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PARTE PRIMA
Meccanica classica, energia meccanica, meccanica dei fluidi
acustica, ottica geometrica e aspetti correlati di fisiologia umana
RT/2012/26/ENEA
AGENZIA NAZIONALE PER LE NUOVE TECNOLOGIE,
LʼENERGIA E LO SVILUPPO ECONOMICO SOSTENIBILE
PARTE PRIMA
Meccanica classica, energia meccanica, meccanica dei fluidi
acustica, ottica geometrica e aspetti correlati di fisiologia umana
RT/2012/26/ENEA
I Rapporti tecnici sono scaricabili in formato pdf dal sito web ENEA alla pagina
http://www.enea.it/it/produzione-scientifica/rapporti-tecnici
I contenuti tecnico-scientifici dei rapporti tecnici dell'ENEA rispecchiano l'opinione degli autori e
non necessariamente quella dell'Agenzia.
The technical and scientific contents of these reports express the opinion of the authors but not
necessarily the opinion of ENEA.
APPUNTI DI FISICA GENERALE APPLICATA
PARTE PRIMA
Meccanica classica, energia meccanica, meccanica dei fluidiacustica, ottica geometrica e aspetti correlati di fisiologia
umana
Sommario
In questo libro, diviso in tre parti, si presenta un corso di Fisica Generale secondo gli schemi convenzionali di
Meccanica, Termodinamica ed Elettromagnetismo.
Meno convenzionale è la presentazione del materiale, che viene arricchita da riferimenti alla Fisiologia e a questioni di
sicurezza elettromagnetica e di fisica delle radiazioni, di solito non trattate nei testi tradizionali.
La prima parte delle lezioni contiene, oltre ai doverosi richiami di calcolo algebrico e vettoriale, nozioni di meccanica
classica, meccanica dei fluidi e ottica geometrica, presentati con riferimento alle relative applicazioni fisiologiche e di
natura pratica.
In particolare ai capitoli dedicati ai concetti di forza, energia e potenza e ai moti armonici, segue un capitolo dedicato
alla statica e alla dinamica del corpo umano, ai consumi energetici fisiologici e agli effetti di urti e vibrazioni.
I concetti di idrostatica e idrodinamica, trattati nei successivi capitoli, vengono correlati agli aspetti salienti della fisica
del sistema cardiocircolatorio e questioni più tecniche sul funzionamento dei sistemi idraulici.
Al capitolo dedicato all'acustica e alla propagazione delle onde sonore seguono approfondimenti concernenti sia gli
aspetti tecnici che fisiologici.
Le problematiche associate all’inquinamento acustico vengono esaminate in dettaglio discutendo varie nozioni di natura
tecnica insieme agli strumenti di misura.
Si analizzano inoltre l’apparato acustico umano nonché gli strumenti diagnostici che sfruttano le proprietà delle onde
acustiche, come le apparecchiature ecografiche, dei quali le moderne tecnologie ne hanno permesso la realizzazione.
Infine nel capitolo dedicato all'ottica ed in particolare all'ottica geometrica, trovano ampio spazio lo studio di varie
strumentazioni ottiche e una illustrazione del funzionamento dell'occhio, una analisi delle cause dei principali difetti
visivi.
Summary
This book, consisting of three parts, deals with a presentation of Mechanics, Thermodynamics and Electromagnetism.
The various topics treated in the course of these lectures are presented in a non- conventional way and specific
applications as e. g. human physiology and security are discussed.
The first part covers notions of classical mechanics, fluid mechanics and geometrical optics, along with applications of
technical nature.
In particular, the classical treatment of forces, energy, power and harmonic motions, is complemented by general
considerations on the stability and dynamics of the human body, energy consumption and physiological effects of shock
and vibrations.
The concepts of hydrostatics and hydrodynamics are treated along with the aspects relevant to the physics of the
cardiovascular system and to technical problems concerning the hydrodynamic transport.
The chapter on acoustics and the propagation of sound waves is followed by a fairly deep insight of the operation of the
apparatus of the ear and human acoustics as well as an illustration of the diagnostic tools that exploit the properties of
sound waves, such as ultrasound devices.
Technical notions concerning the acoustical noise are carefully discussed too.
The chapter devoted to optics and geometric optics, contains a wide illustration of the functioning of the eye. An
analysis of the causes of major visual defects is given along with a discussion on the properties and the use of the most
common optical instruments.
3
INTRODUZIONE
F. Ciocci
Gruppo Fisica Teorica e Matematica Applicata
Unità Tecnica Sviluppo di Applicazioni della Radiazione
ENEA - FRASCATI
G. Dattoli
Responsabile
Gruppo Fisica Teorica e Matematica Applicata
Unità Tecnica Sviluppo di Applicazioni della Radiazione
ENEA - FRASCATI
INDICE GENERALE
CAPITOLO I
RICHIAMI DI ALGEBRA E DI CALCOLO VETTORIALE
1. Considerazioni introduttive: dimensioni, unità di misura e notazione scientifica ................................ 10
2. Richiami di trigonometria ............................................................................................................................. 19
3. Elementi di calcolo vettoriale ........................................................................................................................ 26
CAPITOLO II
ELEMENTI DI MECCANICA
1. Elementi di cinematica: moto dei corpi con velocità costante e moto uniformemente accelerato .... 34
2. Moti bidimensionali e moto circolare uniforme ......................................................................................... 44
3. Elementi di dinamica ...................................................................................................................................... 52
4. La quantità di moto ........................................................................................................................................ 61
5. Il momento della quantità di moto ............................................................................................................... 66
6. Cenno alla forza gravitazionale .................................................................................................................... 69
7. Cenno alle forze apparenti............................................................................................................................. 72
8. Momenti delle forze e condizioni generali di equilibrio ............................................................................ 76
CAPITOLO III
LAVORO, POTENZA ED ENERGIA
1. Il lavoro............................................................................................................................................................. 80
2. Forze di attrito dipendenti dalla velocità..................................................................................................... 87
3. Lavoro ed energia potenziale per forze non costanti ................................................................................ 91
4. Conservazione dell’energia negli urti ........................................................................................................... 95
5. La potenza ........................................................................................................................................................ 96
6. Le macchine semplici .................................................................................................................................... 100
7. Cenno alla dinamica dei corpi rigidi .......................................................................................................... 104
CAPITOLO IV
MOTO ARMONICO, VIBRAZIONI, ELASTICITA’
1. Generalità sul moto armonico..................................................................................................................... 113
2. Alcune considerazioni sulle forze di tipo elastico .................................................................................... 116
3. Densità e elasticità ........................................................................................................................................ 120
4. Moti ondulatori.............................................................................................................................................. 125
5. Le onde: ulteriori approfondimenti ............................................................................................................ 129
CAPITOLO V
STATICA E DINAMICA DEL CORPO UMANO
1. Introduzione: i sistemi di leve e la statica del corpo umano.................................................................. 137
2. Statica della colonna vertebrale ................................................................................................................. 146
3. Problemi di urto e cadute............................................................................................................................. 148
4. Alcune considerazioni sul dispendio energetico del corpo umano........................................................ 153
5. Alcune nozioni pratiche sulla movimentazione dei carichi .................................................................... 155
6. Le vibrazioni e gli effetti sulla salute umana ............................................................................................ 158
CAPITOLO VI
CENNI DI IDROSTATICA E IDRODINAMICA
1. Introduzione e concetto di pressione ......................................................................................................... 162
2. La tensione superficiale e l’equazione di Laplace ................................................................................... 172
3. Il teorema di Bernoulli e le sue conseguenze ............................................................................................ 174
4. Viscosità e moto turbolento ......................................................................................................................... 179
8
CAPITOLO VII
LA FISICA DEL SISTEMA CARDIO-VASCOLARE
1. Introduzione .................................................................................................................................................. 185
2. La fisica del cuore.......................................................................................................................................... 187
3. La pressione e il flusso sanguigno .............................................................................................................. 191
4. La pressione transmurale ............................................................................................................................ 197
5. Emodinamica e viscosità .............................................................................................................................. 199
6. Sistema vascolare ed effetti di moto turbolento....................................................................................... 204
CAPITOLO VIII
ONDE SONORE E NOZIONI DI ACUSTICA
1. Introduzione e generalità sul suono .......................................................................................................... 207
2. Caratteri distintivi dei suoni ....................................................................................................................... 211
3. Il decibel come misura del livello sonoro .................................................................................................. 213
4. Cenno alla trasmissione e riflessione dei suoni ........................................................................................ 218
5. Effetto Doppler............................................................................................................................................... 221
CAPITOLO IX
ELEMENTI DI FISIOLOGIA DELL’ORECCHIO E DI ACUSTICA DEL CORPO UMANO
1. Caratterizzazioni dell’orecchio umano e sue funzioni ............................................................................ 227
2. Principi di funzionamento dei dispositivi per indagine ecografica ...................................................... 237
3. L’effetto Doppler come strumento diagnostico ........................................................................................ 242
4. La fisica dello stetoscopio ............................................................................................................................ 245
5. Cenni alla fisiologia del sistema vocale ..................................................................................................... 247
CAPITOLO X
OTTICA GEOMETRICA, LENTI E FISIOLOGIA DELL’OCCHIO UMANO
1. Introduzione .................................................................................................................................................. 250
2. Specchi ............................................................................................................................................................ 253
3. La rifrazione ottica ....................................................................................................................................... 260
4. Le lenti ............................................................................................................................................................ 267
5. La fisiologia dell’occhio e l’ottica geometrica ........................................................................................... 280
6. L’occhio e i difetti oculari ............................................................................................................................. 285
7. Cenno agli strumenti ottici .......................................................................................................................... 289
8. Diffrazione e limite di risoluzione .............................................................................................................. 292
9. Aberrazione cromatica................................................................................................................................. 295
9
10
CAPITOLO I
RICHIAMI DI ALGEBRA E DI CALCOLO VETTORIALE
Questo Capitolo è anomalo rispetto agli altri, perché contiene una serie di nozioni
introduttive propedeutiche alla comprensione di quanto seguirà.
Sebbene abbiamo tentato di ridurre al minimo la matematica utilizzata, abbiamo
ritenuto opportuno premettere alcuni richiami relativi alla notazione scientifica,
calcolo dei logaritmi e calcolo vettoriale.
Data l’importanza di tali nozioni basilari, invitiamo il lettore ad un' attenta lettura del
materiale esposto in questo e nel prossimo paragrafo.
La Fisica è prima di tutto una scienza sperimentale. Pertanto il concetto stesso di
misura è alla base di tale scienza; in tale contesto è dunque determinante introdurre
opportune unità che permettano di definire la misura in maniera oggettiva e
universale.
Prima di introdurre tali unità è opportuno definire, in un ambito più astratto, l’oggetto
di tali misure.
Consideriamo l’ambito ristretto dell’esperienza quotidiana in cui in maniera naturale
utilizziamo i concetti di Lunghezza [L] , Tempo [T ] e Massa [M ] . Queste quantità, che
costituiscono il perno delle nostre percezioni, sono quelle che, nell’ambito della
meccanica, sono dette “dimensioni fondamentali”, le altre saranno dette dimensioni
derivate.
Per chiarire i concetti precedenti, introdurremo le cosiddette equazioni dimensionali,
che sono uno strumento utilissimo e imprescindibile per specificare il contenuto
dimensionale di una data grandezza fisica. Tali equazioni non indicano un valore
numerico, ovvero quanto è lungo un tavolo o quanto tempo è trascorso o a che
velocità si muove un oggetto ma solo le dimensioni con cui una data grandezza deve
essere espressa e tali dimensioni vengono di solito riportate tra parentesi quadre. E’
opportuno precisare che le equazioni dimensionali sono uno strumento altamente
concettuale, che prescinde da specifiche unità di misura e che precisano l’intima
essenza delle quantità in esame.
La velocità è ad esempio una dimensione derivata dalla combinazione della
lunghezza e del tempo; è esperienza comune che la velocità di un automobile si
esprime come una lunghezza divisa per un tempo e avremo pertanto
[V ] = ⎡⎢ L ⎤⎥ (1.1).
⎣T ⎦
11
1
Ricordando che = T −1 potremo riscrivere la (1.1) come segue
T
[V] = [LT-1] (1.2).
E’ evidente, che a parte le parentesi quadre, per le equazioni dimensionali valgono le
stesse regole algebriche delle equazioni ordinarie. Notiamo infatti che
l’accelerazione, definita come una velocità divisa un tempo, può essere espressa, in
termini di dimensioni fondamentali, come segue
[A] = [VT-1] = [LT-2] (1.3).
Come utile esercizio possiamo derivare l’equazione dimensionale della forza che, dal
secondo principio della dinamica, si definisce come massa per l’accelerazione,
ottenendo pertanto, dalle relazioni precedenti, quanto segue
[F] = [MA] = [MLT-2] (1.4).
Vediamo ora come si possano utilizzare le equazioni dimensionali per ottenere una
informazione che vada al di là del semplice contenuto dimensionale. Il lavoro in
meccanica viene definito come il prodotto di una forza per uno spostamento, lo
spostamento ha ovviamente le dimensioni di una lunghezza; potremo pertanto
scrivere il relativo contenuto dimensionale come
[E] = [FL] = [ML2T-2] (1.5).
Abbiamo indicato il lavoro con E perché, come vedremo in seguito, esso è una forma
di energia. Notiamo a questo punto che
[ L2T-2] = [(LT-1 )2] = [V 2] (1.6)
per cui potremo anche scrivere
[E] = [MV 2] (1.7).
Grazie a questa ultima relazione abbiamo stabilito che il lavoro o l’energia può essere
espresso anche come una massa per il quadrato di una velocità. Vedremo in seguito
che tale informazione non è affatto secondaria e sarà derivata nell’ambito del
cosiddetto teorema delle forze vive.
Abbiamo visto che tutte le possibili combinazioni fra dimensioni sono date da
operazioni di moltiplicazione o di divisione e deve essere chiaro che altri tipi di
combinazioni tramite operazioni di addizione o sottrazione tra dimensioni non
omogenee non hanno alcun senso; pertanto qualsiasi calcolo che porti a relazioni del
tipo
[L+ T ] , [M2 +L]… (1.8)
è da ritenersi ERRATO.
Chiariti i punti di cui sopra, vediamo di specificare un sistema di unità di misura che
ci permettano di dare un valore numerico alle dimensioni di cui sopra.
12
a m ⋅ a n = a m+n ,
am (1.10).
n
= a m −n
a
Dalle relazioni precedenti si può anche dedurre che
a 0 = 1,
1
a −m = ,
am (1.11).
( a m ) n = a m⋅n
E’ infine opportuno ricordare che
1
a =ma
m
(1.12).
Le relazioni precedenti costituiscono gli elementi essenziali delle regole relative al
calcolo in notazione scientifica. Consideriamo la seguente operazione 6000 · 40000;
per eseguire tale calcolo, senza utilizzare le regole ordinarie della moltiplicazione,
notiamo che 6000 = 6·103 e 40000 = 4·104 per cui 6000·40000 = 6·103 · 4·104 = 24·107 = 2.4·108.
Se invece si vuole eseguire una operazione del tipo 0.003 · 0.07 potremo procedere
notando che
13
0.003 = 3 ⋅ 10 −3 ,
0.07 = 7 ⋅ 10 −2
in modo di avere
Vediamo ora come sia possibile utilizzare la notazione scientifica per eseguire
operazioni di estrazione di radice; calcoliamo ad esempio 1000 . In base a quanto
detto in precedenza avremo
3 1
1000 = 10 = 10 = 10 ⋅ 10 = 10 ⋅ 10 .
3 2 2
∑x
i =1
i = x1 + x 2 + ... + x n (1.18).
E’ bene sottolineare che a volte con il metodo della notazione scientifica si è più
interessati a valutare quello che si chiama un ordine di grandezza piuttosto che un
valore definito.
Per chiarire il significato dell’ordine di grandezza, di solito indicato con odg ,
consideriamo il numero a·10m, dove a è un numero compreso tra 0 e 10; se m è
positivo allora si avrà che l’odg del numero in questione è m se a <5, m+1 se a >5.
Nel caso in cui il nostro numero sia espresso come a·10 -m il suo odg sarà dato da
−m se a <5, −m+1 se a >5.
Prima di concludere questo paragrafo introduttivo è il caso di dare alcune definizioni
di multipli e sottomultipli spesso usati in Fisica e nel linguaggio corrente. Si sente a
volte parlare di chilowatt, millisecondo, megajoule e così via. I prefissi chilo, mega e
milli vengono utilizzati per indicare multipli e sottomultipli dell’unità di riferimento
(watt, secondo o joule).
Di seguito indicheremo multipli e sottomultipli e la relativa terminologia
MULTIPLI VALORE
Tera (T) 10 12
Giga (G) 10 9
Mega (M) 10 6
Chilo (K) 10 3
Etto (H) 10 2
Deca (D) 10
15
Sotto VALORE
MULTIPLI
deci (d) 10 -1
centi (c) 10 -2
milli (m) 10 -3
micro ( μ ) 10 -6
nano (n) 10 -9
pico (p) 10 -12
3
da cui, uguagliando gli esponenti, si ottiene la soluzione come x =.
2
In base alla definizione di logaritmo otteniamo che qualsiasi numero x potrà essere
espresso come (b>1)
x = blogb x (1.21).
Veniamo ora alle proprietà dei logaritmi che potranno essere espresse come segue
log b ( xy ) = log b x + log b y
x
log b ( ) = log b x − log b y ,
y (1.22).
log b ( x n ) = n log b x
La dimostrazione della prima delle equazioni (1.22) è pressoché immediata.
Utilizzando la relazione (1.21) si ha
Sebbene, come abbiamo visto tutte le basi, purché positive e diverse da 0,1 siano
ammissibili, quelle più comuni sono quelle in base 10 e in base e , noto come numero
di Nepero. Il primo viene detto logaritmo decimale o naturale il secondo neperiano.
Di solito per tali logaritmi la base viene sottintesa e si preferisce scrivere
log10 a = log a
(1.26).
log e a = ln a
Gli esercizi di seguito riportati sono da ritenersi un necessario complemento per la
comprensione di quanto discusso nel resto del capitolo.
17
ESERCIZI
2) Si ricavino le dimensioni della pressione definita come una forza per unità di
superficie.
3) Si ricavino le dimensioni della densità definita come massa per unità di volume.
5) Con il termine anno-luce si indica lo spazio percorso dalla luce, nel vuoto, in un
anno. Sapendo che la luce nel vuoto viaggia ad una velocità di trecentomila
chilometri al secondo determinare la lunghezza in metri dell’anno luce.
6) Sapendo che il Sole dista dalla Terra circa 150 milioni di chilometri, determinare
quanto tempo impiega la luce solare per raggiungere la Terra.
7) La carica di un elettrone è pari a 1.6 ⋅ 10 −19 Coulomb; dire quanti elettroni sono
contenuti in una carica di 3 Coulomb.
8) Sapendo che il raggio terrestre è pari a circa 6378 Km, assumendo che la Terra
abbia una forma sferica, stimarne il volume in metri cubi.
9) Il raggio del pianeta Mercurio è 2439 km; determinare il rapporto tra il volume
della Terra e quello di Mercurio. Fare una ipotesi sul rapporto tra le masse.
n 2n
10
14) Determinare l’odg del numero 2 .
15) Determinare l’odg di −3·57.
18
16) Sapendo che il termine Yotta è il prefisso per il multiplo 1024 e sapendo che
Yocto è il prefisso per il sottomultiplo 10−24, dire a quanti Yocto equivale uno
Yotta.
17) Un recipiente sferico di raggio pari a 3 m contiene acqua distillata; determinare
la massa dell’acqua contenuta nel recipiente.
−31
18) Sapendo che la massa dell’elettrone è 9.1095 ⋅ 10 kg e quella del protone è
1.6726 ⋅ 10 −27 kg , determinare il rapporto tra la massa del protone e quella
dell’elettrone.
19) Determinare il volume in litri di un cilindro regolare con raggio di base pari a
2 m e altezza pari a 4 m.
20) Determinare a che volume corrisponde una massa d’acqua distillata di 50 kg.
a4 b
21) Si calcoli il seguente logaritmo log b ( 6 7 ) .
c d
2. Richiami di trigonometria
La trigonometria mette in relazione le misure degli angoli e dei segmenti. Nel seguito
faremo riferimento alla Figura 1.2.1, che rappresenta una circonferenza di raggio
unitario, con il centro nell’origine degli assi cartesiani, detta cerchio trigonometrico.
r=1
0 x
Con riferimento alla Figura 1.2.2 diremo positivi gli angoli descritti dal raggio in
senso anti-orario, mentre diremo negativi quelli descritto in senso orario.
Per quanto concerne la misura del valore assoluto utilizzeremo i gradi sessagesimali
e i radianti.
r=1
α°
α(rad)= 2π
α° 360°
0 x
−α°
Ricordiamo pertanto che l’intero angolo giro misura 360°, che in radianti (rad)
corrisponde a 2π rad.
Come si può evincere dalla figura 1.2.2, l’angolo espresso in radianti è la misura
dell’arco di circonferenza sotteso dall’angolo α° sulla circonferenza di raggio
unitario. Infatti la circonferenza unitaria misura 2π, dunque l’arco di
circonferenza sarà dato dal rapporto tra α° e l’angolo giro (360°) moltiplicato
per 2π.
E’ evidente che indicando con α ° l’angolo misurato in gradi e con α (rad) l’angolo
misurato in radianti, tra queste due quantità sussisterà la relazione di proporzionalità
αo 180 o
= (2.1).
α (rad ) π
E’ dunque facile dimostrare che
π π
30 o = ,60 o = ,
6 3
π π (2.2)
45 o = ,90 0 = ,..
4 2
e ulteriori esempi si possono trovare negli esercizi alla fine del Capitolo. Nel seguito,
per quanto concerne la misura degli angoli, utilizzeremo in maniera indifferente gradi
o radianti,
Chiariti i punti relativi alla convenzione sulla positività (o negatività) degli angoli e
sulla loro misura, veniamo ora a definire le principali grandezze trigonometriche.
Con riferimento alla Figura 1.2.3 definiremo coseno dell’angolo α (cos(α)) l’ascissa
del punto P , mentre diremo seno dell’angolo α (sin(α)) la sua ordinata.
P
r=1
sin(α)
α
0 x
cos(α)
Poiché il punto P giace sempre sulla circonferenza, avremo che tra il seno e il coseno
di uno stesso angolo sussisterà la relazione
sin(α ) 2 + cos(α ) 2 = 1 (2.3)
che diremo relazione trigonometrica fondamentale.
Vediamo ora quanto valgano il seno e il coseno di alcuni angoli. E’ ovvio che nel
caso in cui α = 0 si avrà
cos(0) = 1, sin(0) = 0 (2.4)
per α = 45° l’assegnazione del valore è meno evidente, comunque ispezionando la
Figura 1.2.3, dove è rappresentato proprio il caso in questione, si nota che essendo il
seno e coseno i cateti di un triangolo rettangolo isoscele si deve avere (lo si provi)
2
sin( 45 o ) = cos( 45 o ) = (2.5).
2
Il caso α = 30° è leggermente più complicato, con riferimento alla Figura 1.2.4 si ha
y α=30°
1
r=1 P 2
1
sin(30°) 30°
α 1
0 3
cos(30°)
x 2
1
1
sin(30 o ) = (2.6a)
2
da cui il lettore può desumere (si ricordi la (2.3)) che
3
cos(30 o ) = (2.6b).
2
Il lettore può infine provare per conto suo che
3 1
sin(60 o ) = , cos(60 o ) = ,
2 2 (2.7).
sin(90 ) = 1 , cos(90 ) = 0
o o
22
Per quanto riguarda angoli maggiori di 90° il lettore non avrà difficoltà a notare che
(si veda la Figura 1.2.5)
3 1
sin(120 o ) = , cos(120 o ) = − ,
2 2 (2.8).
sin(180 ) = 0, cos(180 ) = −1
o o
sin(120°) α=120°
α=180°
0 x
cos(120°)
cos(180°)
Fig. 1.2.5. Seni e coseni per α = 120° e α = 180°.
E’ altresì evidente che (si veda la Figura 1.2.6) che
1 3
sin( −30 o ) = − , cos( −30 o ) = (2.9)
2 2
y
α=−30°
cos(−30°)
0 α x
sin(−30°)
P
y 1
cos(α)
P
sin(α) sin(α)
α 0
P P P P α
cos(α)
x 2π 4π 6π 8π
-1
Il lettore è invitato a riflettere sul fatto che il seno e il coseno sono perfettamente
sovrapponibili se si opera uno sfasamento relativo di 90°; tale considerazione è di
notevole importanza e sarà ripresa nel seguito.
Vediamo ora come si possano definire altre quantità trigonometriche di cui daremo
un'interpretazione geometrica.
ricordando che
OT ′ = 1 , O P ′ = cos( α ), PP ′ = sin( α ) (2.13)
segue che il segmento TT’ può essere interpretato come la tangente dell’angolo α.
T
y
O P’ T’ x
sin(α)
TT’ =
cos(α)
Notiamo che il triangolo OPS è rettangolo in P̂ , con ipotenusa OS; pertanto in base
al succitato teorema avremo OP 2 = OP ′ ⋅ OS . Poiché OP = 1, OP' = cos(α) segue che
sec(α ) = OS (2.15).
25
Dopo queste considerazioni il lettore non avrà alcuna difficoltà a dare una
interpretazione geometrica per altre due quantità trigonometriche, ovvero la
cotangente dell’angolo α (Figura 1.2.10), definita come
cos(α )
ctg (α ) = (2.16)
sin(α )
y
ctg(α)
C’ C
P’ P OP’ : OC’ = PP’ : CC’
y
S’
OP2 = OP’ OS’
P’ P
90°
α 1 = sin (α) OS’
O 1
x OS’ = sin(α)
Es.: Con riferimento alla Figura 1.2.12 si dimostri che SS ′ = sec(α )c sec(α ) .
y
s’
P
O S
x
3. Elementi di calcolo vettoriale
r
V
E’ evidente che la somma di due vettori opposti è pari al vettore nullo che
indicheremo con il simbolo 0 . Chiarita la definizione precedente, facciamo notare
che i vettori possono essere moltiplicati per un numero qualsiasi, positivo o negativo,
ovvero
F = kV (3.1)
28
Vs
O
V2
r2
Fig. 1.3.3. Somma di due vettori.
La differenza vettoriale
Vd = V1 − V 2 (3.3)
può essere eseguita con la stessa regola avendo l’accortezza di sostituire il vettore V 2
con il suo opposto − V 2 (si veda la Figura 1.3.4).
r1
Vd V1
-V2
O
r2
Fig. 1.3.4. Differenza di due vettori.
Vettori definiti solamente da modulo, direzione e verso sono detti “vettori liberi”.
Due vettori liberi qualsiasi sono uguali se hanno lo stesso modulo, la stessa direzione
29
r1
V1 r2
V2
V x +V y = V (3.4)
y
V
Vy
α
0 Vx x
Fig. 1.3.6. Componenti del vettore V rispetto al sistema di assi cartesiani x e y.
I moduli dei vettori componenti sono legati al modulo del vettore V dalle relazioni
V y = V sin (α ),
(3.5).
V x = V cos(α )
V1
V2
O
α |V1| cos(α)
|V2|
x |V1| cos(α)
V2
= |V2|
Fig. 1.3.7. Rappresentazione grafica del prodotto scalare tra due vettori.
Con riferimento alla Figura 1.3.7 indicheremo il prodotto scalare tra i vettori V 1, V 2
con il simbolo V 1 ⋅ V 2 e lo definiremo come
V 1 ⋅ V 2 = V 1 V2 cos(α ) (3.6)
Con riferimento alla Figura 1.3.8 indicheremo il prodotto vettoriale come V 1 × V 2 , e
noteremo che questo definisce un vettore perpendicolare al piano su cui giacciono i
vettori V 1, 2 , con un modulo pari a
V 1 × V 2 = V 1 V 2 sin(α ) (3.7).
e con verso tale che "personificato" vede il vettore V 1 andare su V 2 in senso
antiorario, percorrendo l’angolo minore.
V1 x V2
V2
α
V1
Una regola pratica per eseguire il prodotto vettoriale è quella della mano destra,
illustrata in Figura 1.3.9.
V1 x V2
V2
V1
ESERCIZI
- Si dimostri che il prodotto scalare di due vettori perpendicolari tra loro è nullo.
- Con riferimento alla Figura 1.3.10 calcolare il modulo del vettore risultante.
V1 = 5
α = 60°
O
V2 = 3
r r r r
- Dati due vettori come in Figura 1.3.8 si dimostri che V1 × V 2 = −V 2 × V1
CAPITOLO II
ELEMENTI DI MECCANICA
a) CINEMATICA
intesa come l’aspetto geometrico del moto;
b) DINAMICA
ovvero la scienza che si interessa delle cause che determinano il moto;
c) STATICA
Studio delle condizioni di equilibrio dei corpi in cui non appare il moto.
1. Elementi di cinematica: moto dei corpi con velocità costante e moto
uniformemente accelerato
t2 t3
t4
t1 t5
s2
s1
t6
t0
0
Fig. 2.1.1. Traiettoria del punto materiale. In figura sono anche mostrate le
ascisse curvilinee s1 e s2 , ovvero le lunghezze degli archi di
traiettoria percorsi ai tempi t1 e t2 rispettivamente.
35
La forma geometrica della traiettoria dipende dalle forze che agiscono sul punto
materiale, però qualsiasi essa sia potremo dire che questa è una funzione del tempo e
che posizioni diverse nello spazio saranno toccate a istanti diversi.
Come è ben noto, quando un corpo si muove lungo una determinata curva, possiamo
determinare il valore assoluto della sua velocità, che definiamo velocità "scalare",
come il rapporto dello spazio percorso, rappresentato dalla lunghezza dell'arco di
traiettoria, rispetto al tempo impiegato a percorrerlo.
Se nell’intervallo di tempo t 2 − t1 il corpo percorre l’arco di traiettoria s 2 − s1 , diremo
s2 − s1
che il rapporto definisce la velocità media del corpo nel predetto intervallo.
t 2 − t1
Nel caso in cui la velocità non sia costante è necessario definire la velocità
istantanea, ovvero la velocità che il punto materiale ha ad un determinato istante; a
tale scopo dovremo prendere in considerazione spazi percorsi in intervalli temporali
sempre più piccoli, in maniera tale da definire la velocità istantanea come
s −s
v = lim t2 →t1 2 1 (1.1)
t 2 − t1
Se la velocità media e quella istantanea coincidono sull'intero intervallo t2 − t1, allora
diremo che il moto è caratterizzato da una velocità costante e pertanto lo spazio
percorso e il tempo impiegato saranno legati dalla relazione
s = vt + s0 (1.2)
dove s0 rappresenta la cosiddetta posizione iniziale, ovvero la posizione del corpo
all’istante iniziale t =0.
L'equazione (1.2) vale sia per il moto descritto in Figura 2.1.1 che per moti
unidimensionali, come quello riportato in Fig. 2.1.2, nel primo caso si attribuisce a v
il significato di velocità "scalare" e a s quello di ascissa curvilinea, ovvero di
lunghezza dell'arco di traiettoria percorso dal corpo al tempo t .
Procediamo con un esempio. In Figura 2.1.2 è mostrato il moto unidimensionale di
un punto materiale che si muove a velocità costante
t5 = 25 s
t4 = 20 s
t 3 = 15 s
t 2 = 10 s
t1 = 5 s v
t0 = 0 s P
0 10 20 30 40 50 60 s (m)
50 m − 0 m 30 m − 20 m
vm = = 2 ms −1 , v= = 2 ms −1
25 s − 0 s 15 s − 10 s
In Figura 2.1.3 è invece rappresentato il moto unidimensionale di un punto materiale
che si muove a velocità non costante.
t5 = 25 s
t4 = 21 s
t 3 = 16 s
t 2 = 12 s
t1 = 2 s v
t0 = 0 s P
0 10 20 30 40 50 60 s (m)
S2
t2
S1 s2 s1
t1
s2
s1 s1
0
Fig. 2.1.4. Rappresentazione vettoriale delle posizioni s1,2 del punto
materiale sulla traiettoria agli istanti t1,2 .
r r
dove s1 e s2 sono i vettori posizione dei punti S1 e S2 rispetto ad un'origine O. Si noti
)
che l’arco S1, 2 non coincide con | Δs | , si ha pertanto che il modulo del vettore
differenza non è uguale al valore dall'effettivo percorso effettuato sulla curva tra due
istanti diversi, essi coincidono solo se il moto è rettilineo. Torneremo su questo punto
quando tratteremo il moto circolare uniforme.
Per quanto riguarda il calcolo della velocità istantanea possiamo procedere come
mostrato in Fig. 2.1.4b, in cui abbiamo operato una operazione di limite prendendo
intervalli temporali sempre più piccoli, il risultato di tale operazione, espressa in
termini matematici come
r r
r s2 − s1
v = lim t2 →t1 (1.4).
t2 − t1
viene illustrato in Fig. 2.1.4b, nella quale si mostra qualitativamente che la velocità
istantanea è un vettore tangente alla traiettoria.
La relazione (1.4) viene definita da un punto di vista matematico come la derivata
dello spazio rispetto al tempo, che è poi la definizione di velocità istantanea. Si noti
che il vettore velocità istantanea è un vettore tangente alla curva che descrive la
traiettoria. Il modulo del vettore velocità istantanea e la velocità del corpo calcolata
tramite la (1.1) coincidono anche per traiettorie non rettilinee. In più la (1.4) fornisce
anche l'informazione sulla direzione del vettore velocità istantanea.
Se la velocità media e quella istantanea coincidono allora diremo che il moto è
caratterizzato da una velocità costante e si parlerà di moto rettilineo uniforme;
pertanto lo spazio percorso e il tempo saranno legati dalla relazione
s = vt + s 0 (1.5)
r
dove s0 rappresenta la cosiddetta posizione iniziale, ovvero il vettore posizione del
corpo all’istante iniziale t=0. Tale termine è solo un contributo di tipo geometrico,
38
mentre lo spazio percorso per ragioni cinematiche è costituito dal primo termine nella
precedente equazione. In un grafico spazio temporale la traiettoria percorsa da un
punto in moto con velocità costante sarà semplicemente data da una retta (si veda la
Figura 2.1.5).
s
s3
s2
s1
s0
t0 t1 t2 t3 t
Fig. 2.1.5. Grafico spazio temporale della traiettoria di un corpo in moto
con velocità costante.
Se la velocità non è costante significa che essa varia al variare del tempo. Diremo
allora che il nostro punto materiale è soggetto ad una variazione della velocità nel
tempo che chiameremo accelerazione. Riprendiamo in considerazione il caso
unidimensionale cioè quando il moto è rettilineo; l’accelerazione può essere definita
tramite la stessa procedura adottata per la velocità.
Riesaminiamo il caso di figura 2.1.3; l’accelerazione può essere calcolata come
rapporto tra le velocità misurate in due istanti differenti e l’intervallo temporale
corrispondente:
am (t2-t1) am (t2-t1)
v1 v2 v1 (t2 t1 )
(a) s2 v2
(b) s2
s1
s1
0 0
Fig. 2.1.6. Accelerazione media (a) e istantanea (b) del punto materiale tra gli istanti t1,2.
Vogliamo qui far notare che il vettore accelerazione, non è diretto tangenzialmente
alla traiettoria, ma può assumere una direzione (si veda la Fig. 2.1.7) arbitraria che
implica l’esistenza di due componenti tangenziale e verticale (o normale), rispetto
alla traiettoria del moto
v d|v|
at =
| v | dt
a
1 d v
ac =
|v| dt | v |
Fig. 2.1.7. Componenti tangenziale e verticale alla traiettoria del moto.
v3
v2
v1
v0
t0 t1 t2 t3 t
Fig. 2.1.8. evoluzione della velocità per un corpo soggetto ad accelerazione costante
per un moto rettilineo uniformemente accelerato.
s=v t
0 t
Fig. 2.1.9. Calcolo dello spazio percorso dal punto materiale in moto
con velocità costante nel piano (v,t).
1 1 2
2
vt = 2
at
0 t
Fig. 2.1.10. Calcolo dello spazio percorso dal punto materiale in moto
con accelerazione costante nel piano (v,t).
Invece nel caso di velocità iniziale non nulla, con riferimento alla figura 2.1.11,
avremo:
1
s = at 2 + v0 t (1.10a)
2
1 1 2
2
vt = 2
at
v0
+
v0 t
0 t
Fig. 2.1.11. Calcolo dello spazio percorso dal punto materiale in moto con
accelerazione costante e velocità iniziale v0 nel piano (v,t).
Nel caso in cui lo spazio iniziale percorso non sia nullo avremo più in generale:
1 2
s= at + v0 t + s 0 (1.10b),
2
Il grafico spazio-temporale di un corpo in moto soggetto ad una accelerazione
costante è mostrato nella figura 2.1.12, in corrispondenza del grafico velocità-tempo.
42
100
v
2000
50
1
s (m) v t =600 m
2
+
1500 v0 v0 t =200 m
0
0 10 20
t 30 v0 = 10 ms-1
1000 a = 3 ms-2
800 m
600 m
500 v0 = 0 ms-1
00 5 10 15 20 25 30
t (sec)
Fig. 2.1.12. Esempio di grafico spazio-temporale per un punto materiale in
moto con accelerazione costante nel piano (s,t).
v f = v0 + at (1.12)
da cui si ricava il tempo necessario per raggiungere la velocità vf
v f − v0
t= (1.13)
a
che, inserito nella (1.10c), dà la seguente espressione
2 2
1 v f − v0
a= (1.14),
2 Δs
esplicitando vf si ottiene proprio l’equazione (1.11). Come vedremo in seguito
l’equazione (1.14) sarà un importante elemento per stabilire il cosiddetto teorema
delle forze vive.
Si noti che la precedente equazione può essere scritta nella forma
1 (v f + vi )(v f − vi )
a= (1.15)
2 Δs
che può essere sfruttata, insieme alla (1.13) per ottenere
v f + vi
Δs = t (1.16)
2
Il secondo problema che vogliamo discutere è il seguente: quanto tempo impiega un
punto materiale a percorrere una distanza pari a Δs una volta nota l’accelerazione e la
sua velocità iniziale. Se le velocità iniziale e la accelerazione hanno verso concorde,
dalla relazione (1.10b) segue
at 2 + 2v 0 t − 2Δs = 0 (1.17)
da cui, risolvendo l’equazione di secondo grado nel tempo si ottiene
2
− v0 + v0 + 2aΔs
t= (1.18),
a
ottenuta scartando la soluzione negativa.
L’esempio più naturale di accelerazione costante è quella dell’accelerazione di
gravità secondo la quale tutti i corpi liberi di muoversi sulla superficie terrestre
subiscono una accelerazione di solito indicata con g diretta verso il basso e pari a
m
g ≅ 9.81 . (1.19)
s2
Una semplice applicazione del precedente risultato è il fatto che un corpo soggetto
all’accelerazione di gravità, partendo da fermo e in caduta libera nel vuoto, ovvero
trascurando la resistenza dell'aria, impiega un tempo
2h
t= (1.20)
g
per cadere da un’altezza h (si veda la Figura 2.1.13).
44
h (m)
100 0s
90 1.43 s
80 2.02 s
70 2.47 s
60 2.86 s
50 3.19 s
40 3.50 s
30 3.78 s
20 4.04 s
10 4.28 s
0 4.52 s
Fig. 2.1.13. Caduta di un grave.
2. Moti bidimensionali e moto circolare uniforme
y(m)
200
150
g
100
g
50
α
0
0 50 100 150 200 250 300 350 400
x(m)
Fig. 2.2.1. Esempio di moto uniformemente accelerato.
45
che rappresenta una parabola e riproduce la forma della traiettoria del moto dei
proiettili. Per ulteriori specificazioni si veda la Figura 2.2.2. Come c’era da aspettarsi
la parabola ha concavità rivolta verso il basso e il punto di massima altezza raggiunto
dal proiettile coincide con il vertice della parabola.
Come è ben noto una parabola è anche caratterizzata oltre che dal vertice da un
fuoco (si veda Boccia, Ciocci e Dattoli, Elementi di Calcolo ed. Kappa Roma
2005) e da una retta direttrice. Chiarire il significato fisico di tali quantità nel
moto di un grave sulla superficie terrestre.
Si noti che le coordinate del fuoco sono
v 02 sin( 2 α ) v 02 cos( 2 α )
F ≡( , )
2g 2g
Mentre l’equazione della direttrice è
v02
y=
2g
r
partendo dall’origine con velocità V ≡ (v0 cos(α ), v0 sin(α ) ) in assenza di accelerazione
v0
di gravità dopo un tempo t = .
2g
400
[m]
300
x(t)
200
y(t)
100
0
0 1 2 3 4 5 6 7 8
t (sec)
Fig. 2.2.2. Separazione dei moti lungo la direzione verticale e orizzontale in
funzione del tempo relativamente alla traiettoria descritta in fig.2.2.1
Consideriamo ora il cosiddetto moto circolare uniforme (si veda la Figura 2.2.3) che è
quello descritto da un corpo, che si muove, ad esempio in senso anti-orario, lungo una
circonferenza, con velocità in “modulo” costante, ovvero con velocità scalare
costante.
v
v =costante
v
R
v
Fig. 2.2.3. Moto circolare uniforme.
Nel caso del moto circolare uniforme, a differenza del moto rettilineo uniforme, la
velocità, che è una grandezza vettoriale, cambia continuamente direzione; pertanto
non può essere considerata una quantità costante.
48
La velocità e l’accelerazione nel moto circolare uniforme saranno definite come già
indicato nelle equazioni (1.4) e (1.7).
Le intensità di tali vettori possono essere determinate notando che se la circonferenza
viene descritta con velocità in modulo costante v, se si indicano con R il raggio e con
T il tempo necessario a percorrere l’intera circonferenza, si ha
2π R = v T (2.5)
Δα ( rad )
Introducendo la velocità angolare ω = definita come il rapporto tra l'arco di
Δt
circonferenza di raggio unitario spazzato nell'intervallo di tempo Δt
2π
ω= (2.6)
T
si potrà scrivere il modulo della velocità nel moto circolare uniforme come
v = ωR (2.7).
Il tempo T viene detto periodo del moto e il numero di volte in cui la circonferenza
viene descritta nell’unità di tempo viene detto frequenza ed è dato da
1
f = (2.8),
T
e viene misurata in Hertz (1Hz = 1s −1 ) .
Molti moti periodici, ovvero che si ripetono identicamente nel tempo, possono essere
descritti usando la terminologia del moto circolare uniforme, cosicché potremo dire
che normalmente il battito cardiaco ha una frequenza di 1.2 Hz (calcolare a quanti
battiti corrispondono in un minuto). Frequenze maggiori saranno dette tachicardiche,
frequenze minori bradicardiche.
Con riferimento alla Figura 2.2.4 si ottiene, dalla applicazione di quanto imparato in
precedenza, che la velocità istantanea (t2 → t1), nel moto circolare uniforme, è
tangente alla circonferenza.
vm (t2-t1)
(t2 t1 ) vm (t2-t1)
ρ’1
ρ2
ρ' 2
ρ1
R
L’accelerazione (si veda la Figura 2.2.5), diretta come il raggio verso il centro della
cerchio, viene detta centripeta.
ac
Per quanto riguarda l’accelerazione si noti che utilizzando le definizioni data nel
paragrafo 1 avremo
ac = ω 2 R (2.9).
E’ evidente da quanto prima detto che la velocità angolare ω è la velocità con cui il
raggio vettore descrive un angolo Δα (si veda la Figura 2.2.6).
R
Δα
0
Fig. 2.2.6. Rappresentazione vettoriale della velocità angolare
E' pertanto chiaro che l’angolo in un intervallo di tempo Δt il raggio vettore in moto
con velocità angolare costante avrà descritto un angolo pari a
Δα = ω Δt (2.10)
cui corrisponde un arco di lunghezza
Δs = R ω Δt (2.11).
La velocità angolare si misura in radianti al secondo ( rad / s ) e ha una interpretazione
vettoriale in base a quanto mostrato nella Figura precedente ed è rappresentata da un
vettore ortogonale al piano del moto sicché la velocità periferica e l’accelerazione
50
centripeta potranno essere scritte in termini vettoriali come (si tenga conto della
nozione di vettore libero, discussa in precedenza)
r r r
v = ω × R,
r r r r (2.12),
ac = ω × ω × R
si vedano le Figure 2.2.7 e 2.2.8 per una opportuna interpretazione geometrica.
v
R
a v
Abbiamo in precedenza discusso due tipi di moto: quello rettilineo e quello circolare.
La discussione precedente sul concetto di accelerazione è piuttosto generale e la
traiettoria di Figura 2.1.6 è una curva generica; il vettore accelerazione, diversamente
dal vettore velocità, non è tangente alla traiettoria. Avremo una situazione
leggermente più complessa rappresentata in Figura 2.2.9: l’accelerazione ha due
componenti, una tangenziale a τ diretta lungo la tangente (istantanea) alla traiettoria e
una normale a n in direzione perpendicolare; in generale avremo
a = aτ + a n
La componente normale gioca un ruolo analogo all’accelerazione centripeta e può
essere scritta come
v2
an =
ρ
dove ρ è il raggio di curvatura della traiettoria.
51
at
a
an
0
Fig. 2.2.9. Componenti normale e tangenziale dell’accelerazione .
Il concetto di raggio di curvatura può essere come mostrato in Figura 2.2.10 e, in
termini estremamente grossolani, può essere considerato come il raggio del cerchio,
detto in gergo cerchio osculatore, che localmente approssima la curva.
at
a
an
ρ
) r ⎛ ϑ ⎞
S1, 2 − Δ s ≅ ρ ⎜ϑ − 2 sin( ) ⎟
⎝ 2 ⎠
assumendo che sia piccolo e che si possa espandere in serie il seno fino al terzo
ordine nell’argomento, si ottiene
) r ϑ3
S1, 2 − Δ s ≅ ρ
24
che rappresenta una quantità trascurabile se l’intervallo temporale su cui calcolare la
media, sia tale da non determinare una significativa variazione angolare.
s
S2
s2 s1
S1
ϑ
s2
s1 ρ
0
Fig. 2.2.11. Raffronto tra l'arco di traiettoria ed il modulo della differenza tra i raggi
vettori di due punti s1 e s2.
3. Elementi di dinamica
L'attrito può essere immaginato come originato dal contatto di superfici scabre.
Bisogna inoltre fare una distinzione tra attrito statico e dinamico, cerchiamo di
chiarire tale concetto con l’ausilio della Fig. 2.3.3 in cui riportiamo il risultato di una
sorta di esperimento concettuale, in cui si mostra un corpo del peso di 100 N soggetto
a forze applicate di diversa intensità. Il corpo rimarrà fermo rispondendo alla
sollecitazione con una forza resistente pari alla forza applicata, finché non si giunge
alla soglia del moto oltre la quale il corpo comincia a muoversi. Il rapporto tra la
forza applicata alla soglia del moto e il peso del corpo (o comunque la componente
verticale della forza che agisce sul corpo) viene detto coefficiente di attrito statico,
ovvero
r
FA
μs = r (3.4a)
FN
Forza
|FN| = 100 N applicata
Forza
soglia resistente
60
F
del moto FA
μs = 0.5
Forza resistente (Newton)
50
μd = 0.4 FN
40
Attrito Attrito
30 statico dinamico La relazione
Nel caso di forze applicate inferiori |FA|=μs |FN|
20
al valore di soglia, la forza di
10 attrito eguaglia la forza applicata si applica solo nella
mantenendo l'equilibrio statico. condizione di soglia
0 0 10 20 30 40 50 60 70 80 del moto.
Forza applicata (Newton)
Fig. 2.3.3. Attrito statico e dinamico
r
La forza di tensione FT è quella forza che, agendo su una corda (tendine, catena…)
tende ad allungarla.
56
FT
Fp
Fig. 2.3.4. Condizione di equilibrio tra la forza peso e la tensione della corda.
Sul corpo in questione agiscono due forze: la forza peso e la tensione della fune; dalla
condizione di equilibrio avremo
57
r r
F p + FT = 0 (3.8)
da cui segue
FT = F p (3.9)
da cui segue FT = 50 N .
ω Fa = μd N
N
m
vt
Fp = mg
Come mostrato in Figura 2.3.5, le forze che agiscono sul corpo sono:
a) La reazione vincolare , che confina il moto sulla superficie del cilindro e
corrisponde in modulo direzione e verso ad una forza centripeta.
b) La forza peso
c) La forza di attrito diretta in direzione opposta a quella peso.
E’ dunque evidente che la condizione di equilibrio si otterrà per quando forza di
attrito e forza peso si uguaglieranno, poiché
FA = μ s mω 2 r ,
(3.12)
Fp = mg
otteniamo (lo si provi)
g
ω= (3.13)
μsr
Con riferimento alla Figura 2.3.6, si consideri una forza F , che insiste su una
cassa di massa m con un angolo θ , rispetto al piano scabro con coefficiente di
attrito statico μs su cui insiste a sua volta la cassa, si determini la forza di attrito
e il valore minimo della forza necessario per muovere la cassa.
F
θ s
FA
Fp
La forza normale è data dalla somma della forza peso della cassa e dalla componente
verticale della forza agente sulla cassa, ovvero
FN = F p + F sin(ϑ ) (3.14)
FA = μ s ( mg + F sin(ϑ )) (3.15)
che si opporrà alla componente della forza orizzontale agente sulla cassa, la minima
forza necessaria per spostare la cassa sarà dunque
da cui segue
μs
F= mg (3.17)
cos(ϑ ) − μ s sin(ϑ )
v0
F =μd m g
d
Fig. 2.3.7. Distanza di frenata su una strada con coefficiente di attrito dinamico.
Si noti che lo spazio di frenata cresce con il quadrato della velocità e questo è un fatto
che fa meditare, se la velocità raddoppia la distanza di frenata quadruplica.
Il risultato riportato in eq. (3.18) potrebbe essere sorprendente perché asserisce che lo
spazio di frenata è indipendente dalla massa del veicolo e dunque, a parità di velocità,
un autobus e una piccola automobile dovrebbero fermarsi dopo aver percorso la
stessa distanza. Nella realtà i veicoli molto grossi hanno maggiore difficoltà a
fermarsi di quelli più piccoli.
Un secondo punto di non secondaria importanza è relativo al coefficiente di attrito
dell’asfalto bagnato rispetto a quello asciutto. Sebbene sia molto difficile fare delle
stime sul reale effetto dell’acqua sul coefficiente d’attrito, non c’è comunque dubbio
che la pioggia agisca da lubrificante e che il coefficiente di attrito possa raggiungere
valori anche prossimi a 0.1, contro un valore di 0.7 dell’asfalto asciutto. In Fig. 2.3.8
riportiamo alcune considerazioni aggiuntive, che permettono di inquadrare meglio il
problema.
60
Zona critica dove viene persa Zona critica dove viene persa
come frazione del peso del veicolo
forza di attrito effettiva espressa
Si consideri la Fig. 2.3.9 dove si mostra una macchina, in moto su una strada con una
pendenza ϑ e un coefficiente di attrito statico μ s, che esegue una curva caratterizzata
da un raggio di curvatura r, si dimostri che la velocità massima con cui l’automobile
può affrontare la curva è
r g (sin(ϑ ) + μ s cos(ϑ ) )
v max =
cos(ϑ ) − μ s sin(ϑ )
FA = μs
N 2
Fc = m v
r
y r = raggio di
curvatura
x ϑ Fc
N
ϑ Fp = mg
Fp ϑ
N
Fig. 2.3.9. Macchina in moto su una curva parabolica
Ulteriori esempi in cui interviene la forza di attrito saranno discussi nel seguito.
4. La quantità di moto
p2
p1 m2
m1
p'2
p'1
m2
m1
Fig. 2.4.1. Esempio di urto tra due punti materiali di massa m1 e m 2=2m1
che si muovono con velocità v1 = 7 m s -1 e v2 = 10 m s-1 .
Il motivo di tale legge di conservazione è intimamente legato alla terza legge della
dinamica. Quando i corpi vengono a contatto eserciteranno fra di loro una mutua
reazione, ma tale che la somma totale delle forze esterne che agiscono sul sistema sia
nulla; il fatto che non vi sia alcuna forza esterna attiva implica la conservazione della
quantità di moto totale del sistema.
Si noti che abbiamo fatto ricorso al termine “sistema”, per indicare l’insieme di
particelle che contribuiscono all’urto, e all’aggettivo “totale” per indicare la quantità
di moto complessiva del sistema ovvero quello costituito dalla somma delle particelle
costituenti il sistema.
La scelta dei termini e degli aggettivi non è casuale e nasconde un significato fisico
profondo; dovremmo pertanto vedere il processo di urto da un punto di vista
“macroscopico” e da un punto di vista “microscopico”.
Nel caso macroscopico si considera il sistema nel suo insieme ed è come se noi
guardassimo una scatola chiusa che contiene un certo numero di biglie; non avendo la
possibilità di “vedere” cosa succede all’interno della scatola descriveremo il moto
basandoci solo sui “dati di fatto”, ovvero velocità e massa della scatola, seguendo in
pratica il moto del suo baricentro. Non esistendo forze esterne saremo obbligati a
concludere che non esiste variazione di quantità di moto totale.
63
Due ragazze di masse m1 e m2 sono ferme sui pattini; supponendo che il moto sui
pattini sia libero, se la ragazza 1 spinge la ragazza 2 che acquisisce una velocità
v2, determinare la velocità della ragazza 1 (Figura 2.4.2).
Per rispondere al quesito precedente facciamo notare che la spinta può essere
considerata come una sorta di interazione interna, pertanto, essendo le due ragazze
ferme inizialmente, avremo che
r r
p1 + p2 = 0 (4.3)
da cui segue
m
m1v1 − m2 v 2 = 0 ⇒ v1 = 2 v 2 (4.4)
m1
si noti che le due ragazze si muovono in direzioni opposte.
E’ implicito che il baricentro del sistema non subisce alcuno spostamento; infatti,
indicando con x1,x2 la posizione delle due ragazze prima dell’urto, avremo che il
baricentro è dato da
m1 x1 + m2 x 2
XB = (4.5)
m1 + m2
Dopo l’urto, avendo ciascuna ragazza acquisito una velocità v1,v2, avremo che il
baricentro del sistema ad un generico tempo t dopo l’urto è dato da
64
m1 ( x1 + v1t ) + m 2 ( x 2 − v 2 t ) m v − m2 v2
X B′ = = XB + 1 1 t (4.6)
m1 + m 2 m1 + m 2
l’ultimo termine nella relazione precedente è nullo, in virtù della equazione (4.4), per
cui X B = X B′ e dunque il baricentro non subisce alcuno spostamento.
Si consideri una canoa di massa 50 kg e lunga 2 m, con una estremità vicina alla
riva di un lago. Un uomo del peso di 70 kg è inizialmente in piedi all’estremità
opposta e si muove lungo la barca per scendere a terra. Di quanto si sposterà la
barca dalla riva quando l’uomo avrà attraversato tutta la barca?
Poiché non esistono forze esterne che agiscono sul sistema barca-uomo dobbiamo
aspettarci che la barca si sposti in modo che il baricentro del sistema risulti sempre
nel punto in cui si trovava prima che l’uomo si spostasse verso la riva.
Assumendo come riferimento la riva (vedi Figura 2.4.3), abbiamo inizialmente (dove
gli indici u,c stanno per uomo e canoa rispettivamente)
mu xu + mc xc
XB =
mu + mc
e dopo lo spostamento
mu x u' + m c x c'
X =
'
B
mu + m c
Uguagliando le quantità precedenti si ottiene che la barca dovrà spostarsi di una
quantità pari a
m
Δxc = u Δxu
mc
dove Δx rappresenta lo spostamento x-x’. Inserendo i dati numerici si trova che la
canoa subirà uno spostamento pari a 2.8 m.
0
xu
xc
-x0 x0
0 x
Con riferimento alla Figura 2.4.4, assumeremo che inizialmente il baricentro della
carrozzella coincida con l’origine degli assi, cosicché avremo che il baricentro del
sistema carrozzelle più persone è dato da
(m1 − m2 ) x0
XB =
m1 + m2 + mc
dove 1,2,c stanno per la prima e seconda persona e per carrozzella rispettivamente.
Dopo lo scambio di posti si avrà
(m2 − m1 )( x0 + Δx) + mc Δx
X B' =
m1 + m2 + mc
Δx
m1 − m2 = mc
2 x 0 − Δx
Dai dati numerici otteniamo che la differenza di massa è pari alla massa della
carrozzella. Il Lettore spieghi il perché dei valori assoluti e discuta in che verso si
determinerà lo spostamento della carrozzella a seconda che m1 > m2 , m1 < m2 .
Ritorneremo sui problemi di urto quando accenneremo al principio di conservazione
dell’energia. Accenneremo inoltre agli effetti degli urti sul corpo umano nel Capitolo
IV, quando avremo una idea più chiara sui concetti di forza e di lavoro.
66
5. Il momento della quantità di moto
Abbiamo prima visto come la quantità di moto sia un vettore diretto parallelamente
alla velocità e che rappresenta il grado di impulso trasferito ad una certa massa da una
forza istantanea.
Discuteremo ora una ulteriore quantità di natura vettoriale nota come momento della
quantità di moto o momento angolare che è in un certo senso una misura del grado di
deviazione angolare indotto da una certa forza. E’ evidente che per definire una
siffatta quantità abbiamo bisogno di specificare (Figura 2.5.1)
Ω = rx p
r r r
Ω = r p sin(ϑ ) (5.2)
r
Nel nostro caso specifico avremo (si veda la Figura 2.5.2) r sin(ϑ ) = l da cui
segue che essendo v costante, il modulo del nostro vettore è sempre conservato. Il
lettore completi il quesito dimostrando la costanza del medesimo in direzione e
verso. Si noti che il modulo del momento angolare può essere geometricamente
interpretato come in Figura, in cui l rimane costante per tutta la durata del moto.
v
ϑ
r
ϑ
90°
l
O
Si dimostri che una forza applicata al corpo per un tempo δt determina una
variazione di momento angolare data da
r r r
δ Ω = r × Fδ t (5.3).
p + δp
F
r + δr p
Si discuta cosa succede nel caso di forze ortogonali al moto del corpo con
particolare riferimento ai moti circolari.
1 v
δS= 2 r h , h= v δ t sin(θ ) δs=v δt
h
ϑ
r
1
δS= 2 r v δ t sin(θ )
O
6. Cenno alla forza gravitazionale
Nel paragrafo precedente abbiamo considerato forze di tipo costante, ovvero forze
che non variano durante il tempo in cui sono applicate e che non dipendono dalla
posizione e abbiamo visto che la forza peso è una di queste.
La forza peso è, come ben noto, dovuta all’attrazione gravitazionale, la legge che
regola il moto dei pianeti.
Il fatto che essa possa ritenersi costante è solo una approssimazione, valida per tutti i
corpi in moto in prossimità della superficie terrestre.
La legge della gravitazione universale, formulata da Newton è quella che descrive
l’attrazione tra due corpi dotati di massa, distanti tra loro (si veda la Figura 2.6.1) e
può essere enunciata come segue:
m1
m2
Fig. 2.6.1. Masse m1 e m2 poste ad una distanza reciproca
m1 m2
F =G (6.1)
r2
−11 N ⋅ m2
dove G = 6.67 ⋅ 10 è la costante di gravitazione universale nel sistema MKS e
Kg 2
r è la distanza tra i centri di gravità delle due masse.
Chiarito quanto sopra possiamo determinare il valore della “costante" g, direttamente
dalla equazione (6.1). Assumendo che m1 = M T ≅ 5.97 ⋅ 10 24 Kg sia la massa della
Terra e che r = RT ≅ 6370 Km sia il suo raggio medio otteniamo
MT
g =G (6.2)
R 2T
−2
che risulta fornire il già citato valore di 9.81 m s , che è da intendersi come valore
medio, visto che la Terra non è esattamente sferica né omogenea.
E’ proprio la legge di newton che permette di derivare le tre leggi di Keplero relative
al moto dei pianeti intorno al Sole.
Riporteremo nel seguito dette leggi, senza peraltro dimostrare come possano essere
dedotte dalla (6.1).
a) Prima legge
L’orbita descritta da un pianeta nel suo moto intorno al Sole è una ellisse ed il
Sole occupa uno dei due fuochi (si veda la Figura 2.6.2)
ρ
ρ'
b
F1 ϑ F2
S a
2c
b) Seconda Legge
Fig. 2.6.3 Seconda legge di Keplero, Le aree in figura sono uguali e sono
descritte dal raggio vettore in tempi uguali.
Non è difficile capire che tale legge è legata al fatto che per forze di natura centrale il
momento angolare è una quantità conservata (si veda il paragrafo precedente).
Direzione orbitale
R
Sole
Forza centripeta
Terra
2π
Ricordando che la velocità angolare è legata al periodo di rotazione da ω = ,
T
otteniamo dalla (6.4a) l’ulteriore relazione
R 3 GM s
= (6.4b)
T2 4π 2
c) Terza legge
Nel moto dei pianeti intorno al Sole il rapporto tra il cubo dei semiassi maggiori
e il quadrato dei periodi di rivoluzione è una costante.
7. Cenno alle forze apparenti
Abbiamo fino ad ora discusso di vari tipi di forze e specificato il loro effetto sul
movimento dei corpi; ognuna di queste è stata caratterizzata senza definire il sistema
di riferimento, abbiamo cioè tacitamente assunto che il moto avvenisse o in un
“ambiente” fermo o in moto con velocità rettilinea ed uniforme. L’ambiente, o
73
Abbiamo dunque assunto che il moto dei corpi in sistemi di riferimento in moto
uniforme uno rispetto all’altro è perfettamente equivalente, ovvero che le leggi della
meccanica non cambiano se una esperienza viene eseguita in un sistema in quiete1 è
indistinguibile rispetto alla medesima esperienza eseguita in un sistema in moto
uniforme. Da ciò discende anche l’impossibilità di eseguire un qualsiasi esperimento
di natura meccanica atto a rivelare il moto (uniforme) del sistema in cui si sta
effettuando l’esperienza stessa. Tale conclusione legata al primo principio della
dinamica rappresenta l’essenza del cosiddetto principio di relatività Galileiana.
Sistema di riferimento
v non inerziale
F
r
Forza “centrifuga”
Forza
centripeta
r
Assumendo ad esempio che l’autobus subisca una decelerazione − a , noi all’interno
r
dell’autobus saremo soggetti ad una spinta in avanti determinata dalla forza ma ,
questa forza viene detta apparente nel senso che non si tratta di una forza reale, ma di
una forza che cessa quando il nostro sistema torna ad essere inerziale.
Abbiamo considerato un sistema di riferimento in moto rettilineo, ma vediamo cosa
succede se questo sistema è in moto circolare, che per semplicità assumeremo essere
uniforme (si veda la Figura 2.7.2).
1
Da quanto detto risulta chiaro che il concetto di quiete o di moto uniforme è semplicemente
relativo.
74
Forza
centrifuga
Forza di Coriolis
In questo caso nasce una prima forza apparente (ovvia) che è quella centrifuga e una
meno ovvia ed altrettanto importante legata alla possibilità che il corpo si muova con
una certa velocità nel sistema rotante.
Tale forza, detta di Coriolis, può essere spiegata in maniera piuttosto semplice, anche
se non rigorosa. Consideriamo infatti un oggetto che ruota con velocità angolare ω su
una piattaforma rotante a sua volta con velocità angolare Ω . La velocità totale, vista
da un osservatore non solidale con il sistema rotante, è
vT = (ω + Ω) r (7.1)
mentre l’accelerazione centrifuga è
aT = ω 2 r + Ω 2 r + 2Ω(ω r ) (7.2)
Ricordando che ωr = v potremo scrivere
aT = ω 2 r + Ω 2 r + 2Ω v (7.3)
I primi due termini sono facilmente riconoscibili come contributi di accelerazione
centripeta, mentre l’ultimo è di natura nuova ed è appunto l’accelerazione di Coriolis.
Tenendo conto della natura vettoriale delle accelerazioni e delle velocità avremo (si
veda la Figura 2.7.3) che in termini vettoriali tale accelerazione potrà essere scritta
come
a c = 2Ω × v (7.4)
E' evidente che, per ottenere la forza corrispondente, basterà moltiplicare, ambo i
membri della precedente uguaglianza, per la massa del nostro oggetto. Un' idea
dell’importanza di tale contributo è fornita dagli esempi che seguono.
75
ω r
v
E’ evidente che in questo caso dovremo chiamare in gioco l’effetto della forza
centrifuga, dovuta alla rotazione della Terra, che è massima all’equatore e minima ai
poli. Per essere quantitativi dovremo determinare
2π
ω= ≅ 7.27 ⋅ 10 −5 rad
86.400
−2
ottenendo così un’accelerazione centrifuga pari a a C ≅ 3.4 ⋅ 10 m / s .
2
8. Momenti delle forze e condizioni generali di equilibrio
r
ϕ
90°
asse
braccio della forza
La somma vettoriale, ovvero la risultante, di tutte le forze agenti sul corpo deve
essere nulla.
La somma dei momenti di tutte le forze che agiscono sul corpo deve essere nulla.
Per quanto concerne questo ultimo punto si procede come segue: si individua un asse
perpendicolare alle forze complanari e si definiscono positivi i momenti che inducono
una rotazione in senso anti-orario rispetto all’asse, mentre si definiscono negativi
quelli che inducono rotazioni in senso orario.
A titolo di esempio consideriamo il classico problema della leva.
E’ evidente che se i due ragazzi sono di ugual massa il baricentro del tronco coincide
con quello del sistema (tronco + ragazzi); inoltre, assumendo come verso di rotazione
quello antiorario, avremo dal calcolo dei momenti
m1 gl1 − m2 gl 2 = 0 (8.2)
mentre per le forze
m1 g + m2 g + mT g = N (8.3)
dove N è la reazione del vincolo e mT,1,2 le masse del tronco e dei due ragazzi.
Date le condizioni del problema (uguaglianza delle masse e simmetria rispetto al
baricentro) le condizioni di equilibrio risultano automaticamente soddisfatte.
In Figura 2.8.2 viene mostrato un tubo omogeneo di 100 N e lungo tre metri che
viene utilizzato come leva. Dove va collocato il fulcro (ovvero il punto di
appoggio) nel caso in cui un peso di 500 N ad una estremità debba bilanciare un
peso di 200 N all’altra? Qual'è la forza di reazione esercitata sul tubo dal
sostegno?
FR
x L- x
1 2
L/ 2
100 N
F1 = 200 N
F2 = 500 N
Il peso del tubo va considerato come una forza applicata nel baricentro; essendo il
tubo omogeneo essa è posizionata nel suo centro. Poiché richiediamo che le forze si
bilancino, avremo che gli angoli formati dalla direzione del tubo e delle forze sono di
90o .
Con riferimento alla figura e in base a quanto detto in precedenza avremo
1) condizione di equilibrio delle forze:
r r r r
F1 + F2 + Fp + FR = 0
da cui si evince FR = 800 N .
2) Condizione di equilibrio sui momenti:
Indicando con x la distanza della estremità 1 dal fulcro si ha (si noti che la forza
1 e la forza peso tenderebbero ad indurre rotazioni in senso anti-orario)
L
F1 x + F p ( x − ) − F2 ( L − x ) = 0
2
da cui segue x ≅ 2.07m.
Le leve saranno discusse più in dettaglio nella parte del libro dedicata ai problemi di
statica e dinamica del corpo umano con particolare riferimento all’azione delle forze
muscolari.
79
80
CAPITOLO III
1. Il lavoro
F cos( ϑ )
Fig. 3.1.1. Forza che agisce con un angolo θ su un corpo di massa m vincolato
a muoversi su una superficie senza attrito.
In questo caso la forza è una forza resistente e dunque opposta alla direzione del
moto; forza e spostamento sono vettori che formano un angolo di 180° da cui segue
L = − FA s,
(1.8)
FA = μ d m g
Ricorrendo di nuovo al teorema delle forze vive e tenuto presente che il problema
richiede di calcolare lo spazio percorso fino a che la velocità finale è nulla, si ottiene
1
μ d m g s = m vi 2 (1.9)
2
ovvero
2
1 vi
s= ≅ 25.484 m (1.10).
2μ d g
In questo paragrafo ci siamo interessati essenzialmente di forze costanti, ovvero che
non dipendono dalla posizione e quindi dallo spostamento che esse stesse
determinano; accenneremo al caso più generale di forze non costanti nel seguito, ma
è prima opportuno insistere sui concetti di lavoro e di energia cinetica, che risultano
legati dal teorema delle forze vive.
Abbiamo fino ad ora stabilito che l’energia cinetica è l’energia di movimento di
un corpo e che al lavoro eseguito su questo corpo corrisponde una variazione
dell’energia cinetica.
Tale variazione può essere positiva e quindi l’energia cinetica aumentare se il
lavoro eseguito sul corpo è positivo, negativa se il lavoro è negativo, a seconda del
r r
segno del prodotto scalare L = F ⋅ s .
Consideriamo ora il caso descritto in Figura 3.1.2, un corpo di massa m si trova ad
una generica altezza h da terra, con una certa velocità iniziale.
h
|Δs| = h 2-h1 .
F p Δs = - mg(h2-h1)cos(0) = mg(h1 -h2 )
h1
v1
Δs
h2
Fp
v2
Fig. 3.1.2. Corpo in caduta libera. Variazione della velocità con la quota.
83
L’unica forza agente sul corpo è la forza peso per cui avremo, che ad un
cambiamento di quota corrisponderà la seguente variazione di energia cinetica
1 2 1 2
mv 2 − mv1 = mg ( h1 − h2 ) (1.11).
2 2
La precedente espressione, conseguenza diretta del teorema dell’energia cinetica,
potrà essere riscritta come segue
1 2 1 2
mv1 + mgh1 = mv2 + mgh2 (1.12a),
2 2
Questa nuova espressione ha un significato fisico estremamente profondo.
Notiamo che nella (1.12a) insieme all'energia cinetica appare un ulteriore quantità
mgh, che rappresenta quello che noi chiameremo energia potenziale gravitazionale.
La somma dell'energia cinetica e dell'energia potenziale fornisce l’energia meccanica
totale del sistema, che indicheremo con E, e la relazione (1.12a) stabilisce che la
quantità
1 2
E= mv + mgh (1.12b)
2
è conservata, ovvero indipendente dalla posizione, per tutti i valori dell’altezza h,
occupate, ad istanti successivi, dal nostro punto materiale.
Il ruolo giocato dall’energia potenziale è evidente, come è ora altresì evidente che ad
una sua diminuzione corrisponderà una aumento, in egual misura, dell'energia
cinetica. Viceversa ad una diminuzione dell’energia cinetica corrisponderà un
identico aumento dell’energia potenziale.
A titolo di esempio consideriamo il seguente semplicissimo problema, la cui
comprensione risulta fondamentale per quello che diremo nel seguito.
v = 2 gh (1.14).
Si noti che il risultato ottenuto implica che la velocità acquisita da un corpo cadendo
da una certa altezza è indipendente dalla sua massa. Ciò significa che una piuma o un
sasso hanno la stessa velocità una volta giunti a terra. Tale risultato è vero se
consideriamo la caduta dei gravi nel vuoto; in presenza dell’aria le cose sono
differenti, come vedremo nel seguito.
Un ulteriore esempio atto a chiarire il concetto di conservazione dell’energia
meccanica è il seguente.
84
Si consideri (Figura (3.1.3)) che descrive il classico “giro della morte”: un corpo
di massa m si trova inizialmente in cima ad un piano inclinato di altezza h, alla
cui base è sistemato un cerchio di raggio R; si specifichi quanto deve essere la
minima altezza del piano, affinché il corpo esegua un giro completo del cerchio.
Si trascuri l'attrito.
R
h
v = 2 g (h − 2 R) (1.15)
N
mg +N = mac
δ
R
ϑ Fp= mg h
Fc = mac
1
mv 2 = mgδ ,
2 (1.18)
δ = R (1 − cos(ϑ ))
v2
pertanto, ricordando che la forza centripeta si può scrivere come m , avremo, con
R
riferimento alla Figura (3.1.4) e utilizzando le relazioni (1.18):
v 2 2 m g R (1 − cos(ϑ ))
m g cos(ϑ ) − N = m = (1.19)
R R
r
per N = 0
cos(ϑ ) = 2(1 − cos(ϑ )) (1.20)
2
da cui segue cos(ϑ ) = .
3
Ovvero ad un’altezza da terra pari a
2
h= R. (1.21)
3
E’ evidente che gli esempi precedenti prendono in considerazione processi meccanici
in cui si ha sempre un travaso dall'energia potenziale a quella cinetica e viceversa.
L’esempio discusso precedentemente a proposito delle forze di attrito sembrerebbe
contraddire quanto prima affermato.
Non risulta infatti chiaro dove finisca l’energia cinetica inizialmente posseduta dal
corpo in moto. Bisogna in questo caso notare che le forze di attrito non sono forze di
natura conservativa; il principio di conservazione dell’energia va in questo caso
formulato in modo più generale, includendo anche gli effetti di riscaldamento
prodotti dalla forza stessa, durante lo sfregamento con la superficie scabra.
86
Il problema sarà affrontato in termini più generali nel capitolo relativo al primo
principio della termodinamica.
Riformuleremo alcuni degli esempi precedenti con l’inclusione delle forze di attrito.
F A = μd F
F//
l F
Fp
h
Riformuleremo ora l’esempio del giro della morte con l’inclusione delle forze di
attrito e determineremo l’altezza minima se il piano inclinato non è liscio ma
scabro con un coefficiente di attrito dinamico pari a μd .
Il calcolo dell’energia cinetica alla fine del piano inclinato va fatto come
nell’esempio precedente. Per cui alla sommità del cerchio, la cui circonferenza viene
ritenuta priva di attrito, si ha
2. Forze di attrito dipendenti dalla velocità
2
L’assunzione che le forza di attrito dipenda linearmente dalla velocità è per il momento arbitraria,
tratteremo nel seguito il caso di forze dipendenti dal quadrato della velocità.
88
−γ t 1 − e −γ t
v = v0e +g (2.5)
γ
dove v0 rappresenta la velocità iniziale.
La relazione precedente fornisce la soluzione del nostro problema e può essere
tradotta come segue: dopo un certo tempo t >> 1 γ = τ L (si dimostri che γ ha le
dimensioni dell'inverso di un tempo) il corpo raggiunge la velocità limite che,
praticamente, potrà essere scritta anche nella forma
89
g
vL = = gτ L (2.6)
γ
In Figura 3.2.1 abbiamo riportato l’andamento della velocità nel tempo per un corpo
in caduta libera, con velocità iniziale nulla e senza l’effetto della resistenza dell’aria e
per un caso in presenza di forze dipendenti dalla velocità con γ = 0.3 s −1
75
v (m/s) v=g t
50
25
–γ t 1- e –γ t
v = v0 e +g
γ
0
2 4 6 8 t ( s) 10
Fig.3.2.1. Andamento della velocità in funzione del tempo per un corpo che
cade in presenza della resistenza dell’aria e in caduta libera.
Dopo circa 10 s il corpo ha praticamente raggiunto una velocità limite di 32.7 m/s,
mentre, in assenza di effetti di attrito, si sarebbe avuta una velocità molto maggiore.
L’esempio che segue serve a precisare come le relazioni precedenti siano legati a
quelle del moto uniformemente accelerato.
Si dimostri che lo spazio percorso da un corpo soggetto alla forza peso e alla
forza di attrito secondo quanto descritto dall’equazione (2.1) è legato al tempo
dall’equazione
⎡t −
t
τL
⎤
h = gτ ⎢ − (1 − e )⎥
2
(2.7)
⎢⎣τ L
L
⎥⎦
e che in assenza di forze di attrito la relazione precedente si riduce alla ben nota
1 2
relazione h = gt .
2
Assumendo che inizialmente la velocità e lo spazio percorso siano nulli, avremo dalla
equazione (2.5)
t
ds −
= gτ L (1 − e τ L ) (2.8)
dt
90
che rappresenta un'equazione differenziale del primo ordine, che una volta integrata
con i metodi descritti nelle Lezioni Di Calcolo, fornisce il risultato cercato.
L’esempio che segue tende a chiarire ulteriormente il significato di velocità ed
altezza limite.
Si dimostri che il legame tra velocità acquisita e spazio percorso è, nel caso di
caduta in presenza di forze di attrito, dato da
v h
⎛ v ⎞ −
2h 1 2
e ⎜⎜1 − ⎟⎟ = e L ,
vL
hL = gτ L (2.9)
⎝ vL ⎠ 2
v
vL
3
(b)
2
1
(a)
0
2 4 6 h
hL
Fig.3.2.2. Andamento della velocità, divisa per la velocità limite, in funzione
dell’altezza, divisa per l'altezza limite, per un corpo che cade
in presenza della resistenza dell’aria (a) e in caduta libera (b).
3
In alternativa si noti che tale relazione può essere ottenuta tenendo conto che la velocità acquisita
dv g
e lo spazio percorso sono legati dall’equazione differenziale = − τ L (il Lettore derivi tale
dh v
risultato per proprio conto). L’equazione integrata con i metodi descritti in Boccia, Ciocci, Dattoli
Lezioni di Calcolo forniscono la relazione (2.8)
91
v h
Avendo riportato in funzione di possiamo anche afferrare meglio il significato
vL hL
di velocità limite e di altezza limite, che, precisiamo di nuovo, può essere intesa come
l’altezza da cui il corpo, cadendo liberamente, acquisirebbe la velocità limite.
Anche in questo caso sembra che non valga la legge di conservazione dell’energia e
nemmeno il teorema delle forze vive.
E’ però evidente che il lavoro compiuto dalle forze gravitazionali serve a compensare
quello fatto dalle forze di attrito e, come vedremo nei capitoli dedicato alla
termodinamica si perde sotto forma di calore, acquisito in parte dal corpo stesso e in
parte dalle molecole del fluido in cui il corpo si muove.
I concetti di altezza e velocità limite saranno ripresi nel Capitolo V, in cui tratteremo
le conseguenze di incidenti dovuti a cadute da altezze notevoli.
3. Lavoro ed energia potenziale per forze non costanti
F
x
Fp
In questo caso si dice che la molla reagisce ad uno spostamento dalla sua posizione
di equilibrio con una forza di “richiamo”, proporzionale allo spostamento medesimo,
ovvero
r r
F = −k x (3.1),
dove la costante k (se ne determinino le dimensioni) è appunto la costante elastica.
La relazione precedente è comunemente nota come legge di Hooke e stabilisce che
92
F= k x
1
k x2
2
0 x
Fig. 3.3.2. Grafico della forza di reazione esercitata da una molla di
costante elastica k. Calcolo del lavoro effettuato dalla molla.
Notato che il lavoro è il prodotto della forza per lo spostamento, potremo procedere
come già fatto nel calcolo dello spazio percorso nel caso del moto uniformemente
accelerato, quando si è determinato, nota la dipendenza della velocità
dall’accelerazione e dal tempo, lo spazio percorso. Utilizzando tale analogia
ricaviamo il lavoro, dato dall’area della curva tratteggiata in Figura, ottenendo così
1 2
L= kx (3.2).
2
La stessa espressione vale per definire l’energia potenziale di una molla “compressa”
di una certa quantità x rispetto alla posizione di equilibrio.
Il seguente esempio servirà ad illustrare i risultati precedenti.
k
v= x ≅ 0.59 m s −1 (3.4),
m
Mm
F =G
r2
r
Fig. 3.3.4. Andamento della forza gravitazionale in funzione della distanza r
tra i due corpi. L’area tratteggiata rappresenta il lavoro necessario
per spostare la massa m sotto l’azione della massa M.
I risultati precedenti sono del tutto generali e data una forza dipendente dalla
posizione, come quella gravitazionale rappresentata nella figura precedente, il lavoro
svolto dalla forza agente per un certo tratto sarà sempre dato dall’area compresa tra la
curva e l’asse delle ascisse e delimitata dagli estremi che individuano il segmento di
spostamento, ovvero
s2
r r
L = ∫ F ⋅ds (3.6)
s1
94
p=m v
1
L= m v2
2
0 v
Fig. 3.3.5. Quantità di moto in funzione della velocità; determinazione grafica
del lavoro effettuato da una massa m con velocità variabile da 0 a v.
4
Si ricordi che la massa è una costante.
95
4. Conservazione dell’energia negli urti
Nel capitolo precedente abbiamo parlato della legge di conservazione della quantità
di moto negli urti; potremmo ora chiederci se in questi processi insieme a tale
quantità si conservi anche l’energia.
Gli esempi che seguono serviranno a chiarire le problematiche appena sollevate.
Consideriamo, dunque, due punti materiali che si muovano nella stessa direzione con
velocità diverse v1,2 (si veda la Figura 3.4.1). Se il corpo 1 con velocità maggiore
colpisce il secondo e rimane a questo attaccato avremo che, per la conservazione
della quantità di moto la velocità dei due corpi attaccati dopo l’urto è (Il lettore derivi
per proprio conto il seguente risultato)
m v + m2 v 2
V= 1 2 (4.1)
m1 + m2
m2
v2 M = m1 + m2
m1 v1 V
Fig. 3.4.1 Esempio di urto anelastico tra due punti materiali di massa m1
e m2 che si muovono con velocità v1 e v2 .
Si noti che v1 e v2 non sono valori assoluti ma quantità algebriche il cui segno resta
fissato dai versi dei due vettori.
Possiamo a questo punto verificare se l’energia si sia conservata nell’urto, calcolando
la differenza tra le energie cinetiche prima e dopo l’urto, ovvero
ΔE =
1
2
[ ]
m1v12 + m2 v22 − (m1 + m2 )V 2 =
1 m1m2
2 m1 + m2
(v1 − v2 ) 2 (4.2),
che ci permette di concludere che l’energia cinetica totale dopo l’urto è minore di
quella iniziale, pertanto, pur conservandosi la quantità di moto, l’energia nel
processo descritto prima non si conserva.
Diremo che in questo caso si tratta di un urto anelastico, ovvero le masse rimangono
“appiccicate” dopo l’urto.
Possiamo ora chiederci dove vada a finire l’energia persa nell’urto. Per chiarire i
meccanismi attraverso cui l’energia possa essere “dissipata” in altre forme,
96
discuteremo un ulteriore esempio in cui il sistema dei punti materiali della figura
precedente sia modificato come segue; al punto 2 è aggiunta una molla di massa
trascurabile e costante elastica k. L’energia persa nell’urto potrebbe in questo caso
essere trasferita alla molla producendo una compressione pari a
m1 m 2
Δx = (v1 − v 2 ) (4.3).
(m1 + m2 )k
Estenderemo i risultati di cui sopra nel capitolo relativo al primo principio della
termodinamica.
L’energia si conserva negli urti se l’urto è completamente elastico, in questo caso per
descrivere un processo di urto oltre alla conservazione della quantità di moto
dovremo aggiungere la conservazione dell’energia cinetica. Considerando dunque il
caso di un urto uni-dimensionale in cui i due corpi emergono con velocità v'1,2
avremo che queste possono essere determinate dal sistema di equazioni
m1v1' + m2 v 2' = P,
m1 (v1' ) + m2 (v 2' ) = 2 E ,
2 2 (4.4)
dove P,E rappresentano l’impulso totale e l’energia cinetica totale iniziale. Dalla
soluzione del precedente sistema si ottiene come soluzione possibile (il Lettore lo
provi e ne discuta il significato fisico)
α P + 2(1 + α 2 ) E − m2 P 2 P2
v =
'
, E ≥ m2 ,
m1 (1 + α 2 ) 2(1 + α 2 )
1
(4.5)
m
α= 1
m2
mentre la velocità v'2 si otterrà scambiando nella precedente equazione l’indice 1 con
l’indice 2 (perché? E quale è il significato fisico?)
Si discuta l’esistenza di altre possibili soluzioni e si precisi in quale condizioni si
possano ottenere.
5. La potenza
ΔL
PM = (5.1)
t 2 − t1
ed una potenza istantanea come
ΔL
Pi = lim t2 →t1 (5.2).
t 2 − t1
Consideriamo il lavoro compiuto da una forza costante nel tempo. Potremo in questo
caso affermare che
Δs
Pi = lim t2 →t1 F (5.3)
t 2 − t1
ovvero che la potenza istantanea è pari a
Pi = Fv (5.4).
che può essere interpretata, da un punto di vista fisico, come la potenza impegnata da
un sistema meccanico per mantenere un corpo alla velocità v, se questo è soggetto ad
una forza resistente F.
Il seguente esempio può servire a chiarire quanto discusso prima
Fp
α = 30°
Fig. 3.5.1. Auto in moto su un piano inclinato.
Molto spesso si usa, come misura della potenza il Cavallo Vapore (CV), equivalente
a 735 W o il Cavallo Vapore britannico, Horse Power (HP), equivalente a 746 W.
Nel caso del presente esempio si richiede che il motore della nostra automobile sia in
grado di erogare una potenza pari a circa 146 HP.
98
Da quanto detto prima, risulta anche evidente che, nota la potenza a disposizione di
un certo dispositivo, è possibile determinare l’energia o il lavoro fornito in un certo
tempo di operazione e infatti si ottiene
L = PΔt (5.6)
e ciò ci permette di definire il Chilowattora (KWh) come la quantità di energia
fornita da una sorgente di 1000 Watt operante per un’ora, ovvero
1 KWh = 3.6 ⋅10 6 J = 3.6 MJ (5.7).
Vediamo ora come le considerazioni precedenti si traducano in nozioni pratiche.
Uno spot pubblicitario afferma che un’auto di 1200 Kg può accelerare da ferma
fino a raggiungere una velocità di 90 km/h in un tempo di 8 s. Determinare la
potenza media che il motore deve sviluppare per determinare tale accelerazione.
Il lavoro compiuto può essere calcolato dal teorema delle forze vive, per cui potremo
scrivere
m 2 2
P= (v f − vi ) ≅ 64CV (5.8).
2Δt
In base a quanto discusso in precedenza il lettore non avrà difficoltà a concludere che
P = m g sin(30 o )v ≅ 590 W
L’organismo umano può essere assimilato ad una macchina, che per il solo
funzionamento basale dissipa, in condizioni normali, una potenza di circa 85 W.
99
Una tipica forza resistente è quella dipendente dalla velocità, discussa nel paragrafo 2
di questo Capitolo; dalla definizione di forza scritta come
F = −γ v (5.13)
si desume la potenza impegnata dal corpo per mantenere la velocità costante, ovvero
P = γ v2 (5.14).
La potenza della macchina dovrà essere erogata per vincere la forza peso e la forza
resistente dovuta all’aria, pertanto avremo
mg sin(ϕ )v + kv 2 = P ,
da cui segue (si dimostri perché e si spieghi perché si è scelta una sola radice)
P
− g sin(ϕ ) + ( g sin(ϕ )) 2 + 4γ
m k
v= , γ= (5.15)
2γ m
Nei prossimi paragrafi cercheremo di chiarire i risultati precedenti nel contesto più
ampio del dispendio energetico, associato al corpo umano.
100
6. Le macchine semplici
Nei paragrafi precedenti abbiamo parlato di lavoro e potenza e vedremo come questi
concetti possano essere integrati in quello di macchina in generale ed in particolare
in quello di macchina semplice.
Chiariremo in questo paragrafo i concetti prima introdotti in maniera qualitativa,
stabilendo, in termini più rigorosi, cosa si intenda, da un punto di vista fisico, per
macchina e per rendimento.
Esempi di macchine semplici sono la leva, il piano inclinato, la puleggia… In ognuna
di queste il principio fondamentale è quello di provocare una variazione del modulo,
della direzione o del metodo di applicazione di una forza al fine di ottenere un
determinato vantaggio.
Come già detto, il piano inclinato è una macchina semplice; consideriamo, con
riferimento alla Figura 3.6.1,
Fp
α
Fig.3.6.1. Esempio di macchina semplice: il peso collegato al
corpo con una corda lo fa salire lungo il piano inclinato.
l’utilizzo di tale macchina per portare un certo peso ad una determinata altezza. La
domanda che ci poniamo è
“che vantaggio offre l’utilizzo di un piano inclinato rispetto al sollevamento
diretto?”
Non a caso abbiamo utilizzato il termine vantaggio a cui dovremo dare una
definizione quantitativa.
Si definiscono due tipi di vantaggio
a) Vantaggio meccanico effettivo, ovvero rapporto tra la forza esercitata dalla
macchina sul carico rispetto alla forza utilizzata per azionare la macchina, in
questo caso avremo
Fp
VM eff = (6.1)
F
101
Sebbene il corpo umano non possa essere considerato una macchina semplice,
possiamo, in base a questa ultima definizione, chiarire cosa si intenda per suo
rendimento.
Il rendimento della macchina umana, rappresenta la sua capacità di trasformare le
calorie metabolizzate in lavoro meccanico. E’ evidente che solo una parte di queste
saranno trasformate in lavoro meccanico, mentre le altre saranno dedicate al
mantenimento del sistema. Tanto per dare un numero di riferimento possiamo dire
che tale valore può essere stimata intorno al 20% , cosicché un lavoratore per
sollevare da terra un peso di 10 Kg ad una altezza di 10 m , impegnerà circa 1.2 Kcal di
cui solo 0.23 Kcal sono ascrivibili a lavoro meccanico.
Dunque il rendimento meccanico del corpo umano sarà dato dal rapporto tra la
quantità di lavoro meccanico sviluppata (espressa in calorie) e le calorie assorbite,
ovvero
LM ( cal )
η= (6.4)
E ( cal )
il dato del 20%, prima citato, è meramente indicativo.
E’ altresì evidente dalle relazioni precedenti che, per i sistemi puramente meccanici,
il rendimento si potrà definire anche come
VM eff
η= (6.5).
VM id
L' informazione fornita dal rendimento è estremamente utile, in quanto permette di
stimare l’effetto delle forze di attrito. Infatti, in assenza di forze di attrito, il
rendimento del sistema è sempre il 100%. A tale scopo ritornando all’esempio del
piano inclinato si ottiene che, in assenza di forze di attrito, la minima forza,
necessaria per trascinare il carico lungo il piano, è
F = mg sin(α ) (6.6)
da cui segue (si noti che L p sin (α ) = h )
102
mg sin(α ) L p
η= =1 (6.7).
mgh
E’ anche evidente che in condizioni ideali, cioè in assenza di forze dissipative, il
vantaggio meccanico ideale è identico al vantaggio meccanico effettivo.
Illustreremo ulteriormente il concetto di macchina con qualche esempio che metterà
in evidenza l’essenza fisica e pratica dei concetti prima esposti.
r R
50 N
F
400 N
Fp
400
VM eff = =8
50
b) Gli spostamenti delle forze sono legate alle lunghezze delle circonferenze descritte
in un giro completo ovvero
2π R
VM i = ≅ 14.16
2π r
40 cm
Fp
5 mm
Dalle relazioni precedenti si evince che noto il rendimento e il vantaggio ideale si può
esprimere il vantaggio efficace come
VM eff = ηVM id (6.8),
che combinata con la (6.1) dà
104
Fp
F= (6.9).
ηVM id
Il rendimento ideale viene calcolato tenendo conto che in corrispondenza ad un giro
completo della forza applicata alla leva del martinetto si ottiene un sollevamento del
peso di 5mm ovvero VM id ≅ 502, da cui si ottiene F ≅ 17 .58 N .
7. Cenno alla dinamica dei corpi rigidi
Nei paragrafi precedenti ci siamo riferiti essenzialmente alla dinamica del punto
materiale e abbiamo trattato il moto dei corpi senza considerare la loro estensione,
forma geometrica e così via; abbiamo tacitamente derogato da tale assunzione solo
quando abbiamo trattato il caso del momento delle forze, però la trattazione è stata
necessariamente carente e tesa ad evidenziare come si stabilissero, da un punto di
vista pratico, le condizioni di equilibrio.
Se noi trattassimo il disco come un punto materiale associando tutta la sua massa al
centro di massa saremmo costretti ad affermare che l’energia cinetica del disco è
nulla, cosa che evidentemente non è vera visto che il disco sta ruotando. Più
correttamente potremo dire che la sua energia traslazionale è nulla, ma non quella di
rotazione: per energia traslazionale ci riferiamo a quella relativa al moto del centro di
massa. Prima di procedere oltre, chiariamo cosa si intenda per centro di massa. In
Figura 3.7.2 viene mostrato un sistema di n masse differenti mi caratterizzate da
r
vettori di posizione ri ,
105
y
mi
ri baricentro
x
Definiremo come vettore posizione del centro di massa di tale sistema la quantità
n
r
r ∑ ii
m r
rcm = i =1
n (7.1).
∑ mi
i =1
Se tutte le masse sono identiche il baricentro coincide con il centro geometrico del
sistema, se una massa è molto maggiore delle altre il baricentro sarà più prossimo a
tale massa come ad esempio nel caso Terra-Sole, in cui, con buona approssimazione,
si può assumere il Sole come centro di massa del sistema.
Chiarito tale concetto ritorniamo all’esempio della disco che ruota e dividiamo la
massa del disco in tante piccole masse identiche che ruotino intorno al centro del
disco che come già detto è il centro di massa di tale sistema. Per quanto abbiamo
imparato sul moto circolare, ogni singola massa avrà una velocità angolare data da
vi = ω ri (7.2).
I vettori di posizione ri sono riferiti ad un sistema di riferimento la cui origine è il
centro del disco che coincide con il baricentro.
Non abbiamo caratterizzato la velocità angolare con l’indice i , perché la velocità
angolare è la stessa per tutte le masse, altrimenti, durante il moto, il disco si
r
deformerebbe. Si noti che nella (7.2) ri = ri .
Alla velocità di cui sopra corrisponderà un' energia cinetica
1
mi ri ω 2
2
Ti = (7.3)
2
e l’energia cinetica totale del disco potrà essere definita come
106
n
1
TR = ∑T
i =1 2
Iω 2
i = (7.4),
dove abbiamo indicato con
n
I = ∑ mi ri
2
(7.5)
i =1
il momento di inerzia del disco e la (7.4) rappresenta la sua energia cinetica di
rotazione.
Teniamo a sottolineare che il momento di inerzia preso in considerazione è quello
rispetto all’asse di rotazione.
Prima di stabilire come si calcoli il momento di inerzia di un qualsiasi corpo esteso,
cerchiamo di chiarirne il significato fisico tramite un esempio.
R
ω
v
mg
h
1 I 2 gh
gh = (1 + )v 2 ⇒ v= (7.8)
2 mR 2
I
1+
mR 2
da cui si comprende chiaramente il significato fisico del momento di inerzia, che
contribuisce all’inerzia del sistema aumentandola. E’ chiaro dall' equazione (7.8) che
se il momento di inerzia del disco fosse trascurabile, la velocità del corpo a terra
sarebbe quella che avrebbe cadendo liberamente dall’altezza h, in realtà la velocità è
minore perché l’energia potenziale del corpo viene divisa tra la sua energia cinetica di
traslazione e quella di rotazione del disco.
Si dimostri che il momento angolare di un corpo esteso che ruoti con velocità
angolare ω è dato da
r r
Ω = Iω (7.9)
La dimostrazione è banale e si evince dalla Figura (3.7.4)
r n r r
Ω = ∑ Li
n
Li = mi vi ⋅ ri = miω ⋅ ri
2
I = ∑ miri 2
i=1 i=1
vi
ri
r
Ω =ω⋅I
ω
Vediamo ora come il concetto di lavoro e potenza vadano estesi al caso che stiamo
studiando.
Ritorniamo prima di tutto al momento delle forze utilizzando sempre l’esempio del
disco. In questo caso avremo che una forza applicata come in Figura 3.7.5 produrrà
un' accelerazione angolare α legata al momento della forza τ e al momento di inerzia
come
τ = Iα (7.10)
Rispetto alla seconda legge di Newton possiamo notare le seguenti corrispondenze
τ →F, I →m, α →a (7.11)
108
Se aggiungiamo poi il fatto che la rotazione angolare possa essere assimilata allo
spostamento spaziale avremo le ulteriori corrispondenze
θ → s, ω → v (7.12)
In base a tali corrispondenze possiamo riconoscere quelle relative al lavoro e alla
potenza ed infatti otteniamo
L = τ θ → F s,
(7.13),
P =τω → Fv
che chiariremo con qualche esempio.
F
R
α
Il teorema delle forze vive può essere riformulato anche per il caso del moto rotatorio
di un corpo rigido per cui potremo scrivere che
1
τ θ = I (ω f 2 − ωi 2 ) (7.14).
2
Chiarito quanto sopra consideriamo il seguente esempio.
Un disco con un momento di inerzia pari a 2.9 ⋅ 10 −3 Kg ⋅ m 2 ruota con una
velocità angolare pari a 146 rad/s fino a che non agisce su di esso una forza di
attrito con un momento pari a 1.2 ⋅ 10 −2 N ⋅ m , determinare quanti giri compierà
il disco prima di fermarsi.
Fp
I = IB +M d 2 z'
z
d
B
Per risolvere il quesito dobbiamo determinare un modo per trattare il buco, la cosa
più naturale da fare è quella di considerare il cerchio grande pieno e in
corrispondenza del buco assumere una massa negativa con le stesse dimensioni, in
modo tale che essa contribuirà al momento di inerzia totale con un contributo
negativo.
Applicando il teorema degli assi paralleli avremo dunque
1 mr 2
I = MR (1 −
2
2
) − md 2
2 MR
R
d r
CAPITOLO IV
MOTO ARMONICO, VIBRAZIONI, ELASTICITA’
1. Generalità sul moto armonico
Nel paragrafo in cui abbiamo trattato i problemi relativi al moto circolare uniforme
abbiamo visto che, definita una velocità angolare ω, è possibile scrivere l’angolo
descritto dal raggio vettore (si veda la Figura 4.1.1 ) come:
α = ωt (1.1)
se l’angolo iniziale è nullo.
R sin(α) y
0
Rcos(α) α
R
x
In base a quanto imparato sui vettori potremo scomporre il moto, che avviene nel
piano xy, lungo le due componenti in base alle relazioni
x = R cos( ω t )
(1.2).
y = R sin( ω t )
Da un punto di vista qualitativo il moto lungo gli assi coordinati, determinato dalle
relative proiezioni del punto P mentre percorre la circonferenza (si veda la Figura
4.1.2 dove tale concetto viene espresso graficamente), è caratterizzato da una sorta di
oscillazione, la cui ampiezza è definita dal raggio del cerchio e il cui periodo è
determinato da quello del moto circolare.
y x
P P
xp
R
α
xp
R x 0 2π 4π 6π 8π α
Abbiamo inoltre visto che la velocità del punto materiale che si muove sulla
circonferenza è rappresentata da un vettore di modulo ω R, perpendicolare al raggio
vettore le cui componenti (si veda la Figura 4.1.3 ) si scrivono come
v x = −ω R sin(ω t )
(1.3).
v y = ω R cos(ω t )
Per contro la relativa accelerazione, detta centripeta, è un vettore di modulo ω2R,
diretto come il raggio vettore ma con verso opposto (si veda la Figura 4.1.4); avremo
pertanto che
a x = −ω 2 R cos(ω t ) , a x = −ω 2 x
(1.4).
a y = −ω 2 R sin(ω t ) , a y = −ω 2 y
y
|v |=ω R
v
α α=ωt
ω Rcos(α )
−ωRsin(α) P x
R
α
Fig. 4.1.3. Componenti della velocità del punto materiale che percorre
la circonferenza di raggio R.
115
y
| a |=ω 2 R
−ω 2 Rsin(α)
α = ωt
P
α x
2
a −ω Rcos(α)
R
α
Fig. 4.1.4. Componenti dell' accelerazione del punto materiale che percorre
la circonferenza di raggio R.
E’ esperienza comune che una massa attaccata ad una molla, se spostata dalla sua
posizione di equilibrio, descrive, intorno a questa, una serie di oscillazioni con
ampiezza massima pari allo spostamento (si veda la Figura 4.1.5 ). E’ esperienza
altrettanto comune che tali oscillazioni sono smorzate a causa dell’attrito, ma, se
questo potesse essere eliminato, il moto persisterebbe indefinitamente e possiamo
verosimilmente aspettarci che si tratta di moto armonico.
Fp
Fig. 4.1.5. Moto armonico di un peso attaccato ad una molla che oscilla attorno
alla sua posizione di equilibrio.
Vediamo ora come il moto di una massa soggetta ad una forza di tipo elastico sia
effettivamente un moto armonico. Considerando pertanto la già citata legge di Hooke,
da cui segue
ma x = − kx (1.5)
che è perfettamente analoga alla (1.4), se poniamo
116
k
ω= (1.6).
m
In conclusione possiamo dire che un corpo soggetto solo ad una forza di richiamo
elastico si muove di moto armonico, con un periodo dato da
1 m
T= (1.7).
2π k
Indicando con A l’ampiezza dell’oscillazione, potremo descrivere l’oscillazione come
x = A cos(ω t ) (1.8)
e ricordando la definizione di energia totale del sistema come energia cinetica più
energia potenziale, avremo
1 1 1 1
E = mv x + kx 2 = m ( Aω ) 2 = kA 2
2
(1.9).
2 2 2 2
Vedremo in seguito come tali nozioni teoriche si traducano in fatti di natura pratica.
Cercheremo di chiarire le nozioni precedenti con alcuni esempi.
Si dimostri che il moto circolare uniforme può essere visto come la combinazione
π
di due moti armonici, mutuamente ortogonali, e sfasati temporalmente di .
2ω
Per tenere conto dello sfasamento temporale assumeremo che il moto rispetto all’asse
delle y avvenga ad un tempo
π
t′ = t − (1.10)
2ω
(si analizzi il significato fisico di tale relazione).
Dalla definizione di moto armonico segue pertanto che (si ricordi che
π
cos(α − ) = sin(α ) )
2
x = A cos(ω t ) ,
π (1.11).
y = A cos(ω (t − )) = A sin(ω t )
2ω
Per fare “sparire” la variabile tempo e quindi determinare la forma della traiettoria
spaziale basterà sommare i quadrati delle due componenti di moto, ottenendo così
x 2 + y 2 = A2 (1.12)
che è proprio l’equazione di una circonferenza di raggio A.
2. Alcune considerazioni sulle forze di tipo elastico
Nel paragrafo precedente abbiamo fatto esplicito riferimento alla legge di Hooke per
dedurre che una massa soggetta ad una forza di tipo elastico esegue (in assenza di
attrito) una moto di tipo armonico. Abbiamo tacitamente ammesso che la forza
117
20 cm
F
Fig. 4.2.1. Oscillazione di una pallina attaccata ad un' asticella sulla quale
agisce una forza che ne provoca una deviazione laterale di 20 cm.
E’ evidente che, in base a quanto detto una volta lasciata libera di muoversi, la
pallina, sospesa all’asta, comincerà a oscillare (vibrare) con ampiezza costante se le
forze di attrito sono trascurabili. La costante elastica può essere determinata
direttamente dalla legge di Hooke e così si ottiene
F
k= = 40 N m (2.1)
A
mentre, per quanto riguarda il periodo, avremo
m mA
T = 2π = 2π ≅ 1,4 s (2.2).
k F
Bisogna sottolineare che nei casi pratici l’effetto dell’attrito si manifesta tramite un
trasferimento di parte dell’energia della massa vibrante alle molecole dell’aria, per
cui il moto è quello che si dice un moto smorzato, in cui l’ampiezza delle oscillazioni
decresce fino ad annullarsi. Talvolta a questo processo è associato un rumore
118
k1 k2
Lo spostamento totale determinato dalla applicazione di una forza esterna sarà dato
dalla somma dei singoli spostamenti, avremo pertanto
F F
x1 = , x2 = (2.3).
k1 k2
Assumendo che il sistema delle due molle corrisponda ad un singola molla di costane
elastica kT , avremo
F
x= (2.4)
kT
poiché x = x1 + x2 , segue
1 1 1
= + (2.5).
k T k1 k 2
Il risultato precedente può essere enunciato come segue: l’inverso della costante
elastica di una sistema di molle in serie è pari alla somma degli inversi delle singole
costanti.
Con riferimento alla Figura 4.2.3 si dimostri che la costante elastica equivalente
di due molle in parallelo è
k T = k1 + k 2 (2.6)
119
k1 k2
α
Fs
s
Fp
Vedremo altri esempi nei paragrafi successivi in cui discuteremo un legame tra moto
armonico e forze di tipo gravitazionale.
3. Densità e elasticità
Si definisce densità di un corpo il rapporto tra la sua massa e il suo volume, ovvero
m
ρ= (3.1)
V
kg
Tale quantità si misura nel sistema MKS in 3 e vale, per l’acqua distillata a 4 oC di
m
3 kg
temperatura, 10 3 .
m
A questo punto è il caso di fare una piccola digressione ricordando anche che i
volumi, oltre che in m3 possono essere misurati in litri (l) e che
1l = 1 dm 3 (3.2)
Un litro di acqua distillata a 4°C ha dunque la massa di un chilo.
Si definisce peso specifico (ps) di una determinata sostanza il rapporto tra il suo peso
ed il volume che essa occupa
mg
ps = (3.3a)
V
Il peso specifico si misura in N/m3 .
Si definisce invece peso specifico relativo (psr) di una determinata sostanza il
rapporto tra la sua densità e una densità di riferimento
ρ
ps r = (3.3b).
ρ rif
Nel caso dei solidi e dei liquidi tale densità di riferimento è quella dell’acqua mentre
per i gas è quella dell’aria, del cui valore diremo in seguito.
I concetti precedenti sono di importanza fondamentale, è opportuno pertanto che lo
studente consideri gli esempi che seguono con molta attenzione.
da cui segue
m − ρ g pVl ρ l − ρ g p kg
ρs = l = ≅ 1039 3 (3.5)
Vl (1 − p) (1 − p) m
E’ evidente che
mo = ρ oV = 0.926 kg
Fp = ρ oVg ≅ 9.084 N
(3.6)
In un punto generico del tunnel la forza sarà sempre diretta radialmente lungo il
centro della sfera; in generale la legge di Newton andrà formulata nel seguente modo
(si veda la Figura):
m ⋅ M (r )
F (r ) = −G (3.10)
r2
dove M(r) rappresenta la massa contenuta nella sfera di raggio r. Definendo R il
raggio medio della Terra, cui corrisponderà la massa M avremo:
M
F = −Gm 2 (3.11)
R
Indicando con ρΤ la densità della Terra avremo
4
M = ρT V = ρT π R 3 (3.12)
3
da cui segue
4
F = − π mGρT R (3.13)
3
che può essere scritta sotto forma della legge di Hooke
F = −kR,
4 (3.14)
k = π mGρ T
3
e pertanto con un periodo di oscillazione dato da
3π
T= (3.15).
Gρ T
2
kg −11 Nm
Assumendo ρ T ≅ 5.51 ⋅ 10 3 e poiché
3
G = 6.67 ⋅ 10 si ottiene un periodo pari a
m kg 2
5.042 ⋅ 10 3 s.
Discuteremo in seguito l’importanza del risultato qui ottenuto quando parleremo del
teorema di Gauss e delle sue conseguenze.
4. Moti ondulatori
Vedremo nel seguito che onde quali quelle sonore sono onde di tipo longitudinale
mentre quelle elettromagnetiche sono di natura trasversa.
Consideriamo ora un’onda, che diremo di tipo sinusoidale, come quella riportata nella
Figura 4.4.3; è evidente che in questo caso il moto sarà caratterizzato da una
126
λ
y0
l l
Una corda entra in risonanza solo con determinate frequenze. Con riferimento alla
Figura 4.4.5 notiamo che la “condizione di risonanza” implica che sussista la
seguente relazione tra la lunghezza della corda e la lunghezza d’onda di risonanza
λ
L=n (4.6)
2
dove n è un intero e viene detto numero armonico. Possiamo affermare che onde di
risonanza possono instaurarsi lungo una corda, solo se la lunghezza della corda è pari
128
B A C
L
λ
Fig. 4.4.5. Corda che oscilla in condizioni di risonanza (L = n ).
2
Una corda di un banjo lunga 0.3 m entra in una risonanza con frequenza
fondamentale di 256 Hz. Quale è la tensione della corda, se 0.8 m di essa hanno
una massa di 0.75 g ?
E’ evidente che
fn
f1 = = 92 Hz (4.10)
n
e che pertanto f 3 = 276 Hz .
Infine il terzo quesito si risolve notando che
v
fn = n (4.11)
2L
da cui segue
2L f n
v= ≅ 184 ms −1
n
129
Una corda fissa alle due estremità risuona alle frequenze 420Hz, 490Hz che si
alternano senza che vi siano frequenze di risonanza tra loro. Si determini la
frequenza della risonanza fondamentale.
Si noti che
f n = nf1 = 320 Hz , f n+1 = (n + 1) f1 = 490 Hz
da cui segue
f1 = f n+1 − f n = 70 Hz
Le condizioni di risonanza in Figura ( 4.4.5) si riferiscono al caso in cui la corda sia
vincolata ad entrambe le estremità.
Una situazione diversa può aversi nel caso di Figura (4.4.6) che rappresenta un’asta
di lunghezza L con il centro tenuto in una morsa e libera di oscillare ai lati. In questo
caso i ventri delle onde corrisponderanno alle estremità della sbarra e le frequenze di
risonanza saranno
v
fn = n (4.12)
4L
5. Le onde: ulteriori approfondimenti
T
A v
t
8
8
Fig. 4.5.1. Propagazione di un' onda vista come traslazione rigida della
forma d’onda sin(k x) lungo l‘asse temporale con velocità v.
E’ esperienza quotidiana che non esiste una sola forma d’onda, ma le più disparate; si
può dunque concludere che, data una generica forma d’onda rappresentata da una
funzione f(x), potremo ad essa associare un’onda progressiva e regressiva, secondo le
relazioni5
F± ( x, t ) = A± f ( x m vt ) (5.4).
Le onde descritte fino ad ora sono essenzialmente onde piane, ovvero onde con un
profilo trasverso costante; quello che intendiamo dire è illustrato nella Figura (4.5.2)
in cui mostriamo non solo il profilo longitudinale ma anche quello trasverso, che è
quello che si osserva guardando l’onda frontalmente; in questo caso il “fronte
d’onda” ha un profilo costante in ogni punto ed è come un piano che si propaga in
avanti. Per fronte d'onda si intende il luogo geometrico dei punti in cui, a t fissato, la
funzione assume gli stessi valori.
5
Da un punto di vista matematico il risultato testé enunciato ha una formulazione estremamente
precisa, un’onda che si propaga con le modalità prima discusse obbedisce all’equazione
differenziale di D’Alembert, che può essere scritta come
∂2 1 ∂2
F ( x , t ) − F ( x, t ) = 0 .
∂x 2 v 2 ∂t 2
131
Fronte d’onda
Onda piana
Le onde che si formano sulla superficie di uno stagno, quando lanciamo un sasso, non
sono certamente onde piane. I fronti d’onda sono infatti dei cerchi, che si dipartono
dal punto detto sorgente, che nel caso specifico è quello dove è impattato il sasso. Più
in generale potremo avere onde sferiche i cui fronti si distribuiscono lungo le
superfici di una sfera, così come le onde circolari sono cerchi concentrici, quelle
sferiche sono costituite da sfere concentriche il cui raggio aumenta nel tempo
secondo l' ovvia relazione (si veda la Figura (4.5.3))
r = r0 + vt (5.5)
dove v rappresenta la velocità dell’onda.
v
y
Nel testo del quesito abbiamo fatto un' affermazione apparentemente innocua,
che riportiamo: “consideriamo due onde, o ciò che è lo stesso per i nostri
propositi, due moti oscillatori…” ; abbiamo dunque affermato che possiamo
studiare, in maniera equivalente, la dinamica di un’onda trattandone la sola
parte oscillatoria. Questo è vero entro certi limiti e possiamo convincercene
utilizzando l’esempio dell’onda trasversa di Figura (4.4.1) relativa alla
propagazione lungo una corda; se ci limitiamo a seguire il moto di un punto fisso
su di essa, come illustrato in Figura (4.5.4) notiamo che è equivalente a un moto
di tipo armonico, se il punto è invece sottoposto a una doppia sollecitazione
armonica il moto del punto sarà la somma di due moti armonici.
Fig. 4.5.4. Moto armonico di un punto della corda sottoposta ad oscillazioni traverse.
x1 = A0 cos(ω 1t ),
(5.7)
x 2 = A0 cos(ω 2 t )
⎛ω ⎞
X = x1 + x 2 = A(t ) cos⎜ + t ⎟ ,
⎝ 2 ⎠
⎛ω ⎞
A(t ) = 2 A0 cos⎜ − t ⎟ (5.8)
⎝ 2 ⎠
ω ± = ω 2 ± ω1
Tb = 1/fb
X
2
0
t
1
2
20 40 60 80 100 120
che possiamo commentare come segue. L’ampiezza massima del moto risultante
varia tra 0 e ± 2 A0 , come risulta dal fatto che l’ampiezza è “modulata” nel tempo
dalla funzione A(t). La frequenza
ω−
fb = (5.9)
2π
viene detta frequenza di battimento e il suo significato viene mostrato nella medesima
Figura (4.5.5). Due onde di frequenza vicina e con ampiezza identica danno luogo al
fenomeno dei battimenti prima illustrato.
134
O1 = A cos(ω t ),
O2 = B sin(ω t )
O1 + O2 = C sin(ω t + ϕ ) = C cos(ω t − ϑ ),
A B (5.10).
C= A2 + B 2 , tg (ϕ ) = , tg (ϑ ) =
B A
Per quanto concerne la procedura analitica si veda il Capitolo I, nella parte dei
richiami matematici, dove viene discusso un problema analogo.
La matematica ha, a volte, il difetto di nascondere l’essenza fisica dei problemi e, in
questo caso, una tecnica di tipo vettoriale può essere più utile per capire la
“fenomenologia” alla base della formula precedente.
Ritorniamo pertanto alla descrizione che abbiamo fatto in precedenza del moto
armonico visto come scomposizione del moto circolare uniforme. Ad un tempo t = t 0
le due onde si possono rappresentare come illustrato in Figura (4.5.6); il moto
composto sarà rappresentato dal vettore somma il cui modulo è proprio C e il cui
angolo rispetto all’asse delle ascisse è ϑ .
y
P
A
P
B
θ
P’ P’
x 0
ωt t
ω’ t
L’evoluzione temporale del vettore è costituita dalla rotazione illustrata in Figura. per
cui in conclusione arriviamo all'identificazione del vettore somma come
C cos(ωt − ϑ ) (si spieghi il perché della convenzione dei segni degli angoli).
Possiamo procedere analogamente per quanto concerne la forma alternativa.
Due onde si dicono sfasate o con un ritardo di fase una rispetto all’altra se possono
essere espresse come (si veda anche la Figura (4.5.7))
135
O1 = A cos(ωt ),
O2 = B cos(ωt + ϕ )
Se la fase è costante le due onde i dicono coerenti.
0
ωt
Fig. 4.5.7. Ritardo di fase tra due onde di diversa ampiezza e stessa frequenza ω /2π.
136
137
CAPITOLO V
1. Introduzione: i sistemi di leve e la statica del corpo umano
r1 × M + r2 × R = 0 (1.1)
138
Tenuto conto che la lunghezza del braccio è tipicamente 0.28 m (escludendo la mano,
il cui peso viene ritenuto trascurabile), che la distanza tra omero (dove è posto il
fulcro) e punto di appoggio della forza del bicipite, indicata con M è 0.04 m e che
infine il peso del braccio, costituente la forza resistente indicata con R può essere
stimato intorno ai 15 N (corrispondenti ad una massa di circa 1.5 kg), si ottiene per la
forza motrice un valore di circa 52.5 N
L1 L2
FM L2 = Fp L1
Fp
a) La leva di prima specie. FM
FM
L1 L2
Fp
FM L2 = Fp L1
L2 FM
L1
FM
Fp
FM L2 = Fp L1 Fp
r1
R
r2
Fig.5.1.2. Esempio di leva di terza specie: articolazione dell’avambraccio
r1
R P
r2
r3
Fig.5.1.3. Equilibrio dei momenti quando la mano regge un peso.
dove P rappresenta il peso della palla e r3 la distanza tra centro della mano e omero
che assumiamo corrisponda ad un lunghezza di circa 0.33 m.
Dalla relazione precedente si ricava la seguente relazione (scritta in termini scalari)
M = αR + βP ,
r2 r (1.3)
α = ,β = 3
r1 r1
da cui si evince che nel caso specifico la forza esercitata dal bicipite è circa 877 N, e
6
Si noti che in questo caso la forza resistente sarebbe rappresentata dal solo peso della palla se il
peso dell’avambraccio fosse trascurabile.
140
che questa aumenta linearmente all’aumentare del peso da sostenere. La prima delle
equazioni (1.2) può essere geometricamente interpretata come l’equazione di una
retta il cui termine noto è essenzialmente determinato dal peso dell’avambraccio e il
cui coefficiente angolare dipende dal rapporto tra la distanza mano e omero e punto
di applicazione della forza bicipitale e omero.
Nella Figura 5.1.4 viene riportato l’andamento della forza M in funzione della forza
peso retta dalla mano; è evidente che, a parità di pesi e per lunghezze
dell’avambraccio minori, il bicipite esercita una forza minore per sostenere lo stesso
peso (a parità di distanza tra omero e punto di appoggio della forza del bicipite).
2000
1000
0
0 100 200 300
P (N)
Fig.5.1.4. Forza muscolare M in funzione del peso P retto dalla mano.
Gli esempi prima discussi danno una idea di come agiscano le forze muscolari; è
evidente che si tratta solo di una schematizzazione che non tiene conto di come le
forze si distribuiscano in configurazioni diverse da quelle prima illustrate, come nel
caso in cui vengano coinvolti degli angoli diversi da quelli retti. Consideriamo
dunque il caso in cui il braccio formi con l’avambraccio un angolo pari a 90 o − α (si
veda la Figura 5.1.5); in questo caso la condizione di equilibrio si scrive (lo si provi)
r1 M sin(α ) − r2 R sin(α ) − r3 P sin(α ) = 0 (1.4)
α
M
P
R
r1
r2 r3
Fig. 5.1.5. Sforzo esercitato dal muscolo del bicipite per sostenere un peso
con angolo di elevazione α dell’avambraccio.
141
da cui segue che la funzione seno si cancella e che dunque la forza esercitata dal
bicipite è indipendente dall’angolo.
Consideriamo ora il muscolo deltoide, che spinge il braccio in alto grazie alla sua
contrazione con una forza T ad un angolo fisso rispetto al braccio (si veda la Figura
5.1.6). In questo caso dalla condizione di equilibrio si ottiene (lo si provi)
r2 r3
T= M+ P (1.5).
r1sin(α ) r1sin(α )
Tenuto conto che α ≅ 15 o si può facilmente calcolare la forza esercitata dal deltoide
quando si voglia reggere un determinato peso con il braccio teso nella posizione
indicata in Figura 5.1.6. Anche in questo caso la forza aumenta linearmente con il
peso.
L’esempio proposto nel seguito serve a chiarire ulteriormente il ruolo giocato dalle
forze del braccio nel reggere i pesi.
r1 R P
r2
r3
r2
r3
P
r1 α
Fig. 5.1.7. Forza esercitata dal Deltoide con braccio teso ad un angolo α.
Il braccio della Figura 5.1.8. regge una sfera di 5 kg la cui distanza dal gomito è
di 35 cm, la massa complessiva del braccio e della mano è 3 kg, e il suo peso agisce
142
In base a quanto discusso nel primo Capitolo, in relazione alle condizioni generali fra
forze e momenti avremo, per quanto riguarda le forze
FP + FB − Fb + Fo = 0
dove i sottoindici stanno per p=palla, B=braccio, b=bicipite, o=omero mentre per
quanto riguarda i momenti, calcolati rispetto al gomito avremo (il momento della
forza esercitata dall’omero è nullo)
− FP L p − FB L B + Fb Lb = 0
RO
Fb
O Lb
FB Fp
LB
Lp
Fig.5.1.8
Con riferimento alla Figura 5.1.9 si evince che la condizione di equilibrio nella
stazione eretta è assicurata se
R s + Rd + P = 0 (1.6)
dove con P abbiamo indicato la forza peso e con gli indici s,d le reazioni del suolo al
piede sinistro e destro. Abbiamo tenuto conto del fatto che, essendo la parte destra del
corpo solitamente più sviluppata di quella sinistra, la forza di reazione d debba essere
maggiore di quella s. Le forze che agiscono sulla gamba sono in realtà la somma
vettoriale della forza del corpo e del peso della gamba stessa.
Rd Rs
Insieme alle forze dovremo tener conto anche dei momenti; come già sappiamo nel
caso dei momenti l’ulteriore condizione da applicare, perché non vi siano rotazioni, è
che la somma dei momenti applicati sia nulla.
Come esempio di applicazione consideriamo il caso descritto in Figura 5.1.10, dove
abbiamo fatto notare che la forza di reazione destra è maggiore di quella sinistra. In
questo caso la condizione di equilibrio sui momenti implica che (si tenga conto della
convenzione sui segni e sui versi di rotazione)
r r r r
rs × Rs + rd × Rd = 0 (1.7)
ovvero che la proiezione del baricentro è più spostata verso la parte destra per
compensare la maggiore intensità della forza resistente.
144
Rd r r Rs
d s
Per avere una idea dei momenti in gioco consideriamo quale sia il valore del
momento applicato nel caso di una persona in equilibrio su un solo piede come
mostrato in Figura 5.1.11. Assumendo una massa di 80 kg e una distanza del piede
dalla proiezione del baricentro di 0.2 m, si ottiene M ≅ 160 N ⋅ m .
d = 0.2m
E’ dunque evidente che l’effetto di rotazione, indotto dal momento non nullo, si
compensa ponendosi in una postura tale da spostare il centro di massa del corpo in
145
femore
y
N=P
x
a) Componente verticale
P
F sin(70 o ) − R y − +P=0
7
b) Componente orizzontale
F cos(70 o ) − Rx = 0
c) Momento delle forze agente sulla testa del femore (assumendo 0.07 m la
distanza tra il muscolo adduttore e l’acetabolo, 0.18 cm la distanza del
piede dalla posizione naturale di equilibrio e 0.1 cm la distanza del centro
della gamba dalla medesima posizione)
146
P
− 7 ⋅ F sin( 70 o ) − (10 − 7) ⋅ + (18 − 7) ⋅ P = 0
7
Da cui si ottengono le seguenti relazioni
F ≅ 1 .6 ⋅ P
R x ≅ 0 . 55 ⋅ P ,
R y ≅ 2 . 364 ⋅ P
Nel caso di una persona del peso di 80 kg si ottiene dunque una forza che agisce sul
muscolo adduttore di circa 160N e una forza totale ( RT = R x + R y ) agente
2 2
sull’acetabolo di 1880N.
2. Statica della colonna vertebrale
La colonna vertebrale fornisce il sostegno per il peso della testa e del tronco. La sua
forma ad S (Figura 5.2.1), serve ad aumentare la stabilità di equilibrio dell’intero
sistema.
Vertebre
cervicali
Seconda
vertebra
lombare
Processo spinoso
PH
Terza
Vertebre vertebra
lombare
toraciche
Dischi
intervertebrali Quarta
vertebra
lombare
Vertebre
lombari Vista posteriore della seconda, terza
e quarta vertebra lombare.
Vertebre
sacrali
PH : peso della testa
conto che la sezione media di un disco è 10 cm2, si calcoli la forza necessaria per
determinarne la rottura
femore una lunghezza media di 60 cm e sapendo che può sopportare uno sforzo
di compressione massimo di 1.6 ⋅ 10 8 Pa , si determini la massima variazione di
lunghezza prima di rompersi.
Gli esempi precedenti offrono un' idea di come i concetti di forze, momenti ed
equilibrio vadano combinati per essere applicati ad un sistema complesso come
quello scheletrico e muscolare.
Nel seguito discuteremo ulteriori esempi di come le nozioni, apprese in questo
capitolo, abbiano un riscontro immediato in questioni di ordine pratico attinenti
problematiche di tipo medico e lavorativo.
148
3. Problemi di urto e cadute
Si consideri una persona di massa pari a 82 kg che salta da una certa altezza;
noto che la massima compressione della tibia è 1 cm, si vuole sapere quale è
l’altezza massima da cui può saltare mantenendo le gambe rigide senza correre
il pericolo di frattura (si tenga conto che la superficie media della tibia è 3.3 cm2
7 N
e che la pressione di frattura è 1.59 ⋅ 10 )
m2
Possiamo fornire la risposta al precedente quesito, procedendo in maniera non
dissimile da quanto fatto sopra.
Se la tibia si comprime di una quantità pari a ΔhT, la forza applicata dopo il salto è
mgh
F= (3.4)
ΔhT
149
v 2Δhcm
Δt ≅ = (3.8a).
a v
Potremo dunque esprimere la forza agente su un corpo durante un impatto in termini
di spostamento di baricentro come
1 v2
Fi ≅ m (3.8b)
2 Δhcm
Tale risultato rappresenta una sorta di applicazione del teorema delle forze vive ai
problemi di impatto e va comunque notato che, al pari dei tempi, un aumento dello
spostamento del baricentro del corpo determina un effetto di “diluizione” della forza
di impatto.
L’effetto dell’impatto può essere, dunque, attutito o aumentando la superficie di
impatto o il tempo di collisione; infatti la pressione è legata al tempo di impatto
dall’ovvia relazione
m Δv
p= (3.9).
A Δt
Dai dati sperimentali si evince che per avere alte probabilità di sopravvivenza ad una
collisione o ad una caduta, la pressione esercitata sul corpo, in conseguenza di tali
traumi, deve risultare inferiore al valore critico di p c = 27.6 ⋅10 4 Pa ; la probabilità di
sopravvivenza si riduce al 50% per valori di pressione intorno ai 35 ⋅ 10 4 Pa . Ciò
implica che la decelerazione di impatto debba soddisfare la condizione
Δv Apc
< (3.10a)
Δt m
mentre per lo spostamento del baricentro si ha
1 mv 2
Δhcm ≥ (3.10b).
2 Apc
Tenuto conto che la superficie del corpo umano è legata alla massa e all’altezza della
persona dalla relazione A = 0.202 m
0.425
H 0.725 (tutte le quantità sono espresse nel
sistema MKS)
Δv H 0.725
< 7 ⋅ 10 α 0.575
4
(3.11),
Δt m
dove con α abbiamo indicato la percentuale di superficie corporea interessata.
Dalla relazione precedente si deduce che per una persona di altezza 1.7 m la velocità
di impatto critica per un tempo di impatto di 6 ms è, in funzione della massa, data dai
valori riportati in Figura 5.3.1. Come si evince dalla Figura la velocità critica per
sopravvivere ad un impatto è dell’ordine di (3-4) m/s, se si considerano tempi di
impatto intorno al milli-secondo. Tale valore può aumentare significativamente se si
aumenta il tempo di impatto. A titolo di esempio vogliamo considerare alcuni casi,
che spiegheranno anche come si possa sopravvivere a cadute da altezze notevoli.
8
a=1/6 (impatto sulla schiena)
-1
vcr(ms )
7
5
60 70 80 90 100
m(kg)
Fig. 5.3.1 Velocità critica in m/s (ovvero velocità al di sopra della quale l’impatto può
essere mortale) per una persona di altezza 1.7 m in funzione della massa.
Abbiamo messo in evidenza l’esistenza di forze di attrito, dovute alla viscosità del
fluido all’interno del quale un corpo è in moto. Tali forze resistenti dipendono dalla
velocità e si è anche visto come la presenza di un coefficiente di attrito potesse
ridurre in maniera significativa la velocità di caduta rispetto a quella che si avrebbe
nel vuoto.
Per quanto concerne la caduta in aria, l’effetto della resistenza può essere
schematizzata con un termine di forza resistente che cresce con il quadrato della
velocità.
Generalizzando quanto già discusso a proposito del moto di “caduta” in un liquido,
avremo
dv
m = mg − α v 2 ,
dt
1 (3.12)
α = ρCA
2
dove ρ è la densità del mezzo A è la superficie del corpo che cade e C è una costante
che dipende dalla sua forma (es. 0.5 per corpi sferici e 1 per corpi spigolosi).
L’equazione (3.12) è un’equazione differenziale del primo ordine la cui soluzione
può essere ottenuta utilizzando i metodi del calcolo differenziale. E’ comunque più
conveniente, per i nostri fini, scrivere la velocità acquisita dal corpo in termini
dell’altezza da cui cade, ottenendo7
7
Per il lettore interessato facciamo notare che, essendo la velocità legata alla variazione di altezza
dh
dalla relazione v = , l’equazione differenziale precedente si può scrivere come (lo si provi)
dt
dv mg − αv 2 vdv
= → = dh
dh mv α 2
g− v
m
la cui soluzione per v0 = 0 è quella prima riportata (si veda Boccia, Ciocci, Dattoli Lezioni di
Calcolo)
152
h
−
v = v (1 − e
2 2
L
hL
) (3.13)
Dove vL,hL sono rispettivamente la velocità e l’altezza limite date in questo caso da
mg
v L2 = ,
α
m (3.14)
hL =
2α
L’equazione (3.13) fornisce l’andamento della velocità in funzione dell’altezza per
una caduta libera in aria. In Figura 5.3.2 viene fatto il confronto con il caso in cui le
forze resistenti non abbiano alcun effetto, nel qual caso si ha, come già sappiamo,
v = 2 gh . Notiamo che, per valori tipici dei vari parametri che definiscono il
coefficiente α, si ottiene per la velocità limite e l’altezza limite v L ≅ 53.3 m / s e
hL ≅ 144.8 m .
La Figura mostra quanto già appreso in precedenza: nel vuoto la velocità crescerebbe
indefinitamente con l’altezza; in presenza di forze di attrito la velocità cresce fino ad
un valore limite, che corrisponde alla velocità che il corpo acquisirebbe cadendo in
assenza di forze di attrito dall’altezza hL.
v b
vL
a
hL h
Fig. 5.3.2 Velocità di caduta in presenza di forze resistenti (a) e velocità di caduta
libera (b) in funzione dell’altezza h.
Nella Figura 5.3.3 abbiamo riportato la velocità in funzione della distanza di
decelerazione, utilizzando la relazione v = 2as . Il grafico è stato diviso in regioni
caratterizzate da accelerazioni multiple di g. La regione 175-200 g rappresenta quella
dei gravi incidenti di auto e rappresenta una sorta di linea di confine al di sopra della
quale la probabilità di sopravvivenza è molto bassa. E’ il caso di notare che il valore
di v L è solo un fattore cinque o sei superiore alla velocità di impatto critica. Pertanto
se si fa aumentare il tempo di impatto di un fattore analogo la caduta da altezze
superiori ai 200 m possono risultare non mortali.
153
Nelle cadute in acqua il tempo di impatto aumenta perché viene distribuito su tutto il
tempo di immersione del corpo; assumendo che la caduta in acqua avvenga in
verticale il tempo di impatto è circa 30 ms, largamente sufficiente per “attutire” gli
effetti di una caduta da un' altezza superiore ai 300 m e oltre.
Vengono riportati esempi di urti, le relative accelerazioni ed i fattori di rischio.
100 g
200
Corse
automobilistiche Apertura
paracadute
100 Gravi incidenti
d’auto Cadute con
sopravvivenza Caduta sul telone
velocità (km/hr)
10
Fig. 5.3.3
4. Alcune considerazioni sul dispendio energetico del corpo umano
Abbiamo già fatto notare che per il solo mantenimento il corpo umano necessita, in
un’ora di una quantità di energia pari a 0.1 KWh , che equivale a circa 360000 J e che,
da un punto di vista meccanico, rappresenta l’energia sufficiente per sollevare di oltre
36000m la massa di circa 0.1 Kg . Nel Capito 3 abbiamo introdotto la caloria che
viene molto spesso utilizzata per quantificare il fabbisogno energetico del corpo
umano. Ricordiamo che la relazione tra calorie e Joules è espressa dalla seguente
identità
1cal = 4.184 J (4.1)
e che, dal punto di vista nutrizionale, quella che viene comunemente detta “Caloria”
è in realtà una Chilo-caloria ( Kcal = 10 cal ) detta anche grande Caloria.
3
154
TABELLA I
Calcolo del fabbisogno energetico per una attività non
particolarmente usurante.
La tabella precedente fornisce un' idea del fabbisogno calorico relativo ad una attività
lavorativa come quella di un impiegato non addetto a lavori manuali. Per un' idea
155
ulteriore, differenziata per tipi di lavoro, possiamo riferirci alla Tabella II, che riporta
alcuni esempi di attività, insieme al fabbisogno energetico stimato.
TABELLA II
Esempio di dispendio energetico per attività.
Dai dati precedenti emerge un fatto sicuramente interessante: il corpo umano è una
macchina capace di erogare una potenza fino al KW .
Torneremo su questo aspetto del problema nei capitoli dedicati agli aspetti
termodinamici, qui teniamo a sottolineare che i dati sono meramente indicativi e che
forti variazioni possono essere associate alle condizioni climatiche, di umidità
relativa e di temperatura.
Nel paragrafo 6 del terzo Capitolo abbiamo fatto cenno al rendimento della macchina
umana, ovvero alla sua capacità di trasformare le calorie metabolizzate in lavoro
meccanico. Ricordiamo che avevamo stimato grossolanamente che il rendimento
della macchina umana si aggira attorno al 20% .
5. Alcune nozioni pratiche sulla movimentazione dei carichi
Nel paragrafo 4 abbiamo visto come le considerazioni svolte sul concetto di lavoro e
di potenza abbiano una ricaduta pratica per quanto concerne alcuni aspetti relativi al
consumo energetico del corpo umano. Abbiamo già fatto cenno al fatto che il corpo
umano possa considerarsi come una macchina e abbiamo messo in evidenza che la
sua efficienza, ovvero la sua capacità di trasformare in lavoro meccanico quanto
metabolizzato, è dell’ordine del 20% o meno.
Un tale valore determina un' efficienza piuttosto bassa e a questo punto potremmo
applicare le considerazioni teoriche sviluppate nel paragrafo precedente a un
problema di significativo interesse pratico, quale la movimentazione manuale dei
carichi, che costituisce un capitolo di notevole importanza in ambito della medicina
del lavoro.
Una semplice applicazione di quanto abbiamo imparato sul lavoro permette di
concludere che il sollevamento di un carico ad un' altezza h da parte di un lavoratore
implica un “lavoro in ingresso del corpo” pari a
156
mgh
LB = (5.1)
η
dove l’indice B sta per body (corpo). E’ evidente che, assumendo per vero il dato
grossolano, per eccesso, di η = 0.2 , il sollevamento di un certo carico corrisponde ad
un lavoro (ovvero dispendio di energia) da parte del corpo almeno cinque volte
superiore. Questo dato serve di per sé a comprendere come, data l’inefficienza della
macchina in questione, ogni suo uso improprio, possa essere particolarmente
usurante.
Da tale valutazione segue che particolare attenzione va posta nelle norme che
richiedono attività di facchinaggio. A titolo di esempio vedremo quali cautele vadano
prese per tutelare i lavoratori adibiti al trasporto manuale di carichi.
Il metodo quantitativo, che discuteremo nel seguito, è basato su una serie di
coefficienti interpretabili in base alle nozioni fisiche prima apprese e viene detto
metodo NIOSH (National Institute of Social Health) ed è stato introdotto negli USA
nel 1993, per valutare il cosiddetto RWL (Recommented Weight Limit) ovvero il
limite di peso raccomandato per ogni azione di sollevamento.
Cercheremo nel seguito di interpretare tale formula sulla base delle nozioni
precedentemente apprese.
Indicheremo nel seguito con FP,R la forza peso raccomandata secondo il metodo
NIOSH, ricordiamo che i parametri significativi per tale formula sono :
FP , R = Fo χ ( d , m, h,φ , f , μ ) (5.2)
dove abbiamo introdotto la quantità χ (d , m, h, φ , f , μ ) ≤ 1 , che rappresenta
l’efficienza di sollevamento ed è pari all’unità, solo in condizioni ottimali e il peso
massimo raccomandato in condizioni ottimali che varia a seconda dell’età e del sesso,
come riportato nella tabella seguente
157
TABELLA III
Peso ottimale espresso in kg per età e per sesso
peso massimo raccomandato pari a circa 7 kg. In questo caso i fattori demoltiplicativi
hanno determinato un' efficienza di circa il 30%.
Possiamo infine concludere che nel caso del sollevamento manuale dei carichi il
rendimento totale della macchina umana può essere definita come il seguente
prodotto
ηT = χη (5.5)
158
dove χ è l’efficienza NIOSH, in cui i vari argomenti sono stati omessi per brevità.
Prima di concludere questo paragrafo vogliamo presentare un ulteriore commento di
carattere più energetico.
In base al criterio precedente se si considera la frequenza di sollevamento per una
altezza h si ha un impegno di potenza pari a
Po = Fo h f (5.6)
dove la frequenza viene espressa in Hz e il pedice o sta per ottimale. Nel caso in cui
l’azione abbia una frequenza di 0.033 Hz e venga ripetuta per 8 ore il peso ottimale
va ridotto di un fattore 0.45 e in analoga misura si riduce la pura potenza meccanica
impegnata. Tale riduzione mette in evidenza come si tenga conto di tutti i fattori
usuranti agenti dovuti a elementi di ordine fisiologico e come si cerchi di aggiustarli
con opportuni fattori correttivi.
Analoghe correzioni valgono per manovre di spinta, ma non saranno discusse in
questa sede dove facciamo notare che le considerazioni precedenti vanno intese come
corrette solo in condizioni micro-climatiche ottimali; il caso più generale sarà trattato
in seguito.
6. Le vibrazioni e gli effetti sulla salute umana
Vedremo nel corso di queste lezioni come i concetti che abbiamo sviluppato in questo
Capitolo siano determinanti per la comprensione di fenomeni che possono avere
notevoli ricadute sulla salute umana. Discuteremo, infatti, l’importanza delle
vibrazioni per quanto concerne i fenomeni acustici o pratiche diagnostiche quali
l’effetto Doppler.
Tali problematiche vanno al di là della meccanica in senso stretto; in questo paragrafo
tratteremo il problema di come vibrazioni di tipo meccanico interagiscano con il
corpo umano e quali possano essere le conseguenze.
Ritornando ai concetti sviluppati nel precedente paragrafo, è evidente che il nostro
corpo può risuonare con sorgenti di vibrazione esterne, assorbendone così l’energia.
In alcuni casi e per particolari frequenze, si possono produrre danni reversibili o no,
che vanno accuratamente considerati.
La schematizzazione del corpo umano come un “risonatore” è piuttosto complicata,
ma è abbastanza chiaro che essendo le varie parti del corpo di diversa lunghezza
potremo essere interessati da diverse frequenze. Le frequenze di risonanza relative
alla colonna vertebrale saranno minori di quelle che possono interessare la scatola
cranica.
Le vibrazioni, cui siamo interessati in questo paragrafo, sono divise in bande:
a) Basse frequenze, fino a 2 Hz e sono tipiche dei mezzi di trasporto
b) Medie frequenze, fino a 20 Hz, generate da macchine ed impianti industriali
c) Alte frequenze, oltre i 20 Hz tipiche degli strumenti vibranti utilizzati in
diverse attività lavorative.
159
ma 2
P= (6.3).
4π 2 f
Assumendo una massa del braccio pari a 5 kg si ottiene una potenza di 20.25 mW
e pertanto un' energia assorbita di circa 583.33 J.
161
162
CAPITOLO VI
1. Introduzione e concetto di pressione
Oltre al Pascal esistono altre unità con cui si misura la pressione. Tali unità sono
diverse a seconda dei campi di applicazione. In meteorologia si utilizza, ad
esempio, la pressione atmosferica standard (P0) che è quella al livello del mare a
0°C. Tale valore in unità MKS è pari a 1.013 ⋅ 105 Pa . Un' ulteriore unità di
misura sono i millimetri mm di mercurio o Torricelli (torr); in questo contesto
760 torr corrispondono ad un' atmosfera standard; trovare la corrispondenza tra
mm di mercurio e Pascal
hHg
In Figura 6.1.3 si mostra una colonna di acqua di 0.4 m che bilancia una colonna
di un liquido non noto di altezza pari a 0.31 m; si determini la densità di tale
liquido.
165
hH2 O
hx
da cui segue
hH O
ρ X = ρ H 2O 2 ≅ 1.29 ⋅103 kg m −3 (1.8).
hX
Prima di procedere oltre è il caso di ricordare il principio di Pascal, in base al quale si
può affermare quanto segue:
quando la pressione agente su una parte qualsiasi di un fluido, contenuto in un
recipiente, subisce una variazione, la pressione su ogni altra parte del fluido
subisce una variazione uguale.
Inoltre possiamo anche affermare che la nostra pressione interna è la somma della
pressione del corpo più quella atmosferica.
Una persona sul fondo di una vasca di 10 m di altezza è dunque soggetto ad una
pressione di due atmosfere. Un sommozzatore a 30 m è soggetto a circa quattro
atmosfere (per la precisione 2210 torr in modo tale che la pressione del suo corpo è
pari a 2330 torr).
166
200 N
F F = ρ l Vg
kg
La densità dell’alluminio è 2.7 ⋅ 10
3
; con riferimento alla Figura 6.1.6 una
m3
massa di 25 g di alluminio, appesa ad una corda viene immersa nell’acqua;
determinare la tensione della corda.
FT
Fl
m
Poiché V = si ottiene per la forza di Archimede
ρ
m Al
FA = ρH O g (1.9)
ρ Al 2
Indicando con il sottoindice L le quantità relative alla lega avremo che la differenza
di peso misurata è dovuta alla forza di Archimede
FA = Δ L g (1.11)
dove ΔL indica la differenza delle masse
Δ
VL = L ,
ρ H 2O
m L ρ H 2O (1.12)
kg
ρL = ≅ 6.615 ⋅ 10 3
3
ΔL m
dove con mL abbiamo indicato la massa della lega in aria.
L’esempio precedente è stato formulato in maniera volutamente grossolana e
parzialmente scorretta; il lettore provi a formularlo in modo più rigorosa.
a
Fig. 6.1.7. Aumento di pressione del liquido sulle pareti del contenitore
generato dalla decelerazione del camion.
Il Lettore non avrà difficoltà a comprendere che per effetto della forza centrifuga si
ha
Δp = ρ (ω x) 2 (1.14)
169
Abbiamo visto nel Capitolo I l’esistenza della forza di Coriolis che può determinare
un aumento di pressione (si veda la Figura 6.1.8) pari a (il Lettore spieghi perché)
Δp = 2ω v y (1.15)
di
Fi Fo
olio
Con riferimento alla Fig. 6.9.11si utilizzi il principio di Pascal perché un trauma
esterno sull’occhio può determinare un distacco della retina
Cornea
Retina
Nella Fig. 6.9.12 viene mostrato un impatto da incidente d’auto e l’apertura dell’Air
Bag, si spieghi la relazione con il principio di Pascal
Il parziale allungamento
distanza di della cintura di sicurezza
estende la distanza di arresto
arresto del guidatore
In Fig. 6.9.14 viene riportato un materasso ad aria, perché permette di riposare senza
essere infastiditi dalle asperità del terreno?
172
s
P = pA n
A
Vediamo ora come il risultato precedente si sposi con i fenomeni associati alla
tensione superficiale, che rivestono una notevole importanza in Fisica e le cui
ricadute fisiologiche sono, come vedremo nel prossimo Capitolo, estremamente
rilevanti.
E’ esperienza comune gonfiare una bolla di sapone e il suo equilibrio è garantito da
un bilancio tra le forze di pressione (interna ed esterna) e quelle di tensione
superficiale. Il lavoro elementare per fare aumentare una bolla di un certo volume dV
è dato da
dL = pdV , p = p i − p e (2.4)
dove gli indici i,e si riferiscono ad interno ed esterno. Se si assume la bolla di forma
sferica si ha
4
V = π R 3 , S = 4π R 2 (2.5)
3
dove R è il raggio della bolla. La forza di pressione associata è dunque
F p = 4π R 2 p (2.6).
Tale forza sarà bilanciata da quella di tensione che svolge un lavoro dato da
dL = τ dS = FT δ R (2.7)
pe
R+δR
pi
3. Il teorema di Bernoulli e le sue conseguenze
Abbiamo discusso nel Capitolo III come il lavoro possa essere considerato una forma
di energia e come questa sia una quantità che si conservi. Abbiamo appena visto
come alle forze di pressione si possa associare un lavoro ed è pertanto evidente che
potremo riformulare il principio della conservazione della energia meccanica tenendo
conto di questo ulteriore contributo.
Prima di procedere cerchiamo di chiarire le ipotesi che stanno alla base di tale
“estensione” del principio di conservazione dell’energia.
In analogia al caso meccanico escluderemo gli effetti di attriti ma più in generale
assumeremo che il fluido sia “ideale” ovvero stazionario, incomprimibile,
irrotazionale e non viscoso.
175
Stazionario significa che in ogni punto la velocità è costante nel tempo, ovvero
dividendo il fluido in tante piccole particelle, la velocità di ognuna che passa per un
punto specificato è sempre la stessa.
La condizione di incompressibilità implica che il fluido abbia in ogni punto la stessa
densità.
Irrotazionale significa che le particelle del fluido, abbiano, in ogni punto, velocità
angolare nulla.
Non viscoso implica che nel fluido siano assenti effetti analoghi all’attrito, di cui
diremo in seguito.
Un concetto molto importante è quello di flusso di massa definito come la quantità di
materia che attraversa una determinata superficie nell’unità di tempo; con riferimento
alla Figura 6.3.1 si ottiene che la quantità di materia che fluisce attraverso la
superficie A1 , ortogonale alla velocità, nel tempo Δt è dato da
Δm1 = ρ1 A1v1Δt (3.1)
Assumendo che non vi siano né pozzi né sorgenti, ovvero se non viene distrutta o
creata massa di fluido, la quantità di materia che entra in 1 sarà pari a quella che esce
da 2, ovvero
ρ1v1 A1 = ρ 2 v2 A2 (3.2)
Δs 1=v1Δt
A1
Δs2 =v2Δt
A2
(a)
(b)
P1 Δl1
Δl1 A1
P
A1
A2 Δl2
mg
Δl2
h1 A2 P2
h2
mg
Fig. 6.3.2. Lavoro effettuato dalla forza di pressione e dalla forza peso:
Teorema di Bernoulli.
α =A1/ A2
A1 v1 A2 v2
p
v
Come si modifica l’equazione (3.11) se con riferimento alla Figura 6.3.6 in cima
al pelo del liquido è posto un pistone di massa M e sezione A pari a quella del
contenitore (si assuma che il pistone possa muoversi senza attriti)
h
Mg
Fig. 6.3.6. Efflusso da un foro posto alla base del recipiente di altezza h riempito di
un liquido e soggetto al peso di un pistone di massa M libero di scorrere.
179
τ
v=2
ρR
Nel prossimo Capitolo discuteremo alcune importanti conseguenze a livello di
fisiologia cardiovascolare dei concetti finora sviluppati.
Con riferimento alla figura 6.3.7 si spieghi perché il flusso d’acqua in uscita da un
rubinetto tende a restringersi durante la caduta.
(Suggerimento: Si applichi il teorema di Bernoulli, si discutano le differenze con
il caso di Fig. 6.3.3 si consideri il problema in modo da chiarire cosa determini la
condotta del liquido).
A0
h
A
Fig. 6.3.7. Flusso d’acqua in uscita da un rubinetto, h è la caduta.
4. Viscosità e moto turbolento
piccolo strato di fluido per modificarne la velocità rispetto ad un altro strato posto ad
una distanza fissa (h):
Δv
F = ηS (4.1)
Δh
dove si è indicato con
condotta. Nel caso in cui la condotta sia un tubo a sezione circolare di raggio r, tale
caduta di pressione ai capi è data da
8ηL
Δp = Q (4.3)
πr 4
dove Q è la portata del liquido, L la lunghezza del tubo e η è la viscosità del liquido.
Le basi fisiche della legge precedente sono facilmente comprensibili e la caduta di
pressione può essere interpretata come una dissipazione di energia, dovuta proprio
all’attrito.
Ritornando alla formula (4.3) vogliamo far notare che è possibile introdurre la
seguente quantità
8ηL
RI = 4 (4.4)
πr
che diremo resistenza o impedenza idraulica, di modo tale che
Δp = RI Q (4.5)
che ci permette di stabilire un' analogia con la legge di Ohm (si veda la seconda parte
del libro), assimilando la caduta di pressione alla caduta di potenziale e la portata alla
corrente elettrica, che fluisce all’interno del circuito.
Utilizzando inoltre l’analogia con l’effetto Joule (si veda la seconda parte del libro)
potremmo anche concludere che la quantità8
ΔW = RI Q 2 (4.6)
rappresenta la perdita di potenza per unità di superficie, che va reintegrata se si vuole
mantenere una potenza costante ai capi della condotta.
Una conseguenza interessante e importante dell’analogia circuitale è la seguente: se
una condotta è costituita da due tronconi successivi con diversa impedenza, la caduta
di pressione sarà data dalla stessa formula (4.5) con una resistenza totale data da
R IT = R I(1) + R I( 2 ) (4.7)
che è essenzialmente la relazione relativa alle resistenze in serie per i circuiti elettrici.
La dimostrazione di tale fatto è abbastanza semplice e può essere compresa come
segue. In riferimento alla Figura 6.3.3 la caduta di pressione ai capi di una condotta
costituita da due tratti con impedenze idrauliche diverse è data da
Δp = Δp1 + Δp 2 (4.8)
Poiché il flusso è lo stesso in entrambe le condotte avremo Δp1, 2 = RI Q da cui
(1, 2 )
8
Si noti anche l’analogia con la potenza dissipata da forze di attrito dipendenti dalla velocità.
182
A1 v1
A0 v0
A2 v2
Fig. 6.4.3. Flusso non laminare indotto dall’attrito sulle pareti della condotta.
183
CAPITOLO VII
1. Introduzione
In questo capitolo utilizzeremo, quanto appreso nei precedenti, per descrivere gli
aspetti fisici o meglio fisiologici del sistema cardiovascolare e vedremo come i
186
Dopo tali informazioni propedeutiche, descriveremo gli aspetti essenziali della fisica
del cuore, utilizzando in larga misura le nozioni sviluppate nel precedente Capitolo
187
2. La fisica del cuore
Vena
polmonare
Il ciclo cardiaco, che porta il cuore dallo stato di contrazione allo stato di riposo e
quindi nuovamente a quello di contrazione, è detto "rivoluzione cardiaca" e
comprende due fasi essenziali nelle quali si svolge l'attività del cuore:
• diastole
• sistole.
Durante la diastole tutto il cuore è rilassato, in modo da garantire il flusso del sangue
all’interno di tutte e quattro le cavità. Il sangue affluisce nell'atrio destro attraverso le
vene cave, mentre accede a quello sinistro tramite le vene polmonari. In questa fase le
valvole atrioventricolari sono aperte in modo da consentire il passaggio del sangue da
atri a ventricoli. La fase diastolica dura circa 0.4 secondi, il tempo sufficiente per
consentire ai ventricoli di riempirsi quasi completamente.
La sistole comincia con una contrazione degli atri, di circa circa 0.1 secondi, durante i
quali si determina il riempimento completo dei ventricoli, i quali si contraggono per i
successivi 0.3 secondi. La loro contrazione chiude le valvole atrioventricolari e apre
le valvole semilunari; il sangue povero di ossigeno viene spinto verso i polmoni,
mentre quello ricco di ossigeno si dirige verso tutto il corpo attraverso l'aorta.
Queste fasi cardiache sono ascoltabili ed identificabili attraverso due suoni distinti,
detti toni cardiaci. Quando i ventricoli si contraggono abbiamo il primo tono, un
suono cupo (rappresentabile con un PUM), generato dalla contrazione del miocardio
ventricolare e, in parte, dalla vibrazione delle valvole atrio-ventricolari che si
chiudono. Al primo tono segue una pausa durante la quale i ventricoli spingono il
sangue nelle arterie. Successivo è il secondo tono, breve e chiaro (rappresentabile con
189
Durante ogni contrazione il cuore pompa 75-80 ml di sangue (ovvero circa il 2% del
totale) ad una frequenza di circa 1 Hz. Come mostrato in Figura 7.2.1, esiste una
ovvia differenza di distribuzione di volume di sangue tra il ciclo sistemico (84%) e
quello polmonare (10%). La direzione di moto del sangue viene controllata dalle
valvole cardiache all’entrata (valvola mitrale a sinistra e tricuspidale a destra) e
all’uscita dei ventricoli (valvola aortica a sinistra e polmonare a destra). Le valvole
sono a loro volta controllate dalle condizioni di pressione nei ventricoli, determinate
dalle contrazioni del muscolo cardiaco (miocardio).
In Figura 7.2.3 abbiamo schematicamente riportato la dinamica ventricolare in cui
viene riportata la valvola mitralica e quella aortica, quando la pressione aumenta a
causa della contrazione dei ventricoli, si apre la valvola di uscita e si chiude quella di
entrata.
Valvola
aortica
Valvola
mitrale
Valvole
Valvole
semilunari
atrioventricolari
Siamo ora in grado di determinare, con una certa precisione, il lavoro fatto dal cuore,
determinato, in larga parte, dalle forze che ne causano le contrazioni. Tenuto conto
che queste sono essenzialmente forze di pressione, avremo
V2
LC = ∫ p(V )dV
V1
(2.1)
ps − pd
p (V ) = pd + (V − V1 ) (2.2)
ΔV
120
100
p(V)
80
60
40
30 40 50 60 70 80 90 100 V 120
110
Fig. 7.2.4. Pressione in funzione della variazione di volume nella compressione
del miocardio.
da cui segue (lo si provi, si veda Boccia, Ciocci e Dattoli “Lezioni Di Calcolo” Ed.
Kappa, Roma, 2005)
LC = pΔV ,
1 (2.3).
p= ( pd + ps )
2
dove con p abbiamo indicato la media tra la pressione diastolica e quella sistolica.
Assumendo un valore della pressione diastolica di 120 Torr e di quella sistolica di 80
Torr e utilizzando il dato di circa 75 ml, per quanto concerne il volume di sangue
erogato ad ogni battito, otteniamo che il lavoro fatto dal muscolo cardiaco per ogni
contrazione è intorno a 1 J, il che implica circa 1 W di potenza se si assume una
frequenza cardiaca di 1 Hz9
Tale valore si riferisce alla potenza puramente meccanica, tenuto conto che
l’efficienza del cuore si aggira intorno al 15%, otteniamo che la potenza impegnata è
circa 8 W, che corrisponde all’8-9% dell’ intera potenza metabolica basale. Invitiamo
il lettore a considerare il dato appena riportato, tenendo conto che il cuore rappresenta
solo lo 0.5% dell’intera massa corporea (per ulteriori dettagli si veda il successivo
paragrafo 3).
Abbiamo finora fornito una semplice descrizione meccanica della fisiologia del
cuore, senza aver però fatto cenno ai suoi aspetti “elettrici”, che saranno discussi nei
Capitoli successivi.
9
Il numero di battiti cardiaci al minuto è in realtà una funzione dell’età; esso varia infatti
linearmente con il numero di anni ed è leggermente differenziato per genere, come riportato nelle
seguenti formule dove m, f stanno per maschile e femminile rispettivamente e a rappresenta l’età in
anni
nm = 118 − 0.55 a,
n f = 119 − 0.61 a
191
3. La pressione e il flusso sanguigno
come il destro impegni una potenza 5 volte inferiore a quella del sinistro.
Il risultato ottenuto fa riferimento alla potenza totale (destro+sinistro), erogata in
condizioni di riposo, e appare incredibilmente piccola. Tenuto inoltre conto che, in
condizioni di sforzo significativo, la portata cardiaca può aumentare fino a quattro
volte e che la pressione può subire un incremento del 50%, ne segue che, in
condizioni di sforzo estremo, si potrebbero raggiungere livelli di potenza cardiaca di
circa 6 W. Potremo, dunque, concludere che per tenere illuminata una normale
lampadina sarebbero necessari più di 10 cuori umani, funzionanti alla massima
potenza. Inoltre poiché in condizioni di riposo la potenza impegnata dall’intero
organismo è di 100 W, solo l’1% sarebbe quella richiesta per far funzionare il cuore.
Tale dato paradossale può essere parzialmente risolto facendo notare che la potenza a
cui stiamo facendo riferimento è solo quella meccanica e che l’efficienza meccanica
del muscolo cardiaco è piuttosto bassa (inferiore al 10%); possiamo dunque
concludere che la potenza necessaria per il funzionamento del cuore è superiore al
10% della potenza metabolica, che è una frazione non trascurabile.
Si calcoli quale è l’energia fornita dal cuore nello spazio di una vita (si assuma
una vita media di 75 anni)
(Circa 23.5 GJ !!!)
Cerchiamo ora di comprendere il perché della bassa efficienza del muscolo cardiaco.
A tale fine si rende necessaria una breve digressione sul significato stesso di lavoro,
che, da un punto di vista puramente meccanico, è il prodotto dello spostamento per la
forza che lo ha determinato. Tale definizione si dimostra troppo restrittiva in ambito
fisiologico. Immaginiamo infatti di esercitare una pressione su un muro, che non
riusciamo a spostare; sebbene noi non abbiamo prodotto alcun lavoro meccanico,
perché il muro è rimasto al suo posto, il nostro organismo ha prodotto lavoro per
mettere e mantenere i muscoli in tensione.
E’ stato stabilito in esperienze di fisiologia che il muscolo richiede un aumento di
consumo di energia proporzionale alla tensione sviluppata, anche se non viene
compiuto alcun lavoro esterno.
La ragione fondamentale di tale effetto è che lo stato di contrazione richiede uno stato
di costante attivazione, che declina spontaneamente senza un apporto di energia di
attivazione.
Chiarito quanto sopra, ricordiamo che l’efficienza meccanica si definisce come il
rapporto tra il lavoro meccanico LM compiuto rispetto all’energia totale (ET)
impegnata, ovvero
L
ε= M (3.6)
ET
Nel caso del cuore avremo
ET = LM + LA (3.7)
dove LA indica l’energia di attivazione costante. E’ dunque evidente che
193
r
ε= ,
r +1
LM (3.8)
r=
LA
Se, come già detto, l’efficienza del cuore si aggira intorno al 10%, dovremmo
aspettarci un rapporto lavoro meccanico-energia di attivazione pari all’11%.
Tutto ciò è stato dimostrato in esperienze fisiologiche, che hanno messo in evidenza
come, aumentando il lavoro di 20 volte, senza un aumento eccessivo della pressione,
il consumo miocardico di ossigeno aumenta solo del 5%. Aumentando invece la
pressione o i battiti cardiaci (il che accresce l’energia di attivazione) il consumo di
ossigeno aumenta proporzionalmente.
Come già detto, il teorema di Bernoulli è una riformulazione del principio di
conservazione dell’energia, allorché vengano incluse le forze di pressione. Se
trascuriamo l’effetto della gravità potremo riscrivere l’energia totale del flusso
sanguigno nella seguente forma
p T = 4v 2 + p (3.9).
Per ragioni di convenienza abbiamo omesso le dimensioni, ma resta inteso che la
pressione si misura in Torr e la velocità in m s , l’energia totale è sostituita da una
quantità equivalente che è la pressione totale.
Tale quantità, fornita dalla funzione di pompa del cuore, si distribuisce in due parti,
quella relativa alla velocità di flusso sanguigno, detta anche pressione dinamica, e
quella di pressione agente sulle pareti del vaso.
E’ importante notare la dipendenza quadratica della (3.9) dalla velocità del flusso
sanguigno. Tale dipendenza è molto importante perché, data la conservazione della
“pressione totale”, una piccola variazione della velocità implica una più significativa
variazione della pressione sulle pareti del vaso.
Consideriamo pertanto la Figura 7.3.1 dove viene mostrato un vaso con un
restringimento, o come si dice in gergo, con una stenosi. Come abbiamo visto, nella
regione di vaso più stretta la velocità del fluido aumenta, per cui possiamo aspettarci
una diminuzione della pressione e delle relative forze sulla pareti. La qualcosa può
determinare un successivo aggravamento della stenosi perché le forze associate alla
pressione sulle pareti del vaso non sono in grado di bilanciare le forze esterne.
Nel caso di una forza stenosante esterna la pressione sanguigna costituisce la forza
che ad essa si oppone, ma ora si opporrà in misura estremamente minore. Se l’energia
cinetica aumenterà fino ad abbassare la pressione al di sotto di quella atmosferica,
l’arteria si chiuderà del tutto, determinando un aumento della pressione che riaprirà la
stenosi, producendo così un meccanismo di aperture e chiusure successive, fenomeno
designato con il termine di “flutter” (vibrazione)10.
Quanto descritto finora prescinde dalla viscosità, ovvero dall’attrito intrinseco in un
liquido, che gioca un ruolo di fondamentale importanza per le problematiche che
stiamo trattando.
Le considerazioni sinora svolte non includono nemmeno gli effetti associati alle
differenze di altezza , abbiamo infatti tacitamente assunto che il sistema circolatorio
possa essere assimilato ad una condotta a livello costante e che la viscosità del
sangue, ovvero il suo attrito intrinseco, possa essere trascurato.
Vedremo nel seguito come tali effetti abbiano conseguenze fisiologiche di notevole
importanza.
Abbiamo già fatto notare che la pressione nelle arterie, intorno al cuore, è poco più di
100 Torr. Se una persona è sdraiata (ovvero in condizioni in cui effettivamente si
possono trascurare le differenze di altezza) la pressione nei vasi arteriosi, a livello
delle gambe e della testa, è prossima a tale valore e, a causa di una leggera variazione
dovuta alle ragioni che discuteremo nel seguito, può essere stimata intorno ai 95 Torr.
La situazione è diversa nel caso in cui la persona stia in piedi, perché, a causa
dell’effetto idrostatico, avremo una differenza di pressione, relativamente alla zona
precordiale, imputabile alla differenza di altezza.
Con riferimento alla Figura 7.3.2, notiamo che
p = 70 Torr
p = 100 Torr
p = 200 Torr
10
Un esempio diretto di tale fenomeno è la vibrazione delle labbra socchiuse, quando vi si soffi
attraverso, che produce il caratteristico suono noto come “pernacchia”.
196
11
La letteratura medica riporta casi di persone decedute perché svenute all’interno di una cabina
telefonica e quindi impedite ad assumere una posizione che permettesse l’afflusso di sangue al
cervello.
197
La risposta a tale problema è ovvia: l’altezza minima della flebo è quella per cui la
pressione idrostatica esercitata dalla soluzione di glucosio eguaglia quella sanguigna,
avremo pertanto
4. La pressione transmurale
Nei paragrafi precedenti abbiamo dato una descrizione degli aspetti fisici concernenti
il sistema di pompa cardiaco da cui si evince che ad ogni pulsazione il cuore
trasmette un impulso di pressione che si propaga lungo il sistema arterioso,
attenuandosi in maniera proporzionale alla distanza dal cuore. La distribuzione di
pressione è mostrata in Figura 7.4.1. Questa raggiunge il massimo valore (circa 120
Torr in condizioni normali) nel ventricolo sinistro e nell’aorta, nelle arterie più
lontane decresce fino a 30-35 Torr nei capillari e 10-5 Torr nelle vene, per poi risalire
a 25 Torr nel ventricolo destro e nei polmoni.
Sistema ad alta
pressione
Sistema a bassa
pressione
pi
Tensione circonferenziale
5. Emodinamica e viscosità
Veniamo ora al problema della viscosità e al fatto che il moto del sangue nei vari vasi
può anche non essere laminare.
Come già detto, la viscosità può essere considerata come una manifestazione
dell’attrito intrinseco di un liquido. Abbiamo già visto, in ambito puramente
meccanico, quale sia l’effetto dell’attrito sul moto di un corpo; abbiamo infatti messo
in evidenza che il coefficiente di attrito determina una forza, che si oppone al moto
del corpo. Allo stesso modo un liquido, che si muove all’interno di una condotta
provocherà, si veda la Figura 6.4.3, un moto non laminare, responsabile di una
caduta di pressione ai capi della condotta.
200
Vedremo ora, sulla base di alcuni esempi, come il concetto di resistenza di una
condotta idraulica, definito dal rapporto tra la differenza di pressione ai capi della
condotta e il flusso, possa risultare particolarmente utile nel presente contesto.
Sottolineiamo che la potenza impegnata dal cuore e il suo lavoro vengono in larga
parte spesi per compensare gli effetti di decremento pressorio dovuto agli attriti
interni.
Tenuto conto che il sangue fluisce, partendo da una pressione media di circa 100
Torr, attraverso l’aorta, le arterie principali, le piccole arterie, i capillari e le
vene per giungere all’atrio destro con una pressione pressoché nulla, si stimi la
resistenza dell’intero sistema circolatorio.
Stimando il flusso sanguigno in circa 95 ml/s otteniamo
Δp ⎡ Pa ⋅ s ⎤
RT = ≅ 1.4 ⋅10 5 ⎢
Q ⎣ l ⎥⎦
12
Si tenga conto che il sangue è una mistura di fluidi (acqua e proteine) e particelle (eritrociti,
leucociti…) pertanto la sua viscosità è un valore assoluto ma che dipende da varie condizioni, per
cui il valore di riferimento prima dato è puramente indicativo.
201
Il valore stimato in precedenza mostra come la resistenza offerta dall’aorta sia solo
una frazione trascurabile di quella totale e ciò è dovuto al suo diametro piuttosto
grande.
Abbiamo anche fatto notare che vasi differenti posti in serie offrono una resistenza
che è data dalla somma delle resistenze dei singoli vasi, mentre l’inverso della
resistenza di vasi in parallelo è data dalla somma degli inversi delle singole
resistenze.
Nel caso di un numero grande di vasi si fanno le seguenti assunzioni
1) tutte le arterie hanno lo stesso diametro
2) tutte le arterie sono in parallelo nel letto vascolare
3) tutti i capillari sono in parallelo
4) tutte le vene sono in parallelo.
Stando così le cose, data la resistenza Ri di un singolo vaso, la resistenza totale di N
vasi sarà
R
RT = i , (5.2)
N
Il risultato precedente permette anche di stimare, una volta noti flussi e cadute di
pressione ai capi di una rete di capillare da quanti vasi questa sia costituita, come sarà
chiarito dalla discussione che segue.
Nel caso di sistemi di vasi capillari del polmone la caduta di pressione ai capi del
“circuito” (Figura 7.5.1) è di circa Δp ≅ 8 Torr ; poiché il flusso associato può essere
stimato nella misura di 75 ml/s otteniamo una resistenza totale del sistema capillarico
polmonare pari a 1.1·10-4 Pa·s/l.
RT = Ri / N
Ri
0.14 cm
Teniamo ora conto che la portata volumetrica nel punto di ingresso è 6 cm3/s,
possiamo ora determinare le portate nelle varie sezioni di arterie.
Come il Lettore potrà provare per proprio conto, la differenza di pressione ai capi del
sistema 28.8 Torr (perché?), mentre i flussi destro e sinistro sono determinati da
Fd = 2.4cm 3 / s, Fs = 3.6cm 3 / s (perché?).
Abbiamo descritto nei capitoli dedicati alla dinamica l’esistenza di forze di attrito ed
abbiamo fatto riferimento a quelle dipendenti dalla velocità. Mostreremo ora come
tali concetti possano essere sfruttati a fini diagnostici, per valutare ad esempio la così
detta Velocità di Eritro-Sedimentazione (VES).
Nella Figura 7.5.3 viene riportato un globulo rosso che sedimenta ovvero si deposita
scendendo verso il fondo di una provetta contenente sangue.
203
Noi sappiamo che se la velocità è costante il globulo è sottoposto a tre forze che sono
in equilibrio tra loro, ovvero la forza di Archimede e la forza resistente diretti verso
l’alto e la forza peso, avremo pertanto
FA + FR = F p (5.3)
dove, supponendo il globulo di forma sferica, avremo
FA = ρ a Vg ,
FR = 6 π η r v, (5.4)
F p = ρ g Vg
La forza resistente, dipendente dal raggio r e dalla velocità v e direttamente legata
alla viscosità del siero, viene detta forza di Stokes. Abbiamo inoltre indicato con ρa e
ρg le densità del siero e del globulo rispettivamente. Dalle equazioni precedenti segue
che
2 ρ g − ρa 2
v= r g (5.5).
9 η
Sostituendo i valori (li si trasformi nel sistema MKS)
r = 3.5 μm , ρ g = 1.0995 g / cm3 , ρ a = 1.0265 g / cm3 , η = 1.5 ⋅10 −3 Pa ⋅ s (5.6)
si ottiene (lo si provi) v ≅ 4.7 mm/ h .
Come si vede dalla eq. (5.5) la velocità di sedimentazione dipende dal quadrato del
raggio del globulo; un aumento delle dimensioni, associato a processi infettivi,
determina un aumento di tali valori. Una VES alta è dunque una manifestazione che è
in atto un' infezione.
Fp
Fr
h
Fa
6. Sistema vascolare ed effetti di moto turbolento
Fig. 7.6.1. Moto turbolento del fluido sanguigno in presenza di una stenosi.
Abbiamo già fatto notare che il passaggio al regime turbolento è determinato dal
numero di Reynolds che può raggiungere il valore critico nell’aorta, quando si
raggiunge il picco di velocità di efflusso tra 0.5-1m/s. Utilizzando i dati a nostra
conoscenza e la definizione di numero di Reynolds, otteniamo
2rρv 2 ⋅ (0.01 m)(1040 kg / m 3 ) ⋅ (0.5 m / s )
NR = ≅ ≅ 2.6 ⋅10 3
η −3
4 ⋅10 ( Pa ⋅ s )
Per valori medi di velocità intorno a 0.3 m/s NR si aggira intorno a 1500, effetti di
turbolenza possono dunque rivelarsi o in caso di patologie (stenosi dovute ad
aterosclerosi, malfunzionamento di valvole cardiache…) o in caso di notevole sforzo
fisico in cui il flusso di sangue e la relativa velocità aumentano di un fattore 3-5.
206
207
CAPITOLO VIII
1. Introduzione e generalità sul suono
Nel corso di questo e del prossimo capitolo tratteremo alcuni aspetti relative alle onde
sonore, la relativa propagazione, alcune problematiche concernenti l’effetto Doppler,
la sua applicazione in ambito medico, la fisiologia dell’orecchio e infine il “rumore”
e la relativa metrologia.
Cerchiamo di chiarire prima di tutto cosa si intenda per onda sonora.
Le onde sonore sono onde meccaniche longitudinali, che possono propagarsi nei
solidi, nei liquidi e nei gas.
La distinzione tra onde trasversali e longitudinali è già stata discussa nel Capitolo III,
ma sarà di nuovo ricordata, per ragioni di chiarezza.
Per onda longitudinale si intende un’onda in cui l’oscillazione avviene per
spostamenti, in avanti ed indietro lungo la direzione di propagazione. Le onde
trasversali sono quelle in cui l’oscillazione avviene perpendicolarmente alla direzione
di propagazione.
Un esempio di propagazione, simile a quello di un' onda sonora, è data dai cerchi
concentrici che si osservano nell’acqua di uno stagno dopo averci lanciato un sasso.
Una delle grandezze caratteristiche della propagazione delle onde acustiche è la loro
velocità che indicheremo vs , che non è una costante e dipende dal mezzo in cui
avviene la propagazione.
Se, ad esempio, la propagazione avviene all’interno di un mezzo elastico, con modulo
di elasticità B e con densità ρ, avremo
B
vs = (1.1).
ρ
Se il mezzo di propagazione è un gas, l’espressione per la velocità è analoga, poiché è
possibile esprimere il coefficiente B in termini della pressione di equilibrio p0 come
segue (si veda il Capitolo IX)
B = γ p0 (1.2).
Dove con il simbolo γ si indica una costante legata al rapporto tra i calori specifici
molari del gas a volume costante e a pressione costante. Per la definizione di calore
specifico di un gas si veda il Capitolo IX .
La velocità di propagazione di un’onda acustica varia in maniera significativa a
seconda del mezzo, ad esempio in aria secca e a 0o C risulta essere 331 m / s mentre
nel berillio giunge fino a 1.29 ⋅ 10 3 m / s .
Sono ora necessarie alcune precisazioni, per legare le informazioni precedenti a
quantità di interesse pratico.
208
L’onda sonora, come tutte le onde, può essere caratterizzata tramite alcune quantità
fondamentali, qui di seguito specificate (si veda la Figura 8.1.1)
y
Um λ
Usando un linguaggio leggermente più tecnico, diremo che un’onda sonora è un’onda
di spostamento o di pressione, la cui evoluzione spazio-temporale è determinata da
y
vs
Um λ
Come applicazione immediata delle relazioni precedenti potremo affermare che una
onda sonora con frequenza di 2 kHz che si propaga in aria a 331 m/s sarà
caratterizzata da una lunghezza d’onda pari a 0.1655 m.
Se un suono “contiene” una sola frequenza viene detto tonale; in generale si dovranno
considerare suoni o rumori caratterizzati da un’ampia gamma di frequenze.
Si è già detto che le onde sonore sono anche onde di pressione, che, oltre allo
spostamento delle molecole del mezzo in cui si propagano, inducono anche una
variazione di pressione, la cui evoluzione spazio temporale è data da una relazione
analoga alla (1.4); avremo infatti
p( x, t ) = Pm sin(kx − ωt ) (1.5).
Dove Pm rappresenta la variazione massima di pressione ed è importante notare che
l’onda di spostamento e l’onda di pressione sono sfasate di π /2 (Figura 8.1.3).
y
U(x,t ) = Um cos(k x-ω t )
λ
Um p(x,t ) = Pm sin(k x-ω t )
2. Caratteri distintivi dei suoni
1 120 20
110
Soglia del dolore
10-2 100 2
90
Livello sonoro,dB
Pressione (Pa)
10-4 80 2 . 10-1
Intensità (W/m2 )
70
-6
10 60 2 . 10-2
50 Musica
10-8 40 2 . 10-3
30
-10
10 20 2 . 10-4
10 Soglia dell’udito
10-12 0 2 . 10-5
Per quanto riguarda la frequenza, il nostro orecchio è in grado di percepire suoni con
frequenze comprese tra i 20 Hz e i 20 kHz,con un picco di sensibilità intorno ai 2- 4
kHz. Al di sotto dei 20 Hz si parla di infrasuoni, al di sopra dei 20 kHz di ultrasuoni.
212
1 2I
UM = (2.2)
2π f Z
Pertanto, utilizzando i dati del problema e il valore prima citato dell’impedenza
dell’aria, si ha uno spostamento massimo dell’ordine di 10-11 m, minore delle
dimensioni di un atomo (si spieghi perché).
Nel caso di suoni con maggiore intensità, diciamo 1W m 2 si ottiene uno spostamento
dell’ordine di 10 μm.
Per quanto concerne la produzione dei suoni si possono utilizzare vari strumenti, le
onde sonore possono propagarsi attraverso una struttura risonante, che può essere ad
esempio un tubo pieno di aria di una canna di organo. In questo caso si possono
trattare i problemi di oscillazione dell’onda sonora in maniera simile a quanto
discusso a proposito delle corde vibranti e dei modi propri o risonanti.
I seguenti esempi chiariranno quanto prima detto.
Lungo un tubo pieno di aria lungo 90 cm, con una estremità chiusa, vengono
prodotte delle onde sonore che fanno risuonare diverse frequenze, di cui la più
bassa è a 92 Hz. Si determini la velocità delle onde sonore nel tubo.
Notando che il tubo è chiuso ad una estremità, si ha una situazione analoga a quella
relativa ai modi di una sbarra fissata ad una sola estremità, per cui avremo la seguente
condizione di risonanza per la lunghezza d’onda fondamentale
λ
= L ⇒ v = 4 Lf ≅ 331 m / s
4
Non è altresì difficile convincersi che le frequenze dei modi di ordine superiore
soddisferanno la condizione
v
fn = n (2.3).
4L
213
3. Il decibel come misura del livello sonoro
Nel precedente paragrafo abbiamo discusso l’intensità sonora che è una quantità
oggettiva, ma, per quanto riguarda il nostro orecchio, la possibilità di udire suoni con
intensità variabile su una scala di 12 ordini di grandezza, è legata al fatto che il
nostro sistema uditivo funziona in maniera tale che, in accordo con la legge prima
citata, quando un’onda di intensità I raggiunge l’orecchio, solo una variazione ΔI di
questa produrrà la sensazione uditiva e ΔI risulterà proporzionale a I.
214
120
p
β (p) = 20 ⋅ log 10
p0 110 5
-5
p0 = 2 ⋅ 10 Pascal 100 2
Pressione sonora in Pa
70 0.05
ad un raddoppio di pressione sonora
corrisponde un aumento di 6 dB 60 0.02
0.01
50 0.005
Sorgente β (dB)
40 0.002
Pressa Idraulica a 1 m 140
0.001
Clacson di automobile a 1 m 120 30 0.0005
Tornio automatico a 1 m 100
20 0.0002
Conversazione a 1 m 70
Uffici con macchine contabili 80 0.0001
10 0.00005
Officina meccanica 90
0 0.00002
dI dI
dβ = 10 log10 ( e) ≅ 4.3 (3.4)
I I
ovvero per ottenere una certa variazione di livello di intensità sonora, si deve
produrre una variazione di I proporzionale all’intensità medesima, e questo è, come
già osservato, il modo in cui funziona l’orecchio umano.
E’ altresì evidente dalla equazione (3.1) che, noto il livello sonoro, potremo calcolare
la relativa intensità, come segue
β
I = 10 I 010
(3.5).
Per rendersi conto dei livelli sonori assegnabili a diverse sorgenti, notiamo che il
livello sonoro dello stormire di foglie è valutabile intorno alla decina di dB, mentre
quello di una discussione pacata intorno ai 30 dB, un martello pneumatico oltre i
cento dB, fino ai 200 dB (a 50 m) prodotti, ad esempio, dal razzo Saturno.
L’utilizzo della formula (3.5) dà una idea dell’intensità associata ad ogni sorgente,
cosicché, nel caso del razzo Saturno, potremmo stimare una intensità (a 50 m) pari a
W
10 8 .
m2
Cercheremo ora di chiarire, con qualche esempio, come si utilizzano le relazioni
precedenti.
Date due intensità sonore I1,2 , determinare il legame tra i relativi livelli sonori
β1,2.
Dalla definizione di livello sonoro si ottiene
⎡ I I ⎤
β1 − β 2 = 10 ⎢log10 ( 1 ) − log10 ( 2 )⎥ (3.6)
⎣ I0 I0 ⎦
a
che, sfruttando la ben nota proprietà dei logaritmi, log r ( a ) − log r (b) = log r ( ) , dà
b
I
β 1 − β 2 = 10 log10 ( 1 ) (3.7)
I2
cosicché infine si ottiene
β1 − β 2
I 1 = I 2 10 10
(3.8).
Pertanto un urlo, con un livello sonoro stimabile intorno a 80 dB e un bisbiglio (20
dB) hanno una differenza di intensità sonora pari a 6 ordini di grandezza.
Se in una stanza il livello sonoro prodotto da un certo macchinario è β1=40 dB,
quale sarà il livello prodotto da 10 macchine identiche che operino
simultaneamente?
Poiché potremo assumere che l’intensità sonora associata alle 10 macchine, che
operano simultaneamente, è 10 volte quello della singola macchina, avremo
216
I
β t = 10 log10 (10 )
I0
utilizzando la proprietà dei logaritmi, logr (ab) = logr (a ) + logr (b) , si ottiene
I
β t = 10 log10 ( ) + 10 log10 (10)
I0
che, in virtù del fatto che log10 (10) = 1 , permette di ricavare βt = 50 dB.
In generale, essendo 10 log10 (2) ≅ 3 , al raddoppio della intensità sonora corrisponde
un aumento di 3 dB del corrispondente livello sonoro.
Determinare il livello sonoro complessivo in un locale in cui sono presenti un
certo numero di sorgenti, ciascuna con livello sonoro β i (i = 1,..., n ) .
βi
L’intensità della singola sorgente è I i = 10 I 0 . Indicato con n il numero di sorgenti,
10
n βi
si ottiene una intensità totale data da I T = ∑10 I 0 da cui si ricava il livello sonoro
10
i =1
risultante come
n βi
β t = 10 log10 ( ∑ 10 )
10
(3.9)
i =1
come conseguenza del fatto che la scala dei dB è una scala logaritmica.
Per ulteriori specificazioni si veda la Figura 8.3.2.
A = Numero di dB da aggiungere a L1 (< L2 )
4
βN - β1 + 10 logN 2 2
Per N sorgenti diverse si combinano 3 0
ricorsivamente il livello risultante e
4 -2
quello della rimanente sorgente più 5
-4
bassa 6
7 -6
Fig. 8.3.2. Combinazione di livelli sonori date due sorgenti della stessa potenza.
Una discesa veloce (ad esempio in aeroplano) può determinare una variazione di
pressione avvertita dal nostro orecchio come una sorta di onda di pressione. Si
determini a quanti dB equivale una differenza di altezza Δh.
In ambienti aperti la propagazione del suono avviene attraverso una sorta di onda
sferica (ovvero il suo fronte d’onda si propaga come un palloncino sferico che si
gonfia); possiamo intuire che l'energia trasportata dal fronte d'onda si distribuirà su
una superficie sferica di raggio via via crescente. Nel Capitolo IV abbiamo visto che
l’ampiezza di un’onda sferica decresce in maniera inversamente proporzionale al
raggio; nel primo paragrafo di questo capitolo abbiamo definito l'intensità dell'onda
sonora come la quantità di energia trasportata nell'unità di tempo e di superficie e,
tramite l'equazione (1.10), abbiamo potuto associare l'intensità dell'onda al quadrato
della sua ampiezza. Possiamo quindi concludere che, mentre l'energia totale
distribuita sul fronte d'onda sferico è costante, l'intensità decresce con il quadrato
della distanza dalla sorgente sonora.
218
E0
I∝ (3.15)
4πR 2
Abbiamo visto che, se I2,1 indicano le intensità di un suono, la differenza del livello
sonoro associato alle due intensità è data dall' equazione (3.7)
Indicando ora con I1 l' intensità sonora ad una distanza R1 dalla sorgente del suono e
con I2 l' intensità sonora ad una distanza R2 , la differenza del livello sonoro
associato alle due intensità sarà (lo si provi)
R
β1 − β 2 = 20 log10 1 (4.16).
R2
Un aumento di distanza di un fattore 2 determina una diminuzione del livello sonoro
di 6dB.
Qual' è l’energia richiesta per mantenere un urlo con livello sonoro di 80 dB,
misurato a 2 m dalla sorgente, per 5 minuti?
Pm i = Pm r + Pm t ,
(4.1)
U mi = U m r + U mt
dove i pedici i, r, t indicano l'onda incidente, riflessa e trasmessa rispettivamente.
Ricordando l'eq. 1.7 e tenendo conto del fatto che la frequenza non cambia mentre la
velocità dell'onda riflessa viaggia nella direzione contraria all'onda incidente , si ha
Pm i = Pm r + Pm t ,
Pm i Pm r Pm t (4.2)
+ =
Z1 Z1 Z2
dalle precedenti relazioni si ottiene:
Pm r Z 2 − Z1
= ,
Pm i Z 2 + Z1
Pm t 2Z 2 (4.3)
=
Pm i Z 2 + Z1
Utilizzando la (1.11), dalle (4.3) possiamo ricavare l'intensità dell' onda riflessa Ir e
trasmessa It rispetto a quella dell'onda incidente Ii :
Ir = αr Ii ,
(4.4).
It = αt Ii
dove i relativi coefficienti di riflessione α r e trasmissione α t sono dati da
2
⎡ Z − Z1 ⎤
αr = ⎢ 2 ⎥ ,
Z
⎣ 2 + Z 1⎦
(4.5)
4 Z1 Z 2
αt =
( Z 2 + Z1 ) 2
Si dimostri che
αt + αr = 1 (4.7)
e si spieghi perché.
Si dimostri che
(1 + α r ) 2
Z2 = (4.8)
1−αr
220
onda riflessa Ζ1 Ζ2
onda trasmessa
Fronte d’onda
incidente
Z1 Z2 Ζ2 > Z1
θr
θt
θi
Fig. 8.4.2 Angoli di riflessione e di trasmissione di un' onda sonora che incide
sulla superficie di separazione di due mezzi con impedenze Z1,2.
221
5. Effetto Doppler
Figura 8.5.1 Deformazione delle onde sonore generate da una sorgente in moto.
a) Il caso in cui la sorgente del suono sia ferma e l’ascoltatore si muova rispetto a
questa;
b) Il caso in cui l’ascoltatore sia fermo e la sorgente si muova rispetto ad esso.
Tenuto conto che l’ascoltatore può anche allontanarsi dalla sorgente, avremo più in
generale che
v s ± vo
f′= f (5.3).
vs
.
Um T’ T
vs
t
v0
Fig. 8.5.2. Effetto Doppler nel caso di sorgente ferma e ascoltatore in moto.
Nel caso in cui la sorgente sia in moto rispetto all’ascoltatore dovremo ragionare in
modo leggermente differente. Con riferimento alle Figure 8.5.3a,b
Um λ’ λ
x
v = vs+v0
v0
Fig. 8.5.3a. Effetto Doppler nel caso di sorgente in moto e ascoltatore fermo.
223
v0
AMBULANZA AMBULANZA
2
f 1' ⎛v ⎞
'
= 1 − ⎜⎜ r ⎟⎟ (5.10)
f2 ⎝ vs ⎠
e che la differenza rispetto alla frequenza propria è
Δf v r2
= (5.11)
f v s (v s − v r )
2
Δf ⎛ v r ⎞
è evidente che se vs >> vr lo spostamento di frequenza relativo è dato da ≅ ⎜⎜ ⎟⎟ .
f ⎝ vs ⎠
Cosa succede nel caso in cui un osservatore si stia allontanando da una sorgente
immobile con velocità 2vs ?
Dalla (5.3) segue che f’ = - f il che significa che l’osservatore riceverà le stesse
frequenze ma in ordine inverso.
Cosa succede nel caso in cui un osservatore si stia allontanando da una sorgente
immobile con velocità vs ?
Riceve una frequenza nulla perché non viene raggiunto dall’onda sonora.
Cosa succede nel caso in cui la sorgente si stia avvicinando all’osservatore fermo
con velocità pari a quella del suono?
Cosa succede nel caso in cui la sorgente si avvicini all’osservatore fermo con
velocità doppia di quella del suono?
Un’auto che viaggia a v1=20 m/s suonando il clacson ( f = 1200 Hz) , insegue
un’altra auto che viaggia a v2=15 m/s. Determinare la frequenza apparente del
clacson udita dal conducente dell’auto inseguita, assumendo che la velocità del
suono sia vs=340 m/s.
La situazione fisica è quella della sorgente che si avvicina (prima auto) e quella
dell’ascoltatore che si allontana (seconda auto), per cui avremo
v s − v2
f′= f ≅ 1220 Hz (5.12)
v s − v1
Un’automobile che viaggia a 30 m/s si avvicina alla sirena di una fabbrica, la cui
frequenza è 544 Hz . Si determini la frequenza che il conducente sente
225
La formula (5.6) non esaurisce tutte le possibilità. Se, ad esempio, il mezzo in cui il
suono si propaga si muove con una certa velocità w rispetto ad un qualche sistema
inerziale, la formula (5.6) va scritta come
(v ± w) ± v0
f '= s (5.13)
(v s ± w) m v S
dove il segno ± vale a seconda che la velocità sia concorde o no con la direzione di
propagazione del suono. Più in generale si può tener conto degli angoli di
orientazione, ma non tratteremo questo aspetto del problema.
Come esempio di applicazione tratteremo il caso del velocimetro Doppler in
dotazione alle auto della polizia; si veda la Figura 8.5.4
POLIZIA
Vedremo nel prossimo Capitolo come si possa utilizzare tale effetto per fini
diagnostici, in particolare per determinare l’esistenza di stenosi o aneurismi nei vasi
sanguigni.
226
227
CAPITOLO IX
ELEMENTI DI FISIOLOGIA DELL’ORECCHIO E DI ACUSTICA DEL CORPO UMANO
1. Caratterizzazioni dell’orecchio umano e sue funzioni
Nel Capitolo precedente abbiamo utilizzato il termine suono, onda sonora, rumore,…
in maniera del tutto intercambiabile. L’idea di rumore è, entro certi limiti, del tutto
soggettiva ed è legata, tra le altre cose, alla sensazione sgradevole e/o dolorosa che un
suono può determinare su un determinato soggetto.
Una melodia, che certamente non può ascriversi alla categoria dei suoni rumorosi,
può essere considerata rumore e quindi fastidiosa, se ascoltata a livelli sonori
eccessivi, diciamo superiori agli 80 dB.
Per rendere meno qualitative le considerazioni di cui sopra e per chiarire l’ambito e il
significato delle relative misure, è opportuno precisare alcune nozioni relative alla
fisiologia dell’orecchio umano, che è il principale ricettore del corpo per quanto
concerne le informazioni percepibili tramite onde acustiche (si veda la Figura 9.1.1)
Variazione della
Pressione
atmosferica
dovuta al suono 345 m/s
Pressione
atmosferica
Canale uditivo
Fig. 9.1.1. Ricezione dell’onda sonora.
Chiocciola
Canale
uditivo
Timpano
Tuba di
Eustachio
Fig. 9.1.2. Struttura dell’apparato uditivo.
Risulta composto dal padiglione auricolare e dal canale acustico. Questa ultima parte
è la parte più importante, mentre il padiglione potrebbe essere rimosso senza
conseguenze apprezzabili per la percezione acustica.
Il canale uditivo ha una lunghezza di circa 2.5 cm, è chiuso dalla membrana del
timpano, pertanto solo alcune frequenze possono risuonare in tale cavità (si veda la
Figura 9.1.3). Ricordando quanto è stato detto a proposito delle frequenze naturali in
un tubo cavo con aria chiuso ad una estremità, si avrà che le frequenze naturali del
condotto uditivo sono date da
vsuono
λ f1=
L= 4L
4
n=3
3f1
Solo armoniche dispari!
n=5
5f1
vs
fn = n , n = 1,2,3... (1.1)
4L
Utilizzando i dati a nostra disposizione ( v s ≅ 331 m / s, L ≅ 0.025 m ) si ottiene
f n = n ⋅ 3300 Hz e ciò spiega il motivo per cui l’orecchio ha un picco di sensibilità
intorno ai 4 kHz14.
14
In realtà il problema è più complesso. La testa e l’intero corpo possono provocare cambiamenti nel
campo sonoro dovuti alla diffrazione (effetto ombra); in effetti, il suono entra nell’orecchio attraverso
un’apertura della parete cranica e la combinazione padiglione capo costituisce un vero e proprio schermo
acustico, che incide sulle onde sonore le quali possono essere assorbite o riflesse. Quando la lunghezza
d’onda del suono incidente è confrontabile con le dimensioni del capo allora assumono importanza i
fenomeni di diffrazione. Poiché il diametro medio del capo dell’uomo adulto è all’incirca di 18 cm ci si
aspetta diffrazione per segnali aventi frequenza maggiore di 2 KHz. Oltre all’effetto di diffrazione, vi è anche
il cosiddetto effetto focalizzante che incide sulla pressione sonora. Cioè, per convogliare meglio le onde
sonore all’interno del condotto uditivo esterno, aumentando così la pressione sonora, è necessario che la
superficie riflettente, nel caso specifico il padiglione auricolare, sia più ampia rispetto alla lunghezza d’onda
del segnale sonoro. Per tale motivo il padiglione raccoglie più efficacemente suoni ad alta frequenza, che
hanno sfavorevole rapporto a causa della loro lunghezza d’onda. L’unione dei due effetti, effetto ombra ed
effetto focalizzante, fa sì che il sistema acustico percepisca meglio i suoni acuti compresi tra i 4 ei 9 KHz.
(per ulteriori dettagli si veda E. Marciano “Fisica dell’orecchio”, Un. Federico II Napoli).
230
essere soggetta a rotture dovute alle forze di pressione che vengono esercitate su di
essa.
Un suono superiore ai 160 dB (corrispondente ad una variazione di pressione di 8 kPa
(si verifichi tale dato)) può essere responsabile di una lacerazione del timpano.
Dalla legge di Stevino e ipotizzando una rottura del timpano per Δp = 8 kPa segue
Δp 8 ⋅10 3 Pa
Δh = ≅ ≅ 632 m
ρg 1.29[kg / m 3 ]⋅ 9.81[m / s 2 ]
Vedremo nel seguito i meccanismi messi in atto dal corpo per controllare rapidi
cambiamenti di pressione.
E' una cavità piena di aria, che è collegata, tramite la tuba di Eustachio, alla faringe,
dove viene mantenuta una pressione uguale a quella esterna atmosferica. Gli organi
principali dell’orecchio medio sono tre ossicini noti come martello, incudine e
staffa. La funzione di questi tre organi è quella di accoppiarsi alle vibrazioni della
membrana del timpano e amplificarle per poi trasmetterle all’orecchio interno. Il
meccanismo di trasmissione e di amplificazione è quello mostrato in Figura 9.1.4.
incudine
Martello
Martello
A0 incudine
F0
Orecchio staffa
staffa
interno
Canale AM
uditivo timpano
FM
Tuba di
Eustachio
Fig. 9.1.4. L’orecchio medio; meccanismo di trasmissione delle vibrazioni sonore.
La pressione esercitata sul timpano induce una forza
FM = AM ⋅ p M (1.2)
dove AM è l’area della membrana del timpano. La forza FM induce a sua volta un
momento τM sull’incudine.
231
Tale momento induce una forza F0 sulla finestra ovale di area A0 di modo che si ha
τ M = FM LM = τ 0 = F0 L0 (1.3)
La forza F0 provoca una pressione p0 sulla finestra ovale, la cui intensità può essere
calcolata dalla relazione
L A
p M ⋅ AM ⋅ LM = p0 ⋅ A0 ⋅ L0 ⇒ p c = M M p M (1.4),
L0 A0
L’amplificazione risulta dal fatto che LM>L0, AM>A0 di modo tale che si determina un
incremento di pressione, da cui segue un guadagno in dB esprimibile come (lo si
provi )
LM AM
Δβ = 20 log( ) (1.5).
L0 A0
LM A
Tenuto conto che ≅ 1.3, M ≅ 15 si ottiene p0 ≅ 19.5 p M da cui segue Δβ ≅ 26 dB ,
L0 A0
che compensa l’effetto di riduzione dovuto all’assorbimento.
Il sistema di leve e di membrane vibranti prima descritto raggiunge la sua massima
efficienza tra i 400 Hz e 4000 Hz; nelle regioni esterne problemi di inerzia e di rigidità
causano una caduta di efficienza che si manifesta in una minore sensibilità uditiva.
Come abbiamo prima fatto notare, la tuba di Eustachio connette l’orecchio e la cavità
orale ed ha la funzione di riequilibrare la pressione dell’orecchio con quella esterna
per evitare problemi di lacerazione del timpano. La tuba di Eustachio è normalmente
chiusa, ma si apre durante la deglutizione; nel caso di una rapida salita in aeroplano a
volte una deglutizione veloce può prevenire effetti di lacerazione del timpano.
Canali del
labirinto
Nervo
acustico
Coclea
Tuba di
Eustachio
Ha una forma a spirale detta coclea, contenente un liquido anionico; essa consta di tre
tubi paralleli, collegati all’estremità con due dotti esterni, il tubo timpanico e la
camera vestibolare. Il tubo interno (dotto cocleare) è separato tramite la membrana
basale dalla parte esterno (Figura 9.1.6). La staffa è attaccata alla finestra ovale che
separa la camera vestibolare dall’orecchio medio. La finestra rotonda separa la
camera del timpano dall’orecchio medio. Le vibrazioni della finestra ovale
trasmettono le variazioni di pressione al fluido della coclea. Il movimento del liquido
produce una sorta di vibrazione nella membrana basale del dotto cocleare che si
muove verso la sommità della coclea. A causa della rigidità decrescente della
membrana, toni di una certa intensità e frequenza determinano dei massimi locali
dell’ampiezza dell’onda lungo la membrana. Le vibrazioni vengono distribuite lungo
le cellule cigliate, che trasformano l’impulso meccanico in impulso neurolettico, che
viene trasmesso al cervello.
Le cellule cigliate, distribuite lungo la coclea, rispondono in maniera differenziata
alle diverse frequenze. Quelle più vicine sono sensibili ai toni acuti, quelle più
lontane ai toni gravi.
Canale
timpanico Nervo
acustico
Canale
vestibolare
Membrana
basale
Come già detto la banda udibile si estende dai 20 Hz (16 per la precisione) fino ai
20 kHz . In tale intervallo la sensibilità dell’orecchio non è la stessa per tutte le
frequenze. La descrizione dei complessi meccanismi alla base della fisiologia
dell’orecchio permettono anche di comprendere i motivi per cui esistono zone in cui
la percezione uditiva è più o meno efficiente.
In particolare, come risulta dalla Figura 9.1.7, dove vengono riportate le curve di
uguale sensazione di rumore (o di isosonia), la regione di massima sensibilità si
estende nell’intervallo di frequenze da 1 kHz a 5 kHz, ed è evidente che a 60 Hz un
livello di 40 dB è percepito come viene percepito un livello di pochi dB a 4 kHz.
233
Dalle considerazioni svolte alla fine del precedente paragrafo nasce la necessità di
correggere le misure di tono, se riferite alla tutela della salute umana, con opportune
curve di calibrazione, che tengano conto della “risposta” dell’orecchio alle varie
frequenze.
Una tipica curva di ponderazione (detta di solito curva A), che si basa su una
normalizzazione alle isofoniche a 40 dB, utilizzata per misure di rumorosità
ambientale, viene riportata in Figura 9.1.8. Il significato di tale curva può essere letto
in parallelo con quello di Figura 9.1.7.
140
130 120
120
110 100
100
90 80
80
70 60
60
50 40
40
30 20
20
4
10
0
10 100 1000 10000
Frequenza, Hz
9.1.7 Curve di calibrazione e misura dei livelli di rumore.
Gli strumenti di misura forniscono una risposta lineare al livello di intensità sonora e
devono pertanto essere dotati di circuiti, che permettano di effettuare le misure con le
correzioni di ponderazione.
Teniamo a precisare che l’uso del livello sonoro ponderato A è oramai generalizzato,
perché esiste una buona correlazione tra il disturbo soggettivo associato al rumore e
al livello ponderato misurato in dB(A).
Sono utilizzate per correggere la risposta dei fonometri tenendo conto della
diversa percezione uditiva a diverse frequenze:
o curva A: è quella universalmente accettata ed utilizzata, anche se
corrisponde ad una correzione per suoni di basso livello
o curva B: per suoni di livello medio
o curva C: per suoni di livello elevato
o curva D: per valutazione del rumore da sorvolo
dB
0
-10 C
-20 D
-30
B
-40
-50
A
-60
10 100 1000 10000
Hz
Per rumori aleatori vale la relazione:
dBA = dB -7
Prima di affrontare altri argomenti, è opportuno ritornare alla Figura 9.1.7 e ricordare
che i vari livelli di isosonia possono essere misurati utilizzando una specifica scala la
cui unità di misura è il “phon” (P), che definiremo come segue: un suono puro di
frequenza pari a 1 kHz e ad un livello sonoro di un dB ha, per definizione, un livello
di intensità sonora soggettiva (Loudness-Level) pari a un P.
Insieme al phon un’altra unità intesa a misurare l’intensità sonora soggettiva è il son
(S) e tale scala serve ad ordinare e confrontare su una base comune, l’intensità
sonora soggettiva dei vari suoni. Tale unità fu introdotta nel 1936 e 1 son è
equivalente a 40 phone. La conversione tra son e phon si ottiene in modo tale che un
raddoppio del numero di son corrisponde ad un raddoppio del livello di loudness che
corrisponde ad un aumento di circa 10 dB; abbiamo dunque che il phon e il son
risultano legati dalla relazione
235
P − 40
S=2 10
(1.6).
Utilizzeremo un esempio per capire come le unità precedenti vadano utilizzate.
Dati tre suoni di frequenze e di livello sonoro pari a: 100 Hz-60 dB, 500Hz-70 dB,
1000 Hz-80 dB, determinare
a) l’intensità sonora soggettiva complessiva;
b) il livello di intensità combinata di questi tre suoni;
c) il livello di intensità di un suono puro a 2 KHz , che ha la stessa intensità
sonora soggettiva dei tre suoni puri combinati.
Dalle Figure 9.1.7, 9.1.8 e dalla formula (1.6) si deduce quanto riportato nella
seguente tabella, che va così intesa: 60 dB a 100 Hz sono percepiti come 37 dB a 1 kHz
e analogamente per i suoni a 500 Hz e 1000 Hz .
Dai valori riportati in tabella si può derivare l’intensità sonora soggettiva totale dei tre
suoni semplicemente sommando i tre livelli in son ottenendo circa 23.8 son, mentre
per quanto riguarda il livello combinato dei tre suoni si ottiene banalmente da
W
I T = I 0 (10 6 + 10 7 + 108 ) ≅ 1.11 ⋅ 10 −4 2
m
W
corrispondente a 80.45 dB. Ricordiamo che I 0 = 10 −12 (eq. (2.1) del capitolo VIII)
m2
Infine, invertendo la formula (1.6) si ottiene (lo si provi)
P = 10 log2 ( S ) + 40 (1.7).
Per quanto riguarda il quesito c) si invita il lettore a trovare la risposta per suo conto.
Nel corso della discussione precedente ci siamo riferiti a suoni puri, ovvero a suoni
costituiti da una frequenza singola, detti anche toni; in generale un suono, o meglio
un rumore, è costituito da suoni a diverse frequenze. Le problematiche relative a
suoni “colorati” non saranno discusse nell’ambito delle presenti lezioni e si invita il
lettore interessato a consultare la bibliografia specializzata sull’argomento.
Nel paragrafo precedente e nel Capitolo VII abbiamo chiarito vari concetti di natura
strettamente fisica; da questi si potrebbero dedurre alcune nozioni di carattere pratico,
che poi sono alla base degli interventi normativi, inerenti la protezione da
inquinamento acustico sui luoghi di lavoro.
Studi di carattere epidemiologico hanno messo in evidenza la stretta correlazione tra
energia sonora assorbita e danno uditivo.
A tale scopo ricordiamo che si definisce dose di rumore la quantità
236
DR = p 2 t (1.8)
dove p è la pressione acustica e t è il tempo per cui viene esercitata.
Consideriamo ora due sorgenti con diversi livelli di pressione; è evidente che queste
erogheranno la stessa dose di rumore se
2 2
p1 t1 = p 2 t 2 (1.9)
ovvero sorgenti con minore pressione acustica erogheranno la stessa dose di rumore
di una con pressione più elevata, se opereranno per un tempo maggiore.
Nel caso in cui esista una variazione nel tempo della pressione di rumore che
indicheremo con pA(t), si definisce il seguente valore medio su un arco di tempo T
t
1 2
PT = ∫ p A (t )dt
2 2
(1.10)
Tt 1
∑10 10
2. Principi di funzionamento dei dispositivi per indagine ecografica
Metteremo a frutto quanto fino ad ora studiato sulla propagazione delle onde sonore
accennando ad una delle più diffuse tecniche diagnostiche non invasive: l’ecografia.
Tale tecnica si basa sulla ricezione dell’eco prodotta da un’onda sonora che,
propagandosi all’interno della massa corporea, viene riflessa dalle superfici di
separazione di sostanze o tessuti con caratteristiche fisiche differenti.
Passiamo ad una descrizione più quantitativa dei fenomeni che avvengono quando
un’onda sonora si propaga in un mezzo.
Per prima cosa si ha una attenuazione dell’onda, ovvero la sua intensità diminuisce
secondo la legge:
I ( x ) = I (0) ⋅ e − kx (2.1)
Il coefficiente di attenuazione k può essere espresso nel seguente modo
π f 2η
k= (2.2)
ρ v3
Dove f è la frequenza e v la velocità di propagazione dell’onda, mentre η e
ρ rappresentano la viscosità e la densità del mezzo in cui l’onda si propaga.
I
0.8
0.6
f1 = 20 kHz
0.4
0.2 f2 = 50 kHz
0 0.1 0.2 x
0.3 0.4
elettrico per cui sono anche usati come ricevitori dell’eco di ritorno che viene
trasformata in segnale elettrico.
Un' apparecchiatura per l’indagine ecografica consiste schematicamente di una
sorgente di ultrasuoni (emettitore) e di un ricevitore dell’ eco acustica (Figura 9.2.3).
Fronte d’onda
incidente
Generatore e Elaborazione
ricevitore di del segnale
ultrasuoni
(Piezoelettrici)
onda riflessa
Visore
Generatore di
impulsi elettrici
Intensità
t1
t2
Ne deriva che laddove c’è discrepanza con il valore vero si avrà una distorsione
dell’immagine.
Per consentire la ricezione di echi provenienti da interfacce profonde si amplifica
l’intensità in modo proporzionale alla distanza, modificando il guadagno in senso
inverso alla curva di attenuazione (Time-Gain Compensation TGC). L’intensità
dell’eco non è più proporzionale alla distanza della struttura, ma alla differenza di
impedenza acustica, cioè all’energia effettivamente riflessa da quella struttura.
Affrontiamo ora brevemente il problema della risoluzione dell’indagine ecografica.
Date le modalità di acquisizione dei segnali ecografici, dobbiamo anzitutto
distinguere tra:
a) Risoluzione temporale
b) Risoluzione spaziale
Per valutare la risoluzione temporale del dispositivo ecografico occorre osservare che
il tempo di andata e ritorno dell’impulso dalla profondità di 15 cm con una velocità
media di 1500 m/s è circa 200 μs. A titolo di esempio, il tempo necessario per
trasmettere un impulso di tre periodi alla frequenza di 3 MHz è di 1 μs che è dunque
trascurabile rispetto ai 200 μs. Possiamo inviare 5000 impulsi/s; se ogni immagine è
di 120 linee possiamo acquisire 40 immagini/s .
Per risoluzione spaziale si intende la minima distanza tra due strutture in grado si
produrre echi distinguibili.
Si definiscono tre risoluzioni spaziali: assiale, azimutale, di elevazione (Figura 9.2.5)
azimutale
elevazione
assiale
3. L’effetto Doppler come strumento diagnostico
Nel capitolo precedente, quando abbiamo trattato gli aspetti fisiologici del teorema di
Bernoulli, abbiamo messo in evidenza come, in presenza di una stenosi o di una
aneurisma, si abbia un aumento o una diminuzione della velocità del sangue, con tutte
le problematiche associate ad una diminuzione o aumento di pressione sulle pareti del
vaso. E’ evidente che un metodo non invasivo che permetta di misurare la velocità
del sangue in un determinato vaso possa offrire la possibilità di valutare la presenza
di occlusioni o rigonfiamenti nel vaso medesimo.
Un metodo concettualmente molto semplice è quello basato sulla cosiddetta
velocimetria Doppler, che sfrutta l’effetto prima descritto.
L’idea alla base di tale metodo è piuttosto semplice da un punto di vista concettuale e
può essere spiegato come segue (si veda la Figura 9.3.1).
vs
vL
Fig. 9.3.1. Direzione del fascio di ultrasuoni e della velocità del sangue
nella velocimetria Doppler.
Si utilizza un’onda sonora di frequenza nota, che viene inviata in un vaso dove fluisce
sangue ad una determinata velocità; si ascolta l’”eco” della onda sonora riflessa
all’indietro e dallo spostamento di frequenza si deriva la velocità del sangue, da
questa si deduce il valore della pressione.
Riferiamoci, inizialmente, alle “condizioni cinematiche” della figura 9.3.2. L’onda
sonora con frequenza f viene lanciata parallelamente al moto del fluido che si
allontana, dunque, con velocità vL dalla sorgente che ha generato l’onda sonora.
Il fluido si comporta come un ascoltatore che si allontana dalla sorgente pertanto la
frequenza “sentita” dal fluido in movimento è
v − vL
f′= f s (3.1).
vs
243
Fig. 9.3.2. Direzione del fascio di ultrasuoni parallela alla direzione della
velocità del sangue.
Il liquido rifletterà a sua volta l’onda incidente provocando un ulteriore spostamento
di frequenza, comportandosi come una sorgente che si muove verso l’ascoltatore;
dalla combinazione dei due processi si ottiene la seguente relazione per la frequenza
di ritorno
vs v − vL
f ′′ = f ′ = f s (3.2).
vs + vL vs + vL
La relazione precedente può essere manipolata in maniera tale da avere un legame più
diretto tra velocità del fluido e spostamento di frequenza; una semplice re-definizione
della (3.2) permette infatti di scrivere
(v − v ) 2 v
f ′′ = f s2 L 2 ≅ f (1 − 2 L ) (3.3a).
vs − vL vs
L’ultima parte della relazione precedente è stata ottenuta trascurando il quadrato della
velocità del liquido rispetto a quella del suono. Nel caso del sangue tale
approssimazione è largamente giustificata perché, come abbiamo visto, la velocità del
sangue è al massimo dell’ordine di qualche metro al secondo, mentre la velocità del
suono nei tessuti supera il migliaio di metri al secondo.
La (3.2) fornisce una diminuzione di frequenza poiché abbiamo considerato il liquido
che fluisce allontanandosi dalla sorgente di onde sonore; nell’ipotesi in cui il liquido
fluisca verso la sorgente, si ha un aumento di frequenza della stessa entità, ovvero
v
f ′′ ≅ f (1 + 2 L ) (3.3b).
vs
Abbiamo prima parlato genericamente di onda sonora senza specificarne la
frequenza, né abbiamo detto come queste vengano prodotte o rivelate.
Nelle applicazioni diagnostiche si utilizzano gli ultrasuoni, con frequenze tra i 5 e i
10 MHz . La ragione per cui si utilizzano gli ultrasuoni è facilmente intuibile: lo
spostamento di frequenza dato dalle (3.3) è infatti pari a
v
Δf = f ′′ − f ≅ 2 f L (3.4),
vs
244
da cui stabiliamo che, per velocità del sangue di 0.5 m/s, per una velocità del suono
nei tessuti di 1.5·103 m/s e per una frequenza di 5 MHz si ottiene Δf ≅ 3.3 kHz , che è
largamente nella regione dell’udibile.
Lo strumento che produce e rivela gli ultrasuoni si chiama trasduttore, costituto da un
piezoelettrico che trasforma un segnale elettrico in ultrasuoni e viceversa. Senza
entrare nei dettagli di come il segnale di ritorno venga analizzato, facciamo notare
che si sfruttano tecniche proprie dell’elettronica in cui si combinano vari segnali a
differenti frequenze in modo da ottenerne uno con una frequenza data dalla (3.4) che
può essere direttamente “ascoltata” e fornire all’analista esperto le informazioni
necessarie.
In generale il fascio di ultrasuoni e la velocità del sangue non sono paralleli (si veda
la Figura 9.3.1) per cui la (3.4) va riscritta come
v L cos(φ )
Δf ≅ 2 f (3.5).
vs
Gli elementi che abbiamo fornito in questo paragrafo danno una idea di come
l’effetto Doppler possa essere utilizzato in ambito diagnostico; si tratta ovviamente di
una trattazione meno che elementare ed assolutamente insufficiente, il lettore
interessato potrà trovare ulteriori dettagli nella letteratura specializzata
sull’argomento.
Nei prossimi paragrafi descriveremo altri aspetti tecnici associati all’utilizzo delle
onde sonore a fini diagnostici.
245
4. La fisica dello stetoscopio
Lo strumento più comunemente usato per studiare i suoni provenienti dall’interno del
corpo e inferire da questi possibili aspetti patologici è lo stetoscopio, inventato agli
inizi del XIX secolo da M. Laennec. Da circa due secoli lo stetoscopio è lo strumento
principe per auscultare i suoni caratteristici del corpo, come battiti cardiaci, soffi,
flussi sanguigni, rantolii…
Il principio di funzionamento dello stetoscopio è basato su quello della trasmissione
dei suoni attraverso un tubo pieno di aria, con entrambe le estremità chiuse (si veda la
Figura (9.4.1)).
La parte dello stetoscopio da applicare al corpo consta di una sorta di campana con
una membrana sottile, le cui vibrazioni, indotte dai rumori del corpo, vengono
trasmesse lungo il tubo. Indicato con d il diametro della membrana possiamo scrivere
la relativa frequenza di risonanza come (lo si provi)
1 T
fR = β (4.1)
2d σ
dove β = 0.76 è un coefficiente empirico, σ è la densità superficiale e T è la forza di
tensione, legata alla pressione dalla relazione
2
⎛d ⎞
T = π p⎜ ⎟ (4.2),
⎝2⎠
che, una volta inserita nella formula (4.1), fornisce la relazione
1 p
fR = πβ (4.3).
4 σ
246
La pressione è quella che si esercita con la mano sulla parte terminale dello
stetoscopio ed in tal modo si selezionano le frequenze da auscultare. A pressioni
maggiori corrisponderanno i toni più alti e viceversa. Per dare un' idea riportiamo che
i rumori cardiaci, dovuti a effetti di turbolenza del sangue, si aggirano nell’intervallo
di frequenza 100 Hz-200 Hz, mentre i suoni provenienti dai polmoni, dovuti ad effetti
di turbolenza dell’aria durante l’inspirazione o l’espirazione, si situano nell’intervallo
di frequenza 200 Hz-2000 Hz.
427
r=
π RI
Assumendo che l’impedenza sia uguale a quella del timpano si ottiene per r un
valore ottimizzato intorno ai 4 mm. Sebbene tale valore ottimizzi l’accordo tra le
impedenze, determina un volume troppo grande per l’intero sistema (se si assume ad
esempio una lunghezza del tubo di 0.3m), per cui un ragionevole valore
compromissorio potrebbe essere 3 mm.
247
Abbiamo sin qui discusso alcuni elementi che dimostrano come si possano integrare
nozioni di fisica, fisiologia e di tecnica acustica. Vedremo nei prossimi paragrafi
ulteriori esempi tesi a chiarire l’importanza di questa commistione.
5. Cenni alla fisiologia del sistema vocale
Abbiamo fino ad ora discusso di come il nostro sistema uditivo sia in grado di
recepire i suoni provenienti dall’esterno, ma non abbiamo detto alcunché sui
meccanismi fisiologici che determinano la produzione dei suoni che articolano il
nostro linguaggio.
I suoni che permettono di articolare le parole sono prodotti tramite la modulazione
del flusso di aria uscente dai polmoni attraverso la trachea e le cavità orali; si veda la
Figura (9.5.1). Il parlato può essere prodotto solo durante l’espirazione, secondo i
meccanismi qui di seguito descritti:
a) l’aria espirata passa attraverso le corde vocali (glottide),
b) il processo di modulazione viene azionato dai muscoli che controllano la
contrazione della glottide,
c) le cavità orali funzionano da risonatore per dare al suono la caratteristica
modulazione della voce,
d) la modulazione dei suoni viene prodotta dal cambiamento di volume delle
cavità risonanti.
Naso
Cavità
Ugola nasale
Cavità Cavità
faringea
Istmo orale
Code vocali palatino
Bocca
Condotto laringeo
cavità orale falsa
Trachea e bronchi
cavità orale vera
glottide
Volume
polmonare
Forza
Aria
muscolare
espirata
Fig. 9.5.1. Sistema vocale
248
i) la glottide, chiusa dalla forza esercitata dal muscolo preposto, tende a far
aumentare la pressione nella trachea sotto l’azione dell’aria emessa dai
polmoni; la pressione all’interno della trachea è di circa 600-2000 Pa,
ii) la pressione esercitata dall’interno apre la glottide, sicché si determina una
diminuzione della pressione all’interno della trachea,
iii) l’aria viene emessa attraverso l’apertura della glottide e la relativa velocità
può essere calcolata tramite la legge di Bernoulli, ovvero ( T = trachea,
G = glottide),
1 1
pT + ρvT2 = pG + ρvG2 (5.1)
2 2
iv) la diminuzione di pressione, determinata dall’esalazione di aria, determina
la chiusura della glottide
v) si determina pertanto una modulazione glottale dell’aria espirata, mentre la
modulazione più fine a quella delle corde vocali.
Le caratteristiche della voce sono determinate dal volume e dalla forma delle
cavità orali.
La forza e la potenza sono legati dalla ben nota relazione P = Fv , assumendo per v
il valore della velocità del suono, dal dato precedente sulla potenza si ottiene , lo si
provi, F ≅ 6 ⋅ 10 −8 N .
Con questo esempio completiamo la nostra disamina sull' acustica del corpo umano;
torneremo nel seguito su alcuni aspetti degli argomenti qui trattati.
249
250
CAPITOLO X
1. Introduzione
Questo Capitolo è dedicato ad una trattazione dei problemi di ottica e alle sue
implicazioni da un punto di vista fisiologico, utilizzando una formulazione basata sul
cosiddetto limite geometrico.
A rigore avremmo dovuto parlare dell’ottica geometrica dopo aver introdotto i
concetti fondamentali della propagazione delle onde elettromagnetiche e chiarito cosa
si intenda per spettro della radiazione elettromagnetica e come la luce visibile sia solo
quella piccola porzione dello spettro a cui l'occhio è sensibile15.
Una trattazione adeguata avrebbe dunque richiesto la derivazione delle equazioni che
regolano la propagazione delle onde elettromagnetiche e poi da queste dedurre il
relativo limite geometrico.
L’ottica geometrica è, entro certi limiti, formulabile prescindendo da quella
ondulatoria ed è infatti nata prima di questa. Ci concederemo, pertanto, la libertà di
introdurre i problemi relativi all’ottica geometrica e alla propagazione dei “raggi”
luminosi senza aver affrontato l’ottica fisica, che discuteremo, adeguatamente, nella
terza parte di queste lezioni. Utilizzeremo, ove necessario, i concetti prima acquisiti
relativi alla propagazione delle onde.
Vedremo in questo Capitolo come si possano affrontare le problematiche di
propagazione della luce e di come questa possa essere re-indirizzata tramite strumenti
ottici quali lenti o specchi e, come tutto ciò possa interessare la fisiologia dell’occhio.
Ci è sembrato non inopportuno aggiungere questo Capitolo subito dopo quello in cui
abbiamo trattato la fisiologia dell’orecchio, in modo che il Lettore possa avere un
quadro generale sui sistemi sensori del corpo.
Prima di entrare nello specifico, cerchiamo di chiarire cosa si intenda per ottica
geometrica.
E’ esperienza comune che la luce visibile, che è solo una porzione dello spettro
elettromagnetico (si veda il Capitolo XVI), può essere riflessa da uno specchio,
secondo quanto illustrato in Figura 10.1.1.
Un “raggio” incidente colpisce una superficie con un angolo di incidenza ϑi , rispetto
alla normale alla superficie riflettente, e ne emerge con un angolo uguale. inoltre il
raggio incidente, il raggio riflesso e la normale al punto di incidenza appartengono
allo stesso piano. Queste caratteristiche della riflessione di un raggio incidente
vengono definite leggi della riflessione "regolare".
15
Per spettro si intende il fatto che la radiazioni elettromagnetica si estende, come vedremo, a
seconda della lunghezza d’onda, dai raggi γ fino alle onde radio; i primi sono caratterizzati da
cortissime lunghezze d’onda mentre le seconde possono giungere fino ai chilometri.
251
θi =θ r
Superficie riflettente
d
d
Fig. 10.1.3. Fenomeno della diffrazione osservato nel caso di onde marine
all’imboccatura di un porto
Abbiamo fin qui messo in evidenza un effetto tipico di diffrazione che si manifesta
quando le dimensioni degli oggetti, con cui l’onda interagisce, sono comparabili con
la sua lunghezza d’onda.
253
(a) (b)
Fig. 10.1.4. a) Diffrazione da una fenditura larga rispetto alla lunghezza d’onda e
inclusione degli effetti di bordo
b) Diffrazione da una fenditura stretta rispetto alla lunghezza d’onda e
inclusione degli effetti di bordo
2. Specchi
Abbiamo già parlato delle leggi della riflessione in maniera alquanto grossolana. E’
opportuno, prima di procedere, dare una definizione corretta di raggio luminoso, che
va inteso come una “linea geometrica” perpendicolare al fronte d’onda della
radiazione incidente, come è illustrato in Figura 10.2.1. In termini più tecnici diremo
che nella riflessione speculare l’angolo di incidenza è uguale a quello di riflessione.
254
Raggio riflesso
θr
θi =θr
θi
Raggio incidente
Onda piana
Fronte d’onda
incidente
Diremo specchio piano uno specchio come in Figura 10.2.2.a in cui si forma una
immagine (in questo caso virtuale) dritta e della stessa dimensione dell’oggetto
riflesso, alla stessa distanza dallo specchio ma da parte opposta.
Costruzione dell'immagine significa, dato un punto oggetto S, trovare il punto
immagine S'. Ovvero un fascio omocentrico in S viene "trasformato" in un fascio,
reale o virtuale, omocentrico in S' (Figura 10.2.2.b)
( a) ( b)
S S'
L’esempio che segue chiarisce meglio quanto espresso prima in termini qualitativi
A che altezza minima deve essere posto uno specchio e quanto deve essere lungo
per permette ad una persona alta 1.8 m di vedere completamente riflessa la sua
immagine, assumendo che gli occhi siano a 1.7 m da terra (Figura 10.2.3).
h2
θr = θi l
h1 θr
θi
d
L
Fig. 10.2.3. Costruzione dell’immagine virtuale generata da uno specchio piano.
d h h h
Dalle proprietà dei triangoli simili si ha = 1 ⇒ d = 1 , inoltre l + d = h1 + 2 ,da
L 2L 2 2
cui segue che, se d= 85 cm e la dimensione dello specchio è la metà dell’altezza
della persona, l= 90 cm, indipendentemente dalla distanza dallo specchio, l’immagine
sarà sempre riflessa per intero.
L = a 2 + x 2 + b 2 + (d − x) 2
dL
la condizione di minima distanza percorsa si trova imponendo che = 0 , per cui
dx
dalla relazione precedente segue che
dL x d−x
= − =0
dx a2 + x2 b 2 + (d − x) 2
e poiché (lo si provi)
x d−x
sin(ϑi ) = , sin(ϑr ) =
a2 + x2 b 2 + (d − x) 2
otteniamo immediatamente la legge della riflessione ottica: θi=θr .
256
A
B
a θi θr
b
x d-x
d
Fig. 10.2.4. minimizzazione del cammino ottico tra A e B.
La legge della riflessione ottica si applica anche a superfici non piane. Le proprietà
delle lenti e degli specchi non piani che hanno permesso la realizzazione di tutti i
dispositivi ottici che oggi utilizziamo, dagli occhiali ai binocoli, dai microscopi ottici
ai grandi telescopi nonché la comprensione del funzionamento dell’occhio umano, si
basano su questa semplice legge e sulla legge della rifrazione di cui parleremo nel
prossimo paragrafo. La Figura 10.2.5 illustra la riflessione dei raggi luminosi su uno
specchio sferico concavo. I raggi che incidono parallelamente all’asse ottico, se
parassiali, convergono, dopo la riflessione, su un unico punto detto fuoco dello
specchio sferico, situato a R/2 rispetto allo specchio (si veda la Figura per l’ovvia
dimostrazione).
Per raggi parassiali si intendono raggi ottici paralleli e vicini all’asse ottico dello
specchio, ovvero tali che la distanza dall’asse sia molto inferiore al raggio di
d 1
curvatura dello specchio. Ad esempio ≤ può essere considerata una buona
R 10
approssimazione di parassialità.
d 1
≤
R 10
θi
d θr
f = R/2
C F
R
Fig. 10.2.5. Proprietà ottiche dello specchio sferico.
Nella Figura 10.2.6 viene mostrato uno specchio sferico convesso; in tal caso il fuoco
è situato dalla parte opposta alla stessa distanza R/2 (lo si provi).
257
θr R
θi
θr C
θi F
1 1 1 Immagine reale
+ = q capovolta e più
p q f piccola rispetto
H
all'oggetto.
Q F O
P
C H'
f
p
Fig. 10.2.7. Costruzione geometrica dell’immagine riflessa da uno
specchio sferico concavo.
258
Consideriamo, con riferimento alla Figura 10.2.8, un oggetto di altezza h posto alla
R
distanza < p < R , ovvero posto tra il centro ed il fuoco f ; si consideri un raggio
2
che partendo dal vertice O, parallelamente all’asse dello specchio, viene riflesso nel
fuoco, un altro sempre uscente da O passa per il fuoco e viene pertanto riflesso
parallelamente all’asse; il punto di incontro O’ tra i due raggi riflessi individuano
l’immagine dell’oggetto di altezza h’ che risulta essere capovolta e ingrandita.
1 1 1 Immagine reale
+ = p capovolta e più
p q f
O grande rispetto
h all'oggetto.
h’ C F
O'
f
q
Fig. 10.2.8. Specchio sferico concavo: sorgente tra il centro di curvatura e il fuoco.
In Figura 10.2.9 viene mostrata una situazione analoga in cui l’oggetto è posto tra il
fuoco e la superficie dello specchio, il lettore non avrà difficoltà a dimostrare che, in
questo caso, l’immagine è virtuale e si forma dietro lo specchio.
Immagine virtuale
1 1 1 q dritta e più grande
+ =
p q f O' rispetto all'oggetto.
C p
F
f
Fig. 10.2.9. Specchio sferico concavo: sorgente tra il fuoco e la superficie riflettente.
.
Con riferimento alla figura 10.2.10, il lettore dimostri che la distanza p
dell’oggetto e dell’immagine q dallo specchio sono legate dalla seguente
equazione, detta dei punti coniugati
1 1 2 1
+ = = (2.1)
p q R f
259
q
M = (2.2).
p
R
q
H
U
h F
Q h δ
P O
C
h’ H’
f
p
Fig. 10.2.10. Costruzione geometrica per la dimostrazione dell’equazione
dei punti coniugati.
Immagine virtuale
dritta e più piccola
rispetto all'oggetto.
F C
3. La rifrazione ottica
n1 n2 n2 > n1
θr
θt
θi
ni < nt ⇒ ϑi > ϑt ,
(3.2).
ni > nt ⇒ ϑi < ϑt
Nel caso dell’aria l’indice di rifrazione è circa 1.0003 mentre per l’acqua si ha 1.33,
per il benzene 1.5 e così via. E’ dunque evidente che l’indice di rifrazione sarà
dipendente dal tipo di materiale che costituisce il mezzo in cui il raggio si propaga.
Se il mezzo è il vuoto, in cui si ha totale assenza di materia avremo un indice di
rifrazione pari all’unità. L’aria può, con buona approssimazione, essere considerato
una sorta di “vuoto” per quanto concerne la propagazione di fasci luminosi.
Cerchiamo ora di capire come si possa tradurre la formula (3.1) in un risultato di
evidenza immediata da un punto di vista fisico.
Se noi guardiamo dall’alto il fondo di una piscina, questa ci appare meno profonda di
quella che realmente è.
Questo fatto è una conseguenza del fenomeno della rifrazione e il seguente esempio
serve a chiarire le idee.
d’
d nacqua 1.33
θi
b
Fig. 10.3.2. Profondità apparente di un oggetto immerso in acqua.
d 1 − [n ⋅ sin(ϑi )]
2
d′ = (3.4)
n 1 − [sin(ϑi )]2
che non ci permetterebbe una determinazione univoca visto che dipende dall’angolo
di osservazione.
Consideriamo ora un ulteriore esempio che ci permetterà di cominciare ad intuire
quali siano le basi teoriche della legge di Snell. Nella Figura 10.3.3 abbiamo riportato
due mezzi in cui si propaga il fascio luminoso e faremo l’assunzione che nei due
mezzi le velocità di propagazione siano diverse e inversamente proporzionali
all’indice di rifrazione ; più in generale potremo scrivere
263
c
v= (3.6)
n
dove c = 2.998 ⋅ 108 m / s è la velocità della luce nel vuoto16. Torneremo verso la fine
di queste lezioni sulle ragioni profonde alla base di questa ultima relazione.
La legge di Snell potrà dunque essere riformulata come
vi vt
= = v* (3.5)
sin(ϑi ) sin(ϑt )
la cui interpretazione geometrica viene riportata nella Figura medesima e che da un
punto di vista fisico può essere intesa come segue:
n1 n2 n1 n2
n2 > n1 n2 > n1
v*
Β*
Τ=0 Τ= t
v*
vi Β
0 θt 0 vt θt
Β vt
θi θi vi
Α
Α
Α*
v*
Α*
i) definiamo lungo la linea di separazione dei due mezzi la velocità v*, le cui
proiezioni lungo le direzioni dei fasci incidenti e rifratto sono proprio vi , vt ;
ii) prendiamo ora un punto A sul raggio incidente a cui corrisponderà un punto
immagine A* nella stessa direzione di v*, quando il raggio incide sulla
superficie di separazione A si muove verso O con velocità v1 mentre A* si
muove verso O con velocità v* ;
iii) nello stesso tempo un punto B si allontana da O con velocità vt mentre il
punto immagine B* si sposta con la stessa velocità di A* ;
16
Nella teoria elettromagnetica della luce si definisce l'indice di rifrazione n come rapporto fra la
velocità della luce nel vuoto c e quella nel mezzo, cioè n = c . Il simbolo c veniva un tempo
v
utilizzato per indicare genericamente una velocità (celeritas in latino); essendo la velocità della luce
nel vuoto un limite insuperabile, è rimasto l’uso di indicarla con la lettera c.
264
iv) dopo un certo tempo Δt avremo che i punti immagine avranno percorso una
distanza A*O=OB* mentre i punti reali una distanza AO ≠ OB .
La strategia seguita dal raggio luminoso è quella di aver percorso il tratto AO+OB nel
tempo minimo, ovvero come se si fosse mosso lungo il segmento A*B* a velocità
costante.
Vedremo nella seconda parte di queste lezioni come il precedente ragionamento, un
po’ artificioso ma efficace, possa essere sostituita dal cosiddetto principio di
Huygens-Fresnel che ci permetterà di inquadrare meglio i fenomeni precedenti.
Nell’esempio che segue dimostreremo come la legge di Snell possa essere spiegata
utilizzando una procedura analoga a quella utilizzata in precedenza per derivare la
legge della riflessione.
Una persona deve andare dal punto A al punto B della figura 10.3.4. In un punto
distante a dal punto di partenza deve cambiare mezzo di locomozione. Nel primo
tratto si muoverà in macchina ad una velocità v1 = 40 m / s e nel secondo tratto in
bicicletta a v2 = 10 m / s . Si dimostri che tale tragitto sarà percorso nel minor
tempo se l’uomo scende dall’automobile in un punto in modo tale che
v1 sin(ϑ1 )
= (3.7).
v 2 sin(ϑ 2 )
Si discuta la rilevanza del problema con quanto illustrato prima a proposito
della rifrazione.
b Β
v1 > v2
0 θ2
v2
θ1 d
x
v1
Α
a
Fig. 10.3.4 Costruzione geometrica del problema della
minimizzazione del tragitto percorso.
Il tempo impiegato per percorrere il tratto descritto in figura 10.3.4 è
a2 + x2 b 2 + (d − x) 2
t= +
v1 v2
da cui segue
dt x d−x
=0⇒ −
dx v1 a 2 + x 2 v 2 b 2 + (d − x) 2
ovvero (si spieghi perché) quanto affermato nell’equazione (3.7). La rilevanza del
presente risultato per l’ottica è ovvia ed evidente, purché si assuma che la velocità di
propagazione nel mezzo sia inversamente proporzionale all’indice di rifrazione.
265
Onda piana
λ incidente
λ'
Torniamo ora alla legge di Snell, con riferimento alla figura 10.3.6 consideriamo i
raggi luminosi provenienti da un oggetto sul fondo della vasca: è evidente che
avremo trasmissione da acqua ad aria finché l'angolo di trasmissione non raggiunge il
π
valore massimo ϑt = , che corrisponde ad un angolo di incidenza massimo, detto
2
angolo critico, tale che
nt
sin (ϑ c ) = (3.9)
ni
dove ni è l'indice di rifrazione dell'acqua e nt quello dell'aria.
266
Come mostrato in Figura 10.3.6 un piccolo corpo luminoso, sul fondo di una
vasca colma d’acqua profonda 2 m, emette luce verso l’alto in ogni direzione. Si
determini il raggio R del cerchio di luce, che si forma sulla superficie dell’acqua.
R nt
d
θc θc ni
4
poiché ni = e nt ≅ 1 , si ottiene R ≅ 2.26 m .
3
Si discuta la rilevanza degli effetti di gradiente termico degli strati atmosferici
per il fenomeno dei miraggi.
Quando un raggio luminoso attraversa strati di aria con indice di rifrazione diversi a
quote diverse, la sua traiettoria si può approssimare ad una linea curva. L’indice di
rifrazione dell’aria varia in presenza di un gradiente termico che produce una
variazione di densità. Ad esempio, gli strati di aria in prossimità della sabbia del
deserto o all’asfalto sono più caldi e quindi più rarefatti degli strati d’aria superiori;
se il gradiente termico è elevato si possono osservare miraggi del tipo mostrato in
Figura 10.3.7.
Temperatura decrescente
verso l’alto Raggio diretto osservatore
Raggio curvato
Direzione di provenienza
apparente del raggio curvato
Fig. 10.3.7. Miraggio dovuto al gradiente termico in prossimità dell’asfalto caldo.
267
4. Le lenti
n2 > n1
n1
θi
n2
P h θt Q
β
α δ γ
Asse ottico R
p q
α+ β = θ i h h h
= sin(β ) = tg(α ) = tg( γ )
β− γ = θ t R p+δ q-δ
α + β = ϑi , β − γ = ϑt (4.3)
Facendo il rapporto tra le due relazioni precedenti e tenendo conto delle (4.1),
otteniamo
β − γ ϑt n1
= ≈ → α n1 + γ n2 = β (n2 − n1 ) (4.4)
α + β ϑi n2
utilizzando le relazioni (4.2), ricaviamo,infine, la formula di Gauss per il diottro
sferico
n1 n2 n2 − n1
+ = (4.5)
p q R
Anche in questo caso i punti P e Q sono detti punti coniugati.
Il fuoco di una lente o, più in generale di un sistema ottico è quel punto oggetto
sull'asse ottico tale che, se vi posizioniamo una sorgente luminosa puntiforme,
"fuoco", restituisce un' immagine all'infinito, ovvero i raggi luminosi fuoriescono
paralleli; si parlerà in questo caso di primo fuoco. Viceversa i raggi paralleli
provenienti da una sorgente luminosa posta a distanza infinita dalla lente convergono
in un punto detto secondo fuoco. Corrispondentemente la distanza del primo fuoco
dal primo piano principale si chiama "prima distanza focale", analogamente per il
secondo fuoco. Se la lente è divergente i fuochi vengono individuati dal
prolungamento dei raggi luminosi sull'asse ottico e si parlerà di fuochi virtuali. Negli
specchi i due fuochi coincidono.
Nel diottro sferico i raggi paralleli provenienti da una sorgente posta a distanza
infinita, se n2 > n1, vengono deflessi in modo da convergere tutti "in prossimità" di un
punto che chiameremo, in conformità con quanto detto in precedenza, secondo
fuoco. Se siamo in approssimazione di raggi "parassiali" possiamo affermare i raggi
paralleli si incontrano tutti nel 2° fuoco. la figura 10.4.2 mostra come calcolare la
distanza del fuoco dal punto di intersezione tra la superficie del diottro e l'asse ottico.
⎡ sin (ϑi ) ⎤
f = R ⎢1 − cos(ϑi ) + ⎥ (4.6)
⎣ tg (ϑi − ϑt ) ⎦
sin (ϑi ) n2 ϑi
cos(ϑi ,t ) ≈ 1 , sin (ϑi ,t ) ≈ ϑi ,t , = ≈
sin (ϑt ) n1 ϑt
1 − ϑi ⋅ ϑt 1 1 n2
f ≈ R ϑi ⋅ ≈R ≈R =R
ϑi − ϑt 1 − ϑt ϑi 1 − n1 n2 n2 − n1
in definitiva si ottiene
n2
f =R (4.7)
n2 − n1
269
n2 > n1
n1 θi
θ 'i n2
θt
θi
θi R
h θt θi−θt
h= R sin(θ i) θi 2° fuoco
b) la seconda, che diremo lente divergente, più sottile al centro che ai bordi, fa
divergere (perché?), da un fuoco virtuale, gli stessi raggi luminosi.
Asse ottico
2° fuoco
R2 R1
R2
R1
d
Fig. 10.4.4. Lente biconvessa e biconcava.
I piani principali di una lente sono individuati dai punti di intersezione dei
prolungamenti dei raggi provenienti dai fuochi con i prolungamenti dei raggi
all'infinito, paralleli all'asse ottico come illustrato in figura 10.4.5
d Piani d
Piani principali
principali
2° fuoco 1° fuoco
1° fuoco 2° fuoco
(virtuale) (virtuale)
f f' f
f'
Fig. 10.4.5. Piani principali di una lente spessa.
271
Il secondo fuoco o punto focale di una lente sottile, avente superfici curve, è il punto
F in cui convergono i raggi paralleli e prossimi all’asse centrale; una lente si dice
convergente se il fuoco è reale, divergente se esso è virtuale.
Quando una lente reale viene trattata come lente sottile si compie una
approssimazione, ovvero si considera trascurabile lo spessore della lente e si
considera che la deviazione dei raggi ottici avvenga in corrispondenza del piano a cui
viene idealmente ridotto lo spessore della lente come è mostrato in figura 10.4.6
Piani
principali
Asse ottico
f1 f2
f f'
1° fuoco R2 2° fuoco
R1
Fig. 10.4.6. Approssimazione di lente sottile.
Commentare la seguente affermazione: Per ogni lente sottile esistono due punti
focali.
Se l'indice di rifrazione dei mezzi a destra e a sinistra della lente sono uguali allora
f = f ′ . In tal caso, in analogia a quanto discusso nel caso degli specchi, la relazione
che lega la lunghezza focale f, la distanza p dell’oggetto dalla lente e la distanza q
dell’immagine dalla lente è
1 1 1
+ = (4.8)
p q f
e l’ingrandimento dell’immagine sarà dato da
272
q
M = (4.9)
p
dove la distanza focale è positiva o negativa a seconda che la lente sia convergente o
divergente, mentre le distanze dell’oggetto o dell’immagine sono positive o negative
a seconda se reali o virtuali. In generale, se f ≠ f ′ si avrà:
f f′
+ =1 (4.10)
p q
Da ora, salvo avviso contrario, considereremo sistemi ottici nei quali l'indice di
rifrazione dei mezzi a destra e a sinistra sono uguali, in tal modo f = f ′
f h
oggetto
p q
Immagine
reale
d
richiesto.
273
Come nel caso degli specchi (equazione (2.5)), anche l’ingrandimento di una
lente è dato da
q
M = −1 (4.11)
f
Assumeremo che si tratti di lenti convergenti con oggetti e immagini reali. In base a
quanto detto prima avremo
q⋅d q2
M = 2 −1 ⇒ M = 2
h h
la cui interpretazione geometrica deriva dal primo teorema di Euclide, secondo cui il
prodotto della proiezione di un cateto sull’ipotenusa e l’ipotenusa stessa è pari
all’area del quadrato costruito sul cateto stesso ed è illustrata nella Figura 10.4.8.
Si dimostri che
p
M −1 = −1 (4.12)
f
e se ne dia una interpretazione geometrica.
qd = c2 = q2 + h2
I q2
M=
h2
c2 = q2 + h2
h pq= h2
h c h2
p q h
q
p
q II p q2
d
Si dimostri che
⎡ 2 ⎤
⎢ δ ⎛ δ ⎞
M= + ⎜⎜ ⎟⎟ − 1⎥ ,
⎢2 f ⎝ 2 f ⎠ ⎥ (4.13).
⎣ ⎦
δ = p−q
274
−1 δ
Si noti che M − M = .
f
L'immagine di un oggetto i cui raggi ottici attraversano una lente può essere
ricostruita per via geometrica, ed è sufficiente operare come segue:
1) spiccare dal vertice dell'oggetto un raggio parallelo all'asse ottico, che per
definizione intercetterà il 2° fuoco una volta attraversata la lente,
2) in approssimazione di lente sottile, tracciare un raggio che passa per il punto di
intersezione tra asse della lente e l'asse ottico, tale raggio non subisce deviazioni;
in alternativa:
3) tracciare il raggio che unisce il primo fuoco al vertice dell'oggetto, per definizione
tale raggio uscirà parallelo dalla lente.
Il punto di intersezione dei raggi uscenti corrisponderà al vertice dell' immagine.
Le figure successive, assieme ad alcuni esempi serviranno a chiarire quanto abbiamo
enunciato sia nel caso di lenti convergenti che di lenti divergenti nelle quali i fuochi
sono virtuali.
Un oggetto OO’ si trova di fronte ad una lente sottile convessa di distanza focale
pari a 12 cm e ad una distanza pari a 20 cm dalla lente; si determini la posizione
e l’ingrandimento della sua immagine.
La relativa costruzione geometrica è mostrata nella Figura 10.4.9, mentre da un punto
di vista analitico si ottiene
1 1 1
+ = ⇒ q = 30 cm , M = 1.5
q 20 12
Si noti che essendo l’oggetto posto ad una distanza maggiore da 1° fuoco della lente
l’immagine è reale.
p q
f f
oggetto
Immagine reale
Ingrandita
Fig. 10.4.9. Lente biconvessa (convergente): costruzione geometrica dell' immagine
per di un oggetto posto ad una distanza dalla lente tale che p>f.
275
Un oggetto OO’ si trova di fronte ad una lente convessa di distanza focale pari a
7.5 cm e alla distanza di 5 cm; si determinino la posizione e l’ingrandimento
dell’oggetto.
1 1 1
+ = ⇒ q = −15 cm , M = 3
q 5 7.5
f f
1 ⎛1 1 ⎞
= −⎜⎜ + ⎟⎟
q ⎝p f ⎠
da cui segue che la distanza dell’oggetto dalla lente è sempre negativa e dunque
l’immagine è virtuale.
276
f' f
Immagine
oggetto
virtuale
q
p
Fig. 10.4.11. Lente biconcava (divergente). costruzione geometrica dell' immagine
per di un oggetto posto ad una distanza dalla lente tale che p>f '.
Si dimostri che due lenti sottili poste a contatto sono equivalenti ad una lente
sottile la cui distanza focale è legata a quella delle singole lenti da
1 1 1
= + (4.14)
f f1 f 2
Per rispondere al quesito notiamo che possiamo considerare separatamente l’effetto
delle due lenti; considerando l’azione della prima lente si ottiene dalla equazione dei
punti coniugati
1 1 1
= −
q1 p f1
Il valore assoluto è stato introdotto perché si deve tener conto delle varie possibilità.
Nel caso di lente convergente con immagine reale la q1 potrà essere interpretata come
la posizione dell’oggetto rispetto alla lente 2 (si ricordi che una lente sottile ha due
punti focali) per cui si ha
1 1 1 1
+ − =
q2 p f1 f 2
da cui segue quanto affermato.
La potenza di una lente viene detta diottria, si misura in m-1, ed è definito
dall’inverso della sua distanza focale.
Determiniamo la lunghezza focale di una lente utilizzando i risultati ottenuti per il
diottro sferico. Le relazioni saranno ricavate in approssimazione parassiale
utilizzando considerazioni puramente geometriche. Per una trattazione più rigorosa si
può consultare la vastissima scelta di testi dedicati all' ottica e all' ottica geometrica.
Abbiamo detto che una lente può essere vista come una sequenza di tre mezzi con
indice di rifrazione differenti separati da due superfici generalmente sferiche di raggi
277
Possiamo osservare che la distanza h tra l'asse ottico e il punto di incidenza sulla
seconda superficie diottrica può essere ricavato da due differenti relazioni
h = R2 sin (α )
(4.15)
h ≈ ( f1 − d ) tg (γ )
dove f1 è il secondo fuoco del primo diottro, R2 il raggio di curvatura del secondo
diottro, d lo spessore della lente e γ = θ i − θ t . L'angolo α verrà definito tra breve.
Immaginiamo ora di ruotare l'asse ottico di γ in modo da risultare parallelo al raggio
incidente sul secondo diottro come in figura 10.4.13
n3 < n2
n3 α = θ'i -γ
n2 β = θ't -α
θ'i
θ't
γ' = θ't -θ'i
α β
b r
γ f
R2 a
γ'
f2
r'
Fig. 10.4.13. Percorso di un raggio parallelo al nuovo asse ottico che attraversa il
secondo diottro.
278
In tal modo possiamo definire il secondo fuoco f2 del secondo diottro sul nuovo asse
ottico. Inoltre sussistono le seguenti relazioni angolari:
α = θ i′ − γ , β = θ t′ − α , γ ′ = θ t′ − θ i′ (4.16)
Osserviamo dalla figura che
f + R2 + b = (R2 + f 2 )cos(γ )
a
b= (4.17)
tg (β )
a = (R2 + f 2 )sin (γ )
Le precedenti relazioni ci permettono di calcolare, in approssimazione parassiale, il
secondo fuoco della lente. In approssimazione parassiale possiamo scrivere:
cos (γ ) ≈ 1 , sin (γ ) ≈ γ , tg (β ) ≈ β (4.18)
Effettuando le opportune sostituzioni otteniamo
⎡ γ⎤ ⎡ γ ⎤ γ′
f ≈ (R2 + f 2 ) ⋅ ⎢1 − ⎥ − R2 = (R2 + f 2 ) ⋅ ⎢1 − ⎥ − R2 = ( R 2 + f 2 ) ⋅ −R (4.19)
⎣ β⎦ ⎣ γ ′+γ ⎦ γ +γ ′ 2
operiamo ora nel seguente modo:
γ′ γ′
θ i′
γ′ θ i′ θ i′
= = (4.20)
γ + γ ′ θ γ + θ ′ γ ′ θi γ + γ ′
i
θi i
θ i′ θ i′ θ i θ i′
dalla legge di Snell e dalle equazioni del diottro sferico abbiamo:
θ i n2 θ i′ n3 R1 n γ R2 n 2 γ′
≈ , ≈ , = 1− 1 ≈ , = −1 ≈ (4.21)
θ t n1 θ t′ n2 f1 n2 θ i f 2 n3 θ i′
inoltre l'equazione (4.15) implica
θ i′ f1 + R2 − d γ
R2 (θ i′ − γ ) ≈ ( f1 − d ) γ → ≈ (4.22)
θi R2 θi
Utilizzando le relazioni (4.21) e (4.22), dalla (4.20) otteniamo
γ′
γ′ θ i′ R 1 f 1 + R2 − d
= = 2 = (4.23)
γ + γ ′ θi γ γ ′ f 2 R2
+
R2 f 2 + f 1 + R2 − d
+
θ i′ θ i θ i′ f 1 + R2 − d f 2
Che, sostituita nella (4.19), dopo qualche semplificazione, da
f 2 f1 − f 2 d
f = (4.24)
f 2 + f 1 + R2 − d
In approssimazione di lente sottile d→0 si ottiene:
1 1 1 R 1 n2 1 1
= + + 2 → = + (4.25)
f f1 f 2 f 2 f1 f n3 f 1 f 2
esprimendo la (4.25) in termini dei raggi di curvatura e degli indici di rifrazione
otteniamo infine:
279
1 n2 − n1 1 n2 − n3 1
= + (4.26)
f n3 R1 n3 R 2
se n3 = n1 si ottiene la così detta equazione degli ottici:
1 n 1 1
= ( 2 − 1)( − ) (4.27)
f n1 r1 r2
dove r1,2 sono i raggi di curvatura delle due superfici esterne presi con il loro segno
relativo (Si veda la Figura 10.4.14).
Se la lente è nel vuoto o in aria, approssimando l'indice di rifrazione dell' aria a 1,
l'equazione (13) diventa
1 1 1
= ( n − 1)( − ) (4.15).
f r1 r2
dove n è l’indice di rifrazione del mezzo costituente la lente.
p q
f f
oggetto
r2
r1
1 1 1
= (1.5 − 1)( − ) ⇒ f = 20 cm,
f 20 (−20)
1 1.5 1 1 .
=( − 1)( − ) ⇒ f = 70.23 cm
f 1.33 20 (−20)
Si consideri un sistema ottico costituito da due lenti sottili aventi distanze focali
di +9 e –6 cm rispettivamente, poste a contatto, si calcoli la distanza focale
risultante e si specifichi la natura della lente.
(R. –18 cm, ed è pertanto una lente divergente)
Concludendo questo paragrafo non possiamo non accennare al fatto che tanto meno
sono soddisfatte le condizioni di parassialità, tanto più insorgono fenomeni che
creano delle imperfezioni della costruzione dell'immagine di un oggetto. Si parlerà in
tal caso di aberrazioni ottiche. Questi effetti impongono l'utilizzo di sistemi di
correzione. Un effetto di immediata comprensione lo abbiamo menzionato
introducendo le condizioni di parassialità: i raggi ottici provenienti da una sorgente
posta all'infinito che incidono sulla superficie ottica a distanze diverse dall'asse ottico
del sistema focalizzano in punti differenti rispetto al fuoco parassiale. Tale effetto
prende il nome di astigmatismo. Un altro tipo di aberrazione, detta aberrazione
sferica assiale si ha negli specchi sferici; anche in questo caso raggi non parassiali
provenienti da una sorgente posta a infinito non convergono tutti nello stesso fuoco.
Si può porre rimedio a questo tipo di aberrazione utilizzando specchi parabolici: in
una superficie parabolica, infatti, raggi paralleli all'asse ottico convergono tutti nello
stesso fuoco. Una analisi delle aberrazioni ottiche prescinde dagli intenti di questo
libro; per un' approfondimento dell' argomento si rimanda agli innumerevoli testi di
ottica esistenti.
5. La fisiologia dell’occhio e l’ottica geometrica
In questo paragrafo e nel successivo vedremo come le nozioni testé apprese possano
essere utilizzate per comprendere alcuni dei meccanismi elementari alla base della
visione.
In Figura 10.5.1 abbiamo riportato schematicamente come è fatto un occhio umano,
che può essere considerato come un sistema di lenti aggiustabile con due elementi
focheggianti ed un elemento di ricezione della luce.
L’anatomia dell’occhio è quella riportata in figura; possiamo schematicamente
distinguere i seguenti elementi principali
a) la tunica esterna o prima membrana che comprende:
o la sclerotica, dura e opaca di colore bianco, costituisce i 5/6 del guscio
oculare;
281
La parte interna dell’occhio è riempita con materiale liquido, nella prima camera c’è
l’umor acqueo, nella seconda l’umor vitreo. Essi hanno indici di rifrazione molto
simili: 1.336 per l' umor acqueo, 1.337 per l'umor vitreo. Entrambi i liquidi hanno
dunque indici di rifrazione prossimi a quello dell’acqua che è all’incirca 1.33 come
già abbiamo avuto modo di vedere.
282
dove nc=1.406 e con ne intenderemo l'indice di rifrazione dell' umor vitro o dell' umor
acqueo indifferentemente, essendo molto simili. Tenuto conto che
⎧5.3 mm V
Re = ⎨ ,
⎩ 10 mm L
⎧ − 5.3 mm V
Ri = ⎨
⎩− 6.0 mm L
otteniamo i seguenti valori per visione da vicino (V) e lontano (L) rispettivamente
f c ≅ 50.6 mm, → 20 D V
.
f c ≅ 71.6 mm → 14 D L
L’occhio, in quanto strumento ottico, non può essere considerato come una semplice
lente sottile. Infatti, come mostrato in Figura 10.5.3, è un sistema ottico centrato
costituito da una successione di mezzi con indice di rifrazione differenti; utilizzando i
risultati precedenti possiamo comunque schematizzarlo, dal punto di vista diottrico,
come composto dalla cornea, da un tratto libero di lunghezza s ≅ 5 mm e dal
cristallino. La lunghezza focale di tale sistema, corrispondente ad una sorta di lente
spessa, può essere scritta, in base a quanto discusso nel paragrafo precedente come
FT = Fc + FC − s Fc FC (5.3)
da cui si evince una potenza diottrica totale di 56 D (corrispondente ad una lunghezza
focale di 19 mm) per visione da vicino e 51 D (lunghezza focale 21 mm) per la visione
da lontano.
Cornea
Cristallino
5 mm
Tenuto conto che q ≅ 2.5 cm possiamo determinare la distanza dell’oggetto (in metri)
in funzione del potere diottrico dell’occhio, che viene riportata, in scala logaritmica,
in Figura 10.5.4. Come è evidente la visione corretta di oggetti vicini richiede un alto
potere diottrico, e quindi una notevole distensione del cristallino per ridurre i raggi di
curvatura. Solo in giovanissima età (prima dei dieci anni) è possibile ottenere valori
della focale intorno a 53 che permettono di vedere distintamente oggetti fino ad una
distanza minima di 8 cm.
10
d (m)
1
0.1
0.01
40 45 50 55
F (m-1 ) 60
Fig. 10.5.4 Distanza minima di messa a fuoco in funzione del potere diottrico.
M
1
0.1
0.01 d (m)
1 .10 3
40 45 50 55
F (m-1 ) 60
da cui si evince che, alla distanza di 10 m, un oggetto alto un metro risulta avere una
altezza di immagine di circa 5 mm.
6. L’occhio e i difetti oculari
ipermetropia astigmatismo
Nel caso della miopia l' occhio risulta "allungato" di modo che, per oggetti lontani, il
punto focale non cade sulla retina ma davanti.
286
Non corretta
Corretta
Come risulta evidente dal grafico la visione da lontano risulta compromessa. Infatti
con 40 D il punto lontano risulta essere 0.75 m invece che di oltre 10m come nel caso
dell’occhio normale. Il difetto può essere corretto se si apporta una correzione di –3D
10
Occhio normale
d (m) Occhio miope
1 Correzione di -3D
0.1
0.01
40 45 50 55 60
F (m-1 )
Fig. 10.6.3. Confronto tra potere diottrico di occhio normale
e occhio affetto da miopia.
Non corretta
Corretta
In Figura 10.6.5 abbiamo riportato l’analogo della Figura 10.6.3 per il caso di un
occhio con q=0.024 m. In questo caso il grafico mostra una insufficiente
focalizzazione per gli oggetti lontani, nel caso dell’esempio citato una lente
convergente con F=+1.7D risulta essere sufficiente.
100
d (m)
10 Occhio normale
Occhio ipermetrope
Correzione di +1.7D
1
0.1
0.01
40 45 50 55
F (m-1 ) 60
La presbiopia è, come già detto, un effetto determinato dall’età, che causa una
progressiva perdita di aggiustabilità del cristallino, il quale non riesce ad assumere
quei raggi di curvatura che permettono una corretta visione da vicino. Si assiste
pertanto ad un progressivo spostamento del punto vicino, che in età giovanile è circa
25 cm.
Una idea di tale progressione con gli anni è data dalla Figura 10.6.6), dove abbiamo
riportato il punto vicino (espresso in cm) in funzione dell’età espressa in anni; dalla
Figura si evince che, intorno ai 60 anni il punto vicino è all’incirca 70 cm.
288
200
d (cm)
150
100
50
0
0 10 20 30 40 50 60 70
Età (anni)
Fig. 10.6.6. Spostamento progressivo del punto vicino, in cm, in funzione dell' età.
50
48
-1
F (m )
46
44
42
40
10 20 30 40 50 60 70
Età (anni)
Fig. 10.6.7. Massimo potere diottrico in funzione dell’età. La linea tratteggiata
corrisponde al potere diottrico per una distanza vicina pari a 25 cm.
7. Cenno agli strumenti ottici
E’ chiaro che, per quanto concerne l’aiuto alla visione per un occhio “malato”, la
correzione visiva, relativa alle patologie prima discusse, si ottiene utilizzando lenti
(divergenti o convergenti a seconda del problema) montate su occhiali. Esistono
comunque strumenti, che aiutano un occhio sano a vedere cose non altrimenti
distinguibili ad occhio nudo.
Uno di questi è la lente di ingrandimento illustrata in Figura 10.7.1, che è
essenzialmente una lente convergente utilizzata in modo che l'oggetto si trovi tra il 1°
fuoco e la lente così da dare un' immagine virtuale diritta e ingrandita; il principio di
funzionamento è una conseguenza pressoché immediata della equazione dei punti
coniugati. Se l’oggetto da osservare viene posto in maniera tale che l’immagine cada
intorno al punto vicino si ottiene un ingrandimento pari a (lo si provi)
M l = 1+ 0.25 F (7.1a),
(F in m-1) con una distanze dell’oggetto dalla lente pari a (lo si provi)
0.25 f
d0 = m (7.1b)
0.25 + f
α
h
25 cm
Immagine
virtuale h' α'
h' α' f f
= Ml = Ma
h α
Fig. 10.7.1. Lente di ingrandimento
d l
M = MO ≈ MO (7.2)
d0 fO
oculare
fe
l
Immagine d
virtuale
f0
ingrandita obiettivo
f0 d0
Nella Figura 10.7.3 si riporta un telescopio rifrattore ovvero un sistema di lenti che
permettono di osservare oggetti molto lontani, come ad esempio navi all’orizzonte o
corpi celesti. Lo strumento risulta composto da un obiettivo, attraversato dai raggi
provenienti dagli oggetti osservati, e da una seconda lente detta oculare. L’immagine
reale e capovolta cade proprio nel punto focale dell’oculare per cui forma una
immagine virtuale all’infinito, vista infine dall’osservatore.
Si dimostri che l’ingrandimento di tale strumento è dato da
f 0 F0
M = = (7.3).
f e Fe
291
f0 fe fe
Raggi provenienti da
un oggetto all’infinito
F0 Fe
obiettivo
Si è dunque visto che le lenti possono essere combinate per “manipolare” i raggi
ottici e un esempio è mostrato in Figura 10.7.4 dove riportiamo quello che si dice un
espansore di fascio, utilizzato nel trasporto dei fasci laser.
Immagine finale
(diritta) f0
fe
Raggi provenienti da
un oggetto all’infinito
obiettivo
oculare
Una lente convergente e una divergente sono collegate come mostrato in Figura
10.7.4 in modo che i loro fuochi coincidano. In tal caso si dimostri che il fascio è
f0
espanso di , ovvero del rapporto tra le lunghezze focali della lente
fe
convergente e divergente.
Chiariti i punti di cui sopra passiamo a discutere altri aspetti della visione, relativi
agli effetti diffrattivi; la trattazione sarà carente da un punto di vista teorico perché
accenneremo in maniera molto superficiale alle questioni inerenti la diffrazione,
riservandoci di ritornare nel seguito su tali problematiche.
292
8. Diffrazione e limite di risoluzione
Nei paragrafi precedenti abbiamo quasi dimenticato che la luce ha una natura
ondulatoria, perché abbiamo ignorato tutti quegli effetti in cui questa diventa
evidente.
Abbiamo già fatto notare che l’ottica geometrica non è più valida se consideriamo
fenomeni in cui le dimensioni delle lunghezze d’onda, associate all’onda che si
propaga, non sono trascurabili rispetto alle dimensioni degli “ostacoli” o delle
"aperture" che questa incontra. In tal caso cominciano a manifestarsi quelli che
vengono detti effetti di diffrazione.
Torneremo su queste problematiche nella seconda parte di queste lezioni, qui
facciamo solo notare che la diffrazione è una deviazione della luce rispetto a una
direzione di propagazione rettilinea e consiste nel piegarsi o diffondere attorno ai
bordi di un ostacolo o di una fenditura. La diffrazione da fenditura è un fenomeno
molto importante che viene illustrato in Figura 10.8.1, dove un fascio di raggi
luminosi paralleli di lunghezza d’onda λ incidono su una fenditura di larghezza D.
Al di là della fenditura si osserva su uno schermo quello che si dice una figura di
diffrazione ovvero zone illuminate e buie. Tale fenomeno è dovuto alla
sovrapposizione delle varie onde che giungono sullo schermo con una differenza di
fase legata all’angolo di deviazione dalla fenditura. In particolare le zone di buio sono
rivelabili ad un angolo θm dato da
D sin(θ m ) = m λ (8.1).
Figura di
diffrazione
λ
sin(θ 1) =
d
θ1
D
(Si noti che L è l’altezza di un triangolo isoscele di base g (indicato in azzurro nella
ϑc g
Figura) e si definisca tg ( )= …)
2 2L
Figura di
diffrazione da
due sorgenti
puntiformi
dello strumento) 3mm e 8mm (apertura massima) assumendo per la luce visibile una
lunghezza d’onda di 500 nm (circa a metà dello spettro).
1
3 mm
0.1
g(m)
0.01 8 mm
1 .10 3
1 .10 4
1 .10 5
0.1 1 10 100 103 104
L(m)
Fig. 10.8.3. Limite di risoluzione dell’occhio in funzione della distanza
dell’ oggetto per due valori di apertura pupillare.
La Figura mostra che l’occhio umano sarebbe in grado di risolvere due sorgenti
puntiformi distanti fra loro più di 70 cm alla distanza di 3 Km. Nel punto vicino si
potrebbe giungere fino alla decina di micrometri. La Figura 10.8.4 mostra il limite di
risoluzione in funzione della distanza per diverse lunghezze d’onda (violetto, blu,
rosso)
0.8
g(m) 700 nm
0.6
500 nm
0.4
0.2 300 nm
0
0 500 1000 1500 2000 2500 3000
L(m)
Fig. 10.8.4. Massimo potere risolutivo in funzione della distanza per tre diverse
lunghezze d’onda.
In Figura 10.8.5 viene mostrata il limite di risoluzione in funzione del Diametro per
500 nm e due differenti distanze (10 m e 1km).
295
(b)
0.1
g(m)
0.01
3
(a)
1 .10
4
1 .10
0.001 0.002 0.003 0.004 0.005 0.006 0.007 0.008
D(m)
Fig. 10.8.5. Limite di risoluzione in funzione del diametro pupillare per due
diverse distanze dell’oggetto: a) 10 m, b) 1 km.
Abbiamo visto come una lunghezza d’onda maggiore o minore determini una
maggiore o minore risoluzione a causa di effetti diffrattivi.
9. Aberrazione cromatica
La lunghezza focale di una lente dipende dalla lunghezza d’onda della radiazione
rifratta, come mostrato in Figura 10.9.1; ciò è dovuto al fatto che a lunghezze d’onda
minori corrispondono indici di rifrazione maggiori. Il fenomeno per cui non esiste un
unico fuoco per tutti i colori si chiama aberrazione cromatica. Il colore violetto è
focalizzato più del rosso; una conseguenza è l’effetto tri-dimensionale caratteristico
delle vetrate delle chiese medioevali, che mostrano figure in rosso sovrapposte a
sfondi blu. Ritorneremo con maggiore dettaglio sui problemi inerenti le aberrazioni in
generale e le aberrazioni cromatiche in particolare.
Crown Flint
Doppietto acromatico
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