Sei sulla pagina 1di 301

See discussions, stats, and author profiles for this publication at: https://www.researchgate.

net/publication/260750163

APPUNTI DI FISICA GENERALE APPLICATA

Data · March 2014

CITATIONS READS

0 10,481

10 authors, including:

Franco Ciocci Giuseppe Dattoli


ENEA ENEA
152 PUBLICATIONS   1,173 CITATIONS    951 PUBLICATIONS   7,547 CITATIONS   

SEE PROFILE SEE PROFILE

Some of the authors of this publication are also working on these related projects:

definition of a free electron laser facility for fundamental physics View project

Development of a new coherent electromagnetic source for plasma heating View project

All content following this page was uploaded by Giuseppe Dattoli on 13 March 2014.

The user has requested enhancement of the downloaded file.


APPUNTI DI FISICA GENERALE APPLICATA

PARTE PRIMA
Meccanica classica, energia meccanica, meccanica dei fluidi
acustica, ottica geometrica e aspetti correlati di fisiologia umana

FRANCO CIOCCI, GIUSEPPE DATTOLI


ENEA – Unità Tecnica Sviluppo Applicazioni delle Radiazioni
Laboratorio Modellistica Matematica
Centro Ricerche Frascati, Roma

RT/2012/26/ENEA
AGENZIA NAZIONALE PER LE NUOVE TECNOLOGIE,
LʼENERGIA E LO SVILUPPO ECONOMICO SOSTENIBILE

APPUNTI DI FISICA GENERALE APPLICATA

PARTE PRIMA
Meccanica classica, energia meccanica, meccanica dei fluidi
acustica, ottica geometrica e aspetti correlati di fisiologia umana

FRANCO CIOCCI, GIUSEPPE DATTOLI


ENEA – Unità Tecnica Sviluppo Applicazioni delle Radiazioni
Laboratorio Modellistica Matematica
Centro Ricerche Frascati, Roma

RT/2012/26/ENEA
I Rapporti tecnici sono scaricabili in formato pdf dal sito web ENEA alla pagina
http://www.enea.it/it/produzione-scientifica/rapporti-tecnici

I contenuti tecnico-scientifici dei rapporti tecnici dell'ENEA rispecchiano l'opinione degli autori e
non necessariamente quella dell'Agenzia.

The technical and scientific contents of these reports express the opinion of the authors but not
necessarily the opinion of ENEA.
APPUNTI DI FISICA GENERALE APPLICATA

PARTE PRIMA

Meccanica classica, energia meccanica, meccanica dei fluidiacustica, ottica geometrica e aspetti correlati di fisiologia
umana

FRANCO CIOCCI, GIUSEPPE DATTOLI

Sommario
In questo libro, diviso in tre parti, si presenta un corso di Fisica Generale secondo gli schemi convenzionali di
Meccanica, Termodinamica ed Elettromagnetismo.
Meno convenzionale è la presentazione del materiale, che viene arricchita da riferimenti alla Fisiologia e a questioni di
sicurezza elettromagnetica e di fisica delle radiazioni, di solito non trattate nei testi tradizionali.
La prima parte delle lezioni contiene, oltre ai doverosi richiami di calcolo algebrico e vettoriale, nozioni di meccanica
classica, meccanica dei fluidi e ottica geometrica, presentati con riferimento alle relative applicazioni fisiologiche e di
natura pratica.
In particolare ai capitoli dedicati ai concetti di forza, energia e potenza e ai moti armonici, segue un capitolo dedicato
alla statica e alla dinamica del corpo umano, ai consumi energetici fisiologici e agli effetti di urti e vibrazioni.
I concetti di idrostatica e idrodinamica, trattati nei successivi capitoli, vengono correlati agli aspetti salienti della fisica
del sistema cardiocircolatorio e questioni più tecniche sul funzionamento dei sistemi idraulici.
Al capitolo dedicato all'acustica e alla propagazione delle onde sonore seguono approfondimenti concernenti sia gli
aspetti tecnici che fisiologici.
Le problematiche associate all’inquinamento acustico vengono esaminate in dettaglio discutendo varie nozioni di natura
tecnica insieme agli strumenti di misura.
Si analizzano inoltre l’apparato acustico umano nonché gli strumenti diagnostici che sfruttano le proprietà delle onde
acustiche, come le apparecchiature ecografiche, dei quali le moderne tecnologie ne hanno permesso la realizzazione.
Infine nel capitolo dedicato all'ottica ed in particolare all'ottica geometrica, trovano ampio spazio lo studio di varie
strumentazioni ottiche e una illustrazione del funzionamento dell'occhio, una analisi delle cause dei principali difetti
visivi.

Summary
This book, consisting of three parts, deals with a presentation of Mechanics, Thermodynamics and Electromagnetism.
The various topics treated in the course of these lectures are presented in a non- conventional way and specific
applications as e. g. human physiology and security are discussed.
The first part covers notions of classical mechanics, fluid mechanics and geometrical optics, along with applications of
technical nature.
In particular, the classical treatment of forces, energy, power and harmonic motions, is complemented by general
considerations on the stability and dynamics of the human body, energy consumption and physiological effects of shock
and vibrations.
The concepts of hydrostatics and hydrodynamics are treated along with the aspects relevant to the physics of the
cardiovascular system and to technical problems concerning the hydrodynamic transport.
The chapter on acoustics and the propagation of sound waves is followed by a fairly deep insight of the operation of the
apparatus of the ear and human acoustics as well as an illustration of the diagnostic tools that exploit the properties of
sound waves, such as ultrasound devices.
Technical notions concerning the acoustical noise are carefully discussed too.
The chapter devoted to optics and geometric optics, contains a wide illustration of the functioning of the eye. An
analysis of the causes of major visual defects is given along with a discussion on the properties and the use of the most
common optical instruments.
3

INTRODUZIONE

Questa serie di lezioni è la versione, notevolmente ampliata, di un primo esperimento


ad opera di uno dei presenti autori in collaborazione con il Prof. Boccia, medico
igienista (A. Boccia e G. Dattoli, Appunti di Fisica per Scienze Sanitarie, Aracne
editrice 2004 ). L’intendimento era quello di portare l’insegnamento della FISICA ad
un livello il più possibile fruibile da studenti dei corsi di laurea legati alle professioni
sanitarie.
Questa nuova versione conserva la medesima impostazione della precedente e,
preservandone lo spirito, allarga le prospettive in modo da rivolgersi ad una platea
più ampia, che coinvolge non solo gli studenti di scienze sanitarie ma anche chi si
avvia allo studio delle scienze ambientali e della prevenzione e sicurezza.
Il libro è pertanto il frutto di uno sforzo globale e viene accompagnato da un manuale
di Calcolo (A. Boccia, F. Ciocci e G. Dattoli Lezioni di Calcolo, Editrice Kappa
(2005)) dove vengono presentati gli elementi di matematica, utili per chi intraprenda
gli studi prima citati.
Abbiamo utilizzato l’aggettivo fruibile per questa serie di lezioni, tenendo a
sottolineare che il loro scopo non è solo quello, immediatamente utilitaristico, di
strumento finalizzato al superamento dell’esame, ma anche di elemento di riferimento
e di base per una più completa preparazione professionale.
Non è il caso di sottolineare quali siano le basi fisiche della fisiologia del corpo
umano e a ciò rispondono egregiamente i libri di Fisica Medica editi sia in Italia che
all’estero. E’ altresì importante porre in evidenza quanto degli aspetti prettamente
fisici possano interessare chi si occupi di prevenzione sui luoghi di lavoro e chi è
interessato a problematiche di tipo ambientale.
L’apporto di tecnologie avanzate alla Scienza Medica è in costante aumento e
progredisce di pari passo con lo sviluppo delle tecnologie medesime.
L’uso dei Laser è oramai diventato di routine in molti settori della chirurgia; gli
acceleratori di particelle cariche (protoni ed elettroni) giocano un ruolo di primaria
importanza nella terapia dei tumori; tecniche di analisi, basate sulla Risonanza
Magnetica Nucleare, sono uno strumento diagnostico indispensabile; l’effetto
Doppler fa oramai parte della cultura di base dei medici e le sue applicazioni sono
ben note e documentate. Tecniche di imaging che utilizzino la cosiddetta Luce di
Sincrotrone e il laser ad elettroni liberi forniranno, nel prossimo futuro, strumenti
rivoluzionari sia dal punto di vista diagnostico, sia dal punto di vista delle ricerca in
campo Medico e Biologico.
E’ dunque evidente che l’evolvere dei sistemi di indagine e delle tecnologie associate,
pone sempre nuovi problemi di qualificazione e di riqualificazione, insieme alla
definizione di nuove figure professionali.
Per quanto riguarda l’impatto ambientale o protezionistico sui luoghi di lavoro, non si
possono tacere problematiche legate ad esempio a effetti (veri o presunti) di
4

riscaldamento globale o cambiamento del clima, per citare problemi di portata


planetaria, o, su scala più limitata, problemi di elettrosmog o di tutela del benessere
delle persone in ambiente di lavoro, tramite il controllo del microclima. La
comprensione delle problematiche appena citate richiede adeguate conoscenze in
ambito fisico che possono essere acquisite tramite corsi di tipo istituzionale con una
maggiore finalizzazione verso specifici settori di interesse.
L’Università è pertanto impegnata in prima persona nella definizione di nuovi
programmi, di nuovi corsi e di nuovi modelli e stili didattici che favoriscano una
corretta e adeguata formazione di questi nuovi quadri professionali.
Tra i futuri operatori sanitari, i tecnici dell’ambiente e della prevenzione e gli
operatori sanitari sono, in particolare, chiamati ad uno sforzo ed un impegno
considerevoli, che richiedono conoscenze di Fisica non superficiali anche se non
eccessivamente specialistiche e settoriali.
E’ stato allora necessario “inventare” un corso di lezioni che tenesse conto di tutte
queste esigenze e che fornisse, nel modo più pragmatico possibile, quegli elementi
necessari e ritenuti più utili rispetto agli obiettivi che ci siamo proposti.
Abbiamo cercato di fornire una visione che sfrondasse i problemi da ogni possibile
astrazione, fornendo, ogni volta che veniva introdotto un nuovo concetto fisico, una
sua applicazione in campo medico sanitario.
Per dare un esempio, tendente a chiarire il metodo cui ci siamo ispirati, notiamo che
nell’ambito della trattazione del Teorema di Bernoulli abbiamo fatto ampio
riferimento, come di consueto, al sistema circolatorio, arricchendo tali considerazioni
con nozioni relative all’utilizzo dell’effetto Doppler per la diagnosi di aneurismi o di
stenosi.
Abbiamo inserito qualche nozione relativa agli acceleratori di particelle cariche, ai
laser e al loro uso in medicina. La parte di trattazione sull’elettromagnetismo è stata
preparata in modo da rendere chiaro l'impatto di tali problematiche in ambito
fisiologico ed ambientale.
Abbiamo inserito nozioni di Fisica tecnica che permettessero di comprendere concetti
associati al controllo del “rumore” e del microclima.
Le presenti lezioni hanno una valenza molteplice, che va al di là dello specifico delle
scienze strettamente sanitarie.
Abbiamo fatto notare in premessa l’emergere di nuove professioni, determinato dallo
sviluppo sociale e dalle problematiche conseguenti allo sviluppo tecnologico e alle
problematiche ambientali a tutela della salute dei cittadini. Termini quali
inquinamento elettromagnetico, acustico e così via sono ormai di uso comune. Le
presenti lezioni sono state infine scritte anche con l’intento di spiegare nella maniera
più diretta possibile come nozioni di Fisica generale si traducano in indicazioni utili
per il legislatore, per emanare norme in difesa della salute, in ambito ambientale e sui
luoghi di lavoro.
Per tale motivo le lezioni contengono qualche digressione sul dispendio energetico in
ambiente lavorativo, sul microclima, sulla misura del rumore, sulla movimentazione
dei carichi etc…
5

Vogliamo qui esprimere il nostro sincero ringraziamento al Prof. Leonardo Merola


del dipartimento di Fisica dell’Università Federico II di Napoli per la severa revisione
di tutte e tre le parti del libro, per averne corretto errori, sbilanciamenti e per
suggerimenti di presentazione didattica. Teniamo pertanto a sottolineare che è grazie
ai suoi consigli e alla sua attenta analisi critica se la presente opera ha acquisito una
veste unitaria. Inoltre l’ultimo Capitolo della prima parte ha notevolmente beneficiato
delle sue lezioni di Ottica presso l’Università di Napoli [1].
Abbiamo anche attinto a piene mani dalle lezioni di Fisica della Professoressa
Caterina Guiot dell’Università di Torino [2] e teniamo ad esprimerle la nostra sincera
riconoscenza per averci permesso un libero uso delle sue presentazioni in Power
Point.
Il competente aiuto del Dr. Sandro Sandri dell’ENEA di Frascati è stato altrettanto
prezioso per la revisione del Capitolo VIII della terza parte delle lezioni, in cui sono
stati trattati problemi di Fisica delle radiazioni e di dosimetria.
Alcuni aspetti di Fisiologia in particolare per quanto concerne la Fisica del cuore
hanno beneficiato del corso di Lezioni del Prof. Walter Lewin dell’MIT di Boston
[3], la cui chiarezza espositiva è stata un continuo stimolo al miglioramento del testo
sia nella forma che nel contenuto.

F. Ciocci
Gruppo Fisica Teorica e Matematica Applicata
Unità Tecnica Sviluppo di Applicazioni della Radiazione
ENEA - FRASCATI

G. Dattoli
Responsabile
Gruppo Fisica Teorica e Matematica Applicata
Unità Tecnica Sviluppo di Applicazioni della Radiazione
ENEA - FRASCATI

Roma, Marzo 2012.


6
7

INDICE GENERALE
CAPITOLO I 
RICHIAMI DI ALGEBRA E DI CALCOLO VETTORIALE 
1. Considerazioni introduttive: dimensioni, unità di misura e notazione scientifica ................................ 10 
2.  Richiami di trigonometria ............................................................................................................................. 19 
3.  Elementi di calcolo vettoriale ........................................................................................................................ 26 
CAPITOLO II 
ELEMENTI DI MECCANICA 
1.  Elementi di cinematica: moto dei corpi con velocità costante e moto uniformemente accelerato .... 34 
2.  Moti bidimensionali e moto circolare uniforme ......................................................................................... 44 
3.  Elementi di dinamica ...................................................................................................................................... 52 
4.  La quantità di moto ........................................................................................................................................ 61 
5.  Il momento della quantità di moto ............................................................................................................... 66 
6. Cenno alla forza gravitazionale .................................................................................................................... 69 
7.  Cenno alle forze apparenti............................................................................................................................. 72 
8.  Momenti delle forze e condizioni generali di equilibrio ............................................................................ 76 
CAPITOLO III 
LAVORO, POTENZA ED ENERGIA 
1.  Il lavoro............................................................................................................................................................. 80 
2. Forze di attrito dipendenti dalla velocità..................................................................................................... 87 
3.  Lavoro ed energia potenziale per forze non costanti ................................................................................ 91 
4. Conservazione dell’energia negli urti ........................................................................................................... 95 
5.  La potenza ........................................................................................................................................................ 96 
6.  Le macchine semplici .................................................................................................................................... 100 
7.  Cenno alla dinamica dei corpi rigidi .......................................................................................................... 104 
CAPITOLO IV 
MOTO ARMONICO, VIBRAZIONI, ELASTICITA’ 
1.  Generalità sul moto armonico..................................................................................................................... 113 
2.  Alcune considerazioni sulle forze di tipo elastico .................................................................................... 116 
3.  Densità e elasticità ........................................................................................................................................ 120 
4.  Moti ondulatori.............................................................................................................................................. 125 
5.  Le onde: ulteriori approfondimenti ............................................................................................................ 129 
CAPITOLO V 
STATICA E DINAMICA DEL CORPO UMANO 
1.   Introduzione: i sistemi di leve e la statica del corpo umano.................................................................. 137 
2.  Statica della colonna vertebrale ................................................................................................................. 146 
3.  Problemi di urto e cadute............................................................................................................................. 148 
4.  Alcune considerazioni sul dispendio energetico del corpo umano........................................................ 153 
5.  Alcune nozioni pratiche sulla movimentazione dei carichi .................................................................... 155 
6.  Le vibrazioni e gli effetti sulla salute umana ............................................................................................ 158 
CAPITOLO VI 
CENNI DI IDROSTATICA E IDRODINAMICA 
1.  Introduzione e concetto di pressione ......................................................................................................... 162 
2.   La tensione superficiale e l’equazione di Laplace ................................................................................... 172 
3.  Il teorema di Bernoulli e le sue conseguenze ............................................................................................ 174 
4.  Viscosità e moto turbolento ......................................................................................................................... 179 
 
8

CAPITOLO VII 
LA FISICA DEL SISTEMA CARDIO-VASCOLARE 
1.  Introduzione .................................................................................................................................................. 185 
2.  La fisica del cuore.......................................................................................................................................... 187 
3.  La pressione e il flusso sanguigno .............................................................................................................. 191 
4.  La pressione transmurale ............................................................................................................................ 197 
5.  Emodinamica e viscosità .............................................................................................................................. 199 
6.  Sistema vascolare ed effetti di moto turbolento....................................................................................... 204 
CAPITOLO VIII 
ONDE SONORE E NOZIONI DI ACUSTICA 
1.  Introduzione e generalità sul suono .......................................................................................................... 207 
2.  Caratteri distintivi dei suoni ....................................................................................................................... 211 
3.  Il decibel come misura del livello sonoro .................................................................................................. 213 
4.  Cenno alla trasmissione e riflessione dei suoni ........................................................................................ 218 
5.  Effetto Doppler............................................................................................................................................... 221 
CAPITOLO IX 
ELEMENTI DI FISIOLOGIA DELL’ORECCHIO E DI ACUSTICA DEL CORPO UMANO 
1.  Caratterizzazioni dell’orecchio umano e sue funzioni ............................................................................ 227 
2.  Principi di funzionamento dei dispositivi per indagine ecografica ...................................................... 237 
3.  L’effetto Doppler come strumento diagnostico ........................................................................................ 242 
4.  La fisica dello stetoscopio ............................................................................................................................ 245 
5.  Cenni alla fisiologia del sistema vocale ..................................................................................................... 247 
CAPITOLO X 
OTTICA GEOMETRICA, LENTI E FISIOLOGIA DELL’OCCHIO UMANO 
1.  Introduzione .................................................................................................................................................. 250 
2.  Specchi ............................................................................................................................................................ 253 
3.  La rifrazione ottica ....................................................................................................................................... 260 
4.  Le lenti ............................................................................................................................................................ 267 
5.  La fisiologia dell’occhio e l’ottica geometrica ........................................................................................... 280 
6.  L’occhio e i difetti oculari ............................................................................................................................. 285 
7.  Cenno agli strumenti ottici .......................................................................................................................... 289 
8.  Diffrazione e limite di risoluzione .............................................................................................................. 292 
9.  Aberrazione cromatica................................................................................................................................. 295 
9
10

CAPITOLO I
RICHIAMI DI ALGEBRA E DI CALCOLO VETTORIALE

1.  Considerazioni  introduttive:  dimensioni,  unità  di  misura  e  notazione 


scientifica 

Questo Capitolo è anomalo rispetto agli altri, perché contiene una serie di nozioni
introduttive propedeutiche alla comprensione di quanto seguirà.
Sebbene abbiamo tentato di ridurre al minimo la matematica utilizzata, abbiamo
ritenuto opportuno premettere alcuni richiami relativi alla notazione scientifica,
calcolo dei logaritmi e calcolo vettoriale.
Data l’importanza di tali nozioni basilari, invitiamo il lettore ad un' attenta lettura del
materiale esposto in questo e nel prossimo paragrafo.
La Fisica è prima di tutto una scienza sperimentale. Pertanto il concetto stesso di
misura è alla base di tale scienza; in tale contesto è dunque determinante introdurre
opportune unità che permettano di definire la misura in maniera oggettiva e
universale.

Prima di introdurre tali unità è opportuno definire, in un ambito più astratto, l’oggetto
di tali misure.
Consideriamo l’ambito ristretto dell’esperienza quotidiana in cui in maniera naturale
utilizziamo i concetti di Lunghezza [L] , Tempo [T ] e Massa [M ] . Queste quantità, che
costituiscono il perno delle nostre percezioni, sono quelle che, nell’ambito della
meccanica, sono dette “dimensioni fondamentali”, le altre saranno dette dimensioni
derivate.
Per chiarire i concetti precedenti, introdurremo le cosiddette equazioni dimensionali,
che sono uno strumento utilissimo e imprescindibile per specificare il contenuto
dimensionale di una data grandezza fisica. Tali equazioni non indicano un valore
numerico, ovvero quanto è lungo un tavolo o quanto tempo è trascorso o a che
velocità si muove un oggetto ma solo le dimensioni con cui una data grandezza deve
essere espressa e tali dimensioni vengono di solito riportate tra parentesi quadre. E’
opportuno precisare che le equazioni dimensionali sono uno strumento altamente
concettuale, che prescinde da specifiche unità di misura e che precisano l’intima
essenza delle quantità in esame.
La velocità è ad esempio una dimensione derivata dalla combinazione della
lunghezza e del tempo; è esperienza comune che la velocità di un automobile si
esprime come una lunghezza divisa per un tempo e avremo pertanto

[V ] = ⎡⎢ L ⎤⎥ (1.1).
⎣T ⎦
11

1
Ricordando che = T −1 potremo riscrivere la (1.1) come segue
T
[V] = [LT-1] (1.2).
E’ evidente, che a parte le parentesi quadre, per le equazioni dimensionali valgono le
stesse regole algebriche delle equazioni ordinarie. Notiamo infatti che
l’accelerazione, definita come una velocità divisa un tempo, può essere espressa, in
termini di dimensioni fondamentali, come segue
[A] = [VT-1] = [LT-2] (1.3).
Come utile esercizio possiamo derivare l’equazione dimensionale della forza che, dal
secondo principio della dinamica, si definisce come massa per l’accelerazione,
ottenendo pertanto, dalle relazioni precedenti, quanto segue
[F] = [MA] = [MLT-2] (1.4).
Vediamo ora come si possano utilizzare le equazioni dimensionali per ottenere una
informazione che vada al di là del semplice contenuto dimensionale. Il lavoro in
meccanica viene definito come il prodotto di una forza per uno spostamento, lo
spostamento ha ovviamente le dimensioni di una lunghezza; potremo pertanto
scrivere il relativo contenuto dimensionale come
[E] = [FL] = [ML2T-2] (1.5).
Abbiamo indicato il lavoro con E perché, come vedremo in seguito, esso è una forma
di energia. Notiamo a questo punto che
[ L2T-2] = [(LT-1 )2] = [V 2] (1.6)
per cui potremo anche scrivere
[E] = [MV 2] (1.7).
Grazie a questa ultima relazione abbiamo stabilito che il lavoro o l’energia può essere
espresso anche come una massa per il quadrato di una velocità. Vedremo in seguito
che tale informazione non è affatto secondaria e sarà derivata nell’ambito del
cosiddetto teorema delle forze vive.
Abbiamo visto che tutte le possibili combinazioni fra dimensioni sono date da
operazioni di moltiplicazione o di divisione e deve essere chiaro che altri tipi di
combinazioni tramite operazioni di addizione o sottrazione tra dimensioni non
omogenee non hanno alcun senso; pertanto qualsiasi calcolo che porti a relazioni del
tipo
[L+ T ] , [M2 +L]… (1.8)
è da ritenersi ERRATO.
Chiariti i punti di cui sopra, vediamo di specificare un sistema di unità di misura che
ci permettano di dare un valore numerico alle dimensioni di cui sopra.
12

Nell’ambito di queste lezioni adotteremo il sistema MKS (metro, chilogrammo,


secondo) per definire, rispettivamente l’unità di lunghezza, l’unità di massa e l’unità
di tempo.
Definiremo preliminarmente tali quantità adottando una definizione che ha un valore
storico e non del tutto preciso, riservandoci una definizione meno approssimativa
quando avremo recepito ulteriori nozioni.
Ricordiamo pertanto che il metro è la milionesima parte del meridiano terrestre che
collega il polo nord con l’equatore passando vicinissima a Parigi.
Il secondo è la 86400-ma parte del giorno solare medio.
Il chilogrammo corrisponde alla massa di un decimetro cubo di acqua distillata alla
temperatura di 4o C al livello del mare e a 45o di latitudine.
Dopo questa sommaria introduzione sull’uso e l’importanza delle dimensioni e delle
unità di misura in Fisica passiamo a descrivere un metodo di calcolo veloce per
eseguire stime di grandezze fisiche utilizzando una tecnica basata sulla cosiddetta
notazione scientifica.
Ricordiamo pertanto alcuni elementi di algebra elementare utili per eseguire
operazioni basate sulle potenze in base 10.
Ricordiamo pertanto che con la notazione
am (1.9)
si intende la potenza m-esima della base a.
Inoltre per le operazioni di prodotto e di divisione tra potenze con la stessa base, si
opera come segue

a m ⋅ a n = a m+n ,
am (1.10).
n
= a m −n
a
Dalle relazioni precedenti si può anche dedurre che
a 0 = 1,
1
a −m = ,
am (1.11).
( a m ) n = a m⋅n
E’ infine opportuno ricordare che
1
a =ma
m
(1.12).
Le relazioni precedenti costituiscono gli elementi essenziali delle regole relative al
calcolo in notazione scientifica. Consideriamo la seguente operazione 6000 · 40000;
per eseguire tale calcolo, senza utilizzare le regole ordinarie della moltiplicazione,
notiamo che 6000 = 6·103 e 40000 = 4·104 per cui 6000·40000 = 6·103 · 4·104 = 24·107 = 2.4·108.
Se invece si vuole eseguire una operazione del tipo 0.003 · 0.07 potremo procedere
notando che
13

0.003 = 3 ⋅ 10 −3 ,
0.07 = 7 ⋅ 10 −2
in modo di avere

0.003 ⋅ 0.07 = 7 ⋅ 3 ⋅ 10 −3 ⋅ 10 −2 = 2.1 ⋅ 10 −4 .

Vediamo ora come sia possibile utilizzare la notazione scientifica per eseguire
operazioni di estrazione di radice; calcoliamo ad esempio 1000 . In base a quanto
detto in precedenza avremo
3 1
1000 = 10 = 10 = 10 ⋅ 10 = 10 ⋅ 10 .
3 2 2

Approssimando 10 con 3.3 si ottiene 1000 ≅ 33 .


Vediamo ora di specificare il significato della precedente approssimazione; notiamo
prima di tutto che il simbolo ≅ significa “circa uguale a”, per chiarire quanto la nostra
stima devia da quella esatta, dovremo fornire una valutazione di quella che si chiama
deviazione percentuale che si calcola come segue. Indicato con aE il valore esatto e
con aA quello approssimato, definiremo con la seguente quantità la deviazione
relativa o l’errore relativo dell’approssimazione dal valore esatto
aE − a A
Δ= (1.13).
aE
Se Δ è un numero positivo la nostra approssimazione è ottenuta per difetto, viceversa
per eccesso.
Di solito si definisce la deviazione assoluta data da
aE − a A
Δa = (1.14),
aE
che indica il valore assoluto della deviazione indipendentemente che questa sia per
eccesso o per difetto.
Tornando al calcolo della 1000 , potremo calcolare un valore di Δ pari a − 0.042 ,
cioè una approssimazione per eccesso. Di solito la deviazione si esprime in termini
percentuali e riferendoci alla deviazione assoluta diremo che la nostra
approssimazione ha una validità del 4.2%.
Avendo parlato di approssimazioni è bene sottolineare che esistono metodi
approssimati per eseguire le radici quadrate; a tale scopo si noti che, se x < 1 ,
1 1
1+ x ≅ 1+ x − x2 (1.15).
2 8
3
Così ad esempio se volessimo calcolare potremmo procedere come segue
2
2
3 1 1 1 1⎛1⎞
= 1+ ≅ 1+ ⋅ − ⎜ ⎟
2 2 2 2 8⎝ 2⎠
14

da cui si evince un valore approssimato pari a 1.219 da confrontare con un valore


“esatto” di 1.225. In base a quanto detto in precedenza il valore calcolato rappresenta
un'approssimazione per difetto con un errore percentuale di circa lo 0.5%. E’ evidente
che l’approssimazione migliora per valori minori di x.
Un'altra utile approssimazione riguarda forme frazionarie del tipo
1
≅ 1− x + x2 , x < 1 (1.16),
1+ x
e si invita il lettore ad effettuare qualche approssimazione verificandone
l’accuratezza.
Le funzioni circolari, sin(α) e cos(α), possono essere approssimate, per piccoli
angoli, come segue
α3
sin(α ) ≅ α − ,
6
(1.17).
α2
cos(α ) ≅ 1 −
2
Per quanto concerne la notazione adopereremo qualche volta il simbolo di
sommatoria, intendendo che
n

∑x
i =1
i = x1 + x 2 + ... + x n (1.18).
E’ bene sottolineare che a volte con il metodo della notazione scientifica si è più
interessati a valutare quello che si chiama un ordine di grandezza piuttosto che un
valore definito.
Per chiarire il significato dell’ordine di grandezza, di solito indicato con odg ,
consideriamo il numero a·10m, dove a è un numero compreso tra 0 e 10; se m è
positivo allora si avrà che l’odg del numero in questione è m se a <5, m+1 se a >5.
Nel caso in cui il nostro numero sia espresso come a·10 -m il suo odg sarà dato da
−m se a <5, −m+1 se a >5.
Prima di concludere questo paragrafo introduttivo è il caso di dare alcune definizioni
di multipli e sottomultipli spesso usati in Fisica e nel linguaggio corrente. Si sente a
volte parlare di chilowatt, millisecondo, megajoule e così via. I prefissi chilo, mega e
milli vengono utilizzati per indicare multipli e sottomultipli dell’unità di riferimento
(watt, secondo o joule).
Di seguito indicheremo multipli e sottomultipli e la relativa terminologia

MULTIPLI VALORE
Tera (T) 10 12
Giga (G) 10 9
Mega (M) 10 6
Chilo (K) 10 3
Etto (H) 10 2
Deca (D) 10
15

Sotto VALORE
MULTIPLI
deci (d) 10 -1
centi (c) 10 -2
milli (m) 10 -3
micro ( μ ) 10 -6
nano (n) 10 -9
pico (p) 10 -12

In base alle tabelle precedenti comprendiamo che un milli-secondo significa un


millesimo di secondo, mentre un chilowatt 1000 watt e un megajoule un milione di
joule.
Nel corso di queste lezioni useremo i logaritmi a vario titolo, ad esempio discuteremo
la misura del livello di rumore.
I logaritmi sono uno strumento matematico elementare, ma sempre sorgente di
ricorrenti preoccupazioni da parte degli studenti e, data la loro importanza pratica,
discuteremo in questo paragrafo le loro proprietà con un certo dettaglio.
Un tempo il calcolo dei logaritmi si eseguiva con il regolo o con l’ausilio di tavole e
bisognava pertanto conoscere alcuni metodi di calcolo. Oggi il calcolo può essere
agevolmente eseguito con una calcolatrice e, pertanto, tediose procedure non sono più
necessarie. E’ tuttavia necessario che il concetto di logaritmo di un numero sia
chiaro, sebbene il calcolo di queste quantità sia pressoché automatico,
Consideriamo il numero 100.000, che in notazione scientifica scriveremo come 105,
ovvero come 10 elevato alla quinta potenza e 5 è l’esponente della potenza in base
10. Talvolta si dice che l’esponente 5 è il logaritmo in base 10 di 105 e viene indicato
con la notazione log10(105).
Più in generale indicheremo con x = log a b il logaritmo in base a di b come quel
“numero cui bisogna elevare a per ottenere b”; pertanto se scriviamo
x = log a b (1.19)
avremo, in base alla definizione precedente
ax = b (1.20)
E’ dunque evidente che log 4 64 = 3 .
Cerchiamo ora di chiarire i concetti precedenti utilizzando qualche semplice esempio.

Si risolva la seguente equazione


log16 64 = x

In base a quanto già detto si ha


16 x = 64
La nostra strategia per risolvere la precedente equazione esponenziale sarà quella di
esprimere le potenze nella stessa base, ottenendo
24 x = 26
16

3
da cui, uguagliando gli esponenti, si ottiene la soluzione come x =.
2
In base alla definizione di logaritmo otteniamo che qualsiasi numero x potrà essere
espresso come (b>1)
x = blogb x (1.21).
Veniamo ora alle proprietà dei logaritmi che potranno essere espresse come segue
log b ( xy ) = log b x + log b y
x
log b ( ) = log b x − log b y ,
y (1.22).
log b ( x n ) = n log b x
La dimostrazione della prima delle equazioni (1.22) è pressoché immediata.
Utilizzando la relazione (1.21) si ha

log b ( xy ) = log b (b log b x + log b y ) = log b x + log b y (1.23).

Le altre relazioni si dimostrano in maniera analoga e si invita il lettore ad eseguire la


dimostrazione per proprio conto.
I seguenti casi particolari sono particolarmente importanti
log b b = 1,
log b 1 = 0 (1.24).
log b 0 = −∞

Si dimostri che per 0 < a < 1 ,


logb a < 0 (1.25)
e si spieghi perché le scritture log 1 a , log 0 a sono scritture prive di senso.

Sebbene, come abbiamo visto tutte le basi, purché positive e diverse da 0,1 siano
ammissibili, quelle più comuni sono quelle in base 10 e in base e , noto come numero
di Nepero. Il primo viene detto logaritmo decimale o naturale il secondo neperiano.
Di solito per tali logaritmi la base viene sottintesa e si preferisce scrivere

log10 a = log a
(1.26).
log e a = ln a
Gli esercizi di seguito riportati sono da ritenersi un necessario complemento per la
comprensione di quanto discusso nel resto del capitolo.
17

ESERCIZI

1) Sapendo che la potenza si definisce come un lavoro diviso un tempo, se ne


ricavino le dimensioni in termini di quelle fondamentali e si dimostri che è anche
esprimibile come il seguente prodotto [FV] ovvero come il prodotto di una forza
per una velocità.

2) Si ricavino le dimensioni della pressione definita come una forza per unità di
superficie.

3) Si ricavino le dimensioni della densità definita come massa per unità di volume.

4) Sapendo che nell’universo ci sono all’incirca 10 miliardi di galassie e che in ogni


galassia ci sono circa 10 miliardi di stelle, si fornisca una stima del numero di
stelle nell’universo.

5) Con il termine anno-luce si indica lo spazio percorso dalla luce, nel vuoto, in un
anno. Sapendo che la luce nel vuoto viaggia ad una velocità di trecentomila
chilometri al secondo determinare la lunghezza in metri dell’anno luce.

6) Sapendo che il Sole dista dalla Terra circa 150 milioni di chilometri, determinare
quanto tempo impiega la luce solare per raggiungere la Terra.

7) La carica di un elettrone è pari a 1.6 ⋅ 10 −19 Coulomb; dire quanti elettroni sono
contenuti in una carica di 3 Coulomb.
8) Sapendo che il raggio terrestre è pari a circa 6378 Km, assumendo che la Terra
abbia una forma sferica, stimarne il volume in metri cubi.
9) Il raggio del pianeta Mercurio è 2439 km; determinare il rapporto tra il volume
della Terra e quello di Mercurio. Fare una ipotesi sul rapporto tra le masse.

10) Il raggio dell’elettrone è pari a 2.8179 ⋅ 10 −15 m ; dire quanti elettroni si


debbono mettere in fila per ricoprire una lunghezza pari a 1m.
11) Il raggio di Bohr è una misura delle dimensioni di un atomo ed è pari a
5.2918 ⋅ 10 −8 cm ; esprimere tale quantità in termini di raggi di elettroni.
12) Si usi il metodo di approssimazione di cui all’equazione (1.16) per calcolare le
seguenti radici 24 , 51, 103 e se ne valuti l’accuratezza.
1 1
13) Si provi a dimostrare che 1 + x ≅ 1 + x − 2 (n − 1) x
n 2

n 2n
10
14) Determinare l’odg del numero 2 .
15) Determinare l’odg di −3·57.
18

16) Sapendo che il termine Yotta è il prefisso per il multiplo 1024 e sapendo che
Yocto è il prefisso per il sottomultiplo 10−24, dire a quanti Yocto equivale uno
Yotta.
17) Un recipiente sferico di raggio pari a 3 m contiene acqua distillata; determinare
la massa dell’acqua contenuta nel recipiente.
−31
18) Sapendo che la massa dell’elettrone è 9.1095 ⋅ 10 kg e quella del protone è
1.6726 ⋅ 10 −27 kg , determinare il rapporto tra la massa del protone e quella
dell’elettrone.
19) Determinare il volume in litri di un cilindro regolare con raggio di base pari a
2 m e altezza pari a 4 m.
20) Determinare a che volume corrisponde una massa d’acqua distillata di 50 kg.
a4 b
21) Si calcoli il seguente logaritmo log b ( 6 7 ) .
c d

22) Si risolvano le seguenti equazioni logaritmiche


3
log 9 x = − , log x 32 = 5
2
19

2.  Richiami di trigonometria 

La trigonometria mette in relazione le misure degli angoli e dei segmenti. Nel seguito
faremo riferimento alla Figura 1.2.1, che rappresenta una circonferenza di raggio
unitario, con il centro nell’origine degli assi cartesiani, detta cerchio trigonometrico.

r=1

0 x

Fig. 1.2.1. Rappresentazione nel piano cartesiano del cerchio trigonometrico.

Con riferimento alla Figura 1.2.2 diremo positivi gli angoli descritti dal raggio in
senso anti-orario, mentre diremo negativi quelli descritto in senso orario.
Per quanto concerne la misura del valore assoluto utilizzeremo i gradi sessagesimali
e i radianti.

r=1
α°
α(rad)= 2π
α° 360°
0 x
−α°

Fig. 1.2.2. Angolo espresso in gradi ed in radianti.


20

Ricordiamo pertanto che l’intero angolo giro misura 360°, che in radianti (rad)
corrisponde a 2π rad.

Come si può evincere dalla figura 1.2.2, l’angolo espresso in radianti è la misura
dell’arco di circonferenza sotteso dall’angolo α° sulla circonferenza di raggio
unitario. Infatti la circonferenza unitaria misura 2π, dunque l’arco di
circonferenza sarà dato dal rapporto tra α° e l’angolo giro (360°) moltiplicato
per 2π.

E’ evidente che indicando con α ° l’angolo misurato in gradi e con α (rad) l’angolo
misurato in radianti, tra queste due quantità sussisterà la relazione di proporzionalità
αo 180 o
= (2.1).
α (rad ) π
E’ dunque facile dimostrare che
π π
30 o = ,60 o = ,
6 3
π π (2.2)
45 o = ,90 0 = ,..
4 2
e ulteriori esempi si possono trovare negli esercizi alla fine del Capitolo. Nel seguito,
per quanto concerne la misura degli angoli, utilizzeremo in maniera indifferente gradi
o radianti,
Chiariti i punti relativi alla convenzione sulla positività (o negatività) degli angoli e
sulla loro misura, veniamo ora a definire le principali grandezze trigonometriche.
Con riferimento alla Figura 1.2.3 definiremo coseno dell’angolo α (cos(α)) l’ascissa
del punto P , mentre diremo seno dell’angolo α (sin(α)) la sua ordinata.

P
r=1
sin(α)
α
0 x
cos(α)

Fig. 1.2.3. Seno e coseno di un angolo.


21

Poiché il punto P giace sempre sulla circonferenza, avremo che tra il seno e il coseno
di uno stesso angolo sussisterà la relazione
sin(α ) 2 + cos(α ) 2 = 1 (2.3)
che diremo relazione trigonometrica fondamentale.
Vediamo ora quanto valgano il seno e il coseno di alcuni angoli. E’ ovvio che nel
caso in cui α = 0 si avrà
cos(0) = 1, sin(0) = 0 (2.4)
per α = 45° l’assegnazione del valore è meno evidente, comunque ispezionando la
Figura 1.2.3, dove è rappresentato proprio il caso in questione, si nota che essendo il
seno e coseno i cateti di un triangolo rettangolo isoscele si deve avere (lo si provi)
2
sin( 45 o ) = cos( 45 o ) = (2.5).
2
Il caso α = 30° è leggermente più complicato, con riferimento alla Figura 1.2.4 si ha

y α=30°
1
r=1 P 2
1
sin(30°) 30°
α 1
0 3
cos(30°)
x 2
1

Fig. 1.2.4. Seno e coseno di α = 30°.

1
sin(30 o ) = (2.6a)
2
da cui il lettore può desumere (si ricordi la (2.3)) che
3
cos(30 o ) = (2.6b).
2
Il lettore può infine provare per conto suo che
3 1
sin(60 o ) = , cos(60 o ) = ,
2 2 (2.7).
sin(90 ) = 1 , cos(90 ) = 0
o o
22

Per quanto riguarda angoli maggiori di 90° il lettore non avrà difficoltà a notare che
(si veda la Figura 1.2.5)
3 1
sin(120 o ) = , cos(120 o ) = − ,
2 2 (2.8).
sin(180 ) = 0, cos(180 ) = −1
o o

sin(120°) α=120°

α=180°
0 x

cos(120°)
cos(180°)
Fig. 1.2.5. Seni e coseni per α = 120° e α = 180°.
E’ altresì evidente che (si veda la Figura 1.2.6) che

1 3
sin( −30 o ) = − , cos( −30 o ) = (2.9)
2 2

y
α=−30°

cos(−30°)

0 α x
sin(−30°)
P

Fig. 1.2.6. Seno e coseno di α = -30°.


23

e che, più in generale,


cos(−a ) = cos(α ),
(2.10).
sin(−α ) = − sin(α )
Un'idea dell’andamento delle funzioni seno e del coseno viene offerto dalla Figura
1.2.7, dove abbiamo riportato in grafico il seno e il coseno al variare dell’angolo
espresso in radianti. Un andamento di questo tipo viene detto oscillante e il valore di
queste funzioni “oscilla” tra − 1 e 1 . Seno e coseno sono funzioni periodiche,
ovvero dopo un giro completo della circonferenza, quindi dopo multipli interi di
2π ο di 360°, le funzioni non fanno altro che ripetersi identicamente come è
evidenziato nella Figura 1.2.7. Tale caratteristica verrà discussa più estesamente alla
fine del paragrafo.

y 1
cos(α)
P
sin(α) sin(α)

α 0
P P P P α
cos(α)
x 2π 4π 6π 8π

-1

Fig. 1.2.7. Andamento delle funzioni seno e coseno al variare dell’angolo α.

Il lettore è invitato a riflettere sul fatto che il seno e il coseno sono perfettamente
sovrapponibili se si opera uno sfasamento relativo di 90°; tale considerazione è di
notevole importanza e sarà ripresa nel seguito.
Vediamo ora come si possano definire altre quantità trigonometriche di cui daremo
un'interpretazione geometrica.

Una quantità molto importante è la Tangente dell’angolo α che indicheremo come


sin(α )
tg (α ) = (2.11)
cos(α )
la cui interpretazione geometrica è ovvia se ci si riferisce alla Figura 1.2.8 e alle
proprietà dei triangoli simili. Abbiamo infatti che i triangoli OPP’ e OTT’ sono
simili, per cui
OP ′ : O T ′ = PP ′ : T T ′ (2.12)
24

ricordando che
OT ′ = 1 , O P ′ = cos( α ), PP ′ = sin( α ) (2.13)

segue che il segmento TT’ può essere interpretato come la tangente dell’angolo α.
T
y

P OP’ : OT’ = PP’ : TT’


tg(α)

α cos(α) : 1 = sin(α) : TT’

O P’ T’ x
sin(α)
TT’ =
cos(α)

Fig. 1.2.8. Costruzione della tangente dell’angolo α sul cerchio trigonometrico.

Un’altra quantità di notevole importanza è la secante dell’angolo α, definita come


1
sec(α ) = (2.14)
cos(α )
per la cui interpretazione geometrica dovremo far riferimento alla Figura 1.2.9, e
ricordare il Primo teorema di Euclide.
y
P
OP2 = OP’ OS
90°
α
1 = cos (α) OS
O P’ S
x 1
OS = cos(α)

Fig. 1.2.9. Costruzione della secante dell’angolo α sul cerchio trigonometrico.

Notiamo che il triangolo OPS è rettangolo in P̂ , con ipotenusa OS; pertanto in base
al succitato teorema avremo OP 2 = OP ′ ⋅ OS . Poiché OP = 1, OP' = cos(α) segue che
sec(α ) = OS (2.15).
25

Dopo queste considerazioni il lettore non avrà alcuna difficoltà a dare una
interpretazione geometrica per altre due quantità trigonometriche, ovvero la
cotangente dell’angolo α (Figura 1.2.10), definita come

cos(α )
ctg (α ) = (2.16)
sin(α )

y
ctg(α)
C’ C
P’ P OP’ : OC’ = PP’ : CC’

α sin(α) : 1 = cos(α) : CC’


O x
cos(α)
CC’ =
sin(α)

Fig. 1.2.10. Costruzione della cotangente dell’angolo α sul cerchio

e la cosecante dell’angolo α (Figura 1.2.11),definita come


1
c sec(α ) = (2.17).
sin(α )

y
S’
OP2 = OP’ OS’
P’ P
90°
α 1 = sin (α) OS’

O 1
x OS’ = sin(α)

Fig. 1.2.11. Costruzione della cosecante dell’angolo α sul cerchio trigonometrico.

I seguenti esempi saranno utili al lettore per chiarire ulteriormente i concetti


precedentemente sviluppati.

Es.: Con riferimento alla Figura 1.2.9, si dimostri che PS = tg(α).


26

Essendo, come già notato, il triangolo OPS rettangolo, utilizzando il teorema di


1
Pitagora, si ottiene che PS = OS − OP =
2 2
− 1 = tg (α ).
cos(α ) 2
Es.: Con riferimento alla Figura 1.2.11 si dimostri che PS' =c tg(α).

Si proceda come sopra.

Es.: Con riferimento alla Figura 1.2.12 si dimostri che SS ′ = sec(α )c sec(α ) .
y
s’
P

O S
x

Fig. 1.2.12. Triangolo OSS’.

Avendo il lettore dimostrato che OS' =csec(α), applicando il teorema di Pitagora al


1 1
triangolo OSS', si ha SS ′ = OS ′ + OS = +
2 2
da cui segue quanto
sin(α ) 2 cos(α ) 2
prima affermato.

 
 
3.  Elementi di calcolo vettoriale 

In questo paragrafo introdurremo alcuni elementi di calcolo vettoriale necessari per la


comprensione di quanto diremo in seguito. Premettiamo che nel prosieguo
distingueremo tra grandezze SCALARI e grandezze VETTORIALI, intendendo con
le prime grandezze che possono essere specificate semplicemente da un numero
senza che sia necessario specificare una orientazione nello spazio; in questo ultimo
caso parleremo di grandezze vettoriali.
Un esempio di grandezza scalare è la temperatura mentre una grandezza vettoriale è
la velocità, che sarà caratterizzato, oltre che dal suo valore numerico in metri al
secondo, anche da una direzione.
Con riferimento alla figura 1.3.1
27

r
V

Fig. 1.3.1. Rappresentazione grafica del vettore applicato V.

designeremo con il termine vettore applicato il segmento orientato V caratterizzato


da un punto di applicazione O, da una lunghezza detta anche modulo del vettore, da
una direzione data dalle retta a cui il vettore appartiene e da un verso, ovvero dalla
direzione di orientazione del segmento.
Con riferimento ad una grandezza fisica notiamo che il modulo del vettore, di solito
indicato con V ,coincide con la sua misura o valore numerico, ad esempio un vettore
che rappresenti una velocità avrà un modulo specificato in ms-1, mentre il modulo di
un vettore relativo all’accelerazione sarà dato in ms-2 . A volte per indicare il modulo
r
di un vettore utilizzeremo la notazione alternativa V = V .
Il vettore opposto al vettore V viene indicato con − V ed è rappresentato in figura
1.3.2, ed è semplicemente un vettore orientato in direzione opposta a V .

Fig. 1.3.2. Rappresentazione grafica del vettore applicato -V .

E’ evidente che la somma di due vettori opposti è pari al vettore nullo che
indicheremo con il simbolo 0 . Chiarita la definizione precedente, facciamo notare
che i vettori possono essere moltiplicati per un numero qualsiasi, positivo o negativo,
ovvero

F = kV (3.1)
28

Il vettore F , definito da tale operazione, è un vettore che ha un modulo pari a k V ,

direzione e verso uguali a quella di V , se k è un numero positivo, direzione uguale e


verso opposto se k è un numero negativo.
La somma di due vettori diversi può essere effettuata tramite la regola del
parallelogramma, come illustrato in Figura 1.3.3.
Avremo pertanto
Vs = V1 + V2 (3.2)
dove il vettore somma coincide con la diagonale del parallelogramma avente per lati i
vettori da sommare.
r1
V1

Vs
O

V2
r2
Fig. 1.3.3. Somma di due vettori.

La differenza vettoriale

Vd = V1 − V 2 (3.3)
può essere eseguita con la stessa regola avendo l’accortezza di sostituire il vettore V 2
con il suo opposto − V 2 (si veda la Figura 1.3.4).

r1
Vd V1

-V2
O
r2
Fig. 1.3.4. Differenza di due vettori.

Vettori definiti solamente da modulo, direzione e verso sono detti “vettori liberi”.
Due vettori liberi qualsiasi sono uguali se hanno lo stesso modulo, la stessa direzione
29

e lo stesso verso (si veda la Figura 1.3.5). Tale nozione di equivalenza è


particolarmente importante nelle applicazioni.

r1
V1 r2
V2

Fig. 1.3.5. Rappresentazione grafica di due vettori liberi uguali.

In generale un vettore può essere scomposto in due componenti ortogonali V y e V x


come mostrato in Figura 1.3.6, in maniera tale che

V x +V y = V (3.4)
y

V
Vy
α

0 Vx x
Fig. 1.3.6. Componenti del vettore V rispetto al sistema di assi cartesiani x e y.

I moduli dei vettori componenti sono legati al modulo del vettore V dalle relazioni

V y = V sin (α ),
(3.5).
V x = V cos(α )

Abbiamo parlato di operazioni di addizione tra vettori e abbiamo definito un metodo


operativo per eseguire tale operazione, vediamo ora come si possa eseguire
un'operazione di prodotto.

Per quanto concerne tale operazione esistono due possibilità:


1) Il prodotto scalare, che associa al prodotto di due vettori uno scalare
2) Il prodotto vettoriale che associa al prodotto di due vettori un vettore.
30

V1

V2
O
α |V1| cos(α)
|V2|
x |V1| cos(α)
V2
= |V2|

|V1| |V2| cos(α)

Fig. 1.3.7. Rappresentazione grafica del prodotto scalare tra due vettori.

Con riferimento alla Figura 1.3.7 indicheremo il prodotto scalare tra i vettori V 1, V 2
con il simbolo V 1 ⋅ V 2 e lo definiremo come

V 1 ⋅ V 2 = V 1 V2 cos(α ) (3.6)
Con riferimento alla Figura 1.3.8 indicheremo il prodotto vettoriale come V 1 × V 2 , e
noteremo che questo definisce un vettore perpendicolare al piano su cui giacciono i
vettori V 1, 2 , con un modulo pari a

V 1 × V 2 = V 1 V 2 sin(α ) (3.7).
e con verso tale che "personificato" vede il vettore V 1 andare su V 2 in senso
antiorario, percorrendo l’angolo minore.

V1 x V2

V2
α
V1

Fig. 1.3.8. Prodotto vettoriale.


31

Una regola pratica per eseguire il prodotto vettoriale è quella della mano destra,
illustrata in Figura 1.3.9.

V1 x V2

V2

V1

Fig. 1.3.9. Regola della mano destra.


32

ESERCIZI

- Si dimostri che il prodotto scalare di due vettori perpendicolari tra loro è nullo.

- Si dimostri che il prodotto vettoriale di due vettori paralleli è il vettore nullo.

- Si dimostri che il modulo del vettore somma, dato in equazione (3.2) è


2 2
V s = V 1 + V2 + 2 V 1 V 2 cos(α )
dove α è l’angolo formato dai due vettori.

- Calcolare il prodotto vettoriale tra due vettori di modulo 3 e 4 rispettivamente e


formanti un angolo di 180°.
Si ricordi che gli angoli possono essere misurati in gradi sessagesimali ed in
radianti in particolare si tenga presente che 1rad=57.3° e che π rad=180°.

- Con riferimento alla Figura 1.3.10 calcolare il modulo del vettore risultante.

V1 = 5

α = 60°
O
V2 = 3

Fig. 1.3.10. Problema 5.

r r r r
- Dati due vettori come in Figura 1.3.8 si dimostri che V1 × V 2 = −V 2 × V1

- Si determino le componenti orizzontali e verticale di un vettore spostamento che


forma un angolo di 210° con la direzione positiva dell’asse delle x.
33
34

CAPITOLO II
ELEMENTI DI MECCANICA

La meccanica è la scienza del moto; secondo la classificazione corrente essa


consta di tre branche:

a) CINEMATICA
intesa come l’aspetto geometrico del moto;

b) DINAMICA
ovvero la scienza che si interessa delle cause che determinano il moto;

c) STATICA
Studio delle condizioni di equilibrio dei corpi in cui non appare il moto.

1.  Elementi di cinematica: moto dei corpi con velocità costante e moto 
uniformemente accelerato  

Per semplificare lo studio della cinematica si ricorre spesso al concetto di moto di un


punto materiale, ovvero al moto di un corpo praticamente privo di dimensioni
(larghezza, profondità e altezza) che può essere assimilato ad un punto. L’uso di tale
concetto si estende ai corpi ordinari assumendo che tutta la loro massa sia concentrata
nel baricentro, che, per corpi omogenei, può essere individuato come il suo centro
geometrico.
Si intende, per traiettoria di moto del punto materiale, la curva che unisce tutte le
posizioni occupate da questo a tempi diversi (si veda la Figura 2.1.1).

t2 t3
t4
t1 t5
s2
s1
t6
t0
0
Fig. 2.1.1. Traiettoria del punto materiale. In figura sono anche mostrate le
ascisse curvilinee s1 e s2 , ovvero le lunghezze degli archi di
traiettoria percorsi ai tempi t1 e t2 rispettivamente.
35

La forma geometrica della traiettoria dipende dalle forze che agiscono sul punto
materiale, però qualsiasi essa sia potremo dire che questa è una funzione del tempo e
che posizioni diverse nello spazio saranno toccate a istanti diversi.
Come è ben noto, quando un corpo si muove lungo una determinata curva, possiamo
determinare il valore assoluto della sua velocità, che definiamo velocità "scalare",
come il rapporto dello spazio percorso, rappresentato dalla lunghezza dell'arco di
traiettoria, rispetto al tempo impiegato a percorrerlo.
Se nell’intervallo di tempo t 2 − t1 il corpo percorre l’arco di traiettoria s 2 − s1 , diremo
s2 − s1
che il rapporto definisce la velocità media del corpo nel predetto intervallo.
t 2 − t1
Nel caso in cui la velocità non sia costante è necessario definire la velocità
istantanea, ovvero la velocità che il punto materiale ha ad un determinato istante; a
tale scopo dovremo prendere in considerazione spazi percorsi in intervalli temporali
sempre più piccoli, in maniera tale da definire la velocità istantanea come
s −s
v = lim t2 →t1 2 1 (1.1)
t 2 − t1
Se la velocità media e quella istantanea coincidono sull'intero intervallo t2 − t1, allora
diremo che il moto è caratterizzato da una velocità costante e pertanto lo spazio
percorso e il tempo impiegato saranno legati dalla relazione
s = vt + s0 (1.2)
dove s0 rappresenta la cosiddetta posizione iniziale, ovvero la posizione del corpo
all’istante iniziale t =0.
L'equazione (1.2) vale sia per il moto descritto in Figura 2.1.1 che per moti
unidimensionali, come quello riportato in Fig. 2.1.2, nel primo caso si attribuisce a v
il significato di velocità "scalare" e a s quello di ascissa curvilinea, ovvero di
lunghezza dell'arco di traiettoria percorso dal corpo al tempo t .
Procediamo con un esempio. In Figura 2.1.2 è mostrato il moto unidimensionale di
un punto materiale che si muove a velocità costante

t5 = 25 s
t4 = 20 s
t 3 = 15 s
t 2 = 10 s
t1 = 5 s v
t0 = 0 s P
0 10 20 30 40 50 60 s (m)

Fig. 2.1.2 moto unidimensionale a velocità costante.

In questo caso la velocità media e quella calcolata in un qualunque intervallo


temporale intermedio coincidono:
36

50 m − 0 m 30 m − 20 m
vm = = 2 ms −1 , v= = 2 ms −1
25 s − 0 s 15 s − 10 s
In Figura 2.1.3 è invece rappresentato il moto unidimensionale di un punto materiale
che si muove a velocità non costante.
t5 = 25 s
t4 = 21 s
t 3 = 16 s
t 2 = 12 s
t1 = 2 s v
t0 = 0 s P
0 10 20 30 40 50 60 s (m)

Fig. 2.1.3 moto unidimensionale a velocità non costante.

In questo caso la velocità media e quella calcolata in un qualunque intervallo


temporale intermedio non coincidono:
10m − 0m
v1 = = 5 ms −1
2s − 0s
20m − 10m
v2 = = 1 ms −1
12s − 2s
30m − 20m
v3 = = 2.5 ms −1
16s − 12s
40m − 30m
v4 = = 2 ms −1
21s − 16s
50 m − 40m
v5 = = 2.5 ms −1
25s − 21s
50m − 0m
vm = = 2 ms −1
25s − 0s

Il moto viene detto bidimensionale quando non è vincolato ad una linea ma ad un


piano. Nella Fig. 2.1.4a si rappresenta la cosiddetta traiettoria descritta da un punto
materiale durante il suo moto. E’ evidente che la velocità del punto sarà in questo
caso più complicata del moto unidimensionale. Dovremo infatti specificare non solo
quanto sia il valore numerico della velocità, ma anche come sia diretta. La velocità
assume dunque la veste concettuale di vettore velocità.
Anche in questo caso potremo distinguere tra velocità media e velocità istantanea e
Per determinare la velocità vettoriale media si prendono due punti S1 e S2 sulla curva
di Fig. 2.1.4a, corrispondenti ai tempi t1 e t2 e seguendo la costruzione ivi riportata si
determina il seguente rapporto
r r
r s2 − s1
vm = (1.3)
t2 − t1
37

S2
t2
S1 s2 s1
t1
s2
s1 s1

0
Fig. 2.1.4. Rappresentazione vettoriale delle posizioni s1,2 del punto
materiale sulla traiettoria agli istanti t1,2 .

r r
dove s1 e s2 sono i vettori posizione dei punti S1 e S2 rispetto ad un'origine O. Si noti
)
che l’arco S1, 2 non coincide con | Δs | , si ha pertanto che il modulo del vettore
differenza non è uguale al valore dall'effettivo percorso effettuato sulla curva tra due
istanti diversi, essi coincidono solo se il moto è rettilineo. Torneremo su questo punto
quando tratteremo il moto circolare uniforme.
Per quanto riguarda il calcolo della velocità istantanea possiamo procedere come
mostrato in Fig. 2.1.4b, in cui abbiamo operato una operazione di limite prendendo
intervalli temporali sempre più piccoli, il risultato di tale operazione, espressa in
termini matematici come
r r
r s2 − s1
v = lim t2 →t1 (1.4).
t2 − t1
viene illustrato in Fig. 2.1.4b, nella quale si mostra qualitativamente che la velocità
istantanea è un vettore tangente alla traiettoria.
La relazione (1.4) viene definita da un punto di vista matematico come la derivata
dello spazio rispetto al tempo, che è poi la definizione di velocità istantanea. Si noti
che il vettore velocità istantanea è un vettore tangente alla curva che descrive la
traiettoria. Il modulo del vettore velocità istantanea e la velocità del corpo calcolata
tramite la (1.1) coincidono anche per traiettorie non rettilinee. In più la (1.4) fornisce
anche l'informazione sulla direzione del vettore velocità istantanea.
Se la velocità media e quella istantanea coincidono allora diremo che il moto è
caratterizzato da una velocità costante e si parlerà di moto rettilineo uniforme;
pertanto lo spazio percorso e il tempo saranno legati dalla relazione
s = vt + s 0 (1.5)
r
dove s0 rappresenta la cosiddetta posizione iniziale, ovvero il vettore posizione del
corpo all’istante iniziale t=0. Tale termine è solo un contributo di tipo geometrico,
38

mentre lo spazio percorso per ragioni cinematiche è costituito dal primo termine nella
precedente equazione. In un grafico spazio temporale la traiettoria percorsa da un
punto in moto con velocità costante sarà semplicemente data da una retta (si veda la
Figura 2.1.5).

s
s3

s2

s1

s0
t0 t1 t2 t3 t
Fig. 2.1.5. Grafico spazio temporale della traiettoria di un corpo in moto
con velocità costante.

Se la velocità non è costante significa che essa varia al variare del tempo. Diremo
allora che il nostro punto materiale è soggetto ad una variazione della velocità nel
tempo che chiameremo accelerazione. Riprendiamo in considerazione il caso
unidimensionale cioè quando il moto è rettilineo; l’accelerazione può essere definita
tramite la stessa procedura adottata per la velocità.
Riesaminiamo il caso di figura 2.1.3; l’accelerazione può essere calcolata come
rapporto tra le velocità misurate in due istanti differenti e l’intervallo temporale
corrispondente:

5ms −1 − 0ms −1 1ms −1 − 5ms −1


a 0,1 = = 2.5 ms − 2 , a1, 2 = = −0.4 ms − 2
2s − 0s 12 s − 2 s
−1 −1
2.5ms − 1ms
a 2,3 = = 0.375 ms − 2 …………
16s − 12s
Nel caso bidimensionale, si veda la Figura (2.1.6), considereremo due velocità v1 e v2
corrispondenti ai tempi t1 e t2 , definiremo pertanto una accelerazione media come
r r
v2 − v1
am = (1.6).
t2 − t1
L’accelerazione istantanea può essere altresì determinata tramite la procedura di
limite o di derivazione qui di seguito specificata:
r r
v2 − v1
a = limt2 →t1 (1.7).
t2 − t1
Si presti attenzione alla costruzione vettoriale delle accelerazioni medie ed istantanee
riportate in Figura (2.1.6).
39

am (t2-t1) am (t2-t1)
v1 v2 v1 (t2 t1 )

(a) s2 v2
(b) s2
s1
s1

0 0
Fig. 2.1.6. Accelerazione media (a) e istantanea (b) del punto materiale tra gli istanti t1,2.

Vogliamo qui far notare che il vettore accelerazione, non è diretto tangenzialmente
alla traiettoria, ma può assumere una direzione (si veda la Fig. 2.1.7) arbitraria che
implica l’esistenza di due componenti tangenziale e verticale (o normale), rispetto
alla traiettoria del moto

v d|v|
at =
| v | dt

a
1 d v
ac =
|v| dt | v |
Fig. 2.1.7. Componenti tangenziale e verticale alla traiettoria del moto.

Chiariremo ulteriormente questo concetto quando ci occuperemo di moto circolare.


Come nel caso della velocità avremo che se accelerazione media e istantanea
coincidono, allora si dirà che il corpo è soggetto ad una accelerazione costante.
E’ anche evidente che accelerazione e velocità saranno legate dalla relazione:
r r r
ν = a t +ν 0 (1.8),
r
dove ν 0 rappresenta la velocità che il corpo possiede all’istante iniziale.

Il primo termine nella precedente equazione rappresenta la velocità acquista dal


corpo grazie all’azione dell’accelerazione. Nel caso di moto rettilineo uniformemente
accelerato, il grafico mostrato in Figura (2.1.8) fornisce l’evoluzione della velocità
scalare in funzione del tempo.
40

v3

v2

v1

v0
t0 t1 t2 t3 t
Fig. 2.1.8. evoluzione della velocità per un corpo soggetto ad accelerazione costante
per un moto rettilineo uniformemente accelerato.

Per comprendere come accelerazione e spazio percorso siano legati, analizziamo


come possano essere ricavate graficamente le equazioni che descrivono il moto
rettilineo uniforme e uniformemente accelerato. In tali casi si potranno considerare
solo quantità scalari. Consideriamo il caso di accelerazione nulla e velocità costante
rappresentato nella figura 2.1.9 , in tal caso lo spazio percorso da un corpo con
velocità costante al tempo generico t è data, graficamente dall’area tratteggiata in
figura.

s=v t

0 t
Fig. 2.1.9. Calcolo dello spazio percorso dal punto materiale in moto
con velocità costante nel piano (v,t).

Nel caso di accelerazione costante e velocità nulla lo spazio percorso al tempo


generico t sarà dato dall’area tratteggiata in figura 2.1.10, a sua volta dato da:
1 2
s= at (1.9)
2
41

1 1 2
2
vt = 2
at

0 t
Fig. 2.1.10. Calcolo dello spazio percorso dal punto materiale in moto
con accelerazione costante nel piano (v,t).

Invece nel caso di velocità iniziale non nulla, con riferimento alla figura 2.1.11,
avremo:
1
s = at 2 + v0 t (1.10a)
2

1 1 2
2
vt = 2
at

v0
+
v0 t
0 t
Fig. 2.1.11. Calcolo dello spazio percorso dal punto materiale in moto con
accelerazione costante e velocità iniziale v0 nel piano (v,t).

Nel caso in cui lo spazio iniziale percorso non sia nullo avremo più in generale:
1 2
s= at + v0 t + s 0 (1.10b),
2
Il grafico spazio-temporale di un corpo in moto soggetto ad una accelerazione
costante è mostrato nella figura 2.1.12, in corrispondenza del grafico velocità-tempo.
42

100

v
2000
50
1
s (m) v t =600 m
2
+
1500 v0 v0 t =200 m
0
0 10 20
t 30 v0 = 10 ms-1
1000 a = 3 ms-2
800 m
600 m
500 v0 = 0 ms-1

00 5 10 15 20 25 30
t (sec)
Fig. 2.1.12. Esempio di grafico spazio-temporale per un punto materiale in
moto con accelerazione costante nel piano (s,t).

Come utile esercizio si può utilizzare la procedura di limite o di derivazione, prima


descritta, per ottenere dalla (1.10b) la definizione di velocità e di accelerazione
istantanea.
Il metodo intuitivo da noi seguito rappresenta il punto di partenza, che ispirò
Torricelli nella concezione del teorema fondamentale del calcolo integrale, che
stabilisce come il calcolo di aree, del tipo tratteggiato nella figura 2.1.10, è legato
all’inverso del processo di derivazione.
Nell’ipotesi in cui l’accelerazione è opposta alla velocità e dunque si oppone al moto
che supponiamo avvenga nel verso crescente della coordinata di posizione s, avremo
1
s = − at 2 + v0 t + s 0 (1.10c)
2
A questo punto siamo anche in grado di porci delle domande e di risolvere alcuni
semplici problemi.
A titolo di esempio si dimostri che se un corpo percorre sotto l’azione di una
accelerazione costante a uno spazio Δs = s - s0, la velocità che possiede alla fine di
tale tratto è
2
v f = v 0 + 2 aΔs (1.11).
dove v0 è la velocità iniziale.
La dimostrazione è semplice, ma sarà fatta in dettaglio perché il risultato, come
vedremo nel seguito, è importante.
Dalla relazione (1.8) ricaviamo che
43

v f = v0 + at (1.12)
da cui si ricava il tempo necessario per raggiungere la velocità vf
v f − v0
t= (1.13)
a
che, inserito nella (1.10c), dà la seguente espressione
2 2
1 v f − v0
a= (1.14),
2 Δs
esplicitando vf si ottiene proprio l’equazione (1.11). Come vedremo in seguito
l’equazione (1.14) sarà un importante elemento per stabilire il cosiddetto teorema
delle forze vive.
Si noti che la precedente equazione può essere scritta nella forma
1 (v f + vi )(v f − vi )
a= (1.15)
2 Δs
che può essere sfruttata, insieme alla (1.13) per ottenere
v f + vi
Δs = t (1.16)
2
Il secondo problema che vogliamo discutere è il seguente: quanto tempo impiega un
punto materiale a percorrere una distanza pari a Δs una volta nota l’accelerazione e la
sua velocità iniziale. Se le velocità iniziale e la accelerazione hanno verso concorde,
dalla relazione (1.10b) segue
at 2 + 2v 0 t − 2Δs = 0 (1.17)
da cui, risolvendo l’equazione di secondo grado nel tempo si ottiene
2
− v0 + v0 + 2aΔs
t= (1.18),
a
ottenuta scartando la soluzione negativa.
L’esempio più naturale di accelerazione costante è quella dell’accelerazione di
gravità secondo la quale tutti i corpi liberi di muoversi sulla superficie terrestre
subiscono una accelerazione di solito indicata con g diretta verso il basso e pari a
m
g ≅ 9.81 . (1.19)
s2
Una semplice applicazione del precedente risultato è il fatto che un corpo soggetto
all’accelerazione di gravità, partendo da fermo e in caduta libera nel vuoto, ovvero
trascurando la resistenza dell'aria, impiega un tempo

2h
t= (1.20)
g
per cadere da un’altezza h (si veda la Figura 2.1.13).
44

h (m)

100 0s
90 1.43 s
80 2.02 s
70 2.47 s
60 2.86 s
50 3.19 s
40 3.50 s
30 3.78 s
20 4.04 s
10 4.28 s
0 4.52 s
Fig. 2.1.13. Caduta di un grave.

2.  Moti bidimensionali e moto circolare uniforme  

Nei paragrafi precedenti abbiamo descritto il moto di corpi in moto rettilineo e


uniforme oppure uniformemente accelerato. La nostra analisi è stata dedicata a moti
uni-dimensionali sebbene gli elementi a nostra disposizione ci permettano di studiare
casi leggermente più generali come il moto dei proiettili in un piano.
Consideriamo pertanto quanto rappresentato nella Figura 2.2.1: un punto materiale
r
viene “sparato”, con velocità V0 .

y(m)
200

150

g
100
g
50

α
0
0 50 100 150 200 250 300 350 400
x(m)
Fig. 2.2.1. Esempio di moto uniformemente accelerato.
45

Vogliamo studiare che tipo di traiettoria descriverà successivamente; tale tipo di


problema viene di solito detto studio del moto dei proiettili e non a caso abbiamo
utilizzato il termine “sparato”.

Per effettuare tale studio dovremo premettere un “principio” detto di indipendenza


dei moti, trattando in maniera indipendente il moto lungo l’asse delle ascisse e lungo
quello delle ordinate.
Il moto verticale (asse delle ordinate) è determinato dall’accelerazione di gravità,
diretta verso il basso, e da una velocità iniziale data dalla componente verticale del
r
vettore ν 0 ; in base a quanto discusso nei paragrafi precedenti, avremo che il moto
lungo la direzione verticale (y) sarà governato da una legge oraria del tipo (1.10)
1
y = − gt 2 + v 0 sin(α )t (2.1)
2
(si spieghi il perché dei segni).
Per quanto concerne il moto lungo la direzione orizzontale (x) non essendoci
accelerazione alcuna ed essendo la velocità iniziale data dalla componente
orizzontale di v0 avremo che il moto in tale direzione è specificato dall’equazione
x = v0 cos(α )t (2.2).
Le equazioni precedenti indicano come il moto si sviluppi lungo i due assi
indipendentemente e sono legate dalla variabile tempo; le equazioni così espresse si
dicono scritte in forma parametrica, ed in questo caso il parametro è il tempo. Per
capire la forma geometrica della traiettoria descritta nel piano, determineremo il
tempo in funzione di x secondo la relazione
x
t= (2.3)
v 0 cos(α )
che una vota sostituita nella equazione (2.1) dà
2
1 ⎛ x ⎞
y = − g ⎜⎜ ⎟ + tg (α ) x (2.4),
2 ⎝ v0 cos(α ) ⎟⎠

che rappresenta una parabola e riproduce la forma della traiettoria del moto dei
proiettili. Per ulteriori specificazioni si veda la Figura 2.2.2. Come c’era da aspettarsi
la parabola ha concavità rivolta verso il basso e il punto di massima altezza raggiunto
dal proiettile coincide con il vertice della parabola.

Es.: si derivino le coordinate del vertice della parabola, che corrispondono al


massimo dell’altezza raggiunto dal proiettile, e si rifletta sul loro significato
fisico
v02 v02
V ≡ ( sin(2α ), (sin(α ))2 ) (2.5)
2g 2g

Il risultato precedente si può ottenere in due modi diversi,


46

a) ricordando che il vertice di una parabola di equazione


y = ax 2 + bx + c
è dato da
b Δ
V ≡ (− . − ) , Δ = b 2 − 4ac
2a 4a
da cui con poco sforzo si deriva il risultato dato nell’equazione (2.5).
Il metodo descritto è basato su una procedura matematica e lascia poco spazio al
ragionamento fisico; ne discuteremo ora uno più soddisfacente da tale punto di vista.
b) Il massimo dell’altezza raggiunta corrisponde al valore del tempo per cui la
componente y della velocità si annulla, ovvero
v sin(α )
− gt * +v 0 sin(α ) = 0 → t* = 0 (2.6a)
g
cui corrisponde un valore dello spazio percorso dato (lo si provi) dalla ordinata
del vertice riportata nella formula (2.5); l’ascissa del vertice si ottiene
sostituendo t* nell'equazione (2.2).

Si dimostri che la lunghezza della gittata è


v02
LG = sin(2α ) (2.6b)
g
Si ricordi che per gittata si intende la lunghezza tra il punto di sparo e il punto dove il
proiettile tocca terra il quale, da un punto di vista geometrico, è il punto di
intersezione tra la parabola e l’asse delle ascisse. Il lettore può ottenere il risultato
seguendo sia un punto di vista matematico che fisico.

Come è ben noto una parabola è anche caratterizzata oltre che dal vertice da un
fuoco (si veda Boccia, Ciocci e Dattoli, Elementi di Calcolo ed. Kappa Roma
2005) e da una retta direttrice. Chiarire il significato fisico di tali quantità nel
moto di un grave sulla superficie terrestre.
Si noti che le coordinate del fuoco sono
v 02 sin( 2 α ) v 02 cos( 2 α )
F ≡( , )
2g 2g
Mentre l’equazione della direttrice è

v02
y=
2g

La coordinata della direttrice è dunque pari all’altezza che il corpo raggiungerebbe se


π
fosse lanciato con una angolo α = , mentre il fuoco è la posizione che il corpo
2
47

r
partendo dall’origine con velocità V ≡ (v0 cos(α ), v0 sin(α ) ) in assenza di accelerazione
v0
di gravità dopo un tempo t = .
2g

400

[m]

300

x(t)
200

y(t)

100

0
0 1 2 3 4 5 6 7 8
t (sec)
Fig. 2.2.2. Separazione dei moti lungo la direzione verticale e orizzontale in
funzione del tempo relativamente alla traiettoria descritta in fig.2.2.1

Consideriamo ora il cosiddetto moto circolare uniforme (si veda la Figura 2.2.3) che è
quello descritto da un corpo, che si muove, ad esempio in senso anti-orario, lungo una
circonferenza, con velocità in “modulo” costante, ovvero con velocità scalare
costante.
v
v =costante

v
R

v
Fig. 2.2.3. Moto circolare uniforme.

Nel caso del moto circolare uniforme, a differenza del moto rettilineo uniforme, la
velocità, che è una grandezza vettoriale, cambia continuamente direzione; pertanto
non può essere considerata una quantità costante.
48

La velocità e l’accelerazione nel moto circolare uniforme saranno definite come già
indicato nelle equazioni (1.4) e (1.7).
Le intensità di tali vettori possono essere determinate notando che se la circonferenza
viene descritta con velocità in modulo costante v, se si indicano con R il raggio e con
T il tempo necessario a percorrere l’intera circonferenza, si ha
2π R = v T (2.5)
Δα ( rad )
Introducendo la velocità angolare ω = definita come il rapporto tra l'arco di
Δt
circonferenza di raggio unitario spazzato nell'intervallo di tempo Δt

ω= (2.6)
T
si potrà scrivere il modulo della velocità nel moto circolare uniforme come
v = ωR (2.7).
Il tempo T viene detto periodo del moto e il numero di volte in cui la circonferenza
viene descritta nell’unità di tempo viene detto frequenza ed è dato da
1
f = (2.8),
T
e viene misurata in Hertz (1Hz = 1s −1 ) .
Molti moti periodici, ovvero che si ripetono identicamente nel tempo, possono essere
descritti usando la terminologia del moto circolare uniforme, cosicché potremo dire
che normalmente il battito cardiaco ha una frequenza di 1.2 Hz (calcolare a quanti
battiti corrispondono in un minuto). Frequenze maggiori saranno dette tachicardiche,
frequenze minori bradicardiche.
Con riferimento alla Figura 2.2.4 si ottiene, dalla applicazione di quanto imparato in
precedenza, che la velocità istantanea (t2 → t1), nel moto circolare uniforme, è
tangente alla circonferenza.

vm (t2-t1)
(t2 t1 ) vm (t2-t1)
ρ’1
ρ2
ρ' 2
ρ1
R

Fig. 2.2.4. Velocità media e istantanea di un corpo in moto circolare uniforme.


49

L’accelerazione (si veda la Figura 2.2.5), diretta come il raggio verso il centro della
cerchio, viene detta centripeta.

ac

Fig. 2.2.5. Velocità e accelerazione centripeta di un punto in moto


circolare uniforme.

Per quanto riguarda l’accelerazione si noti che utilizzando le definizioni data nel
paragrafo 1 avremo
ac = ω 2 R (2.9).
E’ evidente da quanto prima detto che la velocità angolare ω è la velocità con cui il
raggio vettore descrive un angolo Δα (si veda la Figura 2.2.6).

R
Δα
0
Fig. 2.2.6. Rappresentazione vettoriale della velocità angolare

E' pertanto chiaro che l’angolo in un intervallo di tempo Δt il raggio vettore in moto
con velocità angolare costante avrà descritto un angolo pari a
Δα = ω Δt (2.10)
cui corrisponde un arco di lunghezza
Δs = R ω Δt (2.11).
La velocità angolare si misura in radianti al secondo ( rad / s ) e ha una interpretazione
vettoriale in base a quanto mostrato nella Figura precedente ed è rappresentata da un
vettore ortogonale al piano del moto sicché la velocità periferica e l’accelerazione
50

centripeta potranno essere scritte in termini vettoriali come (si tenga conto della
nozione di vettore libero, discussa in precedenza)
r r r
v = ω × R,
r r r r (2.12),
ac = ω × ω × R
si vedano le Figure 2.2.7 e 2.2.8 per una opportuna interpretazione geometrica.

v
R

Fig. 2.2.7. Velocità periferica espressa come prodotto vettoriale


tra il raggio vettore e la velocità angolare.

a v

Fig. 2.2.8. Accelerazione centripeda espressa come prodotto vettoriale


tra la velocità periferica e la velocità angolare.

Abbiamo in precedenza discusso due tipi di moto: quello rettilineo e quello circolare.
La discussione precedente sul concetto di accelerazione è piuttosto generale e la
traiettoria di Figura 2.1.6 è una curva generica; il vettore accelerazione, diversamente
dal vettore velocità, non è tangente alla traiettoria. Avremo una situazione
leggermente più complessa rappresentata in Figura 2.2.9: l’accelerazione ha due
componenti, una tangenziale a τ diretta lungo la tangente (istantanea) alla traiettoria e
una normale a n in direzione perpendicolare; in generale avremo
a = aτ + a n
La componente normale gioca un ruolo analogo all’accelerazione centripeta e può
essere scritta come
v2
an =
ρ
dove ρ è il raggio di curvatura della traiettoria.
51

La componente tangenziale aτ invece è semplicemente l'accelerazione scalare


istantanea
v2 − v1
aτ = lim t2 →t1
t 2 − t1
v2
Nel caso di moto circolare uniforme aτ = 0 , an = =ω2 R .
R

at
a
an

0
Fig. 2.2.9. Componenti normale e tangenziale dell’accelerazione .
Il concetto di raggio di curvatura può essere come mostrato in Figura 2.2.10 e, in
termini estremamente grossolani, può essere considerato come il raggio del cerchio,
detto in gergo cerchio osculatore, che localmente approssima la curva.

L’ausilio del concetto di cerchio osculatore ci permette di chiarire un punto lasciato


in sospeso nel paragrafo precedente in cui abbiamo fatto notare che, nel caso della
velocità media, il percorso eseguito lungo un arco non coincide con la differenza dei
raggi vettori.

at
a
an
ρ

Fig. 2.2.10 Componenti normale e tangenziale dell’accelerazione .

Possiamo quantificare lo scostamento tra le due quantità assumendo, come mostrato


in Fig. 2.2.11, che l’arco sia preso sopra un cerchio osculatore, per cui si avrà
52

) r ⎛ ϑ ⎞
S1, 2 − Δ s ≅ ρ ⎜ϑ − 2 sin( ) ⎟
⎝ 2 ⎠
assumendo che sia piccolo e che si possa espandere in serie il seno fino al terzo
ordine nell’argomento, si ottiene
) r ϑ3
S1, 2 − Δ s ≅ ρ
24
che rappresenta una quantità trascurabile se l’intervallo temporale su cui calcolare la
media, sia tale da non determinare una significativa variazione angolare.

s
S2
s2 s1
S1
ϑ
s2
s1 ρ
0

Fig. 2.2.11. Raffronto tra l'arco di traiettoria ed il modulo della differenza tra i raggi
vettori di due punti s1 e s2.

 
3.  Elementi di dinamica 

Nei paragrafi precedenti abbiamo parlato di moto caratterizzandolo tramite la velocità


e l’accelerazione, ma non abbiamo detto nulla su cosa determini “uno stato di moto”
ovvero cosa causi una accelerazione che altro non è che un cambiamento di velocità.
Da un punto di vista concettuale non fa alcuna differenza se un corpo si muova a
velocità costante (ovvero sempre la stessa ad ogni istante) oppure sia fermo.
Le cause che determinano le variazioni delle condizioni di moto saranno dette
genericamente FORZE e in base a quanto detto formuleremo la prima legge della
dinamica di Newton, detta anche legge di inerzia, come segue:
Un corpo persiste nel suo stato di quiete e di moto uniforme, finché una forza
esterna non viene a mutare tale stato.
Tale legge ha un carattere di per sé evidente e in generale si compone di due parti,
una sua analisi dettagliata richiederebbe considerazioni, basate sul principio di
invarianza Galileiana, che qui non discuteremo e accetteremo l’assunto soltanto per
la sua “evidenza sperimentale”.
La seconda legge, detta anche legge fondamentale della dinamica, ci permette di dare
una definizione operativa della forza e può essere formulata come segue:
53

Forza ed accelerazione di un punto materiale sono proporzionali e la costante di


proporzionalità è la massa, ovvero in formula:
r r
F =ma (3.1).
La massa è una quantità scalare, che in un certo senso è la misura dell’inerzia del
corpo, ovvero la tendenza del medesimo a rimanere nel suo stato di quiete o di moto
uniforme.
La relazione precedente è suscettibile di infinite variazioni sul tema, ma la sostanza
fisica è la seguente: una forza agente su un corpo libero di muoversi produce una
accelerazione, nella direzione della forza stessa, tanto maggiore quanto maggiore è
l’intensità
r della forza applicata, come discende dalla relazione
r F
a= (3.2).
m
Espressa come nella (3.2) la legge fondamentale della dinamica permette di calcolare
l’accelerazione acquisita da un punto materiale, una volta nota la forza impressa;
viceversa nella forma (3.1) permette di calcolare la forza motrice, una volta nota la
massa e l’accelerazione del corpo.
Nella Figura 2.3.1 viene riportata la pagina dei Principia Philosophiae Naturalis di
Newton, dove vengono formulate le due prime leggi della dinamica.

Fig. 2.3.1. Pagina dei PRINCIPIA di Newton dove vengono formulate le


prime due leggi della dinamica
54

L’unità di massa è il chilogrammo (Kg) e definiremo come unità di forza il


Newton (N) come quella forza che imprime alla massa di 1 kg un’accelerazione
di 1 m/s2.
La terza legge della dinamica, più comunemente nota come legge di azione e
reazione, può essere formulata come segue:
Ad ogni forza, agente su un corpo, corrisponde sempre una forza uguale ed
opposta, agente su un secondo corpo interagente con il primo.
E’ esperienza comune che se noi esercitiamo con una mano una forza di pressione su
un tavolo, il tavolo eserciterà una analoga forza con verso opposto sulla nostra mano.
Cercheremo ora di specificare un certo numero di forze, che sono ben note dalla
esperienza comune.
La forza di gravità, ovvero la forza peso, è legata alla già introdotta accelerazione di
gravità dalla relazione
r r
Fp = mg (3.3)
ed è dunque evidente che alla massa di 1 Kg potremo associare una forza peso pari a
9.81 N.
La forza di attrito "radente" è una forza tangenziale che diremo resistente (si veda la
Figura 2.3.2). I concetti associati alle forze di attrito sono più sottili di quanto possa
apparire ad una prima occhiata, è opportuno, pertanto, soffermarsi su questi aspetti in
modo da evitare confusioni. L’attrito radente è in un certo senso dovuto alla
scabrosità della superficie su cui poggia. In base a quanto abbiamo prima appreso
l’attrito non può essere considerato una forza nel senso stretto del termine perché essa
non produce alcuna accelerazione, insorge infatti solo come forza che tende ad
opporsi al moto, da qui la denominazione di forza resistente.

corpo a riposo corpo in moto


Forza di ma alla soglia Forza applicata a velocità
soglia del moto Forza che mantiene la costante Forza
applicata resistente velocità costante resistente
|FA|=μs |FN| |FA|=μd |FN|
Fs F
FN FN
Es. Es.
|FN| = 100N |FN| = 100N
μs =0.5 |FA| =|Fs|=50N μd =0.4 |FA| =|F |=40N
viceversa: | FA | viceversa: | FA |
|FA|=|Fs|= 50N μs = =0.5 |FA|=|F |= 50N μd = =0.4
|F |
N |F |
N

L'attrito può essere immaginato come originato dal contatto di superfici scabre.

Fig. 2.3.2. Forze di attrito radente.


μs= coefficiente di attrito statico, μd= coefficiente di attrito dinamico
55

Bisogna inoltre fare una distinzione tra attrito statico e dinamico, cerchiamo di
chiarire tale concetto con l’ausilio della Fig. 2.3.3 in cui riportiamo il risultato di una
sorta di esperimento concettuale, in cui si mostra un corpo del peso di 100 N soggetto
a forze applicate di diversa intensità. Il corpo rimarrà fermo rispondendo alla
sollecitazione con una forza resistente pari alla forza applicata, finché non si giunge
alla soglia del moto oltre la quale il corpo comincia a muoversi. Il rapporto tra la
forza applicata alla soglia del moto e il peso del corpo (o comunque la componente
verticale della forza che agisce sul corpo) viene detto coefficiente di attrito statico,
ovvero
r
FA
μs = r (3.4a)
FN

A questo punto è importante notare che se si supera la soglia e si vuole mantenere la


velocità del corpo costante è necessario applicare una forza minore di quella alla
soglia del moto, la conclusione è che esistono due tipi di coefficienti di attrito e nel
caso in cui il corpo sia in moto si parla di attrito dinamico il cui coefficiente
r
FA
μd = r (3.4b)
FN

Risulta essere inferiore di quello statico.

Forza
|FN| = 100 N applicata
Forza
soglia resistente
60
F
del moto FA
μs = 0.5
Forza resistente (Newton)

50
μd = 0.4 FN
40
Attrito Attrito
30 statico dinamico La relazione
Nel caso di forze applicate inferiori |FA|=μs |FN|
20
al valore di soglia, la forza di
10 attrito eguaglia la forza applicata si applica solo nella
mantenendo l'equilibrio statico. condizione di soglia
0 0 10 20 30 40 50 60 70 80 del moto.
Forza applicata (Newton)
Fig. 2.3.3. Attrito statico e dinamico

r
La forza di tensione FT è quella forza che, agendo su una corda (tendine, catena…)
tende ad allungarla.
56

Un corpo si dirà in equilibrio se la risultante di tutte le forze agente su di esso è nulla.


Vedremo ora, sulla base di qualche semplice esempio, come si debbano utilizzare i
concetti precedenti.

Consideriamo un oggetto con massa di 20 Kg in moto nella direzione x a cui


viene applicata in direzione opposta una forza di intensità pari a 45 N
determinare in quanto tempo il corpo raggiungerà una velocità nulla, sapendo
che la velocità iniziale è di 10 m / s .
Per risolvere tale problema dovremo calcolare l’accelerazione indotta dalla forza e
poi applicare la formula (1.12) per determinare la velocità acquisita; in generale
avremo
r
r F r
v = t + v0 (3.5)
m
Tenuto conto che la forza è opposta alla direzione del moto, avremo che la velocità
del corpo sarà nulla allorché
F
− t + v0 = 0 (3.6)
m
da cui segue
mv 0
t= (3.7)
F
ovvero t = 4.44 s.

Come indicato in Figura 2.3.4 un oggetto pesante 50 N è appeso ad una corda. Si


calcoli la tensione della corda.

FT

Fp

Fig. 2.3.4. Condizione di equilibrio tra la forza peso e la tensione della corda.

Sul corpo in questione agiscono due forze: la forza peso e la tensione della fune; dalla
condizione di equilibrio avremo
57

r r
F p + FT = 0 (3.8)
da cui segue
FT = F p (3.9)
da cui segue FT = 50 N .

Se per trascinare una cassa di 60 Kg lungo un pavimento orizzontale con velocità


costante è necessaria una forza orizzontale di 140 N, quale è il coefficiente di
attrito tra il pavimento e la cassa?
Il fatto che la cassa si muova con velocità costante implica che la forza totale agente
sulla cassa è nulla; pertanto la forza di attrito e la forza agente sulla cassa sono in
equilibrio e pertanto avremo
μ d mg = F (3.10)
da cui segue
F
μd = (3.11)
mg
ovvero μ d ≅ 0.238.

Bisogna sottolineare che la forza di attrito è comunque sempre proporzionale alla


componente normale della forza, che insiste sulla superficie scabra, come
indicheranno meglio gli esempi che seguono.

Un corpo di massa m è appoggiato alla superficie di un cilindro di raggio R con


coefficiente di attrito statico μs (vedi Figura 2.3.5); se il cilindro viene posto in
rotazione si determini la minima velocità angolare affinché il corpo non cada
verso il fondo del cilindro.

ω Fa = μd N
N
m
vt

Fp = mg

Fig. 2.3.5. Corpo sulla superficie di un cilindro in rotazione.


58

Come mostrato in Figura 2.3.5, le forze che agiscono sul corpo sono:
a) La reazione vincolare , che confina il moto sulla superficie del cilindro e
corrisponde in modulo direzione e verso ad una forza centripeta.
b) La forza peso
c) La forza di attrito diretta in direzione opposta a quella peso.
E’ dunque evidente che la condizione di equilibrio si otterrà per quando forza di
attrito e forza peso si uguaglieranno, poiché

FA = μ s mω 2 r ,
(3.12)
Fp = mg
otteniamo (lo si provi)
g
ω= (3.13)
μsr

Con riferimento alla Figura 2.3.6, si consideri una forza F , che insiste su una
cassa di massa m con un angolo θ , rispetto al piano scabro con coefficiente di
attrito statico μs su cui insiste a sua volta la cassa, si determini la forza di attrito
e il valore minimo della forza necessario per muovere la cassa.

F
θ s
FA
Fp

Fig. 2.3.6. Forza agente con un angolo di inclinazione θ su un corpo libero di


muoversi su una superficie scabra con coefficiente di attrito statico μs.

La forza normale è data dalla somma della forza peso della cassa e dalla componente
verticale della forza agente sulla cassa, ovvero
FN = F p + F sin(ϑ ) (3.14)

per cui la forza di attrito sarà

FA = μ s ( mg + F sin(ϑ )) (3.15)

che si opporrà alla componente della forza orizzontale agente sulla cassa, la minima
forza necessaria per spostare la cassa sarà dunque

F cos(ϑ ) = μ s mg + μ s F sin(ϑ ) (3.16)


59

da cui segue
μs
F= mg (3.17)
cos(ϑ ) − μ s sin(ϑ )

Cosa succederebbe se la forza fosse diretta verso l’alto?

Nel seguito discuteremo alcune conseguenze pratica dell’attrito come la distanza di


frenata.
In Fig. 2.3.7 abbiamo riportato un’automobile in moto su una strada con un
coefficiente di attrito dinamico μd , se l’auto ha, al momento della frenata una
velocità v0 , si dimostri che lo spazio percorso prima di fermarsi è
v02
d= (3.18)
2 μd g
v0
(suggerimento: si noti che il tempo necessario per fermarsi è t* = e che
μd g
1
d = − μ d g t *2 + v0 t * …)
2

v0
F =μd m g
d
Fig. 2.3.7. Distanza di frenata su una strada con coefficiente di attrito dinamico.

Si noti che lo spazio di frenata cresce con il quadrato della velocità e questo è un fatto
che fa meditare, se la velocità raddoppia la distanza di frenata quadruplica.
Il risultato riportato in eq. (3.18) potrebbe essere sorprendente perché asserisce che lo
spazio di frenata è indipendente dalla massa del veicolo e dunque, a parità di velocità,
un autobus e una piccola automobile dovrebbero fermarsi dopo aver percorso la
stessa distanza. Nella realtà i veicoli molto grossi hanno maggiore difficoltà a
fermarsi di quelli più piccoli.
Un secondo punto di non secondaria importanza è relativo al coefficiente di attrito
dell’asfalto bagnato rispetto a quello asciutto. Sebbene sia molto difficile fare delle
stime sul reale effetto dell’acqua sul coefficiente d’attrito, non c’è comunque dubbio
che la pioggia agisca da lubrificante e che il coefficiente di attrito possa raggiungere
valori anche prossimi a 0.1, contro un valore di 0.7 dell’asfalto asciutto. In Fig. 2.3.8
riportiamo alcune considerazioni aggiuntive, che permettono di inquadrare meglio il
problema.
60

Pneumatico che v Pneumatico


ruota
2v bloccato
v v
Attrito statico v Attrito dinamico
Il punto di contatto di un pneumatico Il punto di contatto di un pneumatico
che rotola è istantaneamente fermo bloccato è trascinato sulla superficie
rispetto alla superficie stradale. stradale alla stessa velocità del veicolo.

Zona critica dove viene persa Zona critica dove viene persa
come frazione del peso del veicolo
forza di attrito effettiva espressa

forza frenante se i pneumatici si forza frenante se i pneumatici


1.0 bloccano e slittano. 1.0 si bloccano e slittano.
0.9 0.9
0.8
Attrito 0.8 μs = 0.7
0.7
μs = 0.7
0.7
0.6 dinamico Attrito
0.6
0.5
Attrito μd = ? 0.5 Attrito dinamico
0.4
0.3 statico 0.4 statico μd = ?
0.3
0.2 μs >μd
0.1 Asciutto
0.2
μs >μd
0.0
0.1 bagnato
0.0
Forza esercitata sul pedale del freno Forza esercitata sul pedale del freno

Su una strada asciutta La massima efficienza di frenata Su una strada bagnata


l'efficienza di frenata può aversi riducendo la forza l'efficienza di frenata
può essere poco esercitata sul pedale del freno può cambiare
influenzata dal fatto rispetto a quella esercitata drammaticamente se i
che i pneumatici si quando l' asfalto è asciutto. pneumatici si
bloccano e slittano. bloccano e slittano.
Fig. 2.3.8. Coefficiente di attrito su strada bagnata

Ritorneremo su queste problematiche quando ci occuperemo di moti rotatori

Si consideri la Fig. 2.3.9 dove si mostra una macchina, in moto su una strada con una
pendenza ϑ e un coefficiente di attrito statico μ s, che esegue una curva caratterizzata
da un raggio di curvatura r, si dimostri che la velocità massima con cui l’automobile
può affrontare la curva è

r g (sin(ϑ ) + μ s cos(ϑ ) )
v max =
cos(ϑ ) − μ s sin(ϑ )

(Suggerimento: Si noti che la condizione di equilibrio è fornita da


v2
m = N sin(ϑ ) + μ s N cos(ϑ ) , mg = N cos(ϑ ) − μ s N sin(ϑ ) …)
R
61

FA = μs
N 2
Fc = m v
r
y r = raggio di
curvatura
x ϑ Fc
N
ϑ Fp = mg
Fp ϑ
N
Fig. 2.3.9. Macchina in moto su una curva parabolica

Ulteriori esempi in cui interviene la forza di attrito saranno discussi nel seguito.

4.  La quantità di moto 

Passiamo ora ad introdurre un concetto di notevole rilevanza discutendo grandezze


note in Fisica come impulso, quantità di moto o momento lineare.
r
Consideriamo pertanto una forza F agente su un corpo di massa m per un tempo δt; il
prodotto della forza per il tempo si definisce "impulso" della forza:
r r
I = Fδ t (4.1).
r
Se δ v è la variazione della velocità acquisita dal corpo sotto l’azione della forza nel
tempo in cui essa si ha (teorema dell'impulso):
r r r r
I = mδ v = δ (m v ) = δ p
dove
r r
p = mv (4.2)
è definita "quantità di moto" del corpo.
Una volta cessata l’azione della forza che ha conferito l’impulso ci aspettiamo, in
base al primo principio della dinamica, che la quantità di moto sia conservata se non
intervengono altre forze. Per conservata intendiamo dire che il valore acquisto non
cambia nel tempo.
Un’altra conseguenza importante dei concetti prima illustrati e che chiama in causa il
terzo principio della dinamica è la conservazione della quantità di moto negli urti.
In un urto tra due o più corpi la quantità di moto totale si conserva, ovvero la somma
delle quantità di moto dei singoli corpi, prima dell’urto è uguale a quella successiva
all’urto.
62

Da un punto di vista pratico possiamo avere una sorta di re-distribuzione delle


quantità di moto, ma sempre in maniera tale che la somma delle singole quantità di
moto prima e dopo l’impatto sia la stessa.
A titolo di esempio consideriamo due punti materiali che subiscono un urto come
mostrato in Figura 2.4.1, la somma delle quantità di moto dei punti materiali 1,2
prima e dopo l’urto rimane la stessa.

p2

p1 m2
m1
p'2

p'1
m2
m1

Fig. 2.4.1. Esempio di urto tra due punti materiali di massa m1 e m 2=2m1
che si muovono con velocità v1 = 7 m s -1 e v2 = 10 m s-1 .

Il motivo di tale legge di conservazione è intimamente legato alla terza legge della
dinamica. Quando i corpi vengono a contatto eserciteranno fra di loro una mutua
reazione, ma tale che la somma totale delle forze esterne che agiscono sul sistema sia
nulla; il fatto che non vi sia alcuna forza esterna attiva implica la conservazione della
quantità di moto totale del sistema.
Si noti che abbiamo fatto ricorso al termine “sistema”, per indicare l’insieme di
particelle che contribuiscono all’urto, e all’aggettivo “totale” per indicare la quantità
di moto complessiva del sistema ovvero quello costituito dalla somma delle particelle
costituenti il sistema.
La scelta dei termini e degli aggettivi non è casuale e nasconde un significato fisico
profondo; dovremmo pertanto vedere il processo di urto da un punto di vista
“macroscopico” e da un punto di vista “microscopico”.
Nel caso macroscopico si considera il sistema nel suo insieme ed è come se noi
guardassimo una scatola chiusa che contiene un certo numero di biglie; non avendo la
possibilità di “vedere” cosa succede all’interno della scatola descriveremo il moto
basandoci solo sui “dati di fatto”, ovvero velocità e massa della scatola, seguendo in
pratica il moto del suo baricentro. Non esistendo forze esterne saremo obbligati a
concludere che non esiste variazione di quantità di moto totale.
63

Si noti che il ragionamento precedente ci porta alla seguente asserzione: comunque


sia complicata la dinamica indotta dalle forze interne di un sistema, il moto del suo
baricentro non sarà mai influenzato da queste.
Nel caso della descrizione microscopica saremo in grado di controllare il moto delle
biglie e di descrivere il fatto che il processo di conservazione della quantità di moto
può essere visto come quello di una re-distribuzione delle quantità di moto dei singoli
componenti il sistema.
Gli esempi che seguono chiariranno i concetti appena elaborati.

Due ragazze di masse m1 e m2 sono ferme sui pattini; supponendo che il moto sui
pattini sia libero, se la ragazza 1 spinge la ragazza 2 che acquisisce una velocità
v2, determinare la velocità della ragazza 1 (Figura 2.4.2).

Fig. 2.4.2. Pattinatrici che si respingono.

Per rispondere al quesito precedente facciamo notare che la spinta può essere
considerata come una sorta di interazione interna, pertanto, essendo le due ragazze
ferme inizialmente, avremo che
r r
p1 + p2 = 0 (4.3)
da cui segue
m
m1v1 − m2 v 2 = 0 ⇒ v1 = 2 v 2 (4.4)
m1
si noti che le due ragazze si muovono in direzioni opposte.
E’ implicito che il baricentro del sistema non subisce alcuno spostamento; infatti,
indicando con x1,x2 la posizione delle due ragazze prima dell’urto, avremo che il
baricentro è dato da
m1 x1 + m2 x 2
XB = (4.5)
m1 + m2
Dopo l’urto, avendo ciascuna ragazza acquisito una velocità v1,v2, avremo che il
baricentro del sistema ad un generico tempo t dopo l’urto è dato da
64

m1 ( x1 + v1t ) + m 2 ( x 2 − v 2 t ) m v − m2 v2
X B′ = = XB + 1 1 t (4.6)
m1 + m 2 m1 + m 2

l’ultimo termine nella relazione precedente è nullo, in virtù della equazione (4.4), per
cui X B = X B′ e dunque il baricentro non subisce alcuno spostamento.

Si consideri una canoa di massa 50 kg e lunga 2 m, con una estremità vicina alla
riva di un lago. Un uomo del peso di 70 kg è inizialmente in piedi all’estremità
opposta e si muove lungo la barca per scendere a terra. Di quanto si sposterà la
barca dalla riva quando l’uomo avrà attraversato tutta la barca?
Poiché non esistono forze esterne che agiscono sul sistema barca-uomo dobbiamo
aspettarci che la barca si sposti in modo che il baricentro del sistema risulti sempre
nel punto in cui si trovava prima che l’uomo si spostasse verso la riva.
Assumendo come riferimento la riva (vedi Figura 2.4.3), abbiamo inizialmente (dove
gli indici u,c stanno per uomo e canoa rispettivamente)
mu xu + mc xc
XB =
mu + mc
e dopo lo spostamento
mu x u' + m c x c'
X =
'
B
mu + m c
Uguagliando le quantità precedenti si ottiene che la barca dovrà spostarsi di una
quantità pari a
m
Δxc = u Δxu
mc
dove Δx rappresenta lo spostamento x-x’. Inserendo i dati numerici si trova che la
canoa subirà uno spostamento pari a 2.8 m.
0

xu

xc

Fig. 2.4.3. Sistema canoa-uomo; xu e xc indicano la posizione del


baricentro dell’uomo e della canoa rispettivamente.
65

Su una carrozzella di massa 60 kg sono seduti, in posizione simmetrica uno di


fronte all’altro alla distanza di 1 m, due persone di diversa massa. Determinare
la differenza di massa se le due persone, scambiandosi di posto, determinano
uno spostamento della carrozzella di 0.5 m.

Baricentro della carrozzella

-x0 x0

0 x

Fig. 2.4.4. Due persone di massa diversa su una carrozzella.

Con riferimento alla Figura 2.4.4, assumeremo che inizialmente il baricentro della
carrozzella coincida con l’origine degli assi, cosicché avremo che il baricentro del
sistema carrozzelle più persone è dato da
(m1 − m2 ) x0
XB =
m1 + m2 + mc

dove 1,2,c stanno per la prima e seconda persona e per carrozzella rispettivamente.
Dopo lo scambio di posti si avrà
(m2 − m1 )( x0 + Δx) + mc Δx
X B' =
m1 + m2 + mc

che una volta eguagliata alla relazione precedente dà

Δx
m1 − m2 = mc
2 x 0 − Δx

Dai dati numerici otteniamo che la differenza di massa è pari alla massa della
carrozzella. Il Lettore spieghi il perché dei valori assoluti e discuta in che verso si
determinerà lo spostamento della carrozzella a seconda che m1 > m2 , m1 < m2 .
Ritorneremo sui problemi di urto quando accenneremo al principio di conservazione
dell’energia. Accenneremo inoltre agli effetti degli urti sul corpo umano nel Capitolo
IV, quando avremo una idea più chiara sui concetti di forza e di lavoro.
66

5.  Il momento della quantità di moto 

Abbiamo prima visto come la quantità di moto sia un vettore diretto parallelamente
alla velocità e che rappresenta il grado di impulso trasferito ad una certa massa da una
forza istantanea.
Discuteremo ora una ulteriore quantità di natura vettoriale nota come momento della
quantità di moto o momento angolare che è in un certo senso una misura del grado di
deviazione angolare indotto da una certa forza. E’ evidente che per definire una
siffatta quantità abbiamo bisogno di specificare (Figura 2.5.1)

Ω = rx p

Fig. 2.5.1. Rappresentazione vettoriale del momento della quantità di moto

a) un punto O rispetto al quale misuriamo una possibile rotazione,


r
b) un raggio vettore r che individui la traiettoria di un corpo dotato di massa
rispetto a O.
Definiamo pertanto il vettore
r r r
Ω=r× p (5.1)
momento angolare o momento della quantità di moto; tale vettore è ortogonale al
piano individuato dai vettori velocità e quantità di moto. Vedremo che in assenza
di forze esterne, o meglio di "momenti di forze", risulta essere una quantità
conservata.
r
A titolo di esempio si consideri un corpo di massa m e velocità v non soggetto
ad alcuna forza esterna; si determini il suo momento angolare rispetto ad un
punto O e si dimostri che è un vettore costante in modulo direzione e verso.
Dalla definizione di prodotto vettoriale si ottiene che il modulo del vettore
momento angolare è dato da
67

r r r
Ω = r p sin(ϑ ) (5.2)
r
Nel nostro caso specifico avremo (si veda la Figura 2.5.2) r sin(ϑ ) = l da cui
segue che essendo v costante, il modulo del nostro vettore è sempre conservato. Il
lettore completi il quesito dimostrando la costanza del medesimo in direzione e
verso. Si noti che il modulo del momento angolare può essere geometricamente
interpretato come in Figura, in cui l rimane costante per tutta la durata del moto.

v
ϑ

r
ϑ
90°

l
O

Fig. 2.5.2. Proiezione del raggio vettore r sulla retta perpendicolare a v .

Si dimostri che una forza applicata al corpo per un tempo δt determina una
variazione di momento angolare data da
r r r
δ Ω = r × Fδ t (5.3).

Si faccia riferimento alla Figura 2.5.3 e si noti che in generale la variazione di


momento angolare dovrebbe essere dovuta a due effetti

1) la variazione di raggio vettore dovuta alla variazione di velocità indotta dalla


r r
forza ovvero δ r = v δ t
r r
2) la variazione di quantità di moto δ p = Fδ t

per cui si dovrebbe scrivere


r r r r r
δ Ω = v δ t × p + r × Fδ t (5.4)
Essendo i vettori quantità di moto e velocità paralleli il primo termine a destra
della precedente equazione è nullo e pertanto l’espressione si riduce a quella
contenuta nella equazione (5.3).
68

p + δp
F

r + δr p

Fig. 2.5.3 Variazione del momento angolare .

L’equazione (5.3) è estremamente importante perché definisce il seguente


r
ulteriore vettore momento della forza F
r r r
Λ = r×F (5.5),
che gioca un ruolo analogo a quello che intercorre tra il momento lineare e la forza
applicata ad un corpo, come segue dall’esempio.

Il Lettore rifletta sulle equazioni qui di seguito riportate


r d pr
F= ,
dt
r
r dΩ (5.6)
Λ=
dt
che possono essere espresse in parole come segue:
La “velocità” di variazione dell’impulso di un corpo è uguale alla forza ad
esso applicata, la velocità di variazione del momento angolare è pari al
momento della forza applicata.

Si discuta cosa succede nel caso di forze ortogonali al moto del corpo con
particolare riferimento ai moti circolari.

Si dimostri che in generale il modulo del momento angolare può essere


interpretato geometricamente come la velocità areolare ovvero come l'area
della superficie descritta dal raggio vettore nell’unità di tempo.

Con riferimento alla figura (2.5.4) si ha che


r
δS 1 Ω
= rv sin(ϑ ) = (5.7)
δt 2 2m
69

1 v
δS= 2 r h , h= v δ t sin(θ ) δs=v δt
h
ϑ
r
1
δS= 2 r v δ t sin(θ )
O

Fig. 2.5.4. Velocità areolare e momento angolare .

Si veda il prossimo paragrafo per una importante conseguenza di questo risultato.

6. Cenno alla forza gravitazionale                                                    

Prima di Keplero tutti


Gli uomini erano ciechi.
Keplero aveva un solo occhio
Newton due (Voltaire).

Nel paragrafo precedente abbiamo considerato forze di tipo costante, ovvero forze
che non variano durante il tempo in cui sono applicate e che non dipendono dalla
posizione e abbiamo visto che la forza peso è una di queste.
La forza peso è, come ben noto, dovuta all’attrazione gravitazionale, la legge che
regola il moto dei pianeti.
Il fatto che essa possa ritenersi costante è solo una approssimazione, valida per tutti i
corpi in moto in prossimità della superficie terrestre.
La legge della gravitazione universale, formulata da Newton è quella che descrive
l’attrazione tra due corpi dotati di massa, distanti tra loro (si veda la Figura 2.6.1) e
può essere enunciata come segue:

m1
m2
Fig. 2.6.1. Masse m1 e m2 poste ad una distanza reciproca

Due masse si attirano reciprocamente con una forza diretta lungo la


congiungente i loro centri di gravità, proporzionalmente al prodotto delle masse
70

e in modo inversamente proporzionale al quadrato della distanza tra i relativi


centri di massa,
ovvero in formule

m1 m2
F =G (6.1)
r2
−11 N ⋅ m2
dove G = 6.67 ⋅ 10 è la costante di gravitazione universale nel sistema MKS e
Kg 2
r è la distanza tra i centri di gravità delle due masse.
Chiarito quanto sopra possiamo determinare il valore della “costante" g, direttamente
dalla equazione (6.1). Assumendo che m1 = M T ≅ 5.97 ⋅ 10 24 Kg sia la massa della
Terra e che r = RT ≅ 6370 Km sia il suo raggio medio otteniamo

MT
g =G (6.2)
R 2T
−2
che risulta fornire il già citato valore di 9.81 m s , che è da intendersi come valore
medio, visto che la Terra non è esattamente sferica né omogenea.
E’ proprio la legge di newton che permette di derivare le tre leggi di Keplero relative
al moto dei pianeti intorno al Sole.
Riporteremo nel seguito dette leggi, senza peraltro dimostrare come possano essere
dedotte dalla (6.1).

a) Prima legge

L’orbita descritta da un pianeta nel suo moto intorno al Sole è una ellisse ed il
Sole occupa uno dei due fuochi (si veda la Figura 2.6.2)

ρ
ρ'
b
F1 ϑ F2
S a
2c

Fig. 2.6.2. La prima legge di Keplero .


71

Il significato dell'asserzione precedente ha una sua evidenza “geometrica” contenuta


in Figura. Non ha, pertanto, bisogno di alcun commento e la sua dimostrazione è
relativamente semplice, se si tiene conto che la forza gravitazionale è di tipo centrale,
ovvero che dipende solo dal raggio vettore Sole-pianeta. Va comunque da sé che il
moto avviene intorno al Sole che occupa uno dei due fuochi dell'ellisse.

b) Seconda Legge

Il Raggio vettore ρ di un pianeta spazza aree uguali in tempi uguali.

Il significato fisico di tale affermazione ha una evidenza “geometrico-cinematica”


riportata in Figura 2.6.3. La legge formulata in termini più tecnici stabilisce la
conservazione della velocità areolare, ovvero l’area in blu (denotata in Figura)
“percorsa” dal raggio vettore in un determinato tempo è la stessa a parità di tempo di
percorrenza dell’orbita da parte del pianeta.

Fig. 2.6.3 Seconda legge di Keplero, Le aree in figura sono uguali e sono
descritte dal raggio vettore in tempi uguali.

Non è difficile capire che tale legge è legata al fatto che per forze di natura centrale il
momento angolare è una quantità conservata (si veda il paragrafo precedente).

Prima di discutere la terza legge ci concederemo una divagazione, utilizzando la


formula (6.1) per determinare la velocità di rotazione di un pianeta intorno al Sole.
Assumendo che la traiettoria ellittica possa essere approssimata con una
circonferenza, tenuto conto di quanto abbiamo appreso a proposito del moto
circolare uniforme avremo che in tale moto circolare la forza centripeta sarà fornita
dalla forza di attrazione (si veda la Figura 2.6.4)
MSMP
M Pω 2 R = G (6.3)
R2
dove MS,P rappresentano la massa del Sole e del pianeta rispettivamente e R la
distanza media Sole-pianeta.
72

Direzione orbitale
R
Sole
Forza centripeta

Terra

Fig. 2.6.4. Sistema Sole-Terra

Dalla relazione precedente ricaviamo


GM S
ω= (6.4a).
R3


Ricordando che la velocità angolare è legata al periodo di rotazione da ω = ,
T
otteniamo dalla (6.4a) l’ulteriore relazione
R 3 GM s
= (6.4b)
T2 4π 2

che in pratica è la terza legge di Keplero, che così recita

c) Terza legge

Nel moto dei pianeti intorno al Sole il rapporto tra il cubo dei semiassi maggiori
e il quadrato dei periodi di rivoluzione è una costante.

Il Lettore determini la velocità di rivoluzione della Terra intorno al Sole

7.  Cenno alle forze apparenti 

Abbiamo fino ad ora discusso di vari tipi di forze e specificato il loro effetto sul
movimento dei corpi; ognuna di queste è stata caratterizzata senza definire il sistema
di riferimento, abbiamo cioè tacitamente assunto che il moto avvenisse o in un
“ambiente” fermo o in moto con velocità rettilinea ed uniforme. L’ambiente, o
73

sistema di riferimento, potrebbe essere una stanza-laboratorio o un autobus in moto


(con velocità costante in modulo e direzione).

Abbiamo dunque assunto che il moto dei corpi in sistemi di riferimento in moto
uniforme uno rispetto all’altro è perfettamente equivalente, ovvero che le leggi della
meccanica non cambiano se una esperienza viene eseguita in un sistema in quiete1 è
indistinguibile rispetto alla medesima esperienza eseguita in un sistema in moto
uniforme. Da ciò discende anche l’impossibilità di eseguire un qualsiasi esperimento
di natura meccanica atto a rivelare il moto (uniforme) del sistema in cui si sta
effettuando l’esperienza stessa. Tale conclusione legata al primo principio della
dinamica rappresenta l’essenza del cosiddetto principio di relatività Galileiana.

Cosa del tutto diversa è se l’esperienza viene eseguita in un sistema di riferimento in


moto non uniforme o come si dice in gergo più tecnico “non inerziale”.
Capita spesso di trovarsi in automobile e di sentire di essere come spinti fuori
dall’abitacolo quando si esegue una curva (Figura 2.7.1).

Sistema di riferimento
v non inerziale

F
r
Forza “centrifuga”

Forza
centripeta

Fig. 2.7.1. Esempio di forza “apparente”

r
Assumendo ad esempio che l’autobus subisca una decelerazione − a , noi all’interno
r
dell’autobus saremo soggetti ad una spinta in avanti determinata dalla forza ma ,
questa forza viene detta apparente nel senso che non si tratta di una forza reale, ma di
una forza che cessa quando il nostro sistema torna ad essere inerziale.
Abbiamo considerato un sistema di riferimento in moto rettilineo, ma vediamo cosa
succede se questo sistema è in moto circolare, che per semplicità assumeremo essere
uniforme (si veda la Figura 2.7.2).

1
Da quanto detto risulta chiaro che il concetto di quiete o di moto uniforme è semplicemente
relativo.
74

Forza
centrifuga

Forza di Coriolis

Fig. 2.7.2. Forza di Coriolis.

In questo caso nasce una prima forza apparente (ovvia) che è quella centrifuga e una
meno ovvia ed altrettanto importante legata alla possibilità che il corpo si muova con
una certa velocità nel sistema rotante.
Tale forza, detta di Coriolis, può essere spiegata in maniera piuttosto semplice, anche
se non rigorosa. Consideriamo infatti un oggetto che ruota con velocità angolare ω su
una piattaforma rotante a sua volta con velocità angolare Ω . La velocità totale, vista
da un osservatore non solidale con il sistema rotante, è
vT = (ω + Ω) r (7.1)
mentre l’accelerazione centrifuga è

aT = ω 2 r + Ω 2 r + 2Ω(ω r ) (7.2)
Ricordando che ωr = v potremo scrivere

aT = ω 2 r + Ω 2 r + 2Ω v (7.3)
I primi due termini sono facilmente riconoscibili come contributi di accelerazione
centripeta, mentre l’ultimo è di natura nuova ed è appunto l’accelerazione di Coriolis.
Tenendo conto della natura vettoriale delle accelerazioni e delle velocità avremo (si
veda la Figura 2.7.3) che in termini vettoriali tale accelerazione potrà essere scritta
come

a c = 2Ω × v (7.4)
E' evidente che, per ottenere la forza corrispondente, basterà moltiplicare, ambo i
membri della precedente uguaglianza, per la massa del nostro oggetto. Un' idea
dell’importanza di tale contributo è fornita dagli esempi che seguono.
75

ω r
v

Fig. 2.7.3. Corpo in rotazione con velocità angolare ω su una


piattaforma rotante con velocità angolare Ω.

Qual'è l’accelerazione subita da un treno in moto sulla superficie terrestre (come


mostrato in Figura 2.7.4) con velocità di 180 km/h ad una latitudine di 40 o ?

Fig. 2.7.4. Accelerazione sentita da un treno in corsa.

Ricordando che la velocità angolare di rotazione terrestre è Ω ≅ 7.272 ⋅ 10 −5 rad / s , si


ottiene
a c = 2 Ω v sin( λ ) ≅ 4.7 ⋅ 10 −3 m / s 2
che è un valore non del tutto trascurabile.

Qual' è la differenza percentuale di peso tra un corpo di massa m all’equatore e


al polo nord.

E’ evidente che in questo caso dovremo chiamare in gioco l’effetto della forza
centrifuga, dovuta alla rotazione della Terra, che è massima all’equatore e minima ai
poli. Per essere quantitativi dovremo determinare

a) la velocità angolare di rotazione della Terra, determinata da (perché?)


76


ω= ≅ 7.27 ⋅ 10 −5 rad
86.400

b) il raggio medio della Terra dato da RT ≅ 6.4 ⋅ 10 m


6

−2
ottenendo così un’accelerazione centrifuga pari a a C ≅ 3.4 ⋅ 10 m / s .
2

La variazione di peso sarà dunque esprimibile come


Δp = mg − ma C

da cui segue una variazione percentuale di peso data da (perché?)


Δp a C
= ≅ 3.5 ⋅ 10 −3
p g

8.  Momenti delle forze e condizioni generali di equilibrio 

Nei paragrafi precedenti abbiamo considerato forze applicate ad un punto materiale;


vogliamo ora estendere i concetti precedenti discutendo il caso della forza applicata
rispetto ad un asse, come mostrato in Figura 2.8.1. In questo caso si definisce il
momento delle forza rispetto all’asse di rotazione come
r r r
τ = r×F (8.1)
e tale quantità indica l’efficacia nel produrre una rotazione rispetto all’asse.
Il momento può essere positivo o negativo a seconda che tenda a produrre una
rotazione in senso anti-orario od orario e la sua unita di misura è il Newton.metro
( N ⋅ m) .

r
ϕ
90°
asse
braccio della forza

Fig. 2.8.1. Momento di un forza rispetto ad un asse.


In generale potremo stabilire le condizioni di equilibrio di un corpo quando le
seguenti condizioni sono soddisfatte.
77

a) Condizioni delle forze

La somma vettoriale, ovvero la risultante, di tutte le forze agenti sul corpo deve
essere nulla.

b) Condizione dei momenti

La somma dei momenti di tutte le forze che agiscono sul corpo deve essere nulla.
Per quanto concerne questo ultimo punto si procede come segue: si individua un asse
perpendicolare alle forze complanari e si definiscono positivi i momenti che inducono
una rotazione in senso anti-orario rispetto all’asse, mentre si definiscono negativi
quelli che inducono rotazioni in senso orario.
A titolo di esempio consideriamo il classico problema della leva.

Consideriamo due ragazzi di ugual peso, alle estremità di un tronco, che è


appoggiato su un sasso nel suo centro di massa. Si spieghi perché il sistema è in
equilibrio.

E’ evidente che se i due ragazzi sono di ugual massa il baricentro del tronco coincide
con quello del sistema (tronco + ragazzi); inoltre, assumendo come verso di rotazione
quello antiorario, avremo dal calcolo dei momenti
m1 gl1 − m2 gl 2 = 0 (8.2)
mentre per le forze
m1 g + m2 g + mT g = N (8.3)
dove N è la reazione del vincolo e mT,1,2 le masse del tronco e dei due ragazzi.
Date le condizioni del problema (uguaglianza delle masse e simmetria rispetto al
baricentro) le condizioni di equilibrio risultano automaticamente soddisfatte.

Quale dovrebbe essere la condizione di equilibrio se le masse dei ragazzi non


sono le stesse?
In questo caso non potremo più avere la condizione simmetrica considerata prima e
qualora considerassimo trascurabile la massa del tronco, potremmo derivare dalla
condizione sui momenti, la seguente relazione
m1l1 = m2 l 2 (8.4)
Un caso più generale in cui non si trascura il peso della trave di sostegno sarà
discusso nel prossimo esempio.
78

In Figura 2.8.2 viene mostrato un tubo omogeneo di 100 N e lungo tre metri che
viene utilizzato come leva. Dove va collocato il fulcro (ovvero il punto di
appoggio) nel caso in cui un peso di 500 N ad una estremità debba bilanciare un
peso di 200 N all’altra? Qual'è la forza di reazione esercitata sul tubo dal
sostegno?

FR
x L- x
1 2
L/ 2
100 N

F1 = 200 N
F2 = 500 N

Fig.2.8.2. Leva di prima specie

Il peso del tubo va considerato come una forza applicata nel baricentro; essendo il
tubo omogeneo essa è posizionata nel suo centro. Poiché richiediamo che le forze si
bilancino, avremo che gli angoli formati dalla direzione del tubo e delle forze sono di
90o .
Con riferimento alla figura e in base a quanto detto in precedenza avremo
1) condizione di equilibrio delle forze:
r r r r
F1 + F2 + Fp + FR = 0
da cui si evince FR = 800 N .
2) Condizione di equilibrio sui momenti:
Indicando con x la distanza della estremità 1 dal fulcro si ha (si noti che la forza
1 e la forza peso tenderebbero ad indurre rotazioni in senso anti-orario)
L
F1 x + F p ( x − ) − F2 ( L − x ) = 0
2
da cui segue x ≅ 2.07m.
Le leve saranno discusse più in dettaglio nella parte del libro dedicata ai problemi di
statica e dinamica del corpo umano con particolare riferimento all’azione delle forze
muscolari.
79
80

CAPITOLO III

LAVORO, POTENZA ED ENERGIA

1.  Il lavoro 

Nel capitolo precedente abbiamo dimostrato che un punto materiale, soggetto ad


un'accelerazione costante per un certo tratto, subisce una variazione di velocità
regolata dalla relazione
1 2 1 2
a Δs = v f − v i (1.1),
2 2
dove i pedici f,i stanno per finale ed iniziale, rispettivamente.
La relazione precedente è ancora più interessante di quanto possa apparire. Bisogna
prima di tutto ricordare che essa è stata derivata utilizzando i concetti del moto
uniformemente accelerato in cui l’accelerazione e lo spostamento avvengono nelle
stessa direzione, potremmo formulare più in generale la relazione precedente,
utilizzando le nozioni relative ai vettori e al prodotto scalare tra vettori.
Nell’ipotesi in cui l’accelerazione e gli spostamenti non siano vettori paralleli
avremo, in luogo della (1.1), la seguente espressione
r r 1 r 2 1 r 2
a ⋅ Δs = v f − v i (1.2),
2 2
che fornisce qualche informazione in più rispetto al caso precedente. Infatti se
l’accelerazione e lo spostamento sono ortogonali, come avviene nel caso del moto
circolare uniforme, l’accelerazione non produce alcuna variazione del modulo della
velocità.
Se ora si moltiplicano ambo i membri della (1.2) per la massa del punto materiale, si
potrà riscrivere la relazione in una forma che coinvolge lo spostamento del punto e la
forza agente su di esso, ottenendo
r r
F ⋅ Δs = T f − Ti (1.3)
dove abbiamo indicato con T la seguente quantità (per ragioni di brevità di notazione
omettiamo il segno di modulo e di vettore nelle velocità)
1
T = mv 2 (1.4).
2
che diremo energia cinetica del punto materiale.
La quantità a sinistra della (1.3), ovvero il prodotto (scalare) della forza per lo
spostamento, rappresenta il lavoro compiuta dalla forza e la relazione (1.3) sancisce
che il lavoro compiuto da una forza su una particella equivale alla variazione
dell'energia cinetica di quest'ultima. Tale conclusione va sotto il nome di Teorema
delle Forze Vive, o, in modo equivalente, della Energia Cinetica.
81

Vediamo ora, con qualche semplice esempio, di comprendere meglio il significato


delle considerazioni precedenti.
A tale scopo premettiamo che, nel sistema MKS, l’unità di misura del lavoro è il
Joule (J), che rappresenta il lavoro prodotto dalla forza di un Newton per spostare il
suo punto di applicazione ad una distanza di un metro (ovvero 1 J = 1 N ⋅1 m ).

Consideriamo La Figura 3.1.1, in cui una forza pari a 2 N agisce su un corpo di


massa 5 kg, producendo uno spostamento dello stesso in una direzione formante
un angolo di 60° con la forza stessa; si determini il lavoro compiuto dalla forza
se sposta il corpo di 5 m e la velocità acquisita dal corpo, assumendo che questa
sia inizialmente nulla.

F cos( ϑ )
Fig. 3.1.1. Forza che agisce con un angolo θ su un corpo di massa m vincolato
a muoversi su una superficie senza attrito.

Dalla definizione stessa di lavoro avremo


r r
L = F s cos(ϑ ) = 5 J (1.5)
mentre dal teorema delle forze vive ricaviamo
1
m v f = F s cos(ϑ )
2
(1.6)
2
da cui segue
2 F s cos(ϑ )
vf = ≅ 1.414ms −1 (1.7)
m

Un corpo di massa pari a 10 kg si muove su una superficie scabra orizzontale


con coefficiente di attrito dinamico pari a 0.2 e con una velocità iniziale pari a
10 ms-1 ; determinare lo spazio necessario perché il corpo si fermi sotto l’azione
delle forze di attrito.
82

In questo caso la forza è una forza resistente e dunque opposta alla direzione del
moto; forza e spostamento sono vettori che formano un angolo di 180° da cui segue
L = − FA s,
(1.8)
FA = μ d m g
Ricorrendo di nuovo al teorema delle forze vive e tenuto presente che il problema
richiede di calcolare lo spazio percorso fino a che la velocità finale è nulla, si ottiene
1
μ d m g s = m vi 2 (1.9)
2
ovvero
2
1 vi
s= ≅ 25.484 m (1.10).
2μ d g
In questo paragrafo ci siamo interessati essenzialmente di forze costanti, ovvero che
non dipendono dalla posizione e quindi dallo spostamento che esse stesse
determinano; accenneremo al caso più generale di forze non costanti nel seguito, ma
è prima opportuno insistere sui concetti di lavoro e di energia cinetica, che risultano
legati dal teorema delle forze vive.
Abbiamo fino ad ora stabilito che l’energia cinetica è l’energia di movimento di
un corpo e che al lavoro eseguito su questo corpo corrisponde una variazione
dell’energia cinetica.
Tale variazione può essere positiva e quindi l’energia cinetica aumentare se il
lavoro eseguito sul corpo è positivo, negativa se il lavoro è negativo, a seconda del
r r
segno del prodotto scalare L = F ⋅ s .
Consideriamo ora il caso descritto in Figura 3.1.2, un corpo di massa m si trova ad
una generica altezza h da terra, con una certa velocità iniziale.

h
|Δs| = h 2-h1 .
F p Δs = - mg(h2-h1)cos(0) = mg(h1 -h2 )

h1
v1
Δs
h2
Fp
v2

Fig. 3.1.2. Corpo in caduta libera. Variazione della velocità con la quota.
83

L’unica forza agente sul corpo è la forza peso per cui avremo, che ad un
cambiamento di quota corrisponderà la seguente variazione di energia cinetica
1 2 1 2
mv 2 − mv1 = mg ( h1 − h2 ) (1.11).
2 2
La precedente espressione, conseguenza diretta del teorema dell’energia cinetica,
potrà essere riscritta come segue
1 2 1 2
mv1 + mgh1 = mv2 + mgh2 (1.12a),
2 2
Questa nuova espressione ha un significato fisico estremamente profondo.
Notiamo che nella (1.12a) insieme all'energia cinetica appare un ulteriore quantità
mgh, che rappresenta quello che noi chiameremo energia potenziale gravitazionale.
La somma dell'energia cinetica e dell'energia potenziale fornisce l’energia meccanica
totale del sistema, che indicheremo con E, e la relazione (1.12a) stabilisce che la
quantità
1 2
E= mv + mgh (1.12b)
2
è conservata, ovvero indipendente dalla posizione, per tutti i valori dell’altezza h,
occupate, ad istanti successivi, dal nostro punto materiale.
Il ruolo giocato dall’energia potenziale è evidente, come è ora altresì evidente che ad
una sua diminuzione corrisponderà una aumento, in egual misura, dell'energia
cinetica. Viceversa ad una diminuzione dell’energia cinetica corrisponderà un
identico aumento dell’energia potenziale.
A titolo di esempio consideriamo il seguente semplicissimo problema, la cui
comprensione risulta fondamentale per quello che diremo nel seguito.

Qual' è la velocità acquisita da un corpo che cade liberamente da un altezza h,


assumendo che la sua velocità iniziale sia nulla?
Un'applicazione diretta del principio di conservazione della energia meccanica dà
1
mv 2 = mgh (1.13)
2
che ci permette di concludere che tutta l’energia potenziale si è trasformata in energia
cinetica; dalla relazione precedente segue dunque che

v = 2 gh (1.14).
Si noti che il risultato ottenuto implica che la velocità acquisita da un corpo cadendo
da una certa altezza è indipendente dalla sua massa. Ciò significa che una piuma o un
sasso hanno la stessa velocità una volta giunti a terra. Tale risultato è vero se
consideriamo la caduta dei gravi nel vuoto; in presenza dell’aria le cose sono
differenti, come vedremo nel seguito.
Un ulteriore esempio atto a chiarire il concetto di conservazione dell’energia
meccanica è il seguente.
84

Si consideri (Figura (3.1.3)) che descrive il classico “giro della morte”: un corpo
di massa m si trova inizialmente in cima ad un piano inclinato di altezza h, alla
cui base è sistemato un cerchio di raggio R; si specifichi quanto deve essere la
minima altezza del piano, affinché il corpo esegua un giro completo del cerchio.
Si trascuri l'attrito.

R
h

Fig. 3.1.3. Il “giro della morte”.


Per risolvere il problema notiamo prima di tutto che l’altezza del piano deve essere
maggiore del diametro del cerchio, per cui una volta che il corpo è giunto sulla
sommità del cerchio avrà un velocità che, in base al principio di conservazione
dell’energia, potrà essere stimata come

v = 2 g (h − 2 R) (1.15)

La reazione vincolare esercitata dalla superficie della circonferenza confina il corpo


su una traiettoria circolare mentre, a causa della velocità tangenziale, esso tenderebbe
a percorrere una traiettoria rettilinea. Fintanto ché è presente una reazione vincolare
il corpo esercita una pressione sulla superficie della circonferenza che ne confina il
moto, è dunque evidente che in tale condizione esso rimane attaccato alla superficie.
Affinché esegua un giro completo si deve, dunque, verificare la seguente condizione
di equilibrio:
m v2
mg + N = (1.16)
R
La condizione di minimo si ottiene per N=0; utilizzando la (1.15) si ha
2 g (h − 2 R)
mg =m (1.17)
R
5
da cui segue h = R .
2
Il problema può essere forse compreso meglio se lo affrontiamo nel sistema di
riferimento "non inerziale" solidale con il corpo. Abbiamo visto nel capitolo
precedente che il corpo "sente", oltre alla forza peso, una forza apparente detta forza
centrifuga; la condizione minima di equilibrio si realizza quando forza peso e forza
centrifuga si eguagliano, tale condizione è descritta dall'equazione (1.17).
85

Un ragazzo è accovacciato su un sasso di forma semi-sferica di raggio R e si


lascia scivolare lungo di esso, (Figura (3.1.4)), si determini a che altezza da terra
si staccherà dal sasso. Si trascuri l'attrito.
Assumeremo che il ragazzo possa essere trattato come un punto materiale e ci si
aspetta che si stacchi dal sasso quando la reazione vincolare si annulla. La velocità
raggiunta sarà stimabile dalla conservazione dell’energia, infatti

N
mg +N = mac
δ
R
ϑ Fp= mg h
Fc = mac

Fig. 3.1.4. Ragazzo sul sasso

1
mv 2 = mgδ ,
2 (1.18)
δ = R (1 − cos(ϑ ))
v2
pertanto, ricordando che la forza centripeta si può scrivere come m , avremo, con
R
riferimento alla Figura (3.1.4) e utilizzando le relazioni (1.18):
v 2 2 m g R (1 − cos(ϑ ))
m g cos(ϑ ) − N = m = (1.19)
R R
r
per N = 0
cos(ϑ ) = 2(1 − cos(ϑ )) (1.20)
2
da cui segue cos(ϑ ) = .
3
Ovvero ad un’altezza da terra pari a
2
h= R. (1.21)
3
E’ evidente che gli esempi precedenti prendono in considerazione processi meccanici
in cui si ha sempre un travaso dall'energia potenziale a quella cinetica e viceversa.
L’esempio discusso precedentemente a proposito delle forze di attrito sembrerebbe
contraddire quanto prima affermato.
Non risulta infatti chiaro dove finisca l’energia cinetica inizialmente posseduta dal
corpo in moto. Bisogna in questo caso notare che le forze di attrito non sono forze di
natura conservativa; il principio di conservazione dell’energia va in questo caso
formulato in modo più generale, includendo anche gli effetti di riscaldamento
prodotti dalla forza stessa, durante lo sfregamento con la superficie scabra.
86

Il problema sarà affrontato in termini più generali nel capitolo relativo al primo
principio della termodinamica.
Riformuleremo alcuni degli esempi precedenti con l’inclusione delle forze di attrito.

Si consideri un piano inclinato scabro con coefficiente di attrito dinamico μd di


altezza h e angolo di inclinazione α ; si calcoli la velocità raggiunta da un corpo
che scende dalla sommità fino alla base del piano.

Ricordando che le forze di attrito dinamico sono proporzionali alla componente


normale della risultante delle forze che agiscono sul corpo e che si oppongono al
moto si ha (si veda la Figura 3.1.5)
F A = − μ d mg cos(α ) (1.22)
per cui, tenuto anche conto di questo termine, avremo, dal teorema delle forze vive
quanto segue
1 2
mv = mgl (sin(α ) − μ d cos(α )) (1.23)
2
da cui
v = 2 gh (1 − μ d ctg (α ))
(1.24)

F A = μd F
F//
l F
Fp
h

Fig.3.1.5. Corpo che scivola lungo una superficie scabra inclinata:


rappresentazione vettoriale della forza di attrito.

Riformuleremo ora l’esempio del giro della morte con l’inclusione delle forze di
attrito e determineremo l’altezza minima se il piano inclinato non è liscio ma
scabro con un coefficiente di attrito dinamico pari a μd .

Il calcolo dell’energia cinetica alla fine del piano inclinato va fatto come
nell’esempio precedente. Per cui alla sommità del cerchio, la cui circonferenza viene
ritenuta priva di attrito, si ha

v = 2 g [h(1 − μ d ctg (α ) − 2 R ] (1.25)


87

da cui, imponendo la stessa condizione di minimo equilibrio, otteniamo


5R
h= (1.26).
2 (1 − μ d ctg (α ))

Abbiamo fino ad ora visto come si combinano forze di attrito e considerazioni di


natura “energetica”. Le forze resistenti che abbiamo considerato sono però di natura
“statica”, ovvero indipendenti dalle condizioni cinematiche del corpo al cui moto si
oppongono. Discuteremo nel seguito un esempio di forza resistente non statica
ovvero dipendente dalla velocità del corpo con cui interagisce.

2. Forze di attrito dipendenti dalla velocità 

In questo paragrafo tratteremo forze resistenti dipendenti dalla velocità e utilizzeremo


nel seguito i risultati qui ottenuti per discutere di problematiche energetiche associati
ad effetti di cadute da altezze notevoli.
E’ esperienza comune che quando ci muoviamo in un fluido siamo soggetti a una
forza resistente, dovuta agli effetti di attrito, che aumenta all’aumentare della
velocità.
L’effetto di tale forza ha un riflesso notevole per quanto riguarda la velocità dei corpi
in caduta ad esempio nell’aria. E’ esperienza altrettanto comune che, in presenza di
aria, una piuma cade meno velocemente di un sasso. Per rendere conto di tale effetto
riformuleremo il problema della caduta dei gravi in presenza di un fluido sottraendo
alla forza peso un termine dipendente dalla velocità. Nel caso di “caduta” in un fluido
in cui sia trascurabile la spinta di Archimede, potremo dunque scrivere2
dv
m = mg − kv (2.1)
dt
dove k dipende dalla viscosità del fluido, dalla forma del corpo in caduta e così via.
Specificheremo meglio tale parametro quando ci occuperemo dell’effetto degli attriti
dipendenti dalla velocità per le cadute in aria.
L’equazione (2.1) è la formulazione matematica dell’asserzione secondo cui il corpo
in caduta è soggetto alla forza peso e ad una forza, resistente, che aumenti
proporzionalmente alla velocità acquisita dal corpo. E’ dunque evidente che la forza
resistente non rimane costante, ma cambia al cambiare della velocità; in un certo
senso possiamo dire che da un lato la forza determina la variazione della velocità
dell’oggetto, ma che a sua volta questa determina l’intensità della forza stessa.
La conoscenza di come la velocità del corpo vari nel tempo presuppone la soluzione
dell’equazione (2.1), che è un'equazione differenziale del primo ordine e va risolta
con i metodi illustrati, ad esempio, in Boccia, Ciocci, Dattoli, Lezioni di Calcolo ed.
Kappa (Roma) 2005.

2
L’assunzione che le forza di attrito dipenda linearmente dalla velocità è per il momento arbitraria,
tratteremo nel seguito il caso di forze dipendenti dal quadrato della velocità.
88

Prima di illustrare tale soluzione cerchiamo di capire meglio il problema da un punto


di vista fisico. Abbiamo fatto notare che il fenomeno del moto di un corpo in caduta e
in presenza di una forza dipendente dalla velocità è il risultato di una sorta di
compromesso tra la variazione di velocità indotta dalla forza e la variazione della
forza dovuta alla variazione di velocità.
Possiamo dunque aspettarci che, se inizialmente la velocità del corpo è zero, la forza
resistente non conta nulla e comincia ad assumere una rilevanza sempre maggiore al
crescere della velocità, finché non è cresciuta tanto da bilanciare la forza peso. A
questo punto la risultante delle forze agenti sul sistema è nulla e il corpo si muoverà
con una velocità costante, che rappresenta appunto la velocità limite che indicheremo
con vL .
Possiamo, pertanto, calcolare tale velocità come segue
dv g
m = 0 → mg − kv L = 0 → v L = ,
dt γ
k (2.2).
γ =
m
Discuteremo con maggiore dettaglio il significato di velocità limite a cui assoceremo
un'altezza limite
1 v L2 1 g
hL = = (2.3),
2 g 2γ2
che può essere intesa come l’altezza da cui cadendo il corpo, in assenza di forze di
attrito, acquisirebbe una velocità equivalente a quella limite.
Come già detto in precedenza, l’equazione (2.1) ci permette di determinare come vari
la velocità nel tempo e vedremo che la presenza della forza resistente dipendente
dalla velocità ci fornisce una legge del moto significativamente diversa da quella del
moto uniformemente accelerato.
Per risolvere il problema dovremo far uso di qualche semplice nozione di calcolo
integrale. Riscrivendo la relazione precedente nella forma
dv
= −γ v + g (2.4),
dt
e utilizzando quanto illustrato nelle lezioni di calcolo si ottiene

−γ t 1 − e −γ t
v = v0e +g (2.5)
γ
dove v0 rappresenta la velocità iniziale.
La relazione precedente fornisce la soluzione del nostro problema e può essere
tradotta come segue: dopo un certo tempo t >> 1 γ = τ L (si dimostri che γ ha le
dimensioni dell'inverso di un tempo) il corpo raggiunge la velocità limite che,
praticamente, potrà essere scritta anche nella forma
89

g
vL = = gτ L (2.6)
γ
In Figura 3.2.1 abbiamo riportato l’andamento della velocità nel tempo per un corpo
in caduta libera, con velocità iniziale nulla e senza l’effetto della resistenza dell’aria e
per un caso in presenza di forze dipendenti dalla velocità con γ = 0.3 s −1

75
v (m/s) v=g t
50

25
–γ t 1- e –γ t
v = v0 e +g
γ
0
2 4 6 8 t ( s) 10

Fig.3.2.1. Andamento della velocità in funzione del tempo per un corpo che
cade in presenza della resistenza dell’aria e in caduta libera.

Dopo circa 10 s il corpo ha praticamente raggiunto una velocità limite di 32.7 m/s,
mentre, in assenza di effetti di attrito, si sarebbe avuta una velocità molto maggiore.
L’esempio che segue serve a precisare come le relazioni precedenti siano legati a
quelle del moto uniformemente accelerato.

Si dimostri che lo spazio percorso da un corpo soggetto alla forza peso e alla
forza di attrito secondo quanto descritto dall’equazione (2.1) è legato al tempo
dall’equazione
⎡t −
t
τL

h = gτ ⎢ − (1 − e )⎥
2
(2.7)
⎢⎣τ L
L
⎥⎦
e che in assenza di forze di attrito la relazione precedente si riduce alla ben nota
1 2
relazione h = gt .
2
Assumendo che inizialmente la velocità e lo spazio percorso siano nulli, avremo dalla
equazione (2.5)
t
ds −
= gτ L (1 − e τ L ) (2.8)
dt
90

che rappresenta un'equazione differenziale del primo ordine, che una volta integrata
con i metodi descritti nelle Lezioni Di Calcolo, fornisce il risultato cercato.
L’esempio che segue tende a chiarire ulteriormente il significato di velocità ed
altezza limite.

Si dimostri che il legame tra velocità acquisita e spazio percorso è, nel caso di
caduta in presenza di forze di attrito, dato da

v h
⎛ v ⎞ −
2h 1 2
e ⎜⎜1 − ⎟⎟ = e L ,
vL
hL = gτ L (2.9)
⎝ vL ⎠ 2

La relazione precedente può essere ottenuta combinando le equazioni precedenti,


come il lettore può verificare per proprio conto3.

In Figura 3.2.2 abbiamo riportato l’andamento della velocità normalizzata alla


velocità limite, in funzione dell’altezza anch'essa divisa per l'altezza limite,
mostrando anche la differenza rispetto al caso di caduta libera ( v = 2 gh ). Nel caso
“libero” la velocità crescerebbe indefinitamente con lo spazio percorso.

v
vL
3

(b)
2

1
(a)

0
2 4 6 h
hL
Fig.3.2.2. Andamento della velocità, divisa per la velocità limite, in funzione
dell’altezza, divisa per l'altezza limite, per un corpo che cade
in presenza della resistenza dell’aria (a) e in caduta libera (b).

3
In alternativa si noti che tale relazione può essere ottenuta tenendo conto che la velocità acquisita
dv g
e lo spazio percorso sono legati dall’equazione differenziale = − τ L (il Lettore derivi tale
dh v
risultato per proprio conto). L’equazione integrata con i metodi descritti in Boccia, Ciocci, Dattoli
Lezioni di Calcolo forniscono la relazione (2.8)
91

v h
Avendo riportato in funzione di possiamo anche afferrare meglio il significato
vL hL
di velocità limite e di altezza limite, che, precisiamo di nuovo, può essere intesa come
l’altezza da cui il corpo, cadendo liberamente, acquisirebbe la velocità limite.
Anche in questo caso sembra che non valga la legge di conservazione dell’energia e
nemmeno il teorema delle forze vive.
E’ però evidente che il lavoro compiuto dalle forze gravitazionali serve a compensare
quello fatto dalle forze di attrito e, come vedremo nei capitoli dedicato alla
termodinamica si perde sotto forma di calore, acquisito in parte dal corpo stesso e in
parte dalle molecole del fluido in cui il corpo si muove.
I concetti di altezza e velocità limite saranno ripresi nel Capitolo V, in cui tratteremo
le conseguenze di incidenti dovuti a cadute da altezze notevoli.

3.  Lavoro ed energia potenziale per forze non costanti  

In questo paragrafo abbiamo considerato forze indipendenti dallo spostamento, ma


non abbiamo fatto cenno al caso di forze più generali, che possano dipendere dalla
posizione stessa. Un tipico esempio è quello esercitato da una molla (si veda la Figura
3.3.1).

F
x

Fp

Fig. 3.3.1. Forza di richiamo elastica di una molla.

In questo caso si dice che la molla reagisce ad uno spostamento dalla sua posizione
di equilibrio con una forza di “richiamo”, proporzionale allo spostamento medesimo,
ovvero
r r
F = −k x (3.1),
dove la costante k (se ne determinino le dimensioni) è appunto la costante elastica.
La relazione precedente è comunemente nota come legge di Hooke e stabilisce che
92

una forza di tipo elastico si oppone al moto di allontanamento dalla posizione di


equilibrio in maniera proporzionale allo spostamento prodotto. E’ quindi evidente che
la forza non è costante ma dipende dallo spostamento stesso. Il calcolo del lavoro
compiuto, per produrre un certo spostamento sotto l’effetto di tale forza, richiede
qualche cautela rispetto al caso della forza costante.
Con riferimento alla Figura 3.3.2 notiamo che la forza in funzione dello spostamento
è una retta il cui coefficiente angolare è proprio la costante elastica.

F= k x

1
k x2
2

0 x
Fig. 3.3.2. Grafico della forza di reazione esercitata da una molla di
costante elastica k. Calcolo del lavoro effettuato dalla molla.

Notato che il lavoro è il prodotto della forza per lo spostamento, potremo procedere
come già fatto nel calcolo dello spazio percorso nel caso del moto uniformemente
accelerato, quando si è determinato, nota la dipendenza della velocità
dall’accelerazione e dal tempo, lo spazio percorso. Utilizzando tale analogia
ricaviamo il lavoro, dato dall’area della curva tratteggiata in Figura, ottenendo così
1 2
L= kx (3.2).
2
La stessa espressione vale per definire l’energia potenziale di una molla “compressa”
di una certa quantità x rispetto alla posizione di equilibrio.
Il seguente esempio servirà ad illustrare i risultati precedenti.

Con riferimento alla Figura 3.3.3 si determini l’energia cinetica acquisita da un


corpo di massa m = 0.2 Kg , su cui viene trasferita l’energia potenziale di una
molla di costante 7 N / m , se questa è stata compressa di 0.1 m dalla posizione di
equilibrio.
Dalla conservazione dell’energia si ottiene
1 2 1 2
mv = k x (3.3)
2 2
da cui si ricava
93

k
v= x ≅ 0.59 m s −1 (3.4),
m

Fig. 3.3.3. Trasferimento di energia dalla molla compressa


al corpo di massa m = 0.2 kg.

Un ulteriore esempio di forza dipendente dalla posizione è quella della forza


gravitazionale, discussa nel precedente capitolo. In questo caso avremo
Mm
F =G (3.5),
r2
Il lavoro necessario per spostare una massa m sotto l’azione di una forza di tale tipo
sarà dato dall’area tratteggiata nella Figura 3.3.4

Mm
F =G
r2

r
Fig. 3.3.4. Andamento della forza gravitazionale in funzione della distanza r
tra i due corpi. L’area tratteggiata rappresenta il lavoro necessario
per spostare la massa m sotto l’azione della massa M.

I risultati precedenti sono del tutto generali e data una forza dipendente dalla
posizione, come quella gravitazionale rappresentata nella figura precedente, il lavoro
svolto dalla forza agente per un certo tratto sarà sempre dato dall’area compresa tra la
curva e l’asse delle ascisse e delimitata dagli estremi che individuano il segmento di
spostamento, ovvero
s2
r r
L = ∫ F ⋅ds (3.6)
s1
94

Il teorema dell’energia cinetica, discusso in precedenza nel caso di forze costanti


(ovvero indipendenti dallo spazio) può essere esteso e ne dimostreremo la sua validità
più generale per forze non costanti.
Definiremo il lavoro elementare compiuto da una forza F , per un tratto d s come
r r
dL = F ⋅ d s (3.7)
che rappresenta l’area infinitesima corrispondente ad uno spostamento infinitesimo
d s . Ricordando la definizione della forza in termini di massa e accelerazione avremo
r
dv r
dL = m ⋅ds (3.8)
dt
r r
e poiché d s = v dt , potremo anche concludere che
r r
dL = mv ⋅ d v
Notiamo a questo punto che la quantità di moto p = mv può essere rappresentata
come una retta nel piano ( p, v) (si veda la Figura (3.3.5)) e il lavoro sarà dato
dall’area in grigio mostrata in figura, ovvero, scrivendo quanto ottenuto in forma
differenziale4 (si vedano anche le lezioni di calcolo)
1
dL = d ( mv 2 ) (3.9)
2
Calcolando l’integrale tra gli estremi, si ottiene infine il teorema delle forze vive
come
L = T2 − T1 (3.10).

p=m v

1
L= m v2
2

0 v
Fig. 3.3.5. Quantità di moto in funzione della velocità; determinazione grafica
del lavoro effettuato da una massa m con velocità variabile da 0 a v.

4
Si ricordi che la massa è una costante.
95

4. Conservazione dell’energia negli urti 

Nel capitolo precedente abbiamo parlato della legge di conservazione della quantità
di moto negli urti; potremmo ora chiederci se in questi processi insieme a tale
quantità si conservi anche l’energia.
Gli esempi che seguono serviranno a chiarire le problematiche appena sollevate.
Consideriamo, dunque, due punti materiali che si muovano nella stessa direzione con
velocità diverse v1,2 (si veda la Figura 3.4.1). Se il corpo 1 con velocità maggiore
colpisce il secondo e rimane a questo attaccato avremo che, per la conservazione
della quantità di moto la velocità dei due corpi attaccati dopo l’urto è (Il lettore derivi
per proprio conto il seguente risultato)
m v + m2 v 2
V= 1 2 (4.1)
m1 + m2

m2
v2 M = m1 + m2

m1 v1 V

Fig. 3.4.1 Esempio di urto anelastico tra due punti materiali di massa m1
e m2 che si muovono con velocità v1 e v2 .

Si noti che v1 e v2 non sono valori assoluti ma quantità algebriche il cui segno resta
fissato dai versi dei due vettori.
Possiamo a questo punto verificare se l’energia si sia conservata nell’urto, calcolando
la differenza tra le energie cinetiche prima e dopo l’urto, ovvero

ΔE =
1
2
[ ]
m1v12 + m2 v22 − (m1 + m2 )V 2 =
1 m1m2
2 m1 + m2
(v1 − v2 ) 2 (4.2),

che ci permette di concludere che l’energia cinetica totale dopo l’urto è minore di
quella iniziale, pertanto, pur conservandosi la quantità di moto, l’energia nel
processo descritto prima non si conserva.
Diremo che in questo caso si tratta di un urto anelastico, ovvero le masse rimangono
“appiccicate” dopo l’urto.
Possiamo ora chiederci dove vada a finire l’energia persa nell’urto. Per chiarire i
meccanismi attraverso cui l’energia possa essere “dissipata” in altre forme,
96

discuteremo un ulteriore esempio in cui il sistema dei punti materiali della figura
precedente sia modificato come segue; al punto 2 è aggiunta una molla di massa
trascurabile e costante elastica k. L’energia persa nell’urto potrebbe in questo caso
essere trasferita alla molla producendo una compressione pari a

m1 m 2
Δx = (v1 − v 2 ) (4.3).
(m1 + m2 )k
Estenderemo i risultati di cui sopra nel capitolo relativo al primo principio della
termodinamica.
L’energia si conserva negli urti se l’urto è completamente elastico, in questo caso per
descrivere un processo di urto oltre alla conservazione della quantità di moto
dovremo aggiungere la conservazione dell’energia cinetica. Considerando dunque il
caso di un urto uni-dimensionale in cui i due corpi emergono con velocità v'1,2
avremo che queste possono essere determinate dal sistema di equazioni

m1v1' + m2 v 2' = P,
m1 (v1' ) + m2 (v 2' ) = 2 E ,
2 2 (4.4)

dove P,E rappresentano l’impulso totale e l’energia cinetica totale iniziale. Dalla
soluzione del precedente sistema si ottiene come soluzione possibile (il Lettore lo
provi e ne discuta il significato fisico)

α P + 2(1 + α 2 ) E − m2 P 2 P2
v =
'
, E ≥ m2 ,
m1 (1 + α 2 ) 2(1 + α 2 )
1

(4.5)
m
α= 1
m2
mentre la velocità v'2 si otterrà scambiando nella precedente equazione l’indice 1 con
l’indice 2 (perché? E quale è il significato fisico?)
Si discuta l’esistenza di altre possibili soluzioni e si precisi in quale condizioni si
possano ottenere.

5.  La potenza  

Nel paragrafo precedente abbiamo introdotto il concetto di lavoro, definito


semplicemente come il prodotto scalare della forza per lo spostamento. Abbiamo
visto che il lavoro è una quantità scalare ed è una forma di energia; insieme al
concetto di lavoro stesso è importante introdurre quello di potenza, che è in un certo
senso una misura della velocità con cui il lavoro viene compiuto. L’unità di misura
−1
della potenza nel sistema MKS è il watt ( W = 1 J s ) .
Al pari della velocità media potremo definire una potenza media come
97

ΔL
PM = (5.1)
t 2 − t1
ed una potenza istantanea come
ΔL
Pi = lim t2 →t1 (5.2).
t 2 − t1
Consideriamo il lavoro compiuto da una forza costante nel tempo. Potremo in questo
caso affermare che
Δs
Pi = lim t2 →t1 F (5.3)
t 2 − t1
ovvero che la potenza istantanea è pari a
Pi = Fv (5.4).
che può essere interpretata, da un punto di vista fisico, come la potenza impegnata da
un sistema meccanico per mantenere un corpo alla velocità v, se questo è soggetto ad
una forza resistente F.
Il seguente esempio può servire a chiarire quanto discusso prima

Consideriamo la Figura 3.5.1 in cui si mostra un’auto in moto su un piano


inclinato, con un angolo pari a 30°; si vuole sapere quale deve essere la potenza
erogata dal motore della macchina perché questa possa mantenere durante la
salita una velocità di 80 km/h, se la sua massa è 1000 kg.

Fp

α = 30°
Fig. 3.5.1. Auto in moto su un piano inclinato.

La forza resistente in questo caso è F= mg sin(α), cosicché si ottiene


1 80 ⋅ 1000
P = 1000 ⋅ 9.81 ⋅ W ≅ 109 kW (5.5).
2 3600

Molto spesso si usa, come misura della potenza il Cavallo Vapore (CV), equivalente
a 735 W o il Cavallo Vapore britannico, Horse Power (HP), equivalente a 746 W.
Nel caso del presente esempio si richiede che il motore della nostra automobile sia in
grado di erogare una potenza pari a circa 146 HP.
98

Da quanto detto prima, risulta anche evidente che, nota la potenza a disposizione di
un certo dispositivo, è possibile determinare l’energia o il lavoro fornito in un certo
tempo di operazione e infatti si ottiene
L = PΔt (5.6)
e ciò ci permette di definire il Chilowattora (KWh) come la quantità di energia
fornita da una sorgente di 1000 Watt operante per un’ora, ovvero
1 KWh = 3.6 ⋅10 6 J = 3.6 MJ (5.7).
Vediamo ora come le considerazioni precedenti si traducano in nozioni pratiche.

Uno spot pubblicitario afferma che un’auto di 1200 Kg può accelerare da ferma
fino a raggiungere una velocità di 90 km/h in un tempo di 8 s. Determinare la
potenza media che il motore deve sviluppare per determinare tale accelerazione.

Il lavoro compiuto può essere calcolato dal teorema delle forze vive, per cui potremo
scrivere
m 2 2
P= (v f − vi ) ≅ 64CV (5.8).
2Δt

Un motore di 0.25 HP viene utilizzato per sollevare un carico ad una velocità di


5 cm s-1, determinare il carico massimo sollevabile a tale velocità.

Tale informazione si ottiene dalla relazione


P = F p v = mgv (5.9)
da cui segue
P 0.25 ⋅ 746
m= = Kg ≅ 380 Kg (5.10)
g v 9.81 ⋅ 0.05

Si determini la potenza (puramente meccanica) impegnata da una persona di


60 kg in moto con velocità di 2 m s −1 su un piano inclinato con pendenza pari a
30°.

In base a quanto discusso in precedenza il lettore non avrà difficoltà a concludere che
P = m g sin(30 o )v ≅ 590 W

L’organismo umano può essere assimilato ad una macchina, che per il solo
funzionamento basale dissipa, in condizioni normali, una potenza di circa 85 W.
99

Determinare l’energia necessaria in una giornata al corpo umano nelle sole


condizioni di riposo.
Il calcolo è immediato ed infatti si ottiene
E = PΔt ≅ 85 ⋅ 3.6 ⋅103 ⋅ 24 ≅ 2.04 KWh (5.11).
E' opportuno, a questo punto, introdurre un'altra unità di misura dell'energia della
quale tratteremo ampiamente nella seconda parte del libro dedicata alla
termodinamica. Molto spesso per quanto riguarda il fabbisogno energetico del corpo
umano si parla di calorie. La relazione tra calorie e Joules è espressa dalla seguente
identità
1 cal = 4.186 J (5.12)
Dal punto di vista nutrizionale quella che viene comunemente detta “Caloria” è in
realtà una Chilo-caloria, detta anche grande Caloria: Kcal = 10 3 cal .
Il fabbisogno energetico del corpo umano, per il solo mantenimento, si aggira
pertanto intorno alle 73Kcal / h .

Una tipica forza resistente è quella dipendente dalla velocità, discussa nel paragrafo 2
di questo Capitolo; dalla definizione di forza scritta come
F = −γ v (5.13)
si desume la potenza impegnata dal corpo per mantenere la velocità costante, ovvero
P = γ v2 (5.14).

Si determini la massima velocità raggiungibile da una macchina con massa di


1000 kg e potenza di 130 CV in moto su una strada con una pendenza di 30° e
soggetta ad una forza dipendente dalla velocità con k = 300 kg ⋅ s .

La potenza della macchina dovrà essere erogata per vincere la forza peso e la forza
resistente dovuta all’aria, pertanto avremo
mg sin(ϕ )v + kv 2 = P ,
da cui segue (si dimostri perché e si spieghi perché si è scelta una sola radice)
P
− g sin(ϕ ) + ( g sin(ϕ )) 2 + 4γ
m k
v= , γ= (5.15)
2γ m

da cui si ottiene il valore cercato, che il Lettore è invitato a determinare.

Nei prossimi paragrafi cercheremo di chiarire i risultati precedenti nel contesto più
ampio del dispendio energetico, associato al corpo umano.
100

6.  Le macchine semplici  

Nei paragrafi precedenti abbiamo parlato di lavoro e potenza e vedremo come questi
concetti possano essere integrati in quello di macchina in generale ed in particolare
in quello di macchina semplice.
Chiariremo in questo paragrafo i concetti prima introdotti in maniera qualitativa,
stabilendo, in termini più rigorosi, cosa si intenda, da un punto di vista fisico, per
macchina e per rendimento.
Esempi di macchine semplici sono la leva, il piano inclinato, la puleggia… In ognuna
di queste il principio fondamentale è quello di provocare una variazione del modulo,
della direzione o del metodo di applicazione di una forza al fine di ottenere un
determinato vantaggio.
Come già detto, il piano inclinato è una macchina semplice; consideriamo, con
riferimento alla Figura 3.6.1,

Fp
α
Fig.3.6.1. Esempio di macchina semplice: il peso collegato al
corpo con una corda lo fa salire lungo il piano inclinato.

l’utilizzo di tale macchina per portare un certo peso ad una determinata altezza. La
domanda che ci poniamo è
“che vantaggio offre l’utilizzo di un piano inclinato rispetto al sollevamento
diretto?”
Non a caso abbiamo utilizzato il termine vantaggio a cui dovremo dare una
definizione quantitativa.
Si definiscono due tipi di vantaggio
a) Vantaggio meccanico effettivo, ovvero rapporto tra la forza esercitata dalla
macchina sul carico rispetto alla forza utilizzata per azionare la macchina, in
questo caso avremo
Fp
VM eff = (6.1)
F
101

b) Vantaggio meccanico ideale, ovvero il rapporto tra lo spostamento della forza in


ingresso rispetto allo spostamento del carico, in questo caso si ottiene
Lp
VM id = (6.2).
h
Infine definiamo il rendimento come il rapporto tra il lavoro in uscita rispetto il
lavoro in ingresso, cosicché in questo caso avremo
Fp h
η= (6.3),
FL p

o in alternativa, come il rapporto tra la potenza erogata e quella assorbita.

Sebbene il corpo umano non possa essere considerato una macchina semplice,
possiamo, in base a questa ultima definizione, chiarire cosa si intenda per suo
rendimento.
Il rendimento della macchina umana, rappresenta la sua capacità di trasformare le
calorie metabolizzate in lavoro meccanico. E’ evidente che solo una parte di queste
saranno trasformate in lavoro meccanico, mentre le altre saranno dedicate al
mantenimento del sistema. Tanto per dare un numero di riferimento possiamo dire
che tale valore può essere stimata intorno al 20% , cosicché un lavoratore per
sollevare da terra un peso di 10 Kg ad una altezza di 10 m , impegnerà circa 1.2 Kcal di
cui solo 0.23 Kcal sono ascrivibili a lavoro meccanico.
Dunque il rendimento meccanico del corpo umano sarà dato dal rapporto tra la
quantità di lavoro meccanico sviluppata (espressa in calorie) e le calorie assorbite,
ovvero
LM ( cal )
η= (6.4)
E ( cal )
il dato del 20%, prima citato, è meramente indicativo.
E’ altresì evidente dalle relazioni precedenti che, per i sistemi puramente meccanici,
il rendimento si potrà definire anche come
VM eff
η= (6.5).
VM id
L' informazione fornita dal rendimento è estremamente utile, in quanto permette di
stimare l’effetto delle forze di attrito. Infatti, in assenza di forze di attrito, il
rendimento del sistema è sempre il 100%. A tale scopo ritornando all’esempio del
piano inclinato si ottiene che, in assenza di forze di attrito, la minima forza,
necessaria per trascinare il carico lungo il piano, è
F = mg sin(α ) (6.6)
da cui segue (si noti che L p sin (α ) = h )
102

mg sin(α ) L p
η= =1 (6.7).
mgh
E’ anche evidente che in condizioni ideali, cioè in assenza di forze dissipative, il
vantaggio meccanico ideale è identico al vantaggio meccanico effettivo.
Illustreremo ulteriormente il concetto di macchina con qualche esempio che metterà
in evidenza l’essenza fisica e pratica dei concetti prima esposti.

Al pari del piano inclinato la carrucola è una macchina semplice, con


riferimento alla Figura 3.6.2 si mostra un carico da 400 N che può essere
sollevato con una forza da 50 N applicata al cerchio esterno della ruota. Se i
raggi della ruota e dell’asse sono rispettivamente 85 cm e 6 cm calcolare il
vantaggio meccanico effettivo e il rendimento di tale macchina.

r R

50 N
F

400 N

Fp

Fig. 3.6.2. Carrucola con due pulegge di raggi R e r.

Dalle definizioni precedenti segue


a) Il calcolo del vantaggio meccanico effettivo è dato dal rapporto tra le forze ed è
pertanto immediato
103

400
VM eff = =8
50
b) Gli spostamenti delle forze sono legate alle lunghezze delle circonferenze descritte
in un giro completo ovvero

2π R
VM i = ≅ 14.16
2π r

c) Infine il rendimento è il rapporto tra i valori ottenuti in a) e in b), ovvero


η ≅ 56.4%.

Il martinetto a vite della Figura 3.6.3 ha un braccio di leva di 40 cm e un passo


di 5 mm. Se il rendimento è il 30%, determinare la forza orizzontale applicata
perpendicolarmente al braccio di leva, necessaria per sollevare un carico di 270
Kg.

40 cm
Fp

5 mm

Fig. 3.6.3. Martinetto idraulico.


Agendo orizzontalmente sul braccio di leva, la vite solleva il carico
rappresentato in figura dalla forza peso che grava sul martinetto.

Dalle relazioni precedenti si evince che noto il rendimento e il vantaggio ideale si può
esprimere il vantaggio efficace come
VM eff = ηVM id (6.8),
che combinata con la (6.1) dà
104

Fp
F= (6.9).
ηVM id
Il rendimento ideale viene calcolato tenendo conto che in corrispondenza ad un giro
completo della forza applicata alla leva del martinetto si ottiene un sollevamento del
peso di 5mm ovvero VM id ≅ 502, da cui si ottiene F ≅ 17 .58 N .

7.  Cenno alla dinamica dei corpi rigidi 

Nei paragrafi precedenti ci siamo riferiti essenzialmente alla dinamica del punto
materiale e abbiamo trattato il moto dei corpi senza considerare la loro estensione,
forma geometrica e così via; abbiamo tacitamente derogato da tale assunzione solo
quando abbiamo trattato il caso del momento delle forze, però la trattazione è stata
necessariamente carente e tesa ad evidenziare come si stabilissero, da un punto di
vista pratico, le condizioni di equilibrio.

Per renderci conto della necessità di estendere la trattazione precedente in maniera da


tenere conto della dimensione fisica di un corpo, valga l’esempio di Figura 3.7.1 , che
rappresenta una disco pieno che ruota intorno al suo asse; se il disco è omogeneo il
suo baricentro coincide con il suo centro geometrico, che è evidentemente fermo.

Fig. 3.7.1. Disco in rotazione con velocità angolare ω.

Se noi trattassimo il disco come un punto materiale associando tutta la sua massa al
centro di massa saremmo costretti ad affermare che l’energia cinetica del disco è
nulla, cosa che evidentemente non è vera visto che il disco sta ruotando. Più
correttamente potremo dire che la sua energia traslazionale è nulla, ma non quella di
rotazione: per energia traslazionale ci riferiamo a quella relativa al moto del centro di
massa. Prima di procedere oltre, chiariamo cosa si intenda per centro di massa. In
Figura 3.7.2 viene mostrato un sistema di n masse differenti mi caratterizzate da
r
vettori di posizione ri ,
105

y
mi

ri baricentro
x

Fig. 3.7.2. Baricentro di un sistema di n masse differenti.

Definiremo come vettore posizione del centro di massa di tale sistema la quantità
n
r
r ∑ ii
m r
rcm = i =1
n (7.1).
∑ mi
i =1
Se tutte le masse sono identiche il baricentro coincide con il centro geometrico del
sistema, se una massa è molto maggiore delle altre il baricentro sarà più prossimo a
tale massa come ad esempio nel caso Terra-Sole, in cui, con buona approssimazione,
si può assumere il Sole come centro di massa del sistema.
Chiarito tale concetto ritorniamo all’esempio della disco che ruota e dividiamo la
massa del disco in tante piccole masse identiche che ruotino intorno al centro del
disco che come già detto è il centro di massa di tale sistema. Per quanto abbiamo
imparato sul moto circolare, ogni singola massa avrà una velocità angolare data da
vi = ω ri (7.2).
I vettori di posizione ri sono riferiti ad un sistema di riferimento la cui origine è il
centro del disco che coincide con il baricentro.
Non abbiamo caratterizzato la velocità angolare con l’indice i , perché la velocità
angolare è la stessa per tutte le masse, altrimenti, durante il moto, il disco si
r
deformerebbe. Si noti che nella (7.2) ri = ri .
Alla velocità di cui sopra corrisponderà un' energia cinetica
1
mi ri ω 2
2
Ti = (7.3)
2
e l’energia cinetica totale del disco potrà essere definita come
106

n
1
TR = ∑T
i =1 2
Iω 2
i = (7.4),
dove abbiamo indicato con
n
I = ∑ mi ri
2
(7.5)
i =1
il momento di inerzia del disco e la (7.4) rappresenta la sua energia cinetica di
rotazione.
Teniamo a sottolineare che il momento di inerzia preso in considerazione è quello
rispetto all’asse di rotazione.
Prima di stabilire come si calcoli il momento di inerzia di un qualsiasi corpo esteso,
cerchiamo di chiarirne il significato fisico tramite un esempio.

Consideriamo la Figura 3.7.3 in cui un peso di massa m è sospeso, ad un' altezza


h da terra, ad una carrucola assimilabile ad un disco di raggio R; si determini la
velocità del corpo quando giunge al suolo.

R
ω

v
mg
h

Fig. 3.7.3. Corpo in caduta vincolato ad una carrucola di raggio R.


E’ evidente che quando la massa si mette in moto attiverà la carrucola che comincerà
a ruotare, in modo tale che, quando il corpo giunge al suolo avremo, dalla
conservazione dell’energia
1 1
mgh = mv 2 + Iω 2 (7.6)
2 2
Poiché
v
ω= (7.7)
R
107

otteniamo dalla precedente equazione

1 I 2 gh
gh = (1 + )v 2 ⇒ v= (7.8)
2 mR 2
I
1+
mR 2
da cui si comprende chiaramente il significato fisico del momento di inerzia, che
contribuisce all’inerzia del sistema aumentandola. E’ chiaro dall' equazione (7.8) che
se il momento di inerzia del disco fosse trascurabile, la velocità del corpo a terra
sarebbe quella che avrebbe cadendo liberamente dall’altezza h, in realtà la velocità è
minore perché l’energia potenziale del corpo viene divisa tra la sua energia cinetica di
traslazione e quella di rotazione del disco.

Si dimostri che il momento angolare di un corpo esteso che ruoti con velocità
angolare ω è dato da
r r
Ω = Iω (7.9)
La dimostrazione è banale e si evince dalla Figura (3.7.4)

r n r r
Ω = ∑ Li
n
Li = mi vi ⋅ ri = miω ⋅ ri
2
I = ∑ miri 2
i=1 i=1

vi
ri
r
Ω =ω⋅I
ω

Fig. 3.7.4. Corpo esteso in rotazione con velocità angolare ω.

Vediamo ora come il concetto di lavoro e potenza vadano estesi al caso che stiamo
studiando.
Ritorniamo prima di tutto al momento delle forze utilizzando sempre l’esempio del
disco. In questo caso avremo che una forza applicata come in Figura 3.7.5 produrrà
un' accelerazione angolare α legata al momento della forza τ e al momento di inerzia
come
τ = Iα (7.10)
Rispetto alla seconda legge di Newton possiamo notare le seguenti corrispondenze
τ →F, I →m, α →a (7.11)
108

Se aggiungiamo poi il fatto che la rotazione angolare possa essere assimilata allo
spostamento spaziale avremo le ulteriori corrispondenze
θ → s, ω → v (7.12)
In base a tali corrispondenze possiamo riconoscere quelle relative al lavoro e alla
potenza ed infatti otteniamo
L = τ θ → F s,
(7.13),
P =τω → Fv
che chiariremo con qualche esempio.

F
R
α

Fig. 3.7.5 Momento delle forze nel caso della carrucola.

Il teorema delle forze vive può essere riformulato anche per il caso del moto rotatorio
di un corpo rigido per cui potremo scrivere che
1
τ θ = I (ω f 2 − ωi 2 ) (7.14).
2
Chiarito quanto sopra consideriamo il seguente esempio.
Un disco con un momento di inerzia pari a 2.9 ⋅ 10 −3 Kg ⋅ m 2 ruota con una
velocità angolare pari a 146 rad/s fino a che non agisce su di esso una forza di
attrito con un momento pari a 1.2 ⋅ 10 −2 N ⋅ m , determinare quanti giri compierà
il disco prima di fermarsi.

Dal teorema delle forze vive otteniamo

Iω 2 2.9 ⋅10 −3 ⋅ (1.46) 2 ⋅10 4


θ= = rad ≅ 2576 rad (7.15)
2τ 2 ⋅1.2 ⋅10 −2
corrispondenti a circa 400 giri.
Consideriamo ora una ruota di massa M che rotola lungo un piano con coefficiente di
attrito μ ; il moto della ruota consta di due contributi:

a) quello di traslazione del centro di massa

b) quello di rotazione rispetto all’asse di rotazione istantaneo.


109

Possiamo ovviamente chiederci cosa determini la rotazione della ruota e perché


questa rotoli senza strisciare.
Con riferimento alla Figura 3.7.6, ci aspettiamo che data una forza agente sulla ruota
l’accelerazione prodotta sia data da
Ma = F − f (7.16)
La forza f dovuta all’attrito produce un momento dato da
d
I ω= fr (7.17)
dt

Fp

Fig.3.7.6. Moto di una ruota lungo un piano inclinato

dove con I abbiamo indicato il momento di inerzia rispetto all’asse di rotazione.


Poiché la ruota rotola senza strisciare si avrà
v d a
ω= → ω= (7.18)
r dt r
da cui in definitiva segue che l’accelerazione a cui è soggetta la ruota può scriversi
come
Fr 2
a= (7.19)
Mr 2 + I
il cui significato fisico è trasparente e chiarisce che il momento di inerzia totale della
ruota che esegue il moto descritto in a),b) si ottiene sommando quello relativo al
centro di massa e il momento di inerzia del centro di massa, calcolato rispetto
all’asse istantaneo di rotazione.

Si provi che il momento di inerzia di un corpo rispetto ad un asse parallelo a


quello passante per il suo centro di massa è dato dalla somma del momento di
inerzia rispetto al baricentro e del momento di inerzia del suo baricentro
rispetto all’asse parallelo ( Teorema di Steiner).
110

I = IB +M d 2 z'
z
d
B

Fig. 3.7.7. Momento di inerzia di un corpo rispetto ad un asse


parallelo a quello di rotazione.

Come applicazione del “Teorema” precedente, sapendo che il momento di


1
inerzia di un cerchio è MR 2 si determini il momento di inerzia rispetto al
2
centro del corpo di Figura (3.7.8) rappresentata da un cerchio R con un buco
circolare di raggio r il cui centro dista d dal cerchio grande.

Per risolvere il quesito dobbiamo determinare un modo per trattare il buco, la cosa
più naturale da fare è quella di considerare il cerchio grande pieno e in
corrispondenza del buco assumere una massa negativa con le stesse dimensioni, in
modo tale che essa contribuirà al momento di inerzia totale con un contributo
negativo.
Applicando il teorema degli assi paralleli avremo dunque
1 mr 2
I = MR (1 −
2
2
) − md 2
2 MR

R
d r

Fig. 3.7.8. Momento di inerzia di un disco con un foro il cui centro


dista d dal centro del disco.
111

Una ruota motrice di una trasmissione a cinghia collegata a un motore elettrico


ha un diametro di 38 cm e funzione a 1200 giri/min. Se la tensione della cinghia di
trasmissione è 470 N; si calcoli la potenza ceduta dalla cinghia alla ruota.

Dalla seconda delle (7.12) otteniamo


P = F rω = 470 ⋅ 0.19 ⋅ 20 ⋅ 2π ≅ 11.2 kW . (7.20).
Prima di chiudere ricordiamo che anche nel caso dei corpi rigidi il momento angolare
è, in assenza di forze esterne, una quantità conservata e i prossimi esempi possono
chiarirne il ruolo.

Un uomo si trova in piedi su una piattaforma libera di ruotare, Con le braccia


tese verso l’esterno la sua velocità di rotazione è 0.25 giri/s mentre con le braccia
chiuse è 0.8 giri/s. Calcolare il rapporto tra i momenti di inerzia dell’uomo nel
primo e nel secondo caso.

Dalla conservazione del momento angolare segue che


I iω i = I f ω f (7.21)
dove i sotto indici i, f stanno per iniziale e finale; dalla relazione precedente segue
I i ω f 0.80
= = ≅ 3.2 (7.22).
If ω i 0.25

Un disco, avente un momento di inerzia I1 ruota liberamente con velocità


angolare ω1, quando un secondo disco che non ruota, avente un momento di
inerzia I2, viene fatto cadere sul primo. Si calcoli la velocità angolare dei due
dischi che ruotano insieme,

Dalla conservazione del momento angolare si ha


I 1ω1 = ( I 1 + I 2 ) ω (7.23)
da cui segue
I1
ω= ω1 (7.24).
I1 + I 2
112
113

CAPITOLO IV
MOTO ARMONICO, VIBRAZIONI, ELASTICITA’

1.  Generalità sul moto armonico 

Nel paragrafo in cui abbiamo trattato i problemi relativi al moto circolare uniforme
abbiamo visto che, definita una velocità angolare ω, è possibile scrivere l’angolo
descritto dal raggio vettore (si veda la Figura 4.1.1 ) come:
α = ωt (1.1)
se l’angolo iniziale è nullo.

R sin(α) y
0
Rcos(α) α
R
x

Fig. 4.1.1. Moto circolare uniforme.

In base a quanto imparato sui vettori potremo scomporre il moto, che avviene nel
piano xy, lungo le due componenti in base alle relazioni

x = R cos( ω t )
(1.2).
y = R sin( ω t )

Da un punto di vista qualitativo il moto lungo gli assi coordinati, determinato dalle
relative proiezioni del punto P mentre percorre la circonferenza (si veda la Figura
4.1.2 dove tale concetto viene espresso graficamente), è caratterizzato da una sorta di
oscillazione, la cui ampiezza è definita dal raggio del cerchio e il cui periodo è
determinato da quello del moto circolare.

Un moto siffatto viene detto armonico semplice.


Nel seguito ometteremo l’aggettivo semplice, per ragioni di brevità, e lo utilizzeremo
là dove strettamente necessario.
114

y x

P P
xp
R
α
xp
R x 0 2π 4π 6π 8π α

Fig. 4.1.2. Moto armonico semplice descritto dalla proiezione sull’asse x


del punto materiale che percorre la circonferenza.

Abbiamo inoltre visto che la velocità del punto materiale che si muove sulla
circonferenza è rappresentata da un vettore di modulo ω R, perpendicolare al raggio
vettore le cui componenti (si veda la Figura 4.1.3 ) si scrivono come
v x = −ω R sin(ω t )
(1.3).
v y = ω R cos(ω t )
Per contro la relativa accelerazione, detta centripeta, è un vettore di modulo ω2R,
diretto come il raggio vettore ma con verso opposto (si veda la Figura 4.1.4); avremo
pertanto che
a x = −ω 2 R cos(ω t ) , a x = −ω 2 x
(1.4).
a y = −ω 2 R sin(ω t ) , a y = −ω 2 y

y
|v |=ω R

v
α α=ωt
ω Rcos(α )

−ωRsin(α) P x
R
α

Fig. 4.1.3. Componenti della velocità del punto materiale che percorre
la circonferenza di raggio R.
115

y
| a |=ω 2 R

−ω 2 Rsin(α)
α = ωt
P
α x
2
a −ω Rcos(α)

R
α

Fig. 4.1.4. Componenti dell' accelerazione del punto materiale che percorre
la circonferenza di raggio R.

E’ esperienza comune che una massa attaccata ad una molla, se spostata dalla sua
posizione di equilibrio, descrive, intorno a questa, una serie di oscillazioni con
ampiezza massima pari allo spostamento (si veda la Figura 4.1.5 ). E’ esperienza
altrettanto comune che tali oscillazioni sono smorzate a causa dell’attrito, ma, se
questo potesse essere eliminato, il moto persisterebbe indefinitamente e possiamo
verosimilmente aspettarci che si tratta di moto armonico.

Fp

Fig. 4.1.5. Moto armonico di un peso attaccato ad una molla che oscilla attorno
alla sua posizione di equilibrio.
Vediamo ora come il moto di una massa soggetta ad una forza di tipo elastico sia
effettivamente un moto armonico. Considerando pertanto la già citata legge di Hooke,
da cui segue
ma x = − kx (1.5)
che è perfettamente analoga alla (1.4), se poniamo
116

k
ω= (1.6).
m
In conclusione possiamo dire che un corpo soggetto solo ad una forza di richiamo
elastico si muove di moto armonico, con un periodo dato da
1 m
T= (1.7).
2π k
Indicando con A l’ampiezza dell’oscillazione, potremo descrivere l’oscillazione come
x = A cos(ω t ) (1.8)
e ricordando la definizione di energia totale del sistema come energia cinetica più
energia potenziale, avremo
1 1 1 1
E = mv x + kx 2 = m ( Aω ) 2 = kA 2
2
(1.9).
2 2 2 2
Vedremo in seguito come tali nozioni teoriche si traducano in fatti di natura pratica.
Cercheremo di chiarire le nozioni precedenti con alcuni esempi.

Si dimostri che il moto circolare uniforme può essere visto come la combinazione
π
di due moti armonici, mutuamente ortogonali, e sfasati temporalmente di .

Per tenere conto dello sfasamento temporale assumeremo che il moto rispetto all’asse
delle y avvenga ad un tempo
π
t′ = t − (1.10)

(si analizzi il significato fisico di tale relazione).
Dalla definizione di moto armonico segue pertanto che (si ricordi che
π
cos(α − ) = sin(α ) )
2
x = A cos(ω t ) ,
π (1.11).
y = A cos(ω (t − )) = A sin(ω t )

Per fare “sparire” la variabile tempo e quindi determinare la forma della traiettoria
spaziale basterà sommare i quadrati delle due componenti di moto, ottenendo così
x 2 + y 2 = A2 (1.12)
che è proprio l’equazione di una circonferenza di raggio A.

2.  Alcune considerazioni sulle forze di tipo elastico 

Nel paragrafo precedente abbiamo fatto esplicito riferimento alla legge di Hooke per
dedurre che una massa soggetta ad una forza di tipo elastico esegue (in assenza di
attrito) una moto di tipo armonico. Abbiamo tacitamente ammesso che la forza
117

esercitata da una molla sia proporzionale allo spostamento dalla condizione di


equilibrio; bisogna notare che tale affermazione è corretta solo se si considerano
piccoli spostamenti rispetto all’equilibrio, mentre per spostamenti arbitrari le cose
sono più complicate e non saranno trattate nelle presenti lezioni.
Cerchiamo ora di chiarire con alcuni esempi in quante occasioni di esperienza
quotidiana intervenga un tipo di fenomenologia, che può essere ascritta a quella
relativa al moto armonico semplice.

Con riferimento alla Figura 4.2.1 una pallina di 2 kg è attaccata all’estremità di


una lunga asticella; se è necessaria una forza di 8 N per provocare una
deviazione laterale di 20 cm , determinare, nell’ipotesi che il moto sia armonico,
a) la costante elastica dell' asticella, b) la il periodo di oscillazione.

20 cm
F

Fig. 4.2.1. Oscillazione di una pallina attaccata ad un' asticella sulla quale
agisce una forza che ne provoca una deviazione laterale di 20 cm.
E’ evidente che, in base a quanto detto una volta lasciata libera di muoversi, la
pallina, sospesa all’asta, comincerà a oscillare (vibrare) con ampiezza costante se le
forze di attrito sono trascurabili. La costante elastica può essere determinata
direttamente dalla legge di Hooke e così si ottiene
F
k= = 40 N m (2.1)
A
mentre, per quanto riguarda il periodo, avremo
m mA
T = 2π = 2π ≅ 1,4 s (2.2).
k F
Bisogna sottolineare che nei casi pratici l’effetto dell’attrito si manifesta tramite un
trasferimento di parte dell’energia della massa vibrante alle molecole dell’aria, per
cui il moto è quello che si dice un moto smorzato, in cui l’ampiezza delle oscillazioni
decresce fino ad annullarsi. Talvolta a questo processo è associato un rumore
118

caratteristico dovuto alla vibrazioni sonore trasmesse all’aria e successivamente


all’orecchio. Di tali effetti parleremo nel Capitolo VIII.

Con riferimento alla Figura 4.2.2 si definisca la costante elastica di un sistema di


due molle in successione (in serie) con costanti elastiche diverse k1,2.

Se consideriamo tale sistema come equivalente ad una singola molla potremo


determinare la “costante elastica” equivalente in base al seguente ragionamento.

k1 k2

Fig. 4.2.2. 2 molle in successione di costanti elastiche k1 e k2.

Lo spostamento totale determinato dalla applicazione di una forza esterna sarà dato
dalla somma dei singoli spostamenti, avremo pertanto
F F
x1 = , x2 = (2.3).
k1 k2
Assumendo che il sistema delle due molle corrisponda ad un singola molla di costane
elastica kT , avremo
F
x= (2.4)
kT
poiché x = x1 + x2 , segue
1 1 1
= + (2.5).
k T k1 k 2
Il risultato precedente può essere enunciato come segue: l’inverso della costante
elastica di una sistema di molle in serie è pari alla somma degli inversi delle singole
costanti.

Con riferimento alla Figura 4.2.3 si dimostri che la costante elastica equivalente
di due molle in parallelo è
k T = k1 + k 2 (2.6)
119

k1 k2

Fig. 4.2.3. 2 molle in parallelo di costanti elastiche k1 e k2.

La dimostrazione della validità della relazione precedente è piuttosto semplice: lo


spostamento è infatti dovuto alla somma delle due forze di richiamo, da cui si ha
F = k T x = ( k1 + k 2 ) x (2.7)
da cui segue la (2.6).

Quanto ottenuto con le costanti elastiche equivalenti di molle in serie o in parallelo ha


importanti analogie con la teoria dei circuiti elettrici e in particolare delle capacità,
che discuteremo nel seguito. Teniamo comunque a precisare che incontreremo spesso
tale tipo di analogia e ne discuteremo le conseguenze profonde in ambito fisiologico
quando ad esempio tratteremo i meccanismi alla base della respirazione o la
fisiologia dell’occhio.

Le piccole oscillazioni di un pendolo (si veda la Figura 4.2.4) sono riconducibili


ad un moto armonico semplice; si spieghi perché.

Prima di tutto chiariamo cosa intendiamo per piccole oscillazioni. La massa


rappresentata nella Figura, legata ad un filo inestensibile, oscilla lungo un arco di
circonferenza legato all’angolo α dalla relazione
s = lα (2.8).
Abbiamo già visto, nel paragrafo introduttivo, che per piccoli angoli vale
l’approssimazione
1
sin(α ) ≅ α − α 3 (2.9)
6
Nel caso del pendolo si intendono per piccole oscillazioni quelle per cui si possono
trascurare nello sviluppo (2.9) i contributi in di grado superiore al primo. In base a
tale approssimazione avremo
120

α
Fs
s
Fp

Fig. 4.2.4. oscillazione del pendolo.

ma s = − mgsin (ϑ ) ≅ − mgϑ (2.10)


dove l’indice s indica il moto nella direzione dell’arco. Utilizzando la (2.8) avremo
anche
mg
Fs = − s (2.11)
l
che dimostra quanto richiesto dal problema, ovvero che il moto di un pendolo,
nell’approssimazione delle piccole oscillazioni, è di tipo armonico semplice su una
mg
traiettoria curvilinea con una costante elastica equivalente data da k P = . In base a
l
tale osservazione si evince anche che, in tale approssimazione, ha un periodo
indipendente dall’ampiezza di oscillazione dato da
l
T = 2π (2.12).
g

Vedremo altri esempi nei paragrafi successivi in cui discuteremo un legame tra moto
armonico e forze di tipo gravitazionale.

3.  Densità e elasticità 

Nei paragrafi precedenti abbiamo considerato la forza di richiamo da un punto di


vista piuttosto astratto, trattandone gli aspetti concettuali e senza considerarne aspetti
più pratici legati appunto alle proprietà elastiche di un dato materiale.
Prima di considerare tale aspetto del problema introdurremo alcune nozioni che
saranno di notevole importanza anche per ulteriori argomenti trattati nel prosieguo
delle presenti lezioni.
121

Si definisce densità di un corpo il rapporto tra la sua massa e il suo volume, ovvero
m
ρ= (3.1)
V
kg
Tale quantità si misura nel sistema MKS in 3 e vale, per l’acqua distillata a 4 oC di
m
3 kg
temperatura, 10 3 .
m
A questo punto è il caso di fare una piccola digressione ricordando anche che i
volumi, oltre che in m3 possono essere misurati in litri (l) e che
1l = 1 dm 3 (3.2)
Un litro di acqua distillata a 4°C ha dunque la massa di un chilo.
Si definisce peso specifico (ps) di una determinata sostanza il rapporto tra il suo peso
ed il volume che essa occupa
mg
ps = (3.3a)
V
Il peso specifico si misura in N/m3 .
Si definisce invece peso specifico relativo (psr) di una determinata sostanza il
rapporto tra la sua densità e una densità di riferimento
ρ
ps r = (3.3b).
ρ rif
Nel caso dei solidi e dei liquidi tale densità di riferimento è quella dell’acqua mentre
per i gas è quella dell’aria, del cui valore diremo in seguito.
I concetti precedenti sono di importanza fondamentale, è opportuno pertanto che lo
studente consideri gli esempi che seguono con molta attenzione.

La massa di un litro di latte è 1.032 kg, il grasso di latte, che vi è contenuto, ha


3
una densità di 865 kg m allo stato puro e costituisce il 4% del volume del latte.
Quale è la densità del latte scremato?

Indicheremo con p la percentuale di grasso e con i sotto-indici l,s,g le quantità


relative al latte intero, scremato e al grasso; avremo pertanto
ms + mg = ml ,
Vs + Vg = Vl ⇒ Vs = Vl (1 − p ) (3.4)

da cui segue
m − ρ g pVl ρ l − ρ g p kg
ρs = l = ≅ 1039 3 (3.5)
Vl (1 − p) (1 − p) m

Qual' è la massa di un litro di olio di semi di cotone, avente una densità di


kg
926 3 ? Qual' è il suo peso?
m
122

E’ evidente che
mo = ρ oV = 0.926 kg
Fp = ρ oVg ≅ 9.084 N
(3.6)

In un processo elettrolitico di placcatura, viene creato un rivestimento metallico


di spessore pari a 7.5 ⋅ 10 −5 cm . Quanto misura l’area che può essere rivestita di
kg
0.5 Kg di stagno sapendo che la sua densità è 7300 3 ?
m

Indicando con d lo spessore e con A la superficie da rivestire avremo


V = Ad (3.7)
e pertanto
ms = ρ s Ad (3.8)
ovvero
ms
A= ≅ 91.32 m 2
ρsd
(3.9)

Con il seguente esempio vedremo come si possano combinare le nozioni prima


apprese, relativamente ai concetti di densità e forza elastica.

In Figura 4.3.1 è rappresentata la Terra, assunta di forma perfettamente sferica,


in cui è stato praticato un foro che, passando per il centro, congiunga due punti
diametralmente opposti. Si dimostri che una massa m si muoverà in tale tunnel
di moto armonico semplice. Si valuti il periodo di tale moto.

Fig. 4.3.1. Moto oscillatorio di un corpo attorno al centro della Terra.


123

In un punto generico del tunnel la forza sarà sempre diretta radialmente lungo il
centro della sfera; in generale la legge di Newton andrà formulata nel seguente modo
(si veda la Figura):
m ⋅ M (r )
F (r ) = −G (3.10)
r2
dove M(r) rappresenta la massa contenuta nella sfera di raggio r. Definendo R il
raggio medio della Terra, cui corrisponderà la massa M avremo:
M
F = −Gm 2 (3.11)
R
Indicando con ρΤ la densità della Terra avremo
4
M = ρT V = ρT π R 3 (3.12)
3
da cui segue
4
F = − π mGρT R (3.13)
3
che può essere scritta sotto forma della legge di Hooke
F = −kR,
4 (3.14)
k = π mGρ T
3
e pertanto con un periodo di oscillazione dato da

T= (3.15).
Gρ T
2
kg −11 Nm
Assumendo ρ T ≅ 5.51 ⋅ 10 3 e poiché
3
G = 6.67 ⋅ 10 si ottiene un periodo pari a
m kg 2
5.042 ⋅ 10 3 s.
Discuteremo in seguito l’importanza del risultato qui ottenuto quando parleremo del
teorema di Gauss e delle sue conseguenze.

Chiariti i punti di cui sopra, prima di chiudere il presente paragrafo introdurremo


alcune altre nozioni di interesse pratico.
Si definisce “sforzo” σ a cui viene sottoposto un solido il rapporto tra il modulo della
forza agente e la superficie A su cui la forza agisce
F
σ= (3.16)
A
⎛ 1N ⎞
l’unità di misura di tale grandezza è il Pascal ⎜⎜ Pa = 2 ⎟⎟ . Nel seguito useremo,
⎝ 1m ⎠
anche se impropriamente, il termine pressione in riferimento a grandezze puramente
meccaniche quale lo sforzo. Discuteremo con maggiore dettaglio e in un ambito più
appropriato il concetto di pressione nel Capitolo VI.
124

Si dice deformazione ε prodotta da un determinato sforzo il rapporto della variazione


di lunghezza da questa determinata rispetto alla dimensione originaria, ovvero in
formule
Δl
ε= (3.17).
lo
Strettamente collegata alle precedenti quantità è il modulo di Young, definito come
σ Fl
Y = = o (3.18).
ε AΔl
Si noti che da un punto di vista dimensionale le dimensioni del modulo di Young
sono le stesse dello sforzo ed inoltre tale quantità può essere vista come il rapporto tra
il lavoro fatto dalla forza per produrre una determinata deformazione rispetto al
volume coinvolto in tale processo.

Un filo metallico lungo 75 cm e di diametro 0.12 cm subisce un allungamento di


0.035 cm nel caso in cui a una sua estremità venga appeso un carico di 8 kg. Si
determini lo sforzo, la deformazione e il modulo di Young del materiale di cui è
composto il filo di rame.

La forza che produce la deformazione è la forza peso, per cui avremo


mg
σ = 2 ≅ 6.94 ⋅10 7 Pa
πr
ε ≅ 4.67 ⋅10 −4 , (3.19).
mg lo
Y= ≅ 1.49 ⋅1011 Pa = 149 GPa
π r Δl
2

Un filo metallico lungo 5 m la cui sezione trasversale ha un’area di 0.0088 cm2 ha


un modulo di Young pari a 200 GPa un oggetto di 2 Kg viene appeso ad una sua
estremità provocandone l’allungamento. Si determini il periodo di oscillazione
dell’oggetto, nel caso in cui esso si muova di moto armonico semplice dopo essere
stato leggermente spostato verso il basso e rilasciato.

Dalla definizione di costante elastica si ha


F YA
K= = (3.20),
Δl l o
si ottiene pertanto la seguente espressione per il periodo
mlo
T = 2π ≅ 4.74 ⋅ 10 −2 s (3.21).
YA
Vedremo, nel prossimo paragrafo, come le nozioni finora apprese possano essere
estese alla descrizione dei moti ondulatori.
125

4.  Moti ondulatori 

E’ esperienza comune quella di assistere alla fenomenologia di propagazione di


un’onda e di arguire che tale tipo di moto può essere visto come una sorta di
perturbazione di un mezzo, che si propaga trasportando energia e quantità di moto. Le
onde meccaniche sono dovute alla vibrazione delle particelle costitutive del mezzo;
mentre l’onda, ovvero la perturbazione, avanza, le particelle si limitano ad oscillare
intorno ad una posizione di equilibrio.
Le onde possono essere longitudinali o trasverse.
Nel primo caso l’oscillazione avviene nella direzione di propagazione, mentre nel
secondo l’oscillazione è perpendicolare alla direzione di propagazione.
Un tipico esempio di oscillazione trasversa è offerto dalla Figura 4.4.1 in cui una
perturbazione, prodotta da un' oscillazione verticale, si propaga nella direzione
orizzontale. La sorgente delle oscillazioni è in questo caso la mano che determina la
perturbazione che, propagandosi lungo la linea o direzione di propagazione, provoca
il relativo trasporto di energia.

Fig. 4.4.1. Oscillazioni trasverse indotte su una corda dal movimento


verticale della mano.

Un esempio di oscillazione longitudinale è quello riportato in Figura 4.4.2, dove la


perturbazione si propaga tramite l’oscillazione delle masse dovute alle varie molle.

Fig. 4.4.2. Oscillazioni longitudinali di una catena di molle.

Vedremo nel seguito che onde quali quelle sonore sono onde di tipo longitudinale
mentre quelle elettromagnetiche sono di natura trasversa.
Consideriamo ora un’onda, che diremo di tipo sinusoidale, come quella riportata nella
Figura 4.4.3; è evidente che in questo caso il moto sarà caratterizzato da una
126

oscillazione lungo l’asse verticale di ampiezza massima y0 e da una velocità di


propagazione lungo la direzione di propagazione.

λ
y0

Fig. 4.4.3. Onda sinusoidale di ampiezza y0 e periodo spaziale di oscillazione λ.

L’oscillazione dell’onda sarà caratterizzata da una frequenza, ovvero, come abbiamo


già visto, dal numero di cicli al secondo legato al periodo da
1
f = (4.1)
T
e dalla lunghezza d’onda λ (vedi Figura 4.4.3) che rappresenta la distanza tra due
massimi consecutivi, è evidente che lunghezza d’onda e velocità di propagazione
sono legati dalla relazione
λ = vT (4.2a),
da cui si può anche ricavare
λω
λf = =v (4.2b)

dove ω è la pulsazione dell’onda.
Di solito viene introdotta la quantità

k= (4.2c)
λ
di modo che
v = ωk (4.2d)
k è chiamato numero d'onda angolare e corrisponde al numero di oscillazione che
un'onda compie nell'unità di spazio moltiplicato per 2π. Il numero d'onda angolare
rappresenta il modulo del vettore di propagazione dell’onda, diretto lungo la
direzione di propagazione.
Limitandoci al caso di propagazione di onda sinusoidale, il moto potrà essere
descritto come
y ( x , t ) = y 0 sin [k ( x − vt ) ] = y 0 sin( k x − ω t ) (4.3).
127

Non abbiamo finora specificato come si determini la velocità di propagazione.


Limitandoci al caso di propagazione lungo un filo metallico o una corda la velocità
di propagazione risulta determinata da
τ
v= (4.4)
ρl
dove τ è la tensione della corda e ρl è la sua densità lineare (ovvero la massa per unità
di lunghezza).
Chiariremo i concetti precedenti nell’ambito di alcuni esempi specifici

Si consideri una corda orizzontale di lunghezza 5 m e di massa pari a 1.45 g. Si


determini la sua tensione affinché un' onda di 120 Hz di frequenza, che si
propaga lungo la corda, abbia una lunghezza d’onda pari a 0.6 m.

Dalle relazioni (4.2b) e (4.4) si ricava


τ = (λ f ) 2 ρ l (4.5)
m kg
Poiché ρ l = ≅ 2.9 ⋅ 10 −4 , si ottiene τ ≅ 1.503 N .
l m

Avviene spesso di assistere al fenomeno detto di risonanza, ovvero una sorgente


oscillante trasmette la sua energia ad un altro sistema, che comincia ad oscillare, alla
stessa frequenza della sorgente, assorbendone l’energia. Una situazione di questo tipo
viene mostrata in Figura 4.4.4 e “onde” di questo tipo vengono dette stazionarie e
non possono considerarsi tali in senso stretto.

l l

Fig. 4.4.4. Pendoli in risonanza

Una corda entra in risonanza solo con determinate frequenze. Con riferimento alla
Figura 4.4.5 notiamo che la “condizione di risonanza” implica che sussista la
seguente relazione tra la lunghezza della corda e la lunghezza d’onda di risonanza
λ
L=n (4.6)
2
dove n è un intero e viene detto numero armonico. Possiamo affermare che onde di
risonanza possono instaurarsi lungo una corda, solo se la lunghezza della corda è pari
128

ad almeno una semilunghezza d’onda; in questo caso l’onda si dice fondamentale,


quelle con lunghezza d’onda minore, specificate dalla formula (4.6) con n = 2,3...
sono dette armoniche di ordine superiore. I punti come B e C vengono detti nodi, i
punti A sono detti ventri, mentre la distanza tra due nodi adiacenti pari a metà della
lunghezza d’onda viene detto segmento.
E’ infine evidente che le frequenze associate alle armoniche di ordine superiore sono
multipli di quella fondamentale, ovvero
f n = n f1 (4.7).
λ

B A C
L
λ
Fig. 4.4.5. Corda che oscilla in condizioni di risonanza (L = n ).
2

Una corda di un banjo lunga 0.3 m entra in una risonanza con frequenza
fondamentale di 256 Hz. Quale è la tensione della corda, se 0.8 m di essa hanno
una massa di 0.75 g ?

Combinando le equazioni precedenti (4.2b) e (4.6) si ottiene


v = 2L f
(4.8)
che insieme alla (4.4) da
τ = 4( f L ) 2 ρ l ≅ 22.11 N (4.9)

Alla frequenza di 460 Hz, una corda oscilla in 5 segmenti


a) Quale è la sua frequenza fondamentale?
b) A quale frequenza la corda oscillerebbe in tre segmenti?
c) Quale è la velocità di propagazione se la corda è lunga 1 m?

E’ evidente che
fn
f1 = = 92 Hz (4.10)
n
e che pertanto f 3 = 276 Hz .
Infine il terzo quesito si risolve notando che
v
fn = n (4.11)
2L
da cui segue
2L f n
v= ≅ 184 ms −1
n
129

Una corda fissa alle due estremità risuona alle frequenze 420Hz, 490Hz che si
alternano senza che vi siano frequenze di risonanza tra loro. Si determini la
frequenza della risonanza fondamentale.

Si noti che
f n = nf1 = 320 Hz , f n+1 = (n + 1) f1 = 490 Hz
da cui segue
f1 = f n+1 − f n = 70 Hz
Le condizioni di risonanza in Figura ( 4.4.5) si riferiscono al caso in cui la corda sia
vincolata ad entrambe le estremità.
Una situazione diversa può aversi nel caso di Figura (4.4.6) che rappresenta un’asta
di lunghezza L con il centro tenuto in una morsa e libera di oscillare ai lati. In questo
caso i ventri delle onde corrisponderanno alle estremità della sbarra e le frequenze di
risonanza saranno
v
fn = n (4.12)
4L

Fig. 4.4.6. Asta vincolata al centro.

Vedremo, nei prossimi Capitoli, come le considerazioni finora sviluppate abbiano


conseguenze di vario tipo in altre problematiche fisiche quali la propagazione del
suono o in altri ambiti, quali la fisiologia dell’orecchio e del linguaggio.

5.  Le onde: ulteriori approfondimenti 

Le problematiche associate alla propagazione alle onde andrebbero trattate con un


apparato matematico che non possiamo permetterci; il linguaggio naturale per la
descrizione dei fenomeni fisici associati è quello delle equazioni differenziali alle
derivate parziali, che esulano dallo spirito del seguente corso.
Cercheremo comunque di dare una descrizione, sia pure incompleta, utilizzando il
bagaglio matematico a nostra disposizione.
Il moto di propagazione di un’onda armonica lungo una corda vibrante potrà essere
descritto come già sappiamo utilizzando l’espressione
u + ( x, t ) = A+ sin(kx − ωt ) (5.1)
relativa a quella che viene detta un’onda progressiva, ovvero che si propaga in avanti
(si veda la Figura (4.4.1)). Se volessimo descrivere un’onda regressiva, ovvero
130

un’onda che si propaga in direzione opposta alla (5.1) potremmo semplicemente


scrivere
u − ( x, t ) = A− sin(kx + ωt ) (5.2)
in cui, a parte l’ampiezza associata all’onda, abbiamo semplicemente “invertito” il
segno del tempo; l’onda progressiva e quella “regressiva” sono dunque aspetti dello
stesso fenomeno.
Consideriamo ora l’argomento delle nostre funzioni, che potremo scrivere come

a± = ( x m vt ) (5.3)
λ
E' evidente che lo spazio e il tempo non appaiono qui come entità separate, pertanto è
come se esistesse una “forma d’onda” sin(kx) , la cui evoluzione temporale consiste
in una sorta di “trasporto rigido” della forma d’onda, come illustrato in Figura (4.5.1).

T
A v

t
8

8
Fig. 4.5.1. Propagazione di un' onda vista come traslazione rigida della
forma d’onda sin(k x) lungo l‘asse temporale con velocità v.

E’ esperienza quotidiana che non esiste una sola forma d’onda, ma le più disparate; si
può dunque concludere che, data una generica forma d’onda rappresentata da una
funzione f(x), potremo ad essa associare un’onda progressiva e regressiva, secondo le
relazioni5
F± ( x, t ) = A± f ( x m vt ) (5.4).
Le onde descritte fino ad ora sono essenzialmente onde piane, ovvero onde con un
profilo trasverso costante; quello che intendiamo dire è illustrato nella Figura (4.5.2)
in cui mostriamo non solo il profilo longitudinale ma anche quello trasverso, che è
quello che si osserva guardando l’onda frontalmente; in questo caso il “fronte
d’onda” ha un profilo costante in ogni punto ed è come un piano che si propaga in
avanti. Per fronte d'onda si intende il luogo geometrico dei punti in cui, a t fissato, la
funzione assume gli stessi valori.
5
Da un punto di vista matematico il risultato testé enunciato ha una formulazione estremamente
precisa, un’onda che si propaga con le modalità prima discusse obbedisce all’equazione
differenziale di D’Alembert, che può essere scritta come
∂2 1 ∂2
F ( x , t ) − F ( x, t ) = 0 .
∂x 2 v 2 ∂t 2
131

Fronte d’onda

Onda piana

Fig. 4.5.2. Fronti di un’onda piana: le differenti tonalità di colore indicano


differenti intensità lungo la direzione di propagazione.

Le onde che si formano sulla superficie di uno stagno, quando lanciamo un sasso, non
sono certamente onde piane. I fronti d’onda sono infatti dei cerchi, che si dipartono
dal punto detto sorgente, che nel caso specifico è quello dove è impattato il sasso. Più
in generale potremo avere onde sferiche i cui fronti si distribuiscono lungo le
superfici di una sfera, così come le onde circolari sono cerchi concentrici, quelle
sferiche sono costituite da sfere concentriche il cui raggio aumenta nel tempo
secondo l' ovvia relazione (si veda la Figura (4.5.3))
r = r0 + vt (5.5)
dove v rappresenta la velocità dell’onda.

v
y

Fig. 4.5.3. Fronte d’onda sferico.


132

L’ampiezza di un’onda sferica decresce in maniera inversamente proporzionale al


raggio; questo ha conseguenze molto importanti nella discussione che seguirà di
alcuni problemi fisici. In generale potremo dunque scrivere l’evoluzione di una
generica onda sferica come
A
F (r , t ) = f ( r − vt ) (5.6).
r
Nel seguito faremo distinzione tra ampiezza e intensità d’onda; tale distinzione è
estremamente importante ed è il caso di soffermarci.
Le quantità prima discusse sono essenzialmente ampiezze d’onda; il modulo quadrato
dell'ampiezza viene detto intensità dell’onda e, in termini fisici, a questa viene
associata la densità di potenza, ovvero la potenza per unità di superficie, trasportata
dall’onda.
Nel caso di un’onda sferica l’intensità decresce con il quadrato della distanza dalla
sorgente; vedremo nel seguito l’importanza di tale affermazione quando discuteremo
l’attenuazione dei suoni al crescere della distanza da un emettitore di onde acustiche.
Consideriamo due onde, o ciò che è lo stesso per i nostri propositi, due moti
oscillatori di uguale ampiezza ma di frequenza leggermente diversa; si determini il
moto risultante.
(si noti che in questo caso per ampiezza intendiamo la “ampiezza di oscillazione” A0 )

Nel testo del quesito abbiamo fatto un' affermazione apparentemente innocua,
che riportiamo: “consideriamo due onde, o ciò che è lo stesso per i nostri
propositi, due moti oscillatori…” ; abbiamo dunque affermato che possiamo
studiare, in maniera equivalente, la dinamica di un’onda trattandone la sola
parte oscillatoria. Questo è vero entro certi limiti e possiamo convincercene
utilizzando l’esempio dell’onda trasversa di Figura (4.4.1) relativa alla
propagazione lungo una corda; se ci limitiamo a seguire il moto di un punto fisso
su di essa, come illustrato in Figura (4.5.4) notiamo che è equivalente a un moto
di tipo armonico, se il punto è invece sottoposto a una doppia sollecitazione
armonica il moto del punto sarà la somma di due moti armonici.

Fig. 4.5.4. Moto armonico di un punto della corda sottoposta ad oscillazioni traverse.

In base a quanto detto scriveremo


133

x1 = A0 cos(ω 1t ),
(5.7)
x 2 = A0 cos(ω 2 t )

cosicché il moto risultante sarà dato da (lo si provi utilizzando le formule di


prostaferesi)

⎛ω ⎞
X = x1 + x 2 = A(t ) cos⎜ + t ⎟ ,
⎝ 2 ⎠
⎛ω ⎞
A(t ) = 2 A0 cos⎜ − t ⎟ (5.8)
⎝ 2 ⎠
ω ± = ω 2 ± ω1

Da un punto di vista grafico il moto è illustrato in Figura (4.5.5) dove abbiamo


riportato il caso in cui A0 = 1, ω1 = 1.2, ω 2 = 1 .

Tb = 1/fb
X
2

0
t
1

2
20 40 60 80 100 120

Fig. 4.5.5. Battimento tra due onde sinusoidali .

che possiamo commentare come segue. L’ampiezza massima del moto risultante
varia tra 0 e ± 2 A0 , come risulta dal fatto che l’ampiezza è “modulata” nel tempo
dalla funzione A(t). La frequenza
ω−
fb = (5.9)

viene detta frequenza di battimento e il suo significato viene mostrato nella medesima
Figura (4.5.5). Due onde di frequenza vicina e con ampiezza identica danno luogo al
fenomeno dei battimenti prima illustrato.
134

Si dimostri che le due onde

O1 = A cos(ω t ),
O2 = B sin(ω t )

si sommano secondo le seguenti relazioni

O1 + O2 = C sin(ω t + ϕ ) = C cos(ω t − ϑ ),
A B (5.10).
C= A2 + B 2 , tg (ϕ ) = , tg (ϑ ) =
B A
Per quanto concerne la procedura analitica si veda il Capitolo I, nella parte dei
richiami matematici, dove viene discusso un problema analogo.
La matematica ha, a volte, il difetto di nascondere l’essenza fisica dei problemi e, in
questo caso, una tecnica di tipo vettoriale può essere più utile per capire la
“fenomenologia” alla base della formula precedente.
Ritorniamo pertanto alla descrizione che abbiamo fatto in precedenza del moto
armonico visto come scomposizione del moto circolare uniforme. Ad un tempo t = t 0
le due onde si possono rappresentare come illustrato in Figura (4.5.6); il moto
composto sarà rappresentato dal vettore somma il cui modulo è proprio C e il cui
angolo rispetto all’asse delle ascisse è ϑ .

y
P
A
P
B
θ
P’ P’
x 0
ωt t
ω’ t

Fig. 4.5.6. Composizione di due onde

L’evoluzione temporale del vettore è costituita dalla rotazione illustrata in Figura. per
cui in conclusione arriviamo all'identificazione del vettore somma come
C cos(ωt − ϑ ) (si spieghi il perché della convenzione dei segni degli angoli).
Possiamo procedere analogamente per quanto concerne la forma alternativa.

Due onde si dicono sfasate o con un ritardo di fase una rispetto all’altra se possono
essere espresse come (si veda anche la Figura (4.5.7))
135

O1 = A cos(ωt ),
O2 = B cos(ωt + ϕ )
Se la fase è costante le due onde i dicono coerenti.

Discuteremo nel seguito i problemi associati ai fenomeni di interferenza fra onde.


φ
A
B

0
ωt

Fig. 4.5.7. Ritardo di fase tra due onde di diversa ampiezza e stessa frequenza ω /2π.
136
137

CAPITOLO V

STATICA E DINAMICA DEL CORPO UMANO

1.   Introduzione: i sistemi di leve e la statica del corpo umano 

In questo Capitolo applicheremo le nozioni apprese in precedenza in merito a


questioni di statica, di cinematica, di urti, di elasticità, di modulo di Young etc., a
problematiche di carattere squisitamente fisiologico con particolare riferimento a
tematiche di tipo fisiologico.
In questo paragrafo introduttivo discuteremo problemi di carattere ortopedico. Prima
di entrare nello specifico è il caso di notare che, nel paragrafo relativo alle macchine
semplici, abbiamo, volutamente, ignorato quelle più comuni ovvero le leve, che
saranno trattate in dettaglio nel presente contesto, in cui faremo largo riferimento alla
loro rilevanza nella meccanica del corpo umano.
In generale una leva è una “macchina” costituita da un’asta, che poggia su un perno
detto fulcro e su cui agiscono due forze una detta motrice e l’altra detta resistente.
I movimenti del corpo sono controllati dalle forze muscolari, determinate dalla
contrazione o dalla distensione dei muscoli stessi. La gran parte delle azioni delle
forze muscolari può essere schematizzata utilizzando il principio delle leve.
Esempi di tali azioni sono indicati in Figura 5.1.1, dove viene riportata la classica
distinzione in leve del
a) primo tipo, in cui il fulcro si trova tra la forza motrice e quella resistente; un
tipico esempio è l’articolazione del cranio;
b) secondo tipo, in cui la forza resistente si trova tra quella motrice e quella
resistente, come nel caso dei muscoli preposti alla deambulazione;
c) terzo tipo, in cui la forza motrice si trova tra il fulcro e la forza resistente, come
nel caso dei muscoli dell’avambraccio, che permettono alla mano di sollevare
un peso.
In tutti e tre i casi la forza motrice è rappresentata da quella muscolare e, ad esempio,
nel caso c) il muscolo del bicipite spinge in alto il braccio grazie alla contrazione del
muscolo stesso, con una forza che si oppone al peso del braccio applicata nel suo
centro di gravità.
Possiamo ora valutare la forza esercitata da tale muscolo per tenere il braccio in
posizione perpendicolare all’avambraccio.
Dalla condizione di equilibrio sui momenti, con riferimento alla Figura 5.1.2,
abbiamo (si ricordi la convenzione sui segni)

r1 × M + r2 × R = 0 (1.1)
138

Tenuto conto che la lunghezza del braccio è tipicamente 0.28 m (escludendo la mano,
il cui peso viene ritenuto trascurabile), che la distanza tra omero (dove è posto il
fulcro) e punto di appoggio della forza del bicipite, indicata con M è 0.04 m e che
infine il peso del braccio, costituente la forza resistente indicata con R può essere
stimato intorno ai 15 N (corrispondenti ad una massa di circa 1.5 kg), si ottiene per la
forza motrice un valore di circa 52.5 N
L1 L2

FM L2 = Fp L1

Fp
a) La leva di prima specie. FM

FM
L1 L2

Fp
FM L2 = Fp L1

b) La leva di seconda specie.

L2 FM
L1
FM
Fp
FM L2 = Fp L1 Fp

c) La leva di terza specie. L2 L1

Fig. 5.1.1. Le leve e alcuni esempi di articolazioni ossee.


139

r1
R
r2
Fig.5.1.2. Esempio di leva di terza specie: articolazione dell’avambraccio

La forza esercitata dal bicipite aumenta in maniera significativa quando la mano


regge un peso, come mostrato in Figura 5.1.3 in cui il peso sostenuto è di 100 N
(circa 10 kg), in questo caso, la condizione di equilibrio si scrive come6
r1 × M + r2 × R + r3 × P = 0 (1.2)

r1
R P
r2
r3
Fig.5.1.3. Equilibrio dei momenti quando la mano regge un peso.

dove P rappresenta il peso della palla e r3 la distanza tra centro della mano e omero
che assumiamo corrisponda ad un lunghezza di circa 0.33 m.
Dalla relazione precedente si ricava la seguente relazione (scritta in termini scalari)
M = αR + βP ,
r2 r (1.3)
α = ,β = 3
r1 r1
da cui si evince che nel caso specifico la forza esercitata dal bicipite è circa 877 N, e

6
Si noti che in questo caso la forza resistente sarebbe rappresentata dal solo peso della palla se il
peso dell’avambraccio fosse trascurabile.
140

che questa aumenta linearmente all’aumentare del peso da sostenere. La prima delle
equazioni (1.2) può essere geometricamente interpretata come l’equazione di una
retta il cui termine noto è essenzialmente determinato dal peso dell’avambraccio e il
cui coefficiente angolare dipende dal rapporto tra la distanza mano e omero e punto
di applicazione della forza bicipitale e omero.
Nella Figura 5.1.4 viene riportato l’andamento della forza M in funzione della forza
peso retta dalla mano; è evidente che, a parità di pesi e per lunghezze
dell’avambraccio minori, il bicipite esercita una forza minore per sostenere lo stesso
peso (a parità di distanza tra omero e punto di appoggio della forza del bicipite).

M (N) ___Lunghezza dell'avambraccio 0.28 m

3000 ___Lunghezza dell'avambraccio 0.24 m

2000

1000

0
0 100 200 300
P (N)
Fig.5.1.4. Forza muscolare M in funzione del peso P retto dalla mano.
Gli esempi prima discussi danno una idea di come agiscano le forze muscolari; è
evidente che si tratta solo di una schematizzazione che non tiene conto di come le
forze si distribuiscano in configurazioni diverse da quelle prima illustrate, come nel
caso in cui vengano coinvolti degli angoli diversi da quelli retti. Consideriamo
dunque il caso in cui il braccio formi con l’avambraccio un angolo pari a 90 o − α (si
veda la Figura 5.1.5); in questo caso la condizione di equilibrio si scrive (lo si provi)
r1 M sin(α ) − r2 R sin(α ) − r3 P sin(α ) = 0 (1.4)

α
M
P

R
r1
r2 r3

Fig. 5.1.5. Sforzo esercitato dal muscolo del bicipite per sostenere un peso
con angolo di elevazione α dell’avambraccio.
141

da cui segue che la funzione seno si cancella e che dunque la forza esercitata dal
bicipite è indipendente dall’angolo.
Consideriamo ora il muscolo deltoide, che spinge il braccio in alto grazie alla sua
contrazione con una forza T ad un angolo fisso rispetto al braccio (si veda la Figura
5.1.6). In questo caso dalla condizione di equilibrio si ottiene (lo si provi)
r2 r3
T= M+ P (1.5).
r1sin(α ) r1sin(α )
Tenuto conto che α ≅ 15 o si può facilmente calcolare la forza esercitata dal deltoide
quando si voglia reggere un determinato peso con il braccio teso nella posizione
indicata in Figura 5.1.6. Anche in questo caso la forza aumenta linearmente con il
peso.
L’esempio proposto nel seguito serve a chiarire ulteriormente il ruolo giocato dalle
forze del braccio nel reggere i pesi.

r1 R P
r2
r3

Fig. 5.1.6. Forza esercitata dal Deltoide con braccio teso.

Si dimostri che se il braccio è tenuto teso ad un angolo α come in Figura 5.1.7, la


forza esercitata dal deltoide è Tsin(α).

r2
r3

P
r1 α

Fig. 5.1.7. Forza esercitata dal Deltoide con braccio teso ad un angolo α.

Il braccio della Figura 5.1.8. regge una sfera di 5 kg la cui distanza dal gomito è
di 35 cm, la massa complessiva del braccio e della mano è 3 kg, e il suo peso agisce
142

in un punto distante 15 cm dal gomito. Si determini la forza esercitata dal


muscolo del bicipite assumendone il punto di applicazione a una distanza di 5 cm
dal gomito.

In base a quanto discusso nel primo Capitolo, in relazione alle condizioni generali fra
forze e momenti avremo, per quanto riguarda le forze
FP + FB − Fb + Fo = 0
dove i sottoindici stanno per p=palla, B=braccio, b=bicipite, o=omero mentre per
quanto riguarda i momenti, calcolati rispetto al gomito avremo (il momento della
forza esercitata dall’omero è nullo)
− FP L p − FB L B + Fb Lb = 0

RO
Fb

O Lb
FB Fp
LB
Lp
Fig.5.1.8

Risolvendo la precedente equazione si ottiene


FP L p + FB LB
Fb = ≅ 432 N
Lb
mentre la forza resistente dell’omero è circa 353 N.
Gli esempi precedenti offrono un' idea di come i concetti di forze, momenti ed
equilibrio vadano combinati per essere applicati ad un sistema complesso come
quello scheletrico e muscolare.
Passiamo ora a considerare problemi di orto-statica corporea in cui il ruolo esercitato
dalla forza muscolare è meno importante.
La forza principale che agisce sul corpo è quella gravitazionale e la relativa stabilità è
assicurata dalle ossa scheletriche. La forza peso è applicata al centro di gravità del
corpo che, per un dato individuo, è posto ad un' altezza dal suolo che si situa
approssimativamente allo 0.58 della sua altezza totale.
Più in generale la posizione del centro di massa dipende dalla distribuzione di massa
e l’equilibrio è garantito una volta che la proiezione del centro di massa al suolo si
situa tra i piedi.
143

Con riferimento alla Figura 5.1.9 si evince che la condizione di equilibrio nella
stazione eretta è assicurata se
R s + Rd + P = 0 (1.6)
dove con P abbiamo indicato la forza peso e con gli indici s,d le reazioni del suolo al
piede sinistro e destro. Abbiamo tenuto conto del fatto che, essendo la parte destra del
corpo solitamente più sviluppata di quella sinistra, la forza di reazione d debba essere
maggiore di quella s. Le forze che agiscono sulla gamba sono in realtà la somma
vettoriale della forza del corpo e del peso della gamba stessa.

Rd Rs

Fig. 5.1.9. Condizione di equilibrio della stazione eretta.

Insieme alle forze dovremo tener conto anche dei momenti; come già sappiamo nel
caso dei momenti l’ulteriore condizione da applicare, perché non vi siano rotazioni, è
che la somma dei momenti applicati sia nulla.
Come esempio di applicazione consideriamo il caso descritto in Figura 5.1.10, dove
abbiamo fatto notare che la forza di reazione destra è maggiore di quella sinistra. In
questo caso la condizione di equilibrio sui momenti implica che (si tenga conto della
convenzione sui segni e sui versi di rotazione)
r r r r
rs × Rs + rd × Rd = 0 (1.7)

da cui segue (lo si provi)


r
Rs
rd = r rs (1.8)
Rd

ovvero che la proiezione del baricentro è più spostata verso la parte destra per
compensare la maggiore intensità della forza resistente.
144

Rd r r Rs
d s

Fig. 5.1.10. Condizione di equilibrio quando Rd > Rs .

Per avere una idea dei momenti in gioco consideriamo quale sia il valore del
momento applicato nel caso di una persona in equilibrio su un solo piede come
mostrato in Figura 5.1.11. Assumendo una massa di 80 kg e una distanza del piede
dalla proiezione del baricentro di 0.2 m, si ottiene M ≅ 160 N ⋅ m .

d = 0.2m

Fig. 5.1.11. Equilibrio su un solo piede.

E’ dunque evidente che l’effetto di rotazione, indotto dal momento non nullo, si
compensa ponendosi in una postura tale da spostare il centro di massa del corpo in
145

maniera da annullare la distanza tra il punto di rotazione e la proiezione del


baricentro.
Come ulteriore esempio per stimare le forze in gioco, consideriamo sempre il caso di
una persona in piedi su una sola gamba e stimiamo la forza F esercitata dal muscolo
adduttore sulla parte superiore del femore e la forza R agente sull’acetabolo, secondo
lo schema illustrato in Figura 5.1.12.
vertebra
ileo
70° sacro
acetabolo

femore

y
N=P
x

Fig. 5.1.12. Forza esercitata dal muscolo adduttore del femore.


Tenuto conto che il muscolo adduttore forma con il bacino un angolo di circa 70
gradi e che il peso di una gamba può essere stimato intorno a un settimo del peso del
corpo, le varie condizioni di equilibrio (forze & momenti) ci permettono di scrivere
(lo si provi)

a) Componente verticale
P
F sin(70 o ) − R y − +P=0
7
b) Componente orizzontale
F cos(70 o ) − Rx = 0

c) Momento delle forze agente sulla testa del femore (assumendo 0.07 m la
distanza tra il muscolo adduttore e l’acetabolo, 0.18 cm la distanza del
piede dalla posizione naturale di equilibrio e 0.1 cm la distanza del centro
della gamba dalla medesima posizione)
146

P
− 7 ⋅ F sin( 70 o ) − (10 − 7) ⋅ + (18 − 7) ⋅ P = 0
7
Da cui si ottengono le seguenti relazioni
F ≅ 1 .6 ⋅ P
R x ≅ 0 . 55 ⋅ P ,
R y ≅ 2 . 364 ⋅ P
Nel caso di una persona del peso di 80 kg si ottiene dunque una forza che agisce sul
muscolo adduttore di circa 160N e una forza totale ( RT = R x + R y ) agente
2 2

sull’acetabolo di 1880N.

2.  Statica della colonna vertebrale 

La colonna vertebrale fornisce il sostegno per il peso della testa e del tronco. La sua
forma ad S (Figura 5.2.1), serve ad aumentare la stabilità di equilibrio dell’intero
sistema.

Vertebre
cervicali
Seconda
vertebra
lombare
Processo spinoso
PH
Terza
Vertebre vertebra
lombare
toraciche
Dischi
intervertebrali Quarta
vertebra
lombare

Vertebre
lombari Vista posteriore della seconda, terza
e quarta vertebra lombare.
Vertebre
sacrali
PH : peso della testa

PT : peso del tronco


PT

Fig. 5.2.1. Statica della colonna vertebrale.


147

Le vertebre, ovvero l’insieme delle ossa che la compongono, rappresentano la


struttura portante e si dividono in cervicali, toraciche, lombari e sacrali.
Tenuto conto che la massa della testa è circa 3 kg e che la superficie della vertebra
cervicale superiore è 5 cm2, si evince che la pressione esercitata dalla testa sul disco
cervicale è 60 kPa.
Va fatto notare che le vertebre sono “progettate” in modo tale che la pressione
esercitata su ogni vertebra sia la stessa. Tenuto quindi conto che il peso del
tronco e della testa è di 500 N si determini la sezione dell’ultima vertebra
lombare
Da quanto prima detto si ha
500 N
SL = → S L ≅ 83 cm 2
60 kPa
La pressione massima di rottura di un disco toracico è circa 1.1 ⋅ 10 Pa . Tenuto
7

conto che la sezione media di un disco è 10 cm2, si calcoli la forza necessaria per
determinarne la rottura

FMax = p Max S ≅ 1.1 ⋅ 10 4 N

Le ossa hanno un modulo di Young pari a 1.45 ⋅ 10 Pa ; assumendo per il


10

femore una lunghezza media di 60 cm e sapendo che può sopportare uno sforzo
di compressione massimo di 1.6 ⋅ 10 8 Pa , si determini la massima variazione di
lunghezza prima di rompersi.

Dalle formule (3.17) e (3.18) del Capitolo IV si ottiene


σl
Δl = o ≅ 6.6 ⋅10 −3 m
Y
Si determini la diminuzione in altezza di una persona che porta in testa un peso
pari a 10 3 N , sapendo che le vertebre spinali sono separate da dischi sottili e
compressibili con una sezione pari a 10 −3 m 2 , che lo spessore totale
intervertebrale è 15 cm e che il modulo di Young per i dischi è 7 ⋅ 10 6 Pa .
Per le stesse motivazioni del problema precedente si ottiene
F l
Δl = ≅ 2 ⋅ 10 −2 m
AY

Gli esempi precedenti offrono un' idea di come i concetti di forze, momenti ed
equilibrio vadano combinati per essere applicati ad un sistema complesso come
quello scheletrico e muscolare.
Nel seguito discuteremo ulteriori esempi di come le nozioni, apprese in questo
capitolo, abbiano un riscontro immediato in questioni di ordine pratico attinenti
problematiche di tipo medico e lavorativo.
148

3.  Problemi di urto e cadute 

In questo paragrafo combineremo le nozioni di cinematica, dinamica, urti… per


comprendere, anche se in modo grossolano, la risposta del corpo umano ad un
impatto e come si possano derivare alcune considerazioni generali che permettano di
determinare le condizioni di criticità di un impatto.
A titolo introduttivo affronteremo tali problematiche sulla base di alcuni esempi
preliminari.

La sezione trasversa della parte anteriore dell’avambraccio è circa 2.5 cm2 ; in


un incidente automobilistico l’avambraccio viene sbattuto violentemente contro
il cruscotto e si arresta, da una velocità iniziale di 80 km/h in 5 ms. Sapendo che il
braccio ha una massa effettiva di 3 kg e che il materiale osseo può sopportare
uno sforzo di compressione massimo di 6 ⋅ 10 7 Pa , determinare se il braccio si
romperà oppure no nell’incidente.
La risposta al precedente quesito può essere data in termini estremamente semplici; si
potrà, infatti, procedere come segue;
a) calcolo dell’accelerazione media a cui viene sottoposto il braccio durante
l’impatto
Δv
a= ≅ 4.4 ⋅ 10 3 m / s 2 (3.1)
Δt
b) Calcolo della forza media che agisce sul braccio (m indica la massa del
braccio)
F = ma ≅ 1.32 ⋅ 10 4 N (3.2)
c) Calcolo dello sforzo di compressione medio (A indica la sezione dell’osso)
F
σ = ≅ 4 ⋅ 107 Pa (3.3)
A
Questo ultimo dato indica che il braccio dovrebbe essere in grado di resistere
all’urto.

Si consideri una persona di massa pari a 82 kg che salta da una certa altezza;
noto che la massima compressione della tibia è 1 cm, si vuole sapere quale è
l’altezza massima da cui può saltare mantenendo le gambe rigide senza correre
il pericolo di frattura (si tenga conto che la superficie media della tibia è 3.3 cm2
7 N
e che la pressione di frattura è 1.59 ⋅ 10 )
m2
Possiamo fornire la risposta al precedente quesito, procedendo in maniera non
dissimile da quanto fatto sopra.
Se la tibia si comprime di una quantità pari a ΔhT, la forza applicata dopo il salto è
mgh
F= (3.4)
ΔhT
149

La pressione media esercitata sulla tibia sarà dunque data da


mgh
p= (3.5)
2 AΔhT
Il fattore 2 a dividere è dovuto al fatto che atterriamo su entrambe le gambe.
Dalla (3.5) segue
2 ApF
h≤ ΔhT ≅ 1.3 m (3.6)
mg
Pertanto la frattura della tibia di una persona di media corporatura si può avere
saltando da un' altezza inferiore al metro e mezzo.
E’ evidente che in tale contesto un ruolo importante viene giocato dal tempo di
collisione che rappresenta il tempo necessario perché avvenga la compressione della
tibia. Poiché la caduta avviene da un' altezza h , si ottiene
ΔhT
Δt = 2 (3.7)
2 gh
che per una altezza di circa 1.5 m può essere stimato intorno a 3 ⋅ 10 −3 s .
Consideriamo quanto discusso nei problemi precedenti in un contesto teorico più
generale, notando che nei processi di urto il corpo subisce una decelerazione data da
Δv
a≅ , dove Δν è la variazione di velocità nell’impatto e Δt è il tempo in cui questa
Δt
avviene l’impatto. Poiché in un urto, ad esempio contro una parete rigida, la velocità
finale è nulla Δν è essenzialmente dato dalla velocità posseduta dal corpo al
momento dell’impatto. Per quanto riguarda il tempo di impatto notiamo che questo è
tanto più breve quanto maggiore è la rigidità del corpo con cui avviene l’urto.
L’impatto con una parete rigida è caratterizzato da una brusca frenata, mentre
l’impatto con un covone di paglia, a parità di velocità iniziale, avviene in un tempo
più lungo, e ne consegue pertanto una minore decelerazione. Poiché la forza applicata
al corpo dalla superficie di impatto è, in base al terzo principio della dinamica,
Δv
Fi = m l’urto con una superficie rigida può, evidentemente, determinare danni
Δt
maggiori.
A titolo di esempio consideriamo il caso di una persona di massa pari a 82 kg, che
cammina con una velocità di 1.1 m/s e che urta contro un albero. Se l’urto avviene
contro il tronco, il corpo subisce una rapida decelerazione fermandosi in circa 0.01s.
Stimando una superficie di impatto dell’ordine di 0.53 m2 possiamo stabilire che il
corpo è soggetto ad una pressione di 1.82 ⋅ 10 4 Pa . Se l’impatto non avviene con il
tronco ma con il fogliame, che allunga il tempo di impatto fino a 0.06 s, si ottiene una
pressione esercitata sul corpo minore di un fattore 6 a quella del caso precedente.
Il tempo di impatto può essere legato ad un’altra quantità importante che è lo
spostamento del baricentro del corpo nell’urto. Durante un impatto, mentre il corpo
decelera con la decelerazione media prima calcolata, il baricentro continua a
muoversi e, indicando con Δhcm tale spostamento, avremo
150

v 2Δhcm
Δt ≅ = (3.8a).
a v
Potremo dunque esprimere la forza agente su un corpo durante un impatto in termini
di spostamento di baricentro come
1 v2
Fi ≅ m (3.8b)
2 Δhcm
Tale risultato rappresenta una sorta di applicazione del teorema delle forze vive ai
problemi di impatto e va comunque notato che, al pari dei tempi, un aumento dello
spostamento del baricentro del corpo determina un effetto di “diluizione” della forza
di impatto.
L’effetto dell’impatto può essere, dunque, attutito o aumentando la superficie di
impatto o il tempo di collisione; infatti la pressione è legata al tempo di impatto
dall’ovvia relazione
m Δv
p= (3.9).
A Δt
Dai dati sperimentali si evince che per avere alte probabilità di sopravvivenza ad una
collisione o ad una caduta, la pressione esercitata sul corpo, in conseguenza di tali
traumi, deve risultare inferiore al valore critico di p c = 27.6 ⋅10 4 Pa ; la probabilità di
sopravvivenza si riduce al 50% per valori di pressione intorno ai 35 ⋅ 10 4 Pa . Ciò
implica che la decelerazione di impatto debba soddisfare la condizione
Δv Apc
< (3.10a)
Δt m
mentre per lo spostamento del baricentro si ha
1 mv 2
Δhcm ≥ (3.10b).
2 Apc
Tenuto conto che la superficie del corpo umano è legata alla massa e all’altezza della
persona dalla relazione A = 0.202 m
0.425
H 0.725 (tutte le quantità sono espresse nel
sistema MKS)
Δv H 0.725
< 7 ⋅ 10 α 0.575
4
(3.11),
Δt m
dove con α abbiamo indicato la percentuale di superficie corporea interessata.
Dalla relazione precedente si deduce che per una persona di altezza 1.7 m la velocità
di impatto critica per un tempo di impatto di 6 ms è, in funzione della massa, data dai
valori riportati in Figura 5.3.1. Come si evince dalla Figura la velocità critica per
sopravvivere ad un impatto è dell’ordine di (3-4) m/s, se si considerano tempi di
impatto intorno al milli-secondo. Tale valore può aumentare significativamente se si
aumenta il tempo di impatto. A titolo di esempio vogliamo considerare alcuni casi,
che spiegheranno anche come si possa sopravvivere a cadute da altezze notevoli.

Il lettore rifletta su quanto discusso e sull’importanza dell’air-bag come sistema


di sicurezza nelle automobili.
151

8
a=1/6 (impatto sulla schiena)
-1
vcr(ms )
7

5
60 70 80 90 100
m(kg)
Fig. 5.3.1 Velocità critica in m/s (ovvero velocità al di sopra della quale l’impatto può
essere mortale) per una persona di altezza 1.7 m in funzione della massa.

Abbiamo messo in evidenza l’esistenza di forze di attrito, dovute alla viscosità del
fluido all’interno del quale un corpo è in moto. Tali forze resistenti dipendono dalla
velocità e si è anche visto come la presenza di un coefficiente di attrito potesse
ridurre in maniera significativa la velocità di caduta rispetto a quella che si avrebbe
nel vuoto.
Per quanto concerne la caduta in aria, l’effetto della resistenza può essere
schematizzata con un termine di forza resistente che cresce con il quadrato della
velocità.
Generalizzando quanto già discusso a proposito del moto di “caduta” in un liquido,
avremo
dv
m = mg − α v 2 ,
dt
1 (3.12)
α = ρCA
2
dove ρ è la densità del mezzo A è la superficie del corpo che cade e C è una costante
che dipende dalla sua forma (es. 0.5 per corpi sferici e 1 per corpi spigolosi).
L’equazione (3.12) è un’equazione differenziale del primo ordine la cui soluzione
può essere ottenuta utilizzando i metodi del calcolo differenziale. E’ comunque più
conveniente, per i nostri fini, scrivere la velocità acquisita dal corpo in termini
dell’altezza da cui cade, ottenendo7
7
Per il lettore interessato facciamo notare che, essendo la velocità legata alla variazione di altezza
dh
dalla relazione v = , l’equazione differenziale precedente si può scrivere come (lo si provi)
dt
dv mg − αv 2 vdv
= → = dh
dh mv α 2
g− v
m
la cui soluzione per v0 = 0 è quella prima riportata (si veda Boccia, Ciocci, Dattoli Lezioni di
Calcolo)
152

h

v = v (1 − e
2 2
L
hL
) (3.13)
Dove vL,hL sono rispettivamente la velocità e l’altezza limite date in questo caso da
mg
v L2 = ,
α
m (3.14)
hL =

L’equazione (3.13) fornisce l’andamento della velocità in funzione dell’altezza per
una caduta libera in aria. In Figura 5.3.2 viene fatto il confronto con il caso in cui le
forze resistenti non abbiano alcun effetto, nel qual caso si ha, come già sappiamo,
v = 2 gh . Notiamo che, per valori tipici dei vari parametri che definiscono il
coefficiente α, si ottiene per la velocità limite e l’altezza limite v L ≅ 53.3 m / s e
hL ≅ 144.8 m .
La Figura mostra quanto già appreso in precedenza: nel vuoto la velocità crescerebbe
indefinitamente con l’altezza; in presenza di forze di attrito la velocità cresce fino ad
un valore limite, che corrisponde alla velocità che il corpo acquisirebbe cadendo in
assenza di forze di attrito dall’altezza hL.

v b

vL
a

hL h
Fig. 5.3.2 Velocità di caduta in presenza di forze resistenti (a) e velocità di caduta
libera (b) in funzione dell’altezza h.
Nella Figura 5.3.3 abbiamo riportato la velocità in funzione della distanza di
decelerazione, utilizzando la relazione v = 2as . Il grafico è stato diviso in regioni
caratterizzate da accelerazioni multiple di g. La regione 175-200 g rappresenta quella
dei gravi incidenti di auto e rappresenta una sorta di linea di confine al di sopra della
quale la probabilità di sopravvivenza è molto bassa. E’ il caso di notare che il valore
di v L è solo un fattore cinque o sei superiore alla velocità di impatto critica. Pertanto
se si fa aumentare il tempo di impatto di un fattore analogo la caduta da altezze
superiori ai 200 m possono risultare non mortali.
153

Nelle cadute in acqua il tempo di impatto aumenta perché viene distribuito su tutto il
tempo di immersione del corpo; assumendo che la caduta in acqua avvenga in
verticale il tempo di impatto è circa 30 ms, largamente sufficiente per “attutire” gli
effetti di una caduta da un' altezza superiore ai 300 m e oltre.
Vengono riportati esempi di urti, le relative accelerazioni ed i fattori di rischio.

Limite di sopravvivenza approssimato (175-200 g)

100 g
200
Corse
automobilistiche Apertura
paracadute
100 Gravi incidenti
d’auto Cadute con
sopravvivenza Caduta sul telone
velocità (km/hr)

dei vigili del fuoco


50
Atterraggio
con 1g
Impatto di testa paracadute
sostenibile con
20 casco

10

0.01 0.04 0.1 0.4 1 4 10


Distanza di decelerazione (m)

Fig. 5.3.3

4.  Alcune considerazioni sul dispendio energetico del corpo umano 

Abbiamo già fatto notare che per il solo mantenimento il corpo umano necessita, in
un’ora di una quantità di energia pari a 0.1 KWh , che equivale a circa 360000 J e che,
da un punto di vista meccanico, rappresenta l’energia sufficiente per sollevare di oltre
36000m la massa di circa 0.1 Kg . Nel Capito 3 abbiamo introdotto la caloria che
viene molto spesso utilizzata per quantificare il fabbisogno energetico del corpo
umano. Ricordiamo che la relazione tra calorie e Joules è espressa dalla seguente
identità
1cal = 4.184 J (4.1)
e che, dal punto di vista nutrizionale, quella che viene comunemente detta “Caloria”
è in realtà una Chilo-caloria ( Kcal = 10 cal ) detta anche grande Caloria.
3
154

Il fabbisogno energetico del corpo umano, per il solo mantenimento, si aggira


pertanto intorno alle (73 − 85) kcal / h .
Le considerazioni che seguono sono puramente indicative e saranno integrate nel
seguito da un' analisi più approfondita, che non investe solo questioni meccaniche ma
anche nozioni più generali di carattere termodinamico.
Tanto per fare un esempio vediamo come si possa stimare il dispendio energetico
durante una passeggiata in piano, da parte di una persona di massa m in moto ad una
velocità v ; assumeremo che ad ogni passo il corpo si fermi e riparta in modo che
assunta una frequenza di passo pari a f avremo
1
P = mv 2 f
2
La frequenza sarà legata alla velocità dalla relazione
v = sf
dove s è l’ampiezza del passo, per cui in conclusione si ha
1
P = ms 2 f 3
2
Una lunghezza di passo di 0.3 m e una velocità di 1 m/s (andatura tranquilla)
corrispondono ad una frequenza di 3.33 Hz, per cui una persona di 60 kg impiegherà
una potenza pari a circa 100 W, che per una passeggiata di un’ora determinano un
dispendio calorico pari a 360 kcal.
Per renderci conto di come vada “gestita” la macchina umana possiamo riferirci alle
tabelle qui di seguito riportate che si riferiscono ad un individuo con massa corporea
pari a circa 75 kg e di età compresa tra 25 e 30 anni.

TABELLA I
Calcolo del fabbisogno energetico per una attività non
particolarmente usurante.

Attività Fabbisogno energetico Totale


8 ore di sonno 8 ⋅ 73 Kcal / h 584 kcal
8 ore di attività
extralavorativa 8 ⋅ (73 kcal / h + 30 %) 759 kcal
(attività del tempo
libero non sportiva)
8 ore di attività
lavorativa leggera 8 ⋅ 73kcal / h + 1000 cal 1584 kcal
(sedentaria)
2927 kcal

La tabella precedente fornisce un' idea del fabbisogno calorico relativo ad una attività
lavorativa come quella di un impiegato non addetto a lavori manuali. Per un' idea
155

ulteriore, differenziata per tipi di lavoro, possiamo riferirci alla Tabella II, che riporta
alcuni esempi di attività, insieme al fabbisogno energetico stimato.

TABELLA II
Esempio di dispendio energetico per attività.

Attività Dispendio Energetico


Lavoro lieve 100 − 200 kcal / h
Spaccare la legna 400 − 500 kcal / h
Piallare 500 − 600 kcal / h
Lavorare in acciaieria 700− 800 kcal/ h

Dai dati precedenti emerge un fatto sicuramente interessante: il corpo umano è una
macchina capace di erogare una potenza fino al KW .
Torneremo su questo aspetto del problema nei capitoli dedicati agli aspetti
termodinamici, qui teniamo a sottolineare che i dati sono meramente indicativi e che
forti variazioni possono essere associate alle condizioni climatiche, di umidità
relativa e di temperatura.
Nel paragrafo 6 del terzo Capitolo abbiamo fatto cenno al rendimento della macchina
umana, ovvero alla sua capacità di trasformare le calorie metabolizzate in lavoro
meccanico. Ricordiamo che avevamo stimato grossolanamente che il rendimento
della macchina umana si aggira attorno al 20% .

 
5.  Alcune nozioni pratiche sulla movimentazione dei carichi 

Nel paragrafo 4 abbiamo visto come le considerazioni svolte sul concetto di lavoro e
di potenza abbiano una ricaduta pratica per quanto concerne alcuni aspetti relativi al
consumo energetico del corpo umano. Abbiamo già fatto cenno al fatto che il corpo
umano possa considerarsi come una macchina e abbiamo messo in evidenza che la
sua efficienza, ovvero la sua capacità di trasformare in lavoro meccanico quanto
metabolizzato, è dell’ordine del 20% o meno.
Un tale valore determina un' efficienza piuttosto bassa e a questo punto potremmo
applicare le considerazioni teoriche sviluppate nel paragrafo precedente a un
problema di significativo interesse pratico, quale la movimentazione manuale dei
carichi, che costituisce un capitolo di notevole importanza in ambito della medicina
del lavoro.
Una semplice applicazione di quanto abbiamo imparato sul lavoro permette di
concludere che il sollevamento di un carico ad un' altezza h da parte di un lavoratore
implica un “lavoro in ingresso del corpo” pari a
156

mgh
LB = (5.1)
η
dove l’indice B sta per body (corpo). E’ evidente che, assumendo per vero il dato
grossolano, per eccesso, di η = 0.2 , il sollevamento di un certo carico corrisponde ad
un lavoro (ovvero dispendio di energia) da parte del corpo almeno cinque volte
superiore. Questo dato serve di per sé a comprendere come, data l’inefficienza della
macchina in questione, ogni suo uso improprio, possa essere particolarmente
usurante.
Da tale valutazione segue che particolare attenzione va posta nelle norme che
richiedono attività di facchinaggio. A titolo di esempio vedremo quali cautele vadano
prese per tutelare i lavoratori adibiti al trasporto manuale di carichi.
Il metodo quantitativo, che discuteremo nel seguito, è basato su una serie di
coefficienti interpretabili in base alle nozioni fisiche prima apprese e viene detto
metodo NIOSH (National Institute of Social Health) ed è stato introdotto negli USA
nel 1993, per valutare il cosiddetto RWL (Recommented Weight Limit) ovvero il
limite di peso raccomandato per ogni azione di sollevamento.
Cercheremo nel seguito di interpretare tale formula sulla base delle nozioni
precedentemente apprese.
Indicheremo nel seguito con FP,R la forza peso raccomandata secondo il metodo
NIOSH, ricordiamo che i parametri significativi per tale formula sono :

a) Peso massimo raccomandato in condizioni Ottimali, che indicheremo con F0


b) la distanza orizzontale minima del corpo dal peso, che indicheremo con d espresso
in metri
c) l’altezza da terra delle mani dall’inizio del sollevamento, che indicheremo con m
espresso in metri
d) distanza verticale del peso tra inizio e fine del dislocamento, che indicheremo con
h espresso in metri
e) dislocazione angolare del peso rispetto al piano sagittale del lavoratore, che
indicheremo con φ, espresso in radianti
f) frequenza di sollevamento in atti al minuto rapportata al numero di ore in tale
attività che indicheremo con f
g) fattore di presa del carico che indicheremo con μ.

I parametri prima specificati concorreranno a definire una sorta di efficienza di


sollevamento, nel senso che introdurremo il peso raccomandato secondo la formula

FP , R = Fo χ ( d , m, h,φ , f , μ ) (5.2)
dove abbiamo introdotto la quantità χ (d , m, h, φ , f , μ ) ≤ 1 , che rappresenta
l’efficienza di sollevamento ed è pari all’unità, solo in condizioni ottimali e il peso
massimo raccomandato in condizioni ottimali che varia a seconda dell’età e del sesso,
come riportato nella tabella seguente
157

TABELLA III
Peso ottimale espresso in kg per età e per sesso

15< a <18 15< a <18 a >18 a >18


M F M F
Fo 20 Kg 15 Kg 30 Kg 20 Kg

La valutazione esplicita della funzione di efficienza, secondo il metodo del NIOSH,


si effettua come segue.
Per valutare l’effetto della distanza d si utilizza il fattore demoltiplicativo
1
χd = , d ≥ 0.25m (5.3)
4d
di semplice interpretazione, ovvero il precedente fattore interviene quando la distanza
dal carico è superiore a 0.25 m, che rappresenta una distanza “naturale” del carico,
che non implica sforzi aggiuntivi. Nel caso in cui d = 0.5 m , il fattore
demoltiplicativo di distanza implica un peso raccomandato pari alla metà di quello
ottimale.
I rimanenti fattori demoltiplicativi si determinano utilizzando considerazioni
analoghe, così si ha
χ m = 1 − 0.3( m − 0.75),
4.5 ⋅ 10 −2
χ h = 0.82 + ,
h (5.4)
0.576
χφ = 1 − φ
π
Per quanto riguarda invece il fattore legato alla frequenza, si utilizza un coefficiente
compreso tra 0 e 1 a seconda della durata delle azioni di sollevamento e della loro
frequenza. Avremo ad esempio χ f = 0.45 nel caso di 4 sollevamenti al minuto per un
totale di 8 ore, mentre tale valore sale a χ f = 0.85 per lo stesso numero di azioni al
minuto per un totale di un’ora. Infine il coefficiente di presa χμ che varia da 0.9 a 1 a
seconda che la presa sia scarsa o buona.
La funzione di efficienza è definita dal prodotto di tutti i fattori χ prima citati.
Cosicché per un lavoratore di 20 anni, che deve sollevare un peso, nelle seguenti
condizioni d = 0.4m, m = 0.9m, φ = 45 , h = 3m, χ f = 0.6, χ μ = 0.9 , si ottiene un
o

peso massimo raccomandato pari a circa 7 kg. In questo caso i fattori demoltiplicativi
hanno determinato un' efficienza di circa il 30%.
Possiamo infine concludere che nel caso del sollevamento manuale dei carichi il
rendimento totale della macchina umana può essere definita come il seguente
prodotto
ηT = χη (5.5)
158

dove χ è l’efficienza NIOSH, in cui i vari argomenti sono stati omessi per brevità.
Prima di concludere questo paragrafo vogliamo presentare un ulteriore commento di
carattere più energetico.
In base al criterio precedente se si considera la frequenza di sollevamento per una
altezza h si ha un impegno di potenza pari a
Po = Fo h f (5.6)
dove la frequenza viene espressa in Hz e il pedice o sta per ottimale. Nel caso in cui
l’azione abbia una frequenza di 0.033 Hz e venga ripetuta per 8 ore il peso ottimale
va ridotto di un fattore 0.45 e in analoga misura si riduce la pura potenza meccanica
impegnata. Tale riduzione mette in evidenza come si tenga conto di tutti i fattori
usuranti agenti dovuti a elementi di ordine fisiologico e come si cerchi di aggiustarli
con opportuni fattori correttivi.
Analoghe correzioni valgono per manovre di spinta, ma non saranno discusse in
questa sede dove facciamo notare che le considerazioni precedenti vanno intese come
corrette solo in condizioni micro-climatiche ottimali; il caso più generale sarà trattato
in seguito.

 
 
6.  Le vibrazioni e gli effetti sulla salute umana 

Vedremo nel corso di queste lezioni come i concetti che abbiamo sviluppato in questo
Capitolo siano determinanti per la comprensione di fenomeni che possono avere
notevoli ricadute sulla salute umana. Discuteremo, infatti, l’importanza delle
vibrazioni per quanto concerne i fenomeni acustici o pratiche diagnostiche quali
l’effetto Doppler.
Tali problematiche vanno al di là della meccanica in senso stretto; in questo paragrafo
tratteremo il problema di come vibrazioni di tipo meccanico interagiscano con il
corpo umano e quali possano essere le conseguenze.
Ritornando ai concetti sviluppati nel precedente paragrafo, è evidente che il nostro
corpo può risuonare con sorgenti di vibrazione esterne, assorbendone così l’energia.
In alcuni casi e per particolari frequenze, si possono produrre danni reversibili o no,
che vanno accuratamente considerati.
La schematizzazione del corpo umano come un “risonatore” è piuttosto complicata,
ma è abbastanza chiaro che essendo le varie parti del corpo di diversa lunghezza
potremo essere interessati da diverse frequenze. Le frequenze di risonanza relative
alla colonna vertebrale saranno minori di quelle che possono interessare la scatola
cranica.
Le vibrazioni, cui siamo interessati in questo paragrafo, sono divise in bande:
a) Basse frequenze, fino a 2 Hz e sono tipiche dei mezzi di trasporto
b) Medie frequenze, fino a 20 Hz, generate da macchine ed impianti industriali
c) Alte frequenze, oltre i 20 Hz tipiche degli strumenti vibranti utilizzati in
diverse attività lavorative.
159

Nella regione a) il corpo umano risponde come un’unica massa e la muscolatura


scheletrica riesce a compensare la forza applicata; eventuali danni dipendono
dall’energia assorbita.
Nella regione al di sopra dei 2 Hz la situazione è più complicata, la muscolatura
volontaria non riesce più a controllare i movimenti oscillatori delle varie parti del
corpo, che non si comporta più come una struttura unica, ma come un insieme di
masse suscettibili di un movimento relativo. Le diverse parti del corpo reagiscono
diversamente a seconda della frequenza di risonanza, delle sue caratteristiche fisiche,
inerzia…
Nella regione al di sopra degli 80 Hz le vibrazioni vengono efficacemente smorzate
dai tessuti corporei e gli effetti associati sono limitati alla zona immediatamente
adiacenti con la sorgente delle vibrazioni.
Non è questa la sede per discutere le patologie indotte dalle vibrazioni, è però
opportuno notare che nella regione a) si possono verificare stimoli vestibolari con
conseguente sintomatologia quali nausea, vomito, sudorazione…Nella regione b)
sono frequenti disturbi a carico della colonna vertebrale e effetti di riduzione della
sensibilità alla luce con un restringimento del campo visivo.
Prima di concludere questa superficiale disamina, è opportuno ricordare che accanto
alla frequenza un ruolo importante è giocato dall’accelerazione legata alla frequenza
e all’ampiezza delle oscillazioni dall’ovvia relazione
a = (2π f ) 2 A (6.1).
L’accelerazione fornisce valori importanti di riferimento nell’ambito della
prevenzione di alcune patologie legate alle cosiddette sindromi da vibrazione mano-
braccio, che interessano lavoratori che utilizzano trapani, seghe elettriche ed altri
utensili similari; le patologie associate si manifestano con sintomi quali semplice
torpore alle dita fino alla perdita di sensibilità dell’arto.
Da un punto di vista protezionistico si raccomanda ad esempio di non eccedere
−2
accelerazioni di 4 ms = 0.4 g (si ricordi che g è il valore dell’accelerazione di
gravità) per una attività di otto ore lavorative al giorno, mentre un' attività che
−2
implichi accelerazioni pari a 12 ms = 1,2 g non può essere protratta per più di
un’ora nell’arco di una giornata.

Si calcoli l’energia assorbita da un lavoratore che utilizza in una giornata


lavorativa di 8 ore un trapano a 100 Hz e il cui braccio è soggetto ad un
accelerazione di 0.45 g.

Per rispondere al quesito bisognerà calcolare la potenza ovvero il lavoro svolto


nell’unità di tempo ovvero
L
P = = maA f (6.2)
T
dove m è la massa del braccio e A è l’ampiezza delle oscillazioni, che possono essere
calcolate dalla (6.1) ottenendo così
160

ma 2
P= (6.3).
4π 2 f
Assumendo una massa del braccio pari a 5 kg si ottiene una potenza di 20.25 mW
e pertanto un' energia assorbita di circa 583.33 J.
161
162

CAPITOLO VI

CENNI DI IDROSTATICA E IDRODINAMICA

1.  Introduzione e concetto di pressione 

In questo paragrafo affronteremo alcune problematiche relative ai fenomeni


concernenti la idrostatica e l’idrodinamica e affronteremo come primo argomento la
pressione.
Nel capitolo precedente abbiamo introdotto lo sforzo come rapporto tra una forza e la
superficie su cui essa agisce; la pressione ha la medesima definizione e,
1N
analogamente, si misura nel sistema MKS in Pa = .
1m 2
Nel seguito descriveremo più in dettaglio alcune questioni relative alla pressione e le
integreremo con nozioni concernenti le problematiche lavorative associate a possibili
variazioni di pressione in ambiente di lavoro.
Cercando di essere meno qualitativi potremo dire che se una forza F agisce
perpendicolarmente ad una determinata superficie A si definisce pressione media la
quantità
F
p= (1.1).
A
Un corpo pesante che si appoggia su una determinata superficie esercita su di questa
una pressione data dal rapporto tra il suo peso e la superficie di appoggio, inoltre la
prova tangibile del peso dell’aria che grava sulle nostre teste è data dalla ben nota
pressione atmosferica.

Oltre al Pascal esistono altre unità con cui si misura la pressione. Tali unità sono
diverse a seconda dei campi di applicazione. In meteorologia si utilizza, ad
esempio, la pressione atmosferica standard (P0) che è quella al livello del mare a
0°C. Tale valore in unità MKS è pari a 1.013 ⋅ 105 Pa . Un' ulteriore unità di
misura sono i millimetri mm di mercurio o Torricelli (torr); in questo contesto
760 torr corrispondono ad un' atmosfera standard; trovare la corrispondenza tra
mm di mercurio e Pascal

Effettuando banali equivalenze si ottiene


1 torr = 133.2 Pa (1.2)

La pressione sanguigna umana di solito viene espressa in torr e può essere


stimata intorno a 100-120 torr corrispondenti a 1.3 ⋅ 10 4 − 1.58 ⋅ 10 4 Pa
163

Ricordiamo infine che in meteorologia si utilizza anche il millibar e, in tale unità, la


pressione atmosferica standard corrisponde a 103 millibar. La pressione della camera
d’aria di una bicicletta può, ad esempio, essere stimata intorno alle 5 atmosfere.
Abbiamo prima fatto riferimento a varie unità di misura senza chiarire quali fossero i
motivi fisici che le hanno determinate.
Come già ricordato, la pressione atmosferica altro non è che la manifestazione del
fatto che l’aria pesa, e che sopra le nostre teste grava una colonna di fluido di una
determinata altezza e di una determinata densità.
In generale, data una colonna sia essa di un gas o di un liquido (si veda la Figura
6.1.1 )

Fig. 6.1.1. Pressione esercitata da una colonna d’acqua di altezza h


sulla superficie A.

di altezza h, superficie A e densità ρ, potremo derivare la pressione da essa


esercitata, come
mg
p= (1.3)
A
Poiché m = ρV = ρ gAh , si ottiene (in maniera un po’ grossolana) la legge di Stevino
p = ρ gh (1.4).
che stabilisce la variazione della pressione con l’altezza.
Possiamo ora comprendere il senso di un' unità di misura quale il torr .
Consideriamo pertanto la classica esperienza di Torricelli, illustrata in Figura 6.1.2,
dove si mostra una colonna di mercurio in una provetta, in cui è stato fatto il vuoto.
164

hHg

Fig. 6.1.2. Esperienza di Torricelli.

L’equilibrio tra la pressione atmosferica e quella esercitata dal mercurio è


evidentemente assicurata dalla relazione
p0 = ρ Hg ghHg (1.5)
dove ρHg ,hHg sono le densità e le altezze relative al mercurio nella provetta.
kg
Utilizzando il valore di densità di mercurio pari a 1.36 ⋅ 10 4 si ottiene, in
m3
corrispondenza del valore della pressione atmosferica standard, un'altezza di 760 mm.
Vedremo ora, con esempi appropriati, come si utilizzino i concetti precedenti per la
soluzione di qualche problema concreto.

Utilizzando il valore della pressione atmosferica standard si determini quale è la


forza esercitata dall’aria immobile sulla lastra interno di un vetro di una
finestra di area pari a 0.32 m2.

Dalla definizione di pressione segue


F = p 0 A ≅ 3.24 ⋅ 10 4 N (1.6)

Si spieghi perché il vetro non si frantuma.

In Figura 6.1.3 si mostra una colonna di acqua di 0.4 m che bilancia una colonna
di un liquido non noto di altezza pari a 0.31 m; si determini la densità di tale
liquido.
165

hH2 O
hx

Fig. 6.1.3. Equilibrio tra due colonne di liquido di differenti densità.

La condizione di equilibrio tra le due colonne implica che


ρ H O ghH O = ρ X gh X
2 2
(1.7)

da cui segue
hH O
ρ X = ρ H 2O 2 ≅ 1.29 ⋅103 kg m −3 (1.8).
hX
Prima di procedere oltre è il caso di ricordare il principio di Pascal, in base al quale si
può affermare quanto segue:
quando la pressione agente su una parte qualsiasi di un fluido, contenuto in un
recipiente, subisce una variazione, la pressione su ogni altra parte del fluido
subisce una variazione uguale.

In base a tale principio possiamo concludere che, se siamo, ad esempio, interessati a


conoscere la pressione totale al fondo di una piscina colma di acqua, dovremo
aggiungere al valore calcolato, con l’equazione precedente, il valore della pressione
atmosferica, ottenendo così
p = ρgh + p0 (1.6).

Inoltre possiamo anche affermare che la nostra pressione interna è la somma della
pressione del corpo più quella atmosferica.

Si dimostri che la pressione esercitata da una colonna d’acqua di 10 m è pari a


circa una atmosfera.

Una persona sul fondo di una vasca di 10 m di altezza è dunque soggetto ad una
pressione di due atmosfere. Un sommozzatore a 30 m è soggetto a circa quattro
atmosfere (per la precisione 2210 torr in modo tale che la pressione del suo corpo è
pari a 2330 torr).
166

In gergo si dice che ad ogni 10 m sotto il livello dell’acqua corrisponde un ATA


(ovvero atmosfera equivalente); discuteremo meglio tali problematiche nel Capitolo
X, dove affronteremo alcune questioni concernenti l’embolia gassosa.

Un pistone premuto da un peso (si veda la Figura 6.1.4 ) comprime un fluido di


densità ρ in un recipiente chiuso. Il pistone e il peso equivalgono ad una forza di
200 N, mentre la sezione del pistone è 8 cm2. Si determini la pressione totale
agente in un punto alla base del cilindro nel caso in cui il fluido sia mercurio e
h=25 cm.

200 N

Fig. 6.1.4. Pistone premuto da un peso sul fluido contenuto nel


recipiente mostrato in figura.

Dal principio di Pascal si ottiene


F
p B = p0 + ρ Hg gh + ≅ 3.85 ⋅10 5 Pa (1.7).
A
Vedremo ora come dalle considerazioni precedenti segua, in maniera alquanto
naturale, il principio di Archimede, in base al quale:
Un corpo completamente o parzialmente immerso in un fluido riceve una spinta
verso l’alto da una forza pari al peso del liquido spostato.

Tale principio, come illustrato in Figura 6.1.5, è il risultato delle condizioni di


equilibrio del liquido stesso sotto l’azione delle forze di pressione.

Si consideri infatti una porzione di liquido di peso


F = ρ l Vg (1.8)
L’equilibrio di tale porzione è assicurata dalla somma delle forze di pressione agenti
sulla sua superficie esterna. Il valore di tale forza è indipendente dalla natura della
superficie di contatto, e questa agirà su qualsiasi altro materiale, sostituito alla
porzione di liquido.
167

F F = ρ l Vg

Fig. 6.1.5. Il principio di Archimede.

kg
La densità dell’alluminio è 2.7 ⋅ 10
3
; con riferimento alla Figura 6.1.6 una
m3
massa di 25 g di alluminio, appesa ad una corda viene immersa nell’acqua;
determinare la tensione della corda.

FT

Fl

Fig. 6.1.6. Massa di alluminio appesa ad una corda.

m
Poiché V = si ottiene per la forza di Archimede
ρ
m Al
FA = ρH O g (1.9)
ρ Al 2

cosicché, per quanto riguarda la tensione si ottiene


ρH O
T = m Al g (1 − 2
) ≅ 0.154 N (1.10).
ρ Al
Una componente in lega ha una massa di 86 g in aria e di 73 g se immersa in
acqua; si determini la sua densità.
168

Indicando con il sottoindice L le quantità relative alla lega avremo che la differenza
di peso misurata è dovuta alla forza di Archimede
FA = Δ L g (1.11)
dove ΔL indica la differenza delle masse
Δ
VL = L ,
ρ H 2O
m L ρ H 2O (1.12)
kg
ρL = ≅ 6.615 ⋅ 10 3
3

ΔL m
dove con mL abbiamo indicato la massa della lega in aria.
L’esempio precedente è stato formulato in maniera volutamente grossolana e
parzialmente scorretta; il lettore provi a formularlo in modo più rigorosa.

Consideriamo un camion che trasporti un recipiente di forma cilindrica pieno di


un liquido di densità ρ ; si determini l’aumento di pressione interna del liquido
quando il mezzo accelera o decelera.
E’ del tutto evidente che se il mezzo accelera o decelera l’aumento di pressione è
dovuto ad un effetto concettualmente identico. Consideriamo dunque il caso di una
decelerazione (si veda la Figura 6.1.7) cosicché il liquido viene spinto in avanti in
modo tale che, sostituendo nella legge di Stevino l’accelerazione gravitazionale con
l’accelerazione subita dal liquido e la coordinata verticale con quella longitudinale, si
può stimare l’aumento di pressione come dato da
Δp = ρ a x (1.13)
x

a
Fig. 6.1.7. Aumento di pressione del liquido sulle pareti del contenitore
generato dalla decelerazione del camion.

Un recipiente contenente del liquido viene posto in rotazione con velocità


costante ω ; si determini l’aumento di pressione dovuto alla forza centrifuga.

Il Lettore non avrà difficoltà a comprendere che per effetto della forza centrifuga si
ha
Δp = ρ (ω x) 2 (1.14)
169

Il risultato precedente è di notevole importanza da un punto di vista fisiologico;


possono esservi infatti notevoli aumenti di pressione per persone sottoposte a forti
accelerazioni centrifughe come nel caso dei piloti dei caccia.

Se un fluido in movimento in un tubo cilindrico viene posto in rotazione, oltre


all’aumento di pressione calcolato tramite la (1.14) quale altro effetto può
determinare un aumento di pressione?

Abbiamo visto nel Capitolo I l’esistenza della forza di Coriolis che può determinare
un aumento di pressione (si veda la Figura 6.1.8) pari a (il Lettore spieghi perché)
Δp = 2ω v y (1.15)

Fig. 6.1.8. Fluido in movimento in un cilindro posto in rotazione.

Abbiamo citato in precedenza il principio di Pascal e nel seguito ne riportiamo alcune


conseguenze pratiche.
Nella Fig. 6.1.9 riportiamo la cosiddetta manovra di Heimlich, che si applica come
primo soccorso in caso di soffocamento per ostruzione delle vie aeree.

La pressione esercitata sul


diaframma si trasmette alla
parte superiore delle vie
aeree determinando la
liberazione da elementi
ostruttivi.

Fig. 6.1.9 Manovra di Heimlich


170

L’applicazione di una pressione a livello del diaframma si trasmette (grazie al


principio di Pascal) alla parte superiore delle vie aeree determinando l’espulsione
dell’elemento ostruttivo.
In Fig. 6.9.10 viene riportata una leva idraulica, si spieghi perché il principio di
Pascal è rilevante per tale apparato.
Ao
Ai
Azionamento do Sollevamento

di
Fi Fo
olio

Fig. 6.9.10. Leva idraulica

Con riferimento alla Fig. 6.9.11si utilizzi il principio di Pascal perché un trauma
esterno sull’occhio può determinare un distacco della retina

Cornea
Retina

Per il principio di Pascal,


la pressione sulla cornea, la pressione si trasmette
che è relativamente dura, inalterata, attraverso il
può causare un dolore liquido oculare, alla retina
momentaneo ma nessun e può causarne il distacco
danno apparente
Fig. 6.9.11. Trauma esterno sull’occhio e sue possibili conseguenze.
171

Nella Fig. 6.9.12 viene mostrato un impatto da incidente d’auto e l’apertura dell’Air
Bag, si spieghi la relazione con il principio di Pascal

Il parziale allungamento
distanza di della cintura di sicurezza
estende la distanza di arresto
arresto del guidatore

L'airbag agisce come un


fluido esercitando la stessa
pressione su tutte le parti del
corpo che subisce l'impatto
L'airbag si espande
nell'istante dell'impatto
Fig. 6.9.12. Air Bag

La Figura 6.9.13 mostra un freno idraulico si spieghi il relativo meccanismo di


funzionamento

Forza sul fluido del circuito


I cilindretti agiscono come frenante dovuta all'azione
una doppia pressa idraulica F meccanica sul pedale del freno
La Forza di attrito
Pastiglia delle pastiglie sul
tamburo provoca
l'arresto del veicolo
Forza dei cilindretti
sulle ganasce
Ganasce
Tamburo

Fig. 6.9.13. Freno idraulico a tamburo.

In Fig. 6.9.14 viene riportato un materasso ad aria, perché permette di riposare senza
essere infastiditi dalle asperità del terreno?
172

La pressione del materasso ad aria si


distribuisce uniformemente su tutto il corpo

le asperità del terreno


non vengono percepite
Fig. 6.9.13. Materasso ad aria.
 
 
 
2.   La tensione superficiale e l’equazione di Laplace 

Dalla definizione di pressione segue un fatto ovvio ma di notevole importanza.


Ricordiamo pertanto che in meccanica il lavoro compiuto da una forza è specificato
dalla seguente relazione
L = Fs (2.1)
dove s è lo spostamento compiuto sotto l’azione della forza (abbiamo assunto che
forza e spostamento siano paralleli).
Se una pressione P, agente su una superficie A, determina uno spostamento della
medesima per un tratto s, perpendicolare alla superficie, potremo concludere, in base
alla (1.1), che sulla superficie A agisce una forza
r r
P = pA n (2.2)
r
dove n è un vettore unitario perpendicolare alla superficie . Chiameremo, per
brevità, la (2.2) forza di pressione, che risulterà sempre perpendicolare alla
superficie A sulla quale agisce la pressione p.
Potremo, a questo punto, associare alla forza (2.2), un lavoro pari a
L = pAs (2.3),
Tenuto conto che As=V (si veda la Figura 6.2.1) definisce il volume spostato dalla
forza di pressione, potremo concludere che
L = pV (2.4).
Il lavoro compiuto dalle forze di pressione è dunque uguale al prodotto della
pressione per il volume spostato.
173

s
P = pA n
A

Fig. 6.2.1. Volume di fluido spostato dalla forza P = p A n dovuta


alla pressione p esercitata sulla superficie A .

Vediamo ora come il risultato precedente si sposi con i fenomeni associati alla
tensione superficiale, che rivestono una notevole importanza in Fisica e le cui
ricadute fisiologiche sono, come vedremo nel prossimo Capitolo, estremamente
rilevanti.
E’ esperienza comune gonfiare una bolla di sapone e il suo equilibrio è garantito da
un bilancio tra le forze di pressione (interna ed esterna) e quelle di tensione
superficiale. Il lavoro elementare per fare aumentare una bolla di un certo volume dV
è dato da
dL = pdV , p = p i − p e (2.4)

dove gli indici i,e si riferiscono ad interno ed esterno. Se si assume la bolla di forma
sferica si ha
4
V = π R 3 , S = 4π R 2 (2.5)
3
dove R è il raggio della bolla. La forza di pressione associata è dunque
F p = 4π R 2 p (2.6).

Tale forza sarà bilanciata da quella di tensione che svolge un lavoro dato da
dL = τ dS = FT δ R (2.7)

dove con τ abbiamo indicato la tensione superficiale e con dS l’elemento di superficie


sferica dato da
dS = 8π RδR (2.8).
Dalle relazioni precedenti si evince che la forza di tensione si può scrivere come
FT = 8π τ R (2.9).
174

Dall’eguaglianza tra le forze di pressione e di tensione si evince che



pi − p e = (2.10)
R
che costituisce la cosiddetta legge di Laplace, che può essere formulata dicendo che
la pressione interna è pari a quella esterna più quella indotta dalle forze di tensione
superficiale (si veda la Figura 6.2.2 per una visione “pittorica” del fenomeno).
Vedremo nel seguito le conseguenze della legge di Laplace, per quanto concerne la
pressione transmurale in fisiologia cardiovascolare, la respirazione e la “dinamica”
degli alveoli polmonari e le embolie gassose.

pe
R+δR

pi

Fig. 6.2.2. Teorema di Laplace.

3.  Il teorema di Bernoulli e le sue conseguenze 

Abbiamo discusso nel Capitolo III come il lavoro possa essere considerato una forma
di energia e come questa sia una quantità che si conservi. Abbiamo appena visto
come alle forze di pressione si possa associare un lavoro ed è pertanto evidente che
potremo riformulare il principio della conservazione della energia meccanica tenendo
conto di questo ulteriore contributo.
Prima di procedere cerchiamo di chiarire le ipotesi che stanno alla base di tale
“estensione” del principio di conservazione dell’energia.
In analogia al caso meccanico escluderemo gli effetti di attriti ma più in generale
assumeremo che il fluido sia “ideale” ovvero stazionario, incomprimibile,
irrotazionale e non viscoso.
175

Stazionario significa che in ogni punto la velocità è costante nel tempo, ovvero
dividendo il fluido in tante piccole particelle, la velocità di ognuna che passa per un
punto specificato è sempre la stessa.
La condizione di incompressibilità implica che il fluido abbia in ogni punto la stessa
densità.
Irrotazionale significa che le particelle del fluido, abbiano, in ogni punto, velocità
angolare nulla.
Non viscoso implica che nel fluido siano assenti effetti analoghi all’attrito, di cui
diremo in seguito.
Un concetto molto importante è quello di flusso di massa definito come la quantità di
materia che attraversa una determinata superficie nell’unità di tempo; con riferimento
alla Figura 6.3.1 si ottiene che la quantità di materia che fluisce attraverso la
superficie A1 , ortogonale alla velocità, nel tempo Δt è dato da
Δm1 = ρ1 A1v1Δt (3.1)
Assumendo che non vi siano né pozzi né sorgenti, ovvero se non viene distrutta o
creata massa di fluido, la quantità di materia che entra in 1 sarà pari a quella che esce
da 2, ovvero
ρ1v1 A1 = ρ 2 v2 A2 (3.2)

Δs 1=v1Δt

A1
Δs2 =v2Δt
A2

Fig. 6.3.1. Conservazione del flusso di materia in assenza di pozzi o sorgenti.

il che implica che la quantità ρνA è conservata. Dall' assunzione di incomprimibilità


segue che ρ1 = ρ 2 e pertanto che anche la quantità
Q = Av (3.3)
detta portata volumetrica, è costante lungo tutta la condotta.
Cerchiamo ora di integrare il teorema di conservazione dell’energia con l’inclusione
delle forze di pressione.
Consideriamo quindi la condotta in Figura 6.3.2 in cui scorra un fluido (a),
consideriamo un elemento di tale fluido di volume V, che sarà sottoposto alle forze di
pressione e alla forza peso (b).
176

(a)
(b)
P1 Δl1
Δl1 A1
P
A1

A2 Δl2
mg
Δl2
h1 A2 P2

h2
mg

Fig. 6.3.2. Lavoro effettuato dalla forza di pressione e dalla forza peso:
Teorema di Bernoulli.

Il lavoro compiuto da tali forze sarà dato da


L = p1 A1Δl1 − p2 A2 Δl2 − mg ( h2 − h1 ) (3.4)
Poiché il volume rimane lo stesso avremo, utilizzando la relazione tra massa e
volume
m
L = ( p1 − p2 ) − mg (h2 − h1 ) (3.5)
ρ
e grazie al teorema dell’energia cinetica potremo scrivere
1 2 1 2 m
mv2 − mv1 = ( p1 − p2 ) − mg ( h2 − h1 ) (3.6)
2 2 ρ
da cui segue il cosiddetto teorema di Bernoulli
1 2
ρv + p + ρgh = c (3.7).
2

Si consideri la condotta di Figura 6.3.3; sapendo che la velocità di un liquido di


densità ρ nella sezione maggiore è v1 e che il rapporto tra la sezione 1 e la sezione
2 è α, si determini la differenza di pressione tra le due sezioni.

α =A1/ A2
A1 v1 A2 v2

Fig. 6.3.3. Variazione di velocità del fluido in relazione alle differenti


sezioni della condotta.
177

Dall' equazione di conservazione della portata si ottiene


v2 = αv1 (3.8)
e dall’equazione di Bernoulli si ricava
1 1
p1 + ρv1 = p 2 + ρv 2
2 2
(3.9)
2 2
ovvero
1
p1 − p2 = ρv1 (α 2 − 1)
2
(3.10)
2
E’ evidente che nella regione più stretta la velocità è maggiore e la pressione è
minore.

Si discuta la rilevanza del teorema di Bernoulli nella patologia delle Apnee


Notturne.
Il lettore è invitato a riflettere autonomamente su questo aspetto del problema.
Si consideri un recipiente di altezza h riempito di un liquido, come in Figura
6.3.4; si determini la velocità di efflusso da un foro posto alla sua base.
Dall' equazione di Bernoulli si ricava
1 2
p0 + ρgh = ρv + p0 (3.11)
2
da cui si ottiene
v = 2 gh (3.12)

Questo risultato è noto come teorema di Torricelli e stabilisce che la velocità di


efflusso alla base della colonna di liquido è la stessa che si avrebbe se il liquido
cadesse liberamente da un' altezza pari a quella della colonna.

Fig. 6.3.4. Efflusso da un foro posto alla base del recipiente di


altezza h riempito di un liquido.
178

Quale è la pressione che si deve applicare ad un recipiente per determinare una


velocità di efflusso v (si veda la Figura 6.3.5) ?
1
(R. p = ρv )
2

p
v

Fig. 6.3.5. Pressione esercitata sul liquido contenuto in un tubo.

Come si modifica l’equazione (3.11) se con riferimento alla Figura 6.3.6 in cima
al pelo del liquido è posto un pistone di massa M e sezione A pari a quella del
contenitore (si assuma che il pistone possa muoversi senza attriti)

Non è difficile provare che in questo caso si ha


Mg
v = 2 g (h + ) = 2 g ( h + h' ) ,

dove si è posto (si dimostri che il rapporto ha le dimensioni di un’altezza)
M
h′ =

che ci permette di concludere che la velocità di efflusso è quella che si avrebbe se la
colonna di liquido fosse alta h+h’ .

h
Mg

Fig. 6.3.6. Efflusso da un foro posto alla base del recipiente di altezza h riempito di
un liquido e soggetto al peso di un pistone di massa M libero di scorrere.
179

Quale sarà la velocità di efflusso di un liquido dal foro di un palloncino sferico di


raggio R con tensione superficiale τ ?
Dalla legge di Laplace si ottiene facilmente

τ
v=2
ρR
Nel prossimo Capitolo discuteremo alcune importanti conseguenze a livello di
fisiologia cardiovascolare dei concetti finora sviluppati.
Con riferimento alla figura 6.3.7 si spieghi perché il flusso d’acqua in uscita da un
rubinetto tende a restringersi durante la caduta.
(Suggerimento: Si applichi il teorema di Bernoulli, si discutano le differenze con
il caso di Fig. 6.3.3 si consideri il problema in modo da chiarire cosa determini la
condotta del liquido).

A0
h

A
Fig. 6.3.7. Flusso d’acqua in uscita da un rubinetto, h è la caduta.
 
 
4.  Viscosità e moto turbolento 

E’ opportuno sottolineare di nuovo che i risultati prima ottenuti sono basati


sull’assunzione che il moto del fluido sia laminare e non viscoso.
La viscosità può essere considerata come una manifestazione dell’attrito intrinseco di
un liquido. Abbiamo già visto, in ambito puramente meccanico, quale sia l’effetto
dell’attrito sul moto di un corpo; abbiamo infatti messo in evidenza che il coefficiente
di attrito determina una forza, che si oppone all'atto di moto istantaneo del corpo.
Allo stesso modo un liquido, che si muove all’interno di una condotta provocherà, a
causa dell’attrito una caduta di pressione ai capi della condotta. Per meglio
comprendere quanto affermato possiamo notare che, se si dividesse un fluido in
diversi strati (si veda la Figura 6.4.1) la forza che occorrerebbe applicare ad uno
180

piccolo strato di fluido per modificarne la velocità rispetto ad un altro strato posto ad
una distanza fissa (h):
Δv
F = ηS (4.1)
Δh
dove si è indicato con

F = forza che viene applicata ai piani di misurazione


η = Viscosità
Δv = differenza di velocità tra i due strati
Δh = distanza tra i due strati
S = superficie dei due strati
Parete della condotta

Fig. 6.4.1. Variazione di velocità del fluido in relazione alla distanza


dalla parete della condotta.

L’esempio precedente è solo un esercizio concettuale, poiché non è possibile


applicare e/o misurare una forza agente su un idealizzato strato di fluido. Una misura
della viscosità viene eseguita con il così detto viscosimetro, che utilizza la misura
della viscosità e si esegue ponendo il fluido tra due "piattelli", posti ad una distanza
regolabile. Uno dei due piattelli viene mantenuto fisso mentre viene fatto ruotare il
secondo. Invece di una forza si misura la coppia applicata (momento torcente) e, al
posto della velocità lineare, la risultante velocità angolare. Esistono anche
viscosimetri che sfruttano diversamente le caratteristiche dei fluidi per misurare la
viscosità. Ad esempio un viscosimetro "a coppa" (utilizzato per le vernici) è
composto da un contenitore graduato con un foro calibrato sul fondo. Più il fluido è
viscoso, più tempo impiegherà a fluire attraverso il buco. Misurando il tempo di
svuotamento della coppa e' possibile (tramite opportune tabelle) risalire alla viscosita'
del fluido.
Quest' ultima quantità viene misurata in Poisseille (Pl) che è una grandezza derivata
esprimibile come il seguente prodotto
1Pl = 1Pa ⋅ s (4.2).
Tanto per dare delle grandezze di riferimento notiamo che la viscosità del sangue può
−4
essere stimata intorno a 3.5 ⋅ 10 −3 Pl , quella dell’acqua intorno a 8 ⋅ 10 Pl , mentre
quella di alcuni oli può arrivare fino a 0.2 Pl.
Nell’ipotesi in cui tali effetti non siano trascurabili si dice che il moto del fluido è in
regime di Poisseille e in tale regime un liquido, che si muove all’interno di una
condotta, provocherà, a causa dell’attrito, una caduta di pressione ai capi della
181

condotta. Nel caso in cui la condotta sia un tubo a sezione circolare di raggio r, tale
caduta di pressione ai capi è data da
8ηL
Δp = Q (4.3)
πr 4
dove Q è la portata del liquido, L la lunghezza del tubo e η è la viscosità del liquido.
Le basi fisiche della legge precedente sono facilmente comprensibili e la caduta di
pressione può essere interpretata come una dissipazione di energia, dovuta proprio
all’attrito.
Ritornando alla formula (4.3) vogliamo far notare che è possibile introdurre la
seguente quantità
8ηL
RI = 4 (4.4)
πr
che diremo resistenza o impedenza idraulica, di modo tale che
Δp = RI Q (4.5)
che ci permette di stabilire un' analogia con la legge di Ohm (si veda la seconda parte
del libro), assimilando la caduta di pressione alla caduta di potenziale e la portata alla
corrente elettrica, che fluisce all’interno del circuito.
Utilizzando inoltre l’analogia con l’effetto Joule (si veda la seconda parte del libro)
potremmo anche concludere che la quantità8
ΔW = RI Q 2 (4.6)
rappresenta la perdita di potenza per unità di superficie, che va reintegrata se si vuole
mantenere una potenza costante ai capi della condotta.
Una conseguenza interessante e importante dell’analogia circuitale è la seguente: se
una condotta è costituita da due tronconi successivi con diversa impedenza, la caduta
di pressione sarà data dalla stessa formula (4.5) con una resistenza totale data da
R IT = R I(1) + R I( 2 ) (4.7)
che è essenzialmente la relazione relativa alle resistenze in serie per i circuiti elettrici.
La dimostrazione di tale fatto è abbastanza semplice e può essere compresa come
segue. In riferimento alla Figura 6.3.3 la caduta di pressione ai capi di una condotta
costituita da due tratti con impedenze idrauliche diverse è data da
Δp = Δp1 + Δp 2 (4.8)
Poiché il flusso è lo stesso in entrambe le condotte avremo Δp1, 2 = RI Q da cui
(1, 2 )

segue, ovviamente, la relazione (4.7).

Oltre che in serie le impedenze idrauliche possono essere collegate in parallelo,


come mostrato in Figura 6.4.2, il lettore dimostri che in questo caso vale la
relazione
1 1 1
T
= (1) + ( 2 ) (4.9)
RI RI RI

8
Si noti anche l’analogia con la potenza dissipata da forze di attrito dipendenti dalla velocità.
182

A1 v1
A0 v0
A2 v2

Fig. 6.4.2. Impedenze in parallelo.

Si noti che in questo caso si ha Q = Q1 + Q2 e ΔP = ΔP1 = ΔP2 da cui segue la relazione


cercata ( il Lettore esegua la derivazione per proprio conto).
Anche nel caso del risultato (4.9) si può riconoscere un' analogia circuitale, che
potremmo estendere introducendo quantità analoghe alle capacità. Tale analogia più
estesa sarà utilizzata nel Capitolo XI allorché tratteremo gli aspetti fisiologici della
respirazione. Un' analogia più profonda che ci permetterà di stabilire una connessione
con le leggi Kirchoff, sarà discussa nel capitolo XIII, dopo aver discusso le specifiche
problematiche associate ai circuiti elettrici.
Prima di chiudere questo paragrafo è opportuno riportare alcuni esempi tendenti a
chiarire ulteriormente il significato dei risultati prima derivati e faciliteranno la
comprensione delle loro conseguenze fisiologiche discusse nel prossimo paragrafo.

Si dimostri che l’impedenza totale idraulica di N sezioni identiche poste in


parallelo si riduce esattamente di un fattore N.

Si determini la potenza per unità di superficie necessaria per mantenere costante


la pressione ai capi di una condotta circolare di raggio 6 cm e lunga un metro
che trasporto un olio con viscosità pari a 0.1 Pl.
Il moto di un fluido, anche in regime viscoso, può rimanere laminare; se però gli
effetti sono tali da generare quanto illustrato in Figura 6.4.3, ovvero quando si creano
dei vortici, si dice che il moto è in regime turbolento.

Fig. 6.4.3. Flusso non laminare indotto dall’attrito sulle pareti della condotta.
183

Una misura della turbolenza di un fluido è rappresentato dal cosiddetto numero di


Reynolds, quantità adimensionale, definita come segue
ρv L
NR = s (4.10)
η
dove vs , L sono rispettivamente la velocità media del fluido e la lunghezza della
condotta. Esso può indicare se un fluido sia in regime laminare o turbolento. In un
condotto un fluido viene considerato in regime laminare se il valore numerico di NR è
inferiore a 2000, turbolento se superiore a 10000. Se 2000 < NR < 10000 si è in
regime di transizione. Se la condotta è circolare a L si sostituisce il suo diametro per
cui la (4.10) può anche essere scritta nella forma più conveniente; nel caso di una
condotta a sezione circolare (lo si provi)
ρQ
NR = 2 (4.11a)
πη r
ed esprimendo la portata in l / s , si ha
ρ
N R = 2 ⋅10 −3 Q[l / s ] (4.11b)
πη r

Si rifletta sul significato del numero di Reynolds notando che l’equazione


(4.11a), nel caso di una condotta circolare, può essere scritta nella forma
2M
NR = , M = Δmv s R (4.12)
Δvη
dove M rappresenta il momento angolare acquisito da un parte di volume ΔV del
fluido di massa Δm.

Le conseguenze del regime turbolento a livello fisiologico saranno discusse nel


prossimo capitolo.
184
185

CAPITOLO VII

LA FISICA DEL SISTEMA CARDIO-VASCOLARE

1.  Introduzione 

Il sistema cardiovascolare garantisce la circolazione del sangue attraverso due


principali sistemi (Figura 7.1.1):

Fig. 7.1.1 Apparato circolatorio

a) Quello arterioso per il trasporto di nutrimenti e di sangue ossigenato nei


diversi organi e tessuti del corpo

b) Quello venoso di ritorno, avendo il sangue ceduto l’ossigeno arricchendosi


di anidride carbonica ed altri cataboliti

In questo capitolo utilizzeremo, quanto appreso nei precedenti, per descrivere gli
aspetti fisici o meglio fisiologici del sistema cardiovascolare e vedremo come i
186

concetti di idrostatica e idrodinamica, prima sviluppati, si adattino alla descrizione


dei processi alla base del sistema cardiocircolatorio.
Il sangue è il veicolo trasportatore, pertanto è opportuno fornire alcune informazioni
relative ai suoi aspetti fisici e costitutivi.
La massa totale del sangue è intorno al 7% di quella totale del corpo; per una persona
di 80 kg la massa del sangue ammonta dunque a 5.4 kg, la sua densità è prossima a
quella dell’acqua e si aggira intorno a ρ s = 1 .04 ⋅ 10 3 kg / m 3 , il volume totale
occupato dal sangue, nel caso dell’esempio precedente, è stimabile nella misura di 5.3
l.
Le componenti principali del sangue sono qui di seguito riportate.
Il 55% del volume del sangue è costituito dal cosiddetto plasma, il cui costituente
essenziale è l’acqua in misura di 900 g per litro mentre le proteine ammontano a circa
70 g per litro.
I globuli rossi (eritrociti) conferiscono al sangue la sua caratteristica fluidità,
occupano il 44% del volume totale e la loro densità numerica (numero per unità di
volume) è circa N e ≅ 5 ⋅10 6 / μl , 1μl = 10 −6 l , hanno la forma di un disco con un
diametro di 7 μm e uno spessore di 2 μm.
I globuli bianchi (leucociti) giocano un ruolo fondamentale per il sistema
immunitario e aumentano di numero in caso di infezione, hanno forma sferica con un
diametro di 10-20 μm e sono in misura di circa 7 ⋅ 10 / μl .
3

Le piastrine (trombociti) hanno una funzione importante per quanto concerne i


processi di coagulazione, hanno forma piatta con una lunghezza pari a circa 2.5-4 μm,
uno spessore di 0.6 μm e hanno una densità di circa 3 ⋅ 10 / μl .
5

Si determini il volume di un singolo globulo rosso e il volume totale da essi


occupato.

Avendo i globuli rossi la forma di un dischetto il loro volume sarà dato da


Ve = πr 2 s ≅ π 3.5 2 ⋅ 2μm 3 = 7.697 ⋅10 −14 l
Il numero totale di eritrociti, per un volume sanguigno Vs di circa 5.3 l, sarà
N e = d ⋅ V s ≅ 5 ⋅ 10 6 ⋅ 5.3 ⋅ 10 6 = 2.65 ⋅ 1013
da cui segue che il volume occupato dagli eritrociti può essere stimato in misura di
VT = N eVe ≅ 2 l

Si determini il volume occupato da leucociti e piastrine.

Dopo tali informazioni propedeutiche, descriveremo gli aspetti essenziali della fisica
del cuore, utilizzando in larga misura le nozioni sviluppate nel precedente Capitolo
187

2.  La fisica del cuore 

Il cuore è il componente principale del sistema cardiovascolare, costituito da quello


arterioso, ovvero dall’insieme di vasi che dipartendosi dal cuore trasportano il sangue
carico di ossigeno verso il resto del corpo, e da quello venoso che riporta il sangue,
ricco di anidride carbonica, al cuore. Nei mammiferi le circolazioni arteriose e venose
non si mischiano.
Il cuore può essere schematizzato utilizzando il semplice modello di una pompa, più
precisamente potremo dire che il cuore è un sistema a doppia pompa (si vedano le
Figure 7.2.1, 7.2.2), il cui funzionamento può, a grandi linee, essere descritto come
segue.

Lato venoso a bassa pressione Lato arterioso ad alta pressione

Fig. 7.2.1. Funzionamento del cuore: due pompe parallele


188

Vena
polmonare

Fig. 7.2.2. Il cuore

Il ciclo cardiaco, che porta il cuore dallo stato di contrazione allo stato di riposo e
quindi nuovamente a quello di contrazione, è detto "rivoluzione cardiaca" e
comprende due fasi essenziali nelle quali si svolge l'attività del cuore:

• diastole
• sistole.

Durante la diastole tutto il cuore è rilassato, in modo da garantire il flusso del sangue
all’interno di tutte e quattro le cavità. Il sangue affluisce nell'atrio destro attraverso le
vene cave, mentre accede a quello sinistro tramite le vene polmonari. In questa fase le
valvole atrioventricolari sono aperte in modo da consentire il passaggio del sangue da
atri a ventricoli. La fase diastolica dura circa 0.4 secondi, il tempo sufficiente per
consentire ai ventricoli di riempirsi quasi completamente.

La sistole comincia con una contrazione degli atri, di circa circa 0.1 secondi, durante i
quali si determina il riempimento completo dei ventricoli, i quali si contraggono per i
successivi 0.3 secondi. La loro contrazione chiude le valvole atrioventricolari e apre
le valvole semilunari; il sangue povero di ossigeno viene spinto verso i polmoni,
mentre quello ricco di ossigeno si dirige verso tutto il corpo attraverso l'aorta.

Queste fasi cardiache sono ascoltabili ed identificabili attraverso due suoni distinti,
detti toni cardiaci. Quando i ventricoli si contraggono abbiamo il primo tono, un
suono cupo (rappresentabile con un PUM), generato dalla contrazione del miocardio
ventricolare e, in parte, dalla vibrazione delle valvole atrio-ventricolari che si
chiudono. Al primo tono segue una pausa durante la quale i ventricoli spingono il
sangue nelle arterie. Successivo è il secondo tono, breve e chiaro (rappresentabile con
189

un PAH), determinato dalla vibrazione delle valvole semilunari che si chiudono. Al


secondo tono segue una pausa più lunga, con il riempimento dei ventricoli.

Discuteremo ulteriormente i meccanismi di funzionamento del cuore nella seconda


parte del libro nell’ambito di uno studio quantitativo dei suoi aspetti energetici.

Durante ogni contrazione il cuore pompa 75-80 ml di sangue (ovvero circa il 2% del
totale) ad una frequenza di circa 1 Hz. Come mostrato in Figura 7.2.1, esiste una
ovvia differenza di distribuzione di volume di sangue tra il ciclo sistemico (84%) e
quello polmonare (10%). La direzione di moto del sangue viene controllata dalle
valvole cardiache all’entrata (valvola mitrale a sinistra e tricuspidale a destra) e
all’uscita dei ventricoli (valvola aortica a sinistra e polmonare a destra). Le valvole
sono a loro volta controllate dalle condizioni di pressione nei ventricoli, determinate
dalle contrazioni del muscolo cardiaco (miocardio).
In Figura 7.2.3 abbiamo schematicamente riportato la dinamica ventricolare in cui
viene riportata la valvola mitralica e quella aortica, quando la pressione aumenta a
causa della contrazione dei ventricoli, si apre la valvola di uscita e si chiude quella di
entrata.

Valvola
aortica
Valvola
mitrale

Valvole
Valvole
semilunari
atrioventricolari

Fig. 7.2.3. Dinamica ventricolare

Siamo ora in grado di determinare, con una certa precisione, il lavoro fatto dal cuore,
determinato, in larga parte, dalle forze che ne causano le contrazioni. Tenuto conto
che queste sono essenzialmente forze di pressione, avremo
V2

LC = ∫ p(V )dV
V1
(2.1)

dove V2 − V1 = ΔV è il volume del sangue, pompato ad ogni compressione del


miocardio. Per valutare l’integrale precedente dovremo stabilire quale sia la
dipendenza della pressione dal volume. A tale scopo notiamo che la pressione
aumenta lentamente dal valore diastolico (pd) a quello sistolico (ps), dopo di che il
muscolo si rilassa, ritornando al valore di pressione diastolico (si veda la Figura
7.2.4). La dipendenza della pressione dal volume può essere specificata dalla
seguente semplice relazione lineare
190

ps − pd
p (V ) = pd + (V − V1 ) (2.2)
ΔV

120

100
p(V)
80

60

40
30 40 50 60 70 80 90 100 V 120
110
Fig. 7.2.4. Pressione in funzione della variazione di volume nella compressione
del miocardio.
da cui segue (lo si provi, si veda Boccia, Ciocci e Dattoli “Lezioni Di Calcolo” Ed.
Kappa, Roma, 2005)
LC = pΔV ,
1 (2.3).
p= ( pd + ps )
2
dove con p abbiamo indicato la media tra la pressione diastolica e quella sistolica.
Assumendo un valore della pressione diastolica di 120 Torr e di quella sistolica di 80
Torr e utilizzando il dato di circa 75 ml, per quanto concerne il volume di sangue
erogato ad ogni battito, otteniamo che il lavoro fatto dal muscolo cardiaco per ogni
contrazione è intorno a 1 J, il che implica circa 1 W di potenza se si assume una
frequenza cardiaca di 1 Hz9
Tale valore si riferisce alla potenza puramente meccanica, tenuto conto che
l’efficienza del cuore si aggira intorno al 15%, otteniamo che la potenza impegnata è
circa 8 W, che corrisponde all’8-9% dell’ intera potenza metabolica basale. Invitiamo
il lettore a considerare il dato appena riportato, tenendo conto che il cuore rappresenta
solo lo 0.5% dell’intera massa corporea (per ulteriori dettagli si veda il successivo
paragrafo 3).
Abbiamo finora fornito una semplice descrizione meccanica della fisiologia del
cuore, senza aver però fatto cenno ai suoi aspetti “elettrici”, che saranno discussi nei
Capitoli successivi.
9
Il numero di battiti cardiaci al minuto è in realtà una funzione dell’età; esso varia infatti
linearmente con il numero di anni ed è leggermente differenziato per genere, come riportato nelle
seguenti formule dove m, f stanno per maschile e femminile rispettivamente e a rappresenta l’età in
anni
nm = 118 − 0.55 a,
n f = 119 − 0.61 a
191

3.  La pressione e il flusso sanguigno 

Prima di considerare l’argomento specifico della pressione sanguigna, discuteremo


un metodo pratico per scrivere l’equazione di Bernoulli, quando si trattano problemi
di circolazione del sangue.
Nella misura della pressione sanguigna si usano di solito i mm di mercurio, la misura
in Pa e in Torr, sono legate dalla seguente relazione (lo si dimostri)
p[Pa ] = 133.2 p[Torr ] (3.1).
Come prima visto, il cuore è il muscolo che agisce da pompa e la potenza erogata da
tale muscolo è legata al lavoro compiuto per pompare il sangue in ogni azione di
pompa, che è a sua volta legata alla frequenza del battito cardiaco.
E’ pertanto evidente che tale valore sarà dato dal prodotto di tre grandezze
fondamentali
1) La pressione sanguigna
2) Il volume del sangue pompato in ogni contrazione
3) La frequenza dei battiti.
Esprimendo il volume in litri si ha la seguente equivalenza
[ ]
V m 3 = 10 −3 V [l ] (3.2).
per cui potremo scrivere la potenza erogata dal cuore in unità pratiche come
P [W ] = 0.1332 p [Torr ]V [l ] f [Hz ] (3.3).
Tanto per dare un' idea osserviamo che utilizzando 130 Torr di pressione media, un
volume di 80 ml a battito e una frequenza di 70 battiti al minuto, potremo stimare,
coerentemente con la stima del paragrafo precedente, una potenza impegnata di 1.5W.
La velocità del sangue è determinata dal lavoro fatto dal cuore nella sua azione di
pompa, pertanto avremo
10 −3
0.1322 p[Torr ]V [l ] = ρ sV [l ]v 2 (3.4)
2
dove ρs indica la densità del sangue, cosicché dalla relazione precedente si può
ricavare la seguente importante relazione che fornisce il legame tra velocità del
m
sangue espressa in e la pressione
s
2
⎛ ⎡m⎤⎞
p[Torr ] = 4⎜⎜ v ⎢ ⎥ ⎟⎟ (3.5),
⎝ ⎣ s ⎦⎠
utilizzando un valore tipico di 100 Torr possiamo inferire dalla (3.5) che la velocità
di circolo del sangue che è dell’ordine di qualche m s .
Il calcolo appena fatto è estremamente approssimato e il valore ottenuto è certamente
sovrastimato. Per i motivi che diremo in seguito il dato è conforme alla velocità di
flusso nelle arterie o nella aorta, mentre nelle vene o nei capillari la velocità è molto
minore.
Una trattazione appena più circostanziata avrebbe dovuto distinguere tra potenza
impegnata dai ventricoli destro e sinistro e si sarebbe dovuto mettere in evidenza
192

come il destro impegni una potenza 5 volte inferiore a quella del sinistro.
Il risultato ottenuto fa riferimento alla potenza totale (destro+sinistro), erogata in
condizioni di riposo, e appare incredibilmente piccola. Tenuto inoltre conto che, in
condizioni di sforzo significativo, la portata cardiaca può aumentare fino a quattro
volte e che la pressione può subire un incremento del 50%, ne segue che, in
condizioni di sforzo estremo, si potrebbero raggiungere livelli di potenza cardiaca di
circa 6 W. Potremo, dunque, concludere che per tenere illuminata una normale
lampadina sarebbero necessari più di 10 cuori umani, funzionanti alla massima
potenza. Inoltre poiché in condizioni di riposo la potenza impegnata dall’intero
organismo è di 100 W, solo l’1% sarebbe quella richiesta per far funzionare il cuore.
Tale dato paradossale può essere parzialmente risolto facendo notare che la potenza a
cui stiamo facendo riferimento è solo quella meccanica e che l’efficienza meccanica
del muscolo cardiaco è piuttosto bassa (inferiore al 10%); possiamo dunque
concludere che la potenza necessaria per il funzionamento del cuore è superiore al
10% della potenza metabolica, che è una frazione non trascurabile.

Si calcoli quale è l’energia fornita dal cuore nello spazio di una vita (si assuma
una vita media di 75 anni)
(Circa 23.5 GJ !!!)

Cerchiamo ora di comprendere il perché della bassa efficienza del muscolo cardiaco.
A tale fine si rende necessaria una breve digressione sul significato stesso di lavoro,
che, da un punto di vista puramente meccanico, è il prodotto dello spostamento per la
forza che lo ha determinato. Tale definizione si dimostra troppo restrittiva in ambito
fisiologico. Immaginiamo infatti di esercitare una pressione su un muro, che non
riusciamo a spostare; sebbene noi non abbiamo prodotto alcun lavoro meccanico,
perché il muro è rimasto al suo posto, il nostro organismo ha prodotto lavoro per
mettere e mantenere i muscoli in tensione.
E’ stato stabilito in esperienze di fisiologia che il muscolo richiede un aumento di
consumo di energia proporzionale alla tensione sviluppata, anche se non viene
compiuto alcun lavoro esterno.
La ragione fondamentale di tale effetto è che lo stato di contrazione richiede uno stato
di costante attivazione, che declina spontaneamente senza un apporto di energia di
attivazione.
Chiarito quanto sopra, ricordiamo che l’efficienza meccanica si definisce come il
rapporto tra il lavoro meccanico LM compiuto rispetto all’energia totale (ET)
impegnata, ovvero
L
ε= M (3.6)
ET
Nel caso del cuore avremo
ET = LM + LA (3.7)
dove LA indica l’energia di attivazione costante. E’ dunque evidente che
193

r
ε= ,
r +1
LM (3.8)
r=
LA
Se, come già detto, l’efficienza del cuore si aggira intorno al 10%, dovremmo
aspettarci un rapporto lavoro meccanico-energia di attivazione pari all’11%.
Tutto ciò è stato dimostrato in esperienze fisiologiche, che hanno messo in evidenza
come, aumentando il lavoro di 20 volte, senza un aumento eccessivo della pressione,
il consumo miocardico di ossigeno aumenta solo del 5%. Aumentando invece la
pressione o i battiti cardiaci (il che accresce l’energia di attivazione) il consumo di
ossigeno aumenta proporzionalmente.
Come già detto, il teorema di Bernoulli è una riformulazione del principio di
conservazione dell’energia, allorché vengano incluse le forze di pressione. Se
trascuriamo l’effetto della gravità potremo riscrivere l’energia totale del flusso
sanguigno nella seguente forma
p T = 4v 2 + p (3.9).
Per ragioni di convenienza abbiamo omesso le dimensioni, ma resta inteso che la
pressione si misura in Torr e la velocità in m s , l’energia totale è sostituita da una
quantità equivalente che è la pressione totale.
Tale quantità, fornita dalla funzione di pompa del cuore, si distribuisce in due parti,
quella relativa alla velocità di flusso sanguigno, detta anche pressione dinamica, e
quella di pressione agente sulle pareti del vaso.
E’ importante notare la dipendenza quadratica della (3.9) dalla velocità del flusso
sanguigno. Tale dipendenza è molto importante perché, data la conservazione della
“pressione totale”, una piccola variazione della velocità implica una più significativa
variazione della pressione sulle pareti del vaso.
Consideriamo pertanto la Figura 7.3.1 dove viene mostrato un vaso con un
restringimento, o come si dice in gergo, con una stenosi. Come abbiamo visto, nella
regione di vaso più stretta la velocità del fluido aumenta, per cui possiamo aspettarci
una diminuzione della pressione e delle relative forze sulla pareti. La qualcosa può
determinare un successivo aggravamento della stenosi perché le forze associate alla
pressione sulle pareti del vaso non sono in grado di bilanciare le forze esterne.

Fig. 7.3.1. Vaso con stenosi


194

La relativa variazione di pressione in funzione delle dimensioni della stenosi può


essere stimata (equazione 3.10 Cap.VI), cosicché si ottiene una variazione di
pressione pari a
Δp = 4v 2 (α 2 − 1) (3.10).
E’ importante notare che un restringimento di un vaso di un fattore 3 implica una
caduta di pressione in misura significativamente superiore. Se ad esempio
inizialmente i due contributi (pressione dinamica e pressione sulle pareti) si
equivalgono, la variazione percentuale del secondo contributo può essere anche del
800%.
Quanto descritto finora per le stenosi vale anche nel caso di aneurismi, ovvero di
rigonfiamento dei vasi. In questo caso è l’aumento di pressione nella regione a
sezione maggiore, che può a sua volta causare ulteriori rigonfiamenti.
Vedremo in seguito l’importanza di relazioni di tipo (3.10), quando discuteremo
tecniche di tipo Doppler, utilizzate per la diagnosi di stenosi o aneurismi di vasi
sanguigni.
Le trasformazioni di energia di pressione in energia cinetica, giocano un ruolo di
fondamentale importanza nella fisiologia della circolazione sanguigna. Esse si
verificano nel letto vascolare ovunque vi siano dei cambiamenti della superficie di
sezione. Questo effetto è di estrema importanza nel circuito polmonare e per quanto
riguarda il riempimento venoso del cuore.
In questo Capitolo ci stiamo rendendo conto di come il concetto puramente
meccanico di energia cinetica assuma, nel contesto della fisiologia della circolazione
del sangue, una valenza di notevole portata pratica.
Vediamo ad esempio quale sia la rilevanza del contributo del termine cinetico alla
pressione nei vari vasi. Nel caso dell’aorta il contributo cinetico è solo il 3% della
pressione totale del vaso, in condizioni di portata cardiaca in riposo, ma aumenta
significamene (fino al 17%) in condizioni di sforzo (portata cardiaca aumentata di tre
volte rispetto alle condizioni di riposo).
Nel caso dei capillari il contributo è sempre trascurabile, nelle vene cave e nell’arteria
polmonare il contributo del termine cinetico può superare, in condizioni di sforzo,
anche il 50%.
E’ bene notare che il contributo cinetico viene ritenuto importante quando supera il
5% dell’energia totale ma lo è ancora di più quando l’arteria è stenotica per effetto di
un processo morboso.
Il fattore energia cinetica anche se ammonta a solo 1mmHg per le arterie di
distribuzione, come quelle coronariche, diventa di importanza fondamentale quando
queste si restringono per effetto di lesioni interne dovute a placche aterosclerotiche o
per compressione esterna dovuta ad esempio a tumori.
Abbiamo visto come la riduzione della larghezza di un fattore 3 determini la
riduzione della sezione di un fattore 9 e un conseguente aumento del termine cinetico
di un fattore 81. Pertanto se al livello dell’orifizio il contributo cinetico era di 1mmHg
diventerà 81mm Hg con un decremento di pressione media significativo, diciamo da
100 mmHg a 19 mmHg.
195

Nel caso di una forza stenosante esterna la pressione sanguigna costituisce la forza
che ad essa si oppone, ma ora si opporrà in misura estremamente minore. Se l’energia
cinetica aumenterà fino ad abbassare la pressione al di sotto di quella atmosferica,
l’arteria si chiuderà del tutto, determinando un aumento della pressione che riaprirà la
stenosi, producendo così un meccanismo di aperture e chiusure successive, fenomeno
designato con il termine di “flutter” (vibrazione)10.
Quanto descritto finora prescinde dalla viscosità, ovvero dall’attrito intrinseco in un
liquido, che gioca un ruolo di fondamentale importanza per le problematiche che
stiamo trattando.
Le considerazioni sinora svolte non includono nemmeno gli effetti associati alle
differenze di altezza , abbiamo infatti tacitamente assunto che il sistema circolatorio
possa essere assimilato ad una condotta a livello costante e che la viscosità del
sangue, ovvero il suo attrito intrinseco, possa essere trascurato.
Vedremo nel seguito come tali effetti abbiano conseguenze fisiologiche di notevole
importanza.
Abbiamo già fatto notare che la pressione nelle arterie, intorno al cuore, è poco più di
100 Torr. Se una persona è sdraiata (ovvero in condizioni in cui effettivamente si
possono trascurare le differenze di altezza) la pressione nei vasi arteriosi, a livello
delle gambe e della testa, è prossima a tale valore e, a causa di una leggera variazione
dovuta alle ragioni che discuteremo nel seguito, può essere stimata intorno ai 95 Torr.
La situazione è diversa nel caso in cui la persona stia in piedi, perché, a causa
dell’effetto idrostatico, avremo una differenza di pressione, relativamente alla zona
precordiale, imputabile alla differenza di altezza.
Con riferimento alla Figura 7.3.2, notiamo che

p = 70 Torr

p = 100 Torr

p = 200 Torr

Fig. 7.3.2. Variazione della pressione arteriosa con l’altezza, assumendo


una pressione di 100 Torr in prossimità del cuore.

10
Un esempio diretto di tale fenomeno è la vibrazione delle labbra socchiuse, quando vi si soffi
attraverso, che produce il caratteristico suono noto come “pernacchia”.
196

le variazioni di pressione possono essere valutate tramite la legge di Stevino


Δp[Pa ] = ρgΔh (3.11a)
o
Δp[Torr] ≅ 7.5 ⋅ 10 −3 ρgΔh (3.11b),
che fornirà un contributo positivo nella zona al disotto del cuore, negativo al di sopra.
Sebbene le considerazioni precedenti siano pressoché evidenti, gli esempi di seguito
riportati possono essere di aiuto per una maggiore comprensione di quanto affermato.

Tenuto conto che tipicamente la distanza cuore-piedi è circa 1.25 m si determini


l’incremento pressorio a livello delle estremità inferiori.

Dalla legge di Stevino segue che


p = ρgh ≅ 1.04 ⋅ 103 ⋅ 9.81 ⋅ 1.25 ≅ 12.5 kPa ≅ 90 Torr
al valore di circa 100 Torr a livello cardiaco vanno dunque aggiunti altri 90 Torr, per
cui la pressione alle estremità può essere valutata intorno ai 200 Torr.

Si esegua lo stesso calcolo per stimare il decremento pressorio a livello cerebrale.

Tenuto conto che la distanza testa-cuore è circa 0.5 m otteniamo un decremento di


all’incirca 40 Torr.

Quest’ultimo dato ha una notevole rilevanza da un punto di vista sanitario. In caso di


calo di pressione si determina un insufficiente afflusso di sangue nella zona cerebrale,
con conseguente annebbiamento della vista e possibile perdita di coscienza. In questi
casi il primo intervento, suggerito dalle considerazioni precedenti, è quello di aiutare
l’infortunato a sdraiarsi e successivamente di alzargli le gambe in modo da favorire
l’afflusso di sangue al cervello.11
Gli esempi che seguono sono legati alle considerazioni precedenti, ma riguardano
aspetti di carattere più pratico.

Si supponga di misurare la pressione sanguigna, tenendo il braccio del paziente


alzato di 20 cm al di sopra del livello del cuore, supponendo che il paziente, in
condizioni di misura corrette, abbia una pressione normale (130 Torr); si
determini il valore della pressione che si otterrà eseguendo la misura in tali
condizioni.
3
Tenuto conto che il sangue ha una densità di circa 1040 kg / m avremo
Δp ≅ 2.1 ⋅ 10 3 Pa ovvero Δp ≅ 15.7 Torr , poiché la misura viene fatta al disopra del

11
La letteratura medica riporta casi di persone decedute perché svenute all’interno di una cabina
telefonica e quindi impedite ad assumere una posizione che permettesse l’afflusso di sangue al
cervello.
197

cuore dovremo sottrarla a quella di riferimento, cosicché dovremo aspettarci un


valore misurato di circa 114.3 Torr .

Tenendo conto che la pressione sanguigna di un paziente è 140 Torr si calcoli


l’altezza minima dal suo braccio a cui si deve collocare una flebo, contenente
una soluzione di glucosio, affinché il liquido sia iniettato in circolo.

La risposta a tale problema è ovvia: l’altezza minima della flebo è quella per cui la
pressione idrostatica esercitata dalla soluzione di glucosio eguaglia quella sanguigna,
avremo pertanto

7.5 ⋅ 10 −3 ρ s gh = p[Torr] (3.12)


da cui si ottiene
p[Torr ]
h ≅ 13.6 (3.13)
ρs
da cui, assumendo che la densità della soluzione di glucosio sia comparabile a quella
dell’acqua, si ottiene un’altezza di circa 1.9 m.

Tratteremo nel prossimo paragrafo le conseguenze fisiologiche dovute alla viscosità


del sangue e al fatto che il moto del sangue nei vari vasi può anche non essere
laminare.

4.  La pressione transmurale 

Nei paragrafi precedenti abbiamo dato una descrizione degli aspetti fisici concernenti
il sistema di pompa cardiaco da cui si evince che ad ogni pulsazione il cuore
trasmette un impulso di pressione che si propaga lungo il sistema arterioso,
attenuandosi in maniera proporzionale alla distanza dal cuore. La distribuzione di
pressione è mostrata in Figura 7.4.1. Questa raggiunge il massimo valore (circa 120
Torr in condizioni normali) nel ventricolo sinistro e nell’aorta, nelle arterie più
lontane decresce fino a 30-35 Torr nei capillari e 10-5 Torr nelle vene, per poi risalire
a 25 Torr nel ventricolo destro e nei polmoni.

Quando l’impulso di pressione viaggia attraverso i vasi sanguigni ne determina un


rigonfiamento dovuto al rapido incremento di pressione. Le pareti dei vasi hanno
proprietà elastiche e tendono a rispondere contraendosi, grazie all’effetto della
tensione tangenziale, che può essere legata direttamente alla pressione transmurale
tramite la legge di Laplace.
198

Sistema ad alta
pressione
Sistema a bassa
pressione

p = 25 Torr p = 120 Torr

p = 10 -5 Torr p = 30-35 Torr

Fig. 7.4.1. Distribuzione della pressione nel sistema cardio-circolatorio

La pressione transmurale, determinata dalla differenza tra la pressione interna ed


esterna, è proporzionale alla tensione superficiale del vaso ed è inversamente
proporzionale al raggio interno ri . Nel caso di un vaso di forma cilindrica,
diversamente da quanto succede per la forma sferica, discussa nel Capitolo
precedente, avremo (si veda la Figura 7.4.2)
τ
pt = → τ = ri pt (4.1)
ri
che ha ovviamente due conseguenze pratiche legate al modo con cui la formula è
stata scritta
a) a parità di tensione la pressione interna è maggiore per raggi minori
b) a parità di pressione transmurale la tensione a cui è sottoposto il vaso cresce al
crescere del raggio.

pi
Tensione circonferenziale

Fig. 7.4.2. Schema di un condotto cilindrico in cui agiscono una pressione


laterale p i che genera sulle pareti la tensione circonferenziale T.
199

Il punto a) ha maggiore rilevanza nell’applicazione della legge di Laplace alla


fisiologia degli alveoli polmonari. Il punto b) ha maggiore attinenza con il caso che
stiamo trattando ora, in conseguenza di ciò vasi con raggio più grande, come ad
esempio l’aorta, sarebbero soggetti a tensioni maggiori dei vasi con piccoli raggi e la
loro rottura potrebbe essere più probabile. Tutto ciò è vero solo in parte; la rottura del
vaso dipende infatti anche dallo spessore del vaso stesso.
Per chiarire quanto detto è conveniente introdurre la pressione tangenziale TT legata
alla tensione superficiale e allo spessore h
τ
TT = (4.2)
h
Possiamo ora legare la tensione tangenziale e la pressione transmurale come segue
ri
TT = pt (4.3)
h
La pressione tangenziale cresce al crescere del raggio del vaso e decresce al crescere
dello spessore, per cui l’effetto di una grossa tensione superficiale dovuta ad un
raggio grande viene compensata da uno spessore altrettanto grande.
L’aorta ha un raggio interno di 9 mm e uno spessore di 1.5 mm, in modo tale che a
fronte di una pressione transmurale di 13.3 kPa si sviluppa una tensione tangenziale
di 80 kPa. Per quanto riguarda invece i capillari con un raggio interno di 3 μm e con
uno spessore di 0.6 μm sono soggetti a una tensione tangenziale di 17 kPa contro una
pressione transmurale di 3.3 kPa.
E’ infine interessante dare una idea di come la legge di Laplace intervenga nella
“dinamica” degli aneurismi. Se il vaso subisce in un certo punto un rigonfiamento si
potrebbe pensare che raggiungendo una forma sferica tenda a minimizzare l’effetto di
tensione, che risulta essere circa la metà della forma cilindrica. Come abbiamo già
visto l’effetto dell’aumento di pressione indotto dalla diminuzione di velocità del
flusso sanguigno determina un ulteriore rigonfiamento fino a raggiungere una
configurazione in cui la tensione supera quella del caso cilindrico; tale effetto può
costituire una ulteriore aggravante.

5.  Emodinamica e viscosità 

Veniamo ora al problema della viscosità e al fatto che il moto del sangue nei vari vasi
può anche non essere laminare.
Come già detto, la viscosità può essere considerata come una manifestazione
dell’attrito intrinseco di un liquido. Abbiamo già visto, in ambito puramente
meccanico, quale sia l’effetto dell’attrito sul moto di un corpo; abbiamo infatti messo
in evidenza che il coefficiente di attrito determina una forza, che si oppone al moto
del corpo. Allo stesso modo un liquido, che si muove all’interno di una condotta
provocherà, si veda la Figura 6.4.3, un moto non laminare, responsabile di una
caduta di pressione ai capi della condotta.
200

Vedremo ora, sulla base di alcuni esempi, come il concetto di resistenza di una
condotta idraulica, definito dal rapporto tra la differenza di pressione ai capi della
condotta e il flusso, possa risultare particolarmente utile nel presente contesto.
Sottolineiamo che la potenza impegnata dal cuore e il suo lavoro vengono in larga
parte spesi per compensare gli effetti di decremento pressorio dovuto agli attriti
interni.

Tenuto conto che il sangue fluisce, partendo da una pressione media di circa 100
Torr, attraverso l’aorta, le arterie principali, le piccole arterie, i capillari e le
vene per giungere all’atrio destro con una pressione pressoché nulla, si stimi la
resistenza dell’intero sistema circolatorio.
Stimando il flusso sanguigno in circa 95 ml/s otteniamo
Δp ⎡ Pa ⋅ s ⎤
RT = ≅ 1.4 ⋅10 5 ⎢
Q ⎣ l ⎥⎦

Si determini la potenza impegnata dalla pompa cardiaca per ripristinare il


flusso sanguigno.
Ricordando quanto detto nel Capitolo V, possiamo calcolare la potenza dissipata in
base alla relazione
P = RT Q 2 ≅ 1.2W
consistente con il valore precedentemente calcolato.
La resistenza del sangue può essere calcolata dalla legge di Poissell (o più
precisamente di Hagen-Poissell) che riportiamo di seguito per comodità
πr 4 8ηL
Q= Δp ⇒ R = 4 (5.1).
8ηL πr
Come già notato la resistenza è direttamente proporzionale alla viscosità del fluido
che è una quantità dipendente dalla temperatura e dipende dal fluido stesso e nel caso
del sangue ha un valore di circa 0.004 Pa·s a 37 gradi centigradi.12
La viscosità del sangue aumenta con il decrescere della temperatura e a zero gradi
centigradi la viscosità è circa un fattore 2.5 volte maggiore di quella prima citata. Per
tale motivo a bassa temperatura meno sangue fluisce attraverso le mani e i piedi.

Si determini la resistenza dell’aorta sapendo che ha una lunghezza di 0.3 m e un


raggio interno medio di 0.009 m.
Una semplice applicazione delle relazioni precedenti fornisce un valore (lo si provi)
di 466 Pa·s/l.

12
Si tenga conto che il sangue è una mistura di fluidi (acqua e proteine) e particelle (eritrociti,
leucociti…) pertanto la sua viscosità è un valore assoluto ma che dipende da varie condizioni, per
cui il valore di riferimento prima dato è puramente indicativo.
201

Il valore stimato in precedenza mostra come la resistenza offerta dall’aorta sia solo
una frazione trascurabile di quella totale e ciò è dovuto al suo diametro piuttosto
grande.
Abbiamo anche fatto notare che vasi differenti posti in serie offrono una resistenza
che è data dalla somma delle resistenze dei singoli vasi, mentre l’inverso della
resistenza di vasi in parallelo è data dalla somma degli inversi delle singole
resistenze.
Nel caso di un numero grande di vasi si fanno le seguenti assunzioni
1) tutte le arterie hanno lo stesso diametro
2) tutte le arterie sono in parallelo nel letto vascolare
3) tutti i capillari sono in parallelo
4) tutte le vene sono in parallelo.
Stando così le cose, data la resistenza Ri di un singolo vaso, la resistenza totale di N
vasi sarà
R
RT = i , (5.2)
N
Il risultato precedente permette anche di stimare, una volta noti flussi e cadute di
pressione ai capi di una rete di capillare da quanti vasi questa sia costituita, come sarà
chiarito dalla discussione che segue.
Nel caso di sistemi di vasi capillari del polmone la caduta di pressione ai capi del
“circuito” (Figura 7.5.1) è di circa Δp ≅ 8 Torr ; poiché il flusso associato può essere
stimato nella misura di 75 ml/s otteniamo una resistenza totale del sistema capillarico
polmonare pari a 1.1·10-4 Pa·s/l.

RT = Ri / N

Ri

Fig. 7.5.1. Rappresentazione schematica del circuito sanguigno polmonare.


202

La resistenza di un singolo capillare si aggira intorno 6.4·1011 Pa·s/l , come si evince


dal fatto che il diametro di ognuno è di circa 20μm, da cui, invertendo la relazione
(5.2) si ottiene un numero di vasi capillari pari a 6·107.
Come ultimo esempio circuitale discuteremo quello associato al sistema coronarico,
la cui schematizzazione circuitale è presentata in Figura 7.5.2. Il flusso sanguigno
proveniente dal punto 1 entra nelle due arterie coronariche (sinistra e destra) con
raggio di 0.1cm, la resistenza di tali vasi per 1 cm di lunghezza è data dai valori
Rs = Rd ≅ 4 Torr / cm 3 (Il Lettore converta il dato in Pa·s/l) . L’arteria sinistra si
diparte in due tronconi di 0.07 cm di raggio per cui le resistenze dei due vasi
diventano (il Lettore spieghi perché) 16 Torr·s/cm3. Evidentemente potremo
concludere che
a) i due rami secondari della coronaria sinistra sono in parallelo tra loro, con una
resistenza totale pari a 8 Torr·s/cm3 (perché?),
b) il troncone principale sinistro è in serie con i rami di cui al punto a) per cui si ha
un' impedenza totale pari a 12 Torr·s/cm3 (perché?),
c) il precedente sistema serie-parallelo è in parallelo con la coronaria destra, di modo
che ai capi del sistema la resistenza totale è 4.8 Torr·s/cm3 (perché?).

0.14 cm

Arteria coronaria sinistra


0.2 cm
1
Arteria coronaria destra

Fig. 7.5.2. Schematizzazione del sistema circuitale coronarico.

Teniamo ora conto che la portata volumetrica nel punto di ingresso è 6 cm3/s,
possiamo ora determinare le portate nelle varie sezioni di arterie.
Come il Lettore potrà provare per proprio conto, la differenza di pressione ai capi del
sistema 28.8 Torr (perché?), mentre i flussi destro e sinistro sono determinati da
Fd = 2.4cm 3 / s, Fs = 3.6cm 3 / s (perché?).
Abbiamo descritto nei capitoli dedicati alla dinamica l’esistenza di forze di attrito ed
abbiamo fatto riferimento a quelle dipendenti dalla velocità. Mostreremo ora come
tali concetti possano essere sfruttati a fini diagnostici, per valutare ad esempio la così
detta Velocità di Eritro-Sedimentazione (VES).
Nella Figura 7.5.3 viene riportato un globulo rosso che sedimenta ovvero si deposita
scendendo verso il fondo di una provetta contenente sangue.
203

Noi sappiamo che se la velocità è costante il globulo è sottoposto a tre forze che sono
in equilibrio tra loro, ovvero la forza di Archimede e la forza resistente diretti verso
l’alto e la forza peso, avremo pertanto
FA + FR = F p (5.3)
dove, supponendo il globulo di forma sferica, avremo
FA = ρ a Vg ,
FR = 6 π η r v, (5.4)
F p = ρ g Vg
La forza resistente, dipendente dal raggio r e dalla velocità v e direttamente legata
alla viscosità del siero, viene detta forza di Stokes. Abbiamo inoltre indicato con ρa e
ρg le densità del siero e del globulo rispettivamente. Dalle equazioni precedenti segue
che
2 ρ g − ρa 2
v= r g (5.5).
9 η
Sostituendo i valori (li si trasformi nel sistema MKS)
r = 3.5 μm , ρ g = 1.0995 g / cm3 , ρ a = 1.0265 g / cm3 , η = 1.5 ⋅10 −3 Pa ⋅ s (5.6)
si ottiene (lo si provi) v ≅ 4.7 mm/ h .
Come si vede dalla eq. (5.5) la velocità di sedimentazione dipende dal quadrato del
raggio del globulo; un aumento delle dimensioni, associato a processi infettivi,
determina un aumento di tali valori. Una VES alta è dunque una manifestazione che è
in atto un' infezione.

Fp

Fr
h
Fa

Fig. 7.5.3. Sedimentazione di un globulo rosso.


204

6.  Sistema vascolare ed effetti di moto turbolento 

Gli effetti di attrito viscoso sono estremamente importanti da un punto di vista


fisiologico, perché si può imputare un calo di pressione in un vaso non solo ad una
stenosi, ma anche all’effetto della viscosità stessa; ciò rende ragione di quanto
affermato in precedenza sulla differenza di pressione tra testa e gambe nel caso di una
persona sdraiata.
Per avere un' idea dell’effetto della viscosità sulla pressione, consideriamo un
esempio numerico, applicato all’aorta, schematizzata come un tubo circolare di
raggio interno medio di circa 9 mm, tenuto conto che la velocità media del sangue in
tale vaso è, in corrispondenza di un picco sistolico, 0.33 m/s si ottiene un valore della
portata pari a
Q = πr 2 v ≅ 8.4 ⋅ 10 −5 m 3 / s (6.1)
(ovvero 5 l/min), da cui, in base alla (5.1), si ottiene un gradiente di pressione
(variazione di pressione per unità di lunghezza) dell’ordine di circa 130 Pa/m.
E’ evidente che, in caso di stenosi, a causa della dipendenza inversa dal quadrato del
raggio del vaso l’effetto di caduta di pressione dovuto alla legge di Poisselle può
diventare significativamente più alto.
L’utilizzo delle formule sviluppate in questo e nel precedente Capitolo ci permette di
dare una stima grossolana delle condizioni da verificare perché il contributo al calo di
pressione dovuto alla viscosità sia maggiore di quello dovuto al semplice contributo
di Bernoulli; avremo infatti (si dimostri perché)
8πη L ρ
2
Q≥ 2
Q 2 (α 2 − 1) (6.2)
S2 2 S1
dove S1,2 sono le aree delle sezioni nella regione pre-stenotica e stenotica
rispettivamente.
Dalla (6.2) e dai valori prima citati della densità e della viscosità del sangue,
ricaviamo (lo si provi)
α2
Q [m 3 / s ] ≤ 1.66 ⋅ 10 −4 L[m] 2 (6.3).
α −1
Studi recenti hanno messo in evidenza che effetti di Poissel e di Bernouilli possono
essere combinati in modo tale che la caduta di pressione può essere scritta come
8πηL ρ
Δp = 2
+k 2
Q 2 (α 2 − 1) (6.4)
S2 2 S1
dove k è un coefficiente empirico che è stato stimato dai dati sperimentali intorno a
0.5.
In particolari condizioni il moto del sangue può diventare turbolento; in tale caso (si
veda la Figura 7.6.1) il moto è dominato dagli effetti di viscosità e all’auscultazione
con lo stetoscopio sono evidenti rumori quali soffi o “mormorii”. In tale caso le
considerazioni precedenti sono valide solo in parte e le relazioni tra pressione, portata
e velocità del sangue diventano significativamente più complicate.
205

Fig. 7.6.1. Moto turbolento del fluido sanguigno in presenza di una stenosi.

Abbiamo già fatto notare che il passaggio al regime turbolento è determinato dal
numero di Reynolds che può raggiungere il valore critico nell’aorta, quando si
raggiunge il picco di velocità di efflusso tra 0.5-1m/s. Utilizzando i dati a nostra
conoscenza e la definizione di numero di Reynolds, otteniamo
2rρv 2 ⋅ (0.01 m)(1040 kg / m 3 ) ⋅ (0.5 m / s )
NR = ≅ ≅ 2.6 ⋅10 3
η −3
4 ⋅10 ( Pa ⋅ s )
Per valori medi di velocità intorno a 0.3 m/s NR si aggira intorno a 1500, effetti di
turbolenza possono dunque rivelarsi o in caso di patologie (stenosi dovute ad
aterosclerosi, malfunzionamento di valvole cardiache…) o in caso di notevole sforzo
fisico in cui il flusso di sangue e la relativa velocità aumentano di un fattore 3-5.
206
207

CAPITOLO VIII

ONDE SONORE E NOZIONI DI ACUSTICA

1.  Introduzione e generalità sul suono 

Nel corso di questo e del prossimo capitolo tratteremo alcuni aspetti relative alle onde
sonore, la relativa propagazione, alcune problematiche concernenti l’effetto Doppler,
la sua applicazione in ambito medico, la fisiologia dell’orecchio e infine il “rumore”
e la relativa metrologia.
Cerchiamo di chiarire prima di tutto cosa si intenda per onda sonora.
Le onde sonore sono onde meccaniche longitudinali, che possono propagarsi nei
solidi, nei liquidi e nei gas.
La distinzione tra onde trasversali e longitudinali è già stata discussa nel Capitolo III,
ma sarà di nuovo ricordata, per ragioni di chiarezza.
Per onda longitudinale si intende un’onda in cui l’oscillazione avviene per
spostamenti, in avanti ed indietro lungo la direzione di propagazione. Le onde
trasversali sono quelle in cui l’oscillazione avviene perpendicolarmente alla direzione
di propagazione.
Un esempio di propagazione, simile a quello di un' onda sonora, è data dai cerchi
concentrici che si osservano nell’acqua di uno stagno dopo averci lanciato un sasso.
Una delle grandezze caratteristiche della propagazione delle onde acustiche è la loro
velocità che indicheremo vs , che non è una costante e dipende dal mezzo in cui
avviene la propagazione.
Se, ad esempio, la propagazione avviene all’interno di un mezzo elastico, con modulo
di elasticità B e con densità ρ, avremo
B
vs = (1.1).
ρ
Se il mezzo di propagazione è un gas, l’espressione per la velocità è analoga, poiché è
possibile esprimere il coefficiente B in termini della pressione di equilibrio p0 come
segue (si veda il Capitolo IX)
B = γ p0 (1.2).
Dove con il simbolo γ si indica una costante legata al rapporto tra i calori specifici
molari del gas a volume costante e a pressione costante. Per la definizione di calore
specifico di un gas si veda il Capitolo IX .
La velocità di propagazione di un’onda acustica varia in maniera significativa a
seconda del mezzo, ad esempio in aria secca e a 0o C risulta essere 331 m / s mentre
nel berillio giunge fino a 1.29 ⋅ 10 3 m / s .
Sono ora necessarie alcune precisazioni, per legare le informazioni precedenti a
quantità di interesse pratico.
208

L’onda sonora, come tutte le onde, può essere caratterizzata tramite alcune quantità
fondamentali, qui di seguito specificate (si veda la Figura 8.1.1)

y
Um λ

Fig. 8.1.1. Onda sonora prodotta dalla voce umana.

Usando un linguaggio leggermente più tecnico, diremo che un’onda sonora è un’onda
di spostamento o di pressione, la cui evoluzione spazio-temporale è determinata da

1) L’ampiezza massima di oscillazione Um


2) La lunghezza d’onda λ
3) Il periodo di oscillazione T
4) La frequenza f .
Nel caso più semplice di propagazione di un’onda piana13 lungo la direzione x,
potremo scrivere la forma dell’onda che fornisce lo spostamento istantaneo di materia
come (si veda la Figura 8.1.2)
U ( x, t ) = U m cos(kx − ωt ),
2π (1.3),
k= , ω = kv s
λ
dove k viene detto numero d’onda e ω pulsazione. La frequenza è legata alle
quantità di cui sopra dalla relazione
kv v
f = s = s , λ = vsT (1.4).
2π λ
13
Un’onda è caratterizzata anche da una distribuzione traversa o fronte d’onda, rispetto alla
direzione di propagazione. Un’onda si dice piana quando il suo fronte d’onda, ovvero il luogo
geometrico in cui la perturbazione assume lo stesso valore ad un istante fissato, è un piano.
209

y
vs

Um λ

Fig. 8.1.2. Onda piana di ampiezza Um e lunghezza d' onda λ che si


propaga con velocità vs .

Come applicazione immediata delle relazioni precedenti potremo affermare che una
onda sonora con frequenza di 2 kHz che si propaga in aria a 331 m/s sarà
caratterizzata da una lunghezza d’onda pari a 0.1655 m.
Se un suono “contiene” una sola frequenza viene detto tonale; in generale si dovranno
considerare suoni o rumori caratterizzati da un’ampia gamma di frequenze.
Si è già detto che le onde sonore sono anche onde di pressione, che, oltre allo
spostamento delle molecole del mezzo in cui si propagano, inducono anche una
variazione di pressione, la cui evoluzione spazio temporale è data da una relazione
analoga alla (1.4); avremo infatti
p( x, t ) = Pm sin(kx − ωt ) (1.5).
Dove Pm rappresenta la variazione massima di pressione ed è importante notare che
l’onda di spostamento e l’onda di pressione sono sfasate di π /2 (Figura 8.1.3).

y
U(x,t ) = Um cos(k x-ω t )
λ
Um p(x,t ) = Pm sin(k x-ω t )

Fig. 8.1.3. Sfasamento tra onda di spostamento e onda di pressione, a t fissato.

Per comprendere il legame tra Um e Pm utilizzeremo un ragionamento semplice, ma


efficace da un punto di vista fisico.
Ricordiamo che la pressione è definita dal rapporto tra la componente della forza
ortogonale alla superficie su cui la forza viene esercitata e la superficie medesima.
Considerando un elemento di superficie A con massa m, che subisce uno spostamento
210

2Um in un tempo T, periodo di oscillazione dell’onda sonora; poiché l’accelerazione


Um
media è pari a , avremo
T2
ma m U m
Pm ≅ = (1.6)
A A T2
Ricordiamo ora che m = ρV, dove ρ,V sono la densità e il volume della massa, che ha
subito uno spostamento durante la propagazione dell’onda; poiché V=AvsT otteniamo,
con l’ausilio delle relazioni precedenti (1.4)

Pm = ρ vs 2 U m = 2π f ρ vs U m (1.7),
λ
dove il fattore 2π si ottiene, in realtà, da una trattazione più completa; in ogni caso il
ragionamento proposto fornisce gli elementi fisici che permettono di valutare come
vadano legate le varie grandezze.
Cerchiamo di specificare un’altra quantità importante, che fornisce l’intensità
associata ad un’onda acustica. Notiamo prima di tutto che l’energia massima
associata a tale onda sarà data dall’energia cinetica della massa m spostata; avremo
pertanto
1
E = mv 2 (1.8)
2
Applicando le considerazioni precedenti si ottiene (si esegua la derivazione come
utile esercizio)
1
E = m ( 2π f ) 2 U m = 2π 2 ρ v s ATf 2U m
2 2
(1.9)
2
Poiché si definisce l’intensità come l’energia trasportata per unità di tempo e di
superficie, si deriva dalla (1.9) tale quantità nella forma
I = 2π 2 f 2U m ρ vs
2
(1.10).
Combinando le varie grandezze si può anche scrivere
2 2
1 Pm 1 Pm
I= = (1.11),
2 v s ρ 2 Bρ
la quantità Z=ρvs, viene detta impedenza acustica ed è misurata in rayl
(1rayl=1kg·s/m2) cosicché la (1.11) può essere riscritta come
P2
I = Z (U ω ) 2 = ,
Z
UM PM (1.12)
U = ,P =
2 2
Dove con U , P abbiamo indicato le ampiezza di oscillazione e di pressione media.
La prima delle equazioni (1.12) è analoga alla relazione trovata tra resistenza
idraulica e caduta di potenza ai capi di una condotta, la corrispondenza è data da
Z → R,
(1.13).
Uω → Q
211

La quantità U ω gioca dunque un ruolo analogo a quello della portata volumetrica ed


è opportuno sottolineare, malgrado la sua evidenza, che pressione ed impedenza
acustica sono legate dalla relazione
P = Z (U ω ) (1.14).
Il ruolo della impedenza nella riflessione e trasmissione dei suoni sarà discusso più
avanti; tanto per dare dei valori di riferimento facciamo notare che l’impedenza
dell’aria è 430 rayl, mentre quella dell’acqua si aggira intorno a 1.48 ⋅ 10 6 rayl.

2.  Caratteri distintivi dei suoni 

Nel paragrafo precedente abbiamo introdotto le quantità essenziali che caratterizzano


grandezze di interesse acustico. Le quantità fino ad ora introdotte sono di interesse
metrologico, per quanto riguarda la misura del rumore ovvero la frequenza e
l’intensità (o densità di potenza) sonora. In Figura (8.2.1) abbiamo riportato un
grafico frequenza-intensità (pressione) con una serie curve di livello relative alla
percezione dei suoni da parte dell’orecchio umano.

1 120 20
110
Soglia del dolore
10-2 100 2
90
Livello sonoro,dB

Pressione (Pa)
10-4 80 2 . 10-1
Intensità (W/m2 )

70
-6
10 60 2 . 10-2
50 Musica
10-8 40 2 . 10-3
30
-10
10 20 2 . 10-4
10 Soglia dell’udito
10-12 0 2 . 10-5

20 100 1000 10000 20000


Frequenza (Hz)
Fig. 8.2.1. Intervallo di intensità dei suoni udibili dall’orecchio umano.

Per quanto riguarda la frequenza, il nostro orecchio è in grado di percepire suoni con
frequenze comprese tra i 20 Hz e i 20 kHz,con un picco di sensibilità intorno ai 2- 4
kHz. Al di sotto dei 20 Hz si parla di infrasuoni, al di sopra dei 20 kHz di ultrasuoni.
212

Discuteremo le ragioni fisiologiche che determinano l’intervallo di udibilità nel


Capitolo VIII.
La capacità di sentire non dipende solo dalla frequenza, ma anche dall’intensità
dell’onda che determina uno spostamento dell’aria e una conseguente variazione di
pressione sugli organi ricettori.
La soglia di intensità per il minimo suono percepibile dall’orecchio umano può essere
fissata intorno
W
I 0 = 10 −12 2 (2.1).
m
Gli esempi che riporteremo nel seguito ci aiuteranno ad essere meno qualitativi.
A quanto corrisponde lo spostamento delle molecole d’aria per un suono a 1 kHz
con intensità pari a I0 ?
Dalle relazioni precedenti si ottiene che lo spostamento è legato all'intensità dalla
relazione (la si provi)

1 2I
UM = (2.2)
2π f Z
Pertanto, utilizzando i dati del problema e il valore prima citato dell’impedenza
dell’aria, si ha uno spostamento massimo dell’ordine di 10-11 m, minore delle
dimensioni di un atomo (si spieghi perché).
Nel caso di suoni con maggiore intensità, diciamo 1W m 2 si ottiene uno spostamento
dell’ordine di 10 μm.
Per quanto concerne la produzione dei suoni si possono utilizzare vari strumenti, le
onde sonore possono propagarsi attraverso una struttura risonante, che può essere ad
esempio un tubo pieno di aria di una canna di organo. In questo caso si possono
trattare i problemi di oscillazione dell’onda sonora in maniera simile a quanto
discusso a proposito delle corde vibranti e dei modi propri o risonanti.
I seguenti esempi chiariranno quanto prima detto.
Lungo un tubo pieno di aria lungo 90 cm, con una estremità chiusa, vengono
prodotte delle onde sonore che fanno risuonare diverse frequenze, di cui la più
bassa è a 92 Hz. Si determini la velocità delle onde sonore nel tubo.
Notando che il tubo è chiuso ad una estremità, si ha una situazione analoga a quella
relativa ai modi di una sbarra fissata ad una sola estremità, per cui avremo la seguente
condizione di risonanza per la lunghezza d’onda fondamentale
λ
= L ⇒ v = 4 Lf ≅ 331 m / s
4
Non è altresì difficile convincersi che le frequenze dei modi di ordine superiore
soddisferanno la condizione
v
fn = n (2.3).
4L
213

Vedremo l’importanza della relazione precedente quando, nel prossimo Capitolo, ci


occuperemo di fisiologia dell’orecchio.

Si determini la lunghezza minima che deve avere un tubo chiuso ad una


estremità, affinché entri in risonanza con una sorgente sonora di frequenza pari
a 160 Hz.
Da quanto detto prima si ha
1 1 v
L= λ= ≅ 0.517 m
4 4 f
Se invece il tubo fosse stato aperto da entrambe le estremità, sarebbe entrato in
risonanza con la stessa frequenza per una lunghezza doppia.

Si determini la lunghezza minima di una colonna d’aria, in un contenitore, in


grado di rafforzare il suono di un diapason che vibra con una frequenza di
512 Hz . (R: L ≅ 0.16 m ).

Nel prossimo paragrafo discuteremo un criterio quantitativo per caratterizzare


l’intensità dei suoni e ne discuteremo alcune delle sue conseguenze.

3.  Il decibel come misura del livello sonoro 

Per chiarire il significato delle unità di misura, che utilizzeremo in seguito, ci


riferiremo ad un criterio “fisiologico”, legato alla percezione del suono da parte
dell’orecchio umano, ma più in generale legato ad una legge psico-fisica nota come
legge di Fechner e Weber, che può essere formulata come segue

L’intensità di una sensazione avvertita coscientemente è proporzionale al


logaritmo dell’intensità dello stimolo che la produce. In altre parole se I è
l’intensità dello stimolo e s è l’intensità della sensazione ad esso associata, allora
s = k log(I )
dove k è una costante di proporzionalità.
Il cui contenuto concettuale è che la intensità della sensazione è sempre inferiore a
quella dello stimolo che l’ha causata, essendo questo proporzionale al logaritmo di I.

Nel precedente paragrafo abbiamo discusso l’intensità sonora che è una quantità
oggettiva, ma, per quanto riguarda il nostro orecchio, la possibilità di udire suoni con
intensità variabile su una scala di 12 ordini di grandezza, è legata al fatto che il
nostro sistema uditivo funziona in maniera tale che, in accordo con la legge prima
citata, quando un’onda di intensità I raggiunge l’orecchio, solo una variazione ΔI di
questa produrrà la sensazione uditiva e ΔI risulterà proporzionale a I.
214

120
p
β (p) = 20 ⋅ log 10
p0 110 5
-5
p0 = 2 ⋅ 10 Pascal 100 2

Livello di pressione sonora in dB


1
90
p0 è la soglia di udibilità di una persone 0.5

giovane audiologicamente sana a 1000 Hz 80 0.2


0.1

Pressione sonora in Pa
70 0.05
ad un raddoppio di pressione sonora
corrisponde un aumento di 6 dB 60 0.02
0.01
50 0.005
Sorgente β (dB)
40 0.002
Pressa Idraulica a 1 m 140
0.001
Clacson di automobile a 1 m 120 30 0.0005
Tornio automatico a 1 m 100
20 0.0002
Conversazione a 1 m 70
Uffici con macchine contabili 80 0.0001
10 0.00005
Officina meccanica 90
0 0.00002

Fig. 8.3.1. Livello di pressione sonora β , l’unità di misura è il decibel (dB).

Una quantità utile per caratterizzare l'intensità della sensazione uditiva è un


parametro adimensionale, legato all'intensità I del segnale acustico, detto “livello di
pressione sonora” o decibel (dB) e definito come
I
β = 10 log10 ( ) (3.1)
I0
dove I è l’intensità dell’onda, I0 la già definita intensità di soglia a cui corrisponde un
valore di 0 dB; infatti
I
β 0 = 10 log10 ( 0 ) = 10 log10 (1) = 0 (3.2).
I0
Come descritto nella Figura 8.3.1, il livello di pressione sonora o decibel è anche
esprimibile, ricordando la (1.11), come rapporto tra la pressione sonora del segnale
acustico e la pressione della soglia di udibilità,ovvero la minima variazione di
pressione percepibile, corrispondente a p0 = 20 μPa . Si veda anche la Figura 8.2.1.
Dalla definizione di dB avremo, infatti
p2 p
β = 10 log10 ( 2
) = 20 log10 ( ) (3.3)
p0 p0
ottenuta applicando la proprietà dei logaritmi log r ( a ) = m log r ( a ) .
m

Attenzione a non confondere p0 con la pressione atmosferica standard definita


all'inizio del Capitolo VI.
La relazione (3.1) permette di comprendere l’utilità del decibel come unità di misura;
se differenziamo ambo i membri della (3.1) si ottiene
215

dI dI
dβ = 10 log10 ( e) ≅ 4.3 (3.4)
I I
ovvero per ottenere una certa variazione di livello di intensità sonora, si deve
produrre una variazione di I proporzionale all’intensità medesima, e questo è, come
già osservato, il modo in cui funziona l’orecchio umano.
E’ altresì evidente dalla equazione (3.1) che, noto il livello sonoro, potremo calcolare
la relativa intensità, come segue
β
I = 10 I 010
(3.5).

Per rendersi conto dei livelli sonori assegnabili a diverse sorgenti, notiamo che il
livello sonoro dello stormire di foglie è valutabile intorno alla decina di dB, mentre
quello di una discussione pacata intorno ai 30 dB, un martello pneumatico oltre i
cento dB, fino ai 200 dB (a 50 m) prodotti, ad esempio, dal razzo Saturno.
L’utilizzo della formula (3.5) dà una idea dell’intensità associata ad ogni sorgente,
cosicché, nel caso del razzo Saturno, potremmo stimare una intensità (a 50 m) pari a
W
10 8 .
m2
Cercheremo ora di chiarire, con qualche esempio, come si utilizzano le relazioni
precedenti.

Date due intensità sonore I1,2 , determinare il legame tra i relativi livelli sonori
β1,2.
Dalla definizione di livello sonoro si ottiene
⎡ I I ⎤
β1 − β 2 = 10 ⎢log10 ( 1 ) − log10 ( 2 )⎥ (3.6)
⎣ I0 I0 ⎦
a
che, sfruttando la ben nota proprietà dei logaritmi, log r ( a ) − log r (b) = log r ( ) , dà
b
I
β 1 − β 2 = 10 log10 ( 1 ) (3.7)
I2
cosicché infine si ottiene
β1 − β 2
I 1 = I 2 10 10
(3.8).
Pertanto un urlo, con un livello sonoro stimabile intorno a 80 dB e un bisbiglio (20
dB) hanno una differenza di intensità sonora pari a 6 ordini di grandezza.
Se in una stanza il livello sonoro prodotto da un certo macchinario è β1=40 dB,
quale sarà il livello prodotto da 10 macchine identiche che operino
simultaneamente?
Poiché potremo assumere che l’intensità sonora associata alle 10 macchine, che
operano simultaneamente, è 10 volte quello della singola macchina, avremo
216

I
β t = 10 log10 (10 )
I0
utilizzando la proprietà dei logaritmi, logr (ab) = logr (a ) + logr (b) , si ottiene
I
β t = 10 log10 ( ) + 10 log10 (10)
I0
che, in virtù del fatto che log10 (10) = 1 , permette di ricavare βt = 50 dB.
In generale, essendo 10 log10 (2) ≅ 3 , al raddoppio della intensità sonora corrisponde
un aumento di 3 dB del corrispondente livello sonoro.
Determinare il livello sonoro complessivo in un locale in cui sono presenti un
certo numero di sorgenti, ciascuna con livello sonoro β i (i = 1,..., n ) .
βi
L’intensità della singola sorgente è I i = 10 I 0 . Indicato con n il numero di sorgenti,
10

n βi

si ottiene una intensità totale data da I T = ∑10 I 0 da cui si ricava il livello sonoro
10

i =1
risultante come
n βi
β t = 10 log10 ( ∑ 10 )
10
(3.9)
i =1

come conseguenza del fatto che la scala dei dB è una scala logaritmica.
Per ulteriori specificazioni si veda la Figura 8.3.2.
A = Numero di dB da aggiungere a L1 (< L2 )

βtot - β1 = 10 log(1+10 X /10) 0.1 16 L1 - L2 = Differenza tra i due livelli (dB)


14
0.2
12
0.3
con X = β2 - β1 0.4
0.5
10

Per N sorgenti uguali 1 6

4
βN - β1 + 10 logN 2 2
Per N sorgenti diverse si combinano 3 0
ricorsivamente il livello risultante e
4 -2
quello della rimanente sorgente più 5
-4
bassa 6
7 -6

Fig. 8.3.2. Combinazione di livelli sonori date due sorgenti della stessa potenza.

Le considerazioni contenute in questo paragrafo e nel precedente, rappresentano le


basi “teoriche” della discussione successiva, che sarà dedicata ad aspetti più pratici.
217

Qual' è il legame tra i dB e lo spostamento indotto da un’onda in un mezzo?

Combinando l’equazione (2.2) e quanto appreso in precedenza si ottiene


β
1 2 I 0 20
UM = 10 (3.10)
2π f Z
mentre in termini di pressione si ottiene
β
PM = 2ZI = p0 10 20
(3.11).

Una discesa veloce (ad esempio in aeroplano) può determinare una variazione di
pressione avvertita dal nostro orecchio come una sorta di onda di pressione. Si
determini a quanti dB equivale una differenza di altezza Δh.

Indicando con ρa la densità dell’aria, si ottiene


ρ gΔh
β = 20 log10 ( a ) (3.12)
p0
Si consideri lo scoppio di un palloncino e si leghi il livello di rumore prodotto
alla tensione superficiale.

Dalla legge di Laplace e dall’eq. (3.3) si ottiene:



β = 20 log 10 ( )
R p0
(3.13)
Pertanto
R
τ = p0 10 β / 20 (3.14)
2
Un pallone di raggio 10 cm che scoppiando produce un livello di rumore di 80 dB è
sottoposto ad una tensione superficiale di 10-2 Pa·m.
Il lettore discuta la possibilità di determinare il legame con le frequenze acustiche
coinvolte nello scoppio.

In ambienti aperti la propagazione del suono avviene attraverso una sorta di onda
sferica (ovvero il suo fronte d’onda si propaga come un palloncino sferico che si
gonfia); possiamo intuire che l'energia trasportata dal fronte d'onda si distribuirà su
una superficie sferica di raggio via via crescente. Nel Capitolo IV abbiamo visto che
l’ampiezza di un’onda sferica decresce in maniera inversamente proporzionale al
raggio; nel primo paragrafo di questo capitolo abbiamo definito l'intensità dell'onda
sonora come la quantità di energia trasportata nell'unità di tempo e di superficie e,
tramite l'equazione (1.10), abbiamo potuto associare l'intensità dell'onda al quadrato
della sua ampiezza. Possiamo quindi concludere che, mentre l'energia totale
distribuita sul fronte d'onda sferico è costante, l'intensità decresce con il quadrato
della distanza dalla sorgente sonora.
218

E0
I∝ (3.15)
4πR 2

Abbiamo visto che, se I2,1 indicano le intensità di un suono, la differenza del livello
sonoro associato alle due intensità è data dall' equazione (3.7)

Indicando ora con I1 l' intensità sonora ad una distanza R1 dalla sorgente del suono e
con I2 l' intensità sonora ad una distanza R2 , la differenza del livello sonoro
associato alle due intensità sarà (lo si provi)
R
β1 − β 2 = 20 log10 1 (4.16).
R2
Un aumento di distanza di un fattore 2 determina una diminuzione del livello sonoro
di 6dB.

Qual' è l’energia richiesta per mantenere un urlo con livello sonoro di 80 dB,
misurato a 2 m dalla sorgente, per 5 minuti?

Assumendo l’emissione isotropa su una superficie sferica S = 4πR 2 e continua per un


tempo T, potremo calcolare l’energia dalla relazione
β
E = I 0 10 S T
10
(3.17)
ottenendo E ≅ 1.5 J , che rappresenta una quantità non del tutto trascurabile che
sarebbe sufficiente a sollevare una moneta da un Euro (m=7.5g) di circa 70cm.
 
 
 
4.  Cenno alla trasmissione e riflessione dei suoni    

Il suono si propaga in modo ondulatorio e potranno, pertanto, verificarsi effetti di


riflessione, rifrazione, interferenza, diffrazione e così via. Sebbene interessante, una
trattazione completa di tutti questi effetti risulta gravosa da un punto di vista
matematico e richiederebbe uno sforzo al di fuori degli scopi della presente
trattazione.
Discuteremo pertanto alcuni aspetti più elementari, notevolmente importanti per
comprendere le problematiche fisiologiche discusse nel prossimo Capitolo.
Ritorneremo comunque su alcuni di questi aspetti teorici quando ci occuperemo di
propagazione di onde elettromagnetiche e di percezione oculare.
Consideriamo un’onda che incida normalmente sulla superficie di separazione di due
mezzi con impedenze Z1,2 (si veda la Figura 8.4.1); in questo processo, in assenza di
fenomeni di assorbimento, parte dell’onda viene riflessa e parte trasmessa.
Le frazioni d’onda trasmessa e riflessa possono essere determinate imponendo le
seguenti condizioni sulla superficie di separazione dei due mezzi:
219

Pm i = Pm r + Pm t ,
(4.1)
U mi = U m r + U mt
dove i pedici i, r, t indicano l'onda incidente, riflessa e trasmessa rispettivamente.
Ricordando l'eq. 1.7 e tenendo conto del fatto che la frequenza non cambia mentre la
velocità dell'onda riflessa viaggia nella direzione contraria all'onda incidente , si ha
Pm i = Pm r + Pm t ,
Pm i Pm r Pm t (4.2)
+ =
Z1 Z1 Z2
dalle precedenti relazioni si ottiene:
Pm r Z 2 − Z1
= ,
Pm i Z 2 + Z1
Pm t 2Z 2 (4.3)
=
Pm i Z 2 + Z1
Utilizzando la (1.11), dalle (4.3) possiamo ricavare l'intensità dell' onda riflessa Ir e
trasmessa It rispetto a quella dell'onda incidente Ii :
Ir = αr Ii ,
(4.4).
It = αt Ii
dove i relativi coefficienti di riflessione α r e trasmissione α t sono dati da

2
⎡ Z − Z1 ⎤
αr = ⎢ 2 ⎥ ,
Z
⎣ 2 + Z 1⎦
(4.5)
4 Z1 Z 2
αt =
( Z 2 + Z1 ) 2

Per cui l’attenuazione in dB dell’onda trasmessa è data da (lo si dimostri)


β i − β t = −10 log10 (α t ) (4.6)

Si dimostri che
αt + αr = 1 (4.7)
e si spieghi perché.

Si dimostri che

(1 + α r ) 2
Z2 = (4.8)
1−αr
220

onda riflessa Ζ1 Ζ2
onda trasmessa

Fronte d’onda
incidente

Fig. 8.4.1. Onda che incide normalmente sulla superficie di separazione di


due mezzi con impedenze Z1,2

Si usi la precedente espressione per determinare l’impedenza di un fluido


sapendo che l’intensità di un’onda che colpisce l’interfaccia aria fluido viene
riflessa al 50%. ( Z 2 ≅ 72 rayl )
A puro titolo di informazione facciamo notare che se l’onda colpisce la superficie di
separazione dei due mezzi con un angolo di incidenza ϑi (si veda la Figura (8.4.2)) i
coefficienti di trasmissione e di riflessione sono:
4Z 1 Z 2 cos(ϑi ) cos(ϑr )
αt =
(Z 2 cos(ϑi ) + Z1 cos(ϑr ))2
2 (4.9)
⎡ Z cos(ϑi ) − Z 1 cos(ϑr ) ⎤
αr = ⎢ 2 ⎥
⎣ Z 2 cos(ϑi ) + Z 1 cos(ϑr ) ⎦
Gli angoli di incidenza e di trasmissione sono inoltre legati dalla relazione
sin(ϑi ) v 2
= (4.10).
sin(ϑt ) v1
che discuteremo ampiamente nel Capitolo dedicato agli elementi di ottica.

Z1 Z2 Ζ2 > Z1

θr
θt
θi

Fig. 8.4.2 Angoli di riflessione e di trasmissione di un' onda sonora che incide
sulla superficie di separazione di due mezzi con impedenze Z1,2.
221

5.  Effetto Doppler 

Discuteremo in questo paragrafo l’effetto Doppler, associato alla propagazione di


onde sonore da una sorgente in moto o percepite da un ascoltatore in moto rispetto
alla sorgente. Data la sua importanza in fisica e per applicazioni diagnostiche in
campo medico, ne analizzeremo gli aspetti teorici e pratici con un certo dettaglio.
L’effetto Doppler riguarda lo spostamento in frequenza subito da un’onda sonora, che
viene emessa da una sorgente in moto o percepita da un ascoltatore in moto rispetto
alla sorgente emittente.
La Figura 8.5.1 mostra efficacemente la deformazione delle onde sonore generate da
una sorgente in moto

Figura 8.5.1 Deformazione delle onde sonore generate da una sorgente in moto.

Abbiamo prima fatto due distinzioni

a) Il caso in cui la sorgente del suono sia ferma e l’ascoltatore si muova rispetto a
questa;
b) Il caso in cui l’ascoltatore sia fermo e la sorgente si muova rispetto ad esso.

Con riferimento all’ipotesi a) ( Figura 8.5.2) supponiamo che l’ascoltatore si muova


verso la sorgente che emette il suono con velocità vo ; il numero di lunghezze d’onda
percepite dall’ascoltatore sarà dato da
v s t + vo t
(5.1)
λ
dove vs è la velocità dell'onda sonora emessa dalla sorgente ferma.
La (5.1) implica che la frequenza dell’onda percepita dall’ascoltatore è (si veda la
prima delle equazioni (1.4))
v + vo
f′= s (5.2).
λ
222

Tenuto conto che l’ascoltatore può anche allontanarsi dalla sorgente, avremo più in
generale che
v s ± vo
f′= f (5.3).
vs
.

Um T’ T
vs
t
v0

Fig. 8.5.2. Effetto Doppler nel caso di sorgente ferma e ascoltatore in moto.

Nel caso in cui la sorgente sia in moto rispetto all’ascoltatore dovremo ragionare in
modo leggermente differente. Con riferimento alle Figure 8.5.3a,b

Um λ’ λ

x
v = vs+v0

v0

Fig. 8.5.3a. Effetto Doppler nel caso di sorgente in moto e ascoltatore fermo.
223

v0

AMBULANZA AMBULANZA

Fig. 8.5.3b. Modulazione tonale della sirena di un’ambulanza avvertita da


un ascoltatore fermo.

notiamo che, indicando con v0 la velocità della sorgente, la lunghezza d’onda


percepita dall’ascoltatore risulterà essere pari a
v −v
λ′ = λ s 0 (5.4)
vs
da cui segue per la frequenza
vs
f′= f (5.5)
v s m v0
dove il segno + vale nell’ipotesi in cui la sorgente si allontani dall’ascoltatore.
Più in generale, combinando le due possibilità avremo
v ±v
f′= f s 0 (5.6)
v s m v0
Gli esempi che seguono tendono a chiarire quanto sinora discusso da un punto di
vista teorico.

Il lettore stabilisca se la seguente affermazione è vera: considerato nell’effetto


Doppler la stessa velocità relativa sorgente-osservatore, si ottengono frequenze
apparenti diverse a seconda che sia l’osservatore a spostarsi rispetto alla
sorgente o viceversa. Commentare il significato di tale osservazione

L’affermazione è vera, anche se apparentemente paradossale.


Avremo infatti, a seconda che l’osservatore o la sorgente si avvicini, le seguenti
frequenze apparenti
v + vr
f1' = s f,
vs
vs (5.9)
f2 =
'
f
vs − vr
dove vr è la velocità relativa. Dalla (5.9) segue
224

2
f 1' ⎛v ⎞
'
= 1 − ⎜⎜ r ⎟⎟ (5.10)
f2 ⎝ vs ⎠
e che la differenza rispetto alla frequenza propria è
Δf v r2
= (5.11)
f v s (v s − v r )
2
Δf ⎛ v r ⎞
è evidente che se vs >> vr lo spostamento di frequenza relativo è dato da ≅ ⎜⎜ ⎟⎟ .
f ⎝ vs ⎠

Cosa succede nel caso in cui un osservatore si stia allontanando da una sorgente
immobile con velocità 2vs ?

Dalla (5.3) segue che f’ = - f il che significa che l’osservatore riceverà le stesse
frequenze ma in ordine inverso.

Cosa succede nel caso in cui un osservatore si stia allontanando da una sorgente
immobile con velocità vs ?

Riceve una frequenza nulla perché non viene raggiunto dall’onda sonora.

Cosa succede nel caso in cui la sorgente si stia avvicinando all’osservatore fermo
con velocità pari a quella del suono?

Cosa succede nel caso in cui la sorgente si avvicini all’osservatore fermo con
velocità doppia di quella del suono?

Il lettore risponda per proprio conto a questi due ultimi quesiti.

Un’auto che viaggia a v1=20 m/s suonando il clacson ( f = 1200 Hz) , insegue
un’altra auto che viaggia a v2=15 m/s. Determinare la frequenza apparente del
clacson udita dal conducente dell’auto inseguita, assumendo che la velocità del
suono sia vs=340 m/s.

La situazione fisica è quella della sorgente che si avvicina (prima auto) e quella
dell’ascoltatore che si allontana (seconda auto), per cui avremo
v s − v2
f′= f ≅ 1220 Hz (5.12)
v s − v1

Un’automobile che viaggia a 30 m/s si avvicina alla sirena di una fabbrica, la cui
frequenza è 544 Hz . Si determini la frequenza che il conducente sente
225

avvicinandosi alla fabbrica, quella che sente allontanandosi; si assuma che la


velocità del suono sia vs=340 m/s.

In questo caso si dovranno applicare le formule relative all’ascoltatore che si avvicina


o si allontana dalla sorgente emettente il suono, ottenendo nel primo caso
f ′ ≅ 544 Hz , nel secondo f ′ ≅ 456 Hz .

La formula (5.6) non esaurisce tutte le possibilità. Se, ad esempio, il mezzo in cui il
suono si propaga si muove con una certa velocità w rispetto ad un qualche sistema
inerziale, la formula (5.6) va scritta come
(v ± w) ± v0
f '= s (5.13)
(v s ± w) m v S
dove il segno ± vale a seconda che la velocità sia concorde o no con la direzione di
propagazione del suono. Più in generale si può tener conto degli angoli di
orientazione, ma non tratteremo questo aspetto del problema.
Come esempio di applicazione tratteremo il caso del velocimetro Doppler in
dotazione alle auto della polizia; si veda la Figura 8.5.4

λ' Onda radar


Onda riflessa λ trasmessa
trasmittente
radar

POLIZIA

Fig. 8.5.4. Principio di funzionamento dell’ autovelox.

Vedremo nel prossimo Capitolo come si possa utilizzare tale effetto per fini
diagnostici, in particolare per determinare l’esistenza di stenosi o aneurismi nei vasi
sanguigni.
226
227

CAPITOLO IX
ELEMENTI DI FISIOLOGIA DELL’ORECCHIO E DI ACUSTICA DEL CORPO UMANO

1.  Caratterizzazioni dell’orecchio umano e sue funzioni 

Nel Capitolo precedente abbiamo utilizzato il termine suono, onda sonora, rumore,…
in maniera del tutto intercambiabile. L’idea di rumore è, entro certi limiti, del tutto
soggettiva ed è legata, tra le altre cose, alla sensazione sgradevole e/o dolorosa che un
suono può determinare su un determinato soggetto.
Una melodia, che certamente non può ascriversi alla categoria dei suoni rumorosi,
può essere considerata rumore e quindi fastidiosa, se ascoltata a livelli sonori
eccessivi, diciamo superiori agli 80 dB.
Per rendere meno qualitative le considerazioni di cui sopra e per chiarire l’ambito e il
significato delle relative misure, è opportuno precisare alcune nozioni relative alla
fisiologia dell’orecchio umano, che è il principale ricettore del corpo per quanto
concerne le informazioni percepibili tramite onde acustiche (si veda la Figura 9.1.1)
Variazione della
Pressione
atmosferica
dovuta al suono 345 m/s
Pressione
atmosferica

Canale uditivo
Fig. 9.1.1. Ricezione dell’onda sonora.

Le sue funzioni possono essere specificate come segue


a) Ricezione dell’onda sonora;
b) Amplificazione della sua intensità;
c) Analisi delle frequenze e dell’intensità dell’onda;
d) Eliminazione dei rumori di fondo casuali.
L’orecchio e tutte le funzioni ad esso associate costituiscono uno “strumento”
estremamente avanzato con una “tecnologia” che risponde alle funzioni prima
specificate, che risulta composta da
i) un sistema meccanico, per ricevere ed amplificare i suoni;
ii) un sistema di sensori che trasformano i segnali acustici in segnali elettrici,
che vengono trasportati dai nervi preposti al cervello;
iii) il “software” in grado di decodificare ed analizzare i segnali elettrici dei
nervi, in modo tale che siano intelligibili.
228

In questo Capitolo discuteremo essenzialmente la parte meccanica.


L’orecchio umano consta di tre parti, qui di seguito specificate (Figura 9.1.2).

Orecchio esterno Orecchio Orecchio interno


Padiglione medio
auricolare Canali del
Ossicini labirinto
Nervo
acustico

Chiocciola
Canale
uditivo

Timpano
Tuba di
Eustachio
Fig. 9.1.2. Struttura dell’apparato uditivo.

a) L’ORECCHIO ESTERNO (Figura 9.1.2)

Risulta composto dal padiglione auricolare e dal canale acustico. Questa ultima parte
è la parte più importante, mentre il padiglione potrebbe essere rimosso senza
conseguenze apprezzabili per la percezione acustica.
Il canale uditivo ha una lunghezza di circa 2.5 cm, è chiuso dalla membrana del
timpano, pertanto solo alcune frequenze possono risuonare in tale cavità (si veda la
Figura 9.1.3). Ricordando quanto è stato detto a proposito delle frequenze naturali in
un tubo cavo con aria chiuso ad una estremità, si avrà che le frequenze naturali del
condotto uditivo sono date da

vsuono
λ f1=
L= 4L
4
n=3
3f1
Solo armoniche dispari!
n=5
5f1

Fig. 9.1.3. Condizioni di risonanza di un tubo chiuso ad una estremità.


229

vs
fn = n , n = 1,2,3... (1.1)
4L
Utilizzando i dati a nostra disposizione ( v s ≅ 331 m / s, L ≅ 0.025 m ) si ottiene
f n = n ⋅ 3300 Hz e ciò spiega il motivo per cui l’orecchio ha un picco di sensibilità
intorno ai 4 kHz14.

Nel romanzo “I viaggi di Gulliver” il protagonista soggiorna per qualche tempo


a Lilliput, abitata dai lillipuziani (uomini alti al massimo 10 cm). I lillipuziani
erano, presumibilmente, dotati di una canale uditivo all’incirca 18 volte più
piccolo di quello umano. Si può quindi ipotizzare che percepissero suoni ben al
di sopra dei 50 kHz. Si spieghi come facevano i lillipuziani e Gulliver a
comunicare.
La membrana del timpano ha uno spessore di 0.5 mm e un’area di 65 mm2 la sua
funzione è quella di assorbire e trasmettere le variazioni di pressione causate dalle
onde acustiche nel canale uditivo.
La membrana ha uno spessore piuttosto modesto per evitare eccessive riduzioni di
intensità (si veda il prossimo sottoparagrafo) ma a causa di tale sottigliezza può

14
In realtà il problema è più complesso. La testa e l’intero corpo possono provocare cambiamenti nel

campo sonoro dovuti alla diffrazione (effetto ombra); in effetti, il suono entra nell’orecchio attraverso

un’apertura della parete cranica e la combinazione padiglione capo costituisce un vero e proprio schermo

acustico, che incide sulle onde sonore le quali possono essere assorbite o riflesse. Quando la lunghezza

d’onda del suono incidente è confrontabile con le dimensioni del capo allora assumono importanza i

fenomeni di diffrazione. Poiché il diametro medio del capo dell’uomo adulto è all’incirca di 18 cm ci si

aspetta diffrazione per segnali aventi frequenza maggiore di 2 KHz. Oltre all’effetto di diffrazione, vi è anche

il cosiddetto effetto focalizzante che incide sulla pressione sonora. Cioè, per convogliare meglio le onde

sonore all’interno del condotto uditivo esterno, aumentando così la pressione sonora, è necessario che la

superficie riflettente, nel caso specifico il padiglione auricolare, sia più ampia rispetto alla lunghezza d’onda

del segnale sonoro. Per tale motivo il padiglione raccoglie più efficacemente suoni ad alta frequenza, che

hanno sfavorevole rapporto a causa della loro lunghezza d’onda. L’unione dei due effetti, effetto ombra ed

effetto focalizzante, fa sì che il sistema acustico percepisca meglio i suoni acuti compresi tra i 4 ei 9 KHz.

(per ulteriori dettagli si veda E. Marciano “Fisica dell’orecchio”, Un. Federico II Napoli).
230

essere soggetta a rotture dovute alle forze di pressione che vengono esercitate su di
essa.
Un suono superiore ai 160 dB (corrispondente ad una variazione di pressione di 8 kPa
(si verifichi tale dato)) può essere responsabile di una lacerazione del timpano.

Si determini quale improvvisa variazione di altezza può determinare problemi


di rottura del timpano.

Dalla legge di Stevino e ipotizzando una rottura del timpano per Δp = 8 kPa segue
Δp 8 ⋅10 3 Pa
Δh = ≅ ≅ 632 m
ρg 1.29[kg / m 3 ]⋅ 9.81[m / s 2 ]
Vedremo nel seguito i meccanismi messi in atto dal corpo per controllare rapidi
cambiamenti di pressione.

b) L’ORECCHIO MEDIO (Figura 9.1.4)

E' una cavità piena di aria, che è collegata, tramite la tuba di Eustachio, alla faringe,
dove viene mantenuta una pressione uguale a quella esterna atmosferica. Gli organi
principali dell’orecchio medio sono tre ossicini noti come martello, incudine e
staffa. La funzione di questi tre organi è quella di accoppiarsi alle vibrazioni della
membrana del timpano e amplificarle per poi trasmetterle all’orecchio interno. Il
meccanismo di trasmissione e di amplificazione è quello mostrato in Figura 9.1.4.
incudine
Martello
Martello

A0 incudine

F0
Orecchio staffa
staffa
interno
Canale AM
uditivo timpano

FM
Tuba di
Eustachio
Fig. 9.1.4. L’orecchio medio; meccanismo di trasmissione delle vibrazioni sonore.
La pressione esercitata sul timpano induce una forza
FM = AM ⋅ p M (1.2)
dove AM è l’area della membrana del timpano. La forza FM induce a sua volta un
momento τM sull’incudine.
231

Tale momento induce una forza F0 sulla finestra ovale di area A0 di modo che si ha
τ M = FM LM = τ 0 = F0 L0 (1.3)
La forza F0 provoca una pressione p0 sulla finestra ovale, la cui intensità può essere
calcolata dalla relazione
L A
p M ⋅ AM ⋅ LM = p0 ⋅ A0 ⋅ L0 ⇒ p c = M M p M (1.4),
L0 A0
L’amplificazione risulta dal fatto che LM>L0, AM>A0 di modo tale che si determina un
incremento di pressione, da cui segue un guadagno in dB esprimibile come (lo si
provi )
LM AM
Δβ = 20 log( ) (1.5).
L0 A0
LM A
Tenuto conto che ≅ 1.3, M ≅ 15 si ottiene p0 ≅ 19.5 p M da cui segue Δβ ≅ 26 dB ,
L0 A0
che compensa l’effetto di riduzione dovuto all’assorbimento.
Il sistema di leve e di membrane vibranti prima descritto raggiunge la sua massima
efficienza tra i 400 Hz e 4000 Hz; nelle regioni esterne problemi di inerzia e di rigidità
causano una caduta di efficienza che si manifesta in una minore sensibilità uditiva.
Come abbiamo prima fatto notare, la tuba di Eustachio connette l’orecchio e la cavità
orale ed ha la funzione di riequilibrare la pressione dell’orecchio con quella esterna
per evitare problemi di lacerazione del timpano. La tuba di Eustachio è normalmente
chiusa, ma si apre durante la deglutizione; nel caso di una rapida salita in aeroplano a
volte una deglutizione veloce può prevenire effetti di lacerazione del timpano.

c) L’ORECCHIO INTERNO (Figura 9.1.5)

Canali del
labirinto

Nervo
acustico
Coclea

Tuba di
Eustachio

Fig. 9.1.5. Orecchio interno.


232

Ha una forma a spirale detta coclea, contenente un liquido anionico; essa consta di tre
tubi paralleli, collegati all’estremità con due dotti esterni, il tubo timpanico e la
camera vestibolare. Il tubo interno (dotto cocleare) è separato tramite la membrana
basale dalla parte esterno (Figura 9.1.6). La staffa è attaccata alla finestra ovale che
separa la camera vestibolare dall’orecchio medio. La finestra rotonda separa la
camera del timpano dall’orecchio medio. Le vibrazioni della finestra ovale
trasmettono le variazioni di pressione al fluido della coclea. Il movimento del liquido
produce una sorta di vibrazione nella membrana basale del dotto cocleare che si
muove verso la sommità della coclea. A causa della rigidità decrescente della
membrana, toni di una certa intensità e frequenza determinano dei massimi locali
dell’ampiezza dell’onda lungo la membrana. Le vibrazioni vengono distribuite lungo
le cellule cigliate, che trasformano l’impulso meccanico in impulso neurolettico, che
viene trasmesso al cervello.
Le cellule cigliate, distribuite lungo la coclea, rispondono in maniera differenziata
alle diverse frequenze. Quelle più vicine sono sensibili ai toni acuti, quelle più
lontane ai toni gravi.

Canale
timpanico Nervo
acustico

Canale
vestibolare

Membrana
basale

Dotto Organo Coclea o


cocleare di Corti chiocciola
Fig. 9.1.6. Sezione della colclea e innervamento.

Come già detto la banda udibile si estende dai 20 Hz (16 per la precisione) fino ai
20 kHz . In tale intervallo la sensibilità dell’orecchio non è la stessa per tutte le
frequenze. La descrizione dei complessi meccanismi alla base della fisiologia
dell’orecchio permettono anche di comprendere i motivi per cui esistono zone in cui
la percezione uditiva è più o meno efficiente.
In particolare, come risulta dalla Figura 9.1.7, dove vengono riportate le curve di
uguale sensazione di rumore (o di isosonia), la regione di massima sensibilità si
estende nell’intervallo di frequenze da 1 kHz a 5 kHz, ed è evidente che a 60 Hz un
livello di 40 dB è percepito come viene percepito un livello di pochi dB a 4 kHz.
233

Dalle considerazioni svolte alla fine del precedente paragrafo nasce la necessità di
correggere le misure di tono, se riferite alla tutela della salute umana, con opportune
curve di calibrazione, che tengano conto della “risposta” dell’orecchio alle varie
frequenze.
Una tipica curva di ponderazione (detta di solito curva A), che si basa su una
normalizzazione alle isofoniche a 40 dB, utilizzata per misure di rumorosità
ambientale, viene riportata in Figura 9.1.8. Il significato di tale curva può essere letto
in parallelo con quello di Figura 9.1.7.

Sensazione uditiva: l’intensità percepita del suono dipende dalla sua


pressione e dalla sua frequenza

Audiogramma normalizzato (ISO): è l’insieme delle curve di ugual


sensazione sonora ricostruito con ripetute osservazioni di soggetti in
condizioni psicologiche e fisiologiche normali:
o La curva inferiore che passa a 1000 Hz 0 dB rappresenta la soglia
di udibilità
o La curva superiore che passa a 1000 Hz 120 dB rappresenta la
soglia del dolore
Livelli di pressione sonora (dB)

140
130 120
120
110 100
100
90 80
80
70 60
60
50 40
40
30 20
20
4
10
0
10 100 1000 10000
Frequenza, Hz
9.1.7 Curve di calibrazione e misura dei livelli di rumore.

Assumendo come riferimento la sensibilità a 1 kHz, si dovrà apportare una correzione


in negativo al di sotto del kHz, in positivo tra 1 kHz e 5 kHz e di nuovo in negativo
sopra i 5 kHz. Se ad esempio una misura dà un livello sonoro di 50 dB a 200 Hz lo
strumento utilizzato sottrarrà automaticamente 10 dB, di modo che la lettura
ponderata sarà 40 dB. Di solito per indicare che la lettura è stata calibrata si indica il
relativo livello sonoro con dB (A). Per completezza notiamo che esistono altre curve
di calibrazione dette B e C alle isosoniche 70 e 100 dB, rispettivamente.
234

Gli strumenti di misura forniscono una risposta lineare al livello di intensità sonora e
devono pertanto essere dotati di circuiti, che permettano di effettuare le misure con le
correzioni di ponderazione.
Teniamo a precisare che l’uso del livello sonoro ponderato A è oramai generalizzato,
perché esiste una buona correlazione tra il disturbo soggettivo associato al rumore e
al livello ponderato misurato in dB(A).

Sono utilizzate per correggere la risposta dei fonometri tenendo conto della
diversa percezione uditiva a diverse frequenze:
o curva A: è quella universalmente accettata ed utilizzata, anche se
corrisponde ad una correzione per suoni di basso livello
o curva B: per suoni di livello medio
o curva C: per suoni di livello elevato
o curva D: per valutazione del rumore da sorvolo
dB
0

-10 C
-20 D
-30
B
-40

-50
A
-60
10 100 1000 10000
Hz
Per rumori aleatori vale la relazione:
dBA = dB -7

Fig. 9.1.8. Curve di ponderazione

Prima di affrontare altri argomenti, è opportuno ritornare alla Figura 9.1.7 e ricordare
che i vari livelli di isosonia possono essere misurati utilizzando una specifica scala la
cui unità di misura è il “phon” (P), che definiremo come segue: un suono puro di
frequenza pari a 1 kHz e ad un livello sonoro di un dB ha, per definizione, un livello
di intensità sonora soggettiva (Loudness-Level) pari a un P.
Insieme al phon un’altra unità intesa a misurare l’intensità sonora soggettiva è il son
(S) e tale scala serve ad ordinare e confrontare su una base comune, l’intensità
sonora soggettiva dei vari suoni. Tale unità fu introdotta nel 1936 e 1 son è
equivalente a 40 phone. La conversione tra son e phon si ottiene in modo tale che un
raddoppio del numero di son corrisponde ad un raddoppio del livello di loudness che
corrisponde ad un aumento di circa 10 dB; abbiamo dunque che il phon e il son
risultano legati dalla relazione
235

P − 40
S=2 10
(1.6).
Utilizzeremo un esempio per capire come le unità precedenti vadano utilizzate.
Dati tre suoni di frequenze e di livello sonoro pari a: 100 Hz-60 dB, 500Hz-70 dB,
1000 Hz-80 dB, determinare
a) l’intensità sonora soggettiva complessiva;
b) il livello di intensità combinata di questi tre suoni;
c) il livello di intensità di un suono puro a 2 KHz , che ha la stessa intensità
sonora soggettiva dei tre suoni puri combinati.

Dalle Figure 9.1.7, 9.1.8 e dalla formula (1.6) si deduce quanto riportato nella
seguente tabella, che va così intesa: 60 dB a 100 Hz sono percepiti come 37 dB a 1 kHz
e analogamente per i suoni a 500 Hz e 1000 Hz .

F(Hz) dB phon son


100 60 37 0.8
500 70 68 7
1000 80 80 16

Dai valori riportati in tabella si può derivare l’intensità sonora soggettiva totale dei tre
suoni semplicemente sommando i tre livelli in son ottenendo circa 23.8 son, mentre
per quanto riguarda il livello combinato dei tre suoni si ottiene banalmente da
W
I T = I 0 (10 6 + 10 7 + 108 ) ≅ 1.11 ⋅ 10 −4 2
m
W
corrispondente a 80.45 dB. Ricordiamo che I 0 = 10 −12 (eq. (2.1) del capitolo VIII)
m2
Infine, invertendo la formula (1.6) si ottiene (lo si provi)
P = 10 log2 ( S ) + 40 (1.7).
Per quanto riguarda il quesito c) si invita il lettore a trovare la risposta per suo conto.
Nel corso della discussione precedente ci siamo riferiti a suoni puri, ovvero a suoni
costituiti da una frequenza singola, detti anche toni; in generale un suono, o meglio
un rumore, è costituito da suoni a diverse frequenze. Le problematiche relative a
suoni “colorati” non saranno discusse nell’ambito delle presenti lezioni e si invita il
lettore interessato a consultare la bibliografia specializzata sull’argomento.

Nel paragrafo precedente e nel Capitolo VII abbiamo chiarito vari concetti di natura
strettamente fisica; da questi si potrebbero dedurre alcune nozioni di carattere pratico,
che poi sono alla base degli interventi normativi, inerenti la protezione da
inquinamento acustico sui luoghi di lavoro.
Studi di carattere epidemiologico hanno messo in evidenza la stretta correlazione tra
energia sonora assorbita e danno uditivo.
A tale scopo ricordiamo che si definisce dose di rumore la quantità
236

DR = p 2 t (1.8)
dove p è la pressione acustica e t è il tempo per cui viene esercitata.
Consideriamo ora due sorgenti con diversi livelli di pressione; è evidente che queste
erogheranno la stessa dose di rumore se
2 2
p1 t1 = p 2 t 2 (1.9)
ovvero sorgenti con minore pressione acustica erogheranno la stessa dose di rumore
di una con pressione più elevata, se opereranno per un tempo maggiore.
Nel caso in cui esista una variazione nel tempo della pressione di rumore che
indicheremo con pA(t), si definisce il seguente valore medio su un arco di tempo T
t
1 2

PT = ∫ p A (t )dt
2 2
(1.10)
Tt 1

dove T = t2 − t1 è il tempo in cui viene eseguita la misura.


A tale valore medio viene legata la dose media come
2
DM = PT T (1.11),
In base alle relazioni precedenti si può definire il valore equivalente di livello sonoro
come
2
PT
β A, eq = 10 log10 ( 2 ) (1.12).
p0
Dalle relazioni precedenti si può ricavare come regola pratica, del tutto evidente, che
al raddoppio del tempo di esposizione si ottiene la stessa dose di rumore in
corrispondenza di una riduzione di 3 dB del livello di rumore della sorgente.
Accanto al livello equivalente viene di solito introdotto il livello di picco, specificato
da
2
p peak
β P = 10 log10 ( 2 ) (1.13)
p0
dove ppeak rappresenta il valore di picco della pressione acustica non ponderata.
Da un punto di vista protezionistico si definisce anche la dose individuale giornaliera
di rumore equivalente come (d=day)
T
β ep , d = β A, eq + 10 log10 ( ) (1.14)
T0
dove T è l’intervallo di tempo relativo alla definizione di livello equivalente, mentre
T0 è il tempo effettivo di esposizione al rumore.
Come esercizio si spieghi perché il livello settimanale di esposizione di un lavoratore
si esprime come
n ( β ep , d ) k

∑10 10

β ep ,week = 10 log10 ( k =1 ) (1.15)


n
237

dove k si riferisce all’indice giornaliero e n al numero di giorni lavorati per settimana.


Non insisteremo ulteriormente su questi aspetti e sulla relativa normativa, che potrà
essere trovata nei riferimenti bibliografici, riportati alla fine del presente capitolo.
Alle considerazioni precedenti si dovrebbero aggiungere quelle relative a metodi di
attenuazione ed isolamento del suono.

2.  Principi di funzionamento dei dispositivi per indagine ecografica 

Metteremo a frutto quanto fino ad ora studiato sulla propagazione delle onde sonore
accennando ad una delle più diffuse tecniche diagnostiche non invasive: l’ecografia.
Tale tecnica si basa sulla ricezione dell’eco prodotta da un’onda sonora che,
propagandosi all’interno della massa corporea, viene riflessa dalle superfici di
separazione di sostanze o tessuti con caratteristiche fisiche differenti.
Passiamo ad una descrizione più quantitativa dei fenomeni che avvengono quando
un’onda sonora si propaga in un mezzo.
Per prima cosa si ha una attenuazione dell’onda, ovvero la sua intensità diminuisce
secondo la legge:
I ( x ) = I (0) ⋅ e − kx (2.1)
Il coefficiente di attenuazione k può essere espresso nel seguente modo
π f 2η
k= (2.2)
ρ v3
Dove f è la frequenza e v la velocità di propagazione dell’onda, mentre η e
ρ rappresentano la viscosità e la densità del mezzo in cui l’onda si propaga.

I
0.8

0.6

f1 = 20 kHz
0.4

0.2 f2 = 50 kHz

0 0.1 0.2 x
0.3 0.4

Fig. 9.2.1. Attenuazione delle onde acustiche. L’intensità iniziale è normalizzata a 1.

Si usa misurare k in dB·m-1. Un valore tipico del coefficiente di attenuazione per


unità di frequenza è 1 dB/cm/MHz se f =10 MHz l’attenuazione di un' eco da 10 cm di
238

profondità e’ di 200 dB. In Figura 9.2.2 sono riportati i coefficienti di attenuazione di


alcuni tessuti biologici in funzione della frequenza dell’onda sonora incidente.
Inoltre, quando un’onda sonora attraversa un mezzo non omogeneo, le superfici di
discontinuità generano la riflessione e la rifrazione dell’onda.

Fig. 9.2.2 Coefficienti di attenuazione di alcuni tessuti


biologici in funzione della frequenza
Le modalità di riflessione e rifrazione dell’onda incidente dipendono dalle impedenze
acustiche dei due mezzi. Ci siamo occupati della riflessione e rifrazione di un’onda
sonora nel par. 4 del capitolo precedente. La riflessione genera un' “Eco acustica”.
Nell’intervallo di udibilità dell’orecchio umano (20-20000 Hz) le lunghezze d’onda
vanno da 17 m a 17 mm che corrispondono anche alle dimensioni degli oggetti che
possono essere sondati (SONAR).
Oggetti più piccoli della lunghezza d’onda incidente provocano fenomeni di
interferenza e diffusione dell’onda per cui il segnale riflesso diventa inutilizzabile
per sondare tali oggetti . Questi fenomeni saranno trattati diffusamente nel prossimo
capitolo a proposito dei limiti di risoluzione ottica. Nelle tecniche di indagine
ecografia si ha la necessità di una risoluzione millimetrica o submillimetrica, si
utilizzano pertanto frequenze superiori ai 20 kHz. Tali onde acustiche, non udibili
dall’orecchio umano, sono definite ULTRASUONI.
Per generare ultrasuoni si utilizzano materiali piezoelettrici. I piezoelettrici sono
materiali che, sotto l’azione di una tensione elettrica, entrano in vibrazione generando
onde di pressione. Viceversa, sollecitati meccanicamente, generano un impulso
239

elettrico per cui sono anche usati come ricevitori dell’eco di ritorno che viene
trasformata in segnale elettrico.
Un' apparecchiatura per l’indagine ecografica consiste schematicamente di una
sorgente di ultrasuoni (emettitore) e di un ricevitore dell’ eco acustica (Figura 9.2.3).

Fronte d’onda
incidente

Generatore e Elaborazione
ricevitore di del segnale
ultrasuoni
(Piezoelettrici)
onda riflessa
Visore
Generatore di
impulsi elettrici

Fig. 9.2.3. Schema di funzionamento di un ecografo .

La figura 9.2.4 mostra come la riflessione da interfacce differenti comporti sia un


ritardo temporale che un' attenuazione dei segnali di ritorno.

Intensità

t1
t2

Segnale Prima Seconda tempo


emesso riflessione riflessione

Fig. 9.2.4. Segnali di ritorno dopo le riflessioni da due interfacce .

La distanza dell’interfaccia responsabile della riflessione è proporzionale al tempo


impiegato dal segnale a raggiungere il ricevitore
d = vs Δt (2.3)
La velocità di propagazione nei tessuti viene normalmente considerata uniforme ma
questo naturalmente non è vero; nei tessuti molli varia da 1200 a 1800 m/s mentre nei
tessuti più duri (es. osso) può raggiungere i 4000 m/s.
240

Ne deriva che laddove c’è discrepanza con il valore vero si avrà una distorsione
dell’immagine.
Per consentire la ricezione di echi provenienti da interfacce profonde si amplifica
l’intensità in modo proporzionale alla distanza, modificando il guadagno in senso
inverso alla curva di attenuazione (Time-Gain Compensation TGC). L’intensità
dell’eco non è più proporzionale alla distanza della struttura, ma alla differenza di
impedenza acustica, cioè all’energia effettivamente riflessa da quella struttura.
Affrontiamo ora brevemente il problema della risoluzione dell’indagine ecografica.
Date le modalità di acquisizione dei segnali ecografici, dobbiamo anzitutto
distinguere tra:
a) Risoluzione temporale
b) Risoluzione spaziale
Per valutare la risoluzione temporale del dispositivo ecografico occorre osservare che
il tempo di andata e ritorno dell’impulso dalla profondità di 15 cm con una velocità
media di 1500 m/s è circa 200 μs. A titolo di esempio, il tempo necessario per
trasmettere un impulso di tre periodi alla frequenza di 3 MHz è di 1 μs che è dunque
trascurabile rispetto ai 200 μs. Possiamo inviare 5000 impulsi/s; se ogni immagine è
di 120 linee possiamo acquisire 40 immagini/s .
Per risoluzione spaziale si intende la minima distanza tra due strutture in grado si
produrre echi distinguibili.
Si definiscono tre risoluzioni spaziali: assiale, azimutale, di elevazione (Figura 9.2.5)

azimutale

elevazione
assiale

Fig. 9.2.5. Risoluzione assiale, azimutale e di elevazione.

La risoluzione assiale dipende dalla durata dell’impulso: minore durata maggiore


risoluzione. Ad una minore durata corrisponde una frequenza maggiore e,
conseguentemente, una minore penetrazione (tipica durata 2-3 λ).
Le risoluzione azimutale e di elevazione dipendono dalla focalizzazione dell’impulso
acustico.
241

Accenniamo brevemente alle diverse metodiche che vengono utilizzate per


rappresentare il segnale eco acustico:
1) A Mode ( AMPLITUDE):
il segnale e’ inviato ad un oscilloscopio, posizione ed ampiezza del segnale sullo
schermo rappresentano la profondità e l’intensità dell’eco. Maggiore l’intensità
dell’eco, maggiore l’ampiezza del picco.
2) B Mode ((BRIGHTNESS):
il segnale e’ inviato ad un monitor a formare un' immagine bidimensionale, La
posizione e i livelli di grigio corrispondono alla localizzazione e all’intensità dell’eco.
Maggiore l’intensità dell’eco, maggiore l’intensità luminosa
3) M Mode: il segnale di una sola linea e’ inviato ad un monitor, il livello di grigio è
l’intensità dell’eco, l’asse y è la profondità e l’asse x è il tempo. Tale metodica altro
non è che un B-mode ‘rinfrescato’ ad intervalli di tempo sufficientemente brevi per
riprodurre il movimento dell’interfaccia.

La figura 9.2.6 illustra un esempio di indagine ecografica eseguita in B Mode.

Fig. 9.2.6. Michele alla 16a settimana.


In questo paragrafo ci siamo limitati a fornire alcune nozioni di base sui principi di
funzionamento dell’indagine ecografica, allo scopo di evidenziare come le proprietà
di propagazione delle onde acustiche abbiano trovato un' importante applicazione
nell’ambito della diagnostica clinica. Un ulteriore approfondimento esula dagli scopi
di questo libro e il lettore interessato potrà farlo nell’ampia scelta di materiale
specializzato esistente.
242

3.  L’effetto Doppler come strumento diagnostico 

Nel capitolo precedente, quando abbiamo trattato gli aspetti fisiologici del teorema di
Bernoulli, abbiamo messo in evidenza come, in presenza di una stenosi o di una
aneurisma, si abbia un aumento o una diminuzione della velocità del sangue, con tutte
le problematiche associate ad una diminuzione o aumento di pressione sulle pareti del
vaso. E’ evidente che un metodo non invasivo che permetta di misurare la velocità
del sangue in un determinato vaso possa offrire la possibilità di valutare la presenza
di occlusioni o rigonfiamenti nel vaso medesimo.
Un metodo concettualmente molto semplice è quello basato sulla cosiddetta
velocimetria Doppler, che sfrutta l’effetto prima descritto.
L’idea alla base di tale metodo è piuttosto semplice da un punto di vista concettuale e
può essere spiegato come segue (si veda la Figura 9.3.1).

vs

vL

Fig. 9.3.1. Direzione del fascio di ultrasuoni e della velocità del sangue
nella velocimetria Doppler.

Si utilizza un’onda sonora di frequenza nota, che viene inviata in un vaso dove fluisce
sangue ad una determinata velocità; si ascolta l’”eco” della onda sonora riflessa
all’indietro e dallo spostamento di frequenza si deriva la velocità del sangue, da
questa si deduce il valore della pressione.
Riferiamoci, inizialmente, alle “condizioni cinematiche” della figura 9.3.2. L’onda
sonora con frequenza f viene lanciata parallelamente al moto del fluido che si
allontana, dunque, con velocità vL dalla sorgente che ha generato l’onda sonora.
Il fluido si comporta come un ascoltatore che si allontana dalla sorgente pertanto la
frequenza “sentita” dal fluido in movimento è
v − vL
f′= f s (3.1).
vs
243

Fig. 9.3.2. Direzione del fascio di ultrasuoni parallela alla direzione della
velocità del sangue.
Il liquido rifletterà a sua volta l’onda incidente provocando un ulteriore spostamento
di frequenza, comportandosi come una sorgente che si muove verso l’ascoltatore;
dalla combinazione dei due processi si ottiene la seguente relazione per la frequenza
di ritorno
vs v − vL
f ′′ = f ′ = f s (3.2).
vs + vL vs + vL
La relazione precedente può essere manipolata in maniera tale da avere un legame più
diretto tra velocità del fluido e spostamento di frequenza; una semplice re-definizione
della (3.2) permette infatti di scrivere
(v − v ) 2 v
f ′′ = f s2 L 2 ≅ f (1 − 2 L ) (3.3a).
vs − vL vs
L’ultima parte della relazione precedente è stata ottenuta trascurando il quadrato della
velocità del liquido rispetto a quella del suono. Nel caso del sangue tale
approssimazione è largamente giustificata perché, come abbiamo visto, la velocità del
sangue è al massimo dell’ordine di qualche metro al secondo, mentre la velocità del
suono nei tessuti supera il migliaio di metri al secondo.
La (3.2) fornisce una diminuzione di frequenza poiché abbiamo considerato il liquido
che fluisce allontanandosi dalla sorgente di onde sonore; nell’ipotesi in cui il liquido
fluisca verso la sorgente, si ha un aumento di frequenza della stessa entità, ovvero
v
f ′′ ≅ f (1 + 2 L ) (3.3b).
vs
Abbiamo prima parlato genericamente di onda sonora senza specificarne la
frequenza, né abbiamo detto come queste vengano prodotte o rivelate.
Nelle applicazioni diagnostiche si utilizzano gli ultrasuoni, con frequenze tra i 5 e i
10 MHz . La ragione per cui si utilizzano gli ultrasuoni è facilmente intuibile: lo
spostamento di frequenza dato dalle (3.3) è infatti pari a
v
Δf = f ′′ − f ≅ 2 f L (3.4),
vs
244

da cui stabiliamo che, per velocità del sangue di 0.5 m/s, per una velocità del suono
nei tessuti di 1.5·103 m/s e per una frequenza di 5 MHz si ottiene Δf ≅ 3.3 kHz , che è
largamente nella regione dell’udibile.
Lo strumento che produce e rivela gli ultrasuoni si chiama trasduttore, costituto da un
piezoelettrico che trasforma un segnale elettrico in ultrasuoni e viceversa. Senza
entrare nei dettagli di come il segnale di ritorno venga analizzato, facciamo notare
che si sfruttano tecniche proprie dell’elettronica in cui si combinano vari segnali a
differenti frequenze in modo da ottenerne uno con una frequenza data dalla (3.4) che
può essere direttamente “ascoltata” e fornire all’analista esperto le informazioni
necessarie.
In generale il fascio di ultrasuoni e la velocità del sangue non sono paralleli (si veda
la Figura 9.3.1) per cui la (3.4) va riscritta come
v L cos(φ )
Δf ≅ 2 f (3.5).
vs
Gli elementi che abbiamo fornito in questo paragrafo danno una idea di come
l’effetto Doppler possa essere utilizzato in ambito diagnostico; si tratta ovviamente di
una trattazione meno che elementare ed assolutamente insufficiente, il lettore
interessato potrà trovare ulteriori dettagli nella letteratura specializzata
sull’argomento.

Stabilire il legame tra la variazione di frequenza misurata in velocimetria


Doppler e la pressione sanguigna.

Da quanto discusso nel Capitolo V si ottiene


⎡m⎤ 1
vL ⎢ ⎥ = p[Torr ] (3.6)
⎣s⎦ 2

che insieme alla (3.5) da


p[Torr ]
Δf ≅ f cos(φ ) (3.7).
vs
E’ evidente che la relazione precedente può essere utilizzata per determinare quale
sia la pressione una volta nota la variazione di frequenza; dalla (3.7) si ottiene infatti
2
⎛ Δf ⎞ 2
p[Torr ] ≅ ⎜⎜ ⎟⎟ v s (3.8).
⎝ f cos(φ ) ⎠

Nei prossimi paragrafi descriveremo altri aspetti tecnici associati all’utilizzo delle
onde sonore a fini diagnostici.
245

4.  La fisica dello stetoscopio 

Lo strumento più comunemente usato per studiare i suoni provenienti dall’interno del
corpo e inferire da questi possibili aspetti patologici è lo stetoscopio, inventato agli
inizi del XIX secolo da M. Laennec. Da circa due secoli lo stetoscopio è lo strumento
principe per auscultare i suoni caratteristici del corpo, come battiti cardiaci, soffi,
flussi sanguigni, rantolii…
Il principio di funzionamento dello stetoscopio è basato su quello della trasmissione
dei suoni attraverso un tubo pieno di aria, con entrambe le estremità chiuse (si veda la
Figura (9.4.1)).

Fig. 9.4.1 Stetoscopio.

La parte dello stetoscopio da applicare al corpo consta di una sorta di campana con
una membrana sottile, le cui vibrazioni, indotte dai rumori del corpo, vengono
trasmesse lungo il tubo. Indicato con d il diametro della membrana possiamo scrivere
la relativa frequenza di risonanza come (lo si provi)

1 T
fR = β (4.1)
2d σ
dove β = 0.76 è un coefficiente empirico, σ è la densità superficiale e T è la forza di
tensione, legata alla pressione dalla relazione
2
⎛d ⎞
T = π p⎜ ⎟ (4.2),
⎝2⎠
che, una volta inserita nella formula (4.1), fornisce la relazione
1 p
fR = πβ (4.3).
4 σ
246

La pressione è quella che si esercita con la mano sulla parte terminale dello
stetoscopio ed in tal modo si selezionano le frequenze da auscultare. A pressioni
maggiori corrisponderanno i toni più alti e viceversa. Per dare un' idea riportiamo che
i rumori cardiaci, dovuti a effetti di turbolenza del sangue, si aggirano nell’intervallo
di frequenza 100 Hz-200 Hz, mentre i suoni provenienti dai polmoni, dovuti ad effetti
di turbolenza dell’aria durante l’inspirazione o l’espirazione, si situano nell’intervallo
di frequenza 200 Hz-2000 Hz.

Si determini la pressione necessaria da esercitare su uno stetoscopio di diametro


kg
pari a 2 cm per auscultare mormorii cardiaci a 30 Hz. Si assuma σ ≅ 0.5 2 .
m

Si noti che dalla formula (4.3) si ottiene (lo si provi)


16 f R2σ 2
p= (4.4)
πβ
per cui, utilizzando i dati a disposizione, segue (il Lettore esegua il calcolo per
proprio conto) p ≅ 3 ⋅10 3 Pa , ovvero una pressione di circa 0.03 bar.

Si discuta un criterio per determinare il raggio del tubo dello stetoscopio.

L’impedenza di un tubo pieno di aria è data da (equazione (4.4) Capitolo VI)


p
RI = (4.5)
Q
dove Q è la portata volumetrica del flusso di aria e p si deriva dal teorema di
Bernoulli
p = ρv 2
(4.6)
Q = Sv
S è la sezione del tubo, v è la velocità del suono ( ≈ 331 m / s ) e ρ è la densità
dell’aria( ≈ 1.29 Kg / m 3 ); utilizzando tali valori otteniamo per l’impedenza
427 Pa ⋅ s
RI ≅ (4.7)
S m3
assumendo che il tubicino sia di forma cilindrica si ottiene che il raggio è legato
all'impedenza dalla relazione

427
r=
π RI
Assumendo che l’impedenza sia uguale a quella del timpano si ottiene per r un
valore ottimizzato intorno ai 4 mm. Sebbene tale valore ottimizzi l’accordo tra le
impedenze, determina un volume troppo grande per l’intero sistema (se si assume ad
esempio una lunghezza del tubo di 0.3m), per cui un ragionevole valore
compromissorio potrebbe essere 3 mm.
247

Abbiamo sin qui discusso alcuni elementi che dimostrano come si possano integrare
nozioni di fisica, fisiologia e di tecnica acustica. Vedremo nei prossimi paragrafi
ulteriori esempi tesi a chiarire l’importanza di questa commistione.

5.  Cenni alla fisiologia del sistema vocale 

Abbiamo fino ad ora discusso di come il nostro sistema uditivo sia in grado di
recepire i suoni provenienti dall’esterno, ma non abbiamo detto alcunché sui
meccanismi fisiologici che determinano la produzione dei suoni che articolano il
nostro linguaggio.
I suoni che permettono di articolare le parole sono prodotti tramite la modulazione
del flusso di aria uscente dai polmoni attraverso la trachea e le cavità orali; si veda la
Figura (9.5.1). Il parlato può essere prodotto solo durante l’espirazione, secondo i
meccanismi qui di seguito descritti:
a) l’aria espirata passa attraverso le corde vocali (glottide),
b) il processo di modulazione viene azionato dai muscoli che controllano la
contrazione della glottide,
c) le cavità orali funzionano da risonatore per dare al suono la caratteristica
modulazione della voce,
d) la modulazione dei suoni viene prodotta dal cambiamento di volume delle
cavità risonanti.
Naso
Cavità
Ugola nasale
Cavità Cavità
faringea
Istmo orale
Code vocali palatino
Bocca
Condotto laringeo
cavità orale falsa
Trachea e bronchi
cavità orale vera
glottide
Volume
polmonare

Forza
Aria
muscolare
espirata
Fig. 9.5.1. Sistema vocale
248

Le vocali vengono pronunciate semplicemente cambiando il volume del risonatore, i


suoni sibilanti (s, f …) si ottengono aumentando l’attrito tra l’aria espirata attraverso
la lingua e/o le labbra. I suoni esplosivi (p, t …) vengono generati tramite un
improvviso aumento e diminuzione della pressione della cavità orale.
Nelle Figura 9.5.1 riportiamo uno schema semplificato dell' “apparato” preposto alla
produzione del linguaggio, il cui funzionamento può essere illustrato come segue:

i) la glottide, chiusa dalla forza esercitata dal muscolo preposto, tende a far
aumentare la pressione nella trachea sotto l’azione dell’aria emessa dai
polmoni; la pressione all’interno della trachea è di circa 600-2000 Pa,
ii) la pressione esercitata dall’interno apre la glottide, sicché si determina una
diminuzione della pressione all’interno della trachea,
iii) l’aria viene emessa attraverso l’apertura della glottide e la relativa velocità
può essere calcolata tramite la legge di Bernoulli, ovvero ( T = trachea,
G = glottide),
1 1
pT + ρvT2 = pG + ρvG2 (5.1)
2 2
iv) la diminuzione di pressione, determinata dall’esalazione di aria, determina
la chiusura della glottide
v) si determina pertanto una modulazione glottale dell’aria espirata, mentre la
modulazione più fine a quella delle corde vocali.

Le caratteristiche della voce sono determinate dal volume e dalla forma delle
cavità orali.

Si determini qual' è l’energia acustica necessaria per tenere una lezione di 60


minuti.
Terremo conto della sola energia acustica e non di quella spesa gesticolando,
camminando, scrivendo… né terremo conto del dispendio energetico cerebrale.
Assumendo che la frequenza media vocale sia all’incirca 1 kHz è possibile stimare
che la potenza impegnata dalle corde vocali è di circa 20 μW , da cui si ottiene (lo si
calcoli) E ≅ 72 mJ .

Si determini qual' è la forza esercitata sulle corde vocali.

La forza e la potenza sono legati dalla ben nota relazione P = Fv , assumendo per v
il valore della velocità del suono, dal dato precedente sulla potenza si ottiene , lo si
provi, F ≅ 6 ⋅ 10 −8 N .

Con questo esempio completiamo la nostra disamina sull' acustica del corpo umano;
torneremo nel seguito su alcuni aspetti degli argomenti qui trattati.
249
250

CAPITOLO X

OTTICA GEOMETRICA, LENTI E FISIOLOGIA DELL’OCCHIO UMANO

1.  Introduzione 

Questo Capitolo è dedicato ad una trattazione dei problemi di ottica e alle sue
implicazioni da un punto di vista fisiologico, utilizzando una formulazione basata sul
cosiddetto limite geometrico.
A rigore avremmo dovuto parlare dell’ottica geometrica dopo aver introdotto i
concetti fondamentali della propagazione delle onde elettromagnetiche e chiarito cosa
si intenda per spettro della radiazione elettromagnetica e come la luce visibile sia solo
quella piccola porzione dello spettro a cui l'occhio è sensibile15.
Una trattazione adeguata avrebbe dunque richiesto la derivazione delle equazioni che
regolano la propagazione delle onde elettromagnetiche e poi da queste dedurre il
relativo limite geometrico.
L’ottica geometrica è, entro certi limiti, formulabile prescindendo da quella
ondulatoria ed è infatti nata prima di questa. Ci concederemo, pertanto, la libertà di
introdurre i problemi relativi all’ottica geometrica e alla propagazione dei “raggi”
luminosi senza aver affrontato l’ottica fisica, che discuteremo, adeguatamente, nella
terza parte di queste lezioni. Utilizzeremo, ove necessario, i concetti prima acquisiti
relativi alla propagazione delle onde.
Vedremo in questo Capitolo come si possano affrontare le problematiche di
propagazione della luce e di come questa possa essere re-indirizzata tramite strumenti
ottici quali lenti o specchi e, come tutto ciò possa interessare la fisiologia dell’occhio.
Ci è sembrato non inopportuno aggiungere questo Capitolo subito dopo quello in cui
abbiamo trattato la fisiologia dell’orecchio, in modo che il Lettore possa avere un
quadro generale sui sistemi sensori del corpo.
Prima di entrare nello specifico, cerchiamo di chiarire cosa si intenda per ottica
geometrica.
E’ esperienza comune che la luce visibile, che è solo una porzione dello spettro
elettromagnetico (si veda il Capitolo XVI), può essere riflessa da uno specchio,
secondo quanto illustrato in Figura 10.1.1.
Un “raggio” incidente colpisce una superficie con un angolo di incidenza ϑi , rispetto
alla normale alla superficie riflettente, e ne emerge con un angolo uguale. inoltre il
raggio incidente, il raggio riflesso e la normale al punto di incidenza appartengono
allo stesso piano. Queste caratteristiche della riflessione di un raggio incidente
vengono definite leggi della riflessione "regolare".

15
Per spettro si intende il fatto che la radiazioni elettromagnetica si estende, come vedremo, a
seconda della lunghezza d’onda, dai raggi γ fino alle onde radio; i primi sono caratterizzati da
cortissime lunghezze d’onda mentre le seconde possono giungere fino ai chilometri.
251

Raggio incidente Raggio riflesso

θi =θ r

Superficie riflettente

Fig. 10.1.1. Riflessione di un raggio ottico.

Un “raggio” incidente colpisce una superficie con un angolo di incidenza ϑi , rispetto


alla normale alla superficie riflettente, e ne emerge con un angolo uguale. inoltre il
raggio incidente, il raggio riflesso e la normale al punto di incidenza appartengono
allo stesso piano. Queste caratteristiche della riflessione di un raggio incidente
vengono definite leggi della riflessione "regolare".
Esemplificando potremmo dire che il comportamento del raggio è simile a quello che
si avrebbe nell’urto elastico di una particella che incide su una parete rigida. Il
fenomeno appena descritto è ascrivibile a quelli tipici di ottica geometrica; non a caso
per la sua descrizione abbiamo utilizzato solo entità di natura geometrica, raggi
(ovvero linee rette) e angoli.

Consideriamo ora un caso in cui si possa mettere in evidenza un aspetto di carattere


ondulatorio. Con riferimento alla Figura 10.1.2 consideriamo un fronte d’onda piano
che si muova verso una fenditura, un fenomeno che spesso osserviamo quando
vediamo le onde marine che si presentano all’imboccatura di un porto (Fig.10.1.3).
Se l'onda piana investe una fenditura di dimensioni trasversali d molto maggiori della
sua lunghezza d'onda λ, al di là di essa, su uno schermo lontano si osserverà una
intensità luminosa concentrata di fronte alla fenditura corrispondente alla porzione di
onda piana che ha attraversato la fenditura: l'onda piana rimane tale, non si "accorge"
della fenditura, come illustrato nello schema (a) della figura 10.1.2.
Se invece l'onda piana investe una fenditura di dimensioni trasversali paragonabili
alla sua lunghezza d'onda, al di là di essa, su uno schermo lontano si osserverà una
distribuzione di intensità luminosa che non è solo concentrata di fronte alla fenditura
ma che si estende alternando zone di luce a zone di ombra, come se la luce si
"sparpagliasse" (fenomeno della diffrazione). Descriveremo più dettagliatamente
questo fenomeno nel paragrafo 8. Se, infine, d << λ (fenditura molto stretta rispetto
alla lunghezza d'onda dell'onda piana incidente) si ha luce "diffratta" ovunque come
se ci fosse un'unica sorgente di onde sferiche, tale effetto è illustrato nello schema (b)
della figura 10.1.2.
252

Onda piana Onda piana onda sferica


incidente incidente trasmessa
onda piana
trasmessa

d
d

Fronte d’onda (a) Fronte d’onda (b)


Fig. 10.1.2. Onda piana incidente su una fenditura: a) propagazione dell' onda piana
nel caso d >>λ , b) diffrazione in onde sferiche nel limite d<<λ.

Fig. 10.1.3. Fenomeno della diffrazione osservato nel caso di onde marine
all’imboccatura di un porto

Abbiamo fin qui messo in evidenza un effetto tipico di diffrazione che si manifesta
quando le dimensioni degli oggetti, con cui l’onda interagisce, sono comparabili con
la sua lunghezza d’onda.
253

Il discorso prima fatto è estremamente qualitativo e non vorremmo desse adito a


incomprensioni. Invitiamo pertanto il lettore ad osservare con attenzione la figura
10.1.4 dove vengono mostrati fenomeni di diffrazione (fenditura larga o stretta) con
l’inclusione degli effetti di bordo. La minore o maggiore opacità indica l’intensità
dell’onda diffratta.

Onda piana Onda piana


incidente incidente

(a) (b)

onda piana onda sferica


trasmessa trasmessa

Fig. 10.1.4. a) Diffrazione da una fenditura larga rispetto alla lunghezza d’onda e
inclusione degli effetti di bordo
b) Diffrazione da una fenditura stretta rispetto alla lunghezza d’onda e
inclusione degli effetti di bordo

Il lettore provi inoltre ad immaginare gli effetti diffrattivi prodotti da un ostacolo


intercettato da un’onda.
Diremo che un fenomeno di propagazione luminosa può essere trattato nell’ambito
dell’ottica geometrica quando gli effetti ascrivibili alla sua lunghezza d’onda sono del
tutto trascurabili. Per rendere meno qualitativo tale discorso notiamo che la lunghezza
d’onda della luce visibile si estende da 0.4μm a 0.76μm; è dunque evidente che, nel
caso di lenti e specchi macroscopici, sarà estremamente difficile osservare effetti
diffrattivi. Accenneremo ad effetti diffrattivi nella fisiologia oculare quando
parleremo dei limiti del potere risolutivo dell’occhio.

2.  Specchi 

Abbiamo già parlato delle leggi della riflessione in maniera alquanto grossolana. E’
opportuno, prima di procedere, dare una definizione corretta di raggio luminoso, che
va inteso come una “linea geometrica” perpendicolare al fronte d’onda della
radiazione incidente, come è illustrato in Figura 10.2.1. In termini più tecnici diremo
che nella riflessione speculare l’angolo di incidenza è uguale a quello di riflessione.
254

Raggio riflesso

θr
θi =θr
θi
Raggio incidente

Onda piana
Fronte d’onda
incidente

Fig. 10.2.1. Riflessione di un' onda piana su una superficie perfettamente


riflettente; relazione geometrica tra fronte d’onda e raggio ottico.

Diremo specchio piano uno specchio come in Figura 10.2.2.a in cui si forma una
immagine (in questo caso virtuale) dritta e della stessa dimensione dell’oggetto
riflesso, alla stessa distanza dallo specchio ma da parte opposta.
Costruzione dell'immagine significa, dato un punto oggetto S, trovare il punto
immagine S'. Ovvero un fascio omocentrico in S viene "trasformato" in un fascio,
reale o virtuale, omocentrico in S' (Figura 10.2.2.b)

( a) ( b)
S S'

Fig. 10.2.2. Costruzione dell’immagine virtuale generata da uno specchio piano.


255

L’esempio che segue chiarisce meglio quanto espresso prima in termini qualitativi

A che altezza minima deve essere posto uno specchio e quanto deve essere lungo
per permette ad una persona alta 1.8 m di vedere completamente riflessa la sua
immagine, assumendo che gli occhi siano a 1.7 m da terra (Figura 10.2.3).

h2
θr = θi l

h1 θr
θi
d

L
Fig. 10.2.3. Costruzione dell’immagine virtuale generata da uno specchio piano.

d h h h
Dalle proprietà dei triangoli simili si ha = 1 ⇒ d = 1 , inoltre l + d = h1 + 2 ,da
L 2L 2 2
cui segue che, se d= 85 cm e la dimensione dello specchio è la metà dell’altezza
della persona, l= 90 cm, indipendentemente dalla distanza dallo specchio, l’immagine
sarà sempre riflessa per intero.

Sebbene formulata in semplicissimi termini geometrici, la legge della riflessione


ottica nasconde un significato fisico estremamente profondo, legato ad una strategia,
posta in atto dalla natura, per cui il fascio luminoso segue il minimo cammino
possibile.
Con riferimento alla figura 10.2.4, potremo scrivere che il cammino percorso dal
raggio luminoso è

L = a 2 + x 2 + b 2 + (d − x) 2
dL
la condizione di minima distanza percorsa si trova imponendo che = 0 , per cui
dx
dalla relazione precedente segue che
dL x d−x
= − =0
dx a2 + x2 b 2 + (d − x) 2
e poiché (lo si provi)
x d−x
sin(ϑi ) = , sin(ϑr ) =
a2 + x2 b 2 + (d − x) 2
otteniamo immediatamente la legge della riflessione ottica: θi=θr .
256

A
B
a θi θr
b

x d-x
d
Fig. 10.2.4. minimizzazione del cammino ottico tra A e B.

La legge della riflessione ottica si applica anche a superfici non piane. Le proprietà
delle lenti e degli specchi non piani che hanno permesso la realizzazione di tutti i
dispositivi ottici che oggi utilizziamo, dagli occhiali ai binocoli, dai microscopi ottici
ai grandi telescopi nonché la comprensione del funzionamento dell’occhio umano, si
basano su questa semplice legge e sulla legge della rifrazione di cui parleremo nel
prossimo paragrafo. La Figura 10.2.5 illustra la riflessione dei raggi luminosi su uno
specchio sferico concavo. I raggi che incidono parallelamente all’asse ottico, se
parassiali, convergono, dopo la riflessione, su un unico punto detto fuoco dello
specchio sferico, situato a R/2 rispetto allo specchio (si veda la Figura per l’ovvia
dimostrazione).
Per raggi parassiali si intendono raggi ottici paralleli e vicini all’asse ottico dello
specchio, ovvero tali che la distanza dall’asse sia molto inferiore al raggio di
d 1
curvatura dello specchio. Ad esempio ≤ può essere considerata una buona
R 10
approssimazione di parassialità.

d 1

R 10

θi
d θr

f = R/2
C F
R
Fig. 10.2.5. Proprietà ottiche dello specchio sferico.

Nella Figura 10.2.6 viene mostrato uno specchio sferico convesso; in tal caso il fuoco
è situato dalla parte opposta alla stessa distanza R/2 (lo si provi).
257

θr R
θi

θr C
θi F

Fig. 10.2.6. Specchio sferico convesso.

Vediamo ora come si formano le immagini riflesse da specchi sferici.


La Figura 10.2.7 mostra un esempio di come si costruisca geometricamente
l’immagine di un oggetto posto ad una distanza p > R dallo specchio. Secondo
quanto mostrato, l’immagine si formerà ad una distanza q e risulterà capovolta e
rimpicciolita.
E’ sufficiente tracciare due raggi (in rosso nella figura) dalla sommità dell’oggetto; il
primo raggio, parallelo all’asse ottico, dopo la riflessione passa per il fuoco dello
specchio, il secondo raggio, tracciato sulla congiungente il punto H ed il fuoco F,
dopo la riflessione risulterà parallelo all’asse ottico. Il punto di intersezione tra i due
raggi riflessi corrisponde alla sommità dell’immagine H’. Per completezza abbiamo
anche tracciato il raggio che passa per H ed il centro C (in blu nella figura). Tale
raggio viene semplicemente deflesso di 180°, ovvero mantiene la stessa direzione e
verso opposto, dopo essere stato riflesso dalla superficie dello specchio e intercetta
gli altri due raggi nel punto H’. I punti P e Q, posti rispettivamente alla distanza p e q
da O sono detti punti coniugati.

1 1 1 Immagine reale
+ = q capovolta e più
p q f piccola rispetto
H
all'oggetto.
Q F O
P
C H'

f
p
Fig. 10.2.7. Costruzione geometrica dell’immagine riflessa da uno
specchio sferico concavo.
258

Consideriamo, con riferimento alla Figura 10.2.8, un oggetto di altezza h posto alla
R
distanza < p < R , ovvero posto tra il centro ed il fuoco f ; si consideri un raggio
2
che partendo dal vertice O, parallelamente all’asse dello specchio, viene riflesso nel
fuoco, un altro sempre uscente da O passa per il fuoco e viene pertanto riflesso
parallelamente all’asse; il punto di incontro O’ tra i due raggi riflessi individuano
l’immagine dell’oggetto di altezza h’ che risulta essere capovolta e ingrandita.

1 1 1 Immagine reale
+ = p capovolta e più
p q f
O grande rispetto
h all'oggetto.

h’ C F
O'
f
q
Fig. 10.2.8. Specchio sferico concavo: sorgente tra il centro di curvatura e il fuoco.

In Figura 10.2.9 viene mostrata una situazione analoga in cui l’oggetto è posto tra il
fuoco e la superficie dello specchio, il lettore non avrà difficoltà a dimostrare che, in
questo caso, l’immagine è virtuale e si forma dietro lo specchio.

Immagine virtuale
1 1 1 q dritta e più grande
+ =
p q f O' rispetto all'oggetto.

C p
F

f
Fig. 10.2.9. Specchio sferico concavo: sorgente tra il fuoco e la superficie riflettente.
.
Con riferimento alla figura 10.2.10, il lettore dimostri che la distanza p
dell’oggetto e dell’immagine q dallo specchio sono legate dalla seguente
equazione, detta dei punti coniugati
1 1 2 1
+ = = (2.1)
p q R f
259

e che l’ingrandimento dell’immagine è dato da

q
M = (2.2).
p

R
q
H
U
h F
Q h δ
P O
C
h’ H’

f
p
Fig. 10.2.10. Costruzione geometrica per la dimostrazione dell’equazione
dei punti coniugati.

Dalla similitudine dei due triangoli PHC e CQH’, segue


h h′ h′ R − q
= → = (2.3)
p−R R−q h p−R
mentre dalla similitudine dei due triangoli OFU e FH’Q, segue
h h′
= (2.4)
f −δ q − f
Poiché stiamo trattando raggi parassiali, ovvero prossimi all’asse, potremo assumere
δ trascurabile rispetto alla distanza focale e dunque riscrivere la (2.4) nel seguente
modo
h′ q − f q
≅ = −1 (2.5)
h f f
Che sostituita nella (2.3) consente di ricavare l’equazione dei punti coniugati (2.1)
R
Si noti che la (2.1) è stata derivata per specchi concavi e con l’assunzione che p > ,
2
la formula (2.1) è valida in generale con la convenzione che la distanza focale f per
gli specchi convessi sia negativa e che le distanze al di là dello specchio siano anche
negative.
Nel caso degli specchi convessi , mostrato in Figura 10.2.11 l’immagine si forma
sempre dietro lo specchio ed è dritta e rimpicciolita.
260

Immagine virtuale
dritta e più piccola
rispetto all'oggetto.

F C

Fig. 10.2.11. Formazione dell’immagine negli specchi sferici convessi.

 
3.  La rifrazione ottica 

Abbiamo prima parlato di riflessione ottica e ne abbiamo apprezzato le conseguenze,


discuteremo ora il fenomeno della rifrazione che è anche esso ricorrente
nell’esperienza quotidiana.
In Figura 10.3.1 mostriamo un raggio luminoso che passando tra due “mezzi” diversi
(ad esempio aria e acqua) subisce una riflessione e una rifrazione, ovvero parte del
fascio viene trasmesso da un mezzo ad un altro e non totalmente riflesso. Gli angoli
di incidenza ϑi e rifrazione ϑt (dove l’indice t sta per “trasmesso”) sono diversi tra
loro e specificheremo nel seguito come siano legati.
Da un punto di vista puramente fenomenologico notiamo che se il raggio passa da un
mezzo quale l’aria all’acqua il raggio trasmesso (o rifratto) assume, rispetto alla
normale alla superficie, un angolo minore di quello di incidenza. Viceversa se il
raggio emerge dall’acqua formerà un angolo maggiore. Possiamo eseguire la stessa
esperienza con differenti mezzi di trasmissione esempio olio-acqua, vetro-aria … ma
il fenomeno rimane, nella sostanza, sempre lo stesso con deflessioni angolari più o
meno accentuate a seconda dei mezzi utilizzati.

n1 n2 n2 > n1

θr
θt
θi

Fig. 10.3.1 Rifrazione ottica


Torneremo in seguito su questo aspetto del problema ma per il momento
accontentiamoci di concludere quanto segue: il fenomeno della rifrazione ottica sarà
261

caratterizzato da una quantità intrinseca che contraddistingue i mezzi di separazione e


che indicheremo con le lettere n, di modo tale che vale la seguente legge di
“conservazione”, detta legge di Snell-Cartesio
ni sin (ϑi ) = nt sin (ϑt ) (3.1)
Inoltre, come per la riflessione ottica, il raggio incidente, quello riflesso e la normale
al punto di incidenza appartengono allo stesso piano.
In realtà l' indice di rifrazione n di una sostanza dipende, oltre che dalla natura del
mezzo considerato, anche dal "colore" ovvero dalla frequenza della luce incidente. Il
fenomeno per cui, a parità di angolo di incidenza ϑi , si hanno diversi angoli di
rifrazione ϑt a seconda del colore, si chiama "dispersione della luce". E', ad esempio,
ciò che facilmente si osserva in un prisma colpito dalla luce bianca che è una
combinazione dei vari colori; è la causa del formarsi dell'arcobaleno per la
dispersione della luce che attraversa goccioline d'acqua in sospensione nell'aria.
la relazione (3.1) rende conto, da un punto di vista matematico, di quello che abbiamo
discusso precedentemente e implica che, nel passaggio da un mezzo con indice di
rifrazione minore ad uno con indice maggiore, si abbia che l’angolo di rifrazione sia
minore dell’angolo di incidenza e viceversa, ovvero

ni < nt ⇒ ϑi > ϑt ,
(3.2).
ni > nt ⇒ ϑi < ϑt

Nel caso dell’aria l’indice di rifrazione è circa 1.0003 mentre per l’acqua si ha 1.33,
per il benzene 1.5 e così via. E’ dunque evidente che l’indice di rifrazione sarà
dipendente dal tipo di materiale che costituisce il mezzo in cui il raggio si propaga.
Se il mezzo è il vuoto, in cui si ha totale assenza di materia avremo un indice di
rifrazione pari all’unità. L’aria può, con buona approssimazione, essere considerato
una sorta di “vuoto” per quanto concerne la propagazione di fasci luminosi.
Cerchiamo ora di capire come si possa tradurre la formula (3.1) in un risultato di
evidenza immediata da un punto di vista fisico.
Se noi guardiamo dall’alto il fondo di una piscina, questa ci appare meno profonda di
quella che realmente è.
Questo fatto è una conseguenza del fenomeno della rifrazione e il seguente esempio
serve a chiarire le idee.

Con riferimento alla Figura 10.3.2 un oggetto è situato alla profondità di 10 m


sul fondo di una piscina; se si osserva l’oggetto dall’alto qual' è la sua profondità
apparente?

Per risolvere il quesito bisogna ragionare come segue:

a) il raggio proveniente dall’oggetto incide sulla superficie con un certo angolo e


viene rifratto con un angolo maggiore;
262

b) un osservatore vedrà l’oggetto sotto l’angolo di rifrazione, per cui


prolungando il raggio si determinerà la posizione apparente dell’oggetto
come indicato in Figura 10.3.2.

Avremo dunque (lo si provi)


b b tg (ϑi )
= tg (ϑi ), = tg (ϑt ) → d ′ = d ,
d d′ tg (ϑt )
sin (ϑi ) cos(ϑt ) d (3.3)
d′ = d ≅
sin (ϑ t ) cos(ϑi ) n
dove n è l'indice di rifrazione dell'acqua e abbiamo assunto uguale a 1 l'indice di
rifrazione dell'aria.
Dalla relazione precedente si ottiene una profondità apparente di circa 0.67m.
Il motivo per cui possiamo trascurare i coseni nella equazione (3.3) è dovuto al fatto
che il quesito richiede che l’osservazione venga fatta dall’alto, quasi lungo la
verticale, quindi per angoli molto piccoli per i quali il coseno è circa 1.
θt
naria < nacqua
naria 1

d’
d nacqua 1.33
θi

b
Fig. 10.3.2. Profondità apparente di un oggetto immerso in acqua.

A rigore si dovrebbe avere

d 1 − [n ⋅ sin(ϑi )]
2

d′ = (3.4)
n 1 − [sin(ϑi )]2
che non ci permetterebbe una determinazione univoca visto che dipende dall’angolo
di osservazione.
Consideriamo ora un ulteriore esempio che ci permetterà di cominciare ad intuire
quali siano le basi teoriche della legge di Snell. Nella Figura 10.3.3 abbiamo riportato
due mezzi in cui si propaga il fascio luminoso e faremo l’assunzione che nei due
mezzi le velocità di propagazione siano diverse e inversamente proporzionali
all’indice di rifrazione ; più in generale potremo scrivere
263

c
v= (3.6)
n
dove c = 2.998 ⋅ 108 m / s è la velocità della luce nel vuoto16. Torneremo verso la fine
di queste lezioni sulle ragioni profonde alla base di questa ultima relazione.
La legge di Snell potrà dunque essere riformulata come
vi vt
= = v* (3.5)
sin(ϑi ) sin(ϑt )
la cui interpretazione geometrica viene riportata nella Figura medesima e che da un
punto di vista fisico può essere intesa come segue:

n1 n2 n1 n2
n2 > n1 n2 > n1
v*
Β*
Τ=0 Τ= t
v*
vi Β
0 θt 0 vt θt
Β vt
θi θi vi
Α
Α
Α*

v*
Α*

Fig. 10.3.3 Interpretazione geometrica della legge di Snell.

i) definiamo lungo la linea di separazione dei due mezzi la velocità v*, le cui
proiezioni lungo le direzioni dei fasci incidenti e rifratto sono proprio vi , vt ;
ii) prendiamo ora un punto A sul raggio incidente a cui corrisponderà un punto
immagine A* nella stessa direzione di v*, quando il raggio incide sulla
superficie di separazione A si muove verso O con velocità v1 mentre A* si
muove verso O con velocità v* ;
iii) nello stesso tempo un punto B si allontana da O con velocità vt mentre il
punto immagine B* si sposta con la stessa velocità di A* ;

16
Nella teoria elettromagnetica della luce si definisce l'indice di rifrazione n come rapporto fra la
velocità della luce nel vuoto c e quella nel mezzo, cioè n = c . Il simbolo c veniva un tempo
v
utilizzato per indicare genericamente una velocità (celeritas in latino); essendo la velocità della luce
nel vuoto un limite insuperabile, è rimasto l’uso di indicarla con la lettera c.
264

iv) dopo un certo tempo Δt avremo che i punti immagine avranno percorso una
distanza A*O=OB* mentre i punti reali una distanza AO ≠ OB .

La strategia seguita dal raggio luminoso è quella di aver percorso il tratto AO+OB nel
tempo minimo, ovvero come se si fosse mosso lungo il segmento A*B* a velocità
costante.
Vedremo nella seconda parte di queste lezioni come il precedente ragionamento, un
po’ artificioso ma efficace, possa essere sostituita dal cosiddetto principio di
Huygens-Fresnel che ci permetterà di inquadrare meglio i fenomeni precedenti.
Nell’esempio che segue dimostreremo come la legge di Snell possa essere spiegata
utilizzando una procedura analoga a quella utilizzata in precedenza per derivare la
legge della riflessione.
Una persona deve andare dal punto A al punto B della figura 10.3.4. In un punto
distante a dal punto di partenza deve cambiare mezzo di locomozione. Nel primo
tratto si muoverà in macchina ad una velocità v1 = 40 m / s e nel secondo tratto in
bicicletta a v2 = 10 m / s . Si dimostri che tale tragitto sarà percorso nel minor
tempo se l’uomo scende dall’automobile in un punto in modo tale che
v1 sin(ϑ1 )
= (3.7).
v 2 sin(ϑ 2 )
Si discuta la rilevanza del problema con quanto illustrato prima a proposito
della rifrazione.

b Β
v1 > v2
0 θ2
v2
θ1 d
x
v1
Α
a
Fig. 10.3.4 Costruzione geometrica del problema della
minimizzazione del tragitto percorso.
Il tempo impiegato per percorrere il tratto descritto in figura 10.3.4 è
a2 + x2 b 2 + (d − x) 2
t= +
v1 v2
da cui segue
dt x d−x
=0⇒ −
dx v1 a 2 + x 2 v 2 b 2 + (d − x) 2
ovvero (si spieghi perché) quanto affermato nell’equazione (3.7). La rilevanza del
presente risultato per l’ottica è ovvia ed evidente, purché si assuma che la velocità di
propagazione nel mezzo sia inversamente proporzionale all’indice di rifrazione.
265

Prima di concludere questo paragrafo è opportuno discutere altre due questioni


importanti. Abbiamo prima visto che la luce visibile al pari delle onde sonore è
caratterizzata da una lunghezza d’onda e da una frequenza e che entrambe sono legate
alla velocità di propagazione dalla relazione λ f = v. Abbiamo visto che le onde
elettromagnetiche e dunque anche quelle dello spettro visibile, al contrario delle onde
sonore, si possono propagare anche in assenza di un mezzo; quando la luce si propaga
nel vuoto la relazione precedente diventa λ0 f0 = c, nel caso di propagazione in un
mezzo avremo invece la relazione
c
λf = (3.8)
n
abbiamo ora due possibilità: o la frequenza o la lunghezza d’onda si sono ridotte di
un fattore n.
Per dirimere la questione consideriamo, come illustrato in Figura 10.3.5 un treno
d’onda luminoso che passi dall’aria in acqua, il numero di creste d’onda che entra in
acqua è uguale a quello che lascia la superficie, per cui la frequenza è la stessa ma la
velocità di propagazione diminuisce, dunque cambierà la lunghezza d’onda,; pertanto
in un mezzo la lunghezza di un’onda luminosa è ridotta di una quantità pari all’indice
di rifrazione del mezzo.

Onda piana
λ incidente

λ'

Fig. 10.3.5. Treno d’onda che passa dall’aria all’acqua.

Torniamo ora alla legge di Snell, con riferimento alla figura 10.3.6 consideriamo i
raggi luminosi provenienti da un oggetto sul fondo della vasca: è evidente che
avremo trasmissione da acqua ad aria finché l'angolo di trasmissione non raggiunge il
π
valore massimo ϑt = , che corrisponde ad un angolo di incidenza massimo, detto
2
angolo critico, tale che
nt
sin (ϑ c ) = (3.9)
ni
dove ni è l'indice di rifrazione dell'acqua e nt quello dell'aria.
266

Come mostrato in Figura 10.3.6 un piccolo corpo luminoso, sul fondo di una
vasca colma d’acqua profonda 2 m, emette luce verso l’alto in ogni direzione. Si
determini il raggio R del cerchio di luce, che si forma sulla superficie dell’acqua.

R nt

d
θc θc ni

Fig. 10.3.6. Cerchio di luce prodotto da un oggetto puntiforme immerso in acqua.


L’angolo massimo del cono di luce è formato proprio dall’angolo limite, per cui
avremo (lo si provi):
nt
R = tg (ϑc )d = d (3.10)
n i − nt
2 2

4
poiché ni = e nt ≅ 1 , si ottiene R ≅ 2.26 m .
3
Si discuta la rilevanza degli effetti di gradiente termico degli strati atmosferici
per il fenomeno dei miraggi.
Quando un raggio luminoso attraversa strati di aria con indice di rifrazione diversi a
quote diverse, la sua traiettoria si può approssimare ad una linea curva. L’indice di
rifrazione dell’aria varia in presenza di un gradiente termico che produce una
variazione di densità. Ad esempio, gli strati di aria in prossimità della sabbia del
deserto o all’asfalto sono più caldi e quindi più rarefatti degli strati d’aria superiori;
se il gradiente termico è elevato si possono osservare miraggi del tipo mostrato in
Figura 10.3.7.

Temperatura decrescente
verso l’alto Raggio diretto osservatore

Raggio curvato

Direzione di provenienza
apparente del raggio curvato
Fig. 10.3.7. Miraggio dovuto al gradiente termico in prossimità dell’asfalto caldo.
267

4.  Le lenti 

Abbiamo parlato nei paragrafi introduttivi di specchi e delle loro proprietà di


focheggiamento. Vedremo ora come analoghe considerazioni possano estendersi alle
lenti ed in particolare a quelle che diremo lenti sottili.
Possiamo definire una lente un mezzo con un determinato indice di rifrazione
racchiuso tra due superfici, normalmente sferiche.
Per comprendere cosa avviene quando un raggio luminoso attraversa una lente
consideriamo, per prima cosa, la rifrazione in un diottro sferico, ovvero il passaggio
della luce attraverso la superficie di separazione di due mezzi con indice di rifrazione
differenti, quando la superficie di separazione è sferica. Tracciamo un raggio
proveniente da un punto posto sull'asse ottico ad una distanza p dal diottro e che
forma un angolo θi con la normale alla superficie, come mostrato in figura 10.4.1;

n2 > n1
n1
θi
n2
P h θt Q
β
α δ γ
Asse ottico R
p q

α+ β = θ i h h h
= sin(β ) = tg(α ) = tg( γ )
β− γ = θ t R p+δ q-δ

Fig. 10.4.1. Diottro sferico


assumendo n2 > n1 il raggio viene rifratto con un angolo θt <θi e intercetterà l'asse
ottico ad una distanza q dalla superficie. Determiniamo la relazione che intercorre
tra p e q.
In approssimazione di raggi parassiali, secondo la definizione data nel paragrafo 2, si
avrà
n1 sin(ϑt ) ϑt
= ≈ (4.1)
n2 sin(ϑi ) ϑi
Utilizzando le relazioni geometriche indicate nella figura, in approssimazione
parassiale , possiamo scrivere:
h h h
δ →0 , β ≈ , α≈ , γ ≈ (4.2)
R p q
inoltre
268

α + β = ϑi , β − γ = ϑt (4.3)
Facendo il rapporto tra le due relazioni precedenti e tenendo conto delle (4.1),
otteniamo
β − γ ϑt n1
= ≈ → α n1 + γ n2 = β (n2 − n1 ) (4.4)
α + β ϑi n2
utilizzando le relazioni (4.2), ricaviamo,infine, la formula di Gauss per il diottro
sferico
n1 n2 n2 − n1
+ = (4.5)
p q R
Anche in questo caso i punti P e Q sono detti punti coniugati.

Il fuoco di una lente o, più in generale di un sistema ottico è quel punto oggetto
sull'asse ottico tale che, se vi posizioniamo una sorgente luminosa puntiforme,
"fuoco", restituisce un' immagine all'infinito, ovvero i raggi luminosi fuoriescono
paralleli; si parlerà in questo caso di primo fuoco. Viceversa i raggi paralleli
provenienti da una sorgente luminosa posta a distanza infinita dalla lente convergono
in un punto detto secondo fuoco. Corrispondentemente la distanza del primo fuoco
dal primo piano principale si chiama "prima distanza focale", analogamente per il
secondo fuoco. Se la lente è divergente i fuochi vengono individuati dal
prolungamento dei raggi luminosi sull'asse ottico e si parlerà di fuochi virtuali. Negli
specchi i due fuochi coincidono.

Nel diottro sferico i raggi paralleli provenienti da una sorgente posta a distanza
infinita, se n2 > n1, vengono deflessi in modo da convergere tutti "in prossimità" di un
punto che chiameremo, in conformità con quanto detto in precedenza, secondo
fuoco. Se siamo in approssimazione di raggi "parassiali" possiamo affermare i raggi
paralleli si incontrano tutti nel 2° fuoco. la figura 10.4.2 mostra come calcolare la
distanza del fuoco dal punto di intersezione tra la superficie del diottro e l'asse ottico.

⎡ sin (ϑi ) ⎤
f = R ⎢1 − cos(ϑi ) + ⎥ (4.6)
⎣ tg (ϑi − ϑt ) ⎦

In approssimazione parassiale possiamo scrivere

sin (ϑi ) n2 ϑi
cos(ϑi ,t ) ≈ 1 , sin (ϑi ,t ) ≈ ϑi ,t , = ≈
sin (ϑt ) n1 ϑt
1 − ϑi ⋅ ϑt 1 1 n2
f ≈ R ϑi ⋅ ≈R ≈R =R
ϑi − ϑt 1 − ϑt ϑi 1 − n1 n2 n2 − n1

in definitiva si ottiene
n2
f =R (4.7)
n2 − n1
269

n2 > n1
n1 θi

θ 'i n2
θt

Asse ottico R θ 't


θt 2° fuoco

θi

θi R
h θt θi−θt
h= R sin(θ i) θi 2° fuoco

δ =R(1- cos(θ i)) δ R cos(θ i)


R
f− δ = h cotg(θ i - θ t) f

Fig. 10.4.2. Determinazione del 2° fuoco nel diottro sferico.

Potevamo anche ottenere la (4.7) semplicemente utilizzando l'equazione dei punti


coniugati (4.5) mandando p a infinito.
In Figura 10.4.3 abbiamo riportato le possibili configurazioni delle due superfici di
una lente.

Piano- Convessa- Piano-


Biconvessa convessa concava Menisco concava Biconcava

Fig. 10.4.3. Possibili configurazioni delle due superfici di una lente

In figura 10.4.4 sono riportate le principali caratteristiche ottiche di una lente


biconvessa e di una lente biconcava.
a) la prima, che diremo lente convergente, più spessa al centro che ai bordi, fa
convergere (perché?) i raggi luminosi provenienti dall’infinito e paralleli al suo
asse ottico, nel fuoco reale,
270

b) la seconda, che diremo lente divergente, più sottile al centro che ai bordi, fa
divergere (perché?), da un fuoco virtuale, gli stessi raggi luminosi.

a) Lente biconvessa ( convergente).

Asse ottico

2° fuoco

R2 R1

b) Lente biconcava (divergente).


2° fuoco (virtuale)
Asse ottico

R2
R1
d
Fig. 10.4.4. Lente biconvessa e biconcava.
I piani principali di una lente sono individuati dai punti di intersezione dei
prolungamenti dei raggi provenienti dai fuochi con i prolungamenti dei raggi
all'infinito, paralleli all'asse ottico come illustrato in figura 10.4.5

d Piani d
Piani principali
principali

2° fuoco 1° fuoco
1° fuoco 2° fuoco
(virtuale) (virtuale)

f f' f
f'
Fig. 10.4.5. Piani principali di una lente spessa.
271

Il secondo fuoco o punto focale di una lente sottile, avente superfici curve, è il punto
F in cui convergono i raggi paralleli e prossimi all’asse centrale; una lente si dice
convergente se il fuoco è reale, divergente se esso è virtuale.

Nel seguito utilizzeremo la seguente convenzione (Cartesiana) dei segni:


1. I raggi ottici sono tracciati da sinistra a destra
2. Le distanze sono misurate rispetto ad una superficie di riferimento, quelle a
sinistra si assumono negative, quelle a destra positive
3. La distanza di un oggetto reale è negativa
4. La distanza di una immagine reale è positiva.
5. Le altezza al di sopra dell’asse ottico sono positive
6. Gli angoli misurate in senso orario rispetto all’asse ottico sono negativi

Quando una lente reale viene trattata come lente sottile si compie una
approssimazione, ovvero si considera trascurabile lo spessore della lente e si
considera che la deviazione dei raggi ottici avvenga in corrispondenza del piano a cui
viene idealmente ridotto lo spessore della lente come è mostrato in figura 10.4.6

Piani
principali

Asse ottico

f1 f2
f f'
1° fuoco R2 2° fuoco
R1
Fig. 10.4.6. Approssimazione di lente sottile.

Commentare la seguente affermazione: Per ogni lente sottile esistono due punti
focali.

Se l'indice di rifrazione dei mezzi a destra e a sinistra della lente sono uguali allora
f = f ′ . In tal caso, in analogia a quanto discusso nel caso degli specchi, la relazione
che lega la lunghezza focale f, la distanza p dell’oggetto dalla lente e la distanza q
dell’immagine dalla lente è
1 1 1
+ = (4.8)
p q f
e l’ingrandimento dell’immagine sarà dato da
272

q
M = (4.9)
p
dove la distanza focale è positiva o negativa a seconda che la lente sia convergente o
divergente, mentre le distanze dell’oggetto o dell’immagine sono positive o negative
a seconda se reali o virtuali. In generale, se f ≠ f ′ si avrà:
f f′
+ =1 (4.10)
p q

Da ora, salvo avviso contrario, considereremo sistemi ottici nei quali l'indice di
rifrazione dei mezzi a destra e a sinistra sono uguali, in tal modo f = f ′

Con riferimento al caso di lente convergente e di oggetti e immagini reali e alla


Figura 10.4.7 che mostra un triangolo rettangolo in cui p,q sono le proiezioni dei
cateti sull’ipotenusa d, si dimostri che la lunghezza focale può essere interpretata
h2
geometricamente come , dove h è l’altezza relativa all’ipotenusa.
d
N.B. Si tratta di una pura costruzione geometrica: i cateti del triangolo rettangolo
non hanno alcuna relazione con i raggi ottici che legano oggetto e relativa immagine

f h
oggetto
p q

Immagine
reale
d

Fig. 10.4.7. Costruzione del triangolo rettangolo di cui p e q sono le proiezioni


dei cateti sull’ipotenusa d.

Ovviamente ci riferiamo al caso di lente convergente e di oggetti e immagini reali.


p+q
Riscrivendo la prima parte dell’equazione (4.8) come e ricordando che dal
p⋅q
secondo teorema di Euclide (Figura 10.4.8) si ha che p ⋅ q = h , segue quanto
2

richiesto.
273

Come nel caso degli specchi (equazione (2.5)), anche l’ingrandimento di una
lente è dato da
q
M = −1 (4.11)
f

Se ne dia una interpretazione geometrica.

Assumeremo che si tratti di lenti convergenti con oggetti e immagini reali. In base a
quanto detto prima avremo
q⋅d q2
M = 2 −1 ⇒ M = 2
h h
la cui interpretazione geometrica deriva dal primo teorema di Euclide, secondo cui il
prodotto della proiezione di un cateto sull’ipotenusa e l’ipotenusa stessa è pari
all’area del quadrato costruito sul cateto stesso ed è illustrata nella Figura 10.4.8.

Si dimostri che
p
M −1 = −1 (4.12)
f
e se ne dia una interpretazione geometrica.

Si proceda come fatto per il precedente quesito.

qd = c2 = q2 + h2
I q2
M=
h2
c2 = q2 + h2
h pq= h2
h c h2
p q h
q
p
q II p q2
d

Fig. 10.4.8. Primo e secondo teorema di Euclide applicati all’ottica geometrica.

Si dimostri che

⎡ 2 ⎤
⎢ δ ⎛ δ ⎞
M= + ⎜⎜ ⎟⎟ − 1⎥ ,
⎢2 f ⎝ 2 f ⎠ ⎥ (4.13).
⎣ ⎦
δ = p−q
274

−1 δ
Si noti che M − M = .
f
L'immagine di un oggetto i cui raggi ottici attraversano una lente può essere
ricostruita per via geometrica, ed è sufficiente operare come segue:
1) spiccare dal vertice dell'oggetto un raggio parallelo all'asse ottico, che per
definizione intercetterà il 2° fuoco una volta attraversata la lente,
2) in approssimazione di lente sottile, tracciare un raggio che passa per il punto di
intersezione tra asse della lente e l'asse ottico, tale raggio non subisce deviazioni;
in alternativa:
3) tracciare il raggio che unisce il primo fuoco al vertice dell'oggetto, per definizione
tale raggio uscirà parallelo dalla lente.
Il punto di intersezione dei raggi uscenti corrisponderà al vertice dell' immagine.
Le figure successive, assieme ad alcuni esempi serviranno a chiarire quanto abbiamo
enunciato sia nel caso di lenti convergenti che di lenti divergenti nelle quali i fuochi
sono virtuali.

Un oggetto OO’ si trova di fronte ad una lente sottile convessa di distanza focale
pari a 12 cm e ad una distanza pari a 20 cm dalla lente; si determini la posizione
e l’ingrandimento della sua immagine.
La relativa costruzione geometrica è mostrata nella Figura 10.4.9, mentre da un punto
di vista analitico si ottiene
1 1 1
+ = ⇒ q = 30 cm , M = 1.5
q 20 12
Si noti che essendo l’oggetto posto ad una distanza maggiore da 1° fuoco della lente
l’immagine è reale.
p q
f f
oggetto

Immagine reale
Ingrandita
Fig. 10.4.9. Lente biconvessa (convergente): costruzione geometrica dell' immagine
per di un oggetto posto ad una distanza dalla lente tale che p>f.
275

Un oggetto OO’ si trova di fronte ad una lente convessa di distanza focale pari a
7.5 cm e alla distanza di 5 cm; si determinino la posizione e l’ingrandimento
dell’oggetto.

La costruzione geometrica è mostrata in Figura (10.4.10), mentre da un punto di vista


analitico si ha

1 1 1
+ = ⇒ q = −15 cm , M = 3
q 5 7.5

L’immagine è virtuale essendo l’oggetto posto tra il fuoco e la lente.

f f

Immagine virtuale oggetto


ingrandita
p
q
Fig. 10.4.10. Lente biconvessa (convergente) ): costruzione geometrica dell'
immagine per di un oggetto posto ad una distanza dalla lente tale che p<f .

Si dimostri che nel caso di lenti divergenti l’immagine è sempre virtuale.


(Figura 10.4.11).

Ricordando che la lunghezza focale di una lente divergente è negativa, dalla


equazione dei punti coniugati si ha

1 ⎛1 1 ⎞
= −⎜⎜ + ⎟⎟
q ⎝p f ⎠

da cui segue che la distanza dell’oggetto dalla lente è sempre negativa e dunque
l’immagine è virtuale.
276

f' f

Immagine
oggetto
virtuale
q
p
Fig. 10.4.11. Lente biconcava (divergente). costruzione geometrica dell' immagine
per di un oggetto posto ad una distanza dalla lente tale che p>f '.

Si dimostri che due lenti sottili poste a contatto sono equivalenti ad una lente
sottile la cui distanza focale è legata a quella delle singole lenti da

1 1 1
= + (4.14)
f f1 f 2
Per rispondere al quesito notiamo che possiamo considerare separatamente l’effetto
delle due lenti; considerando l’azione della prima lente si ottiene dalla equazione dei
punti coniugati
1 1 1
= −
q1 p f1
Il valore assoluto è stato introdotto perché si deve tener conto delle varie possibilità.
Nel caso di lente convergente con immagine reale la q1 potrà essere interpretata come
la posizione dell’oggetto rispetto alla lente 2 (si ricordi che una lente sottile ha due
punti focali) per cui si ha
1 1 1 1
+ − =
q2 p f1 f 2
da cui segue quanto affermato.
La potenza di una lente viene detta diottria, si misura in m-1, ed è definito
dall’inverso della sua distanza focale.
Determiniamo la lunghezza focale di una lente utilizzando i risultati ottenuti per il
diottro sferico. Le relazioni saranno ricavate in approssimazione parassiale
utilizzando considerazioni puramente geometriche. Per una trattazione più rigorosa si
può consultare la vastissima scelta di testi dedicati all' ottica e all' ottica geometrica.

Abbiamo detto che una lente può essere vista come una sequenza di tre mezzi con
indice di rifrazione differenti separati da due superfici generalmente sferiche di raggi
277

R1 e R2 ; consideriamo un raggio parallelo all'asse ottico e determiniamone il percorso


ottico seguendo la costruzione geometrica di figura 10.4.12
n2 > n1 n3 < n2
n1 n3
θi n2
γ = θ i -θ t
θt
α
h θi γ
d r
R2 R1
= R2 sin(α)
f1 h
( f1 - d ) tg(γ)

Fig. 10.4.12. Ricostruzione geometrica del percorso di un raggio parallelo all'asse


ottico che attraversa una lente biconvessa.

Possiamo osservare che la distanza h tra l'asse ottico e il punto di incidenza sulla
seconda superficie diottrica può essere ricavato da due differenti relazioni
h = R2 sin (α )
(4.15)
h ≈ ( f1 − d ) tg (γ )
dove f1 è il secondo fuoco del primo diottro, R2 il raggio di curvatura del secondo
diottro, d lo spessore della lente e γ = θ i − θ t . L'angolo α verrà definito tra breve.
Immaginiamo ora di ruotare l'asse ottico di γ in modo da risultare parallelo al raggio
incidente sul secondo diottro come in figura 10.4.13

n3 < n2
n3 α = θ'i -γ

n2 β = θ't -α
θ'i
θ't
γ' = θ't -θ'i
α β
b r
γ f
R2 a
γ'

f2
r'

Fig. 10.4.13. Percorso di un raggio parallelo al nuovo asse ottico che attraversa il
secondo diottro.
278

In tal modo possiamo definire il secondo fuoco f2 del secondo diottro sul nuovo asse
ottico. Inoltre sussistono le seguenti relazioni angolari:
α = θ i′ − γ , β = θ t′ − α , γ ′ = θ t′ − θ i′ (4.16)
Osserviamo dalla figura che
f + R2 + b = (R2 + f 2 )cos(γ )
a
b= (4.17)
tg (β )
a = (R2 + f 2 )sin (γ )
Le precedenti relazioni ci permettono di calcolare, in approssimazione parassiale, il
secondo fuoco della lente. In approssimazione parassiale possiamo scrivere:
cos (γ ) ≈ 1 , sin (γ ) ≈ γ , tg (β ) ≈ β (4.18)
Effettuando le opportune sostituzioni otteniamo
⎡ γ⎤ ⎡ γ ⎤ γ′
f ≈ (R2 + f 2 ) ⋅ ⎢1 − ⎥ − R2 = (R2 + f 2 ) ⋅ ⎢1 − ⎥ − R2 = ( R 2 + f 2 ) ⋅ −R (4.19)
⎣ β⎦ ⎣ γ ′+γ ⎦ γ +γ ′ 2
operiamo ora nel seguente modo:
γ′ γ′
θ i′
γ′ θ i′ θ i′
= = (4.20)
γ + γ ′ θ γ + θ ′ γ ′ θi γ + γ ′
i
θi i
θ i′ θ i′ θ i θ i′
dalla legge di Snell e dalle equazioni del diottro sferico abbiamo:
θ i n2 θ i′ n3 R1 n γ R2 n 2 γ′
≈ , ≈ , = 1− 1 ≈ , = −1 ≈ (4.21)
θ t n1 θ t′ n2 f1 n2 θ i f 2 n3 θ i′
inoltre l'equazione (4.15) implica
θ i′ f1 + R2 − d γ
R2 (θ i′ − γ ) ≈ ( f1 − d ) γ → ≈ (4.22)
θi R2 θi
Utilizzando le relazioni (4.21) e (4.22), dalla (4.20) otteniamo
γ′
γ′ θ i′ R 1 f 1 + R2 − d
= = 2 = (4.23)
γ + γ ′ θi γ γ ′ f 2 R2
+
R2 f 2 + f 1 + R2 − d
+
θ i′ θ i θ i′ f 1 + R2 − d f 2
Che, sostituita nella (4.19), dopo qualche semplificazione, da
f 2 f1 − f 2 d
f = (4.24)
f 2 + f 1 + R2 − d
In approssimazione di lente sottile d→0 si ottiene:
1 1 1 R 1 n2 1 1
= + + 2 → = + (4.25)
f f1 f 2 f 2 f1 f n3 f 1 f 2
esprimendo la (4.25) in termini dei raggi di curvatura e degli indici di rifrazione
otteniamo infine:
279

1 n2 − n1 1 n2 − n3 1
= + (4.26)
f n3 R1 n3 R 2
se n3 = n1 si ottiene la così detta equazione degli ottici:
1 n 1 1
= ( 2 − 1)( − ) (4.27)
f n1 r1 r2
dove r1,2 sono i raggi di curvatura delle due superfici esterne presi con il loro segno
relativo (Si veda la Figura 10.4.14).
Se la lente è nel vuoto o in aria, approssimando l'indice di rifrazione dell' aria a 1,
l'equazione (13) diventa
1 1 1
= ( n − 1)( − ) (4.15).
f r1 r2
dove n è l’indice di rifrazione del mezzo costituente la lente.

p q
f f
oggetto
r2

r1

Fig. 10.4.14. Costruzione geometrica per l'equazione degli ottici.

L'equazione degli ottici può essere ricavata più semplicemente considerando le


equazioni dei punti coniugati dei due diottri (4.5):
n1 n2 n2 − n1 n2 n3 n3 − n2
+ = , + =
p1 q1 r1 p2 q2 − r2

osserviamo che p2 = d − q1 , p2 ≈ −q1 per d → 0 ,


sommando tra loro le due equazioni in approssimazione di lente sottile otteniamo
l'equazione dei punti coniugati della lente da cui è facile ricavare la (4.26).

Le due superfici di una lente biconvessa hanno ciascuno un raggio di 20 cm; se


l’indice di rifrazione del vetro è 1.5 si calcoli la distanza focale in aria e in acqua
(indice di rifrazione 1.33).

Dalla relazione (4.15) si ha


280

1 1 1
= (1.5 − 1)( − ) ⇒ f = 20 cm,
f 20 (−20)
1 1.5 1 1 .
=( − 1)( − ) ⇒ f = 70.23 cm
f 1.33 20 (−20)

Si consideri un sistema ottico costituito da due lenti sottili aventi distanze focali
di +9 e –6 cm rispettivamente, poste a contatto, si calcoli la distanza focale
risultante e si specifichi la natura della lente.
(R. –18 cm, ed è pertanto una lente divergente)

Concludendo questo paragrafo non possiamo non accennare al fatto che tanto meno
sono soddisfatte le condizioni di parassialità, tanto più insorgono fenomeni che
creano delle imperfezioni della costruzione dell'immagine di un oggetto. Si parlerà in
tal caso di aberrazioni ottiche. Questi effetti impongono l'utilizzo di sistemi di
correzione. Un effetto di immediata comprensione lo abbiamo menzionato
introducendo le condizioni di parassialità: i raggi ottici provenienti da una sorgente
posta all'infinito che incidono sulla superficie ottica a distanze diverse dall'asse ottico
del sistema focalizzano in punti differenti rispetto al fuoco parassiale. Tale effetto
prende il nome di astigmatismo. Un altro tipo di aberrazione, detta aberrazione
sferica assiale si ha negli specchi sferici; anche in questo caso raggi non parassiali
provenienti da una sorgente posta a infinito non convergono tutti nello stesso fuoco.
Si può porre rimedio a questo tipo di aberrazione utilizzando specchi parabolici: in
una superficie parabolica, infatti, raggi paralleli all'asse ottico convergono tutti nello
stesso fuoco. Una analisi delle aberrazioni ottiche prescinde dagli intenti di questo
libro; per un' approfondimento dell' argomento si rimanda agli innumerevoli testi di
ottica esistenti.

5.  La fisiologia dell’occhio e l’ottica geometrica 

In questo paragrafo e nel successivo vedremo come le nozioni testé apprese possano
essere utilizzate per comprendere alcuni dei meccanismi elementari alla base della
visione.
In Figura 10.5.1 abbiamo riportato schematicamente come è fatto un occhio umano,
che può essere considerato come un sistema di lenti aggiustabile con due elementi
focheggianti ed un elemento di ricezione della luce.
L’anatomia dell’occhio è quella riportata in figura; possiamo schematicamente
distinguere i seguenti elementi principali
a) la tunica esterna o prima membrana che comprende:
o la sclerotica, dura e opaca di colore bianco, costituisce i 5/6 del guscio
oculare;
281

o la cornea, trasparente, è la parte centrale della tunica esterna; oltre ad avere


funzioni di protezione, dal punto di vista ottico, può essere assimilata ad un
menisco;
b) la tunica vasculosa o uvea che comprende:
o la coroide che è disposta sotto la sclerotica ed è ricca di vasi sanguigni
che irrorano la membrana più interna: la retina;
o l’iride: sottile disco colorato che presenta un foro al centro, la pupilla.
Funge da diaframma, il diametro della pupilla può variare dai 2 mm agli
8 mm a seconda dell'illuminazione;
o il corpo ciliare: agisce sul cristallino ed è costituito dal muscolo ciliare e
da particolari strutture dette processi ciliari;

c) il cristallino, estremamente trasparente e molto elastico, è formato da un


nucleo centrale con indice di rifrazione 1.406, circondato da due strati
concentrici; il più interno è la zona corticale, il più esterno la capsula con indici
di rifrazione differenti: 1.376 per la capsula, 1.375 per la zona corticale; nel
suo complesso è una lente biconvessa con raggi di curvatura variabili. Il
cristallino è collegato al muscolo ciliare per mezzo di una sostanza fibrosa
detta zonula;

d) la retina, che è il ricettore della luce


e) la fovea centralis, che è la parte sensibile del sistema di ricezione
f) il nervo ottico adibito al trasporto delle informazioni.

Fig. 10.5.1 Struttura anatomica dell’occhio umano.

La parte interna dell’occhio è riempita con materiale liquido, nella prima camera c’è
l’umor acqueo, nella seconda l’umor vitreo. Essi hanno indici di rifrazione molto
simili: 1.336 per l' umor acqueo, 1.337 per l'umor vitreo. Entrambi i liquidi hanno
dunque indici di rifrazione prossimi a quello dell’acqua che è all’incirca 1.33 come
già abbiamo avuto modo di vedere.
282

La cornea (Figura10.5.1) costituisce il principale elemento focheggiante del sistema


oculare; da un punto di vista ottico è assimilabile ad un menisco con superfici
diottriche aventi il medesimo raggio di curvatura. E’ costituita da una membrana
trasparente con un raggio di curvatura R ≅ 7.8 mm ed uno spessore di circa 0.7mm,
con indice di rifrazione pari a 1.376. Se il mezzo esterno è l’aria, n ≈ 1 , chiamando
nC l' indice di rifrazione della cornea e ni =1.336 l'indice di rifrazione dell'interfaccia
interna, possiamo ricavare la distanza focale della cornea dall’equazione (13)
discussa nel paragrafo precedente
ni
f = ⋅ R ≅ 25 mm (5.1)
2 nC − ni − 1
Il valore della lunghezza focale coincide essenzialmente con la lunghezza dell’occhio
(si veda la Figura 10.5.2).
E’ interessante notare che in acqua la lunghezza focale diventa all’incirca 121 mm (si
sostituisca 1.33 al posto di 1 per l’indice di rifrazione esterno); per tale motivo
sott’acqua abbiamo difficoltà di messa a fuoco.

Fig. 10.5.2. Ruolo del cristallino nel focheggiamento dell’occhio


1
Il potere diottrico associato alla cornea è dunque FC = ≈ 40 Diottrie e la sua
fC
focale è fissa. Per tale motivo la cornea da sola non potrebbe garantire la messa a
fuoco di oggetti vicini o lontani. In termini leggermente più tecnici potremo dire che
la cornea non costituisce, di per sé, un sistema aggiustabile. La possibilità di messa a
fuoco è garantita dal cristallino, mostrato con maggior dettaglio in Figura 10.5.2,
riconducibile da un punto di vista ottico, ad una lente sottile biconvessa con due raggi
di curvatura diversi, i quali possono essere “aggiustati” per assicurare una corretta
messa a fuoco a seconda della distanza dall’oggetto che si guarda. Assumeremo
come indice di rifrazione del cristallino quello del nucleo, pari a 1.406, trascurando
dunque la presenza della capsula e della zona corticale che danno solo piccole
correzioni al cammino ottico dei raggi entranti.
In base all' equazione degli ottici scriveremo il potere diottrico del cristallino come
1 n 1 1
Fc = = ( c − 1)( − ) (5.2)
fc ne Re Ri
283

dove nc=1.406 e con ne intenderemo l'indice di rifrazione dell' umor vitro o dell' umor
acqueo indifferentemente, essendo molto simili. Tenuto conto che
⎧5.3 mm V
Re = ⎨ ,
⎩ 10 mm L
⎧ − 5.3 mm V
Ri = ⎨
⎩− 6.0 mm L
otteniamo i seguenti valori per visione da vicino (V) e lontano (L) rispettivamente
f c ≅ 50.6 mm, → 20 D V
.
f c ≅ 71.6 mm → 14 D L
L’occhio, in quanto strumento ottico, non può essere considerato come una semplice
lente sottile. Infatti, come mostrato in Figura 10.5.3, è un sistema ottico centrato
costituito da una successione di mezzi con indice di rifrazione differenti; utilizzando i
risultati precedenti possiamo comunque schematizzarlo, dal punto di vista diottrico,
come composto dalla cornea, da un tratto libero di lunghezza s ≅ 5 mm e dal
cristallino. La lunghezza focale di tale sistema, corrispondente ad una sorta di lente
spessa, può essere scritta, in base a quanto discusso nel paragrafo precedente come
FT = Fc + FC − s Fc FC (5.3)
da cui si evince una potenza diottrica totale di 56 D (corrispondente ad una lunghezza
focale di 19 mm) per visione da vicino e 51 D (lunghezza focale 21 mm) per la visione
da lontano.

Cornea
Cristallino

5 mm

Lente spessa equivalente

Fig. 10.5.3. Sistema ottico dell’occhio


Chiarito quanto sopra applichiamo all’occhio l’equazione dei punti coniugati,
ottenendo così
1 1
+ = FT (5.4).
p q
Scriviamo ora la distanza dell’oggetto in funzione del potere diottrico e della distanza
dell’immagine, ottenendo (lo si provi)
q
p= (5.5)
qFT − 1
284

Tenuto conto che q ≅ 2.5 cm possiamo determinare la distanza dell’oggetto (in metri)
in funzione del potere diottrico dell’occhio, che viene riportata, in scala logaritmica,
in Figura 10.5.4. Come è evidente la visione corretta di oggetti vicini richiede un alto
potere diottrico, e quindi una notevole distensione del cristallino per ridurre i raggi di
curvatura. Solo in giovanissima età (prima dei dieci anni) è possibile ottenere valori
della focale intorno a 53 che permettono di vedere distintamente oggetti fino ad una
distanza minima di 8 cm.
10

d (m)
1

0.1

0.01
40 45 50 55
F (m-1 ) 60
Fig. 10.5.4 Distanza minima di messa a fuoco in funzione del potere diottrico.

In età giovanile il punto di minima distanza è tipicamente 20-25 cm e tende


comunque a crescere ulteriormente al crescere dell’età. Questo fenomeno noto come
presbiopia è uno dei possibili difetti oculari, che discuteremo in seguito.
Prima di concludere questo paragrafo insistiamo ancora sulla natura di lente
dell’occhio e notiamo che una immagine subirà un ingrandimento dato da
q 0.025
M = ≅
p p
che viene mostrato in Figura 10.5.5 in funzione di F
10

M
1

0.1

0.01 d (m)

1 .10 3
40 45 50 55
F (m-1 ) 60

Fig. 10.5.5 Ingrandimento dell’immagine (linea continua) e distanza minima di


messa a fuoco (linea tratteggiata) in funzione del potere diottrico.
285

da cui si evince che, alla distanza di 10 m, un oggetto alto un metro risulta avere una
altezza di immagine di circa 5 mm.

6.  L’occhio e i difetti oculari 

Nei paragrafi precedenti abbiamo caratterizzato l’occhio in termini delle grandezze


tipiche di una lente e abbiamo fissato i seguenti valori, che specificano un occhio
“normale” e non ametropico come si dice in gergo,

a) Immagine reale e capovolta sulla retina a circa 2.5 cm dalla lente


b) Lente aggiustabile con potere diottrico tra 48 e 53 per distanze dell’oggetto
grandi o piccole rispettivamente
In base a quanto detto potremo ascrivere alcuni dei difetti oculari a
i) variazione della forma del globo oculare come mostrato in Figura 10.6.1.
ii) sclerosi del cristallino, che non permette di aggiustare il raggio della lente
per la visione da vicino.
Al primo caso vanno ascritti difetti ametropici noti come miopia e ipermetropia.

Visione normale miopia

ipermetropia astigmatismo

Fig. 10.6.1. difetti oculari dovuti alla forma dell'occhio.

Nel caso della miopia l' occhio risulta "allungato" di modo che, per oggetti lontani, il
punto focale non cade sulla retina ma davanti.
286

La correzione della miopia richiede l’uso di lenti divergenti (Figura 10.6.2).

Non corretta

Corretta

Fig. 10.6.2. Correzione della miopia.


Per essere più quantitativi abbiamo riportato in Figura 10.6.3 il grafico, in funzione
del potere diottrico, della distanza di un oggetto per una corretta messa a fuoco, nel
caso di un occhio normale q=0.025 m e di un occhio miope 0.027 m.

Come risulta evidente dal grafico la visione da lontano risulta compromessa. Infatti
con 40 D il punto lontano risulta essere 0.75 m invece che di oltre 10m come nel caso
dell’occhio normale. Il difetto può essere corretto se si apporta una correzione di –3D
10

Occhio normale
d (m) Occhio miope
1 Correzione di -3D

0.1

0.01
40 45 50 55 60
F (m-1 )
Fig. 10.6.3. Confronto tra potere diottrico di occhio normale
e occhio affetto da miopia.

L’occhio ipermetrope è il complementare di quello miope. La correzione della


ipermetropia richiede l’uso di lenti convergenti (Figura 10.6.4).
287

Non corretta

Corretta

Fig. 10.6.4 correzione della ipermetropia

In Figura 10.6.5 abbiamo riportato l’analogo della Figura 10.6.3 per il caso di un
occhio con q=0.024 m. In questo caso il grafico mostra una insufficiente
focalizzazione per gli oggetti lontani, nel caso dell’esempio citato una lente
convergente con F=+1.7D risulta essere sufficiente.

100

d (m)
10 Occhio normale
Occhio ipermetrope
Correzione di +1.7D
1

0.1

0.01
40 45 50 55
F (m-1 ) 60

Fig. 10.6.5. Confronto tra potere diottrico di occhio normale


e occhio affetto da ipermetropia.

La presbiopia è, come già detto, un effetto determinato dall’età, che causa una
progressiva perdita di aggiustabilità del cristallino, il quale non riesce ad assumere
quei raggi di curvatura che permettono una corretta visione da vicino. Si assiste
pertanto ad un progressivo spostamento del punto vicino, che in età giovanile è circa
25 cm.
Una idea di tale progressione con gli anni è data dalla Figura 10.6.6), dove abbiamo
riportato il punto vicino (espresso in cm) in funzione dell’età espressa in anni; dalla
Figura si evince che, intorno ai 60 anni il punto vicino è all’incirca 70 cm.
288

200

d (cm)
150

100

50

0
0 10 20 30 40 50 60 70
Età (anni)
Fig. 10.6.6. Spostamento progressivo del punto vicino, in cm, in funzione dell' età.

La Figura 10.6.7 riporta il massimo potere diottrico in funzione dell’età, mentre la


linea tratteggiata corrispondente al potere diottrico per una distanza vicina pari a
25cm. Un consistente calo di F è evidente intorno ai 60 anni, per riportare il punto
vicino a 25 cm è necessaria una correzione con lente convergente di circa +3D.

50

48
-1
F (m )
46

44

42

40
10 20 30 40 50 60 70

Età (anni)
Fig. 10.6.7. Massimo potere diottrico in funzione dell’età. La linea tratteggiata
corrisponde al potere diottrico per una distanza vicina pari a 25 cm.

Concluderemo questo capitolo discutendo come alcuni strumenti ottici possano


aiutare il processo visivo.
289

 
 
7.  Cenno agli strumenti ottici 

E’ chiaro che, per quanto concerne l’aiuto alla visione per un occhio “malato”, la
correzione visiva, relativa alle patologie prima discusse, si ottiene utilizzando lenti
(divergenti o convergenti a seconda del problema) montate su occhiali. Esistono
comunque strumenti, che aiutano un occhio sano a vedere cose non altrimenti
distinguibili ad occhio nudo.
Uno di questi è la lente di ingrandimento illustrata in Figura 10.7.1, che è
essenzialmente una lente convergente utilizzata in modo che l'oggetto si trovi tra il 1°
fuoco e la lente così da dare un' immagine virtuale diritta e ingrandita; il principio di
funzionamento è una conseguenza pressoché immediata della equazione dei punti
coniugati. Se l’oggetto da osservare viene posto in maniera tale che l’immagine cada
intorno al punto vicino si ottiene un ingrandimento pari a (lo si provi)

M l = 1+ 0.25 F (7.1a),

(F in m-1) con una distanze dell’oggetto dalla lente pari a (lo si provi)

0.25 f
d0 = m (7.1b)
0.25 + f

α
h
25 cm

Immagine
virtuale h' α'
h' α' f f
= Ml = Ma
h α
Fig. 10.7.1. Lente di ingrandimento

Se si esamina un diamante con una lente di ingrandimento con lunghezza focale


di 8 cm, quale ingrandimento si ottiene se l’immagine è posizionata intorno al
punto vicino? Si calcoli la distanza del diamante dalla lente.

(M=4.1, tenendo la lente ad una distanza di 6.1cm dal diamante).


290

Il microscopio, mostrato in Figura 10.7.2, è utilizzato per vedere piccoli oggetti


ingranditi virtualmente; esso consta di un obiettivo ovvero di una lente convergente
con lunghezza focale fo e di un oculare che è essenzialmente una lente di
ingrandimento con magnificazione Mo . Si dimostri che, se si pone l’oggetto da
osservare appena dopo il fuoco dell’obiettivo, a distanza d0, l’ingrandimento di tale
microscopio è

d l
M = MO ≈ MO (7.2)
d0 fO

dove d rappresenta la distanza dell’immagine dalla prima lente, l la distanza tra le


due lenti e f0 la lunghezza focale dell’obiettivo. L’approssimazione fatta è accettabile
in quanto generalmente d ≈ f 0 ed inoltre le lenti del microscopio hanno focale
piccola rispetto alle sue dimensioni per cui d = l − f e ≈ l .

oculare
fe

l
Immagine d
virtuale
f0
ingrandita obiettivo
f0 d0

Fig. 10.7.2. Microscopio

Nella Figura 10.7.3 si riporta un telescopio rifrattore ovvero un sistema di lenti che
permettono di osservare oggetti molto lontani, come ad esempio navi all’orizzonte o
corpi celesti. Lo strumento risulta composto da un obiettivo, attraversato dai raggi
provenienti dagli oggetti osservati, e da una seconda lente detta oculare. L’immagine
reale e capovolta cade proprio nel punto focale dell’oculare per cui forma una
immagine virtuale all’infinito, vista infine dall’osservatore.
Si dimostri che l’ingrandimento di tale strumento è dato da

f 0 F0
M = = (7.3).
f e Fe
291

f0 fe fe

Raggi provenienti da
un oggetto all’infinito
F0 Fe
obiettivo

Immagine finale oculare


(invertita)

Fig. 10.7.3. Telescopio rifrattore

Si è dunque visto che le lenti possono essere combinate per “manipolare” i raggi
ottici e un esempio è mostrato in Figura 10.7.4 dove riportiamo quello che si dice un
espansore di fascio, utilizzato nel trasporto dei fasci laser.
Immagine finale
(diritta) f0
fe
Raggi provenienti da
un oggetto all’infinito

obiettivo
oculare

Fig. 10.7.4. Espansore di fascio

Una lente convergente e una divergente sono collegate come mostrato in Figura
10.7.4 in modo che i loro fuochi coincidano. In tal caso si dimostri che il fascio è
f0
espanso di , ovvero del rapporto tra le lunghezze focali della lente
fe
convergente e divergente.

Chiariti i punti di cui sopra passiamo a discutere altri aspetti della visione, relativi
agli effetti diffrattivi; la trattazione sarà carente da un punto di vista teorico perché
accenneremo in maniera molto superficiale alle questioni inerenti la diffrazione,
riservandoci di ritornare nel seguito su tali problematiche.
292

8.  Diffrazione e limite di risoluzione 

Nei paragrafi precedenti abbiamo quasi dimenticato che la luce ha una natura
ondulatoria, perché abbiamo ignorato tutti quegli effetti in cui questa diventa
evidente.
Abbiamo già fatto notare che l’ottica geometrica non è più valida se consideriamo
fenomeni in cui le dimensioni delle lunghezze d’onda, associate all’onda che si
propaga, non sono trascurabili rispetto alle dimensioni degli “ostacoli” o delle
"aperture" che questa incontra. In tal caso cominciano a manifestarsi quelli che
vengono detti effetti di diffrazione.
Torneremo su queste problematiche nella seconda parte di queste lezioni, qui
facciamo solo notare che la diffrazione è una deviazione della luce rispetto a una
direzione di propagazione rettilinea e consiste nel piegarsi o diffondere attorno ai
bordi di un ostacolo o di una fenditura. La diffrazione da fenditura è un fenomeno
molto importante che viene illustrato in Figura 10.8.1, dove un fascio di raggi
luminosi paralleli di lunghezza d’onda λ incidono su una fenditura di larghezza D.
Al di là della fenditura si osserva su uno schermo quello che si dice una figura di
diffrazione ovvero zone illuminate e buie. Tale fenomeno è dovuto alla
sovrapposizione delle varie onde che giungono sullo schermo con una differenza di
fase legata all’angolo di deviazione dalla fenditura. In particolare le zone di buio sono
rivelabili ad un angolo θm dato da
D sin(θ m ) = m λ (8.1).

Figura di
diffrazione
λ
sin(θ 1) =
d
θ1
D

Raggi paralleli incidenti

Fig. 10.8.1. Figura di diffrazione generata dal passaggio di un fascio di raggi


luminosi paralleli attraverso una fenditura di larghezza D.
293

Altro fenomeno importante è associato all’osservazione di un oggetto tramite uno


strumento ottico, con apertura circolare di diametro D. Gli effetti di diffrazione
limitano la capacità di distinguere i contorni degli oggetti.
Le immagini delle due sorgenti puntiformi di Figura 10.8.2 sono perfettamente
risolte quando il massimo centrale della figura di diffrazione prodotta dalla prima
sorgente coincide con il primo minimo dell’altra (criterio di Rayleigh).
Il cosiddetto limite di risoluzione, ovvero piena capacità di distinzione, si ottiene
quando l’angolo sotteso dall’oggetto all’apertura dello strumento è maggiore
dell’angolo critico
λ
sin(ϑc ) = 1.22
D
(8.2).
Con riferimento alla Figura 10.8.2 si dimostri che uno strumento ottico permette di
risolvere un oggetto le cui dimensioni sono superiori a
g=
2 L
1.22 λ
[D − D 2 − (1.22λ ) 2 ] (8.3)
dove L è la distanza dell’oggetto dallo strumento.

(Si noti che L è l’altezza di un triangolo isoscele di base g (indicato in azzurro nella
ϑc g
Figura) e si definisca tg ( )= …)
2 2L

Figura di
diffrazione da
due sorgenti
puntiformi

Fig. 10.8.2. Limite di risoluzione g di due sorgenti puntiformi poste a distanza L


da un foro di diametro D.

In Figura 10.8.3 viene riportato il limite di risoluzione di un occhio umano perfetto


fino a distanze di 3000 m, per due diversi valori dell’apertura pupillare (diametro
294

dello strumento) 3mm e 8mm (apertura massima) assumendo per la luce visibile una
lunghezza d’onda di 500 nm (circa a metà dello spettro).
1

3 mm
0.1
g(m)
0.01 8 mm

1 .10 3

1 .10 4

1 .10 5
0.1 1 10 100 103 104
L(m)
Fig. 10.8.3. Limite di risoluzione dell’occhio in funzione della distanza
dell’ oggetto per due valori di apertura pupillare.
La Figura mostra che l’occhio umano sarebbe in grado di risolvere due sorgenti
puntiformi distanti fra loro più di 70 cm alla distanza di 3 Km. Nel punto vicino si
potrebbe giungere fino alla decina di micrometri. La Figura 10.8.4 mostra il limite di
risoluzione in funzione della distanza per diverse lunghezze d’onda (violetto, blu,
rosso)

0.8

g(m) 700 nm
0.6

500 nm
0.4

0.2 300 nm

0
0 500 1000 1500 2000 2500 3000
L(m)
Fig. 10.8.4. Massimo potere risolutivo in funzione della distanza per tre diverse
lunghezze d’onda.

In Figura 10.8.5 viene mostrata il limite di risoluzione in funzione del Diametro per
500 nm e due differenti distanze (10 m e 1km).
295

(b)
0.1

g(m)
0.01

3
(a)
1 .10

4
1 .10
0.001 0.002 0.003 0.004 0.005 0.006 0.007 0.008
D(m)
Fig. 10.8.5. Limite di risoluzione in funzione del diametro pupillare per due
diverse distanze dell’oggetto: a) 10 m, b) 1 km.

Abbiamo visto come una lunghezza d’onda maggiore o minore determini una
maggiore o minore risoluzione a causa di effetti diffrattivi.

9.  Aberrazione cromatica 

La lunghezza focale di una lente dipende dalla lunghezza d’onda della radiazione
rifratta, come mostrato in Figura 10.9.1; ciò è dovuto al fatto che a lunghezze d’onda
minori corrispondono indici di rifrazione maggiori. Il fenomeno per cui non esiste un
unico fuoco per tutti i colori si chiama aberrazione cromatica. Il colore violetto è
focalizzato più del rosso; una conseguenza è l’effetto tri-dimensionale caratteristico
delle vetrate delle chiese medioevali, che mostrano figure in rosso sovrapposte a
sfondi blu. Ritorneremo con maggiore dettaglio sui problemi inerenti le aberrazioni in
generale e le aberrazioni cromatiche in particolare.

Fig. 10.9.1. Aberrazione cromatica.


296

Per concludere vogliamo invitare il lettore a riflettere sull’uso di un “doppietto” di


lenti mostrato in Figura 10.9.2 per eliminare (parzialmente) l’effetto di aberrazione
cromatica. La prima lente focheggiante è fatta di un tipo di vetro detto Crown, ad essa
viene accoppiata una seconda lente, leggermente dispersiva, fatta di un tipo di vetro
con indice di rifrazione differente detto Flint. In tal modo vengono compensate le
differenze di cammino ottico dei colori blu e del rosso dello spettro; i colori
intermedi continuano però a dare cromatismo perché il vetro Flint non ha una risposta
lineare a tutti le lunghezze d'onda. Una correzione pressoché totale si ottiene con
obiettivi così detti apocromatici che utilizzano vetri a bassa dispersione contenenti
fluorite o terre rare che permettono di compensare su tre lunghezze d'onda.
Torneremo sul fenomeno delle aberrazioni nella terza parte di queste lezioni.

Crown Flint

Doppietto acromatico

Fig. 10.9.2. Correzione dell’aberrazione cromatica.


Edito dall’
Servizio Comunicazione

Lungotevere Thaon di Revel, 76 - 00196 Roma

www.enea.it

Stampa: Tecnografico ENEA - CR Frascati


Pervenuto il 10.12.2012
Finito di stampare nel mese di gennaio 2013

View publication stats

Potrebbero piacerti anche