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Domenico Losurdo
Progresso/reazione, sinistra/destra, emancipazione/de-emancipazione
Sul versante opposto, bisogna però notare che l’orrore del Novecento è culminato
in un movimento politico che, ereditando e radicalizzando il darwinismo sociale alle
spalle, ben lungi dal fare appello alla storia, allo sviluppo e al progresso dell’umanità,
si è richiamato alla natura e alle sue eterne e inesorabili leggi, che esigono la
schiavizzazione della razze «inferiori» e l’annientamento di quelle superflue dal punto
di vista del «popolo dei signori». Si pensi a Gumplowicz il quale così sintetizza la sua
visione del mondo: «non vi è né progresso né regresso, è sempre la medesima realtà»,
e questa è definita dall'«eterna spinta allo sfruttamento e al dominio ad opera del più
forte, del superiore», dall'«eterna lotta razziale», dalla «lotta eterna senza progresso».
Assieme all’idea di progresso dilegua anche il soggetto unitario della storia
universale, la quale ormai si dissolve nella molteplicità di razze tra loro separate da
una barriera insormontabile. Ciò diventa ancora più evidente nel nazismo. Rosenberg
è sprezzante nei confronti del «dogma di un presunto "sviluppo generale
dell'umanità"». E’ un dogma che vorrebbe dissolvere «nella corrente di un presunto
progresso» il «valore peculiare» di ogni singolo popolo (anzi soggetti e vicende
incomparabilmente diversi, Herrenvölker e Untermenschen). Assieme a quella di
progresso viene qui a cadere l’idea di unità del genere umano: «"umanità"» è solo un
nome nuovo del «vecchio Jahvé»10.
E’ dunque una pia illusione pensare che la rinuncia all’idea di progresso o la sua
liquidazione costituisca un argine contro la violenza e il massacro. Essa diventa
particolarmente devastante allorché subisce uno slittamento naturalistico. Ritorniamo
a Washington. La «razza non illuminata» si configura in altre occasioni come un
insieme di «selvaggi», anzi di «lupi» e «bestie selvagge della foresta»11. A questo
punto, la strada è spianata per il genocidio, ma a questo punto si è già abbandonato il
terreno della storia e dunque dell’idea di progresso (e di perfettibilità): a segnare la
condanna a morte dei pellerossa è la loro stessa natura immodificabile, ed essi sono
comunque esclusi dal genere umano. Siamo ricondotti nelle immediate vicinanze del
socialdarwinismo, e cioè della tradizione politica ereditata e radicalizzata dal nazismo.
E’ significativo il fatto che Rosenberg pretenda di richiamarsi a Ranke. E un
appiglio c’è per questa pretesa. Il grande storico vede la giustizia divina contraddetta
dall’idea di progresso, non già dalla tesi da lui formulata, secondo cui «alcuni popoli
non sono in alcun modo capaci di civiltà»12. E’ la conferma che liquidazione dell’idea
di progresso e liquidazione (sostanziale) dell’idea di unità del genere umano tendono
a procedere di pari passo.
autori procedono a tale definizione senza tener conto della schiavitù dei neri o della
sorte dei pellerossa; non sembrano essere consapevoli del fatto che la discriminazione
censitaria passa in quel paese attraverso la discriminazione razziale; sembrano cioè
perdere di vista il rapporto tra suffragio quasi universale dei maschi di razza bianca e
totale esclusione di neri e pellerossa dai diritti politici (e spesso anche civili). In tal
senso, non c’è sostanziale differenza rispetto a Tocqueville, autore e cantore della
Democrazia in America. Gli Usa sono un paese più «progredito» rispetto alla Francia,
epperò il concetto di progresso è qui costruito con lo sguardo rivolto esclusivamente
agli europei o alle popolazioni di origine europea.
E’ un limite che risulta ancora più evidente negli scritti successivi di Engels.
Questi, nel 1850, indica nella repubblica d’oltre Atlantico il paese dove l’«abolizione
dello Stato» è già realizzata, almeno nel senso «borghese» del termine: «L’intervento
del potere statale, ridotto ad un minimo ad Est, non esiste affatto ad Ovest»18. Ancora
a decenni di distanza, viene ribadita questa lusinghiera analisi degli Stati Uniti che,
secondo un testo del 1892, incarnano, assieme all’Inghilterra, «la parte migliore di
quella libertà personale, di quell’autonomia locale e di quella indipendenza di fronte
ad ogni intervento estraneo, fatta eccezione per quello della giustizia, in una parola, la
parte migliore di quelle vecchie libertà germaniche che sul continente sono andate
perdute sotto la monarchia assoluta e che fino ad oggi non sono più state
completamente riconquistate in nessun paese»19. L’analisi qui sviluppata sembra
ridurre a quantité negligeable neri, indios e e persino latino-americani (l’«abolizione
dello Stato» nel senso «borghese» del termine non aveva impedito agli USA di
strappare al Messico un immenso territorio). Certamente, su questa analisi pesa
l’esperienza della reazione bonapartista in Francia e di quella sorta di versione tedesca
del bonapartismo che, secondo Engels, è costituita da Bismarck; resta il fatto che la
coppia concettuale progresso/reazione continua ad essere pensata in termini
eurocentrici.
Superare questo limite è tutt’altro che agevole. La storia dell’Occidente ci mette
di fronte ad un paradosso, che può essere ben compreso a partire dalla storia del suo
odierno paese-guida: l’emancipazione nell’ambito della comunità bianca si è
sviluppata contemporaneamente all’oppressione a danno dei neri e degli indios. Dopo
il battesimo della guerra d’indipendenza, la democrazia americana conosce un
ulteriore sviluppo, negli anni ‘30 dell’Ottocento, con la presidenza Jackson: la
cancellazione, in larga parte, delle discriminazioni censitarie all’interno della
comunità bianca va di pari passo col vigoroso impulso impresso alla deportazione
degli indios e col montare di un clima di risentimento e di violenza a danno dei neri.
Si è trattato, nel complesso, di una fase di progresso? Su ciò non sembrano avere dei
dubbi Marx e Engels (i quali, però, conoscono poco gli USA), e tanto meno
Tocqueville, che pure non ignora la deportazione imposta ai Cherokee. Oggi
sappiamo che essa ha comportato un carico di brutalità e un numero di vittime ancora
superiore a quello che emerge dalla descrizione accorata del liberale francese: mentre
squadre di «volontari civili» si appropriano del bestiame, degli attrezzi agricoli e dei
beni domestici degli indiani e mettono a fuoco le loro case, l’esercito avvia alla
deportazione, nel pieno dell’inverno, vecchi, donne e bambini (un quarto incontrerà la
morte già nel corso del viaggio)20. E sappiamo altresì dalla testimonianza di un
visitatore inglese che, nella New York del 1833, non c’era un solo nero che non fosse
«anti-Jackson»21
Una considerazione analoga può essere fatta anche per la cosiddetta «età
progressista» (Progressive Era) che, partendo dalla fine del secolo scorso, abbraccia i
primi tre lustri del Novecento: essa è caratterizzata certo da numerose riforme
democratiche (che assicurano l’elezione diretta del Senato, la segretezza del voto,
l’introduzione delle primarie e dell’istituto del referendum ecc.), ma costituisce al
tempo stesso un periodo particolarmente tragico per indios (spogliati delle terre
residue e sottoposti ad un processo di spietata omologazione che intende privarli
persino della loro identità culturale) e neri (bersaglio del terrore squadristico del Ku
Klux Klan). Sottoposti a lavoro coatto, i detenuti neri (la stragrande maggioranza della
popolazione carceraria) vengono disciplinati mediante il ricorso a «catene, cani, fruste
e armi da fuoco». E’ «un inferno vivente» dalle tragiche conseguenze: tra il 1877 e il
1880, nel corso della costruzione delle linee ferroviarie di Greenwood e Augusta,
«morì quasi il 45 per cento» della forza-lavoro coatta lì impiegata, «ed erano giovani
nel fiore della vita»22. Si comprende allora che autorevoli storici non esitino a fare un
confronto coi lager della Germania nazista. E di nuovo s’impone la domanda: è
veramente sinonimo di progresso l’«età progressista»?
Ma, allora, non sarebbe meglio rinunciare a queste categorie di così difficile
applicazione? A spingere oggi in questa direzione sono soprattutto i teorici di un post-
moderno che pretende di relegare anche il «progresso» tra i miti e le passioni che
ormai hanno ceduto il posto ad una sobrietà e serenità post-metafisica, la Gelassenheit
cara all’ultimo Heidegger. La guarigione o convalescenza da una secolare malattia
sarebbe stata resa possibile dalla «nuova situazione di relativa sicurezza che
l’esistenza individuale e sociale ha acquisito in virtù dell’organizzazione sociale e
dello sviluppo tecnico»; «l’esistenza nella società tecnologicamente progredita non è
più caratterizzata da pericolo continuo e violenza conseguente»30. Piuttosto che essere
liquidata, l’idea di progresso si presenta qui in una configurazione persino enfatica;
solo che essa viene declinata al passato (per il carico di violenza e di precarietà che
l’umanità è riuscita ad eliminare) mentre viene dichiarata priva di senso con lo
sguardo rivolto al futuro. Almeno per quanto riguarda la «società tecnologicamente
progredita».
I teorici del post-moderno riconoscono così di costruire il loro discorso facendo
astrazione dal Terzo Mondo. Ma quale attendibilità può pretendere un discorso
filosofico che ignori i problemi della maggioranza del genere umano? Sfogliamo la
stampa internazionale. Una vera e propria tragedia biblica si è abbattuta sul Sud-Est
asiatico e in particolare sull’Indonesia: «100 milioni di persone, quasi la metà della
popolazione», non sono più in grado di «procurarsi cibo adeguato»; «la crescente
malnutrizione sta minacciando la salute mentale e fisica di milioni di bambini
asiatici»; è la rovina di un’intera generazione31. E’ possibile rispondere alle domande
implicite in questo carico terribile di sofferenze, è possibile salvare la serietà del
negativo senza far riferimento ad una prospettiva di mutamento e di emancipazione e,
dunque, senza far riferimento alla coppia concettuale progresso-regresso?
Piuttosto ingenuo, sul piano filosofico, è il tentativo di staccare la «società
tecnologicamente progredita» dal resto del mondo. Sulla stampa internazionale ferve
il dibattito sulle eventuali responsabilità del FMI nell’aggravamento della crisi
dell’Indonesia o del Brasile e infuriano le polemiche sul fatto che la tragedia di certi
paesi costituisce una grande opportunità per altri, quelli più «progrediti», che possono
ora facilmente assumere il controllo dell’economia dei primi. Ma poi come leggere gli
embarghi e i bombardamenti imposti e promossi dalla «società tecnologicamente
progredita»? Se la pretesa di costruire il discorso filosofico facendo astrazione dal
Terzo Mondo sembra ignorare quel «risultato» di un lungo processo storico che è la
«storia universale»32, la proclamazione dell’obsolescenza della coppia concettuale
progresso/reazione fa pensare alla tesi della fine della storia. E’ la vecchia illusione
denunciata da Marx (dalla quale, peraltro, neppure lui ed Engels risultano sempre
immuni), l’illusione per cui «la storia c’è stata ma ormai non c’è più»33.
Ma alla cancellazione della «serietà del negativo» si giunge a partire da un
pantragismo compiaciuto di sé, che riduce la storia a universale «mattatoio»
(Schlachtbank)34. Per essere colto nella sua serietà, il negativo non può essere
assimilato a destino che coinvolge tutti e tutto e che, per ciò stesso, fa dileguare il
momento doloroso della scelta e della decisione. A trincerarsi dietro il mito della
«terra che grida e invoca il sangue» e dell’«angelo sterminatore» che aleggia
implacabile su «questo globo disgraziato», è un autore come Maistre35: e all’ideologia
della Restaurazione rinvia in ultima analisi ogni filosofia della storia attraversata dal
rimpianto e dal disappunto per l'esserci stata di una storia (l’osservazione ironica è di
Gans, discepolo di Hegel e tra i maestri di Marx, il quale polemizza con F. Schlegel)36.
La riduzione a «mattatoio» dell’intera vicenda umana, e di ogni sforzo umano di
emancipazione e di progresso, è in grado solo di stimolare la vanità del soggetto, che
celebra così la sua eccellenza e la sua superiorità rispetto ad una oggettività
irrimediabilmente opaca37; e il narcisismo è la negazione più radicale della «serietà
del negativo».
31 Sullivan, 1998.
32 Marx 1953, p. 30.
33Marx, 1955 b, p. 139.
34 Hegel, 1955, p. 80.
35 Maistre, 1984, pp. 24-5.
36 Gans, 1837, pp. XII-XIII.
37 Hegel, 1955, p. 81.
11
Tener fermo a questa serietà non è possibile senza un qualche riferimento alla
categoria di progresso, depurata certo delle ingenuità che di solito l’accompagnano.
La coppia concettuale progresso/reazione fa pensare ad un’altra: sinistra/destra.
L’ideologia dominante tende oggi a considerarle tutte e due obsolete e inservibili.
Indubbiamente, in entrambi i casi, la linea di demarcazione è labile, difficile da
individuare e sottoposta a tutte le vicissitudini della storia. Ciò diviene
particolarmente evidente in occasione delle grandi svolte storiche. Chi rappresenta la
sinistra (o il progresso) nel 1914? Sono l’anarchico Kropotkin, divenuto fervente
interventista, e il Mussolini socialista rivoluzionario e interventista e non ancora
fascista oppure è il Giolitti neutralista? E’ il Wilson profeta armato della crociata
democratica o è il Benedetto XV, che denuncia l’inutilità della carneficina?. E nell’Italia
dell’ultima fase della seconda guerra mondiale a rappresentare la sinistra è Mussolini
ridivenuto «repubblicano» e socialista e comunque leader della «repubblica sociale» o
invece è Badoglio da sempre monarchico e conservatore? Ogni momento di svolta
storica ci costringe a reinterpretare in modo radicale la geografia politica e la
discriminante tra sinistra e destra, progresso e reazione.
Si può negare la validità di queste coppie concettuali; ma è come negare la
validità dei concetti in generale. Si pensi al recente dibattito sulla natura della
Resistenza in Italia o in altri paesi: guerra civile o guerra di liberazione nazionale?
L’Ottobre bolscevico è una rivoluzione o un colpo di Stato? Se il revisionismo storico
parla a tale proposito di colpo di Stato, di colpo di Stato parla invece Marx a proposito
della Glorious Revolution. La Riforma di Lutero (e la successiva Guerra dei contadini) è
un moto anti-feudale o una reazione anti-rinascimentale? Dato il loro carattere
problematico, dobbiamo rinunciare anche alle coppie concettuali guerra civile/guerra
di liberazione nazionale, rivoluzione/colpo di Stato? Si può sempre sostenere con gli
scolastici che Individuum est ineffabile e rifugiarsi nella mistica dell’ineffabilità, ma con
ciò si è abbandonato il terreno della comprensione razionale della politica e della
storia.
La negazione delle coppie concettuali progresso/reazione, sinistra/destra è un
tentativo di rimuovere o occultare il conflitto. Senonché, quando, nonostante tutto, il
conflitto s’impone nella sua evidenza, ecco che viene letto come sinonimo di malattia o
follia: così nella cultura della Restaurazione, così nei movimenti reazionari anche del
Novecento, i quali hanno messo le lotte e gli sconvolgimenti politici sul conto di un
agente patogeno esterno... Oppure s’impone una chiave di lettura non meno
pericolosa. Uno slogan diffuso nel corso dell’ultima campagna elettorale francese
sentenziava: Ni Gauche Ni Droite, Mais français. Siamo così portati a pensare a
Guglielmo II, il quale, in occasione dello scoppio della prima guerra mondiale,
proclama il superamento dei partiti, tutti assorbiti nel corpo mistico di una nazione
che non conosce più destra e sinistra; e siamo altresì portati a pensare a fenomeni
come il bonapartismo, il nazionalismo e il fascismo.
In conclusione, negare le coppie concettuali progresso/reazione,
sinistra/destra significa non solo rinunciare ad un filo razionale per orientarsi nel
dibattito e nel conflitto politico ma aprire anche le porte a chiavi di lettura e a
ideologie assai torbide. Per l’esattezza, nel discorso qui accennato ho fatto riferimento
soprattutto alle categorie di emancipazione e de-emancipazione. La coppia concettuale
sinistra/destra non dà immediatamente l’idea del mutamento incessante delle
contraddizioni oggettive e della geografia politica e si presta pertanto ad una deriva di
tipo psicologico (la destra tende ad essere identificata con la «personalità autoritaria»
12
di cui parla Adorno); d’altro canto, il progresso è stato spesso raffigurato come una
corrente impetuosa e irresistibile, coincidente con l’oggettività del processo storico e
dello sviluppo tecnologico. La coppia concettuale emancipazione/de-emancipazione
mi sembra la più persuasiva per il fatto che fa chiaro riferimento al conflitto (e alla
contraddizione oggettiva) nelle sue più diverse configurazioni, col suo andamento
complesso, contraddittorio e che in una situazione determinata assume un significato
sempre determinato. In altre parole, la riformulazione della coppia concettuale
progresso/reazione (e sinistra/destra) in termini di emancipazione/de-
emancipazione può render conto meglio della serietà del negativo.
Riferimenti bibliografici
Fortschritt, Emanzipation und «Ernst des Negativen». Zur Rehabilitierung einer heute verrufenen
Idee, in «Das Argument», n. 230, 1999, Heft 2/3 (Den Fortschritt neu denken), pp. 235-248; versione
italiana, Progresso/reazione o emancipazione/de-emancipazione?, in «Critica Marxista, n. 3; maggio-
giugno 1999, pp. 55-65.