Mariano Rumor,
vicentino, nato nel 1915, era stata preventivamente espunta dal
procedimento. Erano tutti coetanei, si conoscevano da trent’anni e più,
ognuno di loro avrebbe potuto trovarsi al posto dell’altro, tanto nelle
posizioni di vertice del partito quanto nella gogna mediatica. La
solidarietà era dovuta1. Ancora oggi è utile studiare l’intero discorso
per comprenderne la logica argomentativa, ma anche il passaggio più
noto è da leggersi dall’inizio alla fine. Moro scandì queste parole tra il
tumulto dell’aula: “Per tutte queste ragioni, onorevoli colleghi che ci
avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci
faremo processare. Se avete un minimo di saggezza, della quale,
talvolta, si sarebbe indotti a dubitare, vi diciamo fermamente di non
sottovalutare la grande forza dell'opinione pubblica che, da più di tre

1 Alessandro Pizzorno, nei suoi ripetuti interventi sul tema all’epoca dei fatti
(1992, 1993, 1998), pur modificando via via in modo impercettibile la sua
posizione, non tematizza adeguatamente il tema del finanziamento dei partiti,
specie nel primo intervento, quando enfatizza il ruolo del riconoscimento tra
cerchie di autorevolezza professionale (il giudizio dei pari).
decenni, trova nella Democrazia cristiana la sua espressione e la sua
difesa”2. L’argomento di Moro quando rifiutò di farsi processare nelle
piazze semplicemente era quello di poter contare su “la grande forza
dell’opinione pubblica”; ed è questa forza che gli consente di
sostenere lo scontro tra le ragioni del diritto e le ragioni della politica,
vale a dire la convinzione di vincere anche in una eventuale conta
elettorale condotta su questi temi. In secondo luogo, c’era la
conoscenza approfondita di tutti gli anfratti del cosiddetto
“consociativismo”, tradotto in termini nobili nella dizione
“democrazie consensuali” da Lijphart, con il messaggio neanche tanto
implicito sulle conseguenze di una rottura del patto informale tra
maggioranza e opposizione di sinistra (Cervetti, 1993).
Il tema dei finanziamenti illeciti da parte della Lockheed e di un
cartello molto ampio di multinazionali americane in almeno quindici
paesi stranieri era stato scoperchiato a Washington a partire dal 1975
dalla commissione Church del senato americano3, anche a causa delle
connessioni con il caso Watergate e con la procedura di messa in stato
di accusa del presidente Nixon. Le rivelazioni americane provocarono
polemiche e scandali in molti paesi, con procedimenti di tipo
giudiziario in particolare in Belgio, Germania, Giappone e Italia.
Praticamente ovunque, esse si conclusero senza gravi danni per i
politici.
Nel 1992 le cose in Italia non stavano più così e dobbiamo
comprenderne le ragioni. Anche perché quando una vicenda parallela
coinvolse Helmuth Kohl in Germania, gli avvenimenti presero una
piega molto diversa. Accusato nel 1999 di finanziamenti illeciti alla
Cdu nei primi anni novanta, in particolare in occasione delle elezioni
politiche del 1994, la vicenda di Kohl si concluse con il suo ritiro dalla
vita politica ma senza mettere in discussione l’esistenza del partito, il
quale, dopo la parentesi del socialdemocratico Schroder (1998-2005),
tornerà al governo ininterrottamente dal 2005 ad oggi.

2 La citazione è tratta da: Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, Atti
parlamentari. Resoconto della seduta comune di giovedì 9 marzo 1977.
3 Vedi la scheda dell’archivio del Senato degli Stati Uniti in https://www.senate.
gov/artandhistory/ history/minute/Church_Committee_Created.html
2. La Dc veneta, come in quasi tutte le regioni, era un crogiolo di
esperienze provinciali con una corrente egemone, i dorotei, in
contrapposizione alle regioni vicine (Lombardia, Emilia, Friuli). Dalla
generazione dei Rumor e dei Gui si passò, non senza traumi mai del
tutto cicatrizzati, alla generazione dei dirigenti nati negli anni venti, a
partire da Bisaglia (1929); ma poi, a livello regionale, troviamo
Tomelleri (1924) e i primi consiglieri regionali eletti nel 19704.
Sono loro, la terza generazione democristiana, all’epoca tra i
quaranta e i cinquant’anni, a dare avvio all’esperienza regionale nel
1970. Quella classe dirigente regionale prese alcune decisioni decisive
sul piano storico, mai rimesse in discussione nei decenni a venire. La
prima fu quella della sede della Regione a Venezia, oggi fatto
scontato, ma a quel tempo scelta sofferta a causa della competizione
con la naturale centralità geopolitica di Padova. La seconda fu
l’introduzione nello Statuto approvato nel 1971, all’articolo 2, unica
regione in Italia, dell’espressione “autogoverno del popolo veneto”
(sott. nostra) e, con legge regionale del 1975, l’adozione del gonfalone
con il leone marciano della Serenissima repubblica di Venezia. Infine
la terza grande scelta fu quella di affidare la presidenza della Giunta
regionale ad Angelo Tomelleri, un doroteo veronese, che sì aveva
ottenuto nelle prime elezioni regionali il maggior numero di
preferenze (32.276), ma soprattutto garantiva la possibilità di tenere
unita la regione attraverso un attentissimo dosaggio delle cariche più
importanti tra le sette province e le relative correnti. Poi, a metà degli
anni Settanta e negli anni Ottanta, arrivò la quarta e ultima
generazione, quella di Bernini (1938) e di Cremonese (1940)5. A loro

4 Ad esempio, a conferma dell’importanza delle generazioni nella formazione delle


classi dirigenti, della generazione degli anni venti eletta nel 1970 ricordiamo Nello
Beghin (1925), Fabio Gasperini (1927), Piero Feltrin (1927), Giancarlo Gambaro
(1924), Faio Gasperinei (1927), Francesco Guidolin (1923), Antonio Marta (1922),
Giovan Battista Melotti (1929), Adolfo Molinari (1921), Vito Orcalli (1920), Gian-
carlo Rampi (1925) Lugi Rigon (1923), Giuseppe Sbalchiero (1928), Luigi Tartari
(1924), Candido Tecchio (1927), Mario Uliana (1925), e così via.
5 Anche in questo caso ricordiamo alcuni degli eletti in Consiglio regionale che facevano
parte della generazione degli anni trenta, come Antonio Bogoni (1939), Franco Borgo
(1932), Aldo Bottin (1938), Marino Cortese (1938), Camillo Cimenti (1939), Roberto
si deve la pianificazione regionale, la costruzione di una
efficientissima macchina amministrativa regionale, l'introduzione di
un protocollo ufficiale in grado di dare un decoro istituzionale alle
sedi regionali introvabile nelle altre regioni.
Non è questa la sede per riprendere l’infinita discussione sul
rapporto tra cattolici e democristiani, tra Chiesa e Democrazia
cristiana, ma va almeno detto dell’originalità della strada percorsa dai
democristiani veneti, molto diversa da quella seguita in altre contrade.
Come è noto, la prima difficoltà di un partito cattolico, ovunque nel
mondo, era sempre stata quella di tenere assieme la dottrina della
chiesa e un bagaglio di idee più ampie – un’ideologia, per dirla in
breve – da proporre all’intero elettorato senza distinzione di fede. Vi
erano tuttavia scelte pratiche (ad esempio, la formazione delle liste) e
principi non negoziabili, come ad esempio il divorzio, che si
mettevano di traverso, tanto da una parte quanto dall’altra della
barricata. Basti leggere i diari di Mariano Rumor e il suo stupore di
fronte ai bollettini di guerra vaticani nelle settimane successive
all’approvazione in parlamento della legge sul divorzio, avvenuta il
primo dicembre 1970 quando lui era primo ministro. L’allora
presidente del consiglio non si capacitava della piega che stavano
prendendo gli avvenimenti, in particolare della nota ufficiale di
protesta della segreteria di Stato Vaticano, perché riteneva che la Dc
avesse fatto tutto il possibile per opporsi al provvedimento nelle aule
di Camera e Senato e che, una volta approvata dalla maggioranza
eletta in parlamento, la legge sul divorzio dovesse solo essere
applicata.
La Dc, i dorotei in particolare, non era in grado di scegliere una
strada come quella della Cdu tedesca, la quale aveva dotato il partito
di una sua ideologia liberal-moderata di massa, per quanto all’acqua di
rose, ma comunque in grado di sancire una netta linea di confine tra
religione e partito. Non potendo entrare in conflitto con le mille
questioni sensibili per la Chiesa, in Veneto, i democristiani, o meglio i
dorotei, proprio negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso,
Da Dalt (1932), Piero Fabris (1934), Luciano Righi (1938), Aldo Toffoli (1931), Carlo
Alberto Tesserin (1938), Giulio Veronese (1932).
diedero vita a una particolarissima costellazione culturale a base
territoriale (il popolo veneto, l’uso del dialetto, la nostalgia della
grande Venezia, il gonfalone di san Marco, ecc.), un’ideologia debole
basata su una identità territoriale (noi, i veneti) che unificava il
policentrismo veneto, ma che era anche in sintonia con i sentimenti
antiromani di tanta parte della regione, cattolica e non, e che poteva
legittimare l’azione degli eletti a tutti i livelli di governo a difesa di
qualsivoglia interesse presente nella società veneta. Curare gli
interessi del popolo (veneto), in tutte le sue articolazioni interne,
pluralistiche, anche conflittuali, divenne lo spazio e la missione che si
diedero i dorotei veneti, senza pretesa alcuna di concorrenza
ideologica con la Chiesa. L’autonomismo veneto, come si vede, ha
una storia antica: nacque con Bisaglia e Tomelleri, proseguì con
Bernini, venne esaltato da Cremonese. Ma rimase sempre e comunque
un’ideologia debole, almeno all’interno di un partito nazionale come
la Dc, non fosse altro perché per vincere le elezioni politiche ci
volevano i voti meridionali, mentre per dominare i congressi di partito
ogni corrente doveva fare i conti con i pacchetti di iscritti convogliati
dai leader delle regioni del Sud (Gava docet).

L’anomalia veneta prese corpo allora, diffondendosi anche negli


altri partiti6 e in tutte le organizzazioni di rappresentanza degli
interessi. L’ipotesi bavarese è sempre rimasta tale, solo e soltanto
un’ipotesi di scuola, priva di concrete possibilità di successo, sia che a
proporla fossero Bisaglia e Cremonese, oppure, in altri contesti
politici, l’idea venisse propugnata da Giorgio Lago quando era
direttore de Il Gazzettino, o da Massimo Cacciari ai tempi del
movimento dei sindaci a metà anni novanta, oppure ancora da
Giancarlo Galan negli anni duemila in polemica con Forza Italia
nazionale. La debolezza dell’ipotesi federalista stava – e sta ancora

6 Altre volte mi è capitato di ricordare che perfino nell’area dell’estremismo politico


imperava il venetismo, ad esempio veniva utilizzata la sigla Potere operaio veneto,
poi Autonomia veneta. Mentre, nel Pci, la rivista regionale degli anni Settanta si
intitolava “Rinnovamento veneto”, seguito dalla costituzione dell'Istituto Gramsci
veneto (da Massimo Cacciari e Umberto Curi).
oggi – nella mancata soluzione del problema meridionale da parte
delle classi dirigenti del Nord, ovvero, in quei decenni, della Dc
lombarda e veneta7, visto che era difficile immaginare di trovare il
consenso per rendersi autonomi ottenendo il voto da parte di chi si
voleva abbandonare al proprio destino. Siccome il tema del mancato
sviluppo del Sud trascinò con sé lo sfascio della finanza pubblica, fino
ad arrivare nell’estate del 1992 alla crisi della lira, si può ipotizzare
che questo nodo non risolto della dialettica tra stato unitario e stato
federale abbia rappresentato la goccia che ha fatto traboccare il vaso
della crisi del regime politico nei primi mesi del 1992, come vedremo
più avanti.

3. Nel contempo la “prima Regione” andava costruita e, per molti


versi, questa fu una realizzazione originale, molto diversa da altre
esperienze regionali8. In un lavoro di trent’anni fa (Feltrin, 1988), si
era mostrato come l’alta dirigenza regionale mostrasse notevoli
mutamenti rispetto a quanto si conosceva all’epoca degli alti gradi
dell’amministrazione: diminuivano il peso del meridione e della
tradizione giuridica, aumentavano gli ingressi laterali e le
specializzazioni tecnico-scientifiche. In larga misura queste
caratteristiche dipendevano dalle forme specifiche del reclutamento
regionale, il quale aveva funzionato da elemento di rottura rispetto
al passato, tramite la selezione attraverso l’istituto del comando e delle
assunzioni ad personam, in qualche misura tipiche del “governo di
partito” (il party government di Schattschneider, teorizzato
oltreoceano già nel lontano 1942): in breve, la dirigenza era composta
da uomini ad un tempo fidati ed esperti, dove tuttavia la seconda
qualità era la più importante ed era precondizione della prima.
Questa nuova classe dirigente amministrativa della Regione
Veneto dimostra ancora oggi, dopo decenni, l’orgoglio per

7 Il Piemonte era in pieno declino economico e politico, mentre il Pci dell’Emilia-


Romagna ha sempre pensato in proprio, cercando di lucrare sulla rendita di posizione
di essere maggioranza locale e minoranza nazionale con un fortissimo potere di veto.
8 Si pensi, ad esempio, alla diversità tuttora esistenti tra il Veneto e le altre regioni nei
modelli organizzativi in campo agricolo, socio-sanitario, formativo.
l’esperienza vissuta in quegli anni, come pure la passione civile
riversata nella costruzione del regionalismo sub specie veneta. Questo
non significa scolorire le tensioni tra amministrazione e politica, visto
che già negli anni Settanta e Ottanta ci si chiedeva quale fosse il tipo
di professionalità richiesta ad un alto dirigente (manager pubblico o
tecnico esperto?), il suo ruolo all’interno dell’amministrazione
regionale (fiduciario/delegato della Giunta o rappresentante
dell’apparato amministrativo?), i compiti esterni che spettano ai
dirigenti (svolgimento di funzioni amministrative oppure attuazione
dell’indirizzo politico?).
In realtà il ruolo centrale della giunta regionale e del suo
presidente furono il motore primo del processo di istituzionalizzazione
della Regione, tanto verso i partiti e l’assemblea consiliare, quanto
verso l’amministrazione e la dirigenza. A spingere in questa direzione
fu il modo con il quale fin da subito venne risolto il nodo di chi, cosa e
quanto dei trasferimenti statali (uomini, sedi, risorse) dovesse essere
posto in capo alla giunta. Esisteva infatti una relazione indissolubile
tra la scelta di accentrare a livello regionale le competenze ex statali e
il contemporaneo affermarsi di un nuovo, inedito circuito decisionale
a scala regionale. I due fenomeni dipendevano l’uno dall’altro.
Sul versante della forma di governo regionale, una volta
imboccata la strada della gestione delle funzioni in sede regionale
(strada poi seguita, magari con ritardo, in tutte le altre regioni), i
compiti attribuiti all’amministrazione furono di molto ampliati, grazie
ad una copiosa attività legislativa e pianificatoria di settore, tutta o
quasi di iniziativa della Giunta. Ma non vanno dimenticati i compiti di
coordinamento per conto o in vece degli assessori che venivano
attribuiti ai dirigenti in una miriade di commissioni, gruppi di lavoro,
sedi consiliari, e così via. Di conseguenza, alcune posizioni ricoperte
dagli alti dirigenti regionali si andarono configurando come una sorta
di “sottosegretariati”, con ampi margini di autonomia, perfino con
risorse di legittimazione proprie.
Va ricordato che un altro fattore che ha contribuito in maniera
rilevantissima all’emergere di questa tendenza fu il riorganizzarsi
dell’intera struttura delle organizzazioni di rappresentanza degli
interessi su scala regionale, con l’obiettivo di adeguarsi al concreto
evolversi della forma di governo regionale. Non è questa la sede per
discutere questa vicenda, ma le testimonianze che insistono su questo
punto mostrano bene come non si trattò di retorica associativa e come
le successive ritirate dall’arena regionale si spieghino, almeno in
parte, con il mancato approdo ad un regionalismo davvero maturo 9. Il
lento affermarsi di un vero e proprio “sistema politico regionale” e
l’attivarsi di processi decisionali che coinvolgevano tutti gli attori
presenti sulla scena della “politica degli interessi” ha costituito una
risposta al bisogno reciproco di legittimazione, in un triangolo che
vedeva in prima fila i politici regionali, gli attori economici, gli alti
dirigenti. Quest’ultimi, in particolare, venivano chiamati in causa dagli
altri attori del processo decisionale perché meglio rispondevano
all’esigenza di avere all’interno dell’amministrazione regionale
interlocutori con sufficienti conoscenze settoriali e capacità di visione
(anche) politica dei problemi.
Sembra quasi un paradosso, ma mentre la classe politica regionale
tendeva a mantenere come riferimento delle proprie azioni le
roccaforti provinciali/locali di provenienza (elettorale), il presidente
della giunta e le nuove elite burocratiche privilegiavano il livello
organizzativo regionale. Sotto questo profilo, la resistenza dei partiti a
regionalizzarsi – osservata da molti commentatori dell’epoca – non
era indicativa dell’assenza di un “sistema politico regionale” ma solo,
appunto, della maggior vischiosità delle strutture di partito e dei loro
dirigenti nell’imboccare questa strada.
La presenza in Veneto di un partito dominante e di un governo
regionale stabile lungo tutto il periodo che va dal 1970 al 1992 sembra
aver agito da moltiplicatore delle tendenze appena viste. In una
situazione di maggioranza assoluta permanente, alla Dc è toccato

9 Va tuttavia ricordata, a partire dagli anni Ottanta, l’anomalia veneta in materia di enti
bilaterali regionali e di contrattazione collettiva regionale, come pure in materia di fondi
collettivi di previdenza complementare regionale (unica Regione a statuto ordinario),
tutte iniziative costruite in contrasto con le rispettive case madri di Roma ma sostenute
dalla classe dirigente di governo in Regione.
svolgere un ruolo che assomiglia molto, come già abbiamo detto, a
quello del party government nei sistemi bipartitici classici, almeno
sotto il profilo della maggiore responsabilità del partito di governo. Ne
seguì che il funzionamento dell’istituto regionale e più in generale
l’andamento del sistema economico regionale ricadevano nel bene
come nel male sulle spalle della Dc, al di là del fatto che i processi
sociali, economici e politici reali fossero davvero guidati dal partito
regionale. La stessa alta dirigenza finiva con l’identificarsi con il
partito-giunta. Anche quando lo spazio politico-amministrativo
regionale è stato movimentato da tensioni e conflitti, specie a partire
dal 1985 con le prime giunte di coalizione, dove inevitabilmente si
muovevano soggetti con aspirazioni diverse, a volte divaricanti (il Psi,
in primis), l’autorevolezza dell’alta burocrazia regionale funzionò da
ammortizzatore dei conflitti, una garanzia che impediva alle tensioni
tra i partiti di governo di esplodere in una crisi manifesta di giunta.
La via veneta al regionalismo efficiente fu dunque molto più
sfaccettata di quanto solitamente si dica. In moltissime testimonianze
di questo volume si incontrano gli ingredienti di questa mistura
alchemica fatta di professionismo politico, legittimazione popolare,
competenza amministrativa, capacità direttive, attraverso cui
filtravano giorno per giorno le risposte concrete agli interessi in gioco.
Angelo Tomelleri, Carlo Bernini e Franco Cremonese furono i
protagonisti della costruzione dell’istituzione regionale veneta e del
suo peculiare modo di funzionamento, di cui oggi sappiamo qualcosa
di più grazie alle eccellenze a quel tempo raggiunte, ad esempio nel
campo dell’agricoltura, dell’urbanistica, della sanità, della tutela della
montagna e delle aree interne.

4. È nel corso dei primi anni Ottanta che in Veneto emerge con
forza la prima “questione settentrionale”, agli inizi attraverso
movimenti regionalisti e localistici che generano una improvvisa
frattura tra politica e territorio. In pochi anni, a cavallo delle elezioni
regionali del 1980, si diffondono le prime leghe regionali, a partire
dalle province pedemontane in Veneto (con Rocchetta e Marin) e da
alcune prime iniziative locali in Piemonte (Farassino) e in Lombardia
(Bossi). I territori di primo insediamento leghista presentano una
storia pregressa comune, che li rende ben riconoscibili: sono aree a
forte influenza democristiana, costellate da una miriade di comuni a
bassa densità abitativa, basate su economie locali di piccola e
piccolissima impresa che in seguito cresceranno in misura violenta,
trasformando l’area veneta in una delle più industrializzate ed
urbanizzate d’Europa, con un modello di organizzazione sociale e
culturale fondato sul ruolo della chiesa locale e delle parrocchie.
Questo piccolo mondo antico, in apparenza composto da mille
localismi idiosincratici, presenta le stesse regolarità in un territorio
molto vasto, da Verona a Treviso, da Vicenza a Belluno. In queste
province venete, non metropolitane, di medie dimensioni, l’unica
variabile che cambia in modo davvero significativo è il dialetto nelle
sue infinite varianti locali. Sotto traccia, tra la fine degli anni Settanta
e i primi anni Ottanta, in molti angoli del Veneto (ma anche in Friuli,
Lombardia, e Piemonte), in coincidenza con le prime grandi
ristrutturazioni industriali dell’epoca, si diffondono i segnali di un
malessere nuovo, che attinge ai repertori all’epoca disponibili e non
utilizzati da nessun partito presente in parlamento: il sentimento
antimeridionale e la riscoperta delle identità locali, cioè la frattura
Nord/Sud e quella centro/periferia. Si tratta di fratture diffuse da
tempo nella cultura popolare, ma che fino ad allora nessun partito, né
di maggioranza né di opposizione, aveva trasformato in fratture nelle
identità politiche, forse perché estranee al patto fondativo della
repubblica e del sistema politico nazionale postfascista. Viene poco
sottolineato come una legittimazione alla loro emersione venga, in
modo preterintenzionale, dal dibattito metodologico di pochi anni
prima sulla “storia dal basso”, con la riscoperta e la valorizzazione
della dimensione locale. Il rilancio degli idiomi dialettali, delle storie
di paese, più la polemica – per la prima volta esplicita – contro i
“terroni”, sono i reagenti dei primi focolai del movimento leghista, e
possono attecchire in aree di militanza e di attivismo deluse dal
declino della mobilitazione politica e sociale fino ad allora concentrata
sul conflitto distributivo di tipo verticale. Le prime insorgenze leghiste
attingono, infatti, alcune importanti risorse organizzative dai
movimenti politici e sindacali entrati in crisi alla fine degli anni
Settanta e, in moltissimi casi, recuperano lì bacini di militanza delusa,
repertori di azione di base, strumenti di comunicazione popolare.
Dopo questo avvio tutto su basi localiste, lungo tutti gli anni
Ottanta, l’obiettivo polemico della propaganda leghista diventa lo
Stato centrale10, sempre più descritto come macchina burocratica ed
assistenzialista, che mette il freno allo sviluppo del Veneto attraverso
una forzosa redistribuzione fiscale a favore del Sud, dosi sempre più
massicce di centralismo, politiche di drenaggio fiscale e di spesa delle
risorse pubbliche. Si tratta, in sostanza, di un malessere di ampi ceti
sociali che sentono di aver conquistato una loro centralità economica,
ma che contemporaneamente avvertono di essere periferici dal punto
di vista politico11, danneggiati sotto il profilo redistributivo. Al
conflitto redistributivo verticale a base sociale, la propaganda della
Lega sostituisce il conflitto redistributivo orizzontale a base
territoriale, impugnando la bandiera federalista. Si tratta di un
obiettivo che incontra favori e attenzione in tutti gli schieramenti
politici, facendo leva sull’obiettiva natura centralistica
dell’amministrazione pubblica italiana. D’altronde, se per decenni un
paese rimane territorialmente diviso, l’unico modo di governarlo è
attraverso la centralizzazione delle politiche pubbliche e la
compressione delle autonomie territoriali. Diciamo meglio: se si vuole
davvero tenere unito un paese diviso, l’unico modo per farlo è
attraverso una forzosa redistribuzione fiscale svolta dal centro, oppure,
in alternativa, attraverso una strategia politi- co-economica che
conduca in tempi ragionevoli al riequilibrio tra le sue diverse parti12.

10 Di nuovo, è la polemica contro il centralismo romano e le politiche di riequilibrio


territoriale a pagare elettoralmente, più che l’istanza localistica o dialettale.
11 A questo proposito va sottolineato che il localismo c’entra poco o nulla, non a
caso declina immediatamente dopo aver fatto da primo innesco dell'insorgenza
leghista: le “lighe” a carattere localistico cedono presto il passo al movimento di
Bossi, troppo vasto per essere ridotto nell’alveo dei movimenti a base locale, e
tutti i tentativi di far rinascere lo spirito delle origini falliscono ovunque.
12 L’ovvio riferimento è al successo delle politiche di riequilibrio adottate in Germania
Quando questa redistribuzione avviene per troppo tempo e in modi
sperequati, sono necessarie dosi sempre più massicce di autorità
(centrale) nelle politiche di drenaggio delle risorse. Centralismo statale
e sottosviluppo meridionale si alimentano a vicenda, frutto di un
processo di unificazione nazionale debole, ritardato, ma soprattutto
incompiuto13. Sotto questo profilo, si può avanzare l’idea che la
mancata soluzione degli squilibri territoriali per un lasso di tempo
troppo lungo abbia fatto emergere, alla prima occasione utile, un
conflitto redistributivo a base territoriale, ideologicamente legittimato
dalla richiesta di autonomia e di federalismo.
L’evoluzione del fenomeno può essere apprezzata osservando che
all’inizio degli anni ’80, nel contesto evolutivo appena descritto, la
Liga Veneta è il primo partito ad intercettare il malessere degli
elettori, ottenendo alle elezioni politiche del 1983 14 un incoraggiante
4,2% e due parlamentari in Veneto, con due picchi nelle province di
Treviso e Vicenza (rispettivamente 7,4% e 5,9%). Il movimento è
ancora embrionale, con una piattaforma che individua l’obiettivo
strategico nell’autogoverno, da raggiungere attraverso la
trasformazione del Veneto in regione a statuto speciale. Si tratta della
fase primigenia del leghismo, tutta centrata su una visione regionalista
dello Stato e sulla polemica contro il Meridione. Diventano popolari
slogan come “Via i romani dal Veneto”, “Sono veneto e voto veneto”,
“Forza Etna”, a riprova della saldatura tra la frattura Nord/Sud e la
frattura centro/periferia.
Dopo questa prima emersione, il fronte veneto si disperde in mille

dopo la riunificazione nel 1990, quando le distanze in termini di Pil procapite tra i
lander dell’Est e dell’Ovest erano superiori a quelle tra le regioni del Sud e del Nord
in Italia.
13 Qui vale solo la pena ricordare quanto scrisse all'epoca dei fatti Luciano Cafagna,
uno dei pochissimi a non banalizzare e a prendere sul serio i problemi di lunghissimo
periodo che si nascondevano dietro l’inattesa riemersione della frattura Nord/Sud:
“Oggi sono convinto che (…) lo sviluppo del Nord Italia si sarebbe svolto, anche per
il seguito, egualmente bene, e forse meglio, anche senza la unificazione politica (…)
non è da escludere che anche il Mezzogiorno, restando autonomo, avrebbe potuto trovare
una sua più vantaggiosa via di sviluppo” (Cafagna, 1989, pp. 7-15).
14 La Liga Veneta si presenta per la prima volta sulla scena elettorale alle elezioni
regionali del 1980, ottenendo lo 0,5%.
rivoli, ed il movimento leghista fa segnare un calo alle elezioni
politiche del 1987. Subito dopo si affaccia sulla scena una nuova
ondata leghista, guidata dallo slogan “Roma ladrona”, dove gli ultimi
tratti localisti vengono definitivamente archiviati, mentre sale
prepotentemente alla ribalta l’ulteriore collante della polemica
antifiscale, antiburocratica, contro la politica corrotta e in cui
convergono istanze economiche, politiche e sociali, con la
delineazione di una sola frattura, segnata da una ferma opposizione
allo stato centrale inefficiente e assistenzialista e contro gli attori
politici che lo guidano. È la fase della protesta antistatalista,
antipolitica ed antipartitocratica, che può espandersi a rotta di collo
anche a causa di una condizione politica permissiva come la fine
dell’Unione sovietica, i cui riflessi interni sul sistema politico
postbellico sono stati grandemente sottovalutati da tutte le classi
dirigenti dell’epoca.

5. Infine il ragionamento deve tornare al quesito iniziale. Quando


si parla del rapporto tra politica e interessi si ha l’impressione di
percorrere la strada che porta all’Inferno, piena di buone intenzioni,
che vengono sistematicamente travolte dal gioco degli interessi
convergenti e inflazionistici, oppure dal gioco dei veti contrapposti e
paralizzanti. Le grandi opere, siano esse strade, ospedali, ferrovie,
piattaforme logistiche, nella loro presenza concreta e tangibile,
testimoniano come la distanza tra il “dire” della politica e il “fare”
degli interessi sia il primo problema di chiunque voglia governare
senza farsi travolgere dall’idea un po’ ingenua che si possano davvero
tenere separati questi due poli dell’agire politico.
Un secolo fa, nel 1919, Max Weber, nel suo famosissimo saggio
sulla politica come professione, avvertiva già allora quanto sbagliato
fosse immaginare la politica come il solo regno dei valori e delle
idealità, ricordando che la politica è costretta a un continuo confronto
con “potenze diaboliche”. Se non si ha chiaro questo dramma del
“politico” si diventa prede disarmate della logica feroce degli
interessi, e quasi senza accorgersene se ne diventa inconsapevoli
ostaggi. Una lettura che incornicia perfettamente il dramma personale
vissuto da Franco Cremonese, insieme a tanti dorotei e democristiani
veneti, come pure dalla classe dirigente di tutti gli altri partiti. In ogni
inchiesta giudiziaria troviamo la difficoltà a spiegare i compromessi
tra il disegno pianificatorio e la loro concreta messa in opera, a
coniugare la razionalità degli interessi che premono sulla politica e la
razionalità della ricerca delle risorse di cui i partiti sono sempre
bisognosi. Quando l’accordo o il compromesso con gli interessi deve
essere spiegato fuori dal terreno della politica, l’uomo di partito
annaspa, diventa afasico. Se poi deve rispondere a un giudice, la
logica diventa quella dello scontro tra poteri che tra loro parlano due
linguaggi intraducibili, incommensurabili.
È in questo snodo, troppo spesso sottovalutato, che si insinuò lo
scontro di potere tra i politici e i magistrati: da una parte la forza del
consenso (la legittimità), dall’altra parte la forza della coercizione
legale (il diritto). Tra il 1977 del discorso di Moro in parlamento e il
1992 delle indagini giudiziarie che da Padova si estendono a Verona e
a Venezia non c’è dubbio alcuno che gli equilibri di potere si siano
spostati a sfavore della politica (di governo). L’ipotesi, non ancora
pienamente dimostrata, è che la classe politica di governo, la Dc,
anche quella veneta, abbia delegato più o meno consapevolmente la
gestione delle emergenze a cui non riusciva a fare fronte alla
magistratura, accrescendone via via il consenso, senza percepire la
contraddittorietà di questa delega impropria (Nordio, 1997; Violante,
2009). Neppure comprese la necessità di riconsiderare in modo
adeguato il problema del finanziamento dei partiti, alla luce del
logoramento delle regole implicite dei decenni precedenti. Di certo
non lo compresero i dirigenti della Dc veneta, i dorotei, che ancora nel
giugno del 1992 immaginarono di poter rispondere all’onda montante
delle inchieste con due soli fragili pannicelli caldi: la proposta di
allargamento dell’area del governo ai tradizionali partiti di
opposizione e l’apertura di quello che oggi verrebbe chiamato un
grand débat.
Ma vediamo quali furono queste emergenze. La prima in ordine di
tempo riguardò la violenza politica. Il 7 Aprile 1979, poco più di
quarant’anni fa, la Procura di Padova incriminava e arrestava i
dirigenti dell’area dell’autonomia veneta (e non solo); poi vi furono le
indagini per il rapimento e l’omicidio di Sergio Gori, vicedirettore del
Petrolchimico di Marghera; il 19 maggio 1980 l’omicidio del
commissario capo della polizia Alfredo Albanese a Mestre; il 20
maggio 1981 fu la volta dell’assassinio di Giuseppe Taliercio,
direttore del Petrolchimico di Marghera e la successiva scoperta di una
vasta rete di fiancheggiamento alle Br in tutto il Veneto; da ultimo vi
fu la liberazione di Dozier il 28 gennaio 1982, sempre a Padova, con
un’incursione dei corpi speciali nell’appartamento di Via Pindemonte
dove era tenuto sotto sequestro. Nonostante la sconfitta brigatista,
ancora negli anni Ottanta si verificarono decine di attentati e ferimenti,
compresa l’uccisione nel 1988 del giurista democristiano Roberto
Ruffilli, forlivese, che qui ricordiamo perché fu un tenace sostenitore
delle riforme istituzionali come unica via per dare uno sbocco positivo
alla crisi italiana.
La seconda emergenza fu quella della lotta alla mafia e del
tentativo di estendere il suo controllo non solo sull’economia e sul
territorio del Sud. Essa venne condotta prevalentemente nelle regioni
meridionali, in particolare in Sicilia, a partire dal 1979 con l’arrivo di
Falcone e Borsellino all’Ufficio istruzione della sezione penale di
Palermo, per proseguire con sempre maggiore intensità lungo tutti gli
anni Ottanta. Non va tuttavia dimenticata la vicenda veneziana di
Felice Maniero e la stagione dei rapimenti di persona in Veneto (su cui
indagò anche Carlo Nordio), che registrò tra l’altro la più lunga
detenzione della storia: 831 giorni di prigionia per Carlo Celadon di
Arzignano. Ma va anche ricordata la vicenda di Michele Sindona e
soprattutto di Roberto Calvi, morto nel 1992 a Londra in circostanze
misteriose, presidente del Banco Ambrosiano, che aveva tra le sue
controllate la Banca Cattolica del Veneto, anche perché collegate alle
trame della loggia massonica P2, a partire dalla quale inutilmente Tina
Anselmi provò a richiamare l’attenzione per giungere a riforme
incisive delle istituzioni. Come è noto, l’emergenza criminale-mafiosa
raggiunse infine il suo apice con il disegno stragista avviato dalle
cosche mafiose siciliane proprio nella tarda primavera del 1992, in
concomitanza con le elezioni politiche e le elezioni del presidente
della Repubblica.
La terza emergenza riguardò lo smantellamento dei dispositivi
riservati di difesa costruiti dopo la guerra fredda e non più attuali dopo
la svolta degli accordi tra Gorbačëv e Reagan l’11 ottobre del 1986 a
Reykjavik e dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. Anche in
questo caso, si preferì rinviare il necessario chiarimento pubblico di
quelle iniziative – Gladio, servizi segreti, ma non solo – che finirono
per passare al vaglio della magistratura, in particolare quella
veneziana, con le indagini condotte a fine anni Ottanta e nei primi
anni Novanta da Felice Casson, Carlo Mastelloni, Carlo Nordio.
La quarta e ultima emergenza fu quella economica e finanziaria.
Abbiamo già visto come negli anni Settanta e Ottanta cambiarono i
protagonisti dell’economia veneta, in un contesto di crescita
accentuata della ricchezza privata (regionale) e di disavanzi crescenti
della finanza pubblica (nazionale), con il conseguente bisogno di
rimpinguare le casse statali attraverso l’imposizione fiscale, in
continua espansione a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta. Il
tutto in un contesto di mancata riduzione dei divari tra le regioni come
il Veneto o la Lombardia e regioni come la Sicilia o la Calabria. Anno
dopo anno, mese dopo mese, il servizio del debito aumentava senza
sosta come pure il suo ammontare complessivo, senza che nessuno
cercasse di metterci una toppa. Nel frattempo le possibili strategie
politiche di risanamento erano impraticabili. Per impostare una
politica non assistenzialista di riequilibrio delle regioni del Sud ci
sarebbero voluti non mesi ma anni, e inoltre nessuno sapeva dove
trovare il consenso necessario a renderla potabile alle classi politiche
meridionali.
Per tagliare le rendite corporative di massa, a cominciare da quelle
pensionistiche, mancava anche in questo caso il necessario consenso
dei sindacati e di tutte le altre associazioni di rappresentanza degli
interessi, per non parlare del consenso dei cittadini elettori dell'intera
nazione. In Veneto esplose la tradizionale reazione di tipo isolazionista
al grido di “paroni a casa nostra”, inefficace perché pretendeva di dare
una risposta regionale a un problema nazionale, ma inefficace anche
perché il venetismo solitario non è mai riuscito a espandere il suo
consenso al di fuori dei confini regionali, rimanendo ieri come oggi
un’ideologia minoritaria a livello nazionale, incapace cioè di
egemonia espansiva.
Per la prima volta in quei pochi tragici mesi della primavera-estate
1992 la crisi e la speculazione internazionale obbligarono la classe
politica a fare i conti, a valutare l’efficienza della spesa, a ragionare se
davvero conveniva buttare i soldi pubblici in carrozzoni non necessari,
in doppioni privi di motivazione, in opere di dubbia utilità, le quali in
anni di vacche grasse potevano avere un loro senso come risposta agli
indomiti localismi veneti. La domanda che sorge spontanea è se non si
sarebbero potute fare allora le odierne spending review, prima della
crisi, finalizzando i pubblici denari solo dove erano davvero utili e
necessari.
Purtroppo rispondere a questa interrogativo è un po’ come
chiudere le stalle dopo che i buoi se ne sono andati, ma tuttavia, anche
solo a memoria futura, vale la pena accennare a una pista di riflessione
che ci riporta all’inizio del nostro discorso, come pure alle tante
cronache di questi giorni. Il punto è sempre il rapporto tra politica e
interessi: se lo si nega o lo si rimuove, magari con altisonanti formule
retoriche, esso ricompare sempre in forme oblique, come la polvere
sotto il tappeto, senza mai dare luogo a effetti positivi. Allora il
problema per la politica diventa come riconoscere la legittima
aspirazione degli interessi a perseguire i propri obiettivi (di guadagno)
mettendo loro la museruola e finalizzando il gioco alla massima
efficienza della spesa pubblica. Questo è il nodo che in Veneto, come
nel resto del paese, ci si rifiuta di mettere a fuoco in modo trasparente,
attraverso una politica forte, che riconosca la “potenza” degli interessi
senza esserne succube. Invocare a gran voce la magistratura, oppure
all’opposto accusarla di eccesso di potere, appaiono entrambe due
strategie subalterne, che non funzionano, perché arrivano sempre post
festum, a babbo morto. Di nuovo, è una politica più consapevole e più
autorevole, anche quando parla agli elettori, che sola può trovare la
strada di un gioco virtuoso, non vizioso, con gli interessi, che mai
spariranno e che sempre costituiranno il suo ineludibile contraltare.
Anche la vicenda di Franco Cremonese, come quella di molti altri
suoi amici di partito, mostra le conseguenze negative di questo nodo
irrisolto. Un uomo normale, generoso, secondo tutti i testimoni non un
grande oratore, ma nonostante questo un leader vero, riconosciuto e
amato, che, come si può leggere nelle pagine di questo libro, ha
dedicato la prima parte della sua esistenza alla politica con serietà e
passione, ma senza rimanerne schiacciato, coltivando altri interessi e
frequentando altri mondi lontani dalle stanze del potere, esperienze
che poi gli hanno consentito di trovare un nuovo equilibrio personale
dopo in termine della vita pubblica. Questa classe dirigente,
rappresentata in modo esemplare da Franco Cremonese, ha
trasformato il Veneto nella regione che conosciamo e merita un
giudizio storico, l’unico che davvero conta, più equanime e meditato.
Infine, ancora manca una narrazione corretta delle peculiarità dei
dorotei veneti e della Dc veneta, un pianeta poco o nulla frequentato
dalla storiografia politica nazionale, ma anche regionale, se non
attraverso semplificazioni, luoghi comuni, banalità, mentre varrebbe la
pena suscitare la curiosità e lo stimolo per nuove, più meditate
ricostruzioni a cui potrebbe dedicarsi una nuova leva di studiosi, meno

gravata dal peso degli stereotipi.


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