Sei sulla pagina 1di 14

1

Domenico Losurdo
Progresso/reazione, sinistra/destra, emancipazione/de-emancipazione

1. Dialettica dell’illuminismo, dialettica del progresso

Mentre infuria la prima guerra mondiale, Thomas Mann bolla il «progresso


imperiosamente comandato dai moderni» come un «Moloch» dinanzi al quale
possono inchinarsi solo «anime di schiavi»1. Non è in nome della diffusione della
democrazia e del trionfo della pace, in ultima analisi in nome del progresso, che
l’Intesa giustifica e celebra la carneficina in atto? Certo, mentre procede a questa
critica acuta dell’ideologia dei nemici della Germania, il grande scrittore dà il suo
bravo contributo ad una trasfigurazione della guerra indubbiamente assai diversa, ma
non per questo più persuasiva. Anzi, radicalizza un motivo ben presente nella cultura
tedesca di questi anni, impegnata a celebrare la vita in trincea e al fronte come una
sorta di meditatio mortis, come un momento di partecipazione a edificanti, se pur
cruenti, esercizi spirituali. Inseguire l’ideale della pace perpetua - incalza Thomas
Mann - significa voler rimuovere dall’esistenza il dolore e la prossimità della morte e
quindi rendersi colpevoli, in ultima analisi, di «tradimento verso la Croce (Verrat am
Kreuz)»2. Si direbbe che qui la guerra venga giustificata e raccomandata come verbum
crucis.
E’ bene sottolineare questo punto, al fine di confutare una volta per sempre il
mito secondo cui la critica dell’idea di progresso sarebbe di per sé sinonimo di spirito
laico. In realtà, tale critica può essere, ed è stata in effetti sviluppata a partire da
preoccupazioni più o meno esplicitamente religiose. E’ quello che si verifica già in
pieno Ottocento. Secondo Ranke, darebbe prova di «ingiustizia» un Dio che favorisse
una generazione a discapito di un’altra, meno progredita e meno fortunata. Bisogna
liquidare l’idea di progresso per salvare la teodicea: «Ogni epoca è in rapporto
immediato con Dio e il suo valore risiede non in ciò che da essa scaturisce, ma nella
sua esistenza stessa, nella sua peculiarità»3. Di generazione in generazione, ogni uomo
è chiamato ad affrontare il medesimo verbum crucis, a vivere un’esistenza
contrassegnata dalla finitezza, dal dolore e dalla morte.
La formulazione in chiave teologica di tale discorso non ci deve far perdere di
vista il suo contenuto razionale. Dai teorici del progresso -osserva Ranke- la
generazione meno progredita viene «mediatisiert», viene ridotta a semplice strumento
dell’ulteriore progresso di cui è chiamata a beneficiare la generazione successiva4. Ma
allora il progresso finisce col configurarsi come il Moloch di cui parla Thomas Mann,
una divinità vorace che «riduce a mezzo» (mediatisiert) e inghiotte una generazione
dopo l’altra.
Le diverse «dialettiche dell’illuminismo» scritte nel corso Novecento sono anche
«dialettiche del progresso»; sia pure con modalità diverse, tutte sono impegnate a
mettere in evidenza i terribili costi umani e sociali che ha comportato il pathos dei
lumi, della diffusione dei lumi e del «progresso» così realizzato o auspicato.

1 Mann, 1988, p. 50.


2 Losurdo, 1991, pp. 10-6.
3 Ranke, 1980, p. 7.
4 Ranke, 1980, p. 7.
2

Questo pathos ha avuto effetti devastanti anche nell’ambito della tradizione


rivoluzionaria. Svolge un ruolo importante in occasione della feroce repressione della
Vandea. Uno dei suoi protagonisti, il generale Turreau, spiega la rivolta con
«l’ignoranza, le abitudini, la superstizione di questo popolo» da sempre «teatro e
culla» delle «guerre di religione»5. Nella Russia sovietica, l’universo concentrazionario
si diffonde su larga scala a partire dalla collettivizzazione forzata dell'agricoltura: le
resistenze dei contadini, delle nazionalità non russe e dei credenti finiscono con
l'essere interpretate come manifestazioni diverse di una gigantesca Vandea retrograda
e oscurantista, ostile al progresso tecnologico oltre che politico, e dunque da
schiacciare senza esitazioni e distinzioni interne. E’ ciò che emerge da un intervento
dello stesso Stalin il quale, nell'intento anche di scaricare su di altri le responsabilità
dell'accaduto, condanna la violenza indiscriminatamente abbattutasi sui contadini
medi (oltre che su quelli «ricchi») e ironizza sull’«azione «rrrivoluzionaria» consistente
nell'asportare le campane dai campanili dei villaggi6. Una dialettica analoga si è
sviluppata in Cina in occasione della «rivoluzione culturale». Si pensi agli effetti da
essa dispiegati in Tibet: assieme al servaggio, ogni peculiarità religiosa, culturale,
nazionale è stata bollata come espressione di una Vandea retrograda e oscurantista, da
liquidare senza esitazioni.
Il pathos della diffusione dei lumi e del progresso svolge un ruolo importante
anche nella storia del colonialismo (e della tradizione liberale). Esso è ben presente in
Washington, il quale promuove l’espansione ad Ovest e l’espropriazione delle terre
dei pellerossa, agitando per l’appunto il motivo ideologico del progresso: bisogna
apportare ad una «razza non illuminata» (an unenlightened race) la «felicità» e le
«benedizioni della civiltà»7. La causa del «progresso» (progress) viene esplicitamente
invocata da John Stuart Mill per chiamare i «barbari» all’«obbedienza assoluta»: nelle
colonie, nelle «società arretrate», là dove «la razza stessa può essere considerata
minorenne», il dispotismo degli europei e dei bianchi è non solo legittimo ma anche
doveroso8. E’ un punto di vista ribadito alcuni decenni più tardi da Leopoldo II del
Belgio, il quale così celebra l’annessione del Congo (che in breve tempo avrebbe
condotto alla decimazione della popolazione): «Portare la civiltà in quella sola parte
del globo dove essa non è ancora giunta, dissipare le tenebre che avvolgono ancora
intere popolazioni: questa è -oso dirlo- una crociata degna di questo secolo di
progresso»9. Si potrebbe dire che non c’è conquista (e non c’è infamia) che non possa
essere giustificata a partire dal pathos del progresso e dell’espansione dei lumi e della
civiltà.
E’ un discorso più che mai attuale. I micidiali embarghi e bombardamenti contro
questo o quel paese vengono messi in atto e giustificati in base all’ideologia che già
conosciamo: si tratta di promuovere il progresso dell’umanità mettendo a tacere i suoi
nemici; «democrazia», «diritti dell’uomo», «socialismo», «pace» sono le configurazioni
di volta in volta diverse assunte da un universale aggressivo, il quale finisce col
rivelarsi un Moloch vorace e spietato.

5 Losurdo, 1996, pp. 73-4.


6 Stalin, 1971, vol. XII, p. 174: la singolare grafia del termine «rivoluzionaria» è già nel testo.
7 Washington, 1988, pp. 475-6.
8 Mill, 1972, p. 73.
9 In Schmitt, 1991, pp. 272-3.
3

Sul versante opposto, bisogna però notare che l’orrore del Novecento è culminato
in un movimento politico che, ereditando e radicalizzando il darwinismo sociale alle
spalle, ben lungi dal fare appello alla storia, allo sviluppo e al progresso dell’umanità,
si è richiamato alla natura e alle sue eterne e inesorabili leggi, che esigono la
schiavizzazione della razze «inferiori» e l’annientamento di quelle superflue dal punto
di vista del «popolo dei signori». Si pensi a Gumplowicz il quale così sintetizza la sua
visione del mondo: «non vi è né progresso né regresso, è sempre la medesima realtà»,
e questa è definita dall'«eterna spinta allo sfruttamento e al dominio ad opera del più
forte, del superiore», dall'«eterna lotta razziale», dalla «lotta eterna senza progresso».
Assieme all’idea di progresso dilegua anche il soggetto unitario della storia
universale, la quale ormai si dissolve nella molteplicità di razze tra loro separate da
una barriera insormontabile. Ciò diventa ancora più evidente nel nazismo. Rosenberg
è sprezzante nei confronti del «dogma di un presunto "sviluppo generale
dell'umanità"». E’ un dogma che vorrebbe dissolvere «nella corrente di un presunto
progresso» il «valore peculiare» di ogni singolo popolo (anzi soggetti e vicende
incomparabilmente diversi, Herrenvölker e Untermenschen). Assieme a quella di
progresso viene qui a cadere l’idea di unità del genere umano: «"umanità"» è solo un
nome nuovo del «vecchio Jahvé»10.
E’ dunque una pia illusione pensare che la rinuncia all’idea di progresso o la sua
liquidazione costituisca un argine contro la violenza e il massacro. Essa diventa
particolarmente devastante allorché subisce uno slittamento naturalistico. Ritorniamo
a Washington. La «razza non illuminata» si configura in altre occasioni come un
insieme di «selvaggi», anzi di «lupi» e «bestie selvagge della foresta»11. A questo
punto, la strada è spianata per il genocidio, ma a questo punto si è già abbandonato il
terreno della storia e dunque dell’idea di progresso (e di perfettibilità): a segnare la
condanna a morte dei pellerossa è la loro stessa natura immodificabile, ed essi sono
comunque esclusi dal genere umano. Siamo ricondotti nelle immediate vicinanze del
socialdarwinismo, e cioè della tradizione politica ereditata e radicalizzata dal nazismo.
E’ significativo il fatto che Rosenberg pretenda di richiamarsi a Ranke. E un
appiglio c’è per questa pretesa. Il grande storico vede la giustizia divina contraddetta
dall’idea di progresso, non già dalla tesi da lui formulata, secondo cui «alcuni popoli
non sono in alcun modo capaci di civiltà»12. E’ la conferma che liquidazione dell’idea
di progresso e liquidazione (sostanziale) dell’idea di unità del genere umano tendono
a procedere di pari passo.

2. «Serietà del negativo» contra visione «insipida» del progresso

Non si tratta dunque di rinunciare all’idea di progresso, si tratta invece di far


tesoro sino in fondo del monito di Hegel: è affetta da «edificazione» e «insipidezza»
ogni visione della storia che ignori o rimuova «il dolore, la serietà del negativo»13. Si
tratta di non perdere di vista le vittime del progresso. Almeno nei suoi momenti più
alti, la tradizione rivoluzionaria è consapevole di questo problema, come risulta dal
pathos dell’individuo concreto che, contrariamente ai miti correnti, essa più volte

10 Losurdo, 1997, pp. 268-9.


11 In Delanoe-Rostkowski, 1991, p. 52.
12 Ranke, 1980, p. 10
13 Hegel, 1969-1979, p. 24.
4

esprime. L’«idea nuova» della «felicità» annunciata da Saint-Just (e fatta propria da


Babeuf) esige che non «ci sia nello Stato un solo povero e infelice». La Costituzione
giacobina del 1793 dichiara (art. 34) che «c'è oppressione contro il corpo sociale
quando è oppresso [anche] uno solo dei suoi membri». L’autore cui si richiamano i
giacobini è dell’idea che il contratto sociale perderebbe di valore e di senso «se nello
Stato perisse anche un solo cittadino che si sarebbe potuto soccorrere, se anche uno solo
fosse tenuto ingiustamente in prigione, se anche un solo processo si concludesse con
una sentenza palesemente ingiusta». Rousseau - è di lui che si tratta- giunge persino
ad affermare, una lettera del 1766, che «il sangue di un solo uomo è di valore più
grande che non la libertà di tutto il genere umano».
In tutte queste dichiarazioni c’è un’evidente carica utopistica. Babeuf sembra
rendersene conto e infatti preferisce parlare talvolta della «felicità del maggior
numero possibile». E' la formula che poi si ritrova in Bentham. L'idea di felicità
diviene così più «realistica»; ora essa tiene in conto l'infelicità di un certo numero di
persone. Forse anche alla luce di ciò, si può comprendere la maggiore stabilità della
tradizione politica inglese. Epperò, c'è un fatto significativo da rilevare. Non resiste
all’analisi storica lo stereotipo che vorrebbe liquidare la tradizione politica giacobino-
socialista in quanto colpevole di olismo, di scarsa attenzione per l'individuo nella sua
concretezza14...
E tale accusa risulta infondata anche se rivolta a Marx. Questi, se da un lato non
può non respingere in quanto politicamente paralizzante il punto di vista da Rousseau
espresso nella sua lettera, dall’altro condivide l’attenzione e l’angoscia per le vittime
del progresso:
«Quando una grande rivoluzione sociale si sarà impadronita delle conquiste dell’epoca borghese
-il mercato del mondo e le forze di produzione moderne- e le avrà assoggettate al controllo comune dei
popoli più civili, solo allora il progresso umano cesserà di assomigliare a quell’orribile idolo pagano, che
non voleva bere il nettare se non dai teschi degli uccisi»15.

3. Progresso e dialettica di emancipazione e de-emancipazione

Una visione «insipida» del progresso continua invece a caratterizzare, anzi


caratterizza più che mai l’ideologia oggi dominante. Essa descrive la democrazia
contemporanea come il risultato della marcia trionfale del liberalismo che, dopo i
diritti civili, avrebbe progressivamente affermato ed esteso i diritti politici e poi i
diritti sociali. Del tutto assente in questa visione è la «serietà del negativo». Sono
rimossi i conflitti, le lotte, le rivoluzioni che hanno reso possibili i processi di
emancipazione (l’accesso di determinati strati al godimento di certi diritti). A maggior
ragione viene ignorato il fatto che a fasi di emancipazione possono seguire, in assenza
di lotte e di una resistenza da parte delle classi subalterne, fasi anche prolungate di de-
emancipazione (la perdita di diritti precedentemente acquisiti).
Si pensi alla storia dei diritti civili e politici. In Francia, la rivoluzione del febbraio
1848 segna l’avvento del suffragio universale (maschile). Due anni dopo, terrorizzata
dalle giornate di giugno e dalla persistente irrequietezza operaia, la borghesia liberale
lo cancella, privando dei diritti politici quasi tre milioni di cittadini. Il suffragio
universale (maschile) viene reintrodotto da Luigi Napoleone ma nell’ambito di un

14 Su ciò cfr. Losurdo, 1998, pp. 63-9.


15 Marx 1955 c, p. 253.
5

quadro politico e istituzionale che riduce il voto ad una semplice acclamazione


plebiscitaria del leader carismatico. Per recuperare pienamente le conquiste della
rivoluzione del ‘48 ci vorrà la guerra franco-prussiana e il crollo del regime
bonapartista.
Sono però gli USA il paese che meglio si presta per seguire questa dialettica di
emancipazione e de-emancipazione. La fine della guerra di Secessione segna anche la
fine dell’istituto della schiavitù. E’ forse il periodo più felice nella storia degli afro-
americani, che conquistano i diritti civili e politici, entrano a far parte degli organismi
rappresentativi, talvolta svolgendo una funzione importante (i bianchi del Nord
hanno bisogno della loro collaborazione, per il fatto che i fuochi della guerra civile
continuano a covare sotto la cenere). Ma, a partire grosso modo dal 1877, e dalla
ricompattazione sulla base di un compromesso della comunità bianca, i neri vengono
sottoposti al semiservaggio, alla violenza squadristica del Ku Klux Klan, all’apartheid,
ad una condizione caratterizzata dalla perdita non solo dei diritti politici ma anche,
almeno in parte, di quelli civili. Per por fine a tale condizione le truppe federali sono
costrette a intervenire nel Sud ancora negli anni ‘50 e ‘60 di questo secolo.
Nel determinare la fine del lungo periodo di de-emancipazione, durato quasi un
secolo, agiscono anche fattori internazionali, come si può desumere da una lettera che,
nel dicembre 1952, il ministro statunitense della giustizia invia alla Corte Suprema
impegnata a discutere la questione dell’integrazione nelle scuole pubbliche: «La
discriminazione razziale porta acqua alla propaganda comunista e suscita dubbi
anche tra le nazioni amiche sull’intensità della nostra devozione alla fede
democratica». Washington corre il pericolo -osserva lo storico americano che riporta
queste dichiarazioni- di alienarsi le «razze di colore» non solo in Oriente e nel Terzo
Mondo ma nel cuore stesso degli USA: anche qui la propaganda comunista riscuote
un considerevole successo nel suo tentativo di guadagnare i neri alla «causa
rivoluzionaria» facendo crollare in loro la «fede nelle istituzioni americane»16. E’ cioè,
una rivoluzione planetaria dal basso costringe i dirigenti USA ad una limitata
rivoluzione dall’alto e alla liquidazione almeno degli aspetti più vistosi e rivoltanti del
regime di white supremacy.
Per quanto riguarda i salti qualitativi che la caratterizzano e il suo sviluppo
tutt’altro che unilineare, questa dialettica di emancipazione e de-emancipazione è nel
complesso ben compresa dalla tradizione marxista, la quale sa far tesoro, a tale
proposito, della lezione di Hegel. Ci sono però altri aspetti poco indagati o del tutto
ignorati.

4. Idea di progresso e eurocentrismo

Negli anni ‘40 dell’Ottocento, Marx e Engels procedono ad un confronto, sia


pure implicito, tra la Francia della monarchia di luglio, dove la discriminazione
censitaria è viva e vitale, e la repubblica nordamericana, dove essa è in pratica
dileguata, almeno all’interno della comunità bianca. Ed ecco la conclusione: gli USA
sono il «paese dell'emancipazione politica compiuta», ovvero «l'esempio più perfetto
di Stato moderno», il quale assicura il dominio della borghesia senza escludere a
priori alcuna classe sociale dal godimento dei diritti politici17. E’ evidente che i due

16 In Woodward, 1966, pp. 131-4.


17 Marx, 1955 a, p. 352; Marx-Engels, 1955, p. 62.
6

autori procedono a tale definizione senza tener conto della schiavitù dei neri o della
sorte dei pellerossa; non sembrano essere consapevoli del fatto che la discriminazione
censitaria passa in quel paese attraverso la discriminazione razziale; sembrano cioè
perdere di vista il rapporto tra suffragio quasi universale dei maschi di razza bianca e
totale esclusione di neri e pellerossa dai diritti politici (e spesso anche civili). In tal
senso, non c’è sostanziale differenza rispetto a Tocqueville, autore e cantore della
Democrazia in America. Gli Usa sono un paese più «progredito» rispetto alla Francia,
epperò il concetto di progresso è qui costruito con lo sguardo rivolto esclusivamente
agli europei o alle popolazioni di origine europea.
E’ un limite che risulta ancora più evidente negli scritti successivi di Engels.
Questi, nel 1850, indica nella repubblica d’oltre Atlantico il paese dove l’«abolizione
dello Stato» è già realizzata, almeno nel senso «borghese» del termine: «L’intervento
del potere statale, ridotto ad un minimo ad Est, non esiste affatto ad Ovest»18. Ancora
a decenni di distanza, viene ribadita questa lusinghiera analisi degli Stati Uniti che,
secondo un testo del 1892, incarnano, assieme all’Inghilterra, «la parte migliore di
quella libertà personale, di quell’autonomia locale e di quella indipendenza di fronte
ad ogni intervento estraneo, fatta eccezione per quello della giustizia, in una parola, la
parte migliore di quelle vecchie libertà germaniche che sul continente sono andate
perdute sotto la monarchia assoluta e che fino ad oggi non sono più state
completamente riconquistate in nessun paese»19. L’analisi qui sviluppata sembra
ridurre a quantité negligeable neri, indios e e persino latino-americani (l’«abolizione
dello Stato» nel senso «borghese» del termine non aveva impedito agli USA di
strappare al Messico un immenso territorio). Certamente, su questa analisi pesa
l’esperienza della reazione bonapartista in Francia e di quella sorta di versione tedesca
del bonapartismo che, secondo Engels, è costituita da Bismarck; resta il fatto che la
coppia concettuale progresso/reazione continua ad essere pensata in termini
eurocentrici.
Superare questo limite è tutt’altro che agevole. La storia dell’Occidente ci mette
di fronte ad un paradosso, che può essere ben compreso a partire dalla storia del suo
odierno paese-guida: l’emancipazione nell’ambito della comunità bianca si è
sviluppata contemporaneamente all’oppressione a danno dei neri e degli indios. Dopo
il battesimo della guerra d’indipendenza, la democrazia americana conosce un
ulteriore sviluppo, negli anni ‘30 dell’Ottocento, con la presidenza Jackson: la
cancellazione, in larga parte, delle discriminazioni censitarie all’interno della
comunità bianca va di pari passo col vigoroso impulso impresso alla deportazione
degli indios e col montare di un clima di risentimento e di violenza a danno dei neri.
Si è trattato, nel complesso, di una fase di progresso? Su ciò non sembrano avere dei
dubbi Marx e Engels (i quali, però, conoscono poco gli USA), e tanto meno
Tocqueville, che pure non ignora la deportazione imposta ai Cherokee. Oggi
sappiamo che essa ha comportato un carico di brutalità e un numero di vittime ancora
superiore a quello che emerge dalla descrizione accorata del liberale francese: mentre
squadre di «volontari civili» si appropriano del bestiame, degli attrezzi agricoli e dei
beni domestici degli indiani e mettono a fuoco le loro case, l’esercito avvia alla
deportazione, nel pieno dell’inverno, vecchi, donne e bambini (un quarto incontrerà la

18 Engels, 1955 a, p. 288.


19 Engels, 1955 c, p. 304; cfr. anche 1955 b, p. 166.
7

morte già nel corso del viaggio)20. E sappiamo altresì dalla testimonianza di un
visitatore inglese che, nella New York del 1833, non c’era un solo nero che non fosse
«anti-Jackson»21
Una considerazione analoga può essere fatta anche per la cosiddetta «età
progressista» (Progressive Era) che, partendo dalla fine del secolo scorso, abbraccia i
primi tre lustri del Novecento: essa è caratterizzata certo da numerose riforme
democratiche (che assicurano l’elezione diretta del Senato, la segretezza del voto,
l’introduzione delle primarie e dell’istituto del referendum ecc.), ma costituisce al
tempo stesso un periodo particolarmente tragico per indios (spogliati delle terre
residue e sottoposti ad un processo di spietata omologazione che intende privarli
persino della loro identità culturale) e neri (bersaglio del terrore squadristico del Ku
Klux Klan). Sottoposti a lavoro coatto, i detenuti neri (la stragrande maggioranza della
popolazione carceraria) vengono disciplinati mediante il ricorso a «catene, cani, fruste
e armi da fuoco». E’ «un inferno vivente» dalle tragiche conseguenze: tra il 1877 e il
1880, nel corso della costruzione delle linee ferroviarie di Greenwood e Augusta,
«morì quasi il 45 per cento» della forza-lavoro coatta lì impiegata, «ed erano giovani
nel fiore della vita»22. Si comprende allora che autorevoli storici non esitino a fare un
confronto coi lager della Germania nazista. E di nuovo s’impone la domanda: è
veramente sinonimo di progresso l’«età progressista»?

5. E’ stata una rivoluzione la «rivoluzione» americana?

Anzi, a questo punto, la domanda non può non conoscere un’ulteriore


radicalizzazione. Ha costituito un elemento di progresso la guerra d’indipendenza
sfociata nella nascita degli Stati Uniti? In altri termini: è stata realmente una
rivoluzione la «rivoluzione» americana? Riprendo le virgolette qui utilizzate da un
autore statunitense23. In effetti, nulla hanno guadagnato gli indios dalla rivoluzione
americana: l’interesse della Gran Bretagna ai possedimenti d’oltre Atlantico era
commerciale piuttosto che territoriale, e i coloni insorti rimproverano per l’appunto
alla Corona gli ostacoli frapposti alla loro espansione. Questa conosce ora una
drammatica accelerazione e una drammatica accelerazione conosce anche la tragedia
degli indios24. Ad accusare gli insorti di sistematica politica di genocidio sono i lealisti
rifugiatisi in Canada25. Per quanto poi riguarda i neri, un fatto dà da pensare: nelle
sue colonie, la Gran Bretagna abolisce nel 1834 la schiavitù, la quale continua a
sussistere negli Stati Uniti ancora per tre decenni. Persino la condizione dei neri liberi
è qui ben peggiore che non, ad esempio, in Canada: in questa colonia britannica, tra il
1850 e il 1860, trovano rifugio ventimila neri che abbandonano gli USA, dove temono
che la legge sulla restituzione ai legittimi proprietari degli schiavi fuggitivi possa
fornire pretesti alla schiavizzazione anche dei neri liberi. Ma già alcuni decenni prima
più di un migliaio di neri liberi aveva cercato rifugio sempre nel Canada, dopo che
una loro delegazione era stata ricevuta con benevolenza dalle autorità locali:

20 Gosset, 1965, p. 233.


21 Litwack, 1961, p. 87.
22 Friedman, 1993, p. 95.
23 Berghe, 1967, p. 77.
24 Calloway, 1995.
25 Cfr. Losurdo, 1996, p. 251.
8

«Raccontate ai repubblicani al di là della frontiera che noi monarchici non


distinguiamo gli uomini secondo il colore. Se verrete da noi, godrete di tutti i privilegi
propri degli altri sudditi di Sua Maestà»26.
La rivoluzione americana presenta non poche somiglianze con la guerra di
secessione:
«Prima del 1776, promulgando i regolamenti che restringono l’espansione geografica dei coloni al
di là degli Appalachi, le autorità britanniche si alienano i ricchi proprietari di piantagioni, i mercanti con
investimenti speculativi nei territori dell’Ovest, così come gli agricoltori meno agiati, che sperano in un
nuovo inizio, a buon mercato, sulle terre vergini [...] Nel 1860-61, allorché l’amministrazione
repubblicana da poco eletta, promette di proibire l’ulteriore espansione ad Ovest della schiavitù, la
risposta della maggior parte dei bianchi del Sud è un’altra rivoluzione per l’autonomia politica»27.
Se così stanno le cose, la storia degli USA sarebbe caratterizzata da due
secessioni reazionarie (o con componenti reazionarie più o meno forti), la prima
vittoriosa e la seconda sconfitta. La vittoria della prima dà luogo ad una rivoluzione,
con tratti anche radicali, all’interno della comunità bianca. Ma è interessante vedere la
classe dirigente che esprime. Per trentadue dei primi trentasei anni di vita degli USA,
a detenere la presidenza sono proprietari di schiavi, e proprietari di schiavi sono
anche coloro che elaborano la Dichiarazione di Indipendenza e la Costituzione. Senza
la schiavitù (e la successiva segregazione razziale) non si può comprendere nulla della
«libertà americana»: esse crescono assieme, l’una sostenendo l’altra28. Se la «peculiare
istituzione» assicura il ferreo controllo delle classi «pericolose» già sui luoghi di
produzione, la mobile frontiera e la progressiva espansione ad Ovest disinnescano il
conflitto sociale trasformando un potenziale proletariato in una classe di proprietari
terrieri, a spese però di popolazioni condannate ad essere rimosse o spazzate via.
A proposito di questo paradosso che caratterizza la storia del loro paese,
autorevoli studiosi statunitensi hanno parlato di Herrenvolk democracy, cioè di
democrazia che vale solo per il «popolo dei signori». La netta linea di demarcazione,
tra bianchi da una parte e neri e pellerossa dall’altra, favorisce lo sviluppo di rapporti
di uguaglianza all’interno della comunità bianca. I membri di un’aristocrazia di classe
o di colore tendono ad autocelebrarsi come i «pari»; la netta disuguaglianza imposta
agli esclusi è l’altra faccia del rapporto di parità che s’instaura tra coloro che godono
del potere di escludere gli «inferiori».
E’ da considerare un progresso l’avvento della Herrenvolk democracy? Non ci si
propone qui di rispondere alla domanda circa il carattere progressivo o reazionario
degli sconvolgimenti che sfociano nella nascita degli USA. E’ evidente che, sull’altro
piatto della bilancia pesa l’influenza sulla rivoluzione francese e quindi,
indirettamente, sui giganteschi processi di emancipazione che da essa sono scaturiti.
E’ un altro aspetto che conviene analizzare. Pensata in profondità, la categoria di
Herrenvolk democracy fa cadere definitivamente in crisi l’ideologia oggi dominante del
«progresso», per cui gradualmente si sarebbe passati dal liberalismo alla democrazia,
dai diritti civili a quelli politici e così via... Siamo ora messi di fronte ad un aspetto
inquietante della dialettica emancipazione/de-emancipazione. Non si tratta più del
fatto che il progresso non può essere concepito in termini unilineari, in quanto fasi di
de-emancipazione possono far seguito a fasi di emancipazione. Vediamo ora l’una e

26 Litwack, 1961, pp. 249 e 73.


27 Bowman, 1993, p. 141.
28 Morgan, 1975, pp. 5-6.
9

l’altra essere presenti nello stesso tempo e intrecciarsi indissolubilmente in una


singola vicenda storica.
Ciò non vale solo per gli USA. La categoria di Herrenvolk democracy può essere
utile anche per spiegare la storia dell’Occidente nel suo complesso. Tra la fine
dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, l’estensione del suffragio in Europa va di pari
passo col processo di colonizzazione e con l’imposizione di rapporti di lavoro servili o
semiservili alle popolazioni assoggettate. In ultima analisi, si ripresenta l’intreccio che
già conosciamo, solo che nel caso dell’Europa esso risulta meno evidente per il fatto
che le popolazioni coloniali, invece di risiedere nella metropoli, sono da questa
separate dall’oceano. Si pensi in particolare alla Gran Bretagna: a realizzare il secondo
Reform Bill, che per la prima volta estende i diritti politici a settori consistenti delle
masse popolari, è Disraeli, il grande teorico della razza, il quale non si stanca di
ripetere che la razza, radicata nel sangue, è «la chiave della storia», che «tutto è razza e
non c'è altra verità» e che, pertanto, il mondo è inevitabilmente diviso in razze
superiori e dominanti da una parte e razze inferiori e soggiogate ovvero da
soggiogare dall'altra29.
La dialettica che stiamo esaminando si presenta nelle situazioni più diverse. Si
pensi alla guerra. Il primo conflitto mondiale per un verso comporta una gigantesca
de-emancipazione (ricorso più o meno esplicito alla dittatura militare e ad un regime
di mobilitazione totale che sfocia poi nel totalitarismo propriamente detto); per un
altro verso impone l’estensione del suffragio a tutti i cittadini-soldati, stimola
l’emancipazione delle donne ecc. Si potrebbe dire che ogni vicenda storica complessa
si presenta come un intreccio inestricabile di emancipazione e de-emancipazione,
progresso e reazione. Si può formulare un giudizio complessivo solo a partire
dall’individuazione, in seguito ad un’analisi complessa, dell’aspetto principale
dell’intreccio.

6. Serenità post-moderna, «mattatoio» e «serietà del negativo»

Ma, allora, non sarebbe meglio rinunciare a queste categorie di così difficile
applicazione? A spingere oggi in questa direzione sono soprattutto i teorici di un post-
moderno che pretende di relegare anche il «progresso» tra i miti e le passioni che
ormai hanno ceduto il posto ad una sobrietà e serenità post-metafisica, la Gelassenheit
cara all’ultimo Heidegger. La guarigione o convalescenza da una secolare malattia
sarebbe stata resa possibile dalla «nuova situazione di relativa sicurezza che
l’esistenza individuale e sociale ha acquisito in virtù dell’organizzazione sociale e
dello sviluppo tecnico»; «l’esistenza nella società tecnologicamente progredita non è
più caratterizzata da pericolo continuo e violenza conseguente»30. Piuttosto che essere
liquidata, l’idea di progresso si presenta qui in una configurazione persino enfatica;
solo che essa viene declinata al passato (per il carico di violenza e di precarietà che
l’umanità è riuscita ad eliminare) mentre viene dichiarata priva di senso con lo
sguardo rivolto al futuro. Almeno per quanto riguarda la «società tecnologicamente
progredita».
I teorici del post-moderno riconoscono così di costruire il loro discorso facendo
astrazione dal Terzo Mondo. Ma quale attendibilità può pretendere un discorso

29 Losurdo, 1993, p. 75.


30 Vattimo, 1985, pp. 187-8 e 50.
10

filosofico che ignori i problemi della maggioranza del genere umano? Sfogliamo la
stampa internazionale. Una vera e propria tragedia biblica si è abbattuta sul Sud-Est
asiatico e in particolare sull’Indonesia: «100 milioni di persone, quasi la metà della
popolazione», non sono più in grado di «procurarsi cibo adeguato»; «la crescente
malnutrizione sta minacciando la salute mentale e fisica di milioni di bambini
asiatici»; è la rovina di un’intera generazione31. E’ possibile rispondere alle domande
implicite in questo carico terribile di sofferenze, è possibile salvare la serietà del
negativo senza far riferimento ad una prospettiva di mutamento e di emancipazione e,
dunque, senza far riferimento alla coppia concettuale progresso-regresso?
Piuttosto ingenuo, sul piano filosofico, è il tentativo di staccare la «società
tecnologicamente progredita» dal resto del mondo. Sulla stampa internazionale ferve
il dibattito sulle eventuali responsabilità del FMI nell’aggravamento della crisi
dell’Indonesia o del Brasile e infuriano le polemiche sul fatto che la tragedia di certi
paesi costituisce una grande opportunità per altri, quelli più «progrediti», che possono
ora facilmente assumere il controllo dell’economia dei primi. Ma poi come leggere gli
embarghi e i bombardamenti imposti e promossi dalla «società tecnologicamente
progredita»? Se la pretesa di costruire il discorso filosofico facendo astrazione dal
Terzo Mondo sembra ignorare quel «risultato» di un lungo processo storico che è la
«storia universale»32, la proclamazione dell’obsolescenza della coppia concettuale
progresso/reazione fa pensare alla tesi della fine della storia. E’ la vecchia illusione
denunciata da Marx (dalla quale, peraltro, neppure lui ed Engels risultano sempre
immuni), l’illusione per cui «la storia c’è stata ma ormai non c’è più»33.
Ma alla cancellazione della «serietà del negativo» si giunge a partire da un
pantragismo compiaciuto di sé, che riduce la storia a universale «mattatoio»
(Schlachtbank)34. Per essere colto nella sua serietà, il negativo non può essere
assimilato a destino che coinvolge tutti e tutto e che, per ciò stesso, fa dileguare il
momento doloroso della scelta e della decisione. A trincerarsi dietro il mito della
«terra che grida e invoca il sangue» e dell’«angelo sterminatore» che aleggia
implacabile su «questo globo disgraziato», è un autore come Maistre35: e all’ideologia
della Restaurazione rinvia in ultima analisi ogni filosofia della storia attraversata dal
rimpianto e dal disappunto per l'esserci stata di una storia (l’osservazione ironica è di
Gans, discepolo di Hegel e tra i maestri di Marx, il quale polemizza con F. Schlegel)36.
La riduzione a «mattatoio» dell’intera vicenda umana, e di ogni sforzo umano di
emancipazione e di progresso, è in grado solo di stimolare la vanità del soggetto, che
celebra così la sua eccellenza e la sua superiorità rispetto ad una oggettività
irrimediabilmente opaca37; e il narcisismo è la negazione più radicale della «serietà
del negativo».

7. Una labile linea di demarcazione

31 Sullivan, 1998.
32 Marx 1953, p. 30.
33Marx, 1955 b, p. 139.
34 Hegel, 1955, p. 80.
35 Maistre, 1984, pp. 24-5.
36 Gans, 1837, pp. XII-XIII.
37 Hegel, 1955, p. 81.
11

Tener fermo a questa serietà non è possibile senza un qualche riferimento alla
categoria di progresso, depurata certo delle ingenuità che di solito l’accompagnano.
La coppia concettuale progresso/reazione fa pensare ad un’altra: sinistra/destra.
L’ideologia dominante tende oggi a considerarle tutte e due obsolete e inservibili.
Indubbiamente, in entrambi i casi, la linea di demarcazione è labile, difficile da
individuare e sottoposta a tutte le vicissitudini della storia. Ciò diviene
particolarmente evidente in occasione delle grandi svolte storiche. Chi rappresenta la
sinistra (o il progresso) nel 1914? Sono l’anarchico Kropotkin, divenuto fervente
interventista, e il Mussolini socialista rivoluzionario e interventista e non ancora
fascista oppure è il Giolitti neutralista? E’ il Wilson profeta armato della crociata
democratica o è il Benedetto XV, che denuncia l’inutilità della carneficina?. E nell’Italia
dell’ultima fase della seconda guerra mondiale a rappresentare la sinistra è Mussolini
ridivenuto «repubblicano» e socialista e comunque leader della «repubblica sociale» o
invece è Badoglio da sempre monarchico e conservatore? Ogni momento di svolta
storica ci costringe a reinterpretare in modo radicale la geografia politica e la
discriminante tra sinistra e destra, progresso e reazione.
Si può negare la validità di queste coppie concettuali; ma è come negare la
validità dei concetti in generale. Si pensi al recente dibattito sulla natura della
Resistenza in Italia o in altri paesi: guerra civile o guerra di liberazione nazionale?
L’Ottobre bolscevico è una rivoluzione o un colpo di Stato? Se il revisionismo storico
parla a tale proposito di colpo di Stato, di colpo di Stato parla invece Marx a proposito
della Glorious Revolution. La Riforma di Lutero (e la successiva Guerra dei contadini) è
un moto anti-feudale o una reazione anti-rinascimentale? Dato il loro carattere
problematico, dobbiamo rinunciare anche alle coppie concettuali guerra civile/guerra
di liberazione nazionale, rivoluzione/colpo di Stato? Si può sempre sostenere con gli
scolastici che Individuum est ineffabile e rifugiarsi nella mistica dell’ineffabilità, ma con
ciò si è abbandonato il terreno della comprensione razionale della politica e della
storia.
La negazione delle coppie concettuali progresso/reazione, sinistra/destra è un
tentativo di rimuovere o occultare il conflitto. Senonché, quando, nonostante tutto, il
conflitto s’impone nella sua evidenza, ecco che viene letto come sinonimo di malattia o
follia: così nella cultura della Restaurazione, così nei movimenti reazionari anche del
Novecento, i quali hanno messo le lotte e gli sconvolgimenti politici sul conto di un
agente patogeno esterno... Oppure s’impone una chiave di lettura non meno
pericolosa. Uno slogan diffuso nel corso dell’ultima campagna elettorale francese
sentenziava: Ni Gauche Ni Droite, Mais français. Siamo così portati a pensare a
Guglielmo II, il quale, in occasione dello scoppio della prima guerra mondiale,
proclama il superamento dei partiti, tutti assorbiti nel corpo mistico di una nazione
che non conosce più destra e sinistra; e siamo altresì portati a pensare a fenomeni
come il bonapartismo, il nazionalismo e il fascismo.
In conclusione, negare le coppie concettuali progresso/reazione,
sinistra/destra significa non solo rinunciare ad un filo razionale per orientarsi nel
dibattito e nel conflitto politico ma aprire anche le porte a chiavi di lettura e a
ideologie assai torbide. Per l’esattezza, nel discorso qui accennato ho fatto riferimento
soprattutto alle categorie di emancipazione e de-emancipazione. La coppia concettuale
sinistra/destra non dà immediatamente l’idea del mutamento incessante delle
contraddizioni oggettive e della geografia politica e si presta pertanto ad una deriva di
tipo psicologico (la destra tende ad essere identificata con la «personalità autoritaria»
12

di cui parla Adorno); d’altro canto, il progresso è stato spesso raffigurato come una
corrente impetuosa e irresistibile, coincidente con l’oggettività del processo storico e
dello sviluppo tecnologico. La coppia concettuale emancipazione/de-emancipazione
mi sembra la più persuasiva per il fatto che fa chiaro riferimento al conflitto (e alla
contraddizione oggettiva) nelle sue più diverse configurazioni, col suo andamento
complesso, contraddittorio e che in una situazione determinata assume un significato
sempre determinato. In altre parole, la riformulazione della coppia concettuale
progresso/reazione (e sinistra/destra) in termini di emancipazione/de-
emancipazione può render conto meglio della serietà del negativo.

Riferimenti bibliografici

Pierre L. van den Berghe, 1967


Race and Racisme. A Comparative Perspective, Wiley, New York-London-Sidney

Shearer Davis Bowman, 1993


Masters & Lords. Mid-19th Century U. S. Planters and Prussian Junkers, Oxford
University Press, New York-Oxford

Colin G. Calloway, 1995


The American Revolution in Indian Country. Crisis and diversity in Native American
Country, University Press, Cambridge

Nelcya Delanoe-Joëlle Rostkowski, 1991


Les Indiens dans l’histoire américaine, Presses Universitaires, Nancy

Friedrich Engels, 1955 a


Recensione a «Le socialisme et l’impôt», par Emile Girardin, Paris 1850, in Karl
Marx-Friedrich Engels, Werke, Dietz, Berlin, 1955 sgg., vol. VII
Friedrich Engels, 1955 b
Der Ursprung der Familie, des Privateigentums und des Staats (1884), in Karl Marx-
Friedrich Engels, Werke [cfr. Engels 1955 a], vol. XXI
Friedrich Engels, 1955 c
Einleitung all’ed. inglese di Die Entwicklung des Sozialismus von der Utopie zur
Wissenschaft (1892), in in Karl Marx-Friedrich Engels, Werke [cfr. Engels 1955 a], vol.
XXII

Lawrence M. Friedman, 1993


Crime and Punishment in American History, Basic Books, New York

Eduard Gans, 1837


Vorwort alle Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, in G. W. F. Hegel's
Werke. Vollständige Ausgabe durch einen Verein von Freunden des Verewigten, vol.
IX, Duncker & Humblot, Berlin

Thomas F. Gosset, 1965


Race. The History of an Idea in America (1963), Schocken Books, New York
13

Georg W. F. Hegel, 1955


Die Vernunft in der Geschichte, a cura di Johannes Hoffmeister, Meiner, Hamburg
Georg W. F. Hegel, 1969-1979
Phänomenologie des Geistes (1807), in Werke in zwanzig Bänden, a cura di Eva
Moldenhauer e Karl Markus Michel, Suhrkamp, Frankfurt a. M., vol. III

Leon F. Litwack, 1961


North of Slavery. The Negro in the Free States, 1790-1860, The University of Chicago
Press, Chicago

Domenico Losurdo, 1991


La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’«ideologia della guerra», Bollati
Boringhieri, Torino
Domenico Losurdo, 1993
Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, Bollati
Boringhieri, Torino
Domenico Losurdo, 1996
Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari
Domenico Losurdo, 1997
Filosofia della storia contra morale? in «Rivista di storia della filosofia», n. 2/97, pp.
257-281
Domenico Losurdo, 1998
Il peccato originale del Novecento, Laterza, Roma-Bari

Joseph de Maistre, 1984


Les soirées de Saint-Pétersbourg (1821, postume), in Oeuvres Complètes (Lyon 1884),
ristampa anastatica, Olms, Hildesheim-Zürich-New York, tome 5

Thomas Mann, 1988


Palestrina (1917), in Essays, Bd. 3, Musik und Philosophie, a cura di Hermann
Kurzke, Fischer, Frankfurt a. M. (1978)

Karl Marx, 1953


Grundrisse der politischen Ökonomie, Dietz, Berlin
Karl Marx, 1955 a
Zur Judenfrage (1844), in Karl Marx-Friedrich Engels, Werke [cfr. Engels 1955 a],
vol. I
Karl Marx, 1955 b
Misère de la philosophie (1847), tr. ted. in Karl Marx-Friedrich Engels, Werke [cfr.
Engels 1955 a], vol. IV
Karl Marx, 1955 c
The Future Result of British Rule In India (8 agosto 1853), in K. Marx-F. Engels,
Gesamtausgabe (MEGA), Dietz, Berlin, in corso di pubblicazione, vol. I, 12

Karl Marx-Friedrich Engels, 1955


Die deutsche Ideologie (1845-46), in Karl Marx-Friedrich Engels, Werke [cfr. Engels
1955 a], vol. III
14

John Stuart Mill, 1972


On Liberty (1858), in Id., Utilitarianism, Liberty, Representative Government, a cura
di H. B. Acton, Dent, London

Edmund S. Morgan, 1975


American Slavery American Freedom, The Ordeal of Colonial Virginia, Norton &
Company, New York-London

Leopold von Ranke, 1980


Über die Epochen der neueren Geschichte (1854), Wissenschaftliche Buchgesellschaft,
Darmstadt

Carl Schmitt, 1991


Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum (1950); tr. it. di
Emanuele Castrucci e cura editoriale di Franco Volpi, Il nomos della terra nel diritto
internazionale dello «Jus Publicum Europaeum», Adelphi, Milano

Josif W. Stalin, 1971


Werke, Roter Morgen, Hamburg

Kevin Sullivan, 1998


The Crisis Weighs Heavily On Many of Asias’ Children, in «International Herald
Tribune» dell’8 settembre, pp. 1 e 8

Gianni Vattimo, 1985


La fine della modernità, Garzanti, Milano

George Washington, 1988


A Collection, a cura di William B. Allen, Liberty Classics, Indianapolis

C. Vann Woodward, 1966


The Strange Career of Jim Crow (1955), II ed. rivista, Oxford University Press,
London, Oxford, New York

Fortschritt, Emanzipation und «Ernst des Negativen». Zur Rehabilitierung einer heute verrufenen
Idee, in «Das Argument», n. 230, 1999, Heft 2/3 (Den Fortschritt neu denken), pp. 235-248; versione
italiana, Progresso/reazione o emancipazione/de-emancipazione?, in «Critica Marxista, n. 3; maggio-
giugno 1999, pp. 55-65.

Potrebbero piacerti anche