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PIERS PAUL READ

TABÙ

EUROCLUB

Titolo originale dell’opera:


Alive: the Story of the Andes Survivors
Copyright © 1974 by Piers Paul Read

First published in 1974 by


J. B. Lippincott Company, Philadelphia and New York, USA
Proprietà letteraria riservata compreso il diritto di riproduzione, anche
parziale, in qualsiasi forma. Unica traduzione italiana autorizzata di Bruno
Oddera dall'originale inglese.
© 1974 per la traduzione italiana Sperling & Kupfer Editori S.p.A.
Via Monte di Pietà, 24 - 20121 Milano
Edizione Euroclub Italia S.p.A. su licenza della Sperling & Kupfer Editori
S.p.A. - Milano
Ia edizione: 1977
IIa edizione: 1977
III* edizione: 1978
IV* edizione: 1978

Editato da mykon per TNTVillage, grazie allo scansionatore anonimo!


Buona lettura
Sinossi

Questa è la vera storia di una delle tragedie più allucinanti dei nostri tempi,
una storia disperata che ha turbato il mondo come poche altre, la storia
agghiacciante dei passeggeri di un aereo che per non morire mangiano i
compagni morti.

I sopravvissuti delle Ande hanno finalmente deciso di parlare, di


raccontare la loro terribile verità, e hanno scelto uno dei migliori scrittori
inglesi per scrivere in esclusiva la loro storia: Piers Paul Read è così l’unico
ad aver raccolto il resoconto completo degli avvenimenti descritti in questo
libro. Sperduti negli immensi deserti nevosi delle Ande… tutte le ricerche
ufficiali abbandonate… senza cibo… con indumenti inadatti a temperature
polari… senza medicinali per alleviare le sofferenze dei morenti. Così ha
inizio la terribile avventura di un gruppo di ragazzi che con parenti, amici,
amiche era partito dall’Uruguay per andare a giocare alcune partite di
rugby in Cile. L’aeroplano che avevano noleggiato, felici, era entrato in un
banco di nubi, aveva perso quota in una serie di paurosi vuoti d’aria e si era
infine schiantato contro la parete di una montagna.

Il Fairchild trasportava cinque uomini d’equipaggio e quaranta


passeggeri. Alcuni muoiono all’istante; quelli che sopravvivono si
aggrappano alla vita con straordinaria tenacia e ingenuità.
E per non morire di fame, diventano cannibali. Una decisione
traumatizzante che altre, impreviste, terribili prove rendono più atroce.

Settanta giorni dopo l’incidente, due dei ragazzi raggiungono la


salvezza: con un viaggio massacrante di dieci giorni attraverso la maestosa,
ostile Cordigliera delle Ande (un’impresa quasi impossibile persino per un
esperto alpinista) riescono a dare l'allarme, salvando così la vita agli altri
quattordici amici. Pieno di candore, di suspense, pieno di Dio, questo libro
descrive nei drammatici particolari la lotta condotta dai ragazzi giorno
dopo giorno per sopravvivere e i tentativi dei loro genitori per trovarli anche
dopo che ogni ragionevole speranza era persa. Tabù è un'opera commovente
e ispirata che ricrea una delle più grandi storie di sopravvivenza dei nostri
tempi: la critica mondiale l’ha definito «un capolavoro della narrativa».
«Nessuno ha amore più grande di questo,
che uno dia la propria vita per i suoi amici.»
Vangelo secondo Giovanni, 15-13
Noi abbiamo deciso che questo libro dovesse essere scritto, e la verità resa
nota, a causa delle molte dicerie su ciò che è accaduto sulla cordillera.
Dedichiamo il racconto delle nostre sofferenze e della nostra solidarietà
agli amici che sono morti e ai loro parenti che, nel momento in cui più ne
avevamo bisogno, ci accolsero con affetto e comprensione.
Pedro Algorta, Roberto Canessa, Alfredo Delgado, Daniel Fernández,
Roberto François, Roy Harley, José Luis Inciarte, Alvaro Mangino, Javier
Methol, Carlos Paez, Fernando Parrado, Ramón Sabella, Adolfo Strauch,
Eduardo Strauch, Antonio Vizintìn, Gustavo Zerbino
Montevideo, 30 ottobre 1973
RINGRAZIAMENTI

Nella stesura di questo libro sono stato aiutato da numerose persone, in


particolare da Edward Burlingame, della J. B. Lippincott Company, il quale fu
il primo a consigliarmi di scriverlo.
A Montevideo collaborarono con me nelle ricerche due giornalisti
uruguayani. Il primo fu Antonio Mercader, il cui appoggio mi venne proposto
dal Comitato dei Vecchi Cristiani; egli mi procurò i complessi particolari delle
ricerche dell’aereo organizzate dai genitori dei dispersi, e inoltre prezioso
materiale biografico sui superstiti. Il secondo giornalista fu Eugenio Hintz, che
raccolse materiale su quanto era stato fatto da organi ufficiali dei governi
uruguayano e cileno. Ho inoltre un debito di riconoscenza con Rafael Ponce
de Léon, e con Gérard Croiset figlio, che mi parlarono della parte da loro
avuta nelle ricerche del Fairchild; nonché con Pablo Gelsi, che mi fece da
interprete; e con il dottor Gilberto Regules, per i suoi consigli e la sua
amicizia.
A Londra fui aiutato nella trascrizione delle registrazioni su nastro, e
nell’organizzazione dell’abbondante materiale che avevo raccolto in Uruguay,
da Georgiana Luke, e in seguito, per ulteriori ricerche, da Kate Grimond.
Per quanto concerne la stesura del libro, mi venne data mano libera sia
dall’editore, sia dai sedici superstiti. A volte fui tentato di romanzare certe
parti della vicenda, poiché ciò ne avrebbe intensificato la drammaticità, ma in
ultimo decisi che i nudi fatti erano sufficienti a sostenere il racconto. Eccezion
fatta per talune trasposizioni sotto forma di dialogo di determinati episodi,
nulla in questo libro si discosta dalla verità, così come mi venne riferita dagli
interessati.
E a loro, in ultimo, io sono grato più che ad ogni altro. In ogni località
dell’Uruguay nella quale decisi di recarmi, fui accolto con «quell’intima
cortesia e quella locale grazia di modi» che W. H. Hudson riscontrò nello
stesso paese più di cento anni or sono. Le trovai nelle famiglie delle vittime,
nelle famiglie dei superstiti, e soprattutto nei superstiti stessi, i quali mi
trattarono con eccezionale cordialità, con candore e fiducia.
Quando tornai, nell’ottobre del 1973, a mostrare loro il manoscritto di
questo libro, alcuni di essi rimasero delusi da come avevo narrato le loro
vicissitudini. Ritennero che la fede e l’amicizia dalle quali erano stati ispirati
sulla cordillera non risaltassero in queste pagine. Non avevo mai avuto
l’intenzione di sottovalutare tali valori, ma esprimere le loro impressioni su
ciò che hanno vissuto supererebbe forse le capacità di qualsiasi scrittore.
P. P. R.
PREMESSA

Il 12 ottobre 1972, un Fairchild F227, dell’aviazione militare uruguayana,


noleggiato da una squadra di giocatori dilettanti di rugby, decollò da
Montevideo, nell’Uruguay, diretto a Santiago, nel Cile. Bollettini meteorologici
che annunciavano maltempo sulle Ande costrinsero l’aereo ad atterrare
nell’aeroporto di Mendoza, una piccola città sul versante argentino della
catena montuosa. Il giorno dopo il tempo era migliorato. Il Fairchild decollò
di nuovo, dirigendosi a sud verso il passo Planchon. Alle ore quindici e
ventuno, il pilota riferì alla torre di controllo di Santiago che stava sorvolando
il passo del Planchon, e alle quindici e ventiquattro disse che si trovava sopra
la cittadina di Curicó, nel Cile. Fu autorizzato a virare a nord e ad iniziare la
discesa verso l’aeroporto Pudahuel. Alle quindici e trenta, annunciò di
trovarsi alla quota di cinquemila metri, ma quando la torre di controllo di
Santiago tentò di mettersi in contatto con il Fairchild, un minuto dopo, non vi
fu alcuna risposta.
Per otto giorni, cileni, argentini e uruguayani cercarono l’aereo. Tra i
passeggeri non si trovavano soltanto gli appartenenti alla squadra di rugby, ma
venticinque loro amici e parenti, tutti di famiglie molto in vista nell’Uruguay.
Le ricerche furono infruttuose. Il pilota aveva evidentemente commesso un
errore nel calcolare la posizione e si era diretto a nord, verso Santiago, mentre
si trovava ancora tra le montagne. Erano gli inizi della primavera,
nell’emisfero sud, e sulle Ande aveva nevicato con eccezionale abbondanza.
La parte superiore della fusoliera dell’aereo era bianca. Sembrava assai poco
probabile che si riuscisse a individuarlo, e ancor meno probabile che una
qualsiasi delle quarantacinque persone a bordo tra passeggeri e uomini
dell’equipaggio, potesse essersi salvata. Dieci settimane dopo, un contadino
cileno che sorvegliava il bestiame in una valle remota nel cuore delle Ande
scorse, sulla riva opposta di un torrente, le sagome di due uomini. Gli fecero
gesti frenetici e caddero in ginocchio, come per supplicarlo, ma lui, ritenendo
che potessero essere terroristi o turisti, si allontanò. Quando tornò nello stesso
luogo il giorno dopo, i due uomini si trovavano ancora là e, una volta di più,
si sbracciarono facendogli segno di avvicinarsi. Il contadino si portò sulla riva
del torrente e lanciò dall’altro lato un pezzo di carta e una penna avvolti in un
fazzoletto. L’uomo barbuto e lacero che li raccolse scrisse qualcosa sul pezzo
di carta e lo rilanciò al contadino. Il messaggio diceva:
«Vengo da un aereo che è precipitato sulle montagne. Sono
uruguayano…»
V’erano sedici superstiti. Questa è la storia di ciò che soffrirono e di come
rimasero in vita.
Parte Prima
1

L’Uruguay, uno dei più piccoli paesi del continente sudamericano, venne
fondato sulla riva est del Rio de la Plata come uno Stato cuscinetto tra i
giganti che allora emergevano, il Brasile e l’Argentina. Geograficamente, era
un territorio ameno, con bestiame in libertà su pascoli immensi; la
popolazione viveva modestamente dedicandosi al commercio o alle
professioni di medico e di avvocato nella città di Montevideo, oppure
conducendo l’esistenza fiera e vagabonda dei gauchos nelle praterie.
La storia degli uruguayani nel diciannovesimo secolo abbonda, in un
primo tempo, di battaglie feroci per l’indipendenza contro l’Argentina e il
Brasile, poi di schermaglie civili altrettanto selvagge tra i partiti blanco e
colorado, i conservatori dell’interno e i liberali di Montevideo. Nel 1904,
l’ultima sollevazione del partito bianco venne repressa dal presidente del
partito colorado, José Batlle y Ordóñez, il quale istituì poi uno Stato secolare
e democratico che, per molti decenni, fu considerato il più progredito e il più
illuminato dell’America Latina.
L’economia di questo Stato del benessere era basata sui prodotti della
pastorizia e dell’agricoltura che l’Uruguay esportava in Europa, e, finché i
prezzi mondiali della lana, della carne di manzo e delle pelli rimasero alti,
l’Uruguay continuò a essere prospero; ma, nel corso degli anni cinquanta, il
valore di questi beni diminuì e l’Uruguay cominciò a declinare. Si ebbero
disoccupazione e inflazione che, a loro volta, diedero luogo allo scontento
sociale. Il personale dell’amministrazione dello Stato era eccessivamente
numeroso e mal pagato; avvocati, architetti ed ingegneri, un tempo
l’aristocrazia della nazione, vennero a trovarsi con poco lavoro e i loro
compensi, per quel poco che c’era da fare, divennero troppo bassi. Molti
furono costretti a dedicarsi ad altre professioni, di minor prestigio. Soltanto
coloro che possedevano terre nell’interno poteva essere certi della prosperità;
gli altri lavoravano, quando riuscivano a trovare lavoro, in un’atmosfera di
ristagno economico e di corruzione amministrativa.
Per conseguenza, sorse il primo e il più importante movimento di
guerriglieri rivoluzionari urbani, i Tupamaros, che miravano ad abbattere
l’oligarchia dalla quale era governato l’Uruguay per il tramite dei partiti
bianco e colorado. Per qualche tempo le cose volsero a loro favore. Essi
rapirono, costringendoli a versare riscatti, funzionari e diplomatici e si
infiltrarono nelle forze di polizia che erano state schierate contro di loro. Il
governo fece ricorso all’esercito, che strappò spietatamente questi guerriglieri
urbani alle loro case della media borghesia. Il movimento venne soppresso, i
Tupamaros furono imprigionati.
Nei primi anni Cinquanta, un gruppo di genitori cattolici, allarmati dalle
tendenze atee degli insegnanti, e non soddisfatti dell’insegnamento dell’inglese
da parte dei Gesuiti, invitò la Provincia Irlandese dei Fratelli Cristiani a
fondare una scuola a Montevideo. La richiesta fu accolta e cinque Fratelli laici
irlandesi giunsero dall’Irlanda, passando per Buenos Aires, allo scopo di
fondare il Collegio Stella Maris (una scuola per ragazzi tra i nove e i sedici
anni) nel sobborgo di Carrasco. Nel maggio del 1955 i corsi ebbero inizio in
una casa sulla rambla che, sotto il cielo sconfinato, dominava l’Atlantico
meridionale.
Sebbene parlassero soltanto uno spagnolo stentato, questi Fratelli irlandesi
erano senz’altro tagliati per il compito che si accingevano ora ad affrontare.
L’Uruguay poteva essere lontano dall’Irlanda, ma anch’esso era un piccolo
paese dall’economia agricola. Gli uruguayani si nutrivano con carne di manzo
come gli irlandesi si nutrivano di patate, e la vita lì, come in Irlanda, si
svolgeva con un ritmo lento. Inoltre, la struttura di quella classe della società
uruguayana della quale essi si occupavano riusciva familiare ai Fratelli. Le
famiglie che abitavano nei piacevoli palazzi moderni costruiti tra i pini di
Carrasco (il sobborgo più ridente di Montevideo) erano per la massima parte
numerose ed esistevano, tra genitori e figli, saldi legami che persistevano
durante l’adolescenza e fino alla maturità. L’affetto e il rispetto che i ragazzi
avevano per i genitori si trasferì subito sui loro maestri; ciò contribuì ad
assicurare un comportamento corretto e, su richiesta dei genitori i allievi, i
Fratelli Cristiani rinunciarono all’antica consuetudine delle punizioni inflitte
con una bacchetta.
Era inoltre consuetudine nell’Uruguay che i giovani, maschi e femmine,
continuassero ad abitare con i genitori anche dopo aver terminato gli studi, e
soltanto dopo essersi sposati lasciassero la casa paterna. I Fratelli Cristiani si
domandavano so come mai, in un mondo nel quale l’acrimonia tra le
generazioni sembrava essere talora lo spirito dell’epoca, ai cittadini
dell’Uruguay, o per lo meno a quelli che risiedevano a Carrasco, tale conflitto
venisse risparmiato. Era come se la torrida vastità del Brasile, a nord, e le
acque limacciose del Rio de la Piata, a sud e ad ovest, agissero non soltanto
come ostacoli naturali, ma anche come guscio protettivo in un bozzolo del
tempo.
Nemmeno i Tupamaros turbavano la disciplina del Collegio Stella Maris.
Gli allievi, che appartenevano a famiglie cattoliche dalle tendenze
conservatrici, erano stati mandati dai genitori ai Fratelli Cristiani a causa dei
metodi tradizionali e degli scopi all’antica di quest’Ordine. Era più probabile
che l’idealismo politico fiorisse con i Gesuiti, i quali educavano l’intelletto,
anziché con i Fratelli Cristiani, il cui scopo era quello di plasmare il carattere
dei loro ragazzi, e il ricorso frequente ai castighi corporali, cui essi avevano
rinunciato su richiesta dei genitori, non era il solo mezzo a loro disposizione
per conseguire tale scopo. L’altro consisteva nel rugby.
Il gioco, così come si svolgeva al Collegio Stella Maris, e continua ad
essere, quello stesso giocato in Europa. Due squadre di quindici uomini si
affrontano sul campo. I giocatori non hanno caschi né rivestimenti protettivi,
e non ci sono rimpiazzi. Lo scopo di ogni squadra è quello di portare la palla
ovale sulla linea di meta difesa dagli avversari, o di calciarla al di sopra della
sbarra trasversale e tra i due pali della meta a forma di «H». La palla può
essere calciata, tenuta nelle mani o passata indietro; il giocatore che ha la palla
può essere placcato da un avversario, il quale ha gli si lancia contro per farlo
cadere, afferrandolo al collo, alla vita o alle gambe. La sola difesa contro il
placcaggio consiste nello schivarlo o nel respingerlo, con una mano premuta
contro la faccia o il corpo dell’avversario.
Se il gioco si ferma (come quando, ad esempio, la palla viene passata
avanti, anziché indietro), l’arbitro fischia e ordina una mischia. Gli avanti
delle due squadre si avvinghiano come un granchio gigantesco. In prima fila,
tre giocatori premono con la testa e le spalle contro la testa e le spalle dei tre
contrapposti avversari. Dietro di loro viene la seconda fila, nella quale i
giocatori appoggiano il capo contro le natiche dei compagni in prima fila.
Questo ariete umano è tenuto insieme da un «catenaccio» in coda e sostenuto
da un’«ala avanzata» a ciascun lato.
Il mediano di mischia della squadra in vantaggio lancia il pallone nel
mezzo, tra le due squadre, dopodiché l’uomo al centro in prima fila lo calcia
indietro, oppure gli avanti spingono i loro rivali lontano dalla palla. Il
mediano di mischia ricupera allora quest’ultima e la lancia ai mediani, che
corrono avanti passando all’indietro la palla lungo il loro schieramento ai tre
quarti d’ala affinché tentino di segnare un punto.
È un gioco duro, bello se giocato con abilità, brutale se giocato
goffamente. Una gamba fratturata o un naso rotto non sono inconsueti; ogni
mischia significa stinchi sbucciati, ogni placcaggio lascia un giocatore senza
fiato. Il rugby richiede non soltanto doti fisiche eccezionali che consentano di
giocare molto velocemente per un’ora e mezzo (includendo dieci minuti di
riposo a metà tempo), ma anche autocontrollo e spirito di squadra. Il
giocatore che pone la palla sulla linea mediana non è necessariamente il più
abile, ma, il più delle volte, soltanto l’ultimo anello della catena.
Quando i primi Fratelli Cristiani giunsero nell’Uruguay, il rugby non
veniva quasi affatto giocato laggiù; invero, essi vennero a trovarsi in un paese
nel quale il calcio era non soltanto lo sport nazionale, ma una passione
collettiva. Assieme al consumo pro capite di carne di manzo, esso era la sola
sfera nella quale l’Uruguay trionfasse sulle grandi nazioni del mondo (gli
uruguayani vinsero la coppa del mondo nel 1930 e nel 1950) e chiedere ai
giovani di quel paese di appassionarsi a un gioco diverso era come nutrirli
con pane e patate anziché con la dieta cui erano assuefatti.
Dopo aver sacrificato un pilastro del loro sistema educativo rinunciando
alla bacchetta, i Fratelli Cristiani non intendevano rinunciare anche all’altro. Si
attennero alla loro tesi secondo la quale il calcio era uno sport da prime
donne, mentre il rugby avrebbe insegnato ai ragazzi a soffrire in silenzio e ad
agire come una squadra. I genitori fecero rimostranze, ma in ultimo
acconsentirono e a suo tempo finirono con il condividere il parere dei Fratelli
Cristiani per quanto concerne i meriti del gioco.
Quanto ai loro figli, essi lo giocarono con crescente entusiasmo e allorché
la prima generazione si fu lasciata indietro il collegio, molti dei diplomati non
vollero rinunciare né al rugby né allo Stella Maris. Venne concepito il progetto
di un gruppo di ex alunni e, dieci anni dopo la fondazione del collegio, fu
creata questa associazione. Si chiamò Club dei Vecchi Cristiani e la sua
principale attività consistette nell’organizzare partite di rugby la domenica
pomeriggio.
Con il trascorrere degli anni queste partite divennero popolari, persino alla
moda, e ogni estate nuovi ex studenti si iscrivevano al Club dei Vecchi
Cristiani, rendendo così possibile una più ampia scelta di giocatori e la
formazione di una squadra migliore. Il rugby stesso attecchì in Uruguay, e i
primi quindici giocatori del Club dei Vecchi Cristiani, con il trifoglio d’Irlanda
sulle camicie, divennero una delle più abili squadre del paese. Nel 1968, e poi
ancora nel 1970, vinsero il campionato nazionale uruguayano. Le ambizioni
crebbero il successo. La squadra attraversò l’estuario del Rio de la Plata per
giocare contro le squadre argentine e, nel 1971, i giocatori decisero di recarsi
più lontano e di giocare nel Cile. Per rendere possibile e non troppo costoso
tale progetto, il Club noleggiò un aereo dell’aviazione militare uruguayana
perché portasse la squadra da Montevideo a Santiago e i biglietti dei posti non
necessari ai giocatori furono venduti ai amici e sostenitori. Il viaggio costituì
un grande successo. La squadra del Club giocò contro la squadra nazionale
cilena e contro i quindici migliori giocatori della Old Boys Grange, vincendo
una partita e perdendo nell’altra. Al contempo, gli uruguayani trascorsero un
breve periodo di vacanza in un paese straniero. Per molti di loro si trattava del
primo viaggio aereo ed era la prima volta che vedevano le vette nevose
ghiacciai delle Ande. In effetti, il viaggio riuscì talmente bene che, non appena
rientrati a Montevideo, i giocatori fecero progetti per ripeterlo l’anno
seguente.
2

Al termine della stagione successiva, i loro progetti si imbatterono in


numerose difficoltà. I quindici migliori giocatori dei Vecchi Cristiani avevano,
per un eccesso di fiducia, perduto il campionato uruguayano contro una
squadra che essi ritenevano inferiore; per conseguenza, alcuni dirigenti del
Club ritennero che non meritassero un altro viaggio nel Cile. Un’altra
difficoltà cui si trovarono di fronte consistette nel riempire i quaranta e più
posti del Fairchild F227 noleggiato per il viaggio. Il costo del noleggio
dell’aereo ammontava a milleseicento dollari americani. Se fossero stati
occupati quaranta posti, ogni passeggero avrebbe speso soltanto quaranta
dollari circa per il volo fino a Santiago e ritorno, meno di un terzo del costo
del biglietto normale. Più posti fossero rimasti vuoti, maggiore sarebbe stata la
spesa per ciascun passeggero, e inoltre bisognava tener conto delle spese per i
cinque giorni da trascorrere in Cile.
Corse voce che il viaggio avrebbe potuto essere annullato, dopodiché
coloro che ci tenevano ad andare cominciarono a cercare reclute tra i loro
amici, parenti e compagni di studi. Varie ragioni militavano a favore del
viaggio in Cile. Per gli studenti di economia più riflessivi esisteva la
possibilità di sperimentare il marxismo democratico del presidente Allende;
per i meno impegnati, c’era l’allettamento di una vita lussuosa a basso costo.
L’escudo cileno era svalutato; il dollaro veniva quotato parecchio sul mercato
nero e, in quanto delegazione sportiva, i Vecchi Cristiani non sarebbero stati
tenuti a cambiare il loro denaro al tasso ufficiale. I giocatori di rugby
tentarono gli amici con descrizioni delle graziose e non inibite fanciulle cilene
sulle spiagge di Viña del Mar o nella località sciistica di Portillo. La rete gettata
fu assai ampia e catturò la madre e la sorella di uno dei giocatori, nonché i
cugini di un altro. Il giorno in cui doveva essere versata la somma per il
noleggio dell’aereo, la squadra aveva venduto un numero di biglietti
sufficiente a coprire le spese.
Verso le sei del mattino di giovedì 12 ottobre 1972, i passeggeri
cominciarono ad arrivare alla spicciolata all'aeroporto di Carrasco, per il
secondo viaggio in Cile dei Vecchi Cristiani. Giunsero accompagnati in
automobile o su camioncini dai genitori e dalle fidanzate, e i loro veicoli
vennero parcheggiati sotto i palmizi davanti all’edificio dell’aeroporto che,
circondato da vaste aiuole d'erba ben tagliata, sembrava non tanto un
aeroporto internazionale quanto un circolo di campagna o un campo da golf.
Nonostante l’ora mattutina e le facce assonnate, i giovani vestivano
elegantemente, indossando pantaloni e giacche sportive, e si salutarono a
vicenda con grande cordialità ed entusiasmo. Anche i genitori sembravano
conoscersi tutti. Con cinquanta o sessanta persone che conversavano e
ridevano tutte insieme, veniva fatto di pensare, quasi, che qualcuno avesse
scelto il terminal dell’aeroporto per offrire un ricevimento.
Calme tra tutta quella confusione si distinguevano le sagome alquanto
tarchiate di Marcelo Pérez, il capitano della squadra, e di Daniel Juan, il
presidente dei Vecchi Cristiani, venuto a salutare i partenti. Pérez sembrava
decisamente felice. Era stato lui il più entusiasta per questo viaggio nel Cile, e
lui aveva sofferto più di ogni altro a causa del suo possibile annullamento.
Anche adesso che il viaggio stava avendo luogo, la sua fronte, sormontata
dalla calvizie incipiente, si corrugava man mano che veniva a determinarsi
qualche intoppo.
Uno di tali intoppi era l’assenza di Gilberto Regules. Il giovane non aveva
raggiunto gli amici all’ora stabilita; non era venuto all’aeroporto; ed ora,
quando telefonarono a casa sua rispose nessuno.
Marcelo sapeva che non avrebbero potuto aspettare a lungo. La partenza
doveva aver luogo nelle prime ore del mattino, essendo pericoloso sorvolare
le Ande nel pomeriggio quando l’aria calda delle pianure argentine si
sollevava scontrandosi con l’aria gelida delle montagne; già il Fairchild aveva
rullato sulla pista militare adiacente all’aeroporto civile.
I giovani che si aggiravano lì intorno sembravano formare un gruppo
eterogeneo, in quanto la loro età andava dai diciotto ai ventisei anni, ma
avevano molte più cose in comune di quanto non apparisse allo sguardo.
Erano quasi tutti Vecchi Cristiani; e la maggior parte di coloro che non aveva
frequentato la scuola proveniva dal collegio gesuita del Sacro Cuore, nel
centro della città. Oltre alla squadra e ai suoi sostenitori, erano presenti gli
amici, i cugini degli amici, e colleghi delle facoltà di giurisprudenza, di
agronomia, di economia e di architettura, nelle quali stavano studiando adesso
molti dei Vecchi Cristiani. Tre dei giovani studiavano medicina, e due di essi
facevano parte della squadra. Molti degli altri possedevano fattorie confinanti
nell’interno; molti erano vicini di casa a Carrasco. Ma tutti avevano in comune
la classe sociale e la religione. Appartenevano, quasi senza eccezioni, allo
strato sociale più prospero della comunità, ed erano tutti cattolici romani.
Non tutti i passeggeri che si presentarono al banco dei Trasporti Militari
Uruguayani erano Vecchi Cristiani o avevano un’età giovanile. Si trovava tra
loro una donna grassoccia di mezza età, la señora Mariani, che aveva
acquistato un biglietto per recarsi al matrimonio di sua figlia con un esiliato
politico nel Cile. C’erano due coppie di età matura e una ragazza alta e
graziosa, sui vent’anni, a nome Susana Parrado, in coda assieme alla madre, al
fratello Nando, e al padre, venuto a vederli partire.
Dopo che il loro bagaglio era stato controllato, i Parrado salirono nel
ristorante dell’aeroporto, dal quale si dominava la pista, e ordinarono la
colazione. A un altro tavolo, situato a una certa distanza da quello dei Parrado,
sedevano due studenti della facoltà di economia, vestiti più alla buona degli
altri, come per dimostrare che erano socialisti, in netto contrasto con Susana
Parrado, la quale indossava un bellissimo cappotto foderato di pelliccia, un
cappotto di pelle d’antilope acquistato appena il giorno prima.
Eugenia Parrado, sua madre, era nata in Ucraina, e tanto Susana quanto il
fratello avevano una statura eccezionalmente alta, con bei capelli di un biondo
scuro, occhi celesti e morbide e tonde facce russe. Nessuno dei due avrebbe
potuto essere definito bellissimo. Nando era dinoccolato, miope e alquanto
timido; Susana, sebbene giovane, soave nell'aspetto e con un bel corpo, aveva
sul viso un’espressione austera e per nulla incline alle civetterie.
Mentre ella sorseggiava il caffè, venne annunciato il volo. I Parrado, i due
socialisti, e tutti gli altri che si trovavano al ristorante, scesero nel salone delle
partenze, poi attraversarono no la dogana, il controllo passaporti, e uscirono
sulla pista. Là videro lo splendente aereo bianco che doveva portarli nel Cile.
Salirono una scaletta d’alluminio fino al portello sulla parte anteriore della
fusoliera, sfilarono nell’angusta cabina e occuparono i posti, sistemati a due a
due a ciascun lato del passaggio.
Alle ore 8.05 antimeridiane, il Fairchild n. 571, dell’aviazione militare
uruguayana, decollò dall'aeroporto di Carrasco diretto a Santiago del Cile, con
quaranta passeggeri, cinque uomini d’equipaggio e i bagagli. Pilota e
comandante dell’aereo era il colonnello Julio César Ferradas. Egli prestava
servizio nell’aviazione militare da più di vent’anni, aveva 5.117 ore di volo e
aveva sorvolato ventinove volte la traditrice cordillera de los Andes. Il
secondo pilota, tenente Dante Hector Lagurara, era più anziano di Ferradas,
ma non altrettanto esperto. Una volta aveva dovuto lanciarsi con il paracadute
da un reattore T33, ed ora pilotava il Fairchild sotto gli occhi di Ferradas per
accrescere la propria esperienza, come si soleva fare nell’aviazione militare
uruguayana.
L’aereo che egli stava pilotando, il Fairchild F227, era un bimotore
turboelica costruito negli Stati Uniti e acquistato dall’aviazione militare
uruguayana appena due anni prima. Era stato lo stesso Ferradas a pilotarlo dal
Maryland. Da allora esso aveva volato per sole 792 ore; in base ai criteri
dell’aviazione, era come nuovo. Se esisteva qualche dubbio nella mente dei
piloti, quei dubbi non concernevano le doti dell’aereo, ma piuttosto le
famigerate e traditrici correnti d’aria sopra le Ande. Appena dodici o tredici
settimane prima, un quadrimotore da trasporto, con un equipaggio di sei
persone, la metà delle quali uruguayani, era scomparso sulle montagne.
II piano di volo predisposto da Lagurara prevedeva di portare il Fairchild
direttamene da Montevideo a Santiago passando per Buenos Aires e Mendoza,
una distanza intorno ai millequattrocentocinquanta chilometri. La veIocità di
crociera del Fairchild era di circa 240 miglia (440 km.); esso avrebbe pertanto
impiegato approssimativamente quattro ore, sorvolando le Ande nell’ultima
mezz’ora. Partendo alle otto, comunque, i piloti prevedevano di arrivare sulle
montagne prima di mezzogiorno, evitando così i pericolosi vortici
pomeridiani. Ciò nonostante, li preoccupava il sorvolo perche la catena delle
Ande, sebbene non sia più larga di centosessanta chilometri, arriva ad
un’altezza media di quattromilatrecento metri, con vette alte fino a
seimilaseicento metri; una montagna, l’Aconcagua, situata fra Mendoza e
Santiago, raggiunge l’altezza di settemilacinquecentoventicinque metri, ed è la
più alta vetta dell’emisfero occidentale, inferiore di appena
millenovecentottanta metri all’Everest.
La quota massima che il Fairchild poteva raggiungere era di
settemilaquattrocentoventicinque metri. Esso doveva per conseguenza volare
attraverso un passo delle Ande ove le montagne avessero un’altezza inferiore.
Quando la visibilità era buona, si poteva scegliere tra quattro passi: il Juncal,
la via più breve tra Mendoza e Santiago, il Nieves, l’Alvarado o il Planchon.
Se la visibilità fosse stata scarsa, costringendo i piloti al volo strumentale, il
Fairchild avrebbe dovuto passare sorvolando il Planchon, centosessanta
chilometri circa a sud di Mendoza, perché il Juncal aveva un plafond minimo
di ottomilacinquecento metri e Nieves e Alvarado non disponevano di
radiofari. Il pericolo non consisteva tanto nel fatto che l’aereo potesse urtare
contro una montagna. Le condizioni meteorologiche sulle Ande andavano
soggette a ogni sorta di imprevisto traditore. Da est si sollevavano correnti
d’aria calda che si imbattevano nella gelida atmosfera al limite delle nevi,
situato tra quattromilaseicento e cinquemiladuecento metri. Al contempo, i
venti ciclonici che imperversavano dal Pacifico ruggivano su per le vallate da
ovest e venivano a loro volta correnti calde e fredde provenienti dal lato
opposto. Se un aereo capitava per caso in una turbolenza del genere, poteva
essere sbattuto qua e là dal vento come una foglia morta in un rigagnolo.
Tenendo presenti tali considerazioni Lagurara si mise in contatto con il
controllo di Mendoza.
Nella cabina passeggeri non si scorgeva alcun manifesto indizio d’ansia. I
giovani conversavano, ridevano, leggevano fumetti o giocavano a carte.
Marcelo Pérez parlava di rugby con i giocatori della squadra; Susana Parrado
sedeva accanto alla madre, che distribuiva caramelle ai giovani vicino a lei.
Dietro di loro sedeva Nando Parrado, con il suo più grande amico, Panchito
Abal.
Questi due ragazzi erano famosi come amici inseparabili. Tutti e due figli
di uomini d’affari, lavoravano entrambi nelle aziende paterne. Parrado nel
ramo dei dadi e dei bulloni, Abal in quello del tabacco. In apparenza si
trattava di un’amicizia bizzarra. Abal, bello, simpaticissimo e ricco, era uno
dei più abili giocatori di rugby dell’Uruguay e faceva parte della squadra dei
Vecchi Cristiani come trequarti; Parrado invece era goffo, timido, e, anche se
di aspetto piacevole, non particolarmente simpatico. Giocava in seconda linea
nelle mischie.
Gli interessi che i due giovani avevano in comune, oltre al rugby e agli
affari, erano le automobili e le ragazze, e, in seguito a ciò, si erano fatti la
fama di playboy. Le automobili costano enormemente nell’Uruguay, ed
entrambi ne avevano una, Parrado una Renault 4 e Abal una Mini Cooper.
Tutti e due possedevano inoltre motociclette con le quali si recavano a Punta
del Este e correvano lungo le spiagge con una ragazza sul sellino posteriore.
Anche in questo caso i loro rapporti sembravano impari, poiché, mentre
difficilmente esisteva una ragazza nell’Uruguay che non volesse essere veduta
in compagnia di Abal, un appuntamento con Parrado non era altrettanto
ambito. Gli mancavano le attrattive e il disinvolto fascino di Abal; inoltre, il
giovane era, né più né meno, quello che sembrava essere. Abal, d’altro canto,
dava l’impressione che la sua allegria e i suoi modi piacevoli e incantevoli
celassero una profonda e misteriosa malinconia che, assieme alle
manifestazioni occasionali di una noia profonda, contribuiva soltanto ad
accrescerne il fascino. Egli inoltre ricambiava l’ammirazione delle ragazze
dedicando loro parecchio tempo. La sua statura, la robustezza fisica e l’abilità
gli consentivano di fare a meno di alcuni allenamenti essenziali per gli altri
giocatori della squadra e le energie che egli risparmiava non giocando al
rugby venivano dedicate a queste graziose ragazze, alle automobili e alle
motociclette, agli abiti ricercati, e all’amicizia con Parrado.
Parrado godeva di un vantaggio, rispetto rispetto ad Aba, per il quale
quest’ultimo avrebbe dato volentieri in cambio tutti gli il altri: aveva a una
famiglia felice e unita. I genitori di Abal erano divorziati. Entrambi erano già
stati sposati, entrambi avevano già avuto figli dai matrimoni precedenti. La
madre di lui era molto più giovane del padre, ma Abal aveva deciso di vivere
con quest’ultimo, che aveva ormai più di settant’anni. Il divorzio dei genitori
lo aveva però ferito profondamente; la sua malinconia alla Byron non era
soltanto un’affettazione.
***
L’aereo sorvolava le pampas sconfinate dell’Argentina. Chi si trovava
accanto ai finestrini poteva vedere gli appezzamenti verdi e geometrici dei
campi coltivati nella prateria e, di quando in quando, rimboschimenti
quadrati, o piccole case circondate da alberi. Poi, adagio, il territorio
sottostante cambiò aspetto passando da una sorta di vasta pavimentazione
verde alle estensioni più aride ai piedi delle sierras, torreggiarti a destra
dell’apparecchio. L’erba cedette il posto alla boscaglia e i campi coltivati
parvero raggrupparsi soltanto intorno a puntini che erano pozzi artesiani.
A un tratto, videro le Ande sorgere davanti a loro, una muraglia
imponente, che sembrava insormontabile, con picchi innevati simili ai denti di
una sega gigantesca. Lo spettacolo di quelle montagne, la cordillera, sarebbe
bastato a far meditare anche il viaggiatore più esperto, per non parlare di
questi giovani uruguayani la maggior parte dei quali non aveva mai veduto
montagne più alte delle collinette situate tra Montevideo e Punta del Este.
Mentre essi si preparavano alla visione terrificante di alcune tra le più alte
vette del mondo, lo steward, Ramírez, uscì a un tratto dalla cabina di
pilotaggio e annunciò all’altoparlante che le condizioni meteorologiche
rendevano impossibile il sorvolo della cordillera. L’aereo avrebbe effettuato
un atterraggio a Mendoza, aspettando in quell’aeroporto che il tempo
migliorasse.
Un gemito di delusione si alzò dai giovani nella cabina passeggeri. In
effetti, avevano cinque giorni appena da trascorrere nel Cile e non volevano
sciuparne uno solo, né spendere alcuno dei loro preziosi dollari americani, in
Argentina. In ogni modo, non essendo possibile girare intorno alle Ande, che
vanno da un’estremità all’altra del continente sudamericano, non rimaneva
altro da fare; pertanto, si allacciarono le cinture di sicurezza e rimasero
irrigiditi ai loro posti mentre il Fairchild effettuava un atterraggio alquanto
violento all’aeroporto di Mendoza.
Quando il Fairchild si fu fermato di fronte all’edificio dell’aeroporto e
Ferradas uscì dalla cabina di pilotaggio, un trequarti della squadra, a nome
Roberto Canessa, dando prova di una certa impudenza, si congratulò con lui
per l’atterraggio.
«Non si congratuli con me», disse Ferradas. «La lode la merita Lagurara.»
«E quando ripartiamo per il Cile?» domandò un altro dei giovani.
Il colonnello si strinse nelle spalle. «Non lo so. Staremo a vedere come si
metterà il tempo.»
3

I giovani seguirono i piloti e gli altri uomini dell’equipaggio fuori dell’aereo e


si raggrupparono al di là della pista per i controlli doganali; le montagne della
precordillera campeggiavano dinanzi a loro come un’immensa parete
rocciosa. Tutto il resto ne veniva sminuito: gli edifici, i serbatoi di benzina, gli
alberi. Ma gli uruguayani non si lasciarono intimidire. Nemmeno la cordillera,
né il fastidioso contrattempo della necessità di acquistare pesos argentini
sarebbero riusciti a domare la loro allegria. Uscirono dall’aeroporto e si
suddivisero in gruppi per andare in città con un autobus o un taxi, o per
chiedere un passaggio a qualche autocarro in transito.
Era l’ora di pranzo e i giovani avevano molto appetito, non c’era stata né
una colazione mattutina, né una colazione sostanziosa in seguito, e sul
Fairchild non si trovavano provviste di cui valesse la pena di parlare. Un
gruppo dei più giovani si diresse immediatamente verso un vicino ristorante;
risultò che il proprietario era un uruguayano espatriato, il quale non volle a
nessun costo far loro pagare il conto.
Altri andarono in cerca di un albergo modesto e, dopo aver preso le
camere, uscirono di nuovo per dare un’occhiata in giro. Per quanto fossero
impazienti di giungere nel Cile, non poterono fare a meno di ammirare
Mendoza. Una tra le più antiche città dell’Argentina, essendo stata fondata
dagli Spagnoli nel 1561, conservava gran parte della grazia e del fascino del
periodo coloniale. Aveva vie ampie, lungo le quai allineavano alberi. L’aria,
sebbene la primavera fosse appena cominciata, era tiepida e asciutta, quel
giorno, e profumata dai fiori appena sbocciati nei giardini pubblici. Lungo le
strade si susseguivano simpatici negozi, caffè e ristoranti, e, nei dintorni della
città, si stendevano gli acri e acri di vigneti che producono alcuni tra i migliori
vini dell'America del Sud.
I Parrado, Abal, la señora Mariani e le altre due coppie di mezza età
presero camere in uno degli alberghi più eleganti, ma, dopo aver pranzato, si
recarono in luoghi diversi. Parrado e Abal scoprirono una corsa
automobilistica e in serata si unirono a Marcelo Pérez per vedere Barbra
Streisand in What’s Up, Doc? I ragazzi più giovani fecero conoscenza con
una comitiva di fanciulle argentine, in vacanza dopo il diploma, e le
condussero a ballare. Alcuni di loro non rientrarono nei rispettivi alberghi
fino alle quattro del mattino.
Per conseguenza, dormirono fino a tardi il giorno dopo. L’equipaggio
dell’aereo non fece sapere che dovevano tornare all’aeroporto, per cui, una
volta di più, tutti andarono a girovagare nelle vie di Mendoza. Uno dei più
giovani, Carlitos Pàez, che tendeva a essere un ipocondriaco, si rifornì di
aspirine e di Alka Seltzer. Gli altri spesero quel che era loro rimasto di valuta
argentina per acquistare cioccolata, nougatine, e contenitori di butano per
ricaricare gli accendini. Nando Parrado comprò un paio di minuscole
scarpette rosse per la figlia di sua sorella maggiore, mentre la madre di lui
acquistava bottigliette di rum e d’altri liquori per gli amici nel Cile. Le diede
da portare a Nando, che le ficcò nella sacca della linea aerea, insieme alla
tenuta da rugby.
Due dei tre studenti di medicina, Roberto Canessa e Gustavo Zerbino, si
recarono in un caffè con tavolini e sedie all’aperto sul marciapiede di un viale
alberato. Là ordinarono la colazione: succo di pesche, croissants e café au
lait.
Poco dopo, mentre stavano sorseggiando il caffelatte, videro il capitano
della squadra, Marcelo Pérez, e ¡ due piloti dirigersi verso di loro.
«Ehi!» gridarono al colonnello Ferradas. «Si può ripartire, adesso?»
«Non ancora», rispose Ferradas.
«Siete codardi, o che altro?» domandò Canessa, soprannominato
«Muscoli» a causa della sua tenacia.
Ferradas, riconoscendo la voce acuta che si era «congratulata» con lui per
l’atterraggio il giorno prima, parve momentaneamente irritato. «Vuole far
leggere ai suoi genitori, giornali, che quarantacinque uruguayani sono
scomparsi sulla cordillera?» domandò.
«No», rispose Zerbino. «Voglio che leggano: ‘Quarantacinque uruguayani
sorvolano la cordillera a tutti i costi’.»
Ferradas e Lagurara risero e proseguirono. Si trovavano in una situazione
imbarazzante, non tanto a causa delle puntatore dei giovani, quanto per il
dilemma che dovevano risolvere. Secondo i bollettini meteorologici, il tempo
stava migliorando sulle Ande. Il passo di Juncal continuava a essere escluso
per il Fairchild, ma era molto probabile che, nelle prime ore del pomeriggio,
il Planchón offrisse un’ottima visibilità. Ciò avrebbe significato sorvolare le
Ande in un’ora della giornata considerata di norma pericolosa, ma essi
ritenevano di potersi mantenere al di sopra delle turbolenze. La sola altra
alternativa consisteva nel ritorno a Montevideo (perché, secondo i
regolamenti, gli aerei militari appartenenti a una potenza straniera non
potevano sostare più di ventiquattr’ore sul territorio dell’Argentina), e ciò non
soltanto avrebbe deluso i ricchi Cristiani, ma avrebbe causato una grossa
perdita finanziaria alla tutt’altro che ricca aviazione militare uruguayana. Per
conseguenza, essi fecero avvertire gli altri da Marcelo Pérez che i passeggeri
dovevano presentarsi all’aeroporto alle ore dieci.
I passeggeri si attennero a queste disposizioni, ma, quando giunsero, non
trovarono traccia dell’equipaggio uruguayano né funzionari argentini che
avrebbero dovuto controllare bagagli e passaporti. I giovani ingannarono il
tempo in vari modi mentre aspettavano, scattando fotografie, pesandosi,
spaventandosi a vicenda con la constatazione che quel giorno era venerdì 13,
e prendendo in giro la señora Parrado perché aveva portato una coperta da
viaggio per recarsi nel Cile in primavera. Poi si levò un grido. Ferradas e
Lagurara erano entrati nell’edificio dell’aeroporto, carichi entrambi di grosse
bottiglie di vino di Mendoza. I ragazzi cominciarono a burlarsi di loro.
«Alcoolizzati», urlò qualcuno; «Contrabbandieri» gridò un altro; e l’insolente
Canessa disse con voce beffarda e penetrante: «Ma guardate che razza di piloti
abbiamo!»
Ferradas e Lagurara parvero un po’ sconcertati dai lazzi del gruppo dei
ragazzi. V’era in loro un latente atteggiamento difensivo, in parte perché non
avevano ancora preso una decisione riguardo a quanto avrebbero dovuto fare
e temevano che la loro cautela potesse essere scambiata per incapacità.
Proprio in quel momento, però, un altro aereo atterrò nell’aeroporto. Era un
vecchio apparecchio da trasporto che fece un monte di strepito ed emise scie
di fumo dai motori rullando sulla pista; quando il suo pilota fu entrato
nell’edificio dell’aeroporto, Ferradas lo avvicinò e gli chiese consiglio.
Il pilota arrivava per l’appunto da Santiago e riferì che, sebbene la
turbolenza dell’aria fosse forte, non avrebbe dovuto mettere in difficoltà il
Fairchild, un aereo, in fin dei conti, munito degli strumenti di navigazione più
moderni. Egli suggerì loro, addirittura, di seguire la rotta aerea diretta per
Santiago, sorvolando il passo Juncal, il che avrebbe ridotto il viaggio a meno
di duecentoquaranta chilometri.
Ferradas decise di partire, non per il passo Juncal, ma seguendo la più
sicura rotta meridionale attraverso il passo del Planchon. Un applauso si levò
dai giovani, quando la notizia venne annunciata, anche se dovevano ancora
aspettare che i funzionari argentini controllassero i passaporti e dessero loro
via libera verso il Fairchild.
Nel frattempo, videro il malconcio apparecchio da carico ripartire
decollando con lo stesso strepito e lo stesso fumo di prima. In quel momento,
due dei Vecchi Cristiani si rivolsero alle ragazze argentine che erano uscite con
loro la sera prima e li avevano accompagnati adesso all’aeroporto per
salutarli, dicendo: «Ora sappiamo che tipi di aerei hanno in Argentina».
«Per lo meno sorvolano le Ande», rispose piccata una delle due ragazze,
«ed è più di quello che riuscirà a fare il vostro.»
4

Il secondo pilota, Lagurara, si trovava di nuovo ai comandi del Fairchild


quando quest’ultimo decollò dall’aeroporto di Mendoza alle 14.18, ora locale.
Diresse l’aereo su Chilecito e poi su Malargüe, un villaggio sul versante
argentino del passo Panchon. L’aereo salì a seimila metri di quota e volo con
vento di coda tra i venti e i sessanta nodi (20-60 miglia).
Il territorio sotto di loro era scarsamente abitato e arido, caratterizzato da
letti di fiumi e da laghi salati intorno ai quali correvano le piste seguite dai
bulldozer. Sulla destra si sollevava la cordillera, una muraglia di nude rocce
che sembrava spingersi verso il cielo. Se la pianura sottostante sembrava per
la maggior parte priva di vegetazione, quelle montagne erano un deserto. Le
rocce, brune, grigie e gialle, non sembravano essere sfiorate neppure dalla più
piccola traccia di verde; infatti, la loro altezza riparava i monti, su quel lato,
dalle precipitazioni che i venti del Pacifico portavano sui versanti della catena
montuosa. Lì, sul versante argentino, il terreno situato tra le pieghe e i burroni
delle montagne non era altro che polvere vulcanica. Non vi esistevano alberi,
né cespugli, né erba. Nulla interrompeva il monotono ascendere dei friabili
rilievi tranne la neve. Sopra i quattromila metri le nevi erano eterne, ma in
quella stagione arrivavano molto in basso raddolcendo i profili della
montagna e accumulandosi nelle vallate fino a raggiungere lo spessore di oltre
trenta metri.
Il Fairchild era munito non soltanto di un radiogoniometro ADF
(Automatic Direction Finder, Individuatore Automatico di Direzione), ma
anche del più moderno VOR (VHF Omnidirectional Range-Gamma,
Onnidirezionale ad Altissima Frequenza). Diveniva per conseguenza una
questione di routine sintonizzarsi con il radiofaro di Malargüe, che era
bloccato sulle ore 15.08. Volando sempre alla quota di seimila metri, l'aereo
virò a questo punto per sorvolare la cordillera lungo il corridoio aereo G17.
Lagurara calcolò che il Planchon (il punto al centro delle montagne nel quale
sarebbe passato dal Controllo del traffico aereo di Mendoza a quello di
Santiago) si trovasse sulla direzione alle ore 15.21. Mentre procedeva sopra le
montagne, tuttavia, una coltre di nubi gli impedì la visuale del terreno
sottostante. Ciò non era motivo di preoccupazione. La visibilità al di sopra
delle nubi rimaneva buona e, con l’alta cordillera ricoperta di neve non
avrebbero avuto in ogni caso alcun punto di riferimento mediante il quale
identificare il Planchon. Un solo cambiamento significativo aveva avuto
luogo: il moderato vento di coda era stato sostituito da un forte vento di
prora. La velocità dell’aereo dovette pertanto essere ridotta da 210 a 180
miglia.
Alle ore 15.21 Lagurara si mise in contatto radio con il Controllo del
traffico aereo di Santiago per annunciare che si trovava sopra il passo del
Planchon e calcolava di arrivare a Curicó, la piccola cittadina cilena sul
versante ovest delle Ande, alle 15.32. Poi, appena tre minuti dopo, il Fairchild
si mise nuovamente in contatto con Santiago e riferì di avere «identificato
Curicó» e di essere diretto «verso Maipu». L’aereo virò ad angolo retto
rispetto alla rotta precedente e si diresse a nord. La torre di controllo di
Santiago, accettando per buone le indicazioni di Lagurara, lo autorizzò a
portare l’aereo alla quota di tremila metri mentre si avvicinava all’aeroporto di
Pudahuel. Alle ore 15.30 Santiago controllò la quota del Fairchild; esso riferì
«quota 150». Ciò significava che Lagurara aveva già portato l’aereo alla quota
di cinquemila metri. A tale quota l’apparecchio penetrò in una nube e
cominciò a «saltare» e ad essere scosso dalle correnti d’aria contrastanti.
Lagurara accese, nella cabina passeggeri, il segnale luminoso che ordinava ai
passeggeri di allacciare le cinture di sicurezza e di spegnere le sigarette. Si
rivolse poi allo steward, Ramirez, che aveva portato a Ferradas un thermos di
maté, il tè amaro dell’America del Sud, invitandolo a tornare nella cucina di
bordo e ad accertarsi che i passeggeri indisciplinati si attenessero alle
disposizioni.
Nella cabina passeggeri regnava un’atmosfera festosa di vacanza. Parecchi
giovani andavano su e giù nel passaggio, scrutando fuori dei piccoli finestrini
e cercando di intravedere le montagne attraverso uno squarcio nelle nubi.
Erano tutti di ottimo umore; avevano portato la palla da rugby e alcuni di loro
la stavano lanciando da un’estremità all’altra della cabina al di sopra delle
teste degli altri. In fondo all’aereo, un gruppo giocava a carte e, ancora più
indietro, accanto alla cucina, lo steward e l’ufficiale di rotta, Martinez,
avevano giocato una partita di truco, una sorta di whist. Tornando indietro
dalla cabina di pilotaggio per riprendere la partita, lo steward disse ai ragazzi
ancora in piedi nel passaggio di mettersi a sedere.
«Abbiamo tempo cattivo davanti a noi», disse. «L’aereo ballerà un po’, ma
non vi preoccupate. Siamo in contatto con Santiago. Atterreremo tra poco.»
Avvicinandosi alla cucina, disse a quattro dei giovani in coda all’aereo di
portarsi più avanti. Poi si mise a sedere di fronte all’ufficiale di rotta e riprese
la sua mano di carte.
I Fairchild, penetrando in un nuovo banco di nubi, cominciò ad essere
scosso e a rollare in modo tale da impensierire molti dei passeggeri. Una o due
battute di spirito cercarono di nascondere questo nervosismo. Uno dei giovani
si impossessò del microfono in fondo all’aereo e disse: «Signore e signori,
siete pregati di mettere i paracadute. Stiamo per scendere sulla cordillera».
Gli ascoltatori non parvero divertiti, perché, proprio in quel momento,
l’aereo venne a trovarsi in un vuoto d’aria e piombò giù per parecchie decine
di metri. Roberto Canessa, esempio, sentendosi allarmato, si voltò verso la
señora Nicola, seduta con il marito al lato opposto del passaggio, domandò se
avesse paura.
«Sì», ella rispose. «Sì, ho paura.»
Dietro di loro, un gruppo di ragazzi comincio a cantare «Conga, conga,
conga», e Canessa, con un’ostentazione di coraggio, lanciò la palla da rugby
che aveva in mano al dottor Nicola, il quale, a sua volta, la lanciò più indietro
nella cabina.
Eugenia Parrado alzò gli occhi dal libro che stava leggendo. Non si vedeva
niente fuori del finestrino tranne la nebbia bianca delle nuvole. Si voltò allora
dall’altro lato, guardò in viso Susana e le prese la mano. Dietro di loro, Nando
Parrado e Panchito Abal erano assorti in una conversazione. Parrado non
aveva neppure allacciato la cintura di sicurezza e non l’allacciò nemmeno
quando l’aereo venne a trovarsi in un secondo vuoto d’aria e precipitò come
un sasso per alcune altre decine di metri. Il grido di «Ole, ole, ole!» si alzò dai
giovani nella cabina passeggeri, da quelli, cioè, che non riuscivano a vedere
fuori dai finestrini, poiché la seconda caduta aveva portato il Fairchild fuori
dalle nubi, e la visuale che si aprì ad esse non era quella della fertile valle
centrale del Cile, molte centinaia di metri più in basso, bensì quella del crinale
roccioso di una montagna coperta di neve, a non più di tre metri dall’estremità
dell’ala.
«Non credo» rispose il suo compagno. Parecchi passeggeri si misero a
pregare. Altri si puntellarono contro i sedili davanti ai loro aspettando
l’impatto dell’urto. Si udì un rombo dei motori e la fusoliera vibrò mentre il
Fairchild cercava di risalire; si sollevò un poco, ma poi vi fu uno schianto
assordante mentre l’ala destra urtava il fianco della montagna.
Immediatamente, l’ala si staccò, capriolò sopra la fusoliera e recise la coda. Lo
steward, l’ufficiale di rotta e il loro mazzo di carte piombarono fuori nell’aria
gelida, seguiti da tre dei ragazzi ancora allacciati alle poltrone. Un attimo dopo,
l’ala sinistra si spezzò e una pala dell’elica sfondò la fusoliera prima di cadere
al suolo.
All’interno di quel che restava della cabina passeggeri si udivano urla di
terrore e invocazioni di aiuto. Senza ali né coda, l’aereo precipitò verso la
montagna frastagliata, ma, invece di andare in pezzi contro una parete
rocciosa, atterrò di piatto in una ripida valle e scivolò come un toboga sulla
superficie in pendio della neve alta.
La velocità con la quale esso piombò al suolo era intorno alle duecento
miglia (360 km.) ma, ciò nonostante, l’apparecchio non si disintegrò. Ancora
due ragazzi vennero risucchiati fuori del fondo dell’aereo; gli altri rimasero
nella fusoliera che filava giù per la montagna, ma la forza di decelerazione
fece sì che i sedili si staccassero dai sostegni e venissero lanciati avanti,
schiacciando i corpi delle persone rimaste tra essi e sfondando la parete
divisoria che separava la cabina passeggeri dal vano anteriore bagagli. Mentre
l’aria gelida delle Ande si avventava nella cabina decompressa e i passeggeri
ancora in sé aspettavano l’urto della fusoliera contro la roccia, furono il
metallo e la plastica dei sedili a ferirli. Rendendosi conto di quanto stava
accadendo, alcuno dei giovani cercarono di slacciarsi le cinture di sicurezza e
portarsi in piedi nel passaggio, ma soltanto Gustavo Zerbino vi riuscì. Rimase
ritto, i piedi piazzati saldamente sul pavimento e le mani premute conto il
soffitto, urlando: «Gesù, Gesù, Gesù Bambino, aiutaci, aiutaci!»
Un altro dei giovani, Carlitos Pàez, stava recitando un’Ave Maria, iniziata
non appena l’ala dell’aereo aveva urtato la montagna. Mentre pronunciava le
ultime parole di questa preghiera, la fusoliera si fermò. Vi fu un momento di
immobilità e di silenzio. Poi, adagio, da ogni parte dell’aggrovigliato sfacelo
all’interno della cabina passeggeri giunsero suoni di vita: gemiti e preghiere, e
invocazioni d’aiuto.
***
Quando l’aereo aveva cominciato a scivolare giù per la valle, Canessa si
era preparato all’urto, dicendosi che da un momento all’altro sarebbe morto.
Non pregò, ma calcolò mentalmente la velocità del Fairchild e l’impeto con il
quale avrebbe cozzato contro la roccia. Poi, ad un tratto, si rese che l’aereo
non si muoveva più.
Gridò: «Si è fermato!», poi si voltò verso il giovane che sedeva accanto e
gli domandò se fosse sano e salvo. Il ragazzo era in stato di choc. Annuì e
Canessa lo lasciò per aiutare il suo amico Daniel Maspons a districarsi dal
sedile. Poi cominciarono entrambi ad aiutare gli altri. A tutta prima, avevano
creduto di essere gli unici due rimasti illesi, perché attorno udivano soltanto
invocazioni d’aiuto, ma poi altri cominciarono a venir fuori dai rottami.
Dapprima Gustavo Zerbino, poi il capitano della squadra, Marcelo Pérez.
Pérez aveva la faccia tumefatta e un dolore al fianco, ma, in quanto capitano
della squadra, si assunse immediatamente il compito di organizzare il
salvataggio delle persone rimaste imprigionate tra i rottami, mentre i due
studenti di medicina, Canessa e Zerbino, facevano tutto il possibile per i feriti.
Immediatamente dopo che la fusoliera si era fermata, alcuni dei ragazzi più
giovani, sentendo l’odore dei vapori di benzina e temendo che l’aereo potesse
esplodere o incendiarsi, avevano spiccato un balzo fuori dello squarcio della
fusoliera privata della coda. Vennero a trovarsi nella neve fino alle cosce.
Bobby François, il primo a saltar giù dal Fairchild, salì su una valigia e accese
una sigaretta. «Siamo fregati», disse a Carlitos Pàez, che lo aveva seguito fuori
nella neve.
Lo scenario che o circondava era desolato all’estremo. Tutto intorno a loro
una distesa di neve e più lontano, su tre lati, le ripide e grige pareti delle
montagne. L’aereo si era fermato su un lieve pendio, di fronte al fondovalle
ove le montagne erano assai più distanziate e in quel momento nascoste in
parte da nuvole grigie. Faceva un freddo intenso e molti dei ragazzi erano in
maniche di camicia; alcuni indossavano giacchette sportive, altri, giubbotti.
Nessuno vestiva in modo da poter sopportare temperature sotto lo zero, e si
vedevano poche valigie nelle quali si potessero trovare altri indumenti.
Mentre questi ragazzi più giovani si voltavano a guardare in alto la
montagna e cercavano con lo sguardo il loro bagaglio perduto, videro una
sagoma scendere barcollando lo scoscendimento. Quando si avvicinò,
riconobbero uno dei loro amici, Carlos Valeta, e lo chiamarono, gridandogli di
venire dalla loro parte. Valeta sembrava incapace di vederli o di udirli. Ad
ogni passo, affondava nella neve fino alle cosce, e soltanto la ripida
inclinazione del pendio gli consentiva di avanzare in qualche modo. I ragazzi
si accorsero che la direzione seguita da lui non lo avrebbe condotto all’aereo,
e pertanto urlarono ancor più freneticamente per richiamare la sua attenzione.
Due di loro, Pàez e Storm, tentarono persino di farglisi incontro, ma risultò
impossibile camminare sulla neve, particolarmente in salita. Erano intrappolati
e poterono soltanto guardare impotenti mentre Valeta continuava a incespicare
giù per la valle. A un certo momento, parve che li avesse uditi e che stesse
cambiando direzione per avvicinarsi all’aereo, ma poi scivolò. I suoi lunghi
passi si tramutarono in un ruzzolone e il corpo di lui slittò, incapace di
fermarsi, giù per il fianco della montagna, scomparendo in ultimo, nella neve.
***
All’interno della fusoliera, il pugno di ragazzi in grado di agire si sforzò di
smuovere i sedili che imprigionavano un così gran numero di feriti. Nell’aria
rarefatta dell’alta montagna occorreva il doppio di energia e di fatica, e coloro
che avevano subito soltanto lesioni superficiali si trovavano ancora in stato di
choc.
Anche quando i feriti furono liberati, tutti gli altri poterono fare bene
poco. Gli studi dei due «medici», Canessa e Zerbino (il terzo studente di
medicina. Diego Storm, si trovava in stato di choc), erano miseramente
inadeguati. Durante il primo anno della facoltà di medicina, Zerbino aveva
frequentato per sei mesi corsi obbligatori di psicologia e sociologia. Canessa
frequentava il secondo anno, ma anche questo periodo era appena un quarto
della durata complessiva degli studi. Ciò nonostante, entrambi i giovani erano
consapevoli della particolare responsabilità che gravava su di loro a causa
della carriera prescelta.
Canessa si inginocchiò per esaminare il corpo schiacciato una donna che a
tutta prima non riuscì a riconoscere. Si trattava di Eugenia Parrado, ed era
morta. Accanto a lei giaceva Susana Parrado, semisvenuta e in vita, ma
gravemente ferita. Il sangue sgorgava da un taglio sulla fronte di lei,
accecandole un occhio. Canessa tamponò la ferita ed eliminò il sangue
affinché ella potesse vederci, poi la distese su quella piccola parte del
pavimento non ingombra dai sedili.
Vicino alla ragazza si trovava Abal. Anch’egli era gravemente ferito, con
uno squarcio nel cuoio capelluto. Sembrava quasi privo di sensi, ma, quando
Canessa si inginocchiò per curarlo come meglio poteva, egli gli afferrò la
mano, dicendo: «Ti prego, non lasciarmi, vecchio mio. Ti prego, non
lasciarmi». C’erano tante altre persone invocanti aiuto che Canessa non
poteva restare con lui. Chiamò Zerbino affinché si occupasse di Abal e si
avvicinò a Parrado, che era stato scaraventato fuori del sedile e giaceva privo
di sensi ella parte anteriore della fusoliera. Aveva la faccia coperta di lividi e
di sangue, e Canessa pensò che fosse morto. Gli si inginocchiò accanto e gli
tastò il polso; con la punta delle dita, percepì un lieve battito cardiaco. Parrado
viveva ancora, ma sembrava impossibile che potesse resistere a lungo e,
poiché non si poteva far nulla per giovargli, fu dato per morto.
Oltre a Eugenia Parrado, altri due passeggeri nella fusoliera erano deceduti
all’istante. Si trattava del dottor Nicola e della sua señora. Proiettati entrambi
in avanti contro il vano bagagli, l’uno accanto all’altra, erano morti subito.
Per il momento, i loro cadaveri furono lasciati dove si trovavano e i due
studenti di medicina ricominciarono a fare quel che potevano per i vivi.
Ricavarono bende dai copri-schienali dei sedili, ma per molte delle ferite esse
risultarono del tutto inadeguate. Un ragazzo, Rafael Echavarren, aveva il
polpaccio della gamba destra quasi completamente staccato e avvolto intorno
allo stinco. L’osso rimaneva del tutto a nudo. Zerbino afferrò il muscolo
insanguinato, lo srotolò, lo rimise al suo posto, poi bendò la gamba con una
camicia bianca.
Un altro giovane, Enrique Platero, si avvicinò a Zerbino con un tubo
d’acciaio conficcato nello stomaco. Zerbino rimase inorridito, ma ricordò
quanto gli era stato insegnato durante le lezioni di psicologia medica, che un
buon dottore riesce sempre a infondere fiducia nei suoi pazienti. Per
conseguenza, fissò Platero negli occhi e, con tutta la convinzione che gli riuscì
di immettere nel tono della propria voce, disse: «Oh, Enrique, hai l’aria di
stare benissimo».
«Tu credi?» disse Platero, additando il tubo d’acciaio che gli sporgeva
dallo stomaco. «E questo, allora?»
«Non stare a preoccuparti per quello», lo consolò Zerbino. «Tu sei
perfettamente in forze, quindi vieni a darmi una mano per rimuovere i sedili.»
Platero parve credergli. Si voltò verso i sedili e, in quel momento, Zerbino
afferrò il tubo, appoggiò un ginocchio contro il corpo di Platero e tirò. Il
pezzo di acciaio uscì e, assieme ad esso, fuoriuscirono quasi quindici
centimetri di qualcosa che Zerbino ritenne essere l’intestino di Platero.
Platero, riportando l’attenzione sul proprio stomaco, contemplò lo
sporgere dei visceri con un certo sgomento, ma, prima che avesse avuto il
tempo di lagnarsi, Zerbino gli disse: «Adesso stammi a sentire, Enrique, tu
potrai pensare di essere malridotto, ma ci sono tanti altri, qui, in condizioni di
gran lunga peggiori delle tue. Perciò non fare il codardo e vieni ad aiutare.
Benda quel buco con una camicia ed io me ne occuperò in seguito».
Senza lamentarsi, Platero fece come gli aveva detto Zerbino.
Canessa, intanto, era tornato da Fernando Vázquez, il giovane seduto
accanto a lui durante il volo. La gamba che Canessa aveva creduto fosse
semplicemente fratturata, era stata, in effetti, tagliata in due dall’elica
dell’aereo quando quest’ultima aveva sfondato la fusoliera. In seguito
all’imponente emorragia dell’arteria recisa, Fernando era ormai morto.
Molti degli altri giovani avevano riportato ferite alle gambe quando i
sedili, strappati ai sostegni, si erano accavallati gli uni contro gli altri. Uno dei
ragazzi, con una gamba fratturata in tre punti diversi, era gravemente ferito al
petto e giaceva privo di sensi. Più di tutti gli altri, soffrivano coloro che non
erano svenuti: Panchito Abal, Susana Parrado e, peggio di ogni altro, la donna
di età matura che nessuno di loro conosceva, la señora Mariani. Era rimasta
imprigionata, con tutte e due le gambe fratturate, sotto una catasta di sedili, e i
giovani non riuscivano a liberarla. Ella urlava e invocava aiuto, ma era
superiore alle loro forze sollevare la poltrona che la intrappolava.
La faccia di Liliana Methol, la quinta donna che aveva viaggiato sull’aereo,
era tumefatta e coperta di sangue, ma tutte le sue ferite risultarono superficiali.
Il marito di lei, Javier, cugino di Panchito Abal, era illeso, ma il mal di
montagna lo aggrediva con la stessa virulenza di un attacco influenzale.
Sebbene facesse fiacchi tentativi di aiutare i feriti, era talmente sconvolto dai
capogiri e dalla nausea che riusciva a malapena a muoversi. Altri, sebbene
non afflitti dagli stessi sintomi, erano in preda a choc in seguito all’incidente.
Un ragazzo, Pedro Algorta, soffriva di amnesia totale. Fisicamente, stava
abbastanza bene per lavorare con energia spostando i sedili, ma non aveva
idea di dove si trovava, né di quello che stava facendo. Un altro, colpito alla
testa, tentò ripetutamente di uscire dall’aereo e di incamminarsi giù per la
montagna.
Il Fairchild era precipitato verso le tre e mezzo del pomeriggio. A causa
delle nubi, la luce era già scarsa e, intorno alle quattro, cominciò a nevicare. I
primi, radi fiocchi divennero un turbinio e cominciarono poi a cadere molto
fitti, cancellando completamente la vista delle montagne. Nonostante la
nevicata, Marcelo ordinò che i feriti venissero portati fuori affinché chi era in
grado di lavorare potesse togliere i sedili contorti dal pavimento dell’aereo. Il
provvedimento fu considerato temporaneo: avevano tutti la certezza che la
scomparsa dell’aereo fosse ormai nota e che i soccorsi stessero per giungere.
Si rendevano conto che il salvataggio sarebbe stato facilitato se avessero
potuto trasmettere segnali con la radio. L’accesso alla cabina di pilotaggio era
bloccato dalla catasta sedili ammonticchiatisi all’estremità della cabina
passeggeri, ma all’altro lato si potevano udire suoni di vita e uno i ragazzi più
calmi, Moncho Sabella, decise allora di tentare di raggiungere i piloti
dall’esterno.
Era quasi impossibile camminare sulla neve, ma egli scoprì che avrebbe
potuto servirsi dei cuscini delle poltrone come punti d appoggio per portarsi
sul davanti dell’aereo. II muso del Fairchild era rimasto schiacciato
nell’atterraggio, ma non fu difficile arrampicarsi e guardare entro la cabina di
pilotaggio attraverso la porta del vano bagagli anteriore.
Sabella constatò che Ferradas e Lagurara erano imprigionati sui loro sedili,
con gli strumenti dell’aereo affondati nel petto. Ferradas sembrava morto, ma
Lagurara era vivo e cosciente e, vedendo il giovane accanto a sé, lo implorò di
aiutarlo. Sabella riuscì a fare ben poco. Non poté smuovere il corpo di
Lagurara, ma, esaudendo la sua supplichevole richiesta di un po’ d’acqua,
raccolse un po’ di neve in un fazzoletto e gliel’accostò alla bocca. In seguito
cercò di far funzionare la radio, che però rimase completamente muta; quando
tornò dagli altri, tuttavia, disse, per mantenere alto il loro morale, di aver
parlato con Santiago.
Più tardi, Canessa e Zerbino si portarono, come aveva fatto Sabella, nella
cabina di pilotaggio. Cercarono di spingere avanti il cruscotto degli strumenti
per scostarlo da Lagurara, ma risultò impossibile smuoverlo, anche soltanto di
pochi millimetri. Anche il sedile era rigidamente fissato e inamovibile. La sola
cosa che riuscirono a fare consistette nel togliere il cuscino dallo schienale,
riducendo così, in parte, la pressione contro il torace del pilota.
Mentre si affannavano compiendo questi futili tentativi di liberarlo,
Lagurara disse, ripetutamente: c Abbiamo superato Curicó, abbiamo superato
Curicó». Poi, una volta resosi conto che non si poteva far niente, chiese ai due
giovani di dargli la rivoltella che si trovava nella sua borsa di cuoio. La borsa
di cuoio risultò introvabile, né Canessa e Zerbino gli avrebbero consegnato la
rivoltella, anche se fossero riusciti a trovarla, perché, in quanto cattolici, non
potevano ammettere il suicidio. Gli chiesero invece se potevano servirsi della
radio per chiamare i soccorsi e regolarono le manopole secondo le istruzioni
di Lagurara, ma la trasmittente non funzionava.
Lagurara continuò a esortarli affinché gli dessero la rivoltella e poi chiese
acqua. Canessa uscì dalia cabina di pilotaggio e tornò con un po’ di neve che
mise in bocca al pilota, ma la sete di Lagurara era patologica e insaziabile. Egli
stava sanguinando dal naso e Canessa si rese conto che non sarebbe vissuto a
lungo.
I due «medici» si diressero, camminando sui cuscini,verso la parte
posteriore della fusoliera e rientrarono nel buio e stretto cunicolo pieno di
umanità che gemeva e urlava. I feriti estratti dai rottami giacevano sulla neve,
mentre i pochi rimasti illesi e in possesso delle loro energie lavoravano
disperatamente per trascinare fuori i sedili che riuscivano a staccare e per
liberare un po’ di spazio sul pavento dell’aereo. Ma la luce del giorno andava
svanendo. Alle sei faceva quasi buio e la temperatura era scesa al di sotto
dello zero. Apparve chiaro che i soccorsi non sarebbero arrivati quel giorno e
così i feriti furono riportati sull’aereo e i trentadue superstiti si prepararono a
trascorrere la notte.
5

Esisteva poco spazio nel quale restare in piedi, per non parlare di sdraiarsi. La
spaccatura in coda alla fusoliera era frastagliata e irregolare, lasciava sette
finestrini sul lato sinistro all’aereo, ma soltanto quattro su quello destro. La
distanza alla cabina di pilotaggio allo squarcio apertosi era di soli sei sette
metri e la maggior parte dello spazio disponibile rilaneva ingombra dall’intrico
dei sedili. Il solo tratto di palmento che fossero riusciti a sgombrare prima del
cader della Dtte si trovava accanto all’ingresso, e lì essi distesero i feriti più
gravi, vale a dire Susana e Nando Parrado e Panchito Abal. Potevano giacervi
quasi orizzontalmente, ma erano assai poco protetti dalla neve e dal vento
gelido che si ingolivano entro la fusoliera dalle tenebre. Marcelo Pérez, con
aiuto di una robusta ala sinistra a nome Roy Harley, aveva fatto del suo meglio
per innalzare una barriera contro il freddo, servendosi di tutto ciò che gli era
capitato sotto mano (in particolare dei sedili e delle valigie), ma il vento era
violento e la precaria parete seguitava a cadere.
Perez, Harley e un gruppo di ragazzi illesi rimasero pigiati gli uni contro gli
altri accanto ai feriti, vicino allo squarcio, bevendo il vino acquistato dai piIoti
a Mendoza e facendo tutto il possibile per mantenere in piedi la barriera
improvvisata. Gh altri superstiti dormirono dove poterono, tra i sedili e i
cadaveri. Tutti coloro che riuscirono a trovarvi posto, compresa Liliana
Methol, si portarono nell’angusto spazio del vano bagagli, situato tra la cabina
passeggeri e la cabina di pilotaggio. Non ci si poteva muovere ed era
scomodo, ma si trattava senz’altro del posto più caldo sull’aereo. Anche là, i
superstiti si passarono i bottiglioni di vino acquistati a Mendoza. Alcuni dei
giovani indossavano ancora camicette dalle maniche corte, e trangugiarono un
quarto di vino dopo l’altro pur di mantenere un po’ di calore nei loro corpi.
Inoltre, si sferrarono pugni e si massaggiarono a vicenda. Questo parve essere
il solo sistema per tenersi caldi, finché Canessa non ebbe la prima delle sue
idee ingegnose. Esaminando i cuscini e i sedili sparsi tutto intorno a loro,
constatò che il rivestimento, di tessuto di nylon color turchese, era fissato ai
sedili semplicemente mediante chiusure lampo. Fu pertanto semplicissimo
toglierlo, e, una volta sfilate, queste fodere poterono essere utilizzate come
piccole coperte. Si trattava senza dubbio di una protezione miseramente
inadeguata contro temperature inferiori allo zero, ma certo erano pur sempre
meglio di niente.
Peggiore del gelo, quella notte, risultò l’atmosfera di panico e di isterismo
nell’angusta cabina passeggeri del Fairchild. Tutti erano persuasi che le
proprie ferite fossero le più gravi e si lagnavano a voce alta con gli altri. Uno
dei giovani, che aveva una gamba fratturata, inveiva urlando contro chiunque
lo avvicinasse. Diceva che gli facevano male alla gamba e imprecava per
questo, ma quando volle avvicinarsi allo squarcio per prendere un po’ di neve
con cui dissetarsi, strisciò sopra gli altri ignorando nel modo più assoluto le
loro ferite Marcelo Pérez fece tutto il possibile per calmarlo. Cercò inoltre di
calmare Roy Harley, il quale diventava isterico ogni qual volta parte della
parete provvisoria crollava.
E continuamente, dalle tenebre, salivano i gemiti, gli urli e le deliranti
farneticazioni dei feriti. Dal vano bagagli si udivano ancora i Iamenti di
Lagurara «Abbiamo superato Curicó» diceva, «abbiamo superato Curicó.» Si
lagnava chiedendo acqua e implorava che gli dessero la pistola.
Nella cabina passeggeri vera e propria, gli urli più disperati erano quelli
della señora Mariani, sempre intrappolata dalle gambe fratturate sotto i sedili.
A un certo momento fu fatto un nuovo tentativo di liberarla, ma esso risultò
impossibile. Mentre i giovani lavoravano, le grida di lei divento ancora più
acute, ed ella giurò che se l’avessero spostata ebbe morta. Rinunciarono allora
al tentativo. Due dei ragazzi, Rafael Echavarren e Moncho Sabella, le presero
la mano, cercando di confortarla, e in qualche modo vi riuscirono, ma più
tardi gli urli ricominciarono.
«Per amor di Dio, taccia!» giunsero grida dal fondo l’aereo. «Lei non è in
condizioni peggiori di tutti gli altri».
A queste parole, gli urli raddoppiarono di intensità.
«Chiudi il becco», sbraitò Carlitos Pàez, «o vengo a sfondarti la faccia con
un pugno!»
Gli strilli divennero più forti e più insistenti, poi cessarono, ma di lì a non
molto ricominciarono quando uno dei giovani ancora in stato di choc la
calpestò mentre cercava di arrivare all’uscita.
«Allontanatelo!» urlò la donna. «Allontanatelo, sta cercando di uccidermi,
sta cercando di uccidermi!»
L’«assassino», Eduardo Strauch, venne tirato giù sul pavimento da suo
cugino, ma poco dopo egli si rimise in piedi e cercò di strisciare sopra i sedili
e i corpi per trovare UN posto più caldo e più comodo in cui dormire. Questa
volta CAlpestò l’unico membro superstite dell’equipaggio (oltre a Lagurara),
Carlos Roque, il meccanico. Anche costui scambiò Eduardo Strauch per un
assassino e, con la pignoleria dei militari di carriera, gli chiese di farsi
riconoscere.
«Mi mostri i documenti!» urlò. «Si faccia riconoscere. Si faccia
riconoscere.»
Quando Eduardo non consegnò il passaporto, ma continuò strisciare sopra
Roque verso lo squarcio, il meccanico dinne isterico.
«Aiuto!» urlò. «È pazz! Sta cercando di uccidermi.» Una volta di più
Eduardo venne trascinato indietro al suo posto dal cugino.
In un altro punto dell’aereo, una seconda sagoma, quella di Pancho
Delgado, si alzò e si diresse verso l’uscita. «Faccio un salto fino all’emporio
per prendere una Coca Cola» annunciò ai suoi amici.
«Allora, già che ci sei, portami una bottiglia d’acqua minale», rispose
Carlitos Pàez.
Nonostante gli enormi disagi, alcuni dei ragazzi riuscirono a scivolare nel
sonno, ma fu una notte interminabile.
Le grida di dolore continuarono mentre uno dei giovani incespicava
contro arti fratturati per andare a prende po’ di neve con cui dissetarsi, o
mentre un altro si destava, senza capire dove si trovasse, e cercava di uscire
dall’aereo. Si levarono urli di protesta, inoltre, da coloro che erano irritati dai
belati di autocompatimento, e si ebbero battibecchi astiosi tra alcuni Vecchi
Cristiani e gli allievi del collegio gesuita del Sacro Cuore.
Quelli rimasti desti si pigiavano il più possibile gli contro gli altri, mentre
le raffiche di vento si insinuavano traverso le difese improvvisate e gli altri
squarci aperti ne fusoliera. I ragazzi vicini all’ingresso soffrivano più di tutti
gli altri; avevano le membra intorpidite dal gelo, le facce solleticate dai fiocchi
di neve che continuavano a posarsi su i loro. I giovani rimasti illesi potevano
almeno riscaldarsi in parte sferrandosi pugni a vicenda e massaggiandosi i
piedi e le dita per mantenere la circolazione del sangue. La situazione più
terribile era quella dei due Parrado e di Panchito Abal. Essi non riuscivano a
riscaldarsi e, sebbene le lesioni che avevano subito fossero tremende, soltanto
Nando era privo di sensi, ignaro delle proprie sofferenze. Abal invocava un
aiuto che nessuno era in grado di dargli: «Oh, aiutatemi, per piacere aiutatemi.
Fa così freddo, fa così freddo…» e Susana gridava continuamente alla madre
morta: «Mamma, mamma, mamma, andiamocene di qui. Torniamo a casa». In
ultimo cominciò a delirare e cantò una nenia infantile.
Nel corso della notte, il terzo studente di medicina, Diego Storm, decise
che Parrado, sebbene privo di sensi, sembrava essere ferito più
superficialmente degli altri due. Per conseguenza, ne trascinò il corpo tra il
gruppo dei suoi amici, e raggruppandoglisi attorno tutti quanti, riuscirono a
tenerlo caldo. Sembrava insensato fare la stessa cosa per gli altri due.
La notte era interminabile. A un certo momento parve a Zerbino di
intravedere la luminosità dell’alba attraverso la parete improvvisata. Guardò
l’orologio da polso: erano appena le nove di sera. Più tardi ancora, coloro i
quali si trovavano al centro dell’aereo udirono una voce straniera vicino alla
sezione di coda. Per un momento pensarono che si trattasse di un gruppo di
soccorso, ma poi capirono che era solo Susana, intenta a pregare in inglese.
6

Il sole si levò la mattina di sabato, 14 ottobre, e illumino la liera del Fairchild


quasi sepolta dalla neve. Si trovava a circa tremilaottocento metri d’altezza, tra
il vulcano Tinguirica, nel Cile, e il Cerro Sosneado, in Argentina. Sebbene
l’aereofosse precipitato più o meno al centro delle Ande, la posizione esatta
veniva ad essere sul lato argentino del confine.
Il Fairchild giaceva su un pendio. Il muso deformato puntava verso il
fondo della valle, che degradava ripida in direzione est. In tutte le altre
direzioni, al di là della coltre di neve alta, si levavano le pareti rocciose di
immense montagne. I loro versanti non erano precipiti, ma si ampliavano
curvi, enormi e inospitali. Qua e là il grigio e il rosa della scabra roccia
vulcanica appariva attraverso la neve, ma, a quell’altezza, nulla cresceva sui
macigni, non un cespuglio, non una pianta stentata, non uno stelo d’erba.
L’aereo era precipitato non soltanto sulle montagne, ma, per giunta, in un
deserto.
I primi a uscire dalla fusoliera furono Marcelo Pérez e Roy Harley, che
abbatterono la barricata eretta con tanta fatica la sera prima. Si vedevano
nuvole nel cielo, ma aveva smesso di nevicare. Il gelo aveva indurito la
superficie della neve formando una crosta, ed essi poterono allontanarsi di
qualche passo dall’aereo e studiare l’assoluto squallore della situazione.
Entro la fusoliera, Canessa e Zerbino cominciarono una volta di più a
visitare i feriti, e scoprirono che altre tre persone erano morte nel corso della
notte. Panchito Abal giaceva immobile sopra il corpo di Susana Parrado.
Aveva i piedi anneriti dal congelamento e la sua morte risultava manifesta
dalla rigidità delle membra. Per qualche momento pensarono che anche
Susana doveva essere morta, perché non ai muoveva, ma quando le ebbero
tolto di dosso il corpo di Abal, videro che era ancora in vita e ancora in sé.
Anche i piedi di lei erano diventati violacei a causa del gelo, ed ella si
lamentò, rivolgendosi alla madre, che non era più a questo mondo. «Mamma,
mamma», grido, «mi dolgono i piedi, moltissimo. Oh, per piacere, mamma,
non possiamo tornare a casa?»
Canessa poteva fare ben poco per Susana. Le massaggiò i piedi congelati,
tentando di ristabilire la circolazione, poi di nuovo le tolse il sangue
raggrumato dagli occhi. Ella era abbastanza cosciente per rallegrarsi di non
essere diventata cieca, e ringraziò Canessa delle sue cure. Lo studente si
rendeva conto anche troppo bene del fatto che i tagli superficiali sul viso della
ragazza costituivano con ogni probabilità le lesioni meno gravi; aveva la
certezza che gli organi interni fossero stati gravemente lesi, ma non possedeva
le conoscenze necessarie e non disponeva dei mezzi materiali per fare
qualcosa al riguardo. In effetti, poteva fare ben poco per tutti. Non esistevano
medicinali sull’aereo, a parte quelli acquistati da Carlitos Pàez a Mendoza e un
po’ di Librium e di Valium trovati in una borsetta. Tra i rottami non v’era
niente che sembrasse prestarsi per essere utilizzato allo scopo di steccare arti
fratturati e per conseguenza, a coloro che avevano riportato fratture alle
braccia o alle gambe, Canessa poté dire soltanto di sdraiarsi sulla neve nel
tentativo di ridurre i gonfiori; in seguito li consigliò di massaggiarsi i tendini.
Temeva di avvolgere troppo strettamente le bende ricavate dai coprischienali
perché sapeva che, con quelle temperature rigidissime, esse avrebbero potuto
impedire la circolazione del sangue.
Quando si avvicinò alla señora Mariani, pensò che anch’ella fosse morta.
Le si accosciò accanto e fece un nuovo tentativo di spostare i sedili che
continuavano a inchiodarla contro il pavimento, al che ella si rimise a urlare:
«Non mi tocchi, non mi tocchi! Mi sta uccidendo!» Canessa decise allora di
lasciarla stare. Quando tornò, più tardi, nel corso della mattinata a vedere
come stesse, la donna aveva assunto un’espressione smarrita e taceva. Poi,
proprio mentre egli le osservava gli occhi, li vide arrovesciarsi e la señora
Mariani smise di respirare.
Canessa, sebbene avesse studiato medicina per un anno più di Zerbino,
non riusciva a indursi a dichiarare che qualcuno era definitivamente morto.
Lasciò che fosse Zerbino ad inginocchiarsi e ad accostare l’orecchio al petto
della donna, auscultando per udire il sia pur più lieve battito cardiaco. Il cuore
non batteva più e così gli altri giovani rimossero i sedili, passarono una
cintola di nylon trovata tra i bagagli alle spalle del cadavere e lo trascinarono
fuori sulla neve. Dissero a Carlitos Pàez che la signora era deceduta e Pàez si
sentì colmare di rimorso a causa delle parole aspre pronunciate quella notte e
si coprì la faccia con le mani.
Fu ancora Gustavo Zerbino a esaminare il foro nel ventre di Enrique
Platero dal quale aveva estratto il giorno prima il tubo d’acciaio. Tolse la
camicia che fungeva da benda e là, proprio come aveva temuto, ecco sporgere
un pezzo di cartilagine che, a quanto lui ne sapeva, poteva far parte
dell’intestino o del rivestimento dello stomaco. Il lembo di carne sanguinava
e, per fermare l’emorragia, Zerbino lo legò un po’ di filo, lo disinfettò con
acqua di Colonia, poi disse a Platero di spingerlo entro il ventre e di bendare
di nuovo la ferita. Platero fece tutto questo senza lamentarsi.
I due medici non erano privi di un’infermiera. Liliana Methol, sebbene
avesse ancora il viso violaceo a causa dei lividi riportati nell’urto, faceva tutto
il possibile per aiutarli e incoraggiarli. Era una donna bruna, piccoletta, che
fino a quel momento aveva dedicato tutta la propria esistenza al marito Javier
e ai quattro figli. Prima del loro matrimonio, Javier aveva avuto un incidente.
Scaraventato a terra da una bicicletta a motore e travolto da un’automobile,
era rimasto in coma per parecchie settimane e aveva dovuto in seguito essere
ricoverato in ospedale per molti mesi. Non era mai riuscito a ricuperare del
tutto la memoria e non ci vedeva più dall’occhio destro.
Né questa era stata la sua sola disgrazia. A ventun anni la famiglia lo aveva
mandato a Cuba e poi negli Stati Uniti affinché si impratichisse nella
coltivazione e nella vendita del tabacco. Nella cittadina di Wilson (North
Carolina) gli dissero che aveva la tubercolosi. La malattia si trovava in uno
stadi gran lunga troppo avanzato perché egli potesse fare ritorno nell’Uruguay,
e pertanto dovette trascorrere i cinque i successivi in un sanatorio della North
Carolina.
Anche dopo il ritorno a Montevideo fu costretto a letto per altri quattro
mesi, ma là cominciò a fargli visita la sua amica Liliana. La conosceva da
quando aveva vent’anni e, il 16 giugno 1960, si sposarono. Andarono a
trascorrere la luna di miele in Brasile, e in seguito si recarono una sola volta
all’estero, fino ai laghi dell’Argentina meridionale. Javier aveva ora deciso di
condurre Liliana con sé nel viaggio in Cile per festeggiare, sia pure in ritardo,
il dodicesimo anniversario del loro matrimonio.
Dopo l’incidente, Liliana era stata la prima ad accorgersi che il marito,
quasi l’unico tra i superstiti, soffriva in modo cronico a causa dell’altezza.
Continuava ad avere nausea e ad essere debole. Si muoveva con difficoltà e i
suoi processi mentali sembravano lenti. Liliana era costretta a mostrargli dove
doveva andare e che cosa doveva fare, ma, con la sua risolutezza, riusciva a
tenerne alto il morale.
Era inoltre una naturale fonte di consolazione per i ragazzi più giovani.
Molti di questi ultimi non avevano ancora vent’anni. Molti di loro, inoltre,
erano stati coccolati per tutta la vita da madri e da sorelle ammirate, e ora, in
preda al terrore e alla disperazione, si rivolgevano a Liliana che, a parte
Susana, era rimasta l’unica donna sull’aereo. Ella rispondeva alle loro
esigenze. Era paziente e cortese e, per risollevare il morale dei compagni,
diceva parole tenere. Quando, la prima notte, Marcelo e i suoi amici
insistettero affinché dormisse nella parte più calda della fusoliera, accettò il
loro gesto cavalleresco, ma, il giorno dopo, volle a tutti i costi essere trattata
alla stessa stregua di ogni altro. Ed essi, anche se alcuni dei più giovani, come
Zerbino, avrebbero voluto continuare ad accordarle qualche privilegio e un
po’ di intimità, dovettero riconoscere che nell’angusto spazio dell’aereo la
segregazione dei sessi non era possibile; per conseguenza, da allora in poi
Liliana fu trattata come tutti gli altri del gruppo.
L’attenzione dei «medici» e della loro infermiera venne attratta da uno dei
più giovani giocatori della squadra, Antonio Vizintìn, detto Tintin, che
sembrava soffrire di commozione cerebrale ed era stato messo a riposare sulla
reticella del vano bagagli. Soltanto adesso, il giorno successivo all’incidente,
sangue fu veduto gocciolare dalla manica della sua giacca. Quando
domandarono a Vizintìn che cosa avesse al braccio, egli insistette
nell’affermare che l’arto era illeso, perché non sentiva alcun dolore. Liliana
guardò più da vicino, tuttavia, e constatò che la manica della giacca era
impregnata di sangue. I due «medici» furono chiamati e, dopo essersi resi
conto che era impossibile togliere la giacca a Tintin, tagliarono la manica con
un temperino. Mentre la sfilavano, appesantita dal sangue che aveva assorbito,
altro sangue sgorgò da una vena recisa. Essi applicarono immediatamente un
laccio emostatico per fermare l’emorragia, poi bendarono la ferita come
meglio potevano. Vizintìn continuava a non sentire alcun dolore, ma era molto
debole. Scettici per quanto concerneva le sue probabilità di cavarsela, Canessa
e Zerbino lo distesero di nuovo sul giaciglio improvvisato nel vano bagagli.
L’ultima visita del loro giro li portò nella cabina di pilotaggio. Sin dalle
prime ore di quel mattino, Lagurara non si era più fatto sentire, e, quando essi
si aprirono a forza un varco dal vano bagagli, constatarono, come avevano
sospettato, che il pilota era morto.
Con il decesso di Lagurara, avevano perduto il solo uomo in grado di dire
che cosa dovessero fare per facilitare il loro salvataggio, in quanto Roque,
l’unico membro superstite dell’equipaggio, poteva rendersi assai poco utile.
Dopo l’incidente, aveva pianto di continuo e perduto ogni controllo delle
funzioni corporali; si rendeva conto di essersi imbrattato i calzoni soltanto in
seguito alle lagnanze di coloro che gli stavano accanto e ai gesti dei ragazzi che
glieli cambiavano.
Ciò nonostante, faceva parte dell’aviazione militare uruguayana, e Marcelo
Pérez gli domandò se esistessero sull’aereo razioni di emergenza o razzi per
segnalazioni. Roque rispose negativamente. Marcelo volle allora sapere se si
potessse far funzionare la radio, e Roque rispose che sarebbero occorse le
batterie dell’aereo, situate nella coda scomparsa.
Sembrava non esservi niente da fare, eppure Marcelo era tanto fiducioso
per quanto concerneva l’imminente arrivo di soccorsi che non si preoccupò in
misura eccessiva. Tutti riconobbero, comunque, che i viveri disponibili
dovevano essere razionati, e Marcelo procedette ad un inventario di tutto ciò
che era stato ricuperato di edibile nella cabina o dai bagagli non andati perduti
assieme alla coda del velivolo. C’erano le bottiglie di vino acquistate dai piloti
a Mendoza, ma ne avevano vuotato cinque durante la notte e ne restavano
soltanto tre. Avevano inoltre una bottiglia di whisky, una bottiglia di cherry,
brandy, una bottiglia di crème de menthe, e una fiaschetta ancora di whisky,
metà del quale era già stato bevuto.
Quanto ai cibi, disponevano di otto tavolette di cioccolata, di cinque
tavolette di torrone, di alcune caramelle sparpagliate sul pavimento della
cabina, di pochi datteri e prugne secche, anch’essi sparpagliati dappertutto
nell’aereo, di un pacchetto di cracker salati, di due barattoli di vongole, di un
barattolo di mandorle salate, e di tre vasetti di marmellata, uno di pesche, uno
di mele e uno di more. Non si trattava di molte provviste per ventotto persone
e, poiché non sapevano per quanti giorni avrebbero dovuto aspettare prima di
essere tratti in salvo, decisero di farle durare il più a lungo possibile. Per il
pranzo, quel giorno, Marcelo distribuì a ognuno di loro un quadratino di
cioccolata e tanto vino da riempire il coperchio di una bomboletta di
deodorante.
Nel pomeriggio udirono un aeroplano sorvolarli, ma non videro niente a
causa delle nubi. Di nuovo la notte calò su di loro più rapidamente di quanto
si fossero aspettati, ma questa volta si erano preparati meglio. Avevano
sgombrato altro spazio nella fusoliera, avevano costruito un riparo più
efficace contro il vento e la neve, ed erano in minor numero.
7

Il mattino di domenica, 15 ottobre, i giovani che uscirono dall’aereo videro


come, per la prima volta da quando il Fairchild era precipitato, il cielo fosse
sereno. Era di un blu intenso, completamente diverso da ogni altro cielo mai
veduto prima, e, nonostante le circostanze nelle quali erano venuti a trovarsi, i
superstiti rimasero colpiti dalla grandiosità della loro valle silenziosa. La
superficie della neve fresca era gelata e i cristalli rispecchiavano il sole vivido,
non filtrato da spessi strati d’aria. Tutto intorno ad essi si trovavano
montagne, abbacinanti in quel momento nella luce intensa delle prime ore del
mattino. Le distanze erano ingannevoli. Nell’aria rarefatta, le vette
sembravano vicinissime.
Il cielo limpido diede loro motivo di ritenere che sarebbero stati tratti in
salvo quel giorno stesso, o per lo meno individuati da aerei. Nel frattempo, si
trovavano di fronte a certe difficoltà e si accinsero a risolverle in un modo più
metodico. La necessità più urgente era quella di poter disporre di acqua.
Riusciva difficile sciogliere la neve in quantità sufficiente per placare la loro
sete e, se la masticavano, essa si limitava a gelare la bocca. Constatarono che
era preferibile comprimerla formando una pallottola di ghiaccio, e poi
succhiarla, oppure ficcarla in una bottiglia e poi scuotere quest’ultima finché
la neve non si era sciolta. Tale processo, però, richiedeva non soltanto tempo,
ma anche energia e forniva a malapena quanto bastava alle necessità di una
sola persona. C’erano anche i feriti che non stavano abbastanza bene per
provvedere a sé stessi: Nando, Susana Parrado e Vizintìn, quest’ultimo avido
d’acqua per sostituire il sangue che aveva perduto dalla ferita al braccio.
Fu Adolfo Strauch a inventare un congegno per produrre acqua. Adolfo
(o Fito, come lo soprannominavano) era un Vecchio Cristiano, ma giocava in
una squadra di rugby rivale a Montevideo. Lo aveva persuaso all’ultimo
momento a recarsi nel Cile Eduardo Strauch, due volte suo cugino (i loro
padri essendo fratelli, le loro madri sorelle). La famiglia Strauch era giunta
nell’Uruguay dalla Germania nel diciannovesimo secolo e aveva accumulato
un ingente patrimonio fondando banche e un’industria del sapone. Fito e
Eduardo appartenevano a un ramo meno importante della famiglia; i loro
padri facevano i gioiellieri e, fino a poco tempo prima, erano stati soci a
Montevideo. Da parte della madre, i due giovani appartenevano alla nota
famiglia uruguayana degli Urioste.
Entrambi i ragazzi erano giovani e di bell’aspetto, con riconoscibili fattezze
germaniche. In effetti, Eduardo veniva chiamato dagli altri «il tedesco». I due
erano molto uniti, l fratelli che cugini, ma, mentre Eduardo ambiva già
seriamente a diventare architetto, e aveva compiuto un viaggio in Europa, Fito
era timido e indeciso per quanto concerneva la propria vita. Studiava
agronomia perché non aveva vocazione per alcun’altra cosa e la sua famiglia
possedeva un ranch. Fino a quel viaggio, egli non aveva mai posto piede fuori
dall’Uruguay.
Quando l’aereo era precipitato, tanto Fito quanto Eduardo avevano
perduto i sensi. Rinvenendo, il loro stato di choc era stato tale che non
avevano capito dove si trovassero. Fito aveva cercato di uscire
immediatamente dall’aereo e, durante la prima notte, era stato Eduardo a
calpestare Roque e la señora Mariani. Li aveva trattenuti un altro cugino
sopravvissuto all’incidente, Daniel Fernández, figlio della sorella dei loro
padri.
Entro domenica, Fito si era ripreso quanto bastava per applicare la propria
mente alle difficoltà che stavano incontrando nel trasformare la neve in acqua.
Il sole splendeva luminoso, e, man mano che la mattinata trascorreva, i suoi
raggi diventavano sempre più caldi e scioglievano la fragile crosta formatasi
durante la notte sulla superficie della neve. A Fito accadde di pensare che
avrebbero potuto imbrigliare in qualche modo il calore del sole per ottenere
acqua. Si guardò attorno cercando qualcosa che potesse contenere neve e gli
occhi gli si posarono su un rettangolo di lamina d’alluminio, che misurava
circa trenta centimetri per sessanta, e proveniva dall’interno dello schienale di
un sedile sfondato, gettato fuori dell’aereo. Lo estrasse dall’imbottitura, ne
piegò i lati in modo da formare una bacinella e ne deformò il fondo a mo’ di
grondaia. Lo coprì poi con uno strato sottile di neve e lo espose al sole. Di lì a
poco gocce d’acqua apparvero nella grondaia a becco, poi un rivoletto
costante prese a scorrere entro la bottiglia che Fito teneva pronta sotto ad
esso.
Poiché ogni sedile conteneva un identico rettangolo d’alluminio, ben
presto vi furono parecchi produttori d’acqua all’opera. Anche sciogliere la
neve richiedeva un minimo di energia fisica e perciò questo divenne il
compito normale di coloro che non stavano ancora abbastanza bene per poter
eseguire lavori più faticosi, in quanto Marcelo aveva deciso di organizzare i
superstiti in vari gruppi. Egli assegnò a se stesso l’incarico della coordinazione
generale e della distribuzione dei viveri. Il primo gruppo era quello medico,
formato da Canessa, da Zerbino, e, in minor misura, da Liliana Methol. (La
sua composizione risultò alquanto vaga, poiché Canessa rifiutò di essere
limitato da ogni precisa definizione dei suoi compiti.) Del secondo gruppo
fecero parte gli assegnati alla cabina. Era formato da alcuni dei ragazzi più
giovani, come Rov Harley, Carlitos Páez, Diego Storm, e dal personaggio
centrale di quella cerchia di amici, Gustavo Nicolich, soprannominato Coco. Il
loro compito era quello di mantenere pulita la cabina passeggeri, di prepararla
la sera disponendo i cuscini sul pavimento, e di fare asciugare al sole tutte le
mattine le fodere dei sedili adoperate come coperte.
Il terzo gruppo era quello dei produttori d’acqua. La loro i difficoltà
consisteva nel trovare neve incontaminata, poiché intorno all’aereo la neve era
stata tinta di rosa dal sangue dei morti e dei feriti, e inquinata dall’olio
dell’aereo e dall’urina. La neve pura non mancava a pochi metri di distanza,
ma, o era tanto soffice da far sì che riuscisse impossibile percorrere quei
pochi metri, oppure, come accadeva nelle prime ore del mattino, quando la
sua superficie gelava, dura abbastanza per sopportare il loro peso, ma troppo
dura perché si potesse raccoglierla nelle bacinelle di alluminio. Si decise
pertanto di adoperare due soli settori come latrine: subito accanto all’uscita e
l’altro davanti a una delle ruote anteriori dell’aereo, sotto la cabina di
pilotaggio.
A mezzogiorno, Marcelo doveva distribuire la razione viveri; a ciascuno
toccava il coperchietto della bomboletta di deodorante pieno di vino e un
assaggio di marmellata. Per il pasto della sera veniva riservato un quadratino
di cioccolata. Alcuni protestarono sostenendo che avrebbero dovuto mangiare
qualcosa di più a pranzo, ma la maggioranza riconobbe che era preferibile
essere prudenti.
C’era adesso una persona in più con la quale dividere le razioni. Parrado,
già dato per morto, aveva ripreso i sensi quel giorno e, una volta lavatogli il
sangue dal viso, si constatò che quasi tutta l’emorragia era stata causata dal
colpo alla testa. Non esisteva alcuna frattura cranica, ma egli era debole e
aveva la mente alquanto confusa. Il suo primo pensiero era andato alla madre
e alla sorella.
«Tua madre è morta all’istante nell’urto», gli disse Canessa. «La sua salma
si trova fuori nella neve. Ma non pensare a questo. Devi renderti utile a
Susana. Massaggiale i piedi e aiutala a mangiare e a bere.»
Le condizioni di Susana erano peggiorate. Aveva ancora la faccia coperta
da tagli e da lividi e, quel ch’era peggio, dopo la prima notte, i piedi di lei
sembravano essersi anneriti. Era di solito in sé, eppure si sarebbe detto che
non si rendesse conto di dove si trovava. Continuava a chiamare, gridando,
sua madre.
Nando le massaggiò i piedi congelati, ma fu inutile. Non vi tornò alcun
tepore, e, quando egli li sfregò più forte, la pelle venne via e gli rimase in
mano. Da quel momento in poi, si dedicò soltanto a lei. Quando Susana
mormorava di aver sete, Nando le avvicinava alle labbra un miscuglio di neve
e crème de menthe, nonché i pezzettini di cioccolata lasciati da parte da
Marcelo per lei. E quando ella mormorò: «Mamma, mamma, voglio andare in
bagno», Nando si alzò e andò a consultarsi con Canessa e con Zerbino.
I due si avvicinarono alla ragazza e Nando le disse che erano medici.
«Oh, dottore», disse Susana, «vorrei una padella.»
«Ma ce l’ha», rispose Zerbino. «Si limiti a fare i suoi bisogni. Andrà tutto
bene.»
***
Poco dopo mezzogiorno, i giovani scorsero un aereo volare direttamente
sopra di loro. Era un reattore e volava ad alta quota sopra le montagne, ma
tutti coloro che si trovavano fuori sulla neve si misero a saltellare, si
sbracciarono, urlarono e fecero lampeggiare verso il cielo pezzi di metallo.
Molti piansero di gioia.
Verso la metà del pomeriggio, un turbogetto li sorvolò da est a ovest,
questa volta a una quota assai più bassa, e, poco dopo, un altro apparecchio
simile passò sopra di loro diretto da nord a sud. Di nuovo i superstiti si
sbracciarono e urlarono, ma l’aereo proseguì lungo la sua rotta e scomparve al
di là delle montagne.
A questo punto sorse una disputa tra i ragazzi per stabilire se fossero stati
veduti o no e, per decidere, si rivolsero a Roque, il quale asserì con decisione
che un aereo in volo a così bassa quota non poteva non averli veduti.
«Allora perché non ha fatto un giro sopra di noi», domandò Fito Strauch,
«o non ha inclinato le ali per farci capire che eravamo stati avvistati?»
«Impossibile», rispose Roque. «Le montagne sono troppo alte per
manovre di questo genere.»
Gli scettici tra loro non credettero nel giudizio espresso da Roque; il
comportamento di lui continuava a essere irrazionale, a volte persino infantile,
e il suo ottimismo li rese ancor più dubbiosi. Alcuni dei ragazzi cominciarono
a pensare che forse la fusoliera del Fairchild, con la sommità bianca quasi
sepolta dalla neve, poteva essere più difficile a individuarsi dall’alto di quanto
avessero immaginato. Per conseguenza, cominciarono a dipingere un SOS
scarlatto sul tetto dell’aereo, servendosi di rossetti per le labbra e di vernice
per unghie trovati nei bagagli delle donne. Ma, non appena ebbero completato
la prima «S», si resero conto che la scritta sarebbe stata troppo piccola per
poter essere veduta da lontano.
Poi, verso le quattro e mezzo, udirono i motori di un molto più vicino di
tutti gli altri precedenti, ed ecco apparire da dietro le montagne un piccolo
biplano la qui rotta lo avrebbe portato direttamente sopra di loro. Si
sbracciarono con frenesia e cercarono di riflettere il sole negli occhi del pilota
con i loro piccoli frammenti di metallo; poi, tra la più esultanza generale, il
biplano, mentre li sorvolava, inclinò le ali, come per segnalare che erano stati
avvistati.
Nulla avrebbe ormai potuto impedire ai giovani di credere che così
intensamente volevano credere e, mentre alcuni si limitavano a starsene seduti
sulla neve in attesa dell’arrivo degli elicotteri, Canessa aprì una bottiglia del
vino di Mendoza e, assieme ai feriti affidati alle sue cure, la vuotò per
festeggiare la salvezza.
Poco dopo cominciò a far buio. Il sole scomparve dietro le montagne e il
gelo intenso tornò. Non un suono violava il silenzio. Appariva chiaro che non
sarebbero stati tratti in salvo quella notte. Marcelo distribuì la razione di
cioccolata ai superstiti, che risalirono poi sulla fusoliera, alcuni di loro
manovrando per evitare di dormire vicino allo squarcio. Marcelo esortò i più
robusti a dormire con lui al freddo, ma parecchi rifiutarono di cedere il
territorio occupato nel più caldo vano bagagli, asserendo che se avessero
dormito ogni notte in coda all’aereo sarebbero senza dubbio morti congelati.
Per molto tempo, quella domenica sera, nessuno si addormentò. Parlarono
del salvataggio: alcuni sostenevano che gli elicotteri sarebbero arrivati il
giorno dopo, altri dicevano che si trovavano troppo in alto per poter essere
raggiunti dagli elicotteri, e che le squadre di soccorso avrebbero potuto
impiegare molto più tempo, forse anche una settimana. Si trattava di una
prospettiva tale da far rinsavire, e Canessa venne severamente rimproverato
da Marcelo per la sventata ingordigia con la quale lui e i suoi pazienti avevano
vuotato un’intera bottiglia di vino. C’era inoltre qualcuno tra loro che sarebbe
stato rimproverato ancor più severamente, qualora se ne fosse conosciuto il
nome, poiché Marcelo aveva scoperto che due pezzi di cioccolata e un torrone
erano stati rubati dal «ventiquattr’ore» nel quale conservavano le provviste.
«Per amor di Dio», disse Marcelo, esortando retoricamente l’ignoto ladro.
«Non ti rendi conto che stai giocando con le nostre vite?»
«Il figlio di puttana cerca di ucciderci», disse Gustavo Nicolich.
Faceva un freddo cane e si trovavano al buio. Tacquero tutti e ognuno dei
giovani venne lasciato alle proprie riflessioni. Parrado dormì con Susana
stretta tra le braccia, avvolgendola con il proprio alto corpo per darle tutto il
tepore possibile, conscio della respirazione irregolare di lei, dei movimenti
saltuari di inspirazione ed espirazione dei polmoni, interrotti da grida che
invocavano la madre morta. Quando riusciva a guardare Susana nei grandi
occhi, vi leggeva tutta la sofferenza, il dolore e la confusione che ella non
riusciva ad esprimere con le parole. Anche altri dormirono soltanto a
intermittenza, rigirandosi sotto le coperte improvvisate. Racchiusi in uno
spazio che misurava appena sei metri per due metri e quaranta, riuscivano a
trovarvi posto soltanto giacendo pigiati gli uni contro gli altri a due a due; i
piedi dell’uno appoggiati alle spalle dell’altro. La fusoliera era inclinata
rispetto al proprio asse. Coloro che giacevano lunghi distesi sul pavimento, si
trovavano su una pendenza di circa trenta gradi. Quelli di fronte a loro
avevano soltanto le gambe sul pavimento, appoggiavano la schiena alla parete
della cabina e le natiche contro la reticella bagagli a mano, che era stata tolta e
impiegata per eliminare l’angolo tra il pavimento e la parete.
Sebbene i cuscini potessero assicurare una relativa comodità, lo spazio
disponibile era talmente gremito che quando uno di loro cambiava posizione
costringeva tutti gli altri a fare altrettanto. Qualsiasi movimento causava
sofferenze strazianti a coloro i quali avevano le gambe fratturate, e il poveretto
che voleva grattarsi o urinare, veniva subissato da insulti. Spesso i movimenti
di chi dormiva erano involontari.
Un ragazzo muoveva magari la gamba nel sonno e, così facendo, sferrava
un calcio in faccia a quello di fronte. Di quando in quando uno del gruppo
camminava dormendo, come un sonnambulo. «Vado a prendere una Coca
Cola!» gridava, e cominciava a passar sopra ai corpi sdraiati tra lui uscita.
Nessuno reagiva a questi fastidi con maggior irritazione Roberto Canessa,
tormentato dai rimorsi a causa dell’episodio del vino e, per natura, nervoso e
instabile. I test psicologici ai quali era stato sottoposto quattro anni prima
avevano accertato come egli possedesse istinti violenti e da ciò, almeno in
parte, era stata influenzata la scelta sia del rugby che degli studi di medicina;
l’impegnativa emulazione fisica e studio della chirurgia, si era ritenuto, lo
avrebbero aiutato ad incanalare le sue tendenze aggressive. Ogni volta che
uno dei giovani urlava di dolore, Canessa sbraitava per farlo tacere, pur
sapendo come il poveretto non avesse alcuna colpa. Ecco come nella sua
mente inventiva nacque l’idea di costruire amache, o qualcosa di simile, sulle
quali i feriti più gravi avrebbero potuto dormire la notte, lontano dai loro
compagni.
Quando ne parlò, la mattina dopo, il progetto venne accolto con disprezzo.
«Sei matto», gli dissero gli altri. «Ci ammazzerai tutti con le tue amache.»
«Bè, almeno lasciatemi provare», replicò Canessa e, assieme a Daniel
Maspons, cominciò a guardarsi attorno in cerca dei materiali adatti. Il
Fairchild era stato costruito in modo che i sedili potessero essere smontati allo
scopo di utilizzare come spazio di carico la cabina passeggeri. A tale fine, nel
vano bagagli si trovava un gran numero di cinghie di nylon e di aste
metalliche. Sia le cinghie, sia le aste erano munite di attacchi che potevano
essere fissati a vari agganci nella cabina passeggeri. Canessa e Maspons
scoprirono che, prendendo due aste con una rete tesa tra esse, fissandole alle
giunture del pavimento e alla parete sinistra della fusoliera, tendendo cinghie
all’altro lato e inserendo queste ultime sugli agganci del soffitto, veniva a
formarsi un’amaca la quale rimaneva sospesa orizzontalmente rispetto al
pavimento, a causa dell’inclinazione della fusoliera. Le aste non rimanevano
parallele, ma l’amaca era abbastanza ampia perché due dei feriti potessero
dormirvi indisturbati. Canessa scoprì inoltre che la porta per la quale si era
passati dalla cabina passeggeri al vano bagagli sarebbe potuta essere sospesa
nello stesso modo e che si poteva appendere anche un sedile, formando una
cuccetta sulla quale avrebbero trovato posto altri due feriti. Quella notte,
Platero venne disteso sulla porta. Due dei ragazzi con fratture alle gambe
preselo posto sulla cuccetta, e un altro, assieme a uno dei suoi amici, dormì
sull’amaca. Si trovarono tutti più comodi, e agli altri vennero risparmiate le
loro ripetute grida di dolore; ma, risolvendo un problema, ne avevano creato
un altro. Non disponevano più dei tepore dei corpi dei loro amici e l’essere
sospesi in pieno nella corrente del vento gelido, che penetrava entro l’aereo
attraverso l'insufficiente barricata, faceva sì che soffrissero intensamente il
freddo. Furono date loro altre coperte, ma non bastarono a compensarli del
tepore perduto dei corpi dei loro amici. Dovevano scegliere tra la tortura del
gelo penetrante e le sofferenze che avevano sopportato giacendo assieme agli
altri. Ad uno ad uno, preferirono ridiscendere, finche ne rimasero soltanto
due. Rafael Echavarren e Arturo Nogueira.
8

Entro lunedì mattina, il quarto giorno, alcuni dei giovani più gravemente feriti
avevano cominciato a dar segni di miglioramento, nonostante le cure mediche
rudimentali. Molti di loro continuavano a soffrire molto, ma quasi tutte le
enfiagioni si erano ridotte, e le ferite aperte andavano rimarginandosi.
Vizintìn, del quale Canessa e Zerbino avevano temuto la morte imminente
a causa dell’emorragia, chiamò Zerbino perché Io aiutasse a uscire e a urinare
sulla neve. La sua urina risultò essere di un color bruno scuro e ciò indusse
Zerbino a dire al paziente che poteva essere affetto da un’epatite.
«Ci mancherebbe soltanto questo», disse Vizintìn, prima di tornare
zoppicando sulla cuccetta nel vano bagagli.
La guarigione di Parrado fu notevolmente rapida, nonostante le fatiche che
egli sosteneva per curare Susana. Le condizioni di lei non lo gettarono nella
disperazione. All’opposto, man mano che andava ricuperando le forze,
cresceva in lui una decisione fanatica di fuggire. Mentre quasi tutti i compagni
pensavano soltanto alla possibilità di essere soccorsi, Parrado stava
prendendo in considerazione la scelta a di tornare in qualche modo alla civiltà
con i suoi mezzi, confidò tale sua determinazione a Carlitos Pàez, anche gli
desideroso di andarsene.
«Impossibile», disse Carlitos. «Moriresti di freddo sulla neve.»
«No, se fossi abbastanza coperto.»
«Allora moriresti di fame. Non puoi scalare montagne nutrendoti con un
pezzetto di cioccolata e un sorso di vino.»
«Allora taglierò un pezzo di carne da uno dei piloti», asserì Parrado.
«In fin dei conti, sono stati loro a cacciarci questo guaio.» Le sue parole
non scandalizzarono Carlitos perché non le prese sul serio. Egli era,
comunque, uno di quelli che si preoccupavano sempre più a causa del lungo
periodo di tempo occorrente per trarli in salvo. Quattro giorni erano ormai
corsi dal momento del disastro e, a parte il biplano che aveva inclinato le ali
sorvolandoli il giorno prima, nessun in indizio stava a dimostrare che il
mondo fosse informato dell’esistenza di superstiti. Siccome l’idea di non
poter essere veduti dall’alto, o di essere stati dati per perduti, era tanto
terribile, quasi tutti i giovani la escludevano dalla propria mente. Formularono
una teoria in base alla quale erano stati avvistati, ma si trovavano troppo in
alto sulla cordillera per poter essere tratti in salvo da elicotteri; di
conseguenza, una spedizione li avrebbe raggianti per via di terra. Marcelo ne
era persuaso, così come lo credeva Pancho Delgado, uno studente di legge
che zoppicava intorno all’aereo sulla gamba valida, conversando allegramente
assieme agli altri e insistendo nel dire, con eloquenza, che Dio non li avrebbe
dimenticati nella loro critica situazione.
Quasi tutti i ragazzi erano grati a Delgado perché egli calmava il panico
che sentivano crescere dentro di loro. Si sentivano invece meno
favorevolmente disposti nei confronti del più piccolo gruppo di pessimisti (in
particolare Canessa, Zerbino, Parrado e i cugini Strauch), i quali ponevano in
dubbio l’ipotesi che i soccorsi fossero in viaggio.
«Perché», domandò Fito Strauch, «se sanno dove ci troviamo non ci
lanciano rifornimenti?»
«Perché si rendono conto che rimarrebbero sepolti nella neve e che noi
non saremmo in grado di recuperarli.»
Nessuno dei giovani aveva un’idea precisa di dove si trovassero. Nella
cabina di pilotaggio avevano trovato carte e le studiarono per ore e ore,
accalcati al riparo del vento nella fusoliera buia. Nessuno di loro sapeva
leggere le carte aeronautiche ma Arturo Nogueira, un giovane timido,
dall’indole chiusa, che si era fratturato entrambe le gambe, si autonominò
cartografo dell’intero gruppo e trovò Cuneo tra le tante cittadine e i numerosi
villaggi. Ricordavano tutti come il secondo pilota avesse detto ripetutamente
che Curicó era stata superata, e dalla carta risultava chiaramente che Curicó si
trovava molto al di là del confine del Cile, sul versante occidentale delle
Ande. Pertanto dovevano essere in qualche punto sui primi contrafforti della
catena montuosa. La lancetta dell’altimetro indicava duemilatrecento metri. A
ovest, i villaggi cileni non potevano essere molto lontani.
La difficoltà da sormontare consisteva nel fatto che ogni eventuale
sentiero diretto a ovest sembrava bloccato dalle montagne gigantesche, mentre
la valle nella quale si trovavano intrappolati era orientata ad est, verso il
cuore, ritenevano loro, della cordillera. Erano persuasi che soltanto se fossero
riusciti a scalare la montagna a ovest, fino alla vetta, si sarebbero trovati di
fronte a un panorama di verdi vallate e di fattorie cilene.
Avevano potuto allontanarsi dall’aereo soltanto fino alle nove circa del
mattino. Più tardi, se splendeva il sole, la crosta gelata si scioglieva ben presto
ed essi affondavano fino alle cosce nella neve soffice e farinosa. Ciò, fino a
quel giorno, aveva impedito loro di avventurarsi a più di pochi metri
dall’aereo, perché temevano di poter semplicemente scomparire nella neve
alta, come era accaduto a Valeta. Fito Strauch, l’inventore del gruppo, scoprì
tuttavia che i cuscini dei sedili nella cabina passeggeri, legati alle scarpe,
fungevano da passabili racchette da neve. Camminare in quel modo riusciva
difficoltoso, ma era possibile, e tanto lui quanto Canessa vollero
immediatamente incamminarsi su per la china, non soltanto allo scopo di
vedere che cosa ci fosse dall’altra parte, ma anche per accertare se qualcuno
dei loro amici (e, nel caso di Fito, un altro dei suoi cugini) vivesse ancora
dopo la caduta dell’aereo, rifugiato entro la coda del Fairchild.
Esistevano altri incentivi. Roque aveva detto loro che sulla coda del
velivolo avrebbero trovato batterie per azionare la radio VHF (Very High
Frequency, radio ad alta frequenza). Vi sarebbero potute essere, inoltre,
valigie sparse sul fianco della montagna, poiché il percorso seguito dalla
fusoliera era ancora visibile nella neve. Nelle valigie avrebbero trovato altri
indumenti.
Anche Carlitos Pàez e Numa Turcatti, tra altri, erano impazienti di scalare
la montagna, e alle sette del mattino di martedì, 17 ottobre, si incamminarono
tutti e quattro. Il cielo era sereno, ma il freddo continuava a essere intenso,
per cui la superficie della neve rimaneva solida. Con gli scarponi da rugby,
avanzarono facilmente. Canessa portava guanti che aveva ricavato da un paio
di calzini.
Camminarono per un’ora, si riposarono, poi proseguirono. L’aria era
rarefatta e la salita faticosa; man mano che il sole si alzava nel cielo, la crosta
si scioglieva ed essi dovettero legare agli scarponi i cuscini, che ben presto si
inzupparono. Per evitare che un piede urtasse contro l’altro, dovevano
camminare a gambe larghe. Nessuno di loro aveva mangiato qualcosa di
sostanzioso da quasi cinque giorni, e, di lì non molto, Canessa propose di
tornare indietro. Gli altri, di parere opposto, prevalsero, e continuarono tutti
ad arrancare, ma poco tempo dopo Fito affondò fino alla vita nella neve
sull’orlo di un crepaccio. Questo li spaventò tutti. L’aereo sotto di loro
sembrava piccolissimo nel vasto paesaggio; i ragazzi intorno alla fusoliera
erano puntolini sulla neve. Non si vedevano valigie, né alcuna traccia della
coda.
«Non sarà facile andarsene da qui», disse Canessa.
«Ma se non verranno a soccorrerci, dovremo pure andarcene», obiettò
Fito.
«Non ce la faremmo mai», disse Canessa. «Guarda come ci siamo
indeboliti senza cibo.»
«Lo sai che cosa mi ha detto Nando?» confidò Carlitos a Fito. «Ha detto
che se nessuno fosse venuto a soccorrerci avrebbe mangiato uno dei piloti per
andarsene di qui.» Vi fu silenzio; poi Carlitos soggiunse: «Quel colpo alla testa
deve averlo fatto diventare un po’ matto».
«Non lo so», disse Fito, e i suoi lineamenti franchi e seri non parvero
turbati. «Potrebbe essere il solo modo per sopravvivere.»
Carlitos non disse nulla, poi si voltarono per ridiscendere la montagna.
10

L’esperienza della spedizione li scoraggiò tutti. Nei giorni che seguirono,


Liliana Methol continuò a confortare coloro che erano spaventati, e Pancho
Delgado fece del suo meglio per mantenere alto il morale e vivo l’ottimismo,
ma i giorni stavano trascorrendo senza il benché minimo indizio di un
soccorso imminente, e tutti avevano constatato quanta fatica fosse costata
anche ai più robusti tra loro una breve ascesa su per la montagna. Quali
speranze potevano esserci, pertanto, per i deboli e i feriti?
Si pigiavano ogni notte entro la fusoliera e giacevano nella gelida oscurità
rivolgendo i loro pensieri alla casa e alla famiglia. A poco a poco si
addormentavano, i piedi dell’uno poggiati sulle spalle dell’altro, Javier e
Liliana insieme, Echavarren e Nogueira sull’amaca, Nando e Susana Parrado
uno nelle braccia dell’altra.
Durante l’ottava notte che trascorsero sulla montagna, Parrado si destò e si
accorse che Susana era diventata fredda e immobile nel suo abbraccio. Il
tepore, i movimenti del respiro… tutto era cessato. Subito egli premette la
bocca contro quella di lei e, le gote striate di lacrime, le soffiò aria nei
polmoni. Gli altri giovani si destarono, e osservarono e pregarono mentre
Parrado tentava di far rivivere sua sorella. Quando la spossatezza lo costrinse
a rinunciare, Carlitos Pàez lo sostituì, ma tutto fu inutile. Susana era morta.
Parte Seconda
1

Il Controllo del traffico aereo all’aeroporto Pudahuel di Santiago, non appena


ebbe perduto il contatto con il Fairchild uruguayano, nel pomeriggio di
venerdì, 13 ottobre, telefonò al Servicio Aereo de Rescate (Servizio di
Soccorso Aereo), la cui sede si trovava nell’altro aeroporto di Santiago, Los
Cerrillos. Il comandante del SAR era assente, per cui furono convocati due ex
comandanti a dirigere le operazioni di ricerca e soccorso, Carlos García e
Jorge Massa. Si trattava di ufficiali dell’aviazione militare cilena, addestrati
non soltanto al comando, ma anche al pilotaggio di tutti gli aerei a loro
disposizione: Douglas C-47, DC-6, Twin Otter e aerei leggeri Cessna, nonché
i potenti elicotteri Bell.
Quello stesso pomeriggio, un DC-6 iniziò le ricerche lungo una rotta che
partiva dall’ultima posizione riferita dall’apparecchio scomparso, il corridoio
aereo da Cuneo ad Angostura e a Santiago. Le regioni popolate in questa zona
vennero omesse perché la caduta di un velivolo sarebbe stata riferita; la
ricerca si accentrò sulle zone più montuose. Non essendo stato avvistato nulla,
il DC-6 si portò più avanti, lungo la supposta rotta del Fairchild verso la zona
tra Curicó e il Planchón. Sul passo del Planchón infuriava una tormenta di
neve; per conseguenza non era possibile vedere alcunché e il DC-6 tornò a
Santiago.
Il giorno dopo, García e Massa analizzarono in modo più preciso le
informazioni disponibili: l’ora di decollo del Fairchild da Mendoza, l’ora alla
quale aveva sorvolato Malargue, la velocità dell’aereo e i venti di prora che
aveva incontrato sorvolando le Ande. Ne dedussero che il Fcàrchild non
poteva essersi trovato sopra Curicó quando il pilota aveva riferito tale
posizione, bensì sopra il Planchón, per cui, invece di virare verso Angostura e
Santiago e di scendere sull’aeroporto di Pudahuel, l’apparecchio aveva virato
nel cuore delle Ande, finendo nel settore dei monti Tinguiririca, Sosneado e
Palomo. Con estrema precisione, García e Massa tracciarono sulla carta un
quadrato di venti pollici quadrati che rappresentava il settore nel quale l’aereo
doveva essere precipitato. Poi inviarono da Santiago aerei ad esplorarlo.
Le difficoltà che si frapponevano all’opera di soccorso erano ovvie. Le
montagne in quella zona arrivavano all’altezza di cinquemila metri. Se il
Fairchild era precipitato in un punto qualsiasi tra esse, doveva senza dubbio
essere finito in una delle valli disposte tutte attorno un migliaio di metri più in
basso e coperte di candida neve il cui spessore andava dai sei ai trenta metri.
Poiché il Fairchild era verniciato superiormente di bianco, sarebbe rimasto in
pratica invisibile a qualsiasi aereo che volasse a una quota superiore all’altezza
delle vette. Volare nella turbolenza tra le vette stesse era un modo certo per
perdere altri velivoli e altre vite, ma ricerche metodiche sull’intera zona
costituivano un rituale cui essi avevano l’obbligo di attenersi.
Sin dall’inizio, i professionisti nella sala di controllo del SAR,
all’aeroporto di Los Cerrillos, nutrirono ben poche speranze che qualcuno
potesse essersi salvato in un aereo schiantatosi nel cuore della cordillera. Essi
sapevano che la temperatura a quell’altezza e in quella stagione dell’anno
scendeva durante la notte fino a trenta o anche quaranta gradi sotto zero, per
cui, se in seguito a un capriccio della sorte, alcuni passeggeri fossero riusciti a
sopravvivere all’urto, sarebbero indubbiamente morti di freddo durante la
prima notte trascorsa sulle montagne.
Esiste, tuttavia, un accordo internazionale che obbliga il paese nel quale
avvenga un incidente aereo a effettuare ricerche per dieci giorni, e, nonostante
il caos politico ed economico cui il Cile si trovava allora di fronte, si trattava
di un dovere che il SAR doveva eseguire. Per giunta, i parenti dei passeggeri
avevano cominciato ad arrivare a Santiago.
2

Per coloro che erano rimasti a casa, le ore immediatamente successive alle
prime notizie della scomparsa dell’aereo fu»no colmate soltanto dalla
confusione e da un’ansia disperata. Dopo i primi comunicati radiofonici i
quali annunciamo che il Fairchild aveva sostato a Mendoza (una tappa della
quale nessuno dei parenti sapeva nulla) per ripartire il giorno seguente e poi
scomparire, seguì il silenzio ufficiale, e il vuoto venne riempito da una serie di
notizie contrastanti provenienti da fonti non ufficiali. Il padre di Daniel
Fernandez apprese sabato 14 che l’aereo era stato «trovato», ancor prima di
aver saputo della sua scomparsa, in quanto non aveva ascoltato la radio la
sera prima. Altri vennero a sapere che i giovani erano arrivati sani e salvi e si
trovavano nel loro albergo a Santiago. Corse inoltre un’altra voce, secondo la
qualel’ atterraggio aveva avuto luogo non già a Santiago, ma in qualche
località nel sud del Cile.
Il mezzo mediante il quale alcune notizie vennero inizialmente diffuse e
successivamente rettificate fu una radio ricetrasmittente situata in una casa di
Carrasco. Rafael Ponce de Léon era un radio dilettante, un hobby ereditato da
suo padre, che aveva installato un’intera gamma di apparecchiature sofisticate,
compresa una potente radio trasmittente, una Collins KWM2, nello scantinato
della loro casa. Anche Rafael era un Vecchio Cristiano, amico di Marcelo
Pérez. Non aveva partecipato egli stesso al viaggio a Santiago soltanto perché
riluttante a lasciar sola la moglie, incinta da sette mesi. Su richiesta di Marcelo,
Rafael si era servito della radio per prenotare le camere ai componenti della
squadra di rugby a Santiago, chiamando un radio dilettante cileno il quale lo
aveva collegato con la rete telefonica del Cile. Più rapido e meno costoso di
una telefonata diretta, questo sistema non era strettamente legale, ma veniva
tollerato.
Quando a tarda ora del giorno 13, Rafael seppe che il Fairchild era
precipitato sulle Ande, accorse alla sua radio. Si mise in contatto con l’Hotel
Crillon di Santiago e gli fu detto che i Vecchi Cristiani erano arrivati.
Allorché, successivamente, altre notizie fecero apparire dubbia la cosa, Rafael
richiamò l’albergo e venne a sapere che soltanto due dei giocatori si
trovavano là, entrambi giunti a Santiago con voli di linea, l’uno, Gilberto
Regules, perché non era arrivato in tempo alla partenza del Fairchild, e l’altro,
Bobby Jaugust, perché suo padre rappresentava la KLM a Montevideo.
Aveva appena chiarito la falsa notizia, quando il telefono squillò
comunicandogli come la novia cilena di uno dei giovani sull’aereo avesse
parlato con i futuri suoceri, i Magri, per avvertirli che l’aereo era atterrato in
una cittadina del Cile meridionale e che tutti erano salvi. Dopo aver destato
false speranze con la notizia dell’Hotel Crillon, Rafael era deciso a controllare
quest’altra, e si mise in contatto con l’incaricato d’affari uruguayano a
Santiago, César Charlone. Charlone gli disse di ritenere la cosa improbabile;
secondo le notizie ufficiali, l’aereo continuava a risultare scomparso. Ormai la
voce del ritrovamento dell’aereo era corsa dai Magri a una metà delle famiglie
interessate. Temendo che le loro speranze potessero essere infondate, Rafael
decise di risalire alla fonte della voce, la novia di Guido Magri, María de los
Angeles. Si mise in contatto con lei mediante la sua trasmittente e le domandò
se fosse vero; Maria confessò che non si trattava della verità. La señora Magri
le era parsa così desolata al telefono, che lei le aveva raccontato quella
menzogna. «Ero tanto sicura del prossimo ritrovamento dell’aereo», spiegò,
«che le dissi ch’era già stato trovato.» Rafael registrò le sue dichiarazioni e più
tardi quella sera mandò il nastro a Radio Monte Carlo perché lo trasmettessero
con il primo notiziario. Era mezzanotte passata quando spense la trasmittente,
ma non aveva lavorato invano. Alle nove della mattina dopo, la voce non
circolava più. L’aereo non era stato trovato.
Carlos Pàez Vilaró, noto pittore e padre di Carlitos, fu il primo a giungere
al comando del SAR, a Los Cerrillos. Aveva avuto la notizia della scomparsa
dell’aereo dalla casa della sua ex moglie a Carrasco, soltanto per caso,
avendovi accompagnato la figlia il pomeriggio di venerdì, in quanto, dopo il
divorzio, i figli vivevano con la madre, Madelón Rodríguez. Si era affrettato
ad assumere tutte le informazioni possibili negli ambienti ufficiali,
dall’incaricato d’affari uruguayano a Santiago e da un ufficiale dell’aviazione
militare uruguayana che egli conosceva personalmente. Charlone, l’ncaricato
d’affari, non era stato rassicurante, e, sebbene l’ufficiale d’aviazione avesse
definito Ferradas «il migliore e il più esperto pilota» dell’arma aerea, Páez
Vilaró sapeva che il suo amico e Ferradas erano gli unici due piloti superstiti
della loro generazione, tutti gli altri essendo periti in incidenti aerei. Dopo aver
detto a Madelón che avrebbe trovato egli stesso i ragazzi, Vilaró partì per
Santiago nelle prime ore di sabato mattina. Quel pomeriggio percorse con un
DC-6 dell’aviazione militare la rotta probabile del Fairchild. Quando tornò
all’aeroporto, erano arrivati i genitori di un altro dei ragazzi e l’indomani se ne
trovavano lì complessivamente ventidue.
Di fronte a quell’invasione, il comandante Massa comunicò che non
sarebbe stato consentito ad altri genitori di volare sugli aerei impiegati nelle
ricerche, per cui essi si riunirono invece nell’ufficio di César Charlone. Là
seppero che un minatore a nome Camilo Figueroa aveva riferito alla polizia
cilena di aver veduto il Fairchild precipitare in fiamme circa centodieci
chilometri a nordest di Curicó, nella zona di El Tiburcio.
Lunedì 16, García e Massa concentrarono le ricerche su quella zona. Nulla
fu veduto durante la mattina, ma nel pomeriggio un pilota riferì da E1
Tiburcio di vedere una colonna fumo salire dalle montagne. Un volo
ravvicinato rivelò che fumo proveniva dalla capanna di un contadino.
Quello stesso giorno partirono per via di terra gruppi di ricerca formati da
carabineros (la polizia militarizzata cilena) da appartenenti al Cuerpo de
Socorro Andino, un corpo di volontari organizzato per trarre in salvo coloro
che si smarriscono sulle Ande. Questi gruppi si incamminarono da Rancagua
e si diressero verso la zona tra il Planchón e El Tiburcio, ma furono fermati
nel pomeriggio da una fitta nevicata e da una bufera di vento.
Le stesse condizioni meteorologiche impedirono anche agli aerei di
decollare il giorno dopo e l’indomani, 17 e 18 ottobre, nubi impenetrabili e
neve coprivano l’intero settore delle ricerche. Scoraggiati, alcuni dei genitori
tornarono a Montevideo. Gli altri rimasero e cominciarono a prendere in
considerazione la possibilità di organizzare una ricerca per loro conto. Non
perche ritenessero che i cileni facevano meno di quanto era possibile (anche
l’aereo gemello del Fairchild, inviato a dare man forte ai cileni dall’aviazione
militare uruguayana, era stato costretto a restare a terra dal maltempo), ma
perché si rendevano conto che il tempo stava trascorrendo e che gli esperti
non credevano affatto in una possibilità di salvezza per i loro figli. «È
impossibile», aveva detto il comandante Massa ai giornalisti. «E, se anche
qualcuno fosse ancora vivo, affonderebbe nella neve.»
Pàez Vilaró rifletté su ciò che avrebbe potuto fare di sua iniziativa. Trovò
in una libreria di Santiago un volume intitolato Le nevi e le montagne del
Cile; in esso era detto che il territorio nel quale si trovavano le montagne
Tinguiririca e Palomo apparteneva a un certo Joaquin Gandarillas. Pensando
che il proprietario del terreno doveva conoscerlo meglio d’ogni altro, Vilaró si
recò a far visita a Gandarillas, il quale lo ricevette cortesemente, ma spiegò
che la sua enorme proprietà era stata confiscata di recente in base al piano di
riforma agraria del presidente Allende. Ciò nonostante, Gandarillas conosceva
quella zona come il palmo della propria mano e, prima del termine del
colloquio, Pàez Vilaró lo aveva persuaso a partire con lui il giorno dopo per il
vulcano Tinguiririca.
Un viaggio di due giorni in automobile e a cavallo li portò sul versante
occidentale della montagna. Le tormente erano cessate, ma la neve fresca non
faceva che porre in risalto la solitudine dei luoghi. Non c’era niente da vedere,
né esseri viventi, né morti, eppure Pàez Vilaró rimase immobile a contemplare
la mole immensa della montagna e fischiò pensando che, grazie a chissà quale
magia, il suono potesse giungere fino a suo figlio. Il fischio echeggiò tra le
rocce e venne soffocato dalla neve. Non restava altro da fare che tornare
indietro.
***
Mentre Pàez Vilaró prendeva questa iniziativa per ritrovare suo figlio, altri,
nell’Uruguay, avevano fatto ricorso a sistemi di ricerca e di soccorso meno
ortodossi… tra costoro, la madre della ex moglie di lui, Madelón.
Accompagnata dal fratello di Javier Methol, Juan José, ella si recò, il 16
ottobre, da un vecchio di Montevideo, un rabdomante di professione che si
diceva possedesse facoltà di chiaroveggenza capaci di scoprire molto di più
delle sorgenti nascoste. Portarono con sé una carta delle Ande. Quando il
vecchio tenne la sua bacchetta biforcuta sopra la carta, i due la videro vibrare
e poi cadere su un punto del versante est del vulcano Tinguiririca, a circa
trenta chilometri dalla località termale di Termas del Flaco.
Madelón riferì la cosa a Páez Vilaró, nel Cile, per il tramite radio di Rafael
Ponce de Léon, ma Vilaró le disse che il SAR aveva già condotto accurate
ricerche in quella zona e che, se l’aereo era precipitato lassù, i ragazzi non
potevano assolutamente essersi salvati.
Era, questa, un’asserzione che Madelón voleva escludere dal campo delle
possibilità, e perciò ella bandì il rabdomante dalla propria mente. Eppure,
l’idea di poter essere aiutata da un chiaroveggente rimase in lei. Si recò
dall’astrologo uruguayano Boris Cristoff e gli domandò chi fosse il più abile
chiaroveggente del mondo.
«Croiset», rispose l’altro, senza esitare. «Gérard Croiset, Utrecht.»
***
Rosina Stràuch, la madre di Fito, sperava di essere aiutata da qualcun
altro. La Vergine di Garabandal, le avevano detto, era apparsa ad alcuni
fanciulli in Spagna circa dieci anni prima, un’apparizione mai accettata dal
Vaticano. Per persuadere il Papa di essere realmente apparsa, la Vergine
doveva senza dubbio voler compiere un miracolo. In tal caso quella poteva
essere l’occasione attesa, e, persuase di ciò, Rosina e altre due madri
cominciarono a pregare la Vergine di Garabandal.
Ma altre donne si erano ormai rassegnate alla perdita e pregavano per le
anime dei loro figli e per avere la forza di sopportare quel grande dolore.
Ogni speranza riusciva impossibile alla madre di Carlos Valeta, il giovane
scomparso nella neve subito dopo la caduta dell’aereo. Il pomeriggio di
venerdì ella aveva avuto una visione, dapprima di un aereo che precipitava,
poi della faccia ferita di suo figlio, poi di Carlos addormentato, e alle
diciassette e trenta era ormai certa della morte di lui. Altri genitori si
rassegnarono per ragioni diverse, basate sul convincimento che i ragazzi non
avrebbero potuto salvarsi e che sopravvivere a un disastro aereo per pacchi
giorni sulla cordillera era fuori questione.
Ciò nonostante, parenti, amici e amiche dei ragazzi gremivano ogni sera lo
scantinato di Rafael Ponce de Léon, disperatamente ansiosi di avere notizie.
***
Le ricerche del SAR vennero riprese il 19 ottobre. Continuarono per tutto
quel giorno, e il giorno successivo, fino alla mattinata del 21.
Contemporaneamente, aerei argentini effettuarono voli partendo da Mendoza.
Páez Vilaró ed altri continuarono a cercare il Fairchild con un Cessna ceduto
loro in prestito dall’Aereo Club di San Fernando. Ma, nonostante tutti questi
tentativi, non si trovò alcuna traccia dell’apparecchio.
Le ricerche erano in corso da otto giorni, due dei quali andati perduti a
causa del maltempo. Le vite degli uomini del SAR venivano poste a
repentaglio e si consumava carburante costoso per una ricerca che, come ogni
persona ragionevole poteva capire, era ormai inutile. Così, a mezzogiorno del
21, i comandanti García e Massa annunciarono: «Le ricerche del velivolo
uruguayano n. 571 cessano a causa dei risultati negativi».
Parte Terza
1

La mattina del nono giorno, il cadavere di Susana Parrado venne trascinato


fuori sulla neve. Non un suono, tranne quello del vento, giunse alle orecchie
dei superstiti mentre uscivano incespicando dalla fusoliera; non si vedeva
altro che il consueto, monotono anfiteatro di rocce e di neve.
Man mano che la luce mutava, le montagne sembravano assumere aspetti
diversi, come se cambiassero umore. Nelle ore del mattino apparivano
luminose e remote. Poi, con il scorrere della giornata, le ombre si allungavano
e le rocce grigie, rossastre e verdi divenivano le fattezze di bestie tetramente
cogitabonde o di divinità irose, intente a contemplare dall’alto, accigliate, gli
intrusi.
I sedili dell’aereo venivano disposti sulla neve, come sdraio la veranda di
una estancia. Su uno di essi il primo ad uscire metteva a sedere per far
sciogliere la neve e ricavarne acqua potabile; intanto, scrutava l’orizzonte.
Ognuno poteva vedere sulla faccia dei compagni il rapido progredire del loro
deterioramento fisico. I movimenti di coloro che si davano da fare nella
cabina passeggeri o intorno alla fusoliera erano diventati grevi e lenti, il
minimo sforzo bastava a sfinirli tutti. Molti restavano seduti ove avevano
dormito, troppo indifferenti e sconfortati anche per uscire a respirare una
boccata d’aria fresca. L’irritabilità stava diventando una minaccia semi più
grave.
Marcelo Pérez, Daniel Fernández e i meno giovani del gruppo temevano
che qualcuno dei ragazzi fosse sull’orlo dell’isterismo. L’attesa li stava
logorando e avevano cominciato ad altercare tra loro.
Marcelo faceva tutto il possibile per dare l’esempio. Era ottimista e
imparziale. Parlava con fiducia del salvataggio imminente e cercava di indurre
i ragazzi della sua squadra a cantare. Vi fu un incerto tentativo di intonare
Clementine, ma nessuno ebbe la forza di continuare. Stava inoltre diventando
manifesto a tutti loro che anche il capitano della squadra non era più fiducioso
come sembrava; durante la notte veniva sopraffatto dalla malinconia; i
pensieri di lui andavano alla madre e a tutto il dolore che ella doveva provare,
a suo fratello in luna di miele nel Brasile, e a tutti gli altri della famiglia. Si
sforzava di soffocare i singhiozzi perché i compagni non lo udissero, ma,
quando si addormentava, sognava e si destava di soprassalto, gridando. Il suo
amico Eduardo Strauch faceva quanto stava in lui per confortarlo, ma
Marcelo sentiva che, come capitano della squadra, e come principale fautore
del viaggio in Cile, aveva la responsabilità di quanto era accaduto.
«Non essere stupido», disse Eduardo. «Non puoi prospettarti le cose in
questo modo. Io ho persuaso Gastón e Daniel Shaw a venire e sono morti tutti
e due. Ho persino telefonato a Daniel per ricordargli la partenza, ma non mi
sento responsabile della sua morte.»
«Se c’è un responsabile», osservò suo cugino Fito, «quel lo è Dio. Perché
ha lasciato morire Gastón?» Fito si riferiva al fatto che Gastón Costemalle,
risucchiato fuori dalla coda dell’aereo, non era il primo della famiglia a perire;
sua madre aveva già perduto il marito e l’altro figlio. «Perché Dio ci fa
soffrire in questo modo? Che cosa abbiamo fatto?»
«Non è così semplice», disse Daniel Fernández, il terzo dei cugini Strauch.
***
Tra i ventisette superstiti v’erano due o tre giovani il cui coraggio e il cui
esempio puntellavano il morale di tutti. Echavarren, che soffriva molto a
causa della gamba fratturata, rimaneva allegro ed estroverso; urlava e
imprecava contro chiunque lo urtasse o lo calpestasse, ma sempre si faceva
perdonare, in seguito, con scuse cortesi o con qualche parola scherzosa.
Enrique Platero era energico e coraggioso, nonostante la ferita al ventre. E
Coco Nicolich costringeva la sua «corvée» ad alzarsi presto al mattino, a fare
le pulizie nella cabina passeggeri, e poi a distrarsi giocando, ad esempio, alle
sciarade, mentre la sera persuadeva tutti a recitare il rosario assieme a Carlitos
Pàez.
Liliana Methol, la sola donna rimasta tra loro, era una straordinaria fonte
di consolazione. Sebbene più giovane (aveva trentacinque anni) delle madri
dei ragazzi, si meritò l’affetto filiale di tutti. Gustavo Zerbino, che era appena
diciannovenne, la chiamava «madrina», ed ella reagiva al suo affetto e a
quello degli altri con parole consolanti e con un dolce ottimismo. Anche lei si
rendeva conto che il morale dei ragazzi correva il pericolo di crollare ed
escogitava modi per distrarli dalla loro critica situazione. La sera di quel nono
giorno, li riunì intorno a sé e propose che ognuno narrasse un episodio della
propria vita. Pochi riuscirono a farsi venire in mente qualcosa da dire. Poi
Pancho Delgado si offrì di narrare tre episodi, concernenti tutti il suo futuro
suocero. Quando aveva conosciuto la sua novia, disse loro, ella contava
appena quindici anni, mentre lui era più anziano di tre o quattro anni. Non
sapeva bene se i genitori della ragazza lo avrebbero gradito, ed era in ansia a
causa dell’impressione che avrebbe fatto. In un breve periodo di tempo,
raccontò Delgado, era riuscito a urtare incidentalmente il padre della fidanzata,
facendolo cadere in una piscina, ove il futuro suocero aveva riportato lesioni
a una gamba; gli era partito un colpo di fucile che aveva sfondato il tetto
dell’automobile di famiglia, una BMW 2002 nuova di zecca, aprendovi uno
squarcio enorme, con pezzi di lamiera metallica arricciolati all’esterno come
petali di fiori; e poco ci era mancato che fulminasse con la corrente elettrica il
padre della sua novia mentre lo aiutava a fare i preparativi per un ricevimento
nel giardino della loro casa a Carrasco.
Questi aneddoti furono come un tonico per i ragazzi seti nella tenebrosa
atmosfera dell’aereo, in attesa di sentirsi abbastanza sfiniti per riuscire a
prendere sonno, e di ciò gli furono grati. Ma quando toccò a loro raccontare
altri episodi, nessuno parlò, e, mentre la luce svaniva, ognuno tornò ai propri
pensieri.
2

Si destarono la mattina di domenica, 22 ottobre, per affrontare il decimo


giorno sulla montagna. I primi a uscire dalla fusoliera furono Marcelo e Roy
Harley. Roy aveva trovato una radiolina a transistor tra due sedili e,
avvalendosi di modeste conoscenze dell’elettronica, acquisite mentre aiutava
un amico a costruire un impianto ad alta fedeltà, era riuscito a farla
funzionare. Si stentava a ricevere segnali nel varco profondo tra le enormi
montagne e pertanto Roy costruì un’antenna con pezzi di filo metallico
ricavati dai circuiti elettrici del Fcdrchild. Mentre egli ruotava la manopola di
sintonia, Marcelo teneva alta l’antenna e la spostava circolarmente.
Ricevettero saltuariamente trasmissioni radio dal Cile, ma nessuna notizia dei
tentativi per soccorrerli. Le sole voci portate fino a loro dalle onde radio erano
quelle stridule dei politicanti cileni alle prese con lo sciopero organizzato dalle
classi medie contro il governo socialista del presidente Allende.
Pochi degli altri giovani uscirono sulla neve. L’inedia cominciava a fare
effetto. Stavano diventando più deboli e più apatici. Quando si alzavano in
piedi si sentivano svenire e stentavano a mantenere l’equilibrio. Soffrivano il
freddo anche quando il sole si alzava e li riscaldava, e la loro pelle cominciava
a diventare rugosa come quella dei vecchi.
Le poche riserve di viveri andavano esaurendosi. La razione quotidiana,
consistente in un pezzetto di cioccolata, in poco più di un ditale di vino e in
un cucchiaino da tè di marmellata o di vongole in scatola, tutto ciò assaporato
molto adagio per farlo durare, era più una tortura che un sostentamento per
quei giovani sani e atletici; eppure, i forti la condividevano con i deboli, gli
illesi con i feriti. Appariva chiaro a tutti loro che non avrebbero potuto
sopravvivere ancora a lungo. Non si sentivano consumati da una voracità
famelica, ma andavano piuttosto indebolendosi ogni giorno di più, e non
occorrevano conoscenze mediche o dietetiche per prevedere quale sarebbe
stata la fine.
Si spremevano il cervello pensando ad altre possibili fonti di cibo.
Sembrava impossibile che sulle Ande non crescesse assolutamente nulla,
poiché anche la più semplice forma di vita vegetale avrebbe potuto nutrirli in
qualche modo. Nelle immediate prossimità dell’aereo esisteva soltanto neve. Il
suolo si trovava, nel punto più vicino, una trentina di.metri sotto di loro. Il
solo terreno esposto al sole e all’aria consisteva in e rocce di montagna, sulle
quali non trovarono altro che fragili licheni. Li raschiarono e formarono una
specie di intruglio insieme con la neve sciolta, ma avevano un sapore amaro e
disgustoso e non contenevano alcun nutrimento. A parte i licheni, non
esisteva altro. Alcuni di loro pensarono ai cuscini, risultò che non erano
imbottiti con paglia. Il nylon e la gommapiuma non servivano.
Da alcuni giorni, parecchi dei ragazzi si erano resi conto che, se volevano
sopravvivere, avrebbero dovuto mangiare i cadaveri delle persone perite
nell’incidente. Era una prospettiva orrenda. I cadaveri giacevano tutto attorno
all’aereo, sulla neve, conservati dal gelo intenso nelle stesse condizioni in cui
si erano trovati al momento della morte. Ma, sebbene il pensiero di tagliare
carne dai corpi di quelli che erano stati i loro amici fosse ripugnante
all’estremo per tutti, una lucida valutale delle difficoltà dalle quali erano
assediati li indusse a prendere in considerazione la cosa.
A poco a poco la discussione si ampliò mentre questi ragazzi accennavano
a tale possibilità con i loro amici o con coloro che ritenevano sarebbero stati
comprensivi. Infine, Canessa ne parlò apertamente. Sostenne con foga che
nessuno sarebbe venuto a soccorrerli; che avrebbero dovuto salvarsi per loro
conto, ma che nulla poteva essere fatto senza cibo; e il solo cibo disponibile
era la carne umana. Fece ricorso alle proprie nozioni di medicina per spiegare,
con la sua voce penetrante e acuta, in qual modo i loro organismi stessero
esaurendo ogni riserva energetica. «Ogni volta che vi muovete», se,
«consumate una parte del vostro corpo. Presto saremo talmente deboli da non
aver più neppure la forza di tagliare la carne che si trova là, davanti ai nostri
occhi.»
Canessa non basò il proprio ragionamento soltanto sulla convenienza.
Insistette nel dire che avevano il dovere morale di restare in vita con qualsiasi
mezzo a loro disposizione, e, come egli era fervido e sincero nella propria
fede religiosa, a grande importanza venne attribuita a quanto diceva dai più pii
tra i superstiti..
«Si tratta soltanto di carne», egli disse. «Non c’è altro. Le anime hanno
abbandonato i loro corpi e i trovano in paradiso con Dio. Qui rimangono
soltanto i cadaveri, e non sono esseri umani più di quanto lo siano le parti
morte dei bovini che mangiamo a casa.»
Altri parteciparono alla discussione. «Non avete veduto», disse Fito
Strauch, «quanta energia ci è occorsa soltanto per salire di poche decine di
metri su per la montagna? Pensate a quanta di più ce ne occorrerà per scalare
la montagna fino alla vetta e scendere dall’altro lato. Non si può fare una cosa
simile con un sorso di vino e un pezzetto di cioccolata.» La verità di quanto
egli diceva era incontestabile.
Vi fu una riunione nella fusoliera del Fairchild e, per la prima volta, tutti e
ventisette i superstiti dibatterono il dilemma cui si trovavano di fronte… se
avessero dovuto o no nutrirsi con i corpi dei morti per sopravvivere. Canessa,
Zerbino, Fernández e Fito Strauch esposero, una volta di più, le
argomentazioni di cui si erano avvalsi prima. Se non si fossero decisi a far
questo, sarebbero periti. Avevano il dovere morale di vivere, per se stessi e
per amore delle loro famiglie. Dio voleva che vivessero e ne aveva dato loro il
'modo con i cadaveri degli amici. Se Dio non avesse voluto salvarli, sarebbero
rimasti uccisi nell’incidente; avrebbero fatto male a respingere questo dono
della vita soltanto perché erano troppo schifiltosi.
«Ma che cosa abbiamo fatto», domandò Marcelo, «perché Dio ci chieda
ora di divorare i corpi dei nostri amici defunti?» Vi fu un momento di
esitazione. Poi Zerbino si rivolse al capitano della squadra d' rugby e
domandò: «Ma, secondo te, che cosa avrebbero pensato loro?» Marcelo non
rispose.
«Io so», continuò Zerbino, «che se il mio cadavere potesse aiutarvi a
restare in vita, vorrei senza dubbio che ve ne serviste. In effetti, se morirò e
voi non mi mangerete, tornerò indietro, ovunque possa essere andato a finire,
e vi rifilerò una bella pedata nel sedere.» Questo ragionamento dissipò molti
dubbi poiché, per quanto ogni ragazzo potesse essere riluttante a nutrirsi con
la carne di un amico, furono tutti d’accordo con Zerbino. Lì per lì, strinsero
un patto: se altri di loro fossero morti, i loro corpi dovevano essere impiegati
come cibo.
Marcelo continuava a rifuggire da una decisione. Lui e il suo sempre più
ridotto gruppo di ottimisti si avvinghiavano alla speranza di un salvataggio,
ma ben pochi degli altri condividano ormai la loro fiducia. Anzi, alcuni dei
ragazzi più giovani passarono dalla parte dei pessimisti (o dei realisti, come
essi si consideravano) con un certo risentimento nei confronti di Marcelo
Pérez e di Pancho Delgado. Sentivano di essere stati tratti in inganno. I
soccorsi che essi avevano promesso non erano giunti.
I due giovani, tuttavia, non mancavano di sostenitori. Coche Inciarte e
Numa Turcatti, entrambi ragazzi gagliardi e robusti ma ricchi di gentilezza
d’animo, dissero ai compagni che, pur non ritenendo ingiusta la cosa,
sapevano di non potersi indurre a farla. Liliana Methol concordò con loro. I
suoi modi erano calmi come sempre, ma, al pari degli altri, ella era alle prese
con le violente emozioni destate dall’alternativa. L’istinto della sopravvivenza
premeva forte in lei; anelava a rivedere i suoi figli, ma l’idea di nutrirsi con
carne umana la faceva inorridire. Non riteneva che fosse ingiusto; riusciva a
distinguere tra il peccato e la ripugnanza fisica, e sapeva come un tabù sociale
non fosse la legge di Dio. «Eppure», disse, finché esiste la possibilità che ci
soccorrano, finché rimane qualcosa da mangiare, anche se si tratta soltanto di
un pezzetto di cioccolata, non posso farlo.»
Javier Methol si dichiarò d’accordo con sua moglie, ma non volle
impedire agli altri di fare quello che ritenevano necessario. Nessuno fece
rilevare che Dio avrebbe potuto volere, da»ro, la decisione di morire. Erano
tutti persuasi che la virtù insistesse nella sopravvivenza e che il nutrirsi con la
carne egli amici morti non avrebbe posto in alcun modo in pericolo loro
anime; ma un conto era decidere, e un altro conto agire.
Le discussioni si erano protratte per quasi tutto il giorno e, verso la metà
del pomeriggio, si resero conto che dovevano agire subito o non agire affatto;
ciò nonostante, rimasero senti nella cabina passeggeri, senza fiatare. Infine, un
gruppo di quattro giovani, Canessa, Maspons, Zerbino e Fito Strauch si alzò e
uscì sulla neve. Pochi li seguirono. Nessuno voleva sapere chi sarebbe stato a
tagliare la carne, o da quale cadavere l’avrebbe ricavata.
Quasi tutti i cadaveri erano coperti dalla neve, ma le natiche di uno di essi
sporgevano a pochi metri dall’aereo Senza dire una parola, Canessa si
inginocchiò, mise a nudo la pelle e incise la carne con un pezzo di vetro. Era
indurita dal gelo e difficile a tagliarsi, ma egli si ostinò finché non ne ebbe
ricavato venti pezzetti poco più lunghi di zolfanelli. Si rialzò, poi, tornò
accanto all’aereo e li allineò sul tetto della fusoliera.
All’interno regnava il silenzio. I ragazzi rimanevano acquattati sul
Fairchild. Canessa disse loro che la carne si trovava lì sul tetto, ad asciugare
al sole, e che chi lo desiderava poteva venir fuori a mangiarla. Nessuno si
mosse e di nuovo toccò a Canessa mettere alla prova la sua decisione. Egli
pregò Dio chiedendogli di aiutarlo a fare ciò che riteneva essere giusto, poi
prese in mano un pezzo di carne. Esitò. Nonostante la ferma risolutezza della
sua mente, l’orrore dell’atto lo paralizzava. La mano non voleva alzarglisi fino
alla bocca né ricadérgli al fianco mentre la ripugnanza che lo dominava lottava
contro l’ostinata volontà. La volontà prevalse. La mano si alzò e cacciò la
carne nella bocca. Lui inghiottì.
Provò una sensazione di trionfo. La sua coscienza era riuscita a
sormontare un tabù primitivo, irrazionale. Sarebbe vissuto.
Più tardi, quella sera, gruppetti di ragazzi uscirono dall’aereo per seguire il
suo esempio. Zerbino prese una striscia di carne e la inghiottì come aveva
fatto Canessa, ma gli rimase conficcata in gola. Si mise in bocca una manciata
di neve e riuscì a mandarla giù. Fito Strauch seguì il suo esempio, poi
Maspons e Vizintìn e altri ancora fecero altrettanto.
Nel frattempo, quella sera, Gustavo Nicolich, il ragazzo alto e ricciuto,
appena ventenne, che tanto aveva contribuito a mantenere alto il morale dei
suoi giovani amici, scrisse alla propria novia a Montevideo.
Mia carissima Rosina,
ti scrivo dall’interno dell'aereo (il nostro petit hotel, per il momento). E il
tramonto e ha cominciato a fare piuttosto freddo e a soffiare il vento, come
accade di solito a quest'ora della sera. Oggi il tempo è stato splendido; un
sole meraviglioso e molto caldo. Mi ha ricordato le giornate sulla spiaggia
con te, ma la grande differenza sta nel fatto che allora, a mezzogiorno,
andavamo a pranzare a casa tua, mentre adesso sono bloccato all0’esterno
dell’aereo senza un briciolo di cibo.
Oggi, oltre a tutto il resto, l'atmosfera è stata alquanto deprimente e
molti degli altri hanno cominciato a scoraggiarsi (è questo il decimo giorno
che ci troviamo qui), ma per fortuna la tetraggine non mi ha contagiato
perché io trovo una forza incredibile semplicemente pensando che ti rivedrò.
Un'altra delle ragioni dalle quali è stato causato lo sconforto generale
risiede nel fatto che tra poco i viveri si esauriranno: ci rimangono soltanto
due barattoli (piccoli) di cozze, una bottiglia di vino bianco e un po' di
cherry brandy, il che per ventisette uomini (be', ci sono anche ragazzi che
vogliono essere uomini) non è nulla.

Una cosa ti sembrerà incredibile (sembra incredibile anche me): oggi


abbiamo cominciato a tagliare carne dai morti per mangiarla. Non rimane
altro da fare. Ho pregato Dio dal profondo del cuore affinché un giorno
come questo non giungesse mai, ma è giunto e dobbiamo affrontarlo con
coraggio e fede. Fede, sì, perché sono pervenuto alla conclusione che i
cadaveri si trovano là per volontà di Dio e, siccome la sola cosa che conti è
l’anima, io non devo provare un gran rimorso; e se dovrà venire il giorno in
cui potrò salvare qualcuno con il mio corpo, lo farò volentieri.

Non so che cosa potete passare tu, la mamma, papà e i bambini; non
immagini quanto mi rattristi pensare che state offrendo, e non faccio che
chiedere a Dio di rassicurarvi e di darvi coraggio, perché questo è il solo
modo di cavarsela da una simile situazione. Credo che presto vi sarà un lieto
fine per tutti.
Ti spaventerai, rivedendomi. Sono sudicio, con la barba, e un po' più
magro e ho un lungo taglio sulla testa e un altro sul petto che ormai è
guarito, nonché un taglio piccolissimo che mi sono fatto oggi lavorando
nella cabina dell'aereo, oltre a vari altri piccoli tagli sulla gamba e su una
spalla; ma, nonostante tutto, sto bene.
3

Quelli che per primi sbirciarono fuori attraverso i finestrini dell’aereo, la


mattina dopo, videro che il cielo era nuvoloso, ma che un po’ di sole
splendeva, filtrando attraverso le nubi, sulla neve. Alcuni scoccarono occhiate
circospette a Canessa, a Zerbino, a Maspons, a Vizintìn e ai cugini Strauch.
Non perché pensassero che Dio li avrebbe fulminati, ma perché sapevano, in
base alle esperienze fatte nelle loro estancias, che non si dovrebbe mai
mangiare la carne di un manzo morto per cause naturali, e si domandavano se
non sarebbe potuto essere altrettanto malsano fare la stessa cosa con un
uomo.
Ma coloro i quali avevano mangiato la carne stavano benissimo. Nessuno
ne aveva mangiata molta e, in realtà, si sentivano deboli quanto gli altri. Come
sempre, Marcelo fu il primo a sollevarsi dai cuscini.
«Vieni», disse a Roy Harley. «Dobbiamo mettere in funzione la radio.»
«Fa tanto freddo», disse Roy. «Non puoi trovare qualcun altro?»
«No», rispose Marcelo. «È il tuo compito. Vieni.»
Con riluttanza, Roy tolse le scarpe dalia reticella dei cappelli e le infilò
sopra le sue due paia di calzini. Si districò dalla fila dei ragazzi addormentati e
scavalcò quelli più vicini all’uscita per seguire Marcelo fuori dell’aereo. Uno o
due altri fecero altrettanto.
Marcelo aveva già sollevato l’antenna e aspettò mentre Roy prendeva la
radiolina, l’accendeva e cominciava a ruotare la manopola della sintonia.
Sintonizzò l’apparecchio su una stazione del Cile che il giorno prima aveva
trasmesso soltanto propaganda politica; ora, però, mentre teneva la radio
accostata all’orecchio, udì le ultime parole di un notiziario: «Il SAR ha chiesto
che tutti gli aerei civili e militari in volo sopra la cordillera osservino le
eventuali tracce dei rottami del Fairchild n. 571. Ciò fa seguito all’interruzione
delle ricerche dell’aereo uruguayano da parte del SAR a causa dei risultati
negativi delle stesse». Il radiocronista passò a un’altra notizia.
Roy si scostò la radiolina dall’orecchio. Alzò gli occhi su Marcelo e gli
riferì quel che aveva udito. Marcelo lasciò cadere l’antenna, si coprì la faccia
con le mani e pianse di disperazione. Gli altri, che si erano raggruppati intorno
a Roy, dopo aver udito la notizia cominciarono a singhiozzare e a pregare; tutti
tranne Parrado che volse, calmo, lo sguardo verso le montagne a ovest.
Gustavo Nicolich uscì dall’aereo e, vedendo le loro facce, intuì che cosa
avevano udito.
«Che cosa diremo agli altri?» domandò.
«Non dobbiamo dirglielo», rispose Marcelo. «Lasciamo almeno che
continuino a sperare.»
«No», dichiarò Nicolich. «Dobbiamo avvertirli. Devono sere a conoscenza
del peggio.»
«Non posso, non posso», disse Marcelo, sempre singhiozzando, la faccia
nascosta dalle mani.
«Glielo dirò io», esclamò Nicolich e si diresse verso la fusoliera.
Si arrampicò dentro attraverso il foro nella parete di valigie e di camicie da
rugby, rimase accovacciato sull’imboccatura del fioco tunnel e guardò le facce
luttuose voltate verso di lui.
«Ehi, ragazzi», gridò, «ci sono buone notizie! Le abbiamo appena ascoltate
alla radio. Hanno rinunciato alle ricerche.»
All'interno della gremita cabina passeggeri regnò il silenzio. Poi i ragazzi,
una volta resisi conto che la loro situazione a ormai senza speranze, si misero
a piangere.
«Perché diavolo sarebbe una buona notizia?» urlò irosamente Pàez a
Nicolich.
«Perché significa», egli rispose, «che ce ne andremo di qui per nostro
conto.»
***
Il coraggio di questo ragazzo impedì il dilagare della dilazione più
assoluta, ma alcuni degli ottimisti che avevano itto conto sui soccorsi non
riuscirono a riprendersi dal colpo. I pessimisti, parecchi dei quali non
riponevano speranze nella fuga più di quante ne avessero riposte nel
salvataggio, non rimasero scossi; se lo erano aspettato. Ma la notizia distrusse
Marcelo. Il suo compito quale loro capo divenne vuoto e automatico, e la vita
gli si spense negli occhi. Anche Delgado parve cambiato. Il suo eloquente e
allegro ottimismo svaporò nell’aria rarefatta della cordillera. Sembrava che
egli non credesse affatto nella loro possibilità di salvarsi con i propri mezzi.
Silenziosamente, si ritirò nello sfondo. Degli ottimisti di un tempo, soltanto
Liliana Methol continuò a prodigare speranza e consolazione. «Non
preoccupatevi», disse. «Ce ne andremo di qui, e come. Dopo lo scioglimento
delle nevi ci troveranno.» Poi, quasi avesse ricordato soltanto in quel
momento fino a qual punto erano scarsi i viveri, a parte i cadaveri dei loro
compagni, soggiunse: «Oppure ci dirigeremo verso ovest».
Fuggire: questa divenne l’ossessione dei nuovi ottimisti. Era sconcertante
che la valle nella quale si trovavano intrappolati degradasse verso est, e che a
ovest si levasse una muraglia compatta di montagne torreggianti, ma questo
non scoraggiava Parrado. Non appena egli ebbe saputo dell’interruzione delle
ricerche, annunciò la sua intenzione di incamminarsi, da solo, se necessario,
verso ovest. E soltanto molto a stento gli altri riuscirono a trattenerlo. Dieci
giorni prima, Parrado era stato dato per morto. Se qualcuno doveva scalare le
montagne, c’erano altri in condizioni fisiche di gran lunga migliori delle sue
per tentare una simile impresa. «Dobbiamo riflettere con calma», disse
Marcelo, «e agire insieme. Soltanto così riusciremo a sopravvivere.» Parrado
rispettava ancora sufficientemente Marcelo e conservava quel tanto di
disciplina di squadra che occorreva per accettare la decisione altrui. Non fu il
solo, tuttavia, a sostenere con insistenza che, prima di un loro ulteriore
indebolimento, dovevano organizzare un’altra spedizione, o per scalare la
montagna e vedere che cosa ci fosse dall’altro lato, o per trovare la coda del
Fairchild.
Decisero che un gruppo dei più forti tra loro doveva partire subito e, poco
più di un’ora dopo la notizia udita alla radio, Zerbino, Turcatti e Maspons si
incamminarono su per la montagna, seguiti con lo sguardo dai loro amici.
***
Canessa e Flto Strauch tornarono accanto al cadavere che avevano tagliato
il giorno prima e staccarono altra carne dall’osso. Le strisce collocate sul tetto
della fusoliera erano già state mangiate, ormai. Non soltanto si riusciva a
inghiottirle più facilmente quando si erano disseccate all’aria aperta, ma la
consapevolezza che non sarebbero più stati tratti in salvo aveva persuaso
molti di coloro i quali il giorno prima esitavano. Per la prima volta, Parrado si
nutrì con carne umana. Altrettanto fece Daniel Femàndez, anche se non senza
il più grande sforzo di volontà per sormontare la ripugnanza. Ad uno ad uno,
si costrinsero a mettere in bocca e a inghiottire la carne dei loro amici. Per
taluni si trattava semplicemente di una sgradevole necessità; per altri era un
conflitto tra la coscienza e la ragione.
Alcuni di loro non ci riuscirono: Liliana e Javier Methol, Coche Inciarte,
Pancho Delgado. Marcelo Pérez, avendo deciso di dover compiere questo
passo, si avvalse dell’autorità cui ancora disponeva per persuadere gli altri a
fare altrettanto, ma nulla di quanto egli disse ebbe l’efficacia di una concisa
asserzione di Pedro Algorta. Era, questi, uno dei due giovani che all’aeroporto
avevano indossato vestiti più alla buona gli altri, come per dimostrare che
disprezzavano i valori borghesi. Nell’incidente egli aveva urtato con il capo e
la conseguenza era stata un’amnesia totale riguardo a quanto era accaduto il
giorno prima. Algorta osservò Canessa e Fito Strauch mentre tagliavano la
carne, ma non disse nulla finché non giunse il momento in cui gliene venne
offerta una fetta, accettò, la inghiottì, poi disse: «È come la Santa Comune.
Morendo, il Cristo ci offrì il suo corpo affinché potessimo godere della vita
spirituale. Il mio amico ci ha dato il suo corpo affinché possiamo godere della
vita fisica».
Pensando a questo, Coche Inciarte e Pancho Delgado iniottirono per la
prima volta la loro parte e Marcelo si servì quelle parole come di un concetto
che avrebbe persuaso gli altri a seguire il suo esempio e a sopravvivere. Ad
uno ad uno si rassegnarono tutti, eccezion fatta per Liliana e Javier Methol.
Essendo ormai stato deciso che avrebbero vissuto nutrendosi con la carne
dei morti, venne organizzato un gruppo formato dai ragazzi più forti per
coprire i cadaveri con la neve, mentre i più deboli e i feriti sedevano sui sedili
tenendo orientate verso il sole le vaschette d’alluminio e raccoglievano le
gocce d’acqua nelle bottiglie di vino vuote. Altri pulivano la cabina
viaggiatori. Canessa, dopo aver tagliato carne a sufficienza per le loro
necessità immediate, fece un giro di ispezione dei feriti. Rimase
moderatamente soddisfatto di quello che vide. Quasi tutte le ferite superficiali
continuavano a guarire, e nessuna di esse mostrava segni di infezione. Anche i
gonfiori intorno alle fratture andavano scomparendo; Alvaro Mangino e
Pancho Delgado, ad esempio, riuscivano entrambi, nonostante considerevoli
sofferenze, a zoppicare intorno all’aereo. Arturo Nogueira, invece, si trovava
in condizioni peggiori; se usciva dalla fusoliera, doveva strisciare,
trascinandosi avanti con la forza delle braccia. Lo stato della gamba di Rafael
Echavarren stava diventando grave: si notavano i primi segni di una cancrena.
Enrique Platero, il ragazzo al quale era stato strappato il tubo d’acciaio dal
ventre, disse a Canessa che si sentiva benissimo, sebbene un pezzo di intestino
continuasse a sporgergli dalla ferita. Il «medico» tolse con cautela la camicia
da rugby che Platero continuava ad adoperare come benda e confermò
l’osservazione del paziente: la ferita stava guarendo bene, ma qualcosa
sporgeva dalla pelle. Una parte di questo lembo sporgente si era disseccata, e
Canessa fece osservare a Platero che, qualora egli avesse tagliato i tessuti
morti, gli altri sarebbero potuti essere spinti più facilmente sotto la pelle.
«Ma cos’è quello che sporge?» domandò Platero.
Canessa si strinse nelle spalle. «Non lo so», rispose. «Probabilmente si
tratta di parte del rivestimento dello stomaco; ma se invece è l’intestino e io lo
incido, per te è finita. Ti verrà una peritonite.»
Platero non esitò. «Fa quello che devi fare», disse, e si ridistese sopra la
porta.
Canessa si preparò all’intervento chirurgico. Come bisturi poteva scegliere
tra un pezzo di vetro e una lametta da rasoio. Per sterilizzare l’incisione
disponeva dell’aria a temperatura sotto zero tutto intorno a loro. Disinfettò la
regione da operare con acqua di Colonia, poi, cautamente, recise una piccola
parte dei tessuti morti con il pezzo di vetro. Platero non sentì alcun dolore, ma
la cartilagine che continuava a sporgere non rientrava ancora sotto la pelle.
Con una cautela grande come non mai, Canessa recise a questo punto più
rasente al tessuto vivo, sempre paventando di poter perforare l’intestino, ma,
una volta di più, parve non aver causato alcun danno, e infine, spinto dal dito
del chirurgo, il viscere scomparve entro il ventre di Platero, la sua sede
naturale.
«Vuoi che ti cucia?» domandò Canessa al suo paziente. «Devo avvertirti
che non abbiamo filo chirurgico.»
«Non preoccuparti», rispose Platero, sollevandosi su un gomito e
guardandosi il ventre. «Va bene così. Limitati a bendare di nuovo la ferita e io
mi rimetterò in moto.»
Canessa tornò ad avvolgere la camicia da rugby il più strettamente
possibile e Platero tirò giù le gambe dalla porta e si rimise in piedi. «Ora sono
pronto a prendere parte a una spedizione», disse, «e, quando torneremo a
Montevideo, ti sceglierò come mio medico. Non potrei mai sperare di
trovarne uno migliore.»
Fuori della fusoliera, seguendo l’esempio di Gustavo Nicolich, Carlitos
Pàez stava scrivendo a suo padre, alla madre e alle sorelle. Scrisse anche alla
nonna.
Non potete avere idea di quanto ho pensato a voi perché vi voglio bene,
perché vi adoro, perché siete già stati tanto provati dalla vita, perché non so
come riuscirete a sopportare questo nuovo colpo. Tu, Buba, mi hai insegnato
tante cose, ma la più importante è stata la fede in Dio. Quest’ultima si è
tanto intensificata in me, adesso, che voi non potete nemmeno concepirlo…
Voglio che tu lo sappia, sei la più buona nonna del mondo ed io ti ricorderò
in ogni momento della mia vita.
4

Zerbino, Tureatti e Maspons seguirono la traccia lasciata alla fusoliera su per


la montagna. Ogni venti o venticinque passi erano costretti tutti e tre a
riposarsi e ad aspettare che i battiti del loro cuore tornassero alla normalità. La
montagna sembrava quasi verticale e dovevano puntellarsi sulla neve con le
mani nude. Erano partiti in fretta e in furia e non avevano trovato il tempo di
riflettere sull’equipaggiamento più adatto per la scalata. Calzavano soltanto
scarpe di tela da ginnastica o mocassini, e indossavano camicie, maglioni e
giacchette leggere; avevano le gambe coperte appena da calzoni estivi. Tutti e
tre erano robusti, perché si trattava di giocatori rimasti sempre in allenamento,
ma, da undici giorni a quella parte, non avevano mangiato quasi nulla.
L’aria, quel pomeriggio, non era tanto gelida. Mentre si arrampicavano, il
sole splendeva loro sulla schiena e li teneva caldi. A soffrire di più erano i
piedi, bagnati dalla neve gelata. A metà pomeriggio, raggiunsero una roccia e
Zerbino notò che la neve tutto attorno ad essa andava sciogliendosi. Si gettò
lungo disteso e succhiò le gocce d’acqua formate dalla disintegrazione dei
cristalli. C’era anche un’altra specie di licheni, che egli si mise in bocca, ma
avevano un sapore di terra. Continuarono a salire, ma, alle sette di sera,
constatarono di trovarsi ancora a metà strada dalla vetta. Il sole era scomparso
dietro la montagna e rimaneva ancora soltanto un breve intervallo di luce. Si
misero a sedere per discutere il da farsi. Riconobbero tutti che avrebbe fatto
molto più freddo durante la notte e che, se fossero rimasti sulla montagna,
sarebbero potuti morire assiderati. D’altro canto, qualora si fossero
semplicemente lasciati scivolare verso il basso, l’intera scalata non sarebbe
servita a niente. Arrivare sulla vetta o trovare la coda dell’aereo con le batterie
era la sola probabilità di sopravvivenza per tutti e ventisette i superstiti.
Decisero, per conseguenza, di trascorrere la notte lassù e di cercare un
affioramento di rocce che potesse ripararli in qualche modo.
Un po’ più avanti, trovarono un monticello ove la neve era stata spazzata
via dal vento, ponendo così a nudo le rocce sottostanti. Ammonticchiarono
sassi per formare un frangivento e, non appena le tenebre furono quasi
complete, si distesero per dormire. Insieme con l’oscurità, come sempre,
venne il gelo; tenuto conto della protezione offerta loro dagli indumenti
leggeri contro le raffiche gelide, tanto sarebbe valso che fossero nudi.
Addormentarsi era fuori questione. Furono costretti a riscaldarsi
percuotendosi a vicenda con i pugni e con i piedi per mantenere la
circolazione del sangue e si esortarono a vicenda per essere colpiti in faccia
finché non ebbero le labbra gelate e non riuscirono più a pronunciar parola.
Non uno dei tre credette che sarebbe riuscito a superare quella notte. Quando
il sole, infine, spuntò ad oriente, ognuno di loro si meravigliò di vederlo, e
l’astro, man mano che saliva nel cielo, riportò un po’ di tepore nei loro corpi
congelati. Avevano i vestiti zuppi; pertanto si alzarono, si tolsero i calzoni, le
camicie, i calzini e li strizzarono. Poi il sole scomparve dietro una nube e
allora si rimisero gli indumenti bagnati e si incamminarono su per la
montagna.
Di quando in quando si fermavano per riposare e sbirciare, dietro di loro,
la fusoliera del Fairchild. Ormai era un puntino minuscolo sulla neve,
indistinguibile da uno qualsiasi delle migliaia di affioramenti rocciosi, a meno
che non si sapesse esattamente dove guardare. La «S» rossa che alcuni dei
giovani avevano dipinto sul tetto dell’aereo rimaneva invisibile, e divenne ora
chiaro a tutti e tre perché non fosco stati soccorsi: la fusoliera non poteva,
semplicemente, essere scorta dall’alto. Ma non fu soltanto questo a
sconfortarli. Quanto più salivano, tanto più numerose erano le montagne
coperte di neve che apparivano alla vista. Nulla faceva pensare che si
trovassero ai margini delle Ande. Tuttavia, posano vedere soltanto a nord e a
est. La montagna che stavano scalando continuava a bloccare la loro visuale a
sud e a est, ma sembrava che non si trovassero molto più vicini alla vetta.
Ogni volta, quando credevano di averla raggiunta, constatavano di trovarsi
soltanto in cima a un crinale; la vetta vera e propria continuava a torreggiare
sopra di loro.
Finalmente, sulla sommità di uno di quei crinali, le loro fatiche vennero
ricompensate. Notarono che le rocce di un affioramento erano state spezzate e
poi scorsero, sparsi tutto intorno, i frammenti contorti delle lamiere metalliche
che un tempo avevano formato una delle ali. Un po’ più in alto sulla
montagna, ove il terreno formava un piccolo pianoro, videro uno dei sedili
capovolto sulla neve. Non senza difficoltà lo sollevarono e trovarono, ancora
legato ad esso dalla cintura sicurezza, il cadavere di uno dei loro amici. Aveva
la faccia nera ed essi pensarono che poteva essere stato bruciato dal
carburante sfuggito al motore del Fairchild.
Con molto rispetto, Zerbino tolse al cadavere il portafoglio e la carta di
identità, poi gli sfilò dal collo una catenina con medagliette sacre. Fece
altrettanto quando trovarono i cadaveri degli altri tre Vecchi Cristiani e dei due
membri dell’equipaggio caduti dalla coda dell’aereo.
I tre giovani contarono a questo punto coloro che si trovavano lì e coloro
che si trovavano più in basso, e arrivarono a un totale di quarantaquattro.
Mancava un cadavere. Ricordarono allora la sagoma arrancante di Valeta,
scomparso nella neve più in basso di loro, quel primo pomeriggio. Il conto,
adesso, tornava: sei cadaveri in cima alla montagna, undici più in basso,
Valeta, i ventiquattro superstiti nel Fairchild, e loro tre, lì. Tutto quadrava.
Non si trovavano ancora sulla vetta, ma non si vedeva alcuna traccia della
sezione di coda né di altri rottami più in alto. Ridiscesero, sempre seguendo la
traccia lasciata dalla fusiera, e, su un’altra sporgenza rocciosa del ripido
pendio,trovarono uno dei motori dell’aereo. Lo scenario, dal punto in cui si
trovavano, era maestoso, e l’abbacinante luce del sole riflessa dalla neve li
costrinse a socchiudere gli occhi mentre contemplavano l’impressionante
panorama intorno a loro. Avevano tutti gli occhiali da sole ma la montatura di
quelli, di Zerbino si era rotta, facendo sì che gli scivolassero avanti sul naso
mentre si arrampicava, per cui lui aveva trovato più comodo guardare al di
sopra di essi. Si regolò nello stesso modo mentre ricominciavano a scivolare
verso il basso, servendosi dei cuscini tolti dai sedili più in alto come di slitte
improvvisate. Zigzagarono, fermandosi accanto ad ogni pezzo di metallo o ad
ogni rottame per vedere se sarebbero riusciti a trovare qualcosa di utile.
Scoprirono parte del sistema di riscaldamento dell’aereo, la toletta e
frammenti della coda, ma non la coda stessa. Arrivati nel punto in cui la
traccia della fusoliera seguiva un pendio troppo ripido, si spostarono
lateralmente sul fianco della montagna. Ormai Zerbino era talmente accecato
dalla neve che quasi non ci vedeva più. «Credo», osservò Maspons, mentre si
stavano avvicinando al Fairchild, «che non dovremmo dire agli altri quanto si
presenta disperata la situazione.»
«No», approvò Turcatti. «È inutile scoraggiarli.» Poi soggiunse: «A
proposito, dove è andata a finire la tua scarpa?» Maspons si guardò i piedi e
vide di aver perduto una delle scarpe mentre camminava. Aveva il piede
talmente intorpidito dal freddo che non se n’era accorto.
Gli altri ventiquattro superstiti furono felici di veder tornare i tre
compagni, ma rimasero amaramente delusi perché non avevano trovato la
coda dell’aereo, e le loro condizioni fisiche li sbigottirono. Tutti e tre
zoppicavano sui piedi congelati e avevano un aspetto spaventoso dopo la
notte trascorsa sul fianco della montagna: quanto a Zerbino, era praticamente
cieco.
Li condussero immediatamente nella fusoliera, li fecero sdraiare sui
cuscini e portarono loro grossi pezzi di carne, che essi trangugiarono. Subito
dopo, Canessa si accinse a curarne gli occhi, che lacrimavano
abbondantemente, con gocce di un flaconcino di Collirio trovato in una delle
valigie; riteneva che potesse giovare. Le gocce bruciavano, ma si
rassicurarono, perché ciò costituiva la prova del fatto che si stava facendo
qualcosa per guarirli. Poi Zerbino si bendò gli occhi con una micia da rugby e
li tenne bendati per due giorni. Quando se la benda, vedeva ancora soltanto
luce e ombra, e si servì della camicia come di una sorta di velo, facendosi così
schermo agli occhi dal sole. Mangiava stando sotto il velo, e la cecità lo
rendeva intollerabilmente aggressivo e irritabile.
Anche i piedi dei tre giovani avevano sofferto. Erano rossi e gonfi a causa
del gelo, e gli amici li massaggiarono con dolcezza. Tutti poterono rendersi
conto, comunque, che quella spedizione di un solo giorno aveva quasi ucciso
tre dei più forti tra loro, e il morale, una volta di più, crollò.
5

In una delle giornate successive, il sole scomparve dietro le nuvole, rendendo


inutilizzabili le bacinelle per produrre acqua, e i ragazzi dovettero così
ricorrere di nuovo al vecchio metodo, consistente nel mettere neve entro
bottiglie, scuotendo poi queste ultime. Roy Harley e Carlitos Pàez pensarono
allora di accendere un fuoco con alcune casse vuote di Coca Cola trovate nel
vano bagagli. Tennero sopra le fiamme le bacinelle d’alluminio, e l’acqua
prese ben presto a scorrere nelle bottiglie. Di lì a poco ne ebbero a sufficienza.
Le braci del fuocherello erano ancora ardenti; parve ragionevole tentar di
cuocere un pezzo di carne su una delle bacinelle. Non ve lo lasciarono a
lungo, ma la leggera doratura della carne fece assumere a quest’ultima un
sapore incommensurabilmente migliore… era più tenera del manzo, ma aveva
press’a poco lo stesso sapore.
L’aroma richiamò quasi subito altri ragazzi intorno al loco, e Coche
Inciarte, che aveva continuato a provare la più grande ripugnanza per la carne
cruda, la trovò invece assai più gustosa una volta cotta. Anche Roy Harley,
Numa Turatti e Eduardo Strauch trovavano più facile sormontare la
ripugnanza quando la carne era arrostita e riuscivano a mangiarla come se
fosse stata di manzo.
Canessa e i cugini Strauch erano contrari all’idea di cucinare la carne, e,
poiché erano diventati alquanto autorevoli nel gruppo, i loro punti di vista
non potevano essere ignorati. «Non vi rendete conto», disse Canessa, bene
informato e dogmatico come sempre, «che le proteine cominciano ad essere
distrutte a temperature superiori ai quaranta gradi centigradi? Se volete trarre
il massimo vantaggio dalla carne, dovete mangiarla cruda.»
«E inoltre, quando la cucinate», osservò Fernández, abbassando gli occhi
sulle piccole bistecche crepitanti nella bacinella d’alluminio, «la carne si
restringe. Gran parte delle sue sostanze nutritive va in fumo o si scioglie.»
Questi ragionamenti non persuasero Harley e Inciarte, che difficilmente
avrebbero potuto trarre nutrimento dalla carne cruda se non fossero riusciti a
indursi a mangiarla; ma, in ogni modo, i limiti al cucinarla erano posti
dall’estrema scarsezza di combustibile (esistevano tre sole casse) e dai forti
venti che così spesso rendevano impossibile accendere il fuoco sulla neve.
Nei giorni che seguirono, Eduardo Strauch, dopo essere diventato
debolissimo ed emaciato, riuscì infine a sormontare la ripugnanza per la carne
cruda, costrettovi dai due cugini. Harley, Inciarte e Turcatti non vi riuscirono
mai; eppure avevano il dovere di sopravvivere e si costrinsero a ingerirne
quel tanto che bastava per restare in vita. Gli unici due che ancora non
avessero mangiato carne umana erano i più anziani tra loro, Liliana e Javier
Methol, e, man mano che i giorni passavano e i venticinque giovani
ricuperavano le forze grazie alla nuova dieta, i due coniugi, alimentandosi con
quello che restava del vino, della cioccolata e della marmellata, divenivano
sempre più magri e più deboli.
I ragazzi osservavano allarmati la loro crescente debilitazione. Marcelo li
esortò ripetutamente a sormontare la riluttanza e a nutrirsi con la carne. Si
avvalse di ogni possibile ragionamento e soprattutto delle parole di Pedro
Algorta. «Pensate alla cosa come se fosse la Comunione. Immaginate che si
tratti del corpo e del sangue del Cristo; questo, infatti, è il cibo che Dio ci ha
dato perché vuole farci vivere.»
Liliana lo ascoltava, ma di tanto in tanto scuoteva dolcemente il capo.
«Non c’è niente di male se tu fai questo, Marcelo, ma io non posso, non posso
assolutamente.» Per qualche tempo, Javier seguì il suo esempio. Continuava a
soffrire di mal di montagna e veniva curato da Liliana quasi me se fosse stato
uno dei suoi bambini. I giorni passavano lentamente, e venivano momenti in
cui essi rimanevano soli; ora parlavano insieme della loro casa a Montevideo,
si domandavano che cosa potessero fare i loro figli a quell’ora, temevano,
ansiosi, che la piccola Marie Noel, di tre anni appena, piangesse cercando la
madre, o che Marìa Laura, di dieci anni, non facesse i compiti.
Javier cercava di rassicurare la moglie dicendole che i genitori di lei si
sarebbero trasferiti in casa loro e avrebbero badato ai bambini. Parlarono
della madre e del padre di Liliana, e Liliana domandò se non sarebbe stato
possibile, quando fossero tornati, far venire i suoi genitori ad abitare nella
loro casa di Carrasco. Sbirciò un po’ innervosita il marito, facendogli questa
proposta, perché sapeva come a non tutti garbi vivere sotto lo stesso tetto con
i suoceri, ma Javier si limitò a sorridere e a dire: «Sicuro. Perché non ci
abbiamo pensato prima?»
Discussero la possibilità di costruire un appartamento annesso alla casa, in
modo che i genitori di Liliana si sentissero quasi indipendenti. Liliana si
crucciava pensando che non potessero permetterselo, o che un’ala nuova
potesse rovinare il giardino, ma Javier la rassicurò sotto ogni aspetto. Queste
conversazioni, però, minarono la sua risolutezza di non mangiare carne
umana, e così, quando Marcelo tornò ad offrirgli un pezzo di carne, Javier lo
accettò e se lo cacciò in gola.
Rimaneva soltanto Liliana. Per quanto ella fosse debole, sebbene la vita
stesse abbandonando a poco a poco il suo corpo, il suo stato d’animo
rimaneva sereno. Scrisse una breve lettera ai bambini, dicendo quanto le
erano cari. Rimase vicina al marito e continuò ad aiutarlo perché dei due egli
era pur sempre il più sofferente, a volte irritandosi anche un poco con lui
perché il mal di montagna rendeva lenti e goffi i suoi movimenti; ma, anche
con la morte così vicina, la loro armonia non venne mai meno. Erano una
persona sola, sulla montagna come a Montevideo, e anche in quella situazione
disperata il legame tra loro continuava a essere saldo. Persino la sofferenza ne
faceva parte e, quando parlavano insieme dei quattro figli che forse non
avrebbero riveduto mai più, versavano lacrime non soltanto di tristezza, ma
anche di gioia, perché ciò che adesso mancava loro dimostrava quanto
avessero avuto.
Una sera, subito prima del tramonto del sole, e quando i ventisette
superstiti si accingevano a trovare un rifugio dal freddo nella fusoliera
dell’aereo, Liliana si rivolse a Javier e gli disse che, una volta tornati a casa,
avrebbe voluto avere un altro bambino. Sentiva che, se restava in vita, ciò era
accaduto perché Dio voleva questo.
Javier ne fu felice. Amava i suoi figli e ne aveva sempre desiderato altri;
eppure, quando guardò la moglie, lesse, attraverso le lacrime che le
riempivano gli occhi, l’amarezza dalla quale ella era stata indotta a
pronunciare quelle parole. Dopo più di dieci giorni senza cibo, ogni riserva di
energia si era dileguata dal suo corpo. Gli zigomi le sporgevano sopra le gote
e gli occhi erano infossati nelle orbite; soltanto il suo sorriso rimaneva quello
di sempre. Javier le disse:
«Liliana, dobbiamo affrontare la realtà. Nulla di tutto ciò potrà mai
accadere se non sopravviviamo».
Ella annuì. «Lo so.»
«Dio vuole che continuiamo a vivere.»
«Sì. Vuole che continuiamo a vivere.»
«E c’è un solo modo.»
«Sì. C’è un solo modo.»
Adagio, perché erano entrambi debolissimi, Javier e Liliana tornarono
accanto al gruppo dei giovani mentre, uno dietro l’altro, si apprestavano a
salire sul Fairchild.
«Ho cambiato idea», disse Liliana a Marcelo. «Mangerò la carne.»
Marcelo si sporse verso il tetto della fusoliera e prese una piccola porzione
di carne umana che vi era rimasta ad asciugare al sole. Liliana l’accettò e si
costrinse a mandarla giù.
Parte Quarta
1

La notizia che i cileni avevano posto termine alle ricerche ei loro figli dopo
otto giorni appena, durante due dei quali Gli aerei erano rimasti a terra a causa
del maltempo, lascio sbigottiti quei genitori i quali erano ancora persuasi che i
loro figli fossero vivi. Essi si sentirono amaramente delusi per il fatto che i
cileni si erano affrettati a rinunciare con tanta disinvoltura ed esasperati contro
il loro governo perché faceva così poco. Nel Cile, Pàez Vilarò rese noto che,
dal canto suo, avrebbe continuato le ricerche; a Carrasco, Madelon Rodriguez
si mise in contatto con Gérard Croiset.
Gérard Croiset era nato nel 1910 da genitori olandesi ebrei e in gioventù
non aveva ricevuto, in pratica, alcuna istruzione. Nel 1945 fu scoperto da un
tale a nome Willem Tenhaeff, che aveva cominciato a compiere ricerche
sistematiche nel campo dei fenomeni della chiaroveggenza. Nel 1953,
all’Università di Utrecht, Tenhaeff venne nominato professore di
parapsicologia (si trattava di una cattedra che non aveva precedenti) e, cosa
ancora più stupefacente, tra la quarantina i chiaroveggenti che lavoravano con
lui si trovava Croiset.
Il maggior talento di Croiset consisteva nel ritrovamento di persone
scomparse, e per questo motivo egli era stato consultato spesso dalla polizia
olandese e da quella degli Stati Uniti. Il suo metodo era semplice: egli toccava
un oggetto appartenuto alla persona scomparsa, oppure parlava con qualcuno
degli interessati, e poi descriveva l’immagine, o la serie di immagini che gli si
formavano nella mente. Se un caso aveva una certa affinità con qualche sua
esperienza, Croiset constatava che la sensibilità psichica diveniva più acuta;
così, ad esempio, se un bambino scomparso era annegato in un canale,
diveniva più probabile che egli vedesse la scena perché nella fanciullezza per
poco non era annegato lui stesso. Non accettava mai denaro per il ricorso alle
sue facoltà, e reagiva con minor successo nei confronti di coloro che lo
interpellavano al solo scopo di ricuperare oggetti personali.
Ogni caso del quale egli si occupava veniva documentato dal professor
Tenhaeff e, dopo quasi vent’anni e parecchie centinaia di esperimenti, Croiset
aveva accumulato una serie impressionante di successi.
Madelón si recò all’Ambasciata olandese di Montevideo e, servendosi di
uno dei diplomatici come interprete, telefonò all’Istituto parapsicologico di
Utrecht. Le fu detto che Gérard Croiset si trovava in clinica ed era in
convalescenza dopo un intervento chirurgico. Ella supplicò ugualmente
affinché la facessero parlare con lui, e in ultimo venne posta in
comunicazione con il figlio, Gérard Croiset Jr., a Enschede, che aveva
trentaquattro anni e si riteneva avesse ereditato le facoltà del padre. Per il
tramite dell’interprete, il giovane Croiset chiese che gli venisse inviata una
carta delle Ande.
Madelón spedì immediatamente una carta aeronautica della zona, con un
diagramma rudimentale che indicava i corridoi aerei nel Cile e nell’Argentina.
Frecce erano state tracciate sulla carta e segnavano la rotta del Fairchild, con
un punto interrogativo sul passo del Planchon.
La volta successiva che ella telefonò al giovane Croiset, questi le disse di
essere stato in contatto con l’aereo. Uno dei motori aveva avuto un guasto,
facendo perdere quota al velivolo. Il pilota non si era trovato ai comandi, ma
il secondo pilota aveva sorvolato altre volte le Ande e ricordava una valle ove
riteneva che fosse possibile effettuare un atterraggio d’emergenza. Aveva
pertanto virato a sinistra (a sud) o forse a destra (a nord), precipitando nei
pressi di un lago che distava sessantacinque chilometri dal Planchon. L’aereo
giaceva «come un verme» e aveva il muso schiacciato. Croiset non riusciva
più a vedere i piloti, ma vedeva vita. C’erano dei superstiti.
Madelón sapeva come un chiaroveggente giapponese residente a Cordoba,
in Argentina, avesse detto che l’aereo si era diretto a sud. Le parve che ciò
decidesse a favore della direzione sud, e non nord, dal Planchon. Si recò
subito a casa di Rafael Ponce de Léon.
Anche Rafael era rimasto scandalizzato dalla sospensione e ricerche e
aveva deciso che, fino a quando uno qualsiasi genitori avesse insistito nelle
ricerche dei ragazzi, egli ebbe fatto in modo da porre a disposizione degli
intenti un’intera rete di comunicazioni. A tale scopo, si tea in contatto con
numerosi altri radioamatori del Cile, il tramite di uno di essi parlò con Pàez
Vilaró e Madelón riferì a quest’ultimo la sua conversazione con Gérard
Croiset.
La notizia secondo cui il chiaroveggente olandese aveva stabilito il
contatto psichico con l’aereo si diffuse rapidamente fra gli altri genitori.
Anche se molti di loro l’accolsero con scetticismo, specie i padri dei giovani,
venne, ciò nonostante, nominata una delegazione formata da tre di essi
affinché si presentassero al comandante in capo dell’aviazione militare
uruguayana. La delegazione chiese esplicitamente che un aereo uruguayano
venisse inviato nel Cile a cercare il Fairchild le montagne intorno a Talca, un
villaggio situato circa duecentoquaranta chilometri a sud di Santiago. A tale
richiesta opposto un rifiuto.
***
Le notizie sulla visione del giovane Croiset contribuirono molto a
risollevare il morale di Pàez Vilaró. Egli aveva sempre trovato la magia più
impressionante della scienza. Aveva inoltre sorvolato la zona ove il SAR
riteneva che il Fairchild fosse precipitato, la zona dei vulcani Tinguiririca e
Palomo e sapeva di non poter effettuare ricerche sulle montagne a
quell’altezza; ma Croiset aveva situato il luogo dell’incidente sulla pre-
cordillera, dove i monti erano assai più bassi. Una fatica d’Ercole era stata
ridotta a dimensioni che la ponevano a portata dei mortali.
Pàez Vilaró partì immediatamente per il sud e, il giorno dopo, domenica
22 ottobre, stava già sorvolando le montagne intorno a Talca con un velivolo
ottenuto dall’Aereo Club di San Fernando.
Nei giorni che seguirono, visse in una frenesia di attività, compilò un
elenco di tutti coloro che possedevano aerei privati nel Cile e chiese ai piloti
consigli che, in vari abilmente, tramutarono nell’offerta dei loro servigi. Pàez
Vilaró avrebbe potuto avere trenta aerei a sua disposizione ed esitava a
servirsene soltanto a causa della scarsità di carburante nel Cile. L’uomo che lo
avesse fatto volare sul suo aereo per un’ora sarebbe stato costretto, egli lo
sapeva, a rinunciare a servirsi dell’automobile per un mese; eppure molte
persone, sebbene personalmente persuase che i ragazzi fossero periti, fecero
questo senza chiedere alcun compenso.
Subito dopo vennero organizzati i radiodilettanti che Rafael aveva
reclutato con le sue trasmissioni da Carrasco. Molti di costoro offrirono a
Pàez Vilaró non soltanto le radiotrasmittenti, ma i loro indumenti e le loro
automobili. Ovunque egli si recasse sulle montagne, veniva seguito da una
Citroën Deux Chevaux, munita di antenne che oscillavano come quelle di una
cavalletta. L’automobile poteva, dopo soli pochi attimi di preavviso, metterlo
in contatto con Rafael a Montevideo e, per il tramite di Rafael, con chiunque
altro al mondo.
Pàez Vilaró non rimase a Talca, ma partì per parecchie spedizioni sulle
Ande, Madelón Rodríguez e la madre di Diego Storm erano arrivate a Talca, e
questo lo rese libero di attuare i propri progetti. Non si accontentò di farsi
aiutare nelle ricerche dei giovani dai ricchi cileni con i loro aerei privati; volle
far sapere a tutti i più poveri contadini, nelle valli più remote delle Ande, che
erano in corso ricerche dei superstiti. In ogni villaggio nel quale giungeva,
domandava se qualcuno avesse veduto un aereo cadere dal cielo e ascoltava i
racconti di molti episodi affascinanti ma non pertinenti. A coloro che
interrogava offriva un liquore o una tazza di caffè. Una volta prenotò quattro
camere in quattro diversi alberghi, nell’eventualità che le ricerche potessero
condurlo in una qualsiasi delle quattro direzioni. Non aveva denaro, ma i
proprietari dei ristoranti e delle locande o non volevano denaro, oppure
venivano pagati con un disegno su un piatto, su un tovagliolo o su una
tovaglia.
Egli era preceduto dalla sua fama. Ormai, quando entrava in un villaggio,
si riuniva una piccola folla e la gente gridava: «Ecco, arriva il matto che sta
cercando suo figlio!» Pàez Vilaró non se ne curava; considerava la sua
missione come un che di magico e di fantastico, un intero esercito spiegato
alla ricerca di un aereo scomparso e guidato da un veggente olandese. I
contadini lo credevano un mago perché aveva con sé la macchina fotografica
Polaroid e regalava a mini che non avevano mai veduto prima di allora una
fotografia le loro immagini.
O su aerei o a piedi, esplorò la zona situata a sessantacinque chilometri dal
corridoio aereo sopra il Planchon, ma non trovò nulla. Chiese per radio a
Rafael di telefonare ancora a volta a Croiset e di domandargli altri particolari.
Così fatto e, una notte dopo l’altra, alle due del mattino, Croiset, in pigiama,
rispose al telefono ed evocò immagini delle Ande nella propria mente.
Riuscì a dar loro altri particolari, ma gran parte di quel che vedeva
riguardava il volo dell’aereo, più che la sua posizione attuale. A varie riprese,
descrisse un uomo grasso (probabilmente il pilota) che, affetto da
avvelenamento da cibi, usciva dalla cabina e affidava i comandi al secondo
pilota. Indossava un giubbotto sportivo e giocherellava con gli occhiali. Poi
un motore dell’aereo si fermava e il secondo pilota portava il velivolo verso
una sponda, forse sul mare, forse su un lago, che ricordava per aver sorvolato
in precedenza le Ande. Riusciva a trovare un lago (o, piuttosto, un gruppo di
tre lati), e tentava l’atterraggio, ma l’apparecchio precipitava alla base di una
montagna, rimanendo nascosto da una parete di roccia strapiombante. Vicino
ad esso si trovava una montagna «senza la vetta», ed egli vedeva pericolo…
forse un cartello stradale che segnalava pericolo. Non riusciva più a scorgere
vita sull’aereo, ma forse questo significava soltanto che i ragazzi l’avevano
abbandonato per rifugiarsi nei pressi.
Ad ogni nuovo particolare, Pàez Vilaró e i suoi amici cileni ripartivano per
effettuare ricerche sulle montagne., e ormai la fiducia nella visione di Croiset
si era comunicata anche ad altri. Madelón, recatasi a Santiago, aveva persuaso
il SAR a inviare aerei sopra le montagne intorno a Talca. Il comandante
militare di Talca fece partire una pattuglia verso il Cerro Picasso (che
corrispondeva alla descrizione di una montagna senza vetta), e, per cinque
giorni, questi soldati cileni cercarono nel gelo intenso i rottami del Fairchild.
Anche alcuni sacerdoti slesiani si recarono sulle montagne e cercarono per tre
giorni tra vette inaccessibili, come una forma di «preghiera di speranza».
Non venne avvistato alcunché, e poiché i voli a bassa quota nella regione
montuosa erano pericolosissimi, il SAR sospese di nuovo le ricerche. Soltanto
elicotteri avrebbero potuto volare abbastanza in basso per vedere un aereo
seminascosto da qualche parete rocciosa, o ragazzi uruguayani rifugiatisi sotto
i pini; ma, in un periodo nel quale non si riusciva a trovare nel Cile né sapone
né sigarette, sarebbe stato praticamente impossibile ottenere elicotteri.
Per Madelón, però, questo era soltanto un ostacolo trascurabile, ed ella
decise di rivolgersi al presidente Salvador Allende in persona per essere
autorizzata a impiegare il suo elicottero privato. Prima che avesse attuato tale
proposito, però, un amico le parlò di un suo conoscente il quale noleggiava
piccoli elicotteri per irrorare disinfestanti sui raccolti o per sollevare sui piloni
i cavi dell’alta tensione e, dieci minuti dopo, si era già concordato che, non
appena quegli elicotteri fossero stati disponibili, Madelón avrebbe potuto
noleggiarli alla tariffa caritatevole di dieci dollari l’ora.
Nel frattempo, Pàez Vilaró e Rafael riconobbero, il pomeriggio del 28
ottobre, che, a parte gli elicotteri, tutto il possibile era stato fatto per accertare
se la visione di Gérard Croiset corrispondesse alla realtà.
2

Domenica, 29 ottobre, anniversario della morte del padre di Marcelo Pérez, la


vedova invitò i genitori dei ragazzi partiti con il Fairchild a riunirsi a casa sua
nel pomeriggio. Non vennero soltanto i genitori; c’erano anche fratelli, sorelle,
e novias di molti dei Vecchi Cristiani.
Il tavolo, nello spazioso soggiorno di Estela, era coperto da carte delle
Ande, con circoli e linee tracciati intorno a Talca per mostrare le zone già
esplorate da Pàez Vilaró. Su una credenza qualcuno aveva posto un
mucchietto di funghi che crescono sulla cordillera e che forse costituivano il
cibo grazie al quale sopravvivevano i ragazzi.
L’atmosfera nella stanza era cupa. Non si notava più l’ottimismo della
settimana prima, quando era stato reso noto per la prima volta ciò che Croiset
vedeva grazie alla sua chiaroveggenza. Con le loro nervose affettazioni e le
chiacchiere irreflessive, molte delle donne, e in particolare delle ragazze
cominciavano capire di essere sull’orlo dell’isterismo. Altre si limitavano a
restare sedute, stordite e chiuse nel silenzio della disperazione.
Estela dichiarò aperta la seduta. «Vi ho convocati qui», disse, «perché
sento che dobbiamo fare qualcosa. Non possiamo semplicemente restarcene
inattivi a Montevideo, in attesa che…»
«Pàez Vilaró sta cercando», giunse una voce dal gruppo genitori.
«Sì», disse Estela, «un uomo solo in tutta la cordillera.»
«Credo proprio che non si possa fare molto di più», osservò uno dei
padri.
A queste parole una ragazza replicò in tono sprezzante: «Sembra che Pàez
Vilaró sia l’unico padre di tutti quei giovani. Non c’è nessun altro a dargli man
forte…» Si interruppe un momento, poi soggiunse, in tono sferzante: «O
dovremo ere noi donne a recarci nel Cile?»
Nella stanza esplosero voci e opinioni diverse. Quando infine il silenzio
tornò, Jorge Zerbino, avvocato e uomo d’affari, si rivolse a Luis Surraco, un
medico, e disse: «Io vado Cile, Luis. Vuoi venire con me?»
Il dottor Surraco, padre della novia di Canessa, era esperta nella lettura
delle carte geografiche, e gli altri lo ascoltarono mentre egli spiegava dove i
due avrebbero potuto procedere. Il parere della maggioranza continuava ad
essere che si sarebbero dovuti attenere alle istruzioni di Croiset. Il
chiaroveggente aveva inviato alcune nuove indicazioni, e Zerbino e Surraco,
pur essendo entrambi molto dubbiosi per quanto concerneva Croiset,
sapevano benissimo entrambi come la loro spedizione non avesse tanto lo
scopo di trovare i ragazzi, quanto quello di mantenere alto il morale delle
donne a casa. Accettarono pertanto di effettuare ricerche nei dintorni di Talca.
Una volta terminata la riunione, Rafael Ponce de Léon si mise in contatto
via radio con Pàez Vilaró. «Zerbino e Surraco vengono nel Cile», disse.
«Vengono ad aiutarla.»
La voce che rispose non si adeguò al suo tono ottimistico. «Non
dovrebbero darsene la pena», disse Pàez Vilaró, avvilito. «È inutile.»
Rafael era stupefatto. Com’era possibile che, dopo tutto questo, Carlos
non volesse farli partire?
«Sei solo?» gli domandò il pittore.
«Sì», rispose Rafael.
«Non dirlo agli altri», continuò Pàez Vilaró, esprimendosi adagio e in un
tono di voce sconfortato, «ma non ci sono più speranze. Non credo più di
poterli ritrovare, i miei ragazzi. Continuo a cercarli con la croce in una mano e
il segno dello zodiaco nell’altra, eppure ormai non credo più che siano ancora
vivi.»
Seguì un silenzio, poi Rafael disse: «Torna a casa, Carlos. Tutti
capirebbero, se tu tornassi».
«No», disse Pàez Vilaró. «Madelón è persuasa che siano ancora in vita.
Non posso lasciarla precipitare nella disperazione.» Rafael lo udì singhiozzare
nel microfono.
Il giorno dopo, Rafael rivelò al dottor Zerbino e al dottor Surraco
qualcosa di questo colloquio, ma essi non si lasciarono impressionare.
Parlarono per radio con Pàez Vilaró, dicendogli che avevano già prenotato i
posti su un aereo per recarsi nel Cile, e Pàez non li mortificò. «Venite pure»,
disse con la consueta cordialità. «Vi aspetto.»
Le persone riunite intorno alla radiotrasmittente si animarono, prese
dall’agitazione. Tutti insistettero con Zerbino e Surraco per fornire loro aiuti,
consigli, denaro, carte. Il padre di Daniel Shaw e il padre di Roy Harley
istituirono un fondo per finanziare le ricerche e contributi vennero offerti
anche da quegli uomini, come Seler Parrado, sicuri che i loro figli fossero
morti. Tra i colpiti dall’incidente, Parrado era stato il più desolato. La sua
disperazione sembrava assoluta. Non soltanto aveva perduto la moglie, il cui
aiuto gli era sempre stato così prezioso, ma anche due dei suoi figli. Per tutta
la vita si era affannato a lavorare creando un’azienda, non per la propria
soddisfazione personale, ma nell’interesse della famiglia. E adesso le persone
a lui tanto care erano scomparse. L’unica figlia superstite aveva deciso di
trasferirsi in casa del padre per occuparsi di lui, ma la vita sembrava essersi
spenta negli occhi di Seler Parrado. Egli non vedeva il motivo di continuare;
non gli rimaneva più nulla per cui vivere. Con il cuore piccolo, aveva
venduto la motocicletta Suzuki di Nando a un ragazzo che era stato suo amico.
Ma sentiva ugualmente di dover contribuire al fondo.
Quella sera, la radio annunciò che, a causa di nevicate senza precedenti
sulle Ande, il SAR non avrebbe ripreso le ricerche del Fairchild in gennaio,
come era stato annunciato in precedenza, ma avrebbe aspettato fino a
febbraio. La notizia non scoraggiò Zerbino e Surraco. Avevano già le valigie
pronte e sarebbero partiti l’indomani.
Il dottor Zerbino e il dottor Surraco, ai quali si era unito Guillermo Risso,
un amico di Gastón Costemalle, si recarono aereo a Santiago il Io novembre.
Là si incontrarono con Malón e con la señora Storm, giunte da Talca e dirette
a Cordoba, in Argentina, per tentare di far venire a Santiago il chiaroveggente
giapponese. Le due donne riferirono loro quel che era accaduto a Talca e, nel
pomeriggio, Zerbino, Surraco e Risso ripartirono con un’automobile a
noleggio. La situazione politica nel Cile si era ulteriormente deteriorata e gli
avversari del governo di Allende avevano disseminato le strade che si
irradiavano da Santiago di puntine da disegno e chiodi, tentando di bloccare
tutto il traffico. Per conseguenza, l’automobile sulla quale viaggiavano i tre
uruguayani subì una serie forature che ritardarono molto il viaggio.
Páez Vilaró li aspettava in carcere. Quel mattino aveva sorvolato una
centrale elettrica e la polizia locale, innervosita, senza dubbio, dalla situazione
politica, si era messa in mente che lui e il suo compagno, un giovane
uruguaiano amico dei ragazzi, fossero spie. Furono comunque trattati
cortesemente, Pàez Vilaró poté mettersi in contatto con Ponce de Léon al
quale cercò di far capire in quale situazione critica fosse venuto a trovarsi
senza descriverla effettivamente, in quanto non voleva turbare le donne che
immaginava si pigiassero intorno alla trasmittente di Rafael. «Sono
immobilizzato qui», disse, «con una bella grata davanti a me… Si gode una
splendida veduta identica a questa da Punta Garreta…» Punta Garreta è la più
grande prigione di Montevideo.
Nel tardo pomeriggio, tuttavia, la polizia accertò che Páez Vilarò non era
l’agente di una potenza straniera, bensì «il matto che sta cercando suo figlio» e
i due uruguayani furono liberati giusto in tempo per accogliere Zerbino,
Surraco e Ris.
Pàez Vilarò condusse subito questi ultimi a fare un giro di sezione e li
meravigliò con la portata e l’efficienza della sua organizzazione. Quella sera,
essi poterono parlare con Croiset, in Olanda, grazie al ponte radio costituito
da Ponce de Léon a Montevideo, e ricevettero un’altra indicazione per le
ricerche: nel lago presso il quale l’aereo era precipitato esisteva un’isola.
Pàez Vilaró ricordò che nel corso di un volo precedente con l’elicottero
preso a nolo aveva veduto proprio un lago simile a una novantina di
chilometri da Talca. Il giorno dopo ripartì con l’elicottero e sorvolò il settore
situato a destra delle due montagne senza vetta, il Cerro Azul e il Cerro
Picasso. L’elicottero si abbassò entro canyon e burroni tra le montagne, ma i
risultati continuarono a essere negativi.
L’indomani, gli uruguayani vollero esplorare lo stesso settore, ma
l’elicottero doveva tornare a Santiago. «In ogni modo», disse loro il pilota,
«se l’aereo fosse precipitato in una zona come quella, sarebbe stato sepolto
dalla neve.» Essi, però, non si lasciarono scoraggiare: con l’aiuto del dottor
Surraco, costruirono un plastico di cartapesta della zona e si informarono per
accertare se fosse stato possibile assumere guide di montagna che
collaborassero nelle ricerche.
Quella sera, parlarono come sempre con Carrasco e vennero a sapere che
c’era stato un errore nella traduzione di uno dei messaggi di Croiset. L’aereo
sarebbe stato trovato sulla sinistra d’una montagna senza vetta, e non sulla
destra, come detto in precedenza.
Ripartirono, per conseguenza, il giorno successivo, il 3 di novembre,
assieme a due guide, verso il villaggio di Vilches, a cinquantanove chilometri
da Talca. Là si suddivisero in due gruppi e salirono sulle montagne.
I padri non erano robusti quanto i figli e non fu facile per loro salire
nell’aria gelida con zaini in spalla. Entrambi i gruppi scalarono il Cerro del
Peine, ma quando giunsero sulla vetta la visibilità era nulla. Avvolti da fitte
nubi, cominciarono a ridiscendere verso Vilches, scavalcando grossi macigni,
e aiutandosi con robusti bastoni, poiché sul ripido pendio si piegavano loro le
ginocchia.
Sulla strada del ritorno si trovava la Laguna del Alto, ed essi esplorarono
le rocce circostanti, in cerca delle tracce di un aereo. Non ve n’era alcuna.
Tornarono a Vilches il 7 novembre e, il giorno dopo, l’elicottero, di nuovo
libero, rientrò da Santiago. Nella mattinata, sorvolò il Monte Despalmado; nel
pomeriggio esplorò la zona del Quebrada del Toro, ove si diceva che un
contadino avesse udito lo schianto di un aereo precipitato al suolo. Gli
uruguayani aspettarono a Vilches i risultati di queste ricerche; furono tutti
negativi.
Il 9 novembre il gruppo tornò a Talca e il 10 a Santiago. I risultati vennero
riferiti al SAR e le autorità confermarono che le ricerche ufficiali non
sarebbero state riprese fino al disgelo, «forse alla fine di gennaio, o ai primi di
febbraio», ma soltanto nel settore del vulcano Tinguiririca.
Quello stesso giorno, a Montevideo, pervenne la notizia che Croiset aveva
disegnato schizzi della zona dell’incidente e registrato su nastro una
descrizione più particolareggiata di quelle fatte per telefono. Il plico
contenente schizzi e nastro magnetico sarebbe arrivato a mezzogiorno
dell’indomani con l’aereo della KLM.
Qualche tempo prima dell’arrivo, un gruppo di parenti dei giovani si riunì
all’aeroporto di Carrasco per aspettarvi questo plico importante. C’era un volo
in partenza per Santiago, nel pomeriggio, ed essi volevano far copiare gli
schizzi di Croiset e far trascrivere la registrazione su nastro prima di inviare gli
originali a Pàez Vilaró, a Zerbino e a Surraco approfittando di quel volo
pomeridiano.
Si trovavano con loro all’aeroporto il console d’Olanda e il padre di un
Vecchio Cristiano, Bobby Jaugust, che era altresì rappresentante della KLM
nell’Uruguay. Aver condotto là questi due uomini risultò essere una savia
precauzione, in quanto il plico di Croiset non era stato spedito a parte, ma si
trovava nei due sacchi postali della corrispondenza proveniente dall’Europa.
Fu concessa loro l’autorizzazione di aprire i sacchi e in ultimo il plico venne
trovato. Lo aprirono subito; un gruppo si mise al lavoro per copiare gli
schizzi, e un altro per trascrivere la registrazione su nastro.
Ciò fatto, il nastro originale e gli schizzi furono spediti con il volo della
SAS per Santiago. Quindi ci si mise in contatto via radio con Pàez Vilaró e gli
vennero riferite le conclusioni cui si era pervenuti: tutto, nei disegni e nel
messaggio, faceva pensare alla Laguna del Alto, sulla pre-cordillera, nelle
vicinanze di Talca.
***
I tre uomini a Santiago erano meno persuasi. Dopo aver cercato per giorni
e giorni sulla pre-cordillera, potevano valutare meglio il valore del plico di
Croiset, e gran parte di quanto egli diceva sembrava non avere alcun
riferimento con quanto essi avevano veduto.
Secondo Croiset, l’incidente era avvenuto in prossimità di una sponda, o
del mare, o di un lago. Nelle vicinanze immediate si trovava la capanna di un
pastore e, appena poco più oltre, un villaggio dalle case bianche, in stile
messicano, nei cui pressi si era svolta una battaglia nel 1876. Croiset vedeva
lettere e cifre sull’aereo: una «N», una «Y», e il numero 3002. Gli era venuto
in mente anche il numero 1036; questo significava forse che l’aereo si era
trovato a milletrentasei metri d’altezza sul livello del mare.
Il muso del velivolo era schiacciato; l’aereo sembrava essersi posato
mollemente come un insetto, ma aveva perduto entrambe le ali. Croiset
vedeva la fusoliera separata dal resto del velivolo, ma non riusciva a
distinguere le sigle, forse perché c’era troppo poca luce sotto la sporgenza
rocciosa ove l’aereo era precipitato. Né egli vedeva alcun segno di vita sul
velivolo; nessuno guardava fuori dei finestrini.
Quanto agli schizzi, si trattava di disegni rudimentali. C’era anche un
triangolo che indicava distanze specifiche, ma non esisteva un solo punto sul
quale si potesse fare un rilevamento. In complesso, si trattava di un miscuglio
di magia e di dati tecnici che Surraco, quanto a lui, non riuscì a digerire. «È
tutto assolutamente privo di basi scientifiche», disse. «Stiamo dando la caccia
al nulla. Se dobbiamo cercare in qualche luogo, le ricerche vanno effettuate
intorno al vulcano Tinguiririca. Là dovrebbe trovarsi l’aereo, in base ai dati a
noi noti.» Zerbino si dichiarò d’accordo con lui. Riteneva inutile tornare a
Talca, e poiché non disponevano dei mezzi per effettuare ricerche sulle
montagne più alte intorno a Tinguiririca, decise di tornare a Montevideo il
giorno dopo e prenotò i posti per sé e per Surraco.
Pàez Vilaró continuò a temporeggiare. Anch’egli, senz’altro, nutriva dubbi
su Croiset, ma non poteva indursi a deludere Madelón e le altre madri che
ancora credevano in lui. Disse pertanto a Zerbino e a Surraco che sarebbe
rimasto nel Cile ancora per un giorno o due e, non appena essi furono ripartiti
per l’Uruguay, tornò a Talca. Di là si recò ancora una volta alla Laguna del
Alto, ma non trovò nulla.
Qualche tempo prima che i giovani partissero per il Cile, egli si era
impegnato a recarsi nel Brasile a metà novembre; si avvicinava ormai il giorno
in cui lo aspettavano a San Paulo, e pertanto si preparò ad andarsene. Aveva
dedicato più di un mese alle ricerche dell’aereo, e anche adesso prese accordi
affinché altri le continuassero durante la sua assenza. Aveva fatto stampare
parecchie migliaia di volantini che offrivano a nome dei genitori una
ricompensa di trecentomila escudos a chiunque fornisse informazioni tali da
condurre al ritrovamento del Fairchild. Preparò inoltre il terreno per Estela
Pérez, che doveva sostituirlo a Talca, e, prima di partire, diede un po’ di
denaro agli scolari di Talca per consentir loro di formare una squadra di rugby
la quale avrebbe preso il nome di «Vecchi Cristiani».
Il 16 novembre, Pàez Vilaró tornò a Montevideo.
Parte Quinta
1

Il diciassettesimo giorno, 29 ottobre, trascorse molto bene per i superstiti nel


Fairchild. Continuavano a soffrire il freddo, a essere bagnati, sudici, affamati,
e alcuni di loro soffrivano molto, ma in quegli ultimi giorni una certa misura
di ordine sembrava aver avuto la meglio sul caos. I diversi gruppi assegnati al
taglio della carne, alla cucina, allo scioglimento della neve e alle pulizie nella
cabina passeggeri lavoravano a dovere, e i feriti dormivano un po’ più
comodamente sui giacigli sospesi. Inoltre, e questo era ancor più importante, i
giovani avevano cominciato a scegliere i più sani tra loro quali potenziali
componenti di una spedizione che avrebbe sconfitto le Ande e sarebbe andata
in cerca di aiuti. Il loro stato d’animo era ottimistico.
Mangiarono a mezzogiorno; alle quattro e mezzo del pomeriggio il sole
scomparve dietro la montagna a ovest, e seguito cominciò a fare un freddo
intenso. Entrarono, a gruppi di due, nella fusoliera del velivolo, rispettando
l’ordine con il quale avrebbero dormito; Juan Carlos Menéndez, Pancho
Delgado, Roque, il meccanico, e Numa Turcatti entrarono per ultimi, in
quanto spettava a loro dormire accanto al’uscita.
Ogni giovane, entrando, si toglieva le scarpe e le metteva su un apposito
tratto della reticella per i cappelli, sul lato destro della fusoliera. Avevano
deciso proprio quel giorno di attenersi a tale regola per impedire che cuscini e
coperte si bagnassero. Poi le coppie strisciavano lungo la fusoliera fino al
posto loro assegnato.
Sebbene fosse appena la metà del pomeriggio, alcuni dei ragazzi chiusero
gli occhi e cercarono di dormire. Vizintìn aveva dormito male la notte prima,
ed era deciso a stare il più comodo e il più caldo possibile. Gli avevano
consentito di tenere le scarpe perché dormiva esposto al freddo sul giaciglio
sospeso. Fuori imperversava un forte vento che spingeva aria gelida
attraverso ogni foro e ogni screpolatura della fusoliera. Egli era riuscito a
impadronirsi di un gran numero di cuscini e di coperte (le fodere dei cuscini
cucite insieme), e se ne servì per imbottirsi il corpo e coprirsi completamente,
compresa la testa.
Carlitos Pàez stava recitando il rosario a voce alta, e alcuni dei giovani
parlavano sommessamente tra loro. Gustavo Nicolich confidò a Roy Harley di
sperare che, se fosse morto, qualcuno avrebbe consegnato la lettera da lui
scritta alla sua novia. «E se moriremo tutti», disse, «potrebbero trovare l’aereo
e consegnarle ugualmente la lettera. Mi manca tanto e sento un gran rimorso
perché non sono stato molto gentile con lei e con sua madre.» Seguì un
silenzio; poi egli soggiunse: «Ci sono tante cose di cui pentirsi… Spero che
potrò aver modo di rimediare».
La luce, già fioca, lo divenne ancor più; alcuni scivolarono in un
dormiveglia, il loro respiro assunse un ritmo più regolare, invitando così
anche gli altri al sonno. Canessa rimase desto e cercò di mettersi in
comunicazione telepaticamente con sua madre a Montevideo. Evocò nella
mente una nitida immagine di lei e ripeté più e più volte con enfatici bisbigli,
non percettibili agli altri: «Mamma, sono vivo, sono vivo, sono vivo, sono
vivo…» In ultimo, anch’egli si appisolò.
L’aereo era adesso silenzioso, ma Diego Storm non riusciva a dormire a
causa di una piaga dolorosa alla schiena. Giaceva sul pavimento, tra Javier
Methol e Carlitos Pàez, e, quanto più soffriva in quella posizione, tanto più si
persuadeva che si sarebbe trovato meglio al lato opposto della fusoliera.
Guardò gli altri dinanzi a sé e vide che Roy Harley era ancora sveglio; gli
domandò allora se fosse disposto a cambiare giaciglio. Roy accettò. Si
districarono entrambi dal loro posto e strisciarono l’uno accanto all’altro.
Roy si era allungato da poco sul pavimento, la faccia coperta da una
camicia, e stava ripensando alle parole pronunciate da Nicolich, quando sentì
una lieve vibrazione e, un attimo dopo, udì come uno schianto di metalli che
stessero cadendo. Questo suono lo indusse a balzare in piedi, ma in quel
momento fu coperto dalla neve. Venne a trovarsi in piedi, affondato nella
neve fino alla vita e, quando si tolse la camicia dagli occhi, quello che vide lo
atterrì. La fusoliera era quasi completamente piena di neve. Una valanga aveva
travolto e sepolto la parete protettiva all’ingresso e non si vedevano più né i
cuscini, né le coperte, né i corpi addormentati distesi sul pavimento.
Fulmineamente, Roy si voltò propria destra e scavò nella neve per
disseppellire Carlitos, che dormiva lì. Gli scoprì la faccia, poi il torace, ma
Carlitos non riusciva ancora a liberarsi. Si udì uno scricchiolio, mentre la
neve si assestava, e, nel gelo intenso, la sua superficie cominciò
immediatamente a tramutarsi in fragile ghiaccio.
Roy lasciò Carlitos perché vide le mani di altri giovani sporgere dalla
neve. Si sentiva in preda alla disperazione; lui solo sembrava essere in grado
di aiutarli. Scoprì Canessa, poi si portò nella parte anteriore della fusoliera e
disseppellì Fito Strauch, ma i minuti stavano passando e molti ragazzi
rimanevano sepolti. In alto, da uno dei letti sospesi, Vizintìn aveva cominciato
a scavare nella neve, ma Echavarren non poteva muoversi e Nogueira,
sebbene libero, sembrava essere stato paralizzato dallo choc.
Roy strisciò freneticamente fino all’ingresso e riuscì a uscire insinuandosi
attraverso il piccolo varco rimasto, pensando forse di poter sbadilare la neve
nel punto dal quale era entrata, ma subito si rese conto che questo sarebbe
stato impossibile e pertanto tornò a strisciare dentro la cabina». Là vide che
Fito Strauch, Canessa, Pàez e Moncho Sabella erano liberi e stavano
scavando.
***
Fito Strauch stava conversando con Coche Inciarte quando la valanga
piombò loro addosso. Si rese conto immediatamente di quello che era
accaduto e lottò contro la presa della e, ma non riusciva a muovere nemmeno
di un centimetro in senso o nell’altro una sola parte del suo corpo. Si rilassò e
pensò, rassegnato, che stava per morire; anche se avesse potuto cavarsela,
forse sarebbe stato il solo a riuscirvi, e in tal caso era preferibile morire
anziché sopravvivere nella solitudine, isolato sulle Ande. Poi udì voci e Roy
Harley gli afferrò la mano. Mentre Roy scavava la neve nella direzione della
sua faccia, Fito disse al cugino Eduardo, attraverso un foro rimasto tra loro
nella neve, di star calmo, di respirare adagio e di chiamare Marcelo. Subito
dopo sentì un dolore acuto all’alluce e si rese conto che Inciarte lo aveva
morso. Anche lui era vivo.
Fito venne liberato. Eduardo strisciò fuori dallo stesso foro, e Inciarte,
dopo avere scavato una breve galleria, emerse dalla neve seguito da Daniel
Fernández e Bobby François. Immediatamente, cominciarono tutti a scavare
con le nude mani nella neve compressa e il primo che disseppellirono fu
Marcelo. Quando arrivarono alla faccia di lui, però, videro che era già morto.
Filo, a questo punto, lavorò con tutte le sue forze per disseppellire i vivi.
Organizzò anche gli altri, i quali, in taluni casi, erano talmente storditi da non
rendersi conto di quello che stavano facendo. Anche quando la ferita lo
costrinse a riposarsi, continuò a esortare i vari gruppi affinché coloro che
stavano scavando non gettassero la neve nelle buche scavate dagli altri.
Parrado era disteso al centro della fusoliera, con Liliana Methol alla
propria sinistra e Daniel Maspons alla propria destra. Non udì e non vide
nulla, ma a un tratto si accorse di essere soffocato e paralizzato da neve
pesante e gelida. Non riusciva a respirare, ma aveva letto nella rivista
Selezione che si poteva vivere sotto la neve e pertanto cercò di trarre brevi
inspirazioni. Continuò a regolarsi in questo modo per parecchi minuti, ma il
peso sul suo petto divenne più tremendo, fu preso da capogiri e si rese conto
che stava per morire. Non pensò a Dio, né alla propria famiglia, ma si limitò a
dire a se stesso: «Okay, sto morendo». Poi, proprio mentre i polmoni stavano
per scoppiargli, la neve gli venne raschiata via dalla faccia.
***
Coche Inciarte aveva veduto la valanga e subito dopo l’aveva udita, un
fruscio sibilante seguito dal silenzio. Giaceva immobilizzato con un metro di
neve sopra di sé e l’alluce di Fito sulla faccia. Lo morse. Era il solo modo per
accertare se Fito vivesse ancora e per dirgli che lui viveva. L’alluce si mosse.
La neve si assestò sopra di lui e il peso lo fece urinare. Non riusciva a
respirare né a muoversi. Aspettò e poi sentì che l’alluce gli veniva trascinato
via dalla faccia. Si dibatté per vincere il peso della neve e infine riuscì a
sgusciar fuori passando per la stessa galleria.
***
Carlitos Pàez era stato disseppellito fino alla vita da Roy non riuscì ancora
a muoversi fino a quando Fito, una volta irato, non gli ebbe tolto via la neve
da intorno alle gambe, mediatamente cominciò a cercare i suoi amici Nicolich
e Storm, ma la neve gli gelò le mani mentre scavava. Se le riscaldò,
rapidamente, con l’accendino e continuò a scavare, quando trovò Nicolich e
gli afferrò la mano, la sentì fredda e senza vita, né essa ricambiò la sua stretta.
Non c’era tempo per piangere. Carlitos scavò via subito la neve dalla
faccia di Zerbino, poi liberò Parrado. Quindi si voltò e scavò nella direzione
di Diego Storm, ma la neve che raschiava via cadeva addosso a Parrado, il
quale imprecò contro di lui. Scavò con maggior cautela, e comunque tutto
risultò inutile: Diego, quando fu riuscito a disseppellirlo, era morto.
***
Per Canessa, la valanga fu qualcosa di simile al lampo al magnesio di una
vecchia macchina fotografica. Anch’egli venne seppellito, si trovò
prigioniero, cominciò a soffocare e, come Parrado, si sentì pervaso non tanto
dal panico quanto dalla curiosità. «Bene», pensò, «sono arrivato fino a questo
momento, e ora saprò che cosa significa morire. Per lo meno, potrò avere
un’esperienza diretta di tutte quelle idee astratte me Dio e il purgatorio, il
paradiso o l’inferno. Mi sono sempre domandato come sarebbe finita la storia
della mia vita; bene, ora sono arrivato all’ultimo capitolo.» Eppure, proprio
mentre il libro stava per essere chiuso, una mano lo toccò; l’afferrò e Roy
Harley affondò un’asta metallica nella neve per portargli aria nei polmoni.
Non appena fu in grado di muoversi, Canessa cercò Daniel Maspons.
Trovò il suo amico disteso come se dormisse, ma era morto.
***
La neve che copriva Zerbino aveva lasciato libera una piccola cavità e a lui
fu così possibile respirare per qualche minuto. Al pari di Canessa e di
Parrado, non pregò Dio e non si pentì dei propri peccati, ma, sebbene la
mente gli fosse rimasta serena, il suo corpo non era rassegnato alla morte. Nel
momento in cui la valanga era piombata su di loro, aveva alzato un braccio e i
suoi divincolamenti aprirono una crepa nella neve accanto ad esso; giù per
quello spiraglio l’aria gli arrivò ai polmoni.
Sopra di sé udì la voce brusca di Carlitos Pàez urlare: «Sei tu, Gustavo?»
«Sì!» urlò Zerbino.
«Gustavo Nicolich?»
«No. Gustavo Zerbino.» Carlitos proseguì.
Più tardi, un’altra voce gli gridò: «Stai bene?»
Zerbino gridò: «Sì, sono okay. Salvate qualcun altro». Aspettò poi, in
quella tomba, finché gli altri non trovarono il tempo di disseppellirlo.
***
Roque e Menéndez erano stati uccisi dalla caduta della parete protettiva,
ma parte di quella parete salvò la vita ad altri due giovani che dormivano
accanto ad essa. Numa Turcatti e Pancho Delgado erano intrappolati sotto la
porta curva, l’uscita di emergenza dell’aereo incorporata nella parete
protettiva, ma essa conservò sotto la propria superficie concava aria a
sufficienza per consentir loro di respirare. Riuscirono a sopravvivere in
questo modo per cinque o sei minuti. Gridarono, comunque, e Inciarte si
avvicinò assieme a Zerbino per salvarli. La neve, lì all’estremità dell’aereo, era
molto profonda e Inciarte invitò Arturo Nogueira, che li stava osservando
dalla sua cuccetta, ad aiutarli a scavare. Nogueira non si mosse e disse niente.
Rimase sul suo giaciglio come se fosse stato trance.
***
Pedro Algorta, ancora seppellito sotto la neve, disponeva soltanto dell’aria
che gli restava nei polmoni. Si sentiva vicino alla morte, eppure la
consapevolezza che dopo la fine il suo do avrebbe aiutato gli altri a
sopravvivere gli fece provare sorta di estasi: era come se si fosse già trovato
sulle porte paradiso. Poi la neve gli venne raschiata via dalla faccia.
***
Javier Methol era riuscito a fare sporgere la mano dalla neve, ma, mentre
gli altri si sforzavano di liberarlo, si limitò ad urlare ai ragazzi di scavare
invece nella direzione di Liliana. Poteva toccare sua moglie con i piedi e
temeva che ella potesse soffocare, ma non era in grado di aiutarla in alcun
modo. «Liliana!» urlò. «Fa uno sforzo! Resisti. Vengo da te!» Sapeva che ella
avrebbe potuto vivere per un minuto o due senz’aria, ma il peso dei ragazzi
che scavavano tutto intorno a lei stava pigiando sopra la neve. Inoltre, l’istinto
li induceva ad aiutare anzitutto i loro amici, poi coloro dei quali potevano
vedere le mani sporgere attraverso la neve. Inevitabilmente lasciavano per
ultimi quelli come Javier, che erano in grado di respirare, e quelli come
Liliana, che restavano del tutto invisibili.
Javier continuò a urlare rivolto alla moglie, implorandola resistere, di aver
fede, di respirare adagio. Infine venne fiato da Zerbino e insieme scavarono la
neve in cerca di Lila. Quando la trovarono, ella era morta. Javier si afflosciò
la neve piangendo, sopraffatto dal dolore. Il solo conforto venne dalla
persuasione che la donna dalla quale gli era stato prodigato tanto affetto e
tanto sollievo sulla terra doveva si proteggerlo dal paradiso.
Javier non fu il solo ad addolorarsi, poiché quando i vivi accalcarono gli
uni contro gli altri nel poco spazio rimasto loro tra il soffitto della fusoliera e
il gelido pavimento di neve, poterono constatare come alcuni dei loro più cari
amici giacessero sepolti là sotto. Marcelo Pérez era morto; erano morti inoltre
Carlos Roque e Juan Carlos Menéndez, schiacciati sotto la parete protettiva;
Enrique Platero, la cui ferita al ventre era finalmente guarita; Gustavo
Nicolich, il cui coraggio, dopo il notiziario udito alla radio, li aveva salvati
dalla disperazione; Daniel Maspons, il più intimo amico di Canessa; e Diego
Storm, uno della «banda». In otto erano periti sotto la neve.
La situazione cui si trovavano di fronte i diciannove superstiti non era così
terribile da impedir loro di soffrire amaramente per la morte dei loro amici.
Alcuni si rammaricarono di non essere stati anch’essi soffocati dalla neve
piuttosto che continuare ad affrontare simili sofferenze materiali e spirituali
senza i loro compagni. Questo desiderio venne quasi esaudito, poiché una
seconda valanga investì il Fairchild un’ora circa dopo la prima, ma, essendo
l’ingresso già bloccato, quasi tutta la neve passò sopra la fusoliera. La valanga
chiuse però, così, l’unico varco attraverso il quale era uscito e poi rientrato
Roy Harley. Il Fairchild era completamente sepolto.
Quando la notte discese, i superstiti erano bagnati, pigiati, gelati, senza
cuscini, né scarpe, né coperte con cui difendersi dal freddo. Quasi mancava lo
spazio per restare seduti o in piedi; potevano soltanto giacere tutti
ammucchiati, vibrandosi pugni e massaggiandosi a vicenda per mantenere la
circolazione del sangue nelle vene, ma senza sapere a chi appartenessero
quelle braccia e quelle gambe. Per poter usufruire di un po’ più di spazio,
parte della neve al centro della cabina passeggeri venne sgombrata e gettata a
entrambe le estremità. Assieme ai cugini Strauch e a Parrado, Roy scavò un
foro nel quale quattro persone potevano restare sedute e una in piedi. Quella
cui toccava il turno di restare in piedi saltellava sulle estremità dei compagni
seduti per cercare di impedirne il congelamento.
La notte parve interminabile. Soltanto Carlitos riuscì a dormire e per brevi
periodi appena; gli altri rimasero desti agitando le dita delle mani e dei piedi e
massaggiandosi la faccia e le mani per mantenerle calde. Dopo parecchie ore,
si presentò un nuovo pericolo: la poca aria rimasta entro la fusoliera divenne
irrespirabile e soffocante. Alcuni dei giovani cominciarono a sentirsi svenire a
causa della mancanza di ossigeno. Roy si portò all’ingresso e cercò di scavare
una presa d’aria, ma non riuscì ad arrivare con il braccio alla superficie della
neve e, in ogni caso, la neve lassù si era trasforma in ghiaccio troppo duro per
poter essere penetrato dalle de mani. Parrado prese allora una delle aste di
acciaio che erano state utilizzate per costruire le amache e perforò con sa il
soffitto della fusoliera. Lavorò alla luce di cinque accendini mentre i ragazzi
intorno a lui osservavano ansiosi, quanto non sapevano se la neve dalla quale
erano coperti fosse alta trenta centimetri o tre metri. Ma, una volta forato
soffitto e dopo avere spinto in su l’asta, Parrado la sentì ben presto emergere
non ostacolata nell’aria pura; e quando tirò indietro nella cabina, essa lasciò
un foro attraverso il quale lui riuscì a intravedere la luminosità fioca della luna
delle stelle.
Attraverso questo foro osservarono il sopraggiungere deliba; e infine le
tenebre bagnate all’interno dell’aereo cedettero il posto a una luce scialba e
lugubre mentre il sole si alzava a oriente e i suoi raggi filtravano attraverso la
neve. Non appena riuscirono a vedere quello che stavano facendo, i giovani
studiarono il modo di uscire dalla loro tomba. C’era troppa neve a monte
perché si riuscisse a passare dalla parte della coda, ma lo strato nevoso
sembrava essere più sottile sopra la cabina di pilotaggio e si vedeva luce
filtrare attraverso finestrino. Canessa, Sabella, Inciarte, Fito Strauch, Harley
Parrado cominciarono ad aprirsi un varco attraverso la cabina di pilotaggio;
era piena di neve gelata che essi dovevano rimuovere con le nude mani, e
pertanto i sei lavorarono a turno. Poi Zerbino, che indossava vestiti pesanti e
riusciva a sopportare il freddo meglio di alcuni degli altri, si insinuò oltre i
cadaveri dei piloti e arrivò al finestrino che, a causa dell’inclinazione della
fusoliera, dava verso il cielo. Cercò di aprirlo, ma la neve ammucchiata su di
esso era troppo pesante, e allora ridiscese. Ci provò poi Canessa, ma anch’egli
fallì. Toccò allora a Roy, che finalmente spinse fuori il vetro ed emerse,
attraverso la neve, fino alla luce del giorno.
Cacciò la testa al di sopra della superficie. Erano circa le otto del mattino,
ma faceva più buio del solito, essendo il cielo coperto. Nuvole di neve gli
turbinarono attorno. Era ben protetto, con un berretto di lana e una giacca a
vento impermeabile, ma le violente raffiche gli riempirono gli occhi di neve e
gli trafissero la pelle della faccia e delle mani.
Tornò a calarsi nella cabina di pilotaggio e urlò agli altri: «È inutile! Là
fuori sta infuriando una tormenta».
«Prova a scoprire i finestrini», gridò qualcuno.
Roy si risollevò e questa volta uscì completamente dall’aereo, ma la
fusoliera dietro la cabina di pilotaggio era completamente coperta. Sarebbe
stato impossibile stabilire dove si trovassero i finestrini ed egli temeva,
qualora si fosse mosso, di poter scivolare giù dal tetto, affondando nella neve
e perdendovisi. Rientrò attraverso il finestrino e raggiunse i compagni.
La tormenta continuò per tutto il giorno e i fiocchi si insinuarono nella
fusoliera passando accanto ai cadaveri dei piloti, ancora schiacciati sui sedili.
Lo strato sottile che si formò venne raccolto da alcuni dei giovani per placare
la sete; gli altri spezzarono grumi più duri della neve precedente.
Era il 30 ottobre e il venticinquesimo compleanno di Numa Turcatti. I
ragazzi gli diedero una sigaretta in più e prepararono una torta di compleanno
con la neve. Numa non era né un Vecchio Cristiano né un giocatore di rugby
(era stato educato dai Gesuiti e preferiva il gioco del calcio), ma il suo corpo
tarchiato racchiudeva una gran forza ed egli riusciva sempre a mantenere la
calma. Molti avrebbero voluto essere più divertenti con Numa il giorno del
suo compleanno, e invece fu lui a tenerli allegri e su di morale. «Abbiamo
superato il peggio», disse. «D’ora in poi la situazione potrà soltanto
migliorare.»
Quel giorno non fecero niente, tranne succhiare la neve e aspettare che la
tormenta cessasse. Parlarono a lungo della valanga. Taluni, come Inciarte,
ritenevano che i migliori di loro fossero morti perché Dio li amava di più, ma
gli altri non riuscivano a capire questo ragionamento. Parrado espresse la sua
decisione di andarsene. «Non appena avrà smesso di nevicare», disse, «me ne
andrò. Se continueremo ad aspettare qui, una nuova valanga ci ucciderà tutti.»
«Non credo», osservò Fito, giudizioso. «La fusoliera è ormai coperta. La
seconda valanga ci è passata sopra. Per conseguenza, momentaneamente
siamo al sicuro. Se partiamo subito, è probabile che una valanga ci travolga
mentre camminiamo sulla neve.»
Ascoltarono Fito con rispetto perché egli era rimasto calmo subito dopo la
valanga e anche adesso non tradiva in alcun modo l’isterismo così evidente in
taluni degli altri.
«Non c’è motivo per cui non dovremmo aspettare che il tempo migliori»,
continuò lui.
«Ma per quanto tempo?» domandò Vizintìn, un altro che voleva andarsene
subito..
«A Santiago, ricordo», disse Algorta, «un autista di taxi mi spiegò che le
nevicate cessano e l’estate comincia il 15 di novembre.»
«Il 15 di novembre», disse Fito. «Mancano poco più di due settimane. Vale
la pena di aspettare una quindicina di giorni se questo aumenta le probabilità
di farcela.» Nessuno ebbe niente da obiettare al riguardo.
«E press’a poco in quel periodo», egli soggiunse, «dovrebbe esserci la
luna piena. Questo significa che si potrebbe camminare durante la notte
quando la neve è più dura, dormire durante il giorno, quando fa più caldo.»
***
Quel giorno non mangiarono nulla, e quella notte, mentre si pigiavano
tutti gli uni contro gli altri cercando di dormire, fecero coro a Carlitos allorché
recitò il rosario. L’indomani, 31 ottobre, era il suo diciannovesimo
compleanno. Il regalo che avrebbe gradito di più, dopo una torta alla crema o
un frappé di latte alla fragola, sarebbe stato un miglioramento del tempo, ma
quando si arrampicò su per il budello scavato nella neve fino al finestrino
aperto, la mattina dopo, vide che stava nevicando altrettanto fittamente. Tornò
indietro e fece una previsione: «Avremo tre giorni di maltempo, e poi tre
giorni di sole».
Il freddo intenso si alleò con i loro indumenti bagnati per privarli delle
forze. Da due giorni non mangiavano nulla e adesso erano tormentati da una
fame enorme. I cadaveri di coloro che erano rimasti uccisi al momento
dell’incidente rimanevano sepolti nella neve fuori della fusoliera, e pertanto i
cugini scoprirono una delle vittime soffocate dalla valanga e tagliarono carne
dal corpo sotto gli occhi di tutti. In precedenza, la carne era stata cotta, o per
lo meno seccata al sole; ora invece non restava altro da fare che mangiarla
sanguinosa e cruda, così come si staccava dalle ossa, e siccome erano tanto
affamati, molti ne divorarono pezzi più grossi del solito e furono costretti a
masticarli e ad assaporarli. Fu spaventoso per tutti loro; e a taluni, invero,
riuscì impossibile inghiottire pezzi di carne ricavati dal corpo di un amico che
appena due giorni prima aveva vissuto con essi.
Roberto Canessa e Fito Strauch ragionarono per persuaderli; Fito costrinse
addirittura Eduardo a mangiare la carne. «Devi mangiarla, altrimenti morirai.
E noi abbiamo bisogno di te vivo.» Ma nessun ragionamento, né alcuna
esortazione riuscirono a sormontare la ripugnanza fisica in Eduardo Strauch,
Inciarte e Turcatti, per cui le loro condizioni fisiche peggiorarono.
Il 1° novembre, giorno d’Ognissanti, era il compleanno di Pancho
Delgado. Come Carlitos aveva previsto, smise di nevicare e sei dei giovani
salirono sul tetto della fusoliera per riscaldarsi al sole. Canessa e Zerbino
sgombrarono la neve dai finestrini per fare entrare più luce nella cabina
passeggeri. Fito, Eduardo Strauch e Daniel Femàndez sciolsero neve per
ricavarne acqua potabile, mentre Carlitos fumava una sigaretta e pensava alla
propria famiglia, perché era anche il compleanno di suo padre e di sua sorella.
Era certo, ormai, che li avrebbe riveduti. Se Dio lo aveva salvato sia
dall’incidente, sia dalla valanga, ciò poteva essere accaduto soltanto perché
voleva che tornasse in seno alla sua famiglia. La vicinanza di Dio, più sentita
in quel paesaggio immenso e silenzioso, rinsaldava il suo convincimento.
Quando il sole scomparve dietro una nube, ricominciò a far freddo, e i sei
rientrarono nel Fairchild. Non potevano fare altro che aspettare.
2

Nei giorni successivi, il tempo rimase sul bello. Non vi fu furono abbondanti
nevicate e i più forti e i più energici tra diciannove superstiti poterono scavare
una seconda galleria per uscire dalla parte di coda della fusoliera. Servendosi
di badili costruiti con pezzi di lamiera o di plastica staccati dalla carcassa
dell’aereo, spezzarono la neve indurita, recuperando oggetti andati perduti
nella valanga. Pàez, ad esempio, trovò le sue scarpe da rugby.
Una volta scavata la galleria, poterono accingersi a togliere dalla cabina
passeggeri sia la neve, sia i cadaveri sepolti sotto ad essa. La neve sembrava
roccia e i loro attrezzi erano inadeguati. I cadaveri, irrigiditi nell’ultimo gesto
di difesa, taluni con le braccia alzate a proteggersi il volto come le vittime del
Vesuvio a Pompei, non erano facili a rimuoversi. Alcuni dei giovani non
riuscivano a indursi a toccare i morti, e in particolare le salme dei loro più
intimi amici, perciò legarono una delle lunghe cinghie di nylon intorno alle
spalle dei cadaveri e li trascinarono fuori.
Quelli seppelliti accanto all’ingresso furono lasciati dove si trovavano,
racchiusi nel muro di ghiaccio che proteggeva i vivi da eventuali altre
valanghe. I ragazzi accantonarono una riserva di cibo, nel caso che un’altra
valanga o una violenta tormenta avessero coperto e nascosto i cadaveri
appena trascinati fuori, poiché le vittime della caduta dell’aereo erano ormai
completamente perdute sotto la neve. Per lo stesso motivo, quando i superstiti
rientravano, la sera, lasciavano braccio o una gamba, o parte di un torace,
nella «veranda», se per caso le condizioni meteorologiche del giorno dopo
avessero impedito loro di uscire.
Occorsero otto giorni per rendere più o meno abitabile la fusoliera, ma a
entrambi i lati rimaneva una parete di neve, e lo spazio nel quale dovevano
vivere era più angusto di ma, pur tenendo conto del loro numero ridotto.
Molti evocavano con blanda nostalgia i bei tempi prima della valanga:
«Credevamo di essere sistemati male, allora, ma quali lussi e quali comodità
in confronto a questo!» La valanga aveva reso possibile un unico vantaggio:
gli indumenti in più che potevano essere tolti ai morti. Ritenendo che Dio
avrebbe li aiutati se essi stessi si fossero aiutati, i superstiti non soltanto si
dedicarono ai compiti che potevano rendere più sopportabile la loro vita
immediata, ma progettarono e prepararono la loro fuga ultima.
***
Prima della valanga, avevano deciso che un gruppo dei più robusti tra loro
si sarebbe dovuto dirigere verso il Cile. A tutta prima vi erano stati dissensi
fra coloro i quali ritenevano che un gruppo più numeroso avesse maggiori
probabilità di cavarsela e quelli persuasi invece che sarebbe stato opportuno
concentrare le loro risorse in un gruppo di sole tre o quattro persone. Quando
apparve chiaro, nelle giornate successive alla caduta dell’aereo, e in
particolare nei giorni tempestosi dopo la valanga, che le difficoltà incontrate
da qualsiasi spedizione sarebbero state enormi, il ragionamento dei sostenitori
della seconda tesi prevalse. Quattro o cinque soltanto di loro sarebbero stati
prescelti; avrebbero avuto razioni di carne più abbondanti, i posti migliori in
cui dormire, e sarebbero stati esentati dai compiti quotidiani del taglio della
carne e dello sgombero della neve, in modo che, quando fosse cominciata
infine l’estate e la neve avesse cominciato a sciogliersi, verso la fine di
novembre, si sentissero più forti, più sani, e in grado di affrontare la marcia
fino al Cile.
Il primo fattore da prendere in considerazione, nella scelta di questi
componenti del gruppo, consisteva nelle loro condizioni fisiche. Alcuni di
coloro rimasti illesi nell’incidente avevano sofferto in seguito. Gli occhi di
Zerbino non si erano ripresi del tutto dopo la scalata. Inciarte aveva foruncoli
dolorosi su una gamba. Sabella e Fernández stavano abbastanza bene, ma,
non essendo giocatori di rugby, erano meno forti e resistenti di quelli della
prima squadra o dei Vecchi Cristiani. Eduardo Strauch, robusto all’inizio, era
stato indebolito dalla ripugnanza che aveva provato nel nutrirsi con carne
umana subito dopo la valanga. La scelta dovette pertanto essere limitata a
Parrado, Canessa, Harley, Páez, Turcatti, Vizintín e Fito Strauch. Alcuni di
loro erano candidati più entusiasti degli altri. Parrado era talmente deciso a
tentate che, se non fosse stato prescelto, se ne sarebbe anche per suo conto.
Anche Turcatti riteneva fermamente di dover far parte della spedizione; i due
tentativi precedenti avevano dimostrato la sua resistenza fisica e mentale e i
ragazzi più giovani erano persuasi che, con la sua partecipazione, il tentativo
avrebbe avuto successo.
Canessa possedeva più immaginazione di alcuni dei compagni e
prevedeva i pericoli e gli stenti che avrebbero dovuto affrontare, ma riteneva
fosse suo dovere compiere il tentativo a causa della propria eccezionale forza
fisica e della propria capacità inventiva. Anche Fito Strauch si offrì
volontario, indotto a ciò da ragioni analoghe: più per un senso del dovere che
per un reale desiderio di abbandonare la sicurezza, sia pur relativa, del
Fairchild. Ma la natura intervenne a decidere per lui, in quanto, otto giorni
dopo la valanga, cominciò a essere tormentato da una forma grave di
emorroidi che lo escluse senz’altro dai candidati. I suoi due cugini furono
felicissimi che egli fosse costretto a rimanere.
Gli altri tre, Paez, Harley e Vizintìn, volevano tutti far parte della
spedizione, ma, sebbene venissero ritenuti fisicamente idonei, sussistevano
taluni dubbi per quanto concerneva la loro maturità e la loro forza d’animo.
Venne pertanto deciso che questi tre avrebbero tentato una spedizione
sperimentale della durata di un giorno. Già, dopo la valanga, erano state
effettuate alcune puntate esplorative nei pressi immediati dell’aereo. François
e Inciarte avevano scalato la montagna portandosi un centinaio di metri più in
alto e riposandosi ogni dieci passi per fumare una sigaretta. Turcatti era salito
fino all’ala con Algorta, arrampicandosi con minore energia e più fatica di un
tempo, in quanto anch’egli era stato indebolito dal disgusto nei confronti della
carne cruda.
***
Pàez, Harley e Vizintìn partirono alle undici del mattino, sette giorni dopo
la valanga, per mettere alla prova sé stessi. Si proponevano di scendere
diagonalmente la valle verso la rande montagna al lato opposto. Sembrava
essere una meta aggiungibile da quella spedizione della durata di un giorno.
I giovani indossavano due maglioni ciascuno, due paia li calzoni, e
avevano scarpe da rugby. La superficie della neve era gelata, per cui discesero
facilmente la valle, zigzagando quando il pendio era troppo ripido per
affrontarlo direttamente. Non portavano nulla che potesse ostacolarli. Dopo
aver proseguito in questo modo per un’ora e mezzo, trovarono il portello
posteriore dell’aereo e, sparpagliata più vanti, parte dell’attrezzatura della
cucina: due contenitori vuoti, in alluminio, per caffè e Coca Cola, un bidone
per i rifiuti e un barattolo di caffè solubile, vuoto tranne un residuo di polvere
rimasto nel fondo. I tre misero immediatamente un po’ di neve nel barattolo,
la fecero sciogliere come meglio potevano e bevvero l’acqua insaporita di
caffè. Vuotarono poi il bidone dei rifiuti e, con somma felicità, vi trovarono
alcuni pezzetti di dolciumi che divisero scrupolosamente in tre parti e
succhiarono, mettendosi a sedere sulla neve. Si sentirono, durante quei pochi
momenti, in estasi. Cercarono ancora, ma non riuscirono a trovare altro che
una bombola di gas, un thermos rotto e un po’ di maté. Misero il maté nel
thermos, poi ripresero il cammino.
Dopo aver disceso la valle per altre due ore, cominciarono a rendersi
conto che le distanze sono ingannevoli sulla neve e che non si trovavano
molto più vicini alla montagna di fronte a loro di quando erano partiti. La
marcia stava inoltre diventando più difficoltosa perché il sole di mezzogiorno
aveva sciolto la superficie della neve, ed essi vi affondavano ora fino alle
ginocchia. Alle tre del pomeriggio, decisero di tornare all’aereo, ma, mentre
cominciavano a ripercorrere i loro passi, scoprirono ben presto che salire su
per la montagna era molto più difficoltoso di quanto lo fosse stato scenderla.
Nuvole minacciose avevano oscurato il cielo e alcuni fiocchi di neve
cominciarono a cadere e a turbinare intorno a loro nel vento.
Raggiunsero il punto nel quale avevano lasciato il barattolo di caffè e di
nuovo si ristorarono con acqua dal lieve sapore di caffè solubile. Roy e
Carlitos presero i due contenitori della cucina, rendendosi conto che
sarebbero stati utili per fare sciogliere la neve, ma poi constatarono che erano
troppo pesanti e li gettarono via. Vizintìn, però, non volle separarsi dal grosso
bidone per i rifiuti e se ne servì come di una sorta di bastone per spingersi in
su sulla montagna.
L’ascesa divenne eccezionalmente difficile. Continuavano ad affondare
nella neve fino alle ginocchia, i pendii erano più ripidi, i fiocchi leggeri si
tramutarono in una fitta nevicata, e tutti e tre si sentirono stanchissimi. Roy e
Carlitos rasentavano il panico. Nelle confuse prospettive del paesaggio
coperto di neve, non avevano la più pallida idea della loro distanza dal
Fairchild, non sapevano se l’aereo fosse vicino o lontano. C’erano
ondulazioni sul fianco della montagna e ogni volta, superandone una, si
aspettavano di vedere il Fairchild, ma non lo trovavano mai, e ad ogni
delusione il loro morale crollava. Roy cominciò a piangere e Carlitos, in
ultimo, si afflosciò sulla neve. «Non ce la faccio a proseguire», disse. «Non
posso, non posso. Abbandonatemi. Continuate voi. Lasciatemi qui a morire.»
«Su, vieni, Carlitos», disse Roy, tra le lacrime. «Per amor di Dio, prosegui!
Pensa alla tua famiglia… a tuo padre… a tua madre…»
«Non posso… non posso muovermi…»
«Alzati, femminuccia», disse Vizintìn. «Creperemo tutti sgelati se restiamo
qui.»
«E va bene, sono una femminuccia. Sono un vigliacco. Lo ammetto.
Proseguite voi.»
Ma non volevano abbandonarlo. Lo sottoposero a un bombardamento di
esortazioni e di insulti, e in ultimo riuscirono a farlo rimettere in piedi.
Salirono ancora un po’, fino alla sommità di un’altra ondulazione, ma, di
nuovo, non videro l’aereo.
«Quanto dista ancora?» domandò Carlitos. «Quanto è lontano, ancora?»
Poco dopo, si afflosciò di nuovo sulla neve.
«Continuate voi», disse. «Io vi raggiungerò tra un minuto.» Ma, ancora,
Vizintìn e Harley non vollero abbandonarlo una volta di più, lo insultarono e
lo supplicarono finché non si fu rialzato e non ebbe ripreso a camminare nella
neve accecante.
Tornarono all’aereo dopo il tramonto del sole. Gli altri ragazzi erano
entrati e li stavano aspettando ansiosamente. Quando i tre rotolarono giù per
la galleria entro il Fairchild, completamente esausti, Carlitos e Roy in lacrime,
divenne chiaro a tutti che il cimento era stato terribile e che qualcuno di loro
non aveva resistito.
«Era impossibile», disse Carlitos. «Era impossibile e io mi sono lasciato
cadere sulla neve, ho desiderato di morire e ho pianto come un bambino.»
Roy rabbrividì, pianse, e non disse nulla.
Gli occhi piccoli e ravvicinati di Vizintìn erano completamente asciutti. «È
stato duro», egli disse, «ma possibile.»
Così Vizintìn divenne il quarto componente della spedizione. Carlitos ritirò
la propria candidatura dopo quella prima esperienza, e Parrado disse a Roy
che non avrebbe potuto andare con gli altri perché piangeva troppo, al che
Roy scoppiò in lacrime. Ma era deluso soltanto perché credeva che Fito si
sarebbe recato in cerca di soccorsi. Lo conosceva da quando erano bambini, e
al suo fianco si sentiva al sicuro. Ma quando a Fito vennero le emorroidi ed
egli dovette rinunciare a prendere parte alla spedizione, Roy fu felicissimo di
essere tra coloro che sarebbero rimasti nella fusoliera.
***
I quattro componenti della spedizione, una volta scelti, divennero una
classe di guerrieri i cui particolari doveri davano loro diritto a speciali
privilegi. Ottennero tutto ciò che avrebbe potuto migliorarne le condizioni
fisiche e spirituali. Mangiavano più carne degli altri e sceglievano i pezzi che
preferivano. Dormivano dove, come e quanto volevano. Nessuno pretendeva
più che sbrigassero i compiti quotidiani, il taglio della carne e le pulizie
nell’aereo, sebbene Parrado e, in minor misura, Canessa continuassero a
lavorare. E, come essi venivano coccolati fisicamente, lo erano anche
moralmente. I giovani recitavano ogni sera preghiere per la loro salute e il
loro benessere e ogni conversazione che si svolgesse alla loro presenza aveva
un tono ottimistico. Se anche Methol riteneva che l’aereo fosse precipitato nel
cuore delle Ande, si guardava bene dal dirlo a uno dei componenti della
spedizione. Quando si parlava con loro della situazione in cui si trovavano, il
Cile distava appena due o tre chilometri e si stendeva al di là della prima
montagna.
Era inevitabile, forse, che i quattro approfittassero, in una certa misura, di
questa posizione privilegiata e che ciò causasse del risentimento. Sabella
dovette sacrificare il suo secondo paio di calzoni per cederlo a Canessa;
François aveva un solo paio di calzini, mentre Vizintìn ne possedeva ben sei.
Pezzi di grasso accuratamente estratti dalla neve da qualche ragazzo affamato
venivano requisiti da Canessa, il quale diceva: «A me servono per
rinforzarmi, e se non mi rinforzo non riuscirete mai ad andarvene da qui».
Parrado, però, non approfittava in alcun modo della propria posizione, e
neppure ne approfittava Turcatti. Entrambi lavoravano duramente come prima
e, come prima, erano sereni, affettuosi, ottimisti.
I componenti della spedizione non venivano considerati i capi del gruppo,
ma costituivano una casta a sé, ed erano separati dagli altri dai loro privilegi e
dalle loro preoccupazioni. Sarebbero potuti diventare una oligarchia se i loro
poteri non fossero stati limitati dal triumvirato dei cugini Strauch.
Tra tutti i sottogruppi di amici e parenti esistiti prima della langa, il loro
era l’unico a sopravvivere intatto. Il gruppo di ragazzi più giovani aveva
perduto Nicolich e Storm; Canessa aveva perduto Maspons; Nogueira aveva
perduto Platero; Methol sua moglie. E inoltre era scomparso Marcelo, il capo
che essi avevano ereditato dal mondo esterno.
Gli stretti rapporti di parentela tra Fito Strauch, Eduardo Strauch e Daniel
Fernández facevano sì che essi godessero un vantaggio immediato su tutti gli
altri nel resistere non già alle sofferenze fisiche, ma a quelle mentali causate
dal loro isolamento tra le montagne. Essi possedevano inoltre doti realismo e
di praticità assai più utili, in una situazione così brutale, dell’eloquenza di
Pancho Delgado o dell’indole buona e gentile di Coche Inciarte. La
reputazione che si erano conquistati, Fito soprattutto, durante la prima
settimana per quanto concerneva la loro capacità di far fronte a realtà ingrate e
prendere decisioni sgradevoli, aveva ottenuto loro il rispetto di quei giovani le
cui vite erano state salvate in tal modo. Fito, il più giovane dei tre, era anche il
più rispettato, non soltanto per le sue opinioni giudiziose, ma per il modo con
il quale era riuscito a organizzare il salvataggio dei compagni intrappolati dalla
valanga nei momenti di maggiore isterismo. Il suo realismo, oltre alla sua
salda fede nella salvezza finale, inducevano molti dei giovani a riporre in lui
tutte le loro speranze, e Carlitos e Roy proposero che venisse nominato capo
al posto di Marcelo. Ma Fito rifiutò questa supremazia offertagli. Non esisteva
alcuna necessità di istituzionalizzare l’ascendente dei cugini Strauch.
Tra tutti i lavori che bisognava sbrigare quello di tagliare i carne dai
cadaveri dei defunti amici era il più difficile e sgradevole, ed esso veniva
eseguito da Fito, Eduardo e Daniel Fernández. Si trattava di un lavoro orribile,
che anche i più coriacei, come Parrado o Vizintìn, non riuscivano a indursi a
compiere. I cadaveri dovevano anzitutto essere disseppelliti dalla neve,
affinché sgelassero al sole. Il freddo li aveva conservati come erano stati al
momento della morte. Se gli occhi restavano aperti, si poteva chiuderli, in
quanto riuniva difficile fare a pezzi un amico sotto il suo sguardo vitreo, pur
essendo certi che l’anima di lui se ne fosse andata a un pezzo.
Gli Strauch e Fernández, spesso aiutati da Zerbino, staccavano grossi
brandelli di carne dal cadavere; essi venivano poi passati a un altro gruppo,
che li divideva in pezzi più piccoli servendosi di lamette da rasoio.
Quest’ultimo lavoro non era tanto sgradito, poiché, una volta staccata la carne
dai cadaveri, riusciva più facile dimenticare che cosa fosse.
La carne era severamente razionata, e anche a questo provvedevano i due
Strauch e Daniel Fernández. La razione base, distribuita a mezzogiorno, non
ammontava a un granché e si aggirava sui duecento grammi, ma tutti
riconoscevano che chi lavorava poteva averne di più perché con le sue fatiche
consumava maggiori energie, e che i componenti della spedizione avevano
diritto quasi a tutto ciò che volevano. Un cadavere veniva sempre sfruttato
completamente prima di passare a quello successivo.
Per necessità di cose, i giovani avevano finito con il mangiare quasi ogni
parte del corpo. Canessa sapeva che il fegato conteneva riserve di vitamine;
per tale motivo, se ne cibava egli stesso e incoraggiava gli altri a fare
altrettanto. Continuarono tutti a nutrirsene finché il fegato non venne messo
da parte per i componenti della spedizione. Una volta sormontata la
ripugnanza per quanto concerneva questa parte del corpo, fu più facile
passare al cuore, ai reni e agli intestini. Fare una cosa simile parve loro meno
straordinario di quanto sarebbe potuto sembrare a un europeo o a un
nordamericano, perché era un’abitudine assai diffusa nell’Uruguay gustare gli
intestini e le glandole linfatiche dei manzi agli asados.
Gli strati di grasso ricavati dai cadaveri venivano fatti seccare al sole
finché si formava una crosta, e poi venivano mangiati da tutti. Erano una
fonte di energia e, sebbene non fossero apprezzati quanto la carne, non
rientravano nel razionamento, come del resto i diversi brandelli delle carcasse
precedenti che, abbandonate sulla neve intorno all’aereo, potevano essere
saccheggiate da chiunque. Ciò contribuiva a riempire lo stomaco di chi aveva
fame, poiché soltanto i futuri partecipanti alla spedizione potevano mangiare
carne a sazietà. Gli altri erano continuamente avidi di averne di più, ma si
rendevano conto dell’importanza del razionamento. Soltanto i polmoni, la
pelle, la testa e gli organi genitali dei cadaveri venivano scartati.
Esistevano regole ben precise, ma, al di fuori di tali regole, vigeva un
sistema non ufficiale e tollerato di furtarelli da parte degli Strauch. Ecco
perché il compito di tagliare i pezzi più grossi era tanto ambito; di tanto in
tanto era possibile cacciarsi in bocca un piccolo brandello di carne. Tutti
coloro che tagliavano la carne si comportavano in questo modo, anche
Fernández e gli Strauch, e nessuno protestava, purché non si esagerasse. Un
pezzo cacciato in bocca ogni dieci tagliati per gli altri costituiva la misura più o
meno normale. Mangino, a volte, aumentava la proporzione arrivando a un
brandello di carne ogni cinque o sei fette, e Páez si spingeva addirittura sino a
uno ogni tre, ma essi non riuscivano a nascondere quello che facevano, e
desistevano quando gli altri protestavano ad alta voce.
Questo sistema, come una costituzione valida, era equo in teoria e
abbastanza flessibile per tener conto delle debolezze della natura umana, ma
ad andarci di mezzo erano coloro che o non potevano o non volevano
lavorare. Echavarren e Nogueira rimanevano imprigionati nella fusoliera a
causa delle gambe fratturate, gonfie, infette e cancrenose, e solo di quando in
quando riuscivano a trascinarsi giù dalle amache e a strisciar fuori per
defecare o per far sciogliere neve ricavandone acqua potabile. Essi non
potevano in alcun nodo tagliare carne né frugare nella neve in cerca di altri
resti. Anche Delgado aveva una gamba fratturata, e la gamba di Inciarte era
infetta. Methol continuava a soffrire di mal li montagna. François e Roy
Harley erano a loro volta invalidi, in un certo qual modo; non fisicamente, ma
spiritualmente. Sarebbero stati in grado di lavorare e invece lo choc della
valanga seguito dal fallimento della spedizione di prova sembrava aver
distrutto in loro ogni senso, ogni scopo. Essi si limitavano pertanto a starsene
seduti al sole.
Chi lavorava, provava ben poca compassione per gli altri, giudicati dei
parassiti. In una situazione di estremo pericolo come quella, il rimanere in
letargo sembrava criminoso. Vizintìn riteneva che a chi non lavorava non si
dovesse dar niente da mangiare finché non si fosse deciso a essere attivo. Gli
altri si rendevano conto di dover mantenere in vita i loro compagni, ma non
vedevano alcun motivo per fare di più. Erano crudeli, inoltre, nel giudicare le
condizioni di quelli che, secondo loro, erano dei simulatori. Alcuni ritenevano
che Nogueira non avesse le gambe fratturate e che egli si limitasse a
immaginare le sue sofferenze. Pensavano inoltre che Delgado esagerasse il
dolore causatogli dal femore fratturato. Anche Mangino, in fin dei conti, si era
rotto una gamba, eppure riusciva a lavorare tagliando la carne. Tutti quanti
rispettavano ben poco il mal di montagna di Methol o i piedi congelati di
François. Ne conseguiva che il solo supplemento alla razione dei «parassiti» lo
fornivano le cellule dei loro stessi organismi.
Alcuni dei ragazzi continuavano a trovare difficile nutrirsi con carne
umana cruda. Mentre gli altri ampliavano il limite di quello che riuscivano a
mandar giù, includendovi il fegato, il cuore, i reni e gli intestini dei morti,
Inciarte, Harley e Turcatti recalcitravano ancora dinanzi alla rossa carne dei
muscoli. Riusciva loro facile mangiare soltanto quando la carne veniva cotta;
e tutte le mattine Inciarte sbirciava Paez, assegnato a tale incarico, e
domandava: «Carlitos, cuciniamo oggi?»
Carlitos rispondeva: «Non lo so; dipende dal vento».
Riuscivano infatti ad accendere il fuoco soltanto se il tempo era bello. Ma
entravano in gioco anche altri fattori. La provvista di legno era limitata;
quando ebbero bruciato tutte le casse di Coca Cola, rimasero soltanto sottili
strisce di legno che formavano in parte la parete divisoria nella fusoliera.
Inoltre bisognava tener conto della tesi di Canessa, secondo il quale le
proteine venivano distrutte da temperature elevate, e di quella di Fito,
persuaso che la carne abbrustolita si restringesse, per cui restava meno da
mangiare. Di conseguenza, cucinare era consentito soltanto una o due volte
alla settimana, quando il tempo lo permetteva, e in quelle occasioni i meno
schizzinosi si limitavano per consentire agli altri di mangiare di più.
3

Nei dieci giorni che trascorsero tra la scelta dei quattro componenti della
spedizione e il 15 novembre, la data entro la quale i superstiti speravano nella
cessazione del freddo, i diciannove sopravvissuti migliorarono sia come
gruppo, sia individualmente.
Parrado, ad esempio, che prima dell’incidente era stato un aspirante
playboy goffo e timido, veniva adesso considerato un eroe. Il suo coraggio, la
sua forza d’animo e il suo altruismo facevano sì che fosse amato più d’ogni
altro. Egli era sempre il più deciso a sfidare le montagne e il gelo e a
incamminarsi verso la civiltà; per questo motivo, coloro i quali erano più
giovani, più deboli, o meno decisi, riponevano lui una fiducia cieca. Parrado
li consolava, inoltre, quando piangevano e si addossava gran parte delle
fatiche più noiose torno all’aereo, quelle dalle quali, come partecipante alla
spedizione, era ufficialmente esonerato. Non proponeva mai la linea d’azione
senza offrirsi spontaneamente, al contempo, di attuarla. Una notte, quando
parte della parete protetta venne demolita da un vento impetuoso, fu Parrado
a strisciare fuori di sotto le coperte per ricostruirla. Allorché rientrò nella
fusoliera, era talmente gelato che chi dormiva accanto a lui dovette sferrargli
pugni e massaggiargli tutto il corpo per riattivare la circolazione del sangue;
eppure, quando, mezz’ora dopo, la parete cadde una seconda volta, fu di
nuovo Parrado ad alzarsi e a ricostruirla.
Aveva soltanto due punti deboli. Il primo consisteva nella cocciuta
decisione di andarsene. Se avesse potuto fare a modo suo, sarebbe partito
subito dopo la valanga, senza alcun adeguato preparativo. Si mostrava
paziente con i suoi simili, a impaziente con le circostanze; non riusciva a
valutare con distacco, come Fito Strauch, la situazione. Se gli avessero
consentito di partire quando voleva lui, non si sarebbe mai salvato.
L’altro suo difetto consistenza nell’irritazione causatagli da Roy Harley. Lo
esasperava il fatto che un giovane dal fisico sano e robusto dovesse essere
continuamente in lacrime. Eppure i loro compagni, ugualmente demoralizzati
dalla tragicità della situazione, trovavano in Parrado il maggior motivo di
conforto. Egli era semplice, affettuoso, equanime, ottimista e di buon
carattere. Di rado, se non mai, imprecava, e tutti avrebbero voluto dormire
accanto a lui.
Subito dopo Parrado, il più ben voluto dei giovani era Numna Turcatti.
Aveva un corpo piccoletto, ma muscoloso, che sin dall’inizio era stato posto al
servizio della causa comune. Le spedizioni tentate prima della valanga lo
avevano indebolito e quando Algorta era salito assieme a lui fino all’ala del
Fairchild, aveva notato come Numa non possedesse più l’energia di un
tempo. Inoltre, la carne cruda continuava a ripugnargli. Poiché, prima della
partenza da Montevideo, aveva conosciuto pochi dei ragazzi, ciò costituiva la
prova della sua forza d’animo, della sua semplicità e di una assoluta incapacità
di cattiveria, per cui si era meritato l’affetto e il rispetto di tutti loro. I ragazzi
erano persuasi che se lui e Parrado avessero tentato una spedizione, sarebbero
riusciti.
Gli altri due che avrebbero dovuto prendere parte a quest’ultima, non
erano altrettanto amati. Si riconosceva che Canessa aveva avuto buone idee,
come quella di fare le coperte e di costruire le amache che tanto avevano
contribuito a migliorare le condizioni di vita all’interno della fusoliera. Egli
possedeva cognizioni in fatto di proteine e vitamine ed era stato un energico
fautore della necessità di nutrirsi con la carne dei cadaveri. D’altro canto, la
sua rinomanza di abile «medico», così grande allorché aveva operato Platero,
era diminuita da quando, essendosi egli deciso a incidere uno dei foruncoli
sulla gamba di Inciarte, vi era stato un peggioramento dell’infezione.
Ma ciò che rendeva difficile vivere con lui era la personalità di Canessa.
Nervoso e teso, egli dava in escandescenze alla minima provocazione e urlava
imprecazioni e insulti con la sua voce acuta. Spasmodicamente coraggioso e
altruista, accadeva molto più di frequente che si spazientisse e desse prova di
cocciutaggine. Il nomignolo di «Muscoli» gli era stato dato non per la sua
forza fisica, ma per l’ostinazione del carattere. Sul campo di rugby, ciò
portava a un gioco caratterizzato da idiosincrasie; sull’aereo significava che
egli passava addosso ai corpi dei compagni addormentati per andare ove più
gli piacesse. Faceva quello che voleva, e nessuno poteva impedirglielo.
Soltanto Parrado aveva un certo ascendente su di lui. Quanto agli Strauch,
avrebbero potuto dominarlo in una certa misura, ma non volevano irritare un
componente della futura spedizione.
Vizintìn non era dogmatico e prepotente come Canessa, ma dimostrava di
essere ancora più egocentrico e questo difetto non veniva compensato in lui
da doti di inventività e ingegnosità. Possedeva coraggio, come aveva
dimostrato durante la spedizione di prova, ma nell’aereo il suo
comportamento era viziato e infantile. Litigava con tutti, in particolare con
Inciarte e Algorta, e il solo lavoro che sbrigasse consisteva nello sciogliere un
po’ di neve per sé e nel fare poche piccole altre cose cui era personalmente
interessato; con il rivestimento dei sedili, confezionò guanti per tutti coloro
che avrebbero partecipato alla spedizione, e costruì parecchie paia di occhiali
da sole. Durante la notte piangeva pensando a sua madre.
Soltanto Canessa riusciva a dominare in qualche modo Vizintin, che però
riusciva simpatico a Mangino. Si sarebbe detto che i tre ragazzi più suscettibili
e aggressivi, tutti diciannovenni, avessero formato una piccola associazione.
Mangino si sentiva isolato; anche lui, come Turcatti, non aveva conosciuto
molti dei ragazzi in passato, ed ora non provava alcun ritegno nel dire loro di
andare all’inferno. Nei giorni immediatamente successivi alla caduta
dell’aereo era stato egoista e isterico, ma poi aveva finito con il lavorare più di
quasi tutti gli altri a favore del gruppo, e alcuni degli altri (in particolare
Canessa e Eduardo Strauch) si sentivano protettivi nei suoi riguardi.
Anche nel caso di Bobby François si riteneva che la gioventù giustificasse
i difetti, il più grave dei quali era l’abulia. Si sarebbe detto che egli fosse
venuto al mondo privo dell’stinto di autoconservazione; sin dal momento
dell’incidente, quando si era messo a sedere sulla neve e aveva acceso una
sigaretta dicendo con noncuranza «Siamo stati fregati», Bobby aveva
continuato a comportarsi come se non valesse la pena di lottare per
sopravvivere. Era sempre stato un ragazzo pigro, anche prima della partenza
per il Cile, il nomignolo datogli dai suoi compagni era «Fatty» (Bombolo),
ma, nella situazione in cui si trovavano adesso, la pigrizia equivaleva al
suicidio, e, se egli fosse stato abbandonato a sé stesso, senza alcun dubbio
sarebbe morto. Non lavorava, e ne stava seduto al sole e faceva sciogliere
neve per ricavarne acqua quando vi era costretto; altrimenti si massaggiava i
piedi, colpiti da un grave congelamento a causa della valanga. Durante la
notte, quando la coperta gli scivolava di dosso, non riusciva a trovare in sé
stesso l’energia per tornare a coprirsi; doveva pensarci qualcun altro. A un
certo momento Daniel Fernández fu costretto a massaggiargli i piedi per
impedire la cancrena.
Giunse un periodo in cui l’abulia di Bobby esasperò a tal punto i cugini,
che essi pensarono di costringerlo a lavorare. Per conseguenza gli dissero che,
se non si fosse dato da fare, non avrebbe più avuto cibo. Bobby si limitò a
stringersi nelle spalle, li guardò luttuosamente con i suoi grandi e begli occhi e
disse: «Sì, questo è abbastanza giusto». Ma quel mattino lavorò assai poco,
come sempre, e allorché giunse mezzogiorno, l’ora alla quale venivano
distribuite le razioni, non prese il proprio piatto e non si unì alla coda.
Sembrava essergli del tutto indifferente se fosse vissuto o se fosse morto, e lo
si sarebbe detto soddisfattissimo che fossero gli altri a decidere per lui. Ma i
suoi compagni non erano disposti a far questo. Il loro «incentivo» non aveva
avuto successo. Bobby ottenne ugualmente la razione.
Tra i ragazzi un po’ più avanti negli anni e più robusti, Eduardo Strauch
era come Parrado, buono con i giovani e con i deboli: con Mangino, con
François e con Moncho Sabella. Sebbene illeso, Moncho sembrava essere più
debole di quasi tutti gli altri e avere un’indole nervosa. Si era comportato bene
nel momento del disastro (Nicolich riteneva che gli avesse salvato la vita) e gli
sarebbe piaciuto dimostrarsi pari a tutti gli altri in fatto di coraggio e di dure
fatiche, ma non ne aveva la forza. Divenne uno del coro, uno di coloro che se
ne stavano seduti al sole, fumando, chiacchierando e facendo sciogliere la
neve, mentre gli altri dominavano al centro del palcoscenico.
Anche Javier Methol faceva parte del coro. Il mal di montagna, dal quale
era sempre affetto, continuava a stordirlo. Parlava molto, ma balbettava e non
completava mai le frasi. I ragazzi, i quali erano tutti di almeno dieci anni più
giovani, tendevano a considerarlo una figura buffa. Lo chiamavano «Dumbo»
(Tonto) perché egli aveva detto loro che questo era stato il suo nomignolo da
bambino, e ridevano di lui quando camminava pesantemente sulla neve. Gli
combinavano scherzi, che lui assecondava, esagerando la propria insipienza
perché sapeva che questo divertiva i giovani e ne teneva alto il morale. Ad
esempio, qualcuno di loro sosteneva che Dumbo non aveva mai mangiato un
cannolo alla crema (ensaimade), e allora Methol si lanciava in una prolissa e
pedante descrizione.
Proprio quando stava per terminare, un secondo ragazzo si avvicinava e
domandava: «Di che cosa stai parlando, Dumbo?»
«Sto descrivendo un cannolo alla crema.»
«Un cannolo alla crema? Che cos’è?»
«Non lo sai? Bè, è rotondo, lungo press’a poco cosi…» ed eccolo lanciarsi
in una seconda descrizione. Ma, quando era sul punto di concludere,
sopraggiungeva un terzo ragazzo che, a sua volta, sosteneva di non aver mai
mangiato un cannolo alla crema.
La specialità di Methol consisteva nel raschiar via il grasso dalla carne e
nel tenerlo da parte come lassativo. Spettava inoltre a lui il compito di affilare
i coltelli, sia sfregandone le lame le une contro le altre, sia passandole su e giù
su una roccia. Costruì occhiali dapprima per Canessa e poi per se stesso,
servendosi di pezzi di plastica e di perspex recuperati nella cabina di
pilotaggio. Tutti notarono, mentre era impegnato in questo lavoro, che ritagliò
una sola lente di perspex. I ragazzi si resero così conto per la prima volta che
egli ci vedeva soltanto da un occhio.
Methol consolava i ragazzi quando erano infelici. Altrettanto faceva Coche
Inciarte, il quale era benvoluto nel gruppo come Parrado e Turcatti. Questi
ultimi, però, dovevano far parte della spedizione e perciò consideravano gli
altri con un certo distacco, mentre Coche poteva capire le debolezze altrui,
essendo debole egli stesso. Aveva lavorato alquanto, finché non gli si era
infettata la gamba, ma di recente non faceva più nulla. Non si curava del fatto
che la sua razione era più piccola perché la carne non gli piaceva cruda. Non
pensava mai alla situazione critica nella quale ano venuti a trovarsi, ma
trascorreva le giornate sognando la vita di un tempo a Montevideo. Sebbene
gli altri fossero spesso esasperati dalla sua inattività, egli riusciva troppo
simpatico a tutti perché potessero adirarsi. Coche aveva un’indole
estremamente aperta e franca: era buono, dolce, si esprimeva in tono mite e
con arguzia. Nessuno riusciva a evitare i suoi occhi candidi e sorridenti, anche
se lo scopo dei loro sguardi era quello di scroccare una sigaretta o un pezzo di
carne in più.
Pancho Delgado, d’altro canto, sebbene non fosse parassita più di Inciarte,
non aveva il vantaggio della candida personalità di quest’ultimo, né della sua
lunga amicizia con Fito Strauch. Era un ragazzo dal fascino e dall’eloquenza
considerevoli e fino a quel momento se l’era cavata bene nella vita grazie a tali
doti. I Sartori, ad esempio, un tempo contrari al suo fidanzamento con la loro
figliola, erano stati conquistati dai mazzi di fiori e dai doni che egli portava
sempre quando si recava a casa loro.
Sulla montagna non c’erano fiori e il fascino e l’eloquenza non erano le
doti che venissero ricercate in una situazione di estremi disagi. In effetti,
l’eloquenza di Delgado agiva adesso a suo sfavore. Il piccolo gruppo di
superstiti non gli perdonava il troppo facile ottimismo; egli era uno dei più
anziani e avrebbe dovuto essere abbastanza assennato per non destare le loro
speranze senza buone ragioni. E così, quando diceva di non essere in grado di
lavorare a causa della gamba, alcuni non gli credevano e lo consideravano un
simulatore.
Si trattava di uno stato d’animo pericoloso. Ogni gruppo di persone in
difficoltà cerca sempre un capro espiatorio, e Delgado era un probabile
candidato. Il solo che gli fosse amico da tempo era Numa Turcatti, troppo
nobile d’animo per rendersi conto di quello che stava accadendo. Tutti gli altri
che non lavoravano erano in qualche modo protetti: Methol dal suo stato;
Mangino, Sabella, Harley e François dalla loro gioventù; Inciarte dal buon
carattere. Inoltre, Inciarte non pretendeva di essere niente di più di quello che
era, mentre Delgado aveva già una mentalità da avvocato. Giocava la vita
come se si fosse trattato di una partita a poker, ma non si rendeva conto che in
quel momento disponeva di pessime carte. Si sentiva debole perché aveva
fame, ma, unico tra i diciannove sopravvissuti, non poteva far conto su
protettori e amici disposti a rubare per lui. Era una situazione destinata a
peggiorare.
***
Gli effetti della spedizione di prova su Roy Harley e su Carlitos Pàez
furono l’opposto di quanto ci si sarebbe potuti aspettare. Roy, che si era
comportato meglio di Carlitos, cominciò a declinare. L’essere stato scartato
come partecipante alla futura spedizione lo indusse a pensare di aver deluso
compagni e perciò, venendo così subito dopo la morte del suo amico
Nicolich, fu deleterio per la sua mente come lo sarebbe stato un osso
scheggiato per il suo corpo. Diventò ipersensibile, piangeva se qualcuno gli
parlava in tono aspro, e si esprimeva con un piagnucolio acuto, come un
bambino pedante. Era pigro ed egoista, e soltanto le imprecazioni e i
maltrattamenti di tutti riuscivano a indurlo a fare qualcosa.
Carlitos, d’altro canto, reagì nel modo opposto. La femminuccia viziata e il
codardo autoconfesso divenne un individuo sempre più responsabile e
disposto a lavorare duramente. Egli non soltanto aiutava ora a tagliare la
carne, ma si era assunto il compito di chiudere l’ingresso alla fusoliera ogni
notte.
Aveva qualità contrastanti. Era prepotente, litigioso e rubacchiava più
d’ogni altro; ciò nonostante, la sua nuova personalità contribuì in misura
eccezionale a tenere alto il morale del gruppo. Sebbene fosse il più giovane,
era robusto e aveva una voce rauca come quella di un gigantesco orsacchiotto
di stoffa. Il suo modo di pensare era ingenuo, le sue asserzioni avevano un
che di pomposo, e inoltre egli si comportava spesso in modo irresponsabile
(perdeva accendini e coltelli nella neve) eppure, sulla montagna come a
Montevideo, il solo pensare a Carlitos faceva affiorare un sorriso lille labbra.
Pàez faceva sorridere gli altri non tanto perché le sue battute fossero spiritose
quanto perché tutta la sua personalità aveva un effetto comico. Si trattava di
un talento importante a possedersi, perché esisteva ben poco d’altro che stesse
divertirli.
Carlitos Pàez si trovava in seconda fila nell’ordine gerarchico del potere.
Insieme con Algorta e Zerbino, era l’aiutante di Daniel Fernàndez e dei cugini
Strauch. I tre potevano essere considerati i sottufficiali che ricevevano gli
ordini dall’alto e li trasmettevano ai subordinati. Gustavo Zerbino, in
particolare, tendeva ad adulare i ragazzi più anziani e a fare il prepotente con i
più giovani, sebbene, avendo diciannove anni, fosse egli stesso uno dei più
giovani del gruppo. Era affettuoso, ma nervoso. Al pari di Canessa, perdeva
facilmente il controllo e si lasciava andare a furie isteriche se, ad esempio,
qualcuno occupava il suo posto, nella fusoliera, di fronte a Daniel Fernández.
Aveva finito, infatti, con l’affezionarsi particolarmente a Fernández. Se
quest’ultimo gli chiedeva un paio dei suoi pantaloni, lui glielo dava; se
Vizintìn, prescelto per fare parte della futura spedizione, gli rivolgeva la stessa
richiesta, Zerbino diceva: «Va all’inferno, sudicione. Trovateli per tuo conto, i
calzoni».
Zerbino si impegnò con Fernández a raccogliere e a custodire tutto il
denaro e tutti i documenti di coloro che erano periti. Si assunse inoltre il
compito di indagare su ogni misfatto, come, ad esempio, i cambiamenti di
posto durante la notte. Per questo motivo veniva a volte soprannominato
l’«investigatore». Prima della caduta dell’aereo, il suo nomignolo era stato
«Orecchie», ma ora esso venne mutato in «Caruso» quando risultò, durante
una conversazione sui cibi, che Zerbino non aveva mai mangiato i cappelletti
alla Caruso (una sorta di ravioli con una salsa che prendeva il nome dal
cantante Caruso), e non sapeva nemmeno che cosa fossero. La sua indole
affettuosa e semplice faceva sì che fosse facile prenderlo in giro. A volte i
ragazzi ridevano di lui perché, a tarda sera o al mattino presto, non riusciva a
dire se il sole fosse la luna, o la luna il sole. Egli era inoltre continuamente
pessimista. Se Fito lo mandava fuori a vedere come fosse il tempo, Zerbino
tornava sempre indietro dicendo: «Fa un freddo cane e si sta preparando una
tormenta».
Fito allora si rivolgeva a Carlitos e diceva: «Vai tu a dare un’occhiata». E
Carlitos, che era ottimista, una volta rientrato riferiva: «Sta nevicando un po’,
ma non durerà a lungo. Tra mezz’ora avremo il cielo limpido e azzurro».
Pedro Algorta era un eroe improbabile. In base alle ragioni che avevano
demolito il coraggio di alcuni degli altri, egli sarebbe dovuto essere il primo a
perire. Sebbene avesse iniziato gli studi assieme agli altri al Collegio Stella
Maris, li aveva continuati a Santiago e a Buenos Aires (a causa del lavoro di
suo padre) e pertanto conosceva pochi dei diciannove giovani. Dei suoi due
amici, uno, Felipe Maquirriain, era morto, e l’altro, Arturo Nogueira, si
trovava, invalido e imbronciato, all’interno della fusoliera.
Numerose caratteristiche avrebbero potuto distinguere Algorta dagli altri.
Egli era timido, introspettivo e socialista, mentre i suoi compagni erano
chiassosi, estroversi e conservatori. Nell’Uruguay, Pedro aveva lavorato per il
Frente Amplio, una sorta di Fronte Popolare presentatosi per la prima volta
all’elettorato nel corso delle recenti elezioni presidenziali. Daniel Fernández e
Fito Strauch, d’altro canto, apparivano entrambi al Movimento Nazionale
dell’Università (MUN), che sosteneva Wilson Ferreira (un liberale blanco);
Eduardo Strauch era favorevole a Batlle (un liberale colorado); mentre
Carlitos Páez aveva votato per il reazionario blanco, generale Aguerrondo.
Un altro svantaggio per Algorta consisteva nella sua amnesia. Egli non
riusciva ancora a ricordare che cosa fosse accaduto nei giorni che avevano
preceduto l’incidente. Una vola corse felice tutto intorno all’aereo, quando
Inciarte gli disse che una squadra argentina aveva vinto il campionato calcio.
Non era affatto vero. Su un piano più serio, Algorta aveva completamente
dimenticato di essersi recato nel e non soltanto per acquistarvi testi scolastici a
minor prezzo per studiare di persona il socialismo sudamericano, ma per una
ragazza conosciuta quando abitava a Santiago. Si era persuaso allora di
amarla, ma per un anno e mezzo non avevano più potuto incontrarsi e le
lettere che si erano scambiate non bastavano a mantenere i loro sentimenti a
quel diapason da lui desiderato. Il suo scopo, allora, era stato quello di veder
chiaro nella relazione, in un senso o nell’altro, ma ormai aveva dimenticato
che essa fosse mai esistita. E, invero, una delle ragioni per le quali desiderava
tornare a Montevideo era quella di trovarsi un’amichetta.
La sua mente era sufficientemente sveglia perché egli si rendesse conto
che doveva lavorare per sopravvivere, e la buona volontà di lui meritò
l’approvazione dei cugini, in particolare di Fito. Algorta continuava a sentirsi
lievemente escluso (soprattutto perché non poteva prendere parte alla
conversazione, dedicata così spesso all’agricoltura), ma non a punto tale da
sentir nascere in sé stesso una grave sensazione di isolamento.
***
I tre che costituivano il governo di questa piccola comunità, Eduardo e
Fito Strauch, e Daniel Fernández, non erano, in quanto individui, tanto diversi
dagli altri. Dominavano il gruppo grazie alla forza che si assicuravano a
vicenda.
Daniel Fernández, ad esempio, era il più anziano dei superstiti, dopo
Methol, e si rendeva conto delle responsabilità che ciò gli imponeva. Era
maturo anche per la sua età (aveva ventisei anni) e lavorava duramente per
mantenere pulita la cabina passeggeri, per raccogliere i documenti, per
controllare la distribuzione degli accendini e dei coltelli. Massaggiava i piedi
congelati di Bobby François (in cambio, Bobby prometteva di essere il suo
schiavo quando avrebbero fatto ritorno a Montevideo) e ammoniva Canessa a
non intervenire sulla gamba infetta di Coche. Sebbene fosse timido per
temperamento, a Daniel piaceva parlare. Era calmo, degno di fiducia,
equanime. In effetti, le sole doti che gli mancassero erano la forza fisica e una
forte personalità.
Eduardo Strauch, sebbene soprannominato «il tedesco», sembrava, sotto
ogni aspetto, meno tedesco dei due cugini. Fisicamente somigliava alla madre,
una Urioste, in quanto aveva una corporatura più esile di quella di Fito. Il suo
contegno era simpatico, i suoi modi erano piacevoli. Si trattava del più
compito dei diciannove giovani (forse perché aveva viaggiato in Europa) ed
era quello dall’intelligenza più aperta. In genere conservava la calma, ma a
volte si lasciava travolgere da ire appassionate. Tendeva ad essere autoritario,
specie con Páez, ma, al pari di Fito, dava prova di indulgenza con i ragazzi più
giovani e più irritanti, come Mangino e François.
Fito Strauch era più instabile di Eduardo, eppure ispirava maggior fiducia
al gruppo. Quando i ragazzi esaminavano la loro critica situazione, il suo
modo di pensare era sempre il più positivo, i suoi giudizi erano sempre i più
validi. Andava inoltre a suo merito l’invenzione degli occhiali da sole, dei
quali avevano bisogno per difendere gli occhi dalla luminosità abbacinante
della neve. Tolte dalla cabina di pilotaggio le mascherine anti abbaglianti, che
erano fatte di perspex scuro, egli vi ritagliò due piccoli dischi e li cucì in una
fascia di plastica ricavata dalla copertina di una cartella che aveva contenuto il
piano di volo.
Fito non andava esente da difetti. Come Daniel Fernández, si lasciava
irritare da Mangino. Una volta litigò con Eduardo mentre si accingevano a
coricarsi e un’altra si infuriò a tal punto contro Algorta, perché gli si era
appoggiato contro durante la notte, che balzò in piedi e gli urlò: «Mi stai
ammazzando! Mi stai ammazzando!»
Algorta si limitò ad aprire gli occhi e a dire: «Oh, Fito, come puoi?» Poi si
riaddormentò.
4

Il sistema che era stato elaborato funzionava bene. Come nella Costituzione
degli Stati Uniti, esistevano freni ed equilibri. I cugini Strauch, con i loro
aiutanti, limitavano il potere dei componenti della spedizione, e i componenti
della spedizione limitavano il potere degli Strauch. Entrambi i gruppi si
rispettavano vicendevolmente, ed entrambi agivano col tacito consenso di tutti
e diciannove i superstiti.
Due tra loro non potevano avere alcuna parte attiva nel gruppo a causa
delle lesioni subite quando l’aereo era precitato. Si trattava di Rafael
Echavarren e di Arturo Noleira. Entrambi dormivano sull’amaca che era stata
costruita da Canessa e uscivano soltanto di rado dalla fusoliera. Soffrivano
troppo camminando e, trascinandosi fuori sulla neve, esaurivano quasi tutta
l’energia rimasta nelle loro membra.
I due differivano molto, sia per origini, sia per temperamento. Nogueira, a
ventun anni, era uno studente di sinistra iscritto alla facoltà di economia;
Echavarren, che aveva ventidue anni, era un allevatore di bestiame di
tendenze conservatrici. I loro valori divergevano, né era probabile che
potessero riconciliarsi sul comune giaciglio ove soffrivano entrambi, poiché il
minimo e inavvertito movimento dell’uno causava all’altro grandi torture.
Echavarren, di origine basca, aveva un’indole aperta e coraggiosa. Lo stato
della sua gamba era spaventoso. Il muscolo del polpaccio, strappato via
dall’osso, era stato rimesso a posto, ma la ferita aveva finito con l’infettarsi.
Peggio ancora, egli non riusciva a spostare la gamba né a muovere i piedi
durante la notte, per cui le dita dei piedi divennero dapprima viola e poi nere,
man mano che il congelamento le aggrediva. Durante il giorno Rafael
chiedeva agli altri di provare a ristabilire la circolazione. «Patroncito», diceva
a Daniel Fernández, «fammi un massaggio alle gambe, vuoi? Sono tanto
intorpidite che non le sento più.» E, quando Daniel aveva finito di
massaggiarlo, Rafael gli diceva: «Ti prometto, Fernández, che se uscirò vivo
di qui, avrai tutto il formaggio che vorrai fino al termine dei tuoi giorni».
Era assolutamente deciso ad andarsene. Ogni mattina diceva a sé stesso:
«Sono Rafael Echavarren e giuro che ritornerò». Quando qualcuno gli
consigliava di scrivere una lettera ai genitori, o alla sua novia, rispondeva:
«No, racconterò ogni cosa quando sarò tornato». Questa fiducia lo aveva fatto
benvolere dagli altri ragazzi, come la sua franchezza e la sua lealtà. Quando
qualcuno gli urtava la gamba, lui lanciava imprecazioni, ma poi, uno o due
minuti dopo, si scusava. Faceva inoltre ridere tutti gli altri fingendo di
mangiare caramelle tolte da una scatola vuota e li divertiva descrivendo come
si produceva il formaggio nella sua cascina.
Andava però peggiorando. La gamba gli si riempì di pus e la pelle nera
della carne cancrenosa si allargò dalle dita del piede al piede stesso. Un
mattino, con un tono di voce deciso e ottimistico come sempre, invitò tutti ad
ascoltarlo e disse che stava per morire. Gli altri protestarono, ma lui insistette.
Lo diceva, spiegò, perché desiderava che i superstiti rendessero noti alla sua
famiglia gli ultimi desideri da lui espressi: la motocicletta doveva andare
all’amministratore della tenuta, e la jeep alla sua novia. I ragazzi tornarono a
protestare, ma il giorno dopo questa sensazione della fine imminente lo
abbandonò ed egli fu di nuovo ottimista.
Le condizioni fisiche di Arturo Nogueira erano migliori di quelle di
Echavarren, ma lo stato d’animo di lui sembrava essere di gran lunga peggiore
di quello di tutti gli altri. Anche prima del disastro aereo egli era stato un
individuo dal carattere labile e difficile, chiuso e taciturno persino in famiglia.
La sola persona che fosse riuscita a renderlo meno introverso era stata la sua
novia, Inés Lombardero. Ella stessa aveva sofferto molto nella vita… uno dei
suoi fratelli era annegato assieme ad altri due ragazzi, essendosi la loro canoa
capovolta al largo della costa di Carrasco. Il solo che la consolasse era Arturo;
egli la baciava davanti a tutti, per la strada.
Nogueira aveva una sola altra passione, la politica. Uno spiccatissimo
senso della giustizia faceva di lui un idealista militante… talora socialista,
talora anarchico. Aveva più o meno abbandonato il cattolicesimo a favore
dell’utopia. Come Zerbino, per ordine dei Gesuiti, si era adoprato a favore
poveri nei quartieri miserabili di Montevideo, ma ormai credeva in soluzioni
più radicali dei problemi della povertà e dell’oppressione.
Nella fusoliera del Fairchild giaceva sempre solo, i grandi occhi verdi
spalancati nel volto emaciato, il mento decorato da una barbetta. Per qualche
tempo aveva dimostrato di prendersela in qualche modo a cuore a causa della
loro critica situazione, interessandosi soprattutto al problema della posizione
esatta del Fairchild sulle Ande, e si era assunto il compito di cartografo, ma,
con il trascorrere dei giorni, la fiducia in lui in una possibile salvezza era
andata diminuendo, ed egli aveva messo da parte le carte. Ricordò di aver
avuto da bambino la premonizione che sarebbe morto all’età di ventun anni.
Disse a Parrado di essere sicuro che ebbe morto.
Più grave ancora di questa disperazione era il suo isolamento nell’ambito
del gruppo. Si mostrava scorbutico e imbronciato con gli altri, e nessuno, in
quella situazione, si dava la pena di penetrare quel guscio ostile. Pedro
Algorta era il suo solo intimo amico, ma anche Pedro correva il pericolo di
restare isolato, e non era certo in grado di integre Arturo nel gruppo contro la
sua volontà.
L’antagonismo di lui nei confronti degli altri era in vasta misura politico.
Con Echavarren litigava in apparenza per le coperte o per la posizione dei
rispettivi piedi, ma era il sotterraneo divergere dei loro punti di vista a rendere
questi litigi tanto astiosi. Un giorno, Pàez stava raccontando agli altri episodi
concernenti suo padre. Disse loro che Pàez Vilaró aveva viaggiato in Africa
con Günther Sachs e che Günther Sachs e Brigitte Bardot erano stati ospiti
della sua famiglia a Punta Ballena.
«Ehi, Arturo, che cosa ne pensi di tutto questo?» domandò Canessa.
«Non mi interessa affatto; io sono socialista», rispose Nogueira.
«Tu non sei un socialista, sei uno sciocco», disse Canessa. «Finiscila di
farti credere tanto incallito.»
«Voi siete tutti quanti oligarchici e reazionari», replicò Arturo, aspro, «e io
non voglio vivere in un Uruguay imbevuto dal genere di valori materialistici
che voi rappresentate… specie tu, Pàez.»
«Non lo starò a sentire», disse Carlitos.
«Tu potrai essere socialista», osservò Inciarte, balbettando tanto era
indignato, «ma sei anche un essere umano, ed è questo che conta, qui.»
«Ignorali», disse Algorta a Nogueiia. «È tutto così privo di importanza.»
Nogueira tornò a chiudersi nel silenzio, e in seguito ammise con Pàez che si
pentiva di quanto aveva detto.
Durante il giorno, anche quando splendeva il sole, Nogueira restava nella
fusoliera. Raccoglieva l’acqua che gocciolava attraverso un foro nel soffitto,
oppure Algorta, Canessa o Zerbino gli portavano da bere dall’esterno. Gli
parlavano della sua famiglia e cercavano di persuaderlo a uscire dalla
fusoliera, anche perché alcuni di loro sospettavano che le lesioni alla gamba
fossero immaginarie; ma tutto ciò che questi amici facevano per risollevargli il
morale non serviva a niente.
La fusoliera del Fairchild era gelida, buia e umida. Quelli che restavano
chiusi in essa respiravano soltanto aria bagnata. Nogueira si indebolì e
solamente dopo una settimana gli altri si accorsero che non aveva consumato
la sua razione di carne. Dopo di allora Algorta gliela portò personalmente e gli
mise in bocca i pezzetti di carne, bagnati dalla saliva che continuava a
sfuggirgli dalle labbra.
Parrado e Fito Strauch si erano resi conto, infine, che l’isolamento di
Nogueira lo avrebbe ucciso. Parrado si recò a parlargli. «Vuoi restare qui?» gli
domandò. «Restare qui» era l’eufemismo di cui si servivano per riferirsi alla
morte.
«So che ci resterò», rispose Arturo.
«No, niente affatto», disse Parrado. «Ti porterò via di qui per il
compleanno di Inés, vedrai.»
Una sera, mentre si accingevano a dormire, Arturo domandò se potesse
essere lui a recitare il rosario. Gli altri risposero affermativamente e Pàez
glielo porse. Arturo espresse allora le proprie volontà, pregando Dio per le
famiglie di tutti loro, per il loro paese, per i compagni periti e per quelli lì
presenti. Parlò con tanto sentimento nella voce, che gli altri diciotto (alcuni
dei quali consideravano il rosario un altro modo di contare le pecore) si
sentirono pervasi da un nuovo rispetto e da un nuovo affetto nei suoi
riguardi. Quando egli ebbe terminato le cinque decine, tacquero tutti; si poté
udire soltanto lo stesso Arturo piangere sommessamente sull’amaca. Pedro
alzò gli occhi verso di lui e gli domandò perché stesse piangendo. «Perché
sono cosi vicino a Dio», rispose lui.
Tra le sue cose, c’era un elenco dei propri indumenti compilato prima di
fare la valigia. Sul retro di questo foglio egli scrisse, con caratteri molto più
incerti di quelli di un tempo, una lettera ai genitori e alla sua novia.
In situazioni come questa, anche la ragione non riesce a capire l’infinito
e assoluto potere di Dio sugli uomini. Non ho mai sofferto come adesso,
fisicamente e moralmente, sebbene non abbia mai creduto tanto in Lui. Dal
punto di vista fisico questa è una tortura, giorno dopo giorno, notte dopo
notte, con una gamba fratturata e la caviglia gonfia, e la caviglia dell’altra
gamba gonfia anch’essa. Ma soffro anche moralmente perché tu non sei qui
ed io anelo a vederti… e ti abbraccio come abbraccio la mia diletta mamma
e il mio diletto papà, ai quali voglio dire che ho sbagliato con il mio
comportamento nei loro riguardi… Forza. La vita è dura, ma merita di
essere vissuta. Anche soffrendo. Coraggio.

Il giorno dopo, Arturo si indebolì ulteriormente. Era febbricitante. Pedro


Algorta salì sull’amaca per dormirgli accanto e dargli un po’ di tepore.
Parlarono insieme della sua miglia, di Inés, degli esami che avrebbero
sostenuto insieme e delle partite di calcio seguite alla televisione. Arturo si
primeva in modo sconnesso e cominciò a delirare.
«Guardate, ecco che arriva il carretto del latte. Ecco il contadino con il
latte. Presto, aprite la porta!» Continuò a farneticare parlando del carretto del
latte, poi di un carretto di gelati, poi di Inés e di un pranzo domenicale con la
sua famiglia. Era percorso da brividi causati dalla febbre alta. Ad un tratto si
drizzò a sedere e tentò di scendere sui corpi dei ragazzi addormentati sotto di
lui. Pedro lo afferrò e Arturo si mise a urlare che Pàez, e poi Echavarren,
stavano cercando di ucciderlo. Pedro continuò a trattenerlo, quindi lo colpì,
facendolo ricadere sull’amaca. In seguito somministrò all’amico un po’ del
Librium e del Valium che facevano parte delle loro riserve di medicinali.
Arturo rimase in parte in coma, in parte delirante per tutto il giorno
successivo, poi, una volta scesa la notte, fece tanto freddo che lo tolsero
dall’amaca affinché dormisse sul pavimento. Era più calmo, adesso, e dormì
tra le braccia di Pedro. In questa posizione morì. Methol e Zerbino cercarono
di rianimarlo con la respirazione artificiale, ma Pedro sapeva che era inutile.
Pianse, e il giorno dopo, prima che il cadavere venisse trascinato sulla neve,
prese per sé la giacca e il cappotto appartenuti ad Arturo.
5

La morte di Nogueira fu uno choc per tutti loro. Demolì la tesi secondo cui
coloro i quali erano sopravvissuti alla valanga dovevano salvarsi. Andarsene
divenne ora una necessità più urgente, e i ragazzi erano impazienti che i
partecipanti alla spedizione partissero; ma giorni e giorni di venti gelidi e di
neve sferzante continuarono a tenerli prigionieri entro la fusoliera.
Dopo la valanga, avevano dormito senza rispettare un ordine particolare; il
primo a entrare al cader della notte poteva scegliere i posti più caldi. In
seguito escogitarono un sistema più severo, studiato affinché la distribuzione
dei posti fosse più equa. Daniel Fernández e Pancho Delgado toglievano i
cuscini dal tetto della fusoliera, ove erano stati lasciati ad asciugare al sole, e li
disponevano sul pavimento della cabina passeggeri. Poi, verso le cinque e
mezzo, quando il sole scompariva dietro la montagna e cominciava
improvvisamente a far freddo, i ragazzi si mettevano in coda secondo l’ordine
nel quale dovevano dormire. Per primo entrava Inciarte (ma senza Páez, che
era il suo compagno di notte); toccava quindi a Fito e a Eduardo; poi a Daniel
Fernández e a Gustavo Zerbino (a meno che non toccasse a loro dormire
accanto all’ingresso). Dopo questi due, l’ordine non era più tanto rigido.
Canessa dormiva dove gli piaceva, e Parrado si sdraiava di solito accanto a
lui. François e Harley rimanevano insieme. Javier Methol dormiva con
Mangino, Algorta dormiva con Turcatti o con Delgado, e Sabella con Vizintìn.
L’ultima di queste coppie ad entrare era quella cui toccava il turno di dormire
nel punto più freddo, accanto all’ingresso. Ma, ultimissimo di tutti, veniva
Carlitos, al quale era stato segnato il compito di chiudere ogni notte l’ingresso
contro il diritto (assieme a Inciarte) al posto più caldo dell’aereo.
Era il loro tapiador (costruttore del muro); ma il suo posto accanto alla
cabina di pilotaggio implicava un altro compito, consistente nello svuotare il
boccale di plastica, che adoperavano come vaso da notte, attraverso un foro
nella fusoliera. Si trattava di un compito tedioso in quanto il boccale risultava
spesso più piccolo della vescica che ne aveva bisogno e doveva essere passato
per una seconda o anche una terza volta; ma non esisteva un recipiente più
grande che si prestasse a quell’impiego. Inoltre esso veniva continuamente
richiesto, in quanto spesso i giovani rimanevano chiusi nella fusoliera anche
per quindici ore di seguito. Quasi tutti erano così gentili da urinare prima di
entrare, e si servivano del bacile, se ne sentivano la necessità, verso le nove,
quando la luna cominciava a splendere e loro cercavano di dormire; ma alcuni
di essi, e in particolare Mangino, si destavano invariabilmente alle tre o alle
quattro del mattino e chiedevano il boccale a Carlitos. A volte ciò esasperava
Carlitos a tal punto che egli fingeva di non riuscire a trovarlo e Mangino
doveva uscire a tastoni dall’aereo nel gelo; una notte Pàez barattò i suoi servizi
contro una sigaretta in più.
A un certo momento tentarono di creare una seconda «latrina» all’ingresso
della fusoliera, ma constatarono come, quando la neve si scioglieva,
altrettanto accadesse all’urina, che filtrava all’interno dell’aereo. Ciò
nonostante, riusciva difficile a coloro i quali dormivano all’ingresso dell’aereo
chiedere il boccale durante la notte in quanto ciò significava destare tutti gli
altri per farselo passare. Algorta, una volta, si destò con la necessità di urinare
e sentì tale inibizione; decise pertanto di pisciare contro il muro di neve. La
mattina dopo, alla luce del giorno, si accorse di aver urinato sul vassoio
contenente il grasso di qualcuno dei suoi compagni. Ma non disse niente.
L’interno della fusoliera divenne un disastro di disordine e sporcizia. Non
era soltanto l’urina a insudiciarla, ma anche i pezzetti di grasso e i frammenti
di ossa lasciati sul pavimento. Dopo qualche tempo, venne decisa una nuova
norma: nessun osso doveva essere portato entro l’aereo e, chiunque vi
portasse del grasso, doveva riportarlo fuori entro lo stesso giorno. Ciò
nonostante, la neve a entrambe le estremità rimaneva sudicia, e soltanto il gelo
impediva che venissero soffocati dal fetore.
Riusciva difficile dormire. Erano talmente pigiati l’uno contro l’altro che
se uno di loro si spostava, tutti gli altri dovevano spostarsi e tutte le sottili
coperte ricavate dalle fodere dei sedili scivolavano via. Inoltre, erano
ossessionati dal comprensibile terrore di una seconda valanga. Udivano
continuamente rumori strani fuori dell’aereo… o i brontolii del vulcano
Tinguiririca, o il tuono di nuove valanghe in altri punti della montagna.
Macigni si staccavano dai pendii e rotolavano verso di loro. Una volta un
sasso colpì la fusoliera mentre stavano cercando di addormentarsi, e Inciarte e
Sabella balzarono in piedi pensando che si trattasse di un’altra valanga. Gli
altri erano sempre pronti a fare altrettanto. Methol dormiva seduto, la testa
coperta da una camicia da rugby per riscaldare l’aria che respirava. Poi,
quando si addormentava profondamente, ciondolava in avanti o pencolava da
un lato, con disagio e irritazione di chiunque gli dormisse accanto.
Furono irritazioni di questo genere a causare i soli litigi sfociati in risse
vere e proprie. Imprecavano tutti gli uni contro gli altri per aver ricevuto una
pedata in faccia, o perché era stata rubata una coperta, ma soltanto in rare
occasioni si arrivò a un vero e proprio scambio di colpi. Canessa e Vizintìn
erano i più incapaci di dominarsi, sotto questo aspetto. Più forti degli altri,
approfittavano del loro rango di partecipanti alla spedizione per dormire come
e dove volevano, sebbene stessero bene attenti a non provocare l’ostilità di
Parrado, di Fernández o degli Strauch. Una volta, Vizintìn appoggiò un piede
sulla faccia di Harley perché quest’ultimo non voleva fargli posto. Invitato a
togliere il piede, non volle saperne. Roy, allora, spinse giù il piede dalla
propria faccia e Vizintìn gli sferrò un calcio. Roy, a questo punto, si infuriò e
lo avrebbe percosso se non fosse intervenuto Daniel Fernández. In un’altra
occasione, Vizintìn prese a calci Turcatti, e Numa, che di solito aveva un
carattere angelico, travolto dall’ira, gli urlò: «Sudicio bruto, non ti rivolgerò
mai più la parola fino a quando avrò vita!» E Inciarte, prendendo le parti di
Turcatti, rincarò la dose: «Figlio di puttana, togli di mezzo quella gamba, o ti
rompo il muso!» Vizintìn disse a entrambi di andare all’inferno, e, una volta
di più, Fernández intervenne e gridò a tutti di calmarsi.
Inciarte inoltre litigò con Canessa, che aveva alzato la mano per
percuoterlo. Gli disse: «Se osi far questo, ti spezzo il collo», parole coraggiose
da parte di uno dei più deboli tra loro; ma furono sufficienti a far cambiare
idea a Canessa. Questo litigio, al pari di quasi tutti gli altri, si concluse
rapidamente come era cominciato, con nuove lacrime, abbracci, e la conferma
di ciò di cui erano tutti persuasi: che, se non fossero rimasti uniti, non
sarebbero mai riusciti a cavarsela.
Ma gli alterchi, le minacce, le imprecazioni e le lagnanze erano anche il
solo modo con il quale riuscivano a dare sfogo l’intensa frustrazione
accumulatasi in loro. Se qualcuno urtava la gamba di Echavarren, ad esempio,
egli urlava in modo del tutto sproporzionato al dolore causatogli, trovando
così, in un certo qual modo, sollievo alle torturanti sofferenze dalle quali era
tormentato continuamente. Nello stesso modo, si sentivano meglio gridando
«coglione!» a Vizintìn, dando del «figlio di puttana» a Canessa. La cosa strana
era che alcuni di loro, e in particolare Parrado, non litigavano.
Una notte, Coche Inciarte sognò che stava dormendo sul pavimento della
casa di suo zio a Buenos Aires. Mangino gli dormiva accanto e si strofinava
contro la sua gamba infetta. Nel sogno, Coche cominciò a sferrargli calci; poi
udì urli, si destò e vide Fito e Carlitos che lo scrollavano per le spalle, mentre
Mangino era in lacrime accanto a lui. Il sogno aveva finito con l’avverarsi…
soltanto che egli non si trovava nella casa di suo zio, a Buenos Aires, ma sul
relitto di un Fairchild, nel cuore delle Ande.
6

Prima di addormentarsi, la sera, conversavano. Parlavano di numerosi


argomenti, come il rugby, al quale giocavano quasi tutti, o l’agronomia, che
studiavano quasi tutti; ma, in qualche modo, finivano quasi sempre con il
parlare di cibo. Ciò che mancava nella loro dieta quotidiana, se lo
procuravano con l’ immaginazione, e, quando ognuno dei giovani aveva
esaurito il proprio menù, saccheggiava quello di qualcun altro. Echavarren, ad
esempio, possedeva una cascina ed era in grado di tener loro vere e proprie
conferenze sul formaggio, indugiando su ogni particolare della produzione e
descrivendo il sapore e la consistenza di ogni diversa qualità con tanta
passione che molti degli altri si domandavano come mai non si fossero
dedicati anche loro all’industria casearia. Per tirare in lungo la conversazione e
frugare nella memoria di ciascuno di loro, in cerca di ogni minimo particolare,
procedevano a vere e proprie classificazioni. Ogni ragazzo doveva descrivere
un piatto che veniva cucinato a casa sua, e poi un piatto che sapeva cucinare
egli stesso. In seguito veniva la specialità della novia, poi il cibo più esotico
che avesse mai gustato, quindi il suo budino preferito, poi un piatto
forestiero, poi qualcosa che si cucinava nelle campagne, e infine la cosa più
strana che avesse mai mangiato.
Nogueira, prima di morire, descrisse loro una crema, le meringhe e il
dulce de leche, una crema densa e dolce fatta con latte e zucchero e il cui
sapore era intermedio tra quello del latte condensato e quello della crème
caramel. Harley, come piatto invernale, pensò alle noccioline abbrustolite e al
dulce-de-leche rivestito di cioccolata, mentre, per l’estate, consigliò il gelato
di noccioline e dulce-de-leche. Algorta non sapeva cucinare alcun piatto, ma
descrisse ai ragazzi la paella che cucinava a volte suo padre e gli gnocci
cucinati da suo zio. Parrado promise loro le barenki preparate da sua nonna
ucraina; e, per coloro che non sapevano di che cosa si trattasse, descrisse le
piccole frittelle imbottite con formaggio, prosciutto e purea di patate. Vizintìn,
il quale passava sempre l’estate al mare, in prossimità del confine con il
Brasile, descrisse una bouillabaisse e Methol gli disse che, quando fossero
tornati a casa, doveva insegnargli a cucinarla.
Numa Turcatti stava ascoltando questa conversazione.
«Methol», prese a dire.
«Se mi chiami Methol non ti rispondo.»
Numa ci teneva alle forme, oltre a essere timido.
«Javier», si corresse. «Quando cucinerai la bouillabaisse inviterete anche
me?»
«Sicuro», disse Methol, e sorrise, poiché, sebbene Numa avesse
incominciato la frase con la seconda persona singolare, tu, si era affrettato a
ripiegare, nella seconda metà, sul più formale usted.
Methol era il loro esperto in fatto di culinaria. I cannoli la crema non
furono di certo il suo solo contributo. Aveva vissuto più a lungo degli altri e
per conseguenza mangiato di più e allorché cominciarono una elencazione di
tutti i ristoranti che conoscevano a Montevideo, ognuno con la sua specialità,
fu lui a nominarne il maggior numero. Inciarte scrisse l’elenco in un taccuino
che era appartenuto a Nicolich e, quando vi figurò l’ultimo ristorante con la
sua più oscura specialità (i cappelletti alla Caruso), ne contarono novantotto.
In seguito gareggiarono per accertare chi avrebbe saputo inventare il
miglior menù, compresi i vini, ma nel frattempo questi banchetti immaginari
avevano finito con il causare più sofferenza che piacere. Si sentivano
demoralizzati quando emergevano dai loro sogni di buongustai e dovevano
tornare alla realtà della carne cruda e del grasso. Temevano inoltre che tutti i
succhi digestivi sprigionati da quelle fantasticherie avrebbero fatto venire loro
l’ulcera. Di conseguenza pervennero a un tacito accordo in seguito al quale
ogni conversazione sui cibi avrebbe dovuto cessare. Soltanto Methol
continuò.
Ahimè, sebbene potessero consapevolmente decidere di eludere i cibi
dalla loro mente, non potevano influire su quel che sognavano. Carlitos sognò
un’arancia sospesa in aria sopra di lui. Si protendeva per afferrarla, ma non
riusciva a toccarla. Un’altra volta sognò che un disco volante era venuto a
librarsi sopra la fusoliera del Fairchild. Scale venivano sbassate e una hostess
usciva. Lui le chiedeva un frappé di latte alla fragola, ma gli veniva dato
soltanto un bicchier d’acqua sulla cui superficie galleggiava una singola
fragola. Poi partiva con il disco volante e atterrava all’aeroporto Kennedy di
New York, ove sua madre e sua nonna lo stavano aspettando. Attraversava il
vestibolo e ordinava un frappé di latte alla fragola, ma il bicchiere era vuoto.
Roy sognò di trovarsi in una panetteria ove biscotti venivano tolti dal
forno. Cercava di dire al fornaio che loro si trovavano sulle Ande, ma non
riusciva a farsi capire.
***
Tendevano soprattutto a pensare alle loro famiglie e a parlarne. Per questo
motivo a Carlitos piaceva contemplare la luna; lo consolava pensare che sua
madre e suo padre potessero guardarla contemporaneamente a lui a
Montevideo. Uno degli svantaggi del posto assegnatogli sull’aereo consisteva
nel fatto che non poteva guardar fuori da un finestrino, ma una volta, in
cambio del vaso da notte, Fito tenne in alto uno specchietto tascabile, in modo
che Carlitos potesse vedere l’immagine riflessa della sua diletta luna.
Eduardo descriveva a Fito il suo viaggio in Europa, oppure i due cugini
parlavano delle loro famiglie, ma spesso, quando ciò accadeva, udivano un
ritmico tirar su con il naso e capivano allora che Daniel Fernández aveva
cominciato a singhiozzare accanto a loro. Era troppo doloroso pensare alla
casa e per tutelare il proprio equilibrio mentale, quasi tutti i ragazzi riuscivano
a bandire simili pensieri.
C’erano ben pochi altri argomenti di cui parlare. Quasi tutti i giovani si
interessavano seriamente alla politica uruguayana, ma, dopo lo sfogo di
Nogueira, si guardavano bene dal parlare di qualsiasi cosa che potesse
infiammare passioni contrastanti. Quando, ad esempio, udirono alla radio che
l’uomo politico colorado Jorge Batlle era stato tratto in arresto per aver
criticato l’esercito, Daniel Fernández, un blanco, spiccò un salto di gioia;
Canessa e Eduardo, invece, avevano votato per Batlle nella recente elezione
presidenziale.
L’argomento meno pericoloso era quello dell’agricoltura, perché molti dei
giovani si stavano preparando a diventare agricoltori, o già lo erano, oppure le
loro famiglie possedevano una fattoria o un ranch. Páez, François e Sabella
avevano tutti proprietà in qualche zona dell’interno, mentre tanto Inciarte
quanto Echavarren dirigevano cascine.
Di quando in quando, Pedro Algorta si sentiva escluso dal gruppo perché
non si intendeva affatto di agricoltura. Essendosene resi conto, gli agricoltori
cercarono di includerlo nella loro cerchia. Progettarono un Consorzio
Regionale di Sperimentazione Agricola nel quale a Pedro sarebbero stati
affidati i conigli. Avrebbero vissuto tutti insieme in una proprietà di Carlitos a
Coronilla, in case adiacenti che sarebbero state progettate da Eduardo.
Pensavano tutti parecchio al loro Consorzio Regionale; specie Methol che,
assieme a Parrado, doveva dirigere il ristorante. Una sera, mentre giacevano
entro il Fairchild in attesa di addormentarsi, Methol si sporse verso Daniel
Feràndez e gli domandò se non gli sarebbe spiaciuto cambiar posto, in quanto
voleva chiedere a Zerbino qualcosa di personale. Fernández lo accontentò,
disturbando l’intera fila di coloro che si accingevano a dormire, e Methol,
allora, bisbigliando all’orecchio di Zerbino, gli domandò se sarebbe stato
disposto a tenere i conti del ristorante.
Il Consorzio Regionale era un progetto serio, ma il ristorante costituiva il
suo punto debole e ben presto i giorni non parlarono tanto dei metodi per
ingrassare il bestiame o per migliorare il frumento, quanto delle uova di
piviere e dei maialini di latte che sarebbero stati serviti nel ristorante. Era
difficile, inoltre, evitare l’argomento dei cibi quando parlavano dei
ricevimenti che avrebbero organizzato con le loro novias al ritorno in
Uruguay. Prevedevano di non invitare nessuno che non facesse parte del
gruppo, e, quando pensavano alle loro novias, o parlavano di loro, lo
facevano sempre con purezza e rispetto. Dio era troppo necessario perché
potessero offenderlo con pensieri e discorsi salaci. La morte era troppo vicina
perché si potesse correre il rischio di commettere sia pure il più piccolo
peccato. Inoltre, ogni impulso sessuale sembrava averli abbandonati
completamente senza alcun dubbio a causa del freddo e della loro debolezza
fisica. Alcuni erano persino un po’ timorosi che quella dieta insufficiente
potesse renderli impotenti.
Non esisteva, per conseguenza, alcuna frustrazione sessuale nel senso
fisiologico, ma tutti sentivano l’intensa necessità emotiva di pensare a una
compagna nella vita. Le lettere scritte da Nogueira e da Nicolich si erano
rivolte più le loro novias che ai loro genitori. I superstiti che avevano novias
(Daniel Fernández, Coche Inciarte, Pancho Delgado, Rafael Echavarren,
Roberto Canessa, Alvaro Mangino) pensavano alle loro ragazze intensamente
e con la più grande devozione. Pedro Algorta, come abbiamo veduto, si era
dimenticato della ragazza che lo aspettava a Santiago e non vedeva l’ora di
tornare in Uruguay e di trovarsi una novia. Zerbino non era fidanzato, ma
parlava con gli altri di una ragazza che aveva conosciuto e, per acclamazione
generale, ella divenne la sua novia.
L’estrema gravità della loro situazione non li induceva a parlare a lungo
dei più fondamentali problemi filosofici della vita e della morte. Inciarte,
Zerbino e Algorta, i tre politicamente più a sinistra tra i diciotto superstiti,
dissertarono una volta sul rapporto tra fede religiosa e responsabilità politica.
In un’altra occasione, Pedro Algorta e Fito Strauch parlarono dell’esistenza e
della natura di Dio. Pedro era stato ben preparato dai Gesuiti di Santiago ed
era in grado di esporre le teorie filosofiche di Marx e di Teilhard de Chardin.
Tanto lui quanto Fito erano scettici; nessuno dei due credeva che Dio fosse un
essere interessato alle sorti di ogni singolo individuo. Per Pedro, Dio era
l’amore che può esistere tra due esseri umani, o tra un gruppo di esseri umani.
Per conseguenza, l’amore era la sola cosa che contasse.
Carlitos cercò di partecipare a questa conversazione, aveva le sue idee sul
conto di Dio, ma Fito e Pedro gli dissero che la sua intelligenza era troppo
lenta per poter seguire i loro ragionamenti. Carlitos potè vendicarsi il giorno
dopo, quando Pedro inveì contro qualcuno che gli aveva dato un calcio in
faccia, o aveva camminato sul suo vassoio del grasso: «Oh, ma come mai dici
simili parolacce, Pedro? Credevo che l’amore fosse tutto!» Non c’era niente
da leggere, tranne uno o due album a fumetti. Nessuno voleva più giocare,
cantare o raccontare storielle. Si scherzava alquanto volgarmente sulle
emorroidi di Fito e tutti risero una volta che Coche Inciarte si alzò
protendendosi per togliere qualcosa dalla reticella dei cappelli e sfiorò con la
faccia una mano inanimata portata dentro per tenere a bada la fame durante la
notte. A volte, qualcuno scherzava a proposito del fatto che si stavano
nutrendo con carne umana. «Quando andrò dal macellaio, a Montevideo, gli
chiederò di assaggiare la carne prima di acquistarla» e, a proposito della
probabilità della loro morte, «Che aspetto avrei chiuso in un blocco di
ghiaccio?» Inoltre inventavano parole o modificavano le ultime sillabe delle
parole, specie Carlitos, oppure inventavano frasi e slogan, sia per mantenere
alto il morale, sia per esprimere una cruda verità che non sapevano indursi a
formulare con maggior chiarezza. «I perdenti restano» era il massimo che
riuscissero a dire, in luogo del concetto secondo cui i deboli sarebbero morti.
«L’uomo che si batte non muore mai», dicevano, oppure: «Abbiamo sconfitto
il gelo», e innumerevoli volte ripetevano la sola verità che sapevano essere
inoppugnabile: «A ovest c’è il Cile».
Poiché questa, in ultima analisi, era la sola cosa cui penassero e l’unico
vero argomento delle conversazioni: il modo di salvarsi. La spedizione venne
studiata e ristudiata. L’ equipaggiamento fu discusso, progettato e costruito.
L’itinerario fu dibattuto dall’intero gruppo. Nessuno dubitò mai del fatto che i
componenti della spedizione avrebbero agito in nome di tutti loro e si
sarebbero attenuti alle istruzioni della maggioranza. I più pratici pensavano al
modo di isolare i piedi; i sognatori discutevano quello che i quattro avrebbero
dovuto fare una volta arrivati in Cile. Decisero che i partecipanti alla
spedizione dovevano telefonare ai loro genitori per dire che erano tutti vivi, e
poi prendere il treno per Mendoza. Pensavano che, una volta tornati a
Montevideo, avrebbero potuto trovare un giornalista interessato alle loro
traversie, e si proponevano inoltre di scrivere un libro, titolo del quale fu
scelto da Canessa: Forse domani, perché speravano sempre che il giorno
dopo potesse accadere qualcosa di incoraggiante. Verso le nove di sera,
quando la luna era scomparsa al di là dell’orizzonte, smettevano di parlare e si
accingevano a dormire. Carlitos cominciava a recite il rosario, formulando
ogni sera le stesse intenzioni: per la madre, per suo padre, e per la pace del
mondo. In seguito, Inciarte o Fernández recitavano il secondo mistero,
Algorta, Zerbino, Harley o Delgado gli altri. Quasi tutti credevano in Dio e
sentivano la necessità di esserne protetti, covavano un grande conforto,
inoltre, pregando la Madonna, quasi che Ella avesse potuto capire meglio fino
a qual punto anelavano a tornare alle loro famiglie. A volte recitavano il
«Salve Regina», pensando a sé stessi come ai poveri esuli figli di Eva» e alla
valle nella quale si trovavano intrappolati come alla «valle di lacrime».
Continuavano a temere una nuova valanga, specie quando fuori dell’aereo
infuriava la tormenta, e una notte, mentre i venti imperversavano con
particolare violenza, recitarono il rosario affinché la Vergine li proteggesse e,
quando ebbero terminato, la tempesta era cessata.
Fito rimaneva scettico. Secondo lui, il rosario era una specie di pillola per
dormire… qualcosa che distraeva la mente dalle riflessioni sconfortanti e
faceva dormire con la sua monotonia. Gli altri sapevano come egli la pensasse
e una notte lo costrinsero a ravvedersi. Il suolo sotto la fusoliera aveva
cominciato a tremare a causa delle convulsioni interne del vulcano
Tinguiririca, ed essi furono ripresi appieno dal terrore che quei movimenti
potessero spostare le enormi quantità di neve situate più in alto di loro e
provocare una valanga dalla quale sarebbero stati sepolti per sempre. Misero a
forza il rosario nelle mani di Fito e gli dissero di pregare. Lo scettico era
spaventato quanto i credenti. Recitò il rosario chiedendo a Dio, nel modo più
specifico, di salvarli dal vulcano e, quando ebbe terminato la decina,
brontolamenti e vibrazioni cessarono.
7

Esistevano altri due motivi che causavano loro continue preoccupazioni. Il


primo consisteva nelle sigarette. Parrado, Canessa e Vizintìn erano i soli
giovani a non fumare tra i sopravvissuti. Zerbino non era stato un fumatore
prima dell’incidente, ma aveva cominciato a fumare sulla montagna. Gli altri
erano tutti fumatori accaniti e, a causa della tensione causata dalle loro
condizioni di vita, avrebbero voluto, dal primo all’ultimo, fumare molto di
più di quanto fossero abituati a fare.
Si dava il caso che in realtà le sigarette non mancassero. Javier Methol e
Pancho Abal, che erano stati entrambi alle dipendenze di una società
produttrice di tabacchi e sapevano come in Cile vi fosse scarsità di sigarette,
erano saliti a bordo del Fairchild carichi di stecche di sigarette uruguayane.
Ciò nonostante, si attenevano a un razionamento. Un pacchetto di venti
sigarette doveva durare a ognuno dei giovani per due giorni e quasi tutti
riuscivano a dominarsi quanto bastava per distribuire le dieci sigarette nel
corso della giornata. I deboli, però, e in particolare Inciarte e Delgado,
finivano il pacchetto sin dal primo giorno, e il secondo giorno venivano a
trovarsi nell’impossibilità di fumare. Le uniche loro possibilità, in una
situazione del genere, consistevano nel farsi distribuire in anticipo la razione
successa o nello scroccare sigarette ai più previdenti. In tali circostanze
Delgado ricordava, ad esempio, quanto fosse stato amico del fratello di
Sabella, oppure Inciarte invitava Algorda una cena particolarmente deliziosa
quando fossero tornati a Montevideo.
Fumavano tutti la prima sigaretta della giornata rimanendo distesi nella
fusoliera, subito dopo il risveglio. Poi, uno dei giovani cercava di persuadere
qualcuno dei compagni a uscire all’aperto sulla neve.
«Sembra una giornata splendida. Perché non esci?»
«Perché non esci tu?»
In ultimo, uno di loro si alzava, cercava le scarpe, le strofinava l’una
contro l’altra per sgelarle, le calzava, quindi scostava le valigie e gli indumenti
con cui Carlitos aveva chiuso l’ingresso la sera prima. Quando il sole
splendeva, ogni ragazzo portava con sé qualche cuscino per farlo asciugare
sul tetto della fusoliera. Anch’essi si asciugavano fuori, poiché non si
cambiavano mai d’abito né si spogliavano, ma si limitavano a coprirsi sempre
di più. Le coperte venivano ammonticchiate sulle amache, e l’ultimo a uscire
dalla cabina passeggeri doveva riordinare.
Nel corso della mattinata, i cugini si mettevano al lavoro tagliando carne
da un cadavere, mentre gli altri approfittavano della superficie indurita della
neve per andare a caccia di pezzetti scartati di grasso o di rimasugli, oppure si
piazzavano sopra il foro davanti all’aereo e cercavano di defecare.
Questa era la loro seconda, grande preoccupazione, in guanto la dieta
grazie alla quale stavano sopravvivendo, carne cruda, grasso e neve sciolta,
causava la più cronica costipazione. Giorni e giorni, o addirittura settimane e
settimane passavano senza che i più strenui sforzi producessero il benché
minimo risultato. Alcuni cominciarono a temere che i loro intestini potessero
scoppiare e ricorsero ad ogni sistema per facilitare lo svuotamento degli
intestini. Zerbino si serviva di una piccola bacchetta per estrarre le feci, e
Methol, uno dei più stitici, inghiottiva olio che spremeva dal grasso sperando
nei suoi effetti lassativi. Carlitos adoperava lo stesso olio per preparare una
minestra lassativa (quando cucinava) per sé e per Fito, il quale, affetto da
emorroidi, ne aveva particolarmente bisogno.
Era una situazione miserabile, ma non priva di un suo lato comico. I
ragazzi cominciarono a fare scommesse per stabilire chi sarebbe andato di
corpo per ultimo. Vi fu una volta in cui Moncho Sabella, accosciato sulla neve
nel tentativo di defecare, disse: «Non ci riesco, non ci riesco».
Vizintìn cominciò a ridere di lui: «Non ci riesci… non ci riesci»,
dopodiché Sabella fece un ultimo sforzo, riuscì, e lanciò il risultato, duro
come un sasso, contro il suo aguzzino.
Javier Methol fu uno degli ultimi. Un giorno dopo l’altro, sedeva su un
cuscino contando il suo denaro, in attesa che gli sforzi venissero ricompensati;
e, quando infine riuscì, annunciò la vittoria all’intero gruppo, che applaudì.
Quella notte, quando si lagnò dicendo di non sentirsi bene, tutti lo tacitarono
urlando. «Chiudi il becco», gli dissero. «L’hai fatta, e dunque taci.»
La gara ebbe termine. Dopo che si trovavano sulla montagna da ventotto
giorni,Pàez riuscì a defecare; Delgado ci riuscì dopo trentadue giorni; e
l’ultimo, Bobby François, dopo trentaquattro.
***
Ironico a dirsi, questa costipazione acuta fu seguita da una epidemia di
diarrea. Secondo la loro diagnosi, ciò era dovuto al fatto che avevano
mangiato troppo grasso, mentre poté benissimo essere la conseguenza di una
dieta inadeguata. Algorta non soffrì mai di diarrea e attribuì la propria
immunità alle cartilagini di cui si nutriva, mentre quasi tutti gli altri le
rifiutavano.
Fu una nuova e penosa aggiunta alle loro afflizioni. Una notte Canessa fu
preso all’improvviso dagli spasimi, uscì dall’aereo e trovò un’altra mezza
dozzina di sagome accovacciate nel chiaro di luna. Quella scena lo
demoralizzò particolarmente (gli parve che fosse la fine di tutto) e in seguito,
sebbene continuasse a soffrire di diarrea, non uscì più dall’aereo, ma defecò
su una coperta posta sopra una camicia da rugby, entro la fusoliera. Questo
infuriò gli altri, ma Canessa era ostinato e cocciuto, e non riuscirono a far
niente al riguardo Carlitos si adirò più di tutti gli altri perché una volta,
avendo preso a caso una camicia per chiudere l’ingresso, la trovò coperta
dagli escrementi di Canessa.
L’attacco più violento di diarrea colpì Sabella. Continuò per alcuni giorni e
lui andò indebolendosi sempre più finché, la notte, cominciò a delirare. Gli
altri si allarmarono. Canessa gli consigliò di non mangiare tanto… e
soprattutto di non mangiare grasso. Sabella, però, credeva nella coerenza.
Aveva sempre fatto dieci passi al giorno come ginnastica ed era persuaso che
un passo in meno sarebbe stato l’inizio di un declino irreversibile. Per lo
stesso motivo, riteneva pericoloso privarsi del cibo; ma i cugini, quando
videro che continuava a mangiare, lo privarono della razione e lo costrinsero
a rimanere chiuso nella fusoliera.
Il giorno dopo, Sabella uscì per defecare e rientrò con la notizia che la sua
diarrea era guarita; ma non aveva tenuto conto di Zerbino, il quale, come
medico e come investigato, aveva esaminato le prove della «guarigione».
Denunciò Sabella agli altri, che rimandarono il bugiardo nella fusoliera senza
la sua razione di grasso.
La cura, per quanto egli si fosse risentito, risultò efficace. Sabella guarì
effettivamente dalla diarrea e in seguito recuperò in parte le forze.
8

Man mano che il 15 novembre andava avvicinandosi, l’atmosfera di


entusiasmo e di aspettativa si intensificava nell’aereo. Vi furono ripetute
discussioni per stabilire chi sarebbe stato il primo a telefonare ai genitori dei
ragazzi e per decidere fino a qual punto dovessero essere noncuranti e blasés
in merito alla salvezza. Parlarono a lungo, inoltre, dei pasticci di carne che
avrebbero acquistato a Mendoza durante il viaggio di ritorno. Da Mendoza
avrebbero preso il torpedone per Buenos Aires, attraversando quindi in
battello il Rio de la Plata. Man mano che giungevano mentalmente ad ogni
tappa del viaggio, riflettevano su quel che avrebbero mangiato. A Buenos
Aires, lo sapevano, si trovavano alcuni dei migliori ristoranti del mondo;
speravano pertanto che, una volta sul battello, i loro stomachi fossero ormai
abbastanza sazi per consentire a tutti di smettere di mangiare e di acquistare
regali per le famiglie.
Quanto ai componenti della spedizione, essi erano assai più preoccupati
dai problemi pratici che dovevano affrontare… in particolare quello della
protezione contro il freddo. Ognuno di loro mise insieme tre paia di calzoni,
una camicia sportiva, due maglioni e un cappotto. Inoltre avevano tre delle
migliori paia di occhiali scuri. Quelli di Vizintìn erano appartenuti al pilota;
egli portava inoltre il casco da volo del pilota. Canessa aveva ricavato zaini da
paia di mutande, legando cinghie di nylon all’estremità di ciascuna gamba,
passandosele sulle spalle e infilandole attraverso i fori della cinghia dei
calzoni. Vizintìn dalle fodere dei sedili ricavò sei paia di guanti.
In base alle esperienze delle prime spedizioni sapevano che la difficoltà
più grave sarebbe consistita nel difendere i piedi dal freddo. Disponevano di
scarpe da rugby e Vizintìn era riuscito a sottrarre al riluttante Harley le robuste
scarpe regalate a Nicolich dalla sua novia. Ma non avevano calze pesanti.
Escogitarono allora l’espediente di fornire ai loro piedi uno strato
supplementare di grasso e di pelle ricavato dai cadaveri che giacevano sotto la
neve. Scoprirono che praticando due incisioni, l’una al centro del gomito,
l’altra al centro dell’avambraccio, staccando l’epidermide assieme al suo strato
di grasso sottocutaneo e cucendo l’estremità inferiore, venivano ad avere un
paio di calzini rudimentali, nei quali la pelle morta del gomito veniva a
sovrapporsi alla pelle viva del calcagno. (Si paragoni tale espediente a quello
del loro comune antenato, il gaucho sudamericano. «Il suo stivale (il bota de
potro) consisteva nella pelle staccata dalla gamba posteriore di un puledro e
calzata finché era ancora umida, per cui essa si asciugava modellandosi sulla
giusta forma, la parte superiore formando il gambale, il garretto
sovrapponendosi al calcagno e il resto coprendo il piede, con un’apertura per
l’alluce.» George Pendle, The Land and People of Argentina, New York,
Macmillan Company, 1957)
Vi fu un solo contrattempo mentre la data della partenza andava
avvicinandosi: qualcuno, camminando, calpestò una gamba di Turcatti, e il
livido che ne conseguì cominciò a infettarsi. Numa, tuttavia, non attribuì
alcuna importanza alla cosa, e dapprima nessuno si preoccupò seriamente.
Tutti pensavano, piuttosto, all’itinerario che i componenti della spedizione
dovevano seguire, poiché, nel valutare la loro posizione per conseguenza la
direzione cui attenersi, si trovavano fronte a due dati di fatto contrastanti.
Sapevano, dalle pale del pilota morente, che avevano superato Curicó, che
Curicó si trovava nel Cile, che il Cile si stendeva a ovest. Ma sapevano altresì
che l’acqua scorre sempre verso il mare; e la bussola dell’aereo, rimasta
intatta, indicava come la valle nella quale si trovavano fosse orientata a est.
Una sola soluzione sembrava soddisfare tutti i criteri: che, cioè, la valle si
incurvasse intorno alle montagne verso nord e cambiasse poi orientamento
per correre verso ovest. In base a tale ipotesi, i partecipanti alla spedizione si
proposero di discendere la valle, anche se ciò avrebbe significato allontanarsi
dal Cile. Le montagne alle loro spalle erano talmente immense che sarebbe
stato impossibile scalarle. Per andare a ovest, potevano soltanto dirigersi a est.
***
I giovani si destarono presto la mattina del 15 novembre aiutarono i
componenti della spedizione a indossare l’equipaggiamento. Fuori nevicava,
ma alle sette i quattro erano a partiti. Parrado aveva preso una delle scarpette
rosse comprate per il nipotino, lasciando l’altra appesa nella fusoliera dicendo
ai compagni che sarebbe tornato a prenderla. Tornò prima di quanto
credessero. La nevicata divenne più fitta, e, dopo tre ore, i ragazzi tornarono
indietro.
Seguirono due giorni del peggiore maltempo che avessero mai veduto,
con vento violentissimo e una tormenta imperversante intorno al Fairchild.
Pedro Algorta, il quale aveva detto loro che l’estate cominciava il giorno 15,
divenne per qualche tempo il capro espiatorio della delusione e dell’ostilità
generale. E in quei giorni in più di attesa, la gamba di Turcatti peggiorò.
C’erano ora due foruncoli delle dimensioni uova di gallina, e Canessa li incise
entrambi per eliminare il pus. Era doloroso all’estremo per Numa camminare
sulla gamba infetta, eppure, quando Canessa gli disse che non era più in grado
di prendere parte alla spedizione, egli si adirò.
Insistette nel dire che stava abbastanza bene, ma appariva chiaro a tutti che
avrebbe soltanto ostacolato gli altri, ed egli fu costretto a rassegnarsi alla
decisione della maggioranza. Il mattino di venerdì, 17 novembre, dopo cinque
settimane trascorse sulla montagna, quando si destarono, il cielo era di un
limpido azzurro. Nulla poteva più fermare ormai la spedizione ridotta di
numero. I giovani riempirono gli zaini con fegato e carne (conficcati entro
calzettoni da rugby), con una bottiglia d’acqua, con fodere di sedili, e con le
coperte da viaggio portate sull’aereo dalla signora Parrado.
Gli altri uscirono tutti dalla fusoliera per vederli partire e quando Parrado,
Canessa e Vizintìn furono scomparsi al di là del primo orizzonte,
cominciarono a fare scommesse sulla data entro la quale avrebbero raggiunto
la civiltà. Erano sicuri che si sarebbero trovati tutti a Montevideo entro tre
settimane perché avevano progettato in ogni minimo particolare la festa che
avrebbero dato per il compleanno di Parrado il 9 dicembre (compresi i piatti
che ognuno di loro avrebbe portato), ma presumevano che i componenti della
spedizione sarebbero arrivati nel Cile molto prima. Secondo Algorta, il
martedì della settimana successiva; secondo Turcatti e François, mercoledì.
Sei di loro scommisero su giovedì; da Mangino, secondo il quale la spedizione
avrebbe trovato soccorsi in mattinata, a Carlitos, che riteneva sarebbe giunta a
destinazione alle tre e mezzo. Harley, Zerbino e Fito Strauch scommisero su
venerdì; Echavarren e Methol su sabato; e Moncho Sabella, il più pessimista,
ritenne che i loro compagni avrebbero raggiunto la civiltà dopo una settimana,
alle dieci e venti di domenica.
9

Canessa precedeva gli altri trainando, a mo’ di slitta, la metà di una valigia di
samsonite sulla quale si trovavano ammonticchiati i quattro calzettoni da
rugby pieni di carne, la bottiglia d’acqua e i cuscini che avrebbero adoperato
come racchette da neve non appena il sole avesse ammorbidito la dura
superficie dei nevai. Veniva poi Vizintìn, carico come un mulo da soma con
tutte le coperte, mentre l’ultimo era Parrado.
Progredirono rapidamente verso nordest. Stavano scendendo il pendio e
le loro scarpe da rugby mordevano saldamente la neve gelata. Man mano che
avanzavano, Canessa si portò più avanti e, quando camminavano da due ore,
Parrado e Vizintìn lo udirono gridare e poi lo videro far loro cenno. Si era
fermato sulla sommità di una cresta di neve e, mentre lo raggiungevano, egli
disse: «Ho una sorpresa per voi»
«Che cosa?» domandò Parrado.
«La coda.»
Parrado e Vizintìn giunsero sulla sommità della duna di neve e là,
effettivamente, cento metri più avanti, si trovava la coda del Fairchild. Aveva
perduto entrambi i timoni ma cono vero e proprio rimaneva intatto. A destare
immediatamente il loro interesse, furono le valigie che scorsero sparpagliate
tutto attorno. Si precipitarono accanto ad esse, le aprirono e frugarono tra il
loro contenuto. Fu come trovare un tesoro: c’erano blue-jeans, maglioni,
calzini, e l’attrezzatura da sci di Panchito Abal. Nella valigia di Abal trovarono
inoltre una scatola di cioccolatini; ne mangiarono immediatamente quattro per
ciascuno, ma poi decisero di razionare gli altri.
I tre giovani si tolsero poi di dosso i sudici indumenti che issavano,
sostituendoli con i capi più caldi che riuscirono a trovare. Canessa e Parrado
si tolsero le calze fatte di pelle umana e le gettarono via. Disponevano adesso
di buone calze di lana in abbondanza e ne presero tre paia per ciascuno.
Vizintìn ne prese quattro per imbottire le scarpe di Nicolich, che gli stavano
troppo larghe. Prese inoltre il passamontagna che faceva parte dell’attrezzatura
da sci di Abal, mentre Parrado si impadroniva degli scarponi.
Subito dopo, entrarono nella coda dell’aereo e trovarono nella cucina un
pacco di zucchero e tre pasticci di carne di Mendoza; questi ultimi li
mangiarono subito; lo zucchero lo tennero per dopo. Dietro il cucinino si
trovava un vasto e buio vano bagagli nel quale c’erano altre valigie. Le
aprirono tutte, togliendone gli indumenti e sparpagliandoli intorno a sé sul
pavimento. In una valigia trovarono una bottiglia di rum e in molte altre
stecche di sigarette.
Cercarono le batterie dell’aereo che, secondo il meccanico Roque, si
trovavano nella sezione di coda e le scoprirono dopo aver aperto un piccolo
portello esterno. Trovarono inoltre altre casse di Coca Cola e album a fumetti,
con cui accesero un fuoco. Canessa cominciò a cuocere parte della carne che
avevano portato con sé, mentre Vizintìn e Parrado continuavano a frugare
alFintemo della coda; vi trovarono alcuni panini imbottiti chiusi in involucri
di plastica; erano muffiti, ma tolsero l’involucro e ricuperarono ciò che
sembrava edibile. Poi mangiarono la carne che avevano cucinato e conclusero
il pasto con un cucchiaio di zucchero mescolato con pasta dentifricia alla
clorofilla sciolta in due dita di rum. Mai in vita loro un pudding aveva avuto
un sapore più delizioso.
Il sole scomparve dietro le montagne e cominciò a far freddo. Vizintìn e
Parrado portarono dentro tutti i capi di vestiario sparsi intorno alla coda e li
distesero sul pavimento del vano bagagli, mentre Canessa individuava i fili
collegati alle batterie e se ne serviva per accendere una lampadina trovata nella
cucina. Li collegò allo zoccolo, ma la lampadina si fulminò. Provò allora con
un’altra e quest’ultima si accese. Entrarono allora tutti e tre nel vano bagagli,
chiusero ermeticamente la porta con valigie e indumenti e si distesero sul
pavimento. Grazie alla luce, poterono leggere i fumetti prima di
addormentarsi. Dopo la mancanza di spazio nella fusoliera, lì si stava
deliziosamente caldi e comodi. Alle nove, Canessa staccò la lampadina.
Avevano mangiato bene, ed ora dormirono profondamente.
La mattina dopo nevicava un po’, ma essi caricarono la loro slitta
improvvisata, riempirono gli zaini e continuarono a scendere la valle verso
nordest. Vedevano una montagna enorme alla loro sinistra e calcolarono che
sarebbero potuti occorrere tre giorni per aggirarla sin dove la valle avrebbe
piegato a ovest.
Smise di nevicare, il cielo si rasserenò e, verso le undici del mattino,
cominciò a far molto caldo. Il sole picchiava loro sulla schiena e la neve lo
rifletteva sulla faccia dei giovani. Di tanto in tanto essi sostavano per togliersi
un paio di calzoni o un maglione; ma, per far questo, occorrevano molte delle
loro energie, e gli indumenti erano tanto fastidiosi a trasportarsi quanto a
indossarli.
Verso mezzogiorno, giunsero su un affioramento di rocce sulle quali
scorreva un rivoletto d’acqua. Era quasi un ruscello e i tre decisero di fermarsi
lì e di ripararsi dal sole costruendo una tenda con le coperte e con le aste
metalliche che avevano con sé. Mangiarono parte della carne e Vizintìn andò a
bere un po’ dell’acqua corrente, ma sembrava essere salmastra e gli altri due
preferirono sciogliere la neve.
Mentre giacevano all’ombra, contemplarono la montagna enorme davanti
a loro. Le sue dimensioni sfidavano ogni calcolo per stabilire quanto distasse
dal punto in cui si trovavano loro. Man mano che la luce cambiava, sembrava
allontanarsi sempre più e le ombre remote ove la valle avrebbe potuto piegare
a ovest parevano ancor più distanti. Quanto più Vanessa studiava lo scenario
dinanzi a loro, tanto più diventava scettico riguardo la strategia prescelta. Da
quel che poteva vedere, la valle continuava a scendere verso est; per
conseguenza, ogni passo che facevano, pensò lui, li conduceva ancor più
addentro nelle Ande. Ma quel pomeriggio non disse nulla di ciò agli altri due.
Erano stanchi e il sole ardeva; tuttavia, non appena li ebbe abbandonati
per calare a ovest dietro le montagne, la temperatura precipitò fino allo zero e
la luce cominciò a svanire. Per conseguenza decisero di trascorrere la notte lì
dove si trovavano. Scavarono una buca nella neve per avere un minimo di
protezione e, una volta distesisi in essa, si coprirono con le coperte che
avevano portato con sé.
Era una notte meravigliosa, con il cielo limpido. Grazie all’altezza,
potevano vedere milioni e milioni di stelle luminose. L’aria rimaneva del tutto
immobile; non soffiava assolutamente alcun vento. La loro situazione sarebbe
potuta essere persino invidiabile se non avesse fatto tanto freddo, poiché, man
mano che la notte passava, la temperatura continuò a scendere sempre più e i
tre componenti della spedizione cominciarono a sentirsi gelare. Vestiti e
coperte sembravano non riscaldarli quasi affatto. In preda alla disperazione, si
distesero uno sopra l’altro: Vizintìn sotto, Parrado in mezzo e Canessa in cima.
In questo modo riuscirono a scaldarsi a vicenda con il tepore dei propri corpi,
ma dormirono assai poco.
Canessa e Parrado erano entrambi desti quando il sole spuntò la mattina
dopo. «È impossibile», disse Canessa. «Non riusciremo a sopravvivere a un
altra notte come questa.»
Parrado si alzò e guardò a nordest. «Dobbiamo proseguire», disse. «Gli
altri contano su di noi.»
«Non serviremo loro a nulla giacendo morti sulla neve.»
«Io proseguo.»
«Guarda», disse Canessa, additando la montagna. «Non c’e nessun varco.
La valle non piega a est. Non stiamo facendo altro che addentrarci sempre più
nelle Ande.»
«Non si può mai sapere. Se proseguiamo…»
«Non illuderti.»
Parrado volse di nuovo lo sguardo a nordest e vide ben poco che potesse
incoraggiarlo. «Allora che cosa proponi di fare?» domandò.
«Tornare alla coda dell’aereo», rispose Canessa. «Togliere le batterie e
portarle su al Fairchild. Roque ha detto che con le batterie avremmo potuto
far funzionare la radio.»
Parrado parve dubbioso. Si rivolse a Vizintìn, il quale, nel frattempo, si
era svegliato. «Tu che cosa ne pensi, Tintin?»
«Non lo so. Farò qualsiasi cosa deciderete voi due.»
«Ma, secondo te, che cosa dovremmo fare? Dovremmo proseguire?»
«Forse.»
«O dovremmo tentare di far funzionare la radio?»
«Sì, forse dovremmo far questo.»
«Ma quale delle due cose?»
«Mi è indifferente.»
Parrado si infuriò per l’indecisione di Vizintìn, e cercò di far sì che si
schierasse o da un lato o dall’altro. In ultimo Vizintìn si schierò con Canessa,
quando quest’ultimo osservò: «Se per poco non siamo morti di freddo in una
notte serena, pensate a quello che accadrebbe con la tormenta. Sarebbe un
suicidio».
Tornarono sui loro passi verso la coda del velivolo, e, sebbene fosse
notevolmente più difficoltoso risalire la valle di quanto lo fosse stato
discenderla, raggiunsero la meta nelle prime ore del pomeriggio e si
lasciarono cadere sugli immensi agi del pavimento del vano bagagli cosparso
di indumenti. Era un rifugio straordinariamente comodo, li proteggeva dal
sole durante il giorno e dal gelo la notte, ed essi furono tentati di rimanervi nei
due giorni successivi, ma le lo serve di carne andavano riducendosi, per cui
decisero di ire al Fairchild. Canessa e Vizintìn salirono, attraverso il piccolo
portello, nel vano della sezione di coda dove si trovavano le batterie,
staccarono i collegamenti e le consegnarono a Parrado. Vizintìn scoprì inoltre
che i grossi tubi dell’impianto di riscaldamento dell’aereo erano fasciati da un
materiale isolante largo circa sessanta centimetri e spesso oltre un centimetro;
si trattava di una sostanza plastica e di fibre artificiali. Ne ritagliò alcune
strisce, pensando che sarebbero servite come efficace rivestimento interno del
suo giubbotto.
Le batterie vennero caricate sulla slitta e i tre giovani tentarono di trainarla,
ma il peso era tale che non riuscirono a smuoverla. Poiché alcuni dei pendii
che dovevano risalire avevano inclinazioni anche di quarantacinque gradi,
divenne immediatamente manifesto che sarebbe stato impossibile portare le
batterie fino all’aereo. I giovani, però, non perdettero di coraggio, in quanto
Canessa assicurò loro che non sarebbe stato difficile smontare la radio dalla
cabina di pilotaggio e portarla giù fino alla coda del Fairchild.
Al posto delle batterie, allora, Canessa e Vizintìn ammonticchiarono sulla
slitta e pigiarono dentro gli zaini indumenti caldi per i loro compagni e trenta
stecche di sigarette, mentre Parrado tornava nel cucinino e scriveva sopra
l’acquaio, con vernice per le unghie: «Salite. Diciotto persone ancora vive».
Ripeté questo messaggio due volte, su altre parti della coda, nei nitidi caratteri
a stampatello che aveva imparato tracciare quando apponeva le etichette alle
casse di dadi e bulloni nell’azienda di suo padre. Canessa entrò nella cui per
prendere la cassetta dei medicinali che vi avevano trovato. Conteneva molti
tipi diversi di farmaci, compreso il cortisone, che avrebbe potuto alleviare
l’asma della quale soffrivano sia Sabella sia Zerbino.
Quando i due giovani uscirono, videro che Vizintìn, salendo sulla slitta,
l’aveva sfondata. Questo mandò Parrado su tutte le furie; egli se la prese con
Vizintìn, imprecando contro la sua maldestra goffaggine, ma Canessa riuscì a
riparare il danno e infine partirono arrancando con le scarpe da neve sui
soffici e ripidi pendii verso la fusoliera.
10

Il morale dei ragazzi rimasti nell’aereo si era risollevato durante la loro


assenza. Bisognava tener conto, anzitutto, dell’immensa sensazione di sollievo
per il fatto che finalmente avevano tentato in qualche modo di salvarsi. Erano
tutti certissimi che la spedizione sarebbe riuscita a fare accorrere soccorsi.
Inoltre, adesso che i tre erano partiti, si stava più comodi nella fusoliera. C’era
maggiore spazio per dormire e, senza Canessa e Vizintìn, la tensione nervosa
sembrava diminuita.
Alcuni di loro, però, sentivano la mancanza dei componenti della
spedizione. Mangino, ad esempio, aveva perduto la protezione di Canessa.
D’altro canto, adesso ne sentiva meno la necessità, perché era diventato meno
viziato. Si mostrava un po’ più stoico per quanto concerneva la gamba
fratturata e, per conseguenza, era un po’ meno scomodo dormirgli accanto.
Methol, il suo compagno di giaciglio (il quale gli aveva detto una volta che se
fosse stato suo padre lo avrebbe picchiato, tanto Mangino lo esasperava),
divenne ora il confidente dei rimorsi di lui. «Ero così viziato», gli disse il
ragazzo. «Trovarsi quassù aiuta a capire quanto eravamo spaventosi un
tempo. Io solevo prendere a calci mio fratello se mi infastidiva, oppure gettar
via la minestra quando non era esattamente come la volevo io. Potessi averla
adesso, quella minestra!» Sentivano tutti di aver fatto un’esperienza
purificatrice. Delgado, Turcatti, Zerbino e Fito Strauch sostennero una volta,
nel corso di una discussione, che stavano passando attraverso una sorta di
purgatorio. Pensarono ai quaranta giorni trascorsi dal Cristo nel deserto e,
poiché erano ormai passati quaranta giorni dalla caduta dell’aereo, ebbero la
certezza che il loro cimento stesse ormai per finire; poi, quasi a dimostrare che
le sofferenze li avevano effettivamente resi migliori, fecero come non mai del
loro meglio per non litigare e per essere gentili con tutti i compagni.
Senza dubbio, i loro litigi non rivestivano alcuna gravità in confronto al
saldo legame dello scopo comune. Soprattutto quando pregavano insieme, la
sera, sentivano una solidarietà quasi mistica, non soltanto tra loro, ma anche
con Dio. Lo avevano invocato nella necessità, e ora Lo sentivano vicino. ami
avevano finito con il considerare la valanga una sorta miracolo dal quale era
stato assicurato loro più cibo.
Questa unione non si estendeva soltanto a Dio, ma anche ì amici periti, i
corpi dei quali essi stavano mangiando per sopravvivere. Le loro anime erano
state chiamate in Cielo, avendo essi assolto il proprio compito sulla terra, ma
tutti coloro, che continuavano a vivere ben volentieri avrebbero preso il loro
posto. Nicolich prima della valanga, e Algorta mentre soffocava sotto la neve,
erano stati entrambi disposti a morire e a lasciare il proprio corpo agli amici.
La ragione di ciò stava inoltre nel fatto, come disse Turcatti agli altri tre
durante la conversazione sul cimento del Cristo nel deserto, che la loro
situazione sulla montagna era a tal punto tremenda da far ritenere preferibile
qualsiasi cosa… anche la morte.
Il morale di Numa Turcatti continuò a crollare. Egli era ancora
amaramente deluso perché non gli avevano consentito di partecipare alla
spedizione, e rivolgeva la propria ira non soltanto contro gli altri, ma anche
contro sé stesso. Disprezzava la debolezza dalla quale era affetto e parve
abbandonare il proprio corpo quasi volesse punirlo perché lo aveva tradito.
La sua razione, adesso che non faceva più parte gli eletti, non era più
abbondante di quella d’ogni altro, eppure non riusciva ugualmente a
terminarla. Aveva sempre provato ripugnante la carne cruda e si era sforzato
di inghiottirla soltanto per irrobustirsi in vista della spedizione. Una volta
cessata questa necessità, la sua ripugnanza tornò e quanto egli era stato
disposto a fare nell’interesse di tutti, non fu più disposto a farlo per sé stesso.
Di conseguenza, rifiutò la carne e, quando gli Strauch lo costrinsero a
mangiarla, la nascose.
Il risultato fu, naturalmente, che si indebolì e fu meno in rado di resistere
alla setticemia nella gamba. L’incisione praticata da Canessa aveva eliminato il
pus, ma l’infezione si era estesa ed egli si avvalse di ciò come di un pretesto
per fare sempre e sempre meno a favore del gruppo o di sé stesso. Si limitava
a sciogliere un po’ di neve per sé e chiedeva agli altri di fare cose che sarebbe
stato capacissimo di sbrigare egli tesso, come ad esempio di passargli una
coperta. La debolezza mentale precedette in lui la debilitazione fisica. Una
volta chiese a Fito di aiutarlo ad alzarsi. Fito rifiutò, dicendogli che poteva
benissimo mettersi in piedi per suo conto, e, manco a dirlo, pochi momenti
dopo Turcatti si alzò da terra e rientrò zoppicante nella fusoliera.
Non che ce l’avesse con il gruppo (ce l’aveva soltanto con sé stesso), ma
se la prendeva con gli altri, come per dire: avete perfettamente ragione, sono
debole e inutile, ma aspettate e vedrete quanto debole e inutile posso
diventare.
***
Rafael Echavarren era tutto l’opposto. Il suo spirito rimaneva forte, ma le
afflizioni del corpo a poco a poco dimostrarono di essere ancora più forti. La
gamba ferita era adesso nera e gialla a causa della cancrena e del pus e,
siccome egli non poteva più uscire dalla fusoliera, respirava soltanto l’umida
aria all’interno, che gli nuoceva ai polmoni e gli causava difficoltà di
respirazione.
Sull’amaca faceva freddo, e Fernández provò a metterlo sul pavimento
durante la notte, ma il dolore causato dal movimento fu eccessivo e
Echavarren preferì tornare nell’amaca. Poi, una sera, cominciò a delirare.
«Chi vuole venire con me all’emporio», domandò, «a comprare un po’ di
pane e di Coca Cola?» Più tardi urlò: «Papà, papà, entra! Siamo qui».
Páez gli si avvicinò e disse: «Potrai protestare quanto vorrai dopo, ma ora
devi pregare assieme a me: ’Ave Maria, piena di grazia, il Signore è teco’…»
Gli occhi fissi e sbarrati di Echavarren si volsero verso Páez e, adagio, le
labbra di lui cominciarono a ripetere le parole della preghiera. In quei brevi
momenti, il tempo occorrente per recitare un’Ave Maria e un Padre Nostro,
egli fu lucido. Poi Páez andò a coricarsi di fronte a Inciarte ed Echavarren
ricominciò con il suo farneticare incoerente.
«Chi vuole venire con me all’emporio?»
«Io no, grazie», gli risposero gridando, oppure: «Aspettiamo fino a
domani». Tutti gli orrori della loro situazione li avevano ormai incalliti. Ben
presto, però, il delirio di lui cessò, gli altri udirono soltanto il suono rauco del
suo respiro faticoso. Più tardi il ritmo del respiro si accelerò, poi cessò
completamente. Zerbino e Páez balzarono in piedi e gli premettero il torace
tentando di rianimarlo. Páez continuò per mezz’ora la respirazione artificiale,
ma, dopo pochi minuti divenne manifesto a tutti loro che Rafael Echavarren
era morto.
La morte del compagno, inevitabilmente, li demoralizzò; ricordò a ognuno
di loro che lo aspettava la stessa sorte. Fito giaceva immobile, con il sangue
che gli colava dalle emorroidi, e si sentiva ansioso, spaventato e solo come
non mai; eppure, proprio perché intuiva la vicinanza della morte, si sentì
vicino a Dio e lo pregò per la salvezza della propria anima e per il benessere
dei compagni.
A risollevargli il morale, la mattina dopo (come accadde a tutti i
quattordici rimasti vivi nella fusoliera), fu il pensiero che in quello stesso
momento i componenti della spedizione potevano aver trovato soccorsi; e che,
prima della notte dell’indomani, avrebbero udito e poi veduto una squadriglia
di elicotteri arrivare in loro aiuto. Verso sera, invece, Fito udì soltanto il grido
del primo dei suoi compagni che scorse le sagome di ritorno; e quando
anch’egli le osservò, mentre arrancavano e incespicavano su per il pendio,
tutta la sua pia rassegnazione si tramutò in rabbia. Dio aveva destato le loro
speranze soltanto per distruggerle; il ritorno dei tre compagni costituiva la
prova del fatto che si trovavano in trappola. Avrebbe voluto urlare come un
pazzo e correre lontano sulla neve; invece rimase in piedi a guardare assieme
agli altri. La faccia di ognuno di loro era flaccida e stravolta da un’amara
delusione e da una disperazione profonda.
Canessa veniva avanti per primo, seguito da Parrado e da Vizintìn.
Quando fu giunto a portata d’orecchio, udirono la sua voce penetrante
gridare: «Ehi, ragazzi, abbiamo trotto la coda… tutte le valigie… vestiti… e
sigarette». E, allorché ebbe raggiunto l’aereo, tutti gli si raggrupparono attorno
e vennero a sapere quanto era accaduto. «Non ce l’avremmo mai fatta, da
quella parte», disse Canessa. «La valle non piega, continua verso est. Ma
abbiamo trovato la coda del Fairchild e le batterie. Ora dobbiamo soltanto
smontare la radio e portarla laggiù.»
Di fronte a questo energico ottimismo il loro morale si risollevò. Si
abbracciarono e poi corsero intorno alla slitta per prendere mutande, maglioni
e calzoni, mentre Pancho Delgado ritirava le sigarette.
Parte Sesta
1

Lo stesso giorno in cui la prima spedizione si allontanava dal Fairchild,


Madelón Rodriguez e Estela Pérez tornarono in aereo nel Cile. Le
accompagnavano Ricardo Echavarren, il padre di Rafael, Juan Manuel Pérez,
il fratello di Marcelo, e Raul Rodriguez Escalada, il più esperto pilota della
Pluna, la linea aerea nazionale uruguayana, un cugino di Madelón. Anche i
due fratelli Strauch avevano avuto l’intenzione di partecipare a questa
spedizione, ma soffrivano di pressione alta e i medici li consigliarono di
restare a casa.
Madelón si era irritata a causa dello scetticismo di Surraco per quanto
concerneva Gérard Croiset figlio, e intendeva dimostrare che egli si sbagliava.
Tanto lei quanto Estela Pérez continuavano ad essere fiduciose come lo erano
state trentasei giorni prima, subito dopo la scomparsa dell’aereo, ed erano
sempre persuase che i loro figli fossero ancora vivi. Gli uomini che le
accompagnavano non credevano con altrettanto ottimismo di poter trovare
superstiti, ma ritenevano importante stabilire che cosa fosse accaduto
esattamente al Fairchild.
Il 18 novembre giunsero a Talca e cominciarono a esplorare la zona
intorno al Descabezado Grande. Anzitutto noleggiarono un aereo e la
sorvolarono varie volte. Dall’aria videro, accanto alla Laguna del Alto, una
località che corrispondeva quasi esattamente ai disegni inviati loro da Croiset.
Tornarono allora con l’aereo a Talca, assunsero guide, noleggiarono cavalli e
ripartirono per esplorare più da vicino quella zona. I cavalli erano
particolarmente addestrati a percorrere gli stretti sentieri di montagna, ai cui
lati scendevano dirupi, ma gli uruguayani dovettero bendarsi gli occhi, per
paura di essere presi dalla vertigine. Mentre si avvicinavano alla meta,
scorsero qualcos’altro che corrispondeva alla visione di Croiset, un cartello
con la scritta «Pericolo C’erano inoltre il lago e la montagna senza la vetta.
Sembrava che finalmente fossero vicini al ritrovamento del Fairchild, eppure
non sentivano alcuna esultanza poiché, sebbene nella valle crescesse
vegetazione con la quale esseri umani avrebbero potuto sopravvivere, essa si
trovava ad appena un giorno di cammino da Talca.
Non scoprirono niente e tornarono al villaggio, ove uno scalatore olandese
disse loro: «Potrete trovare l’aereo, ma sarà al centro di uno stormo di
avvoltoi». Quasi tutte le persone con cui parlarono la pensavano nello stesso
modo.
César Charlone, l’incaricato d’affari uruguayano a Santiago, sembrava
credere assai poco nel loro tentativo. Quando il gruppo tornò a Santiago, il 25
novembre, egli disse loro di sentirsi troppo imbarazzato per chiedere al
governo cileno di esentarli dall’obbligo di cambiare dieci dollari americani al
giorno in valuta cilena allo sfavorevole tasso ufficiale. Madelón Rodriguez e
Estela Pérez andarono su tutte le furie. Prima della partenza da Montevideo si
erano recate al Ministero degli Esteri uruguayano proprio per accertarsi che
Charlone ricevesse istruzioni di chiedere di esentarli.
La somma in questione ammontava a cinquecentocinquanta dollari e non
avrebbe mandato, in rovina le famiglie interessate, ma le due animose donne
si adirarono ugualmente. Estela Pérez, appartenente a un’orgogliosa famiglia
blanco (era cugina del leader blanco Wilson Ferreira), non intendeva lasciarsi
deludere da un colorado. Insieme con Madelón, si recò direttamente al
Ministero degli Esteri cileno e là le due signore furono ricevute dal Ministro
degli Esteri in persona, Clodomiro Almeyda, il quale le ascoltò e poi scrisse
immediatamente una lettera che le esentava dal cambio.
Una volta ottenuta questa esenzione, i cinque potevano tornare a
Montevideo e così fecero il 25 novembre. Pàez Vilaró si era recato in Brasile
e, quasi per la prima volta dopo la scomparsa dell’aereo, nessuno cercò il
Fairchild nel Cile. Ma, prima di ripartire dal Cile, gli uruguayani avevano
distribuito un gran numero dei volantini che offrivano una ricompensa di
trecentomila escudos, tra gli abitanti delle montagne intorno a Talca.
Speravano di ottenere qualche risultato con questo espediente; altrimenti
avrebbero potuto incanalare le loro energie soltanto nella preghiera.
***
Erano pochi, ormai, coloro i quali continuavano a credere nel giovane
Croiset e press’a poco in questo periodo Ponce de Léon parlò con lui per
l’ultima volta. Molto di recente, Croiset aveva detto che quando vedeva
l’aereo, adesso, lo vedeva vuoto, e le madri avevano interpretato la cosa nel
senso che i loro figli dovevano essere partiti in cerca di aiuti, ma Rafael
cominciò a sospettare che la visione avesse un altro significato: i giovani
dovevano essere tutti morti. In precedenza, quando aveva insistito con
Croiset, quest’ultimo si era sempre limitato a dire di aver perduto il contatto.
Questa volta, nel corso della conversazione, Rafael gli ricordò quanto aveva
affermato, che l’aereo era ormai vuoto, e gli riferì l’interpretazione data dalle
madri alle sue parole. «Quanto a me», continuò, «io la penso diversamente.
Interpreto la cosa nel senso che sono tutti morti.»
«Non può esserne sicuro», disse Croiset, parlando al telefono da Utrecht.
«Stia a sentire», disse Rafael, «non c’è nessuno qui che sia imparentato
con uno qualsiasi dei ragazzi; mi dica dunque, francamente, che cosa è loro
accaduto, secondo lei.»
Seguì un silenzio. Dall’altro capo del filo giungevano soltanto sibili e
crepitìi. Poi Croiset disse: «Personalmente, credo… adesso… che siano
morti».
Così terminarono i loro rapporti con Gérard Croiset figlio, eppure anche
coloro i quali avevano finito con il non credere più nella sua chiaroveggenza,
continuavano a credere nella sopravvivenza dei ragazzi. Si rivolsero sempre
più a Dio e alla Chiesa. Rosina e Sarah Strauch continuarono a pregare e a
supplicare fervidamente la Vergine di Garabandal, e ogni pomeriggio, nella
sua casa a Carrasco, Madelón si inginocchiava assieme alla madre e alle sue
due figliole per recitare il rosario. Spesso si univano a loro Susana Sartori
Rosina Machitelli e Inés Clerc, tre delle novias che credevano ancora nel
ritorno dei loro futuri mariti.
Ma, parallelamente all’invocazione dell’aiuto sovrannaturale, si svolgeva
la ricerca d’una spiegazione naturale di quanto poteva essere accaduto
all’aereo e fu la madre di Roberto, Mecha Canessa, ad avere l’idea che l’aereo
potesse essere stato dirottato dai Tupamaros e si trovasse ora nascosto su
qualche segreta pista d’atterraggio nel Cile meridionale, in attesa del momento
giusto per chiedere riscatti. Nell’atmosfera di incertezza politica esistente allora
sia nell’Uruguay sia nel Cile, l’ipotesi parve plausibile, e vennero svolte
ricerche per accertare i precedenti politici dei piloti. Risultò che erano
appartenuti entrambi alla destra. Poiché la possibilità che fosse stato uno degli
stessi giovani a dirottare l’aereo venne scartata, i sospetti si accentrarono sulla
señora Mariani e grande importanza fu attribuita al fatto che ella si recava nel
Cile per il matrimonio di sua figlia con un esiliato politico, ma poi l’assurdità
dell’idea secondo la quale quella grassa signora di età matura poteva aver
dirottato l’aereo divenne ancor più grande della necessità di una nuova teoria.
Il1° dicembre, un quotidiano di Montevideo pubblicò una notizia secondo
la quale l’aviazione militare uruguayana avrebbe inviato un aereo nel Cile a
cercare il Fairchild intorno al vulcano Tinguiririca. La notizia non venne
confermata ufficialmente. Le madri dei ragazzi a Montevideo, incoraggiate,
indussero i mariti a domandare perché non si potesse mandare subito un
aereo uruguayano a fare ciò che il SAR si proponeva di compiere di lì a due
mesi.
Il 5 dicembre, Zerbino, Canessa e Surraco, assieme a Fernández, a
Echavarren, a fiicolich, a Eduardo Strauch e a Rodríguez Escalada, ebbero un
abboccamento con il comandante in capo dell’aviazione militare uruguayana,
il brigadiere generale Pérez Caldas. Gli sottoposero un rapporto completo di
ciò che avevano fatto essi stessi nella regione cilena intorno a Talca, ma
dissero al brigadiere che non credevano più nelle visioni di Croiset. Le
ricerche, dissero, dovevano concentrarsi sulla zona del Tinguiririca, ed essi, in
quanto privati, non disponevano dei mezzi per effettuarle.
Pérez Caldas mandò a chiamare un ufficiale rientrato quel giorno stesso da
Santiago, ove aveva collaborato con il SAR in una inchiesta tecnica
sull’incidente. L’ufficiale consegnò un rapporto che confermava come nulla
potesse essere fatto prima di febbraio; durante quell’inverno vi erano state
sulle Ande le più abbondanti nevicate da trent’anni a quella parte. L’aereo
doveva essere completamente sepolto e non esisteva alcuna possibilità di
sopravvivenza.
Pérez Caldas si voltò verso gli otto uomini seduti di fronte a lui
aspettandosi che accettassero questo giudizio sulla situazione, ma essi, pur
riconoscendo in cuor loro che una ricerca non avrebbe dato alcun frutto,
insistettero affinché venisse effettuata. Accennarono allo stato d’animo delle
madri e delle novias e la risolutezza di Pérez Caldas cominciò a indebolirsi.
Infine egli prese una decisione. «Signori», disse, alzandosi in piedi, «loro
hanno formulato una richiesta ed io ho deciso. L’aviazione militare
uruguayana metterà a loro disposizione un aereo.»
L’ultima spedizione era stata varata.
2

Una nuova ondata di ottimismo dilagò tra i genitori alla notizia secondo cui un
C47 appositamente attrezzato dell’aviazione militare uruguayana sarebbe stato
inviato alla ricerca del Fairchild, e molti padri si offrirono volontari per
partecipare alla spedizione. Pàez Vilaró si trovava ancora in Brasile, ma,
sebbene l’aviazione avesse consentito a soli cinque passeggeri di volare
assieme ai piloti, era chiaro che egli avrebbe voluto essere uno di essi. Un
altro doveva essere Ramon Sabella, ma il suo medico glielo sconsigliò. Gli
altri quattro prescelti per accompagnare Pàez Vilaró furono Rodriguez
Escalada e i padri di Roberto Canessa, Roy Harley e Gustavo Nicolich. Non
soltanto questi uomini, però, si interessarono all’operazione; le famiglie di
Methol, di Maquirriain, di Abal, Parrado, Valeta e di molti altri contribuirono
con denaro e consigli, mentre Rafael Ponce de Leon si manteneva in contatto
con i radioamatori del Cile.
L’8 dicembre, un gruppo di genitori, compresi quelli che dovevano
prendere parte alla spedizione, si recò alla base n. 1 dell’aviazione militare per
conferire con il pilota del C47, maggiore Ruben Terra, e per studiare i piani
delle ricerche. Quel giorno stesso Pàez Vilaró fece ritorno dal Brasile e
confermò che, per quanto diffidasse degli aerei dell’aviazione militare
uruguayana, avrebbe partecipato alla spedizione.
Continuarono per tutto il giorno successivo a fare i preparativi della
partenza e il giorno 10 dicembre ebbe luogo un’ultima riunione di tutti i
genitori, i parenti e le novias, assieme ai componenti della spedizione, nello
spazioso bungalow moresco dei Nicolich. Alla riunione erano stati invitati
due' esperti piloti uruguayani e tutto il materiale raccolto dai SAR cileno,
dall’aviazione militare uruguayana e dai genitori stessi fu esposto sul tavolo
affinché ognuno dei presenti potesse esaminarlo. Il dottor Surraco mostrò
carte geografiche e spiegò perché lui e altri erano ormai persuasi che l’aereo
fosse precipitato tra le montagne Tinguiririca e Sosneado. Nessuno contestò il
loro parere. I monti intorno a Talca e a Vilches erano stati dimenticati; la
ragione aveva trionfato sulla parapsicologia.
La riunione si protrasse fino a sera. Quando si sciolse, le due coppie
Strauch si recarono in casa Harley, ove continuarono a parlare fino a notte alta
della spedizione che speravano tanto potesse trovare i loro figli. Al termine
della serata, Walter Harley si rivolse a Rosina Strauch e disse: «Stia a sentire:
setaccerò le Ande. Cercherò i ragazzi, un passo dopo l’altro, finché non li
avrò trovati. Ma chiederò anche a lei di fare qualcosa. Se falliremo anche
questa volta, dovrà rassegnarsi al fatto che non c’è più speranza. Al ritorno
dalla spedizione, dovremo rinunciare ad ogni ingannevole attesa».
Alle sei della mattina dopo, 11 dicembre, il C47 decollò per Santiago. A
bordo si trovavano il pilota, maggiore Ruben Terra, quattro uomini
d’equipaggio e Pàez Vilaró, Canessa, Harley, Nicolich e Rodriguez Escalada.
Anche a quell’ora mattutina, molti genitori erano accorsi all’aeroporto per
vederli partire.
Il C47 era un apparecchio da trasporto militare. Non esistevano posti
comodi nella fusoliera e i cinque uomini di età matura dovettero sedere su
panche laterali. I motori facevano inoltre un grande strepito, ma tutti erano
soddisfattissimi perché, per la prima volta dopo la scomparsa del Fairchild,
avevano a loro disposizione un mezzo con il quale effettuare ricerche tra le
più alte vette delle Ande. Secondo ia stampa uruguayana, il C47 era stato
attrezzato appositamente per questa spedizione; in ogni caso, disponeva
delFossi geno e della pressurizzazione necessaria per i voli ad alta quota.
Mentre sorvolavano l’estuario del Rio de la Piata, Pàez Vilaró prese un
giornale trovato sull’aereo e lesse un articolo sulla spedizione. Alzò gli occhi,
di quando in quando, per vedere se riuscisse a scorgere l’«equipaggiamento
speciale di eccezionale precisione» di cui parlava il giornale e, quando arrivò
al passo nel quale erano esaltate l’abilità e la magnificenza dell’aviazione
militare uruguayana, si irritò un poco. Questo era, in fin dei conti, quasi il
primo sforzo che i militari facevano, dopo la scomparsa del Fairchild, per
ritrovare cinque dei loro stessi uomini.
Pàez si domandò che cosa pensasse il pilota dell’articolo e si recò nella
cabina di pilotaggio. Vide, entrando, che erano arrivati sulla sponda argentina
dell’estuario e stavano per sorvolare Buenos Aires.
«Ha veduto questo?» urlò a Ruben Terra, mostrando il giornale con
l’articolo che aveva appena letto.
«Sì», rispose il maggiore.
«Che cosa ne pensa?»
«È molto giusto.» Pàez Vilaró alzò lievemente le enormi spalle.
Il pilota parve essersene accorto, poiché continuò: «Ad esempio, uno dei
motori si è fermato ed io sono riuscito a fare atterrare l’apparecchio soltanto
con l’altro…»
Nel momento stesso in cui parlava, l’aereo ebbe un improvviso scossone e
cominciò a vibrare. Pàez Vilaró si voltò a guardare l’ala e vide ciò che il
maggiore aveva appena descritto: l’elica del motore destro si stava fermando.
Tornò a voltarsi verso il pilota. «Bene, è successo di nuovo», disse.
Fecero un atterraggio di emergenza nell’aeroporto militare di El Palomar,
ove Ruben Terra telegrafò a Montevideo perché gli mandassero un motore
nuovo, ma i suoi passeggeri non erano disposti ad aspettare che il motore
arrivasse e venisse montato sul C47. Noleggiarono un piccolo aereo che li
condusse all’aeroporto di Ezeiza e là salirono a bordo di un aereo di linea
della LAN diretto a Santiago. Arrivarono alle sette di sera e si fecero portare
immediatamente da un tassì al comando del SAR a Los Cerrillos.
«Cosa?» esclamò il comandante Massa quando vide Pàez Vilarò e i suoi
compagni. «Loro sono di nuovo qui? Questo non è di certo il momento giusto
per cominciare a cercare. Avevamo detto che sarebbero stati avvertiti al
momento opportuno.»
Il comandante aveva le sue buone ragioni per sentirsi confuso. Non era
inconsueto che un aereo scomparisse sulle Ande, ma era estremamente
insolito che qualcuno continuasse a cercarlo dopo due mesi. Anche quando
un DC3 dell’aviazione militare degli Stati Uniti era precipitato nel 1968, gli
americani non avevano continuato a cercarlo così a lungo. Eppure, ecco un
gruppo di civili uruguayani che entravano nel suo ufficio e si rifiutavano di
essere congedati.
«Mi dica, comandante», domandò Walter Harley, «quante probabilità vi
sono che l’aereo, intrappolato tra le montagne, abbia effettuato un atterraggio
d’emergenza sulla neve?»
«Con un po’ di fortuna», rispose Massa, «due su duemila.»
«A noi ne basta una», disse Harley.
Gli uruguayani cominciarono a questo punto a contrattare per l’impiego
degli elicotteri del SAR, ma il comandante Massa, pur ascoltando compito le
loro proposte, non potè accettarle. «Loro non si rendono conto», disse. «È
pericolosissimo sorvolare con elicotteri la cordillera. Non posso rischiare le
vite dei miei piloti se non esistono prove specifiche del fatto che i rottami si
trovino in un punto ben determinato. Se dispongono di qualche prova del
genere, me la diano ed io agirò di conseguenza, ma fino a quel momento…
sono dolente.»
I cinque uomini tornarono all’albergo senza aver ottenuto altro che questa
mezza promessa da parte di Massa; ciò nonostante, non erano scoraggiati.
Sebbene stanchi dopo il frenetico viaggio, si accinsero immediatamente a
studiare piani. Si sarebbero suddivisi in tre gruppi. L’uno avrebbe esplorato,
per via di terra, la zona dei monti Palomo e Tinguiririca, l’altro l’avrebbe
sorvolata non appena il C47 fosse arrivato a Santiago, mentre il terzo sarebbe
andato in cerca del minatore Camilo Figueroa, il quale asseriva di aver veduto
precipitare il Fairchild. Questi dovevano essere i tre rebbi del loro attacco alle
Ande. Denominarono il piano Operazione Natale.
Parte Settima
1

Il 23 novembre era il ventunesimo compleanno di Bobby François. Egli


ricevette in dono dai sedici compagni un pacchetto in più di sigarette. Nel
frattempo, Canessa e Parrado si accinsero a smontare la radio dal cruscotto
degli strumenti che continuava ad affondare in parte nel torace del pilota.
Cuffie e microfono erano collegati a una scatola metallica nera grande
pressappoco quanto una macchina per scrivere e fu molto facile toglierla
svitando alcune viti. Constatarono però che non aveva alcun quadrante e
pertanto poteva essere soltanto una parte della radio VHF; inoltre, dal lato
posteriore partivano ben sessantasette cavetti che essi ritennero dovessero
essere collegati con la parte mancante. L’aereo era talmente pieno di strumenti
che non si riusciva a stabilire facilmente quale facesse parte della radio e quale
no, ma infine, dietro un pannello di plastica nella parete del vano bagagli,
trovarono la trasmittente. Quest’ultima risultò molto più difficile a separarsi
da tutti gli altri strumenti, soprattutto in quanto non disponevano di alcun
mezzo di illuminazione. Gli unici loro attrezzi erano un cacciavite, un coltello
e un paio di pinze, e con essi, dopo parecchi giorni di fatiche, riuscirono
finalmente a estrarre l’apparecchio.
La loro supposizione che si trattasse del completamento della scatola
estratta dal cruscotto degli strumenti fu confermata dal cavo che usciva dal
lato posteriore e conteneva sessantasette cavetti. A questo punto si trovarono
di fronte a un’altra difficoltà: ignoravano quale dei singoli cavetti di un
apparecchio dovesse essere collegato al corrispondente cavetto dell’altro.
Essendovi sessantasette cavetti da un lato e dall’altro, erano possibili migliaia
di combinazioni. Poi scoprirono che i fili avevano lievi contrassegni i quali
consentivano loro di fare i collegamenti esatti.
Canessa era il più entusiasta per quanto concerneva la radio. Secondo lui,
era pazzesco che qualcuno di loro mettesse a repentaglio la vita
incamminandosi tra le montagne se esisteva qualche possibilità di stabilire il
contatto con il mondo esterno. La maggioranza dei giovani fu d’accordo con
Roberto, anche se molti erano più o meno scettici riguardo l’esito. Pedro
Algorta aveva la certezza che non sarebbero mai riusciti a far funzionare la
radio, ma non disse nulla, per non disingannare gli ottimisti. Lo stesso Roy
Harley, in teoria il loro esperto in fatto di radio, era il più dubbioso di tutti.
Conosceva meglio degli altri i limiti delle proprie cognizioni sulle quali essi
basavano le loro speranze (qualche pomeriggio trascorso gingillandosi con
l’impianto stereo di un amico) e ripetutamente, in tono piagnucoloso,
insistette nel dire che ciò non lo poneva in grado in alcun modo di smontare e
rimontare una radio VHF.
Gli altri giovani ritennero che questa mancanza di fiducia fosse un
sottoprodotto della sua debilitazione fisica e morale. La larga faccia di lui
aveva sempre un’espressione infelice e disperata e il suo corpo, un tempo
forte e robusto, si era rimpicciolito fino alle raggrinzite dimensioni di un
fachiro indiano. I componenti della spedizione e i cugini gli ordinarono
pertanto di allenarsi al tragitto fino alla coda del Fairchild camminando
intorno alla fusoliera, ma egli era troppo debole. (Non ritennero opportuno
aumentargli la razione di carne.) Quanto più essi insistevano, tanto più Roy si
opponeva. Pianse e supplicò e disse loro, più e più volte, che si intendeva di
radio quanto tutti gli altri. Era difficile, tuttavia, resistere alla loro autorità e
inoltre egli fu assoggettato anche a pressioni d’altro genere. «Devi andare», gli
disse il suo amico François, «perché la radio può essere la sola nostra
speranza di salvezza. Se fossimo costretti ad andarcene di qui a piedi, i più
deboli, come Coche, Moncho, Alvaro, tu ed io, non ce la farebbero mai.»
Con enorme riluttanza, Roy cedette di fronte a questa argomentazione e
accettò di andare. La partenza, tuttavia, non era ancora imminente perché
molti di loro continuavano a essere alle prese con le antenne a pinna di squalo
ribadite tetto della fusoliera, sopra la cabina di pilotaggio. Doveno togliére i
rivetti servendosi di un semplice cacciavite e compito era reso più difficile
dalle deformazioni del metallo usate dalla caduta del Fairchild.
Anche quando l’antenna venne infine smontata e posta Ha neve accanto
alle diverse parti della radio, Canessa per ore e ore si limitò a fissarla e a
scattare irosamente contro chiunque gli domandasse che altro c’era da fare e
perché non si decidesse a partire. Gli altri si spazientirono, ma temevano tutti
l’irascibilità di Roberto. Se non fosse stato un partecipante alla spedizione (e il
più inventivo dei tre) non lo avrebbero sopportato; ma, così stando le cose,
non volevano provocarne l’ostilità. Ciò nonostante, quel suo procrastinare
sembrava irragionevole ed essi cominciarono a sospettare che stesse
protraendo gli esperimenti con la radio per rinviare il momento in cui avrebbe
dovuto incamminarsi sulla neve.
Infine i tre cugini Strauch non seppero più arginare l’esasperazione. Gli
dissero che doveva prendere la radio e partire. Canessa non riuscì ad
escogitare alcun altro pretesto e, alle otto della mattina dopo, una piccola
colonna si formò per discendere fino alla coda del Fairchild. Il primo era
Vizintìn, carico, al solito, come un cavallo da soma; veniva poi Harley, con le
mani in tasca, e infine le due sagome di Canessa Parrado, con bastoni e zaini,
come due appassionati di sport invernali.
Si incamminarono giù per la montagna e gli altri tredici urono felici di
vederli partire. Non soltanto venivano liberati dalla presenza irritante e
prepotente di Canessa e Vizintìn, ma inoltre, grazie all’assenza di quattro
persone, avrebbero potuto dormire molto più comodamente. E, soprattutto,
erano in grado di sognare, ancora una volta, che il salvataggio fosse
imminente.
Non fu loro possibile, tuttavia, rimanere inerti in attesa che i sogni si
avverassero. Per la prima volta da quando avevano deciso di nutrirsi con la
carne dei morti, stavano rimanendo a corto di provviste. La difficoltà non era
dovuta al fatto che non esistevano cadaveri a sufficienza, ma all’impossibilità
di trovarli; coloro i quali erano periti nella caduta dell’aereo, ed erano stati
portati fuori della fusoliera, si trovavano adesso, in seguito alla valanga,
seppelliti sotto uno spesso strato di neve. Rimanevano ancora una o due
vittime della valanga, ma i giovani sapevano che ben presto avrebbero dovuto
trovare le vittime precedenti. Bisognava inoltre tener conto del fatto che i
morti durante l’incidente sarebbero stati più grassi e avrebbero avuto il fegato
più ricco delle vitamine di cui avevano tutti bisogno per sopravvivere.
Per conseguenza, si accinsero a cercare i cadaveri. L’operazione venne
affidata a Carlitos Pàez e a Pedro Algorta, ma vi presero parte anche tutti gli
altri. Il sistema prescelto consistette nello scavare un pozzo nella neve in quei
punti nei quali ricordavano la presenza di un cadavere; ma tali pozzi spesso
scendevano in profondità senza che niente venisse alla luce. Altre volte
avevano più successo, ma spesso con conseguenze deludenti. Tutti
ritenevano, ad esempio, che un cadavere giacesse in qualche punto in
prossimità dell’ingresso alla fusoliera, e Algorta impiegò molti giorni per
scavare là, metodicamente, una buca, con gradini per scendervi. Si trattava di
un lavoro faticoso, essendo la neve indurita, e Pedro, come tutti gli altri,
aveva finito con l’indebolirsi sempre più, per cui gli parve di avere scoperto
oro quando il pezzo di alluminio che gli serviva da badile scoprì il tessuto di
quella che sembrava essere una camicia. Pedro scavò rapidamente intorno alle
gambe e ai piedi del cadavere ma a un tratto vide, mentre scopriva questi
ultimi, che le unghie erano verniciate di rosso. Anziché il cadavere di un
ragazzo, aveva trovato quello di Liliana Methol, ed essi avevano deciso di non
mangiarla per rispettare i sentimenti di Javier.
Un altro sistema per affondare un’asta esplorativa era il seguente: tutti i
giovani urinavano sullo stesso punto nella neve. Si trattava di un sistema
efficace, purché riuscissero a contenersi ogni mattina quanto bastava per
arrivare sul punto stabilito. Ahimè, molti dei ragazzi si destavano con la
vescica talmente tesa da essere costretti a liberarsi non appena usciti
daH’aereo. Algorta spesso dormiva con le sue tre paia di mutande sbottonate,
ma anche così, il più delle volte, non ce la faceva a uscire dalla fusoliera. Era
un peccato perché si faticava meno urinando in un foro invece di scavarlo.
Molti dei giovani si sentivano troppo deboli per affrontare una fatica di
questo genere. Alcuni avevano imparato a rassegnarsi alla loro inutilità, ma
altri non potevano ammet re con se stessi di non essere in grado di dare alcun
contriito al benessere del gruppo. Carlitos, una volta, rimproverò Moncho
Sabella perché non lavorava affatto, dopodiché l’esausto Moncho si mise a
scavare una buca con una frenesia tanto isterica che chi lo guardava temette
per la sua vita; ma le conseguenze di simili sforzi si limitarono a un tracollo
per spossatezza. In quel caso, davvero, lo spirito combattivo fu ostacolato
dalla debolezza della carne. A Moncho sarebbe piaciuto essere annoverato tra
gli eroici cugini e i componendella spedizione, ma il corpo lo tradì. Non gli
rimase altra scelta che continuare a far parte degli spettatori.
Mentre i ragazzi scavavano la neve cercando i cadaveri sepolti, i corpi
conservati in prossimità della superficie cominciarono a subire le conseguenze
del caldo sole dal quale veniva sciolto lo strato sottile di neve che li copriva. Il
disgelo era realmente incominciato (il livello della neve si trovava ormai
molto più in basso del tetto della fusoliera) e il sole, verso mezzogiorno,
diventava così caldo che la carne esposta d suoi raggi imputridiva
rapidamente. Così, alle fatiche degli scavi, del taglio della carne e dello
scioglimento della neve, si aggiunsero quelle causate dalla necessità di coprire
con neve cadaveri e di proteggerli dal sole con pezzi di cartone e con fogli di
plastica.
Man mano che le provviste andavano diminuendo, i cugini vietarono ogni
piccolo furto di carne. Questo editto non ebbe maggiore efficacia di ogni altro
che tenti di sradicare abitudini inveterate. Per conseguenza i giovani cercarono
di far durare più a lungo le provviste esistenti mangiando anche quelle parti
del corpo umano che in precedenza erano state scartate. Nelle mani e nei
piedi, ad esempio, c’era sotto la pelle carne che poteva essere raschiata via
dalle ossa. Tentarono, inoltre, di mangiare la lingua di un cadavere, ma non
riuscirono a inghiottirla; e una volta uno di loro mangiò i testicoli.
D’altro canto, si nutrivano tutti con il midollo. Quando nche l’ultimo
brandello di carne era stato raschiato via da un osso, quest’ultimo veniva
spaccato con una scure e se ne estraeva, mediante un pezzo di fil di ferro o un
coltello, il midollo che andava poi diviso tra tutti. Mangiarono anche i grumi
di sangue che trovarono intorno al cuore di quasi tutti i cadaveri. La loro
consistenza e il loro sapore erano diversi da quelli della carne e del grasso, e
ormai erano tutti stanchi fino alla nausea della dieta monotona. Non soltanto i
loro sensi pretendevano sapori diversi; gli stessi organismi reclamavano a
gran voce quei sali minerali di cui da troppo tempo erano privi… soprattutto
il comune sale da cucina. E, proprio per sopperire a tali necessità, i meno
schizzinosi tra i sopravvissuti cominciarono a divorare anche quelle parti dei
cadaveri che stavano marcendo. Il processo di putrefazione si era determinato
anche nelle viscere dei cadaveri coperti dalla neve, e c’erano inoltre i resti di
precedenti cadaveri sparsi intorno all’aereo e non protetti dal sole. Più avanti,
tutti imitarono i non schizzinosi.
Prendevano l’intestino tenue, ne spremevano il contenuto sulla neve, lo
tagliavano in piccoli pezzi e lo mangiavano. Il sapore era forte e salato. La
carne putrida, sulla quale ripiegarono in seguito, sapeva di formaggio.
L’ultima scoperta, nella ricerca di nuovi sapori e di altro cibo, consistette
nei cervelli dei cadaveri, una parte del corpo umano scartata fino a quel
momento. Canessa aveva detto loro che il cervello, pur non avendo un
particolare valore nutritivo, conteneva glucosio, una sostanza energetica; fu lui
il primo a prendere una testa, a incidere la pelle sulla fronte, a tirare indietro il
cuoio capelluto e a spaccare il cranio con la scure. Il cervello veniva poi
diviso e inghiottito mentre era ancora congelato, oppure impiegato come salsa
per uno stufato; il fegato, gli intestini, i muscoli, il grasso, il cuore e i reni,
cucinati o crudi, venivano tagliati a pezzettini e mescolati con il cervello. In
questo modo il cibo aveva un sapore migliore ed era più facile a inghiottirsi.
La sola difficoltà consisteva nella mancanza di recipienti adatti per contenerlo,
poiché in precedenza la carne era stata servita su piatti, vassoi o pezzi di fogli
d’alluminio. Per lo stufato, Inciarte utilizzò una scodella da schiuma da barba,
mentre altri adoperarono la metà superiore di calotte craniche. Quattro
scodelle ricavate da crani vennero impiegate a tale scopo e ne furono fatte
alcune con ossa.
I cervelli erano immangiabili una volta putridi e pertanto tutte le teste dei
cadaveri già consumati furono raccolte insieme e seppellite nella neve. La
neve venne inoltre rastrellata per trovare altre parti in precedenza gettate via.
Quella ricerca di rifiuti assunse una nuova importanza… specie per Algorta,
che si era sempre dedicato ad essa più di tutti gli altri. Quando non scavava
buche o non aiutava i cugini a tagliare i cadaveri, si vedeva la sua sagoma
curva zoppicare intorno all’aereo e frugare nella neve con un’asticciola di
ferro. Egli sembrava a tal punto un vagabondo che Carlitos gli affibbiò il
soprannome di Vecchio Vizcacha («… un vagabondo scapestrato, vestito di
stracci, che viveva come una sanguisuga tra acquitrini e paludi, un furfante
veterano che frugava le fogne, irascibile come un cinghiale rognoso.» José
Hernández, Il Gaucho Martín Fierro, II, XIV, Oxford 1935), ma lo zelo di lui
non mancò di essere fruttuoso, poiché Algorta trovò molti pezzi di grasso,
alcuni dei quali con una striscia sottile di carne. Li metteva sulla sua parte del
tetto della fusoliera. Se erano impregnati d’acqua, li faceva asciugare al sole, e
ciò formava una crosta che li rendeva più gustosi. Oppure, al pari dei
compagni, li metteva su un pezzo di metallo che rifletteva il sole e in questo
modo riscaldava quello che stava mangiando; un giorno che il sole era
caldissimo, riuscì effettivamente a cuocerli.
Era un sollievo per Algorta il fatto che i componenti della spedizione non
si trovassero lì a mangiare quanto lui aveva così accuratamente cercato e
preparato. D’altro canto, divideva le sue provviste con Fito. Accanto alla sua
piccola superficie di tetto c’era quella di Fito e tra le due si trovava un settore
riservato al cibo che condividevano. Era Algorta a mantenere questa dispensa
comune rifornita di viveri extra. Egli si era affezionato a Fito così come
Zerbino era diventato, secondo l’espressione di Inciarte, «il paggetto del
tedesco». Irritava particolarmente Inciarte il fatto che Zerbino regalasse
sigarette a Eduardo anche quando quest’ultimo ne aveva ancora delle sue; ma
Zerbino ricordava i giorni immediatamente successivi alla prima spedizione,
quando Eduardo lo aveva lasciato dormire con i piedi gonfi sulle sue spalle.
Man mano che la frattura tra i due gruppi, lavoratori di ruolo e inattivi,
previdenti e imprevidenti, andava allargandosi, il ruolo di Coche Inciarte
divenne più importante. Per quel che faceva e per le sue tendenze, egli si
trovava senz’altro nel campo dei parassiti; d’altra parte, era un vecchio amico
di Fito Strauch e di Daniel Fernández. Possedeva, inoltre, quel tipo di
carattere schietto e arguto che è impossibile avere in antipatia. Sia che
insistesse con Carlitos per convincerlo a cucinare in un giorno di vento, o che
facesse sprizzare un mezzo litro di pus dalla sua gamba spaventosamente
infetta, sorrideva sempre egli stesso e faceva sorridere anche gli altri di quello
che combinava.
Le sue condizioni di salute, come quelle di Turcatti, stavano diventando
sempre più gravi, perché entrambi erano riluttanti a mangiare carne cruda.
Coche, a volte, delirava addirittura e diceva ai ragazzi, molto seriamente, che
esisteva una porticina sul lato della fusoliera ove dormiva lui, dalla quale si
passava in una valle verdeggiante. Eppure, quando annunciò un mattino,
come aveva fatto Rafael Echavarren, che sarebbe morto quel giorno stesso,
nessuno lo prese sul serio. Il giorno dopo, allorché si fu destato, tutti risero di
lui e dissero: «Ebbene, Coche, che cosa si prova a essere morti?»
Le sigarette erano, come sempre, la maggior causa di tensioni. Quelli che,
come i cugini, riuscivano a dominarsi abbastanza per intervallarle e far durare
la loro razione, constatavano, verso la fine della seconda giornata, come ogni
boccata di fumo venisse osservata da una dozzina di paia d’occhi invidiosi.
Gli imprevidenti (e Coche Inciarte era tra i meno previdenti) vuotavano il
pacchetto sin dal primo giorno e poi cercavano di scroccare sigarette a quelli
che ne avevano ancora. Pedro Algorta, che fumava meno degli altri, si
aggirava qua e là ad occhi bassi per paura di intercettare uno degli sguardi
imploranti e importuni di Coche, ma, se riusciva a evitarli abbastanza a lungo,
Inciarte gli diceva: «Pedrito, quando torneremo a Montevideo, ti inviterò a
mangiare gli gnocchi in casa di mio zio», al che l’affamato Algorta alzava lo
sguardo e vedeva quegli occhi grandi, supplichevoli e ridenti.
Anche Pancho Delgado non riusciva a razionarsi e allora si avvicinava a
Sabella, ad esempio, e gli parlava dei tempi in cui era andato a scuola con suo
fratello, nella speranza di riuscire a scroccare una sigaretta. Oppure veniva
mandato da Inciarte a persuadere Fernández a dar loro una razione in
anticipo. «Vedi», diceva, «Coche ed io siamo individui particolarmente
nervosi.»
Vi era stato un periodo in cui lo stesso Delgado aveva avuto l’incarico di
distribuire le sigarette, qualcosa come affidare un bar a un alcoolizzato. Una
notte, la tormenta imperversante all’esterno della fusoliera era tanto
spaventosa che la neve si infiltrava nell’aereo. Delgado e Zerbino, i quali
dormivano accanto all’ingresso, si portarono più avanti nella fusoliera per
conversare e fumare sigarette con Coche e Carlitos. Quasi tutti i giovani erano
rimasti desti; fumavano e ascoltavano il rombo delle valanghe. Ma la mattina
dopo, quando si destarono tutti bianchi di neve, alcuni di essi dubitarono di
aver fumato tante sigarette come sosteneva Pancho.
Vi fu un’altra occasione in cui Fernández e Inciarte litigarono a causa delle
sigarette. Fernández, al quale era affidato uno dei tre accendini, ignorò Coche
quando questi gli chiese ripetutamente di potersene servire, perché riteneva
che Coche fumasse troppo. Ciò infuriò Inciarte che, per il resto della giornata,
si rifiutò di rivolgere la parola a Fernández. La sera, come sempre, si distesero
l’uno accanto all’altro, ma ogni volta che la testa di Fernández ciondolava
sulla spalla di Coche, questi se la scrollava di dosso. Fernández disse allora:
«Oh, andiamo, Coche», e la rabbia petulante di Inciarte sfumò. Era troppo
buono d’indole per poter restare adirato a lungo.
La loro imprevidenza per quanto concerneva le sigarette rafforzò un
legame che già era esistito tra Coche e Pancho. I due, o scroccavano soli
(Pancho fumando una parte della razione di Numa Turcatti perché riteneva
che il tabacco non gli facesse bene, mentre Coche tentava di cogliere lo
sguardo di Algorta), oppure, come abbiamo veduto, presentavano un fronte
comune allo scopo di farsi consegnare in anticipo la razione successiva da
Daniel Fernández. Parlavano insieme, inoltre, della vita a Montevideo e dei
fine settimana trascorsi in campagna con Gastón Costemalle, che era stato un
loro comune amico. Pancho Delgado, con la sua naturale eloquenza,
descriveva così bene lo scenario della loro felicità di un tempo, che Coche
Inciarte si sentiva trasportato lontano dallo spazio angusto, umido e fetido
della fusoliera, e si ritrovava nei verdi pascoli della sua cascina. Poi, quando il
racconto finiva, si ritrovava all’improvviso nella sudicia realtà e ciò lo
demoralizzava a tal punto che rimaneva immobile come un morto, con gli
occhi vitrei.
Per questo motivo, gli Strauch e Daniel Fernández cercavano di tenere
Coche lontano da Delgado. Quelle conversazioni illusorie, lo sentivano,
minavano il morale di lui a un punto tale che egli avrebbe perduto la volontà
di sopravvivere. Inoltre, stavano diffidando sempre più di Delgado. Vi era
stato uno strano episodio quando alcuni dei giovani che si trovavano fuori
dell’aereo avevano gridato agli altri di mandare qualcuno a prendere le loro
razioni di carne. Pancho apparve e, mentre ritirava i pezzi di carne, domandò
a Fito se potesse prenderne uno per sé.
«Naturale», rispose Fito.
«Il pezzo migliore?»
«Se vuoi.»
Fito e gli altri erano rimasti sul tetto della fusoliera a mangiare le loro
razioni di carne e, dopo aver consegnato le altre ai compagni, Pancho uscì per
unirsi a loro. Quando Fito, dopo qualche tempo, entrò, Daniel Fernández, che
aveva tagliato in pezzi più piccoli la carne portata da Pancho, gli disse: «Ehi,
non ci hai dato molto da mangiare».
«Ho tagliato dodici pezzi», rispose Fito.
«Otto, direi. Ho dovuto tagliarli di nuovo.»
Fito fece una spallucciata e non disse altro, perché il suo buonsenso lo
sconsigliava dall’esprimere ciò che sospettava. Era essenziale per il gruppo
che non sorgesse alcun vero dissenso.
Carlitos, d’altro canto, non aveva preoccupazioni del genere. «Mi
domando allora dove sia il fantasma», disse, fissando Pancho, «che ha
mangiato gli altri quattro pezzi.»
«Che cosa vuoi dire?» disse Pancho. «Che cosa stai insinuando? Non ti
fidi di me?»
La discussione avrebbe potuto continuare, ma Fito e Daniel Fernández
dissero a Carlitos di lasciar correre.
2

Mentre nella fusoliera stavano accadendo tutte queste cose, i tre componenti
della spedizione e Roy Harley si trovavano nella coda del Fairchild. Avevano
impiegato appena un’ora e mezzo per scendere e durante il tragitto erano
capitati su una valigia appartenuta alla madre di Parrado. Conteneva tra altro
caramelle e due bottiglie di Coca Cola.
Il resto della prima giornata lo trascorsero riposandosi dentro la sezione di
coda ed esaminando il contenuto delle valigie apparse sotto la neve scioltasi
dopo l’ultima volta che erano stati là. Tra altre cose, Parrado trovò una
macchina fotografica carica, e la sacca con due bottiglie di liquore che sua
madre aveva acquistato a Mendoza, chiedendogli di portarle. Nessuna dell
edue bottiglie si era rotta e ne sturarono una lasciando l’altra per la spedizione
che avrebbero dovuto organizzare se non fossero riusciti a far funzionare la
radio.
Canessa e Harley si accinsero a quel compito la mattina dopo. Parve a tutta
prima che la cosa non sarebbe stata dificile, perché le prese dietro la
trasmittente erano contrassegnate con le indicazioni BAT e ANT per indicare
dove doveano essere inserite le spine delle batterie e dell’antenna.
Sforunatamente, esistevano altri cavetti i cui collegamenti non erano
altrettanto chiari. Soprattutto, non riuscivano a capire quale dei cavi fosse
positivo e quale negativo, per cui, speso, quando procedevano a un
collegamento, scintille sprizzavano loro negli occhi.
Le speranze di successo aumentarono quando Vizintìn trovò sulla neve,
accanto alla coda, il manuale di istruzioni del Fairchild. Cercarono nell’indice
qualche riferimento alla radio e scoprirono che l’intero capitolo
trentaquattresimo era dedicato alle «Comunicazioni», ma quando vollero
consultarlo si accorsero che il vento aveva strappato dal volumetto alcune
pagine e tali pagine erano proprio quelle del capitolo di cui avrebbero avuto
bisogno.
Non restava altro da fare, pertanto, che ricominciare con i tentativi e gli
errori. Si trattava di un lavoro che richiedeva molta pazienza e mentre gli altri
si affannavano con la radio, Parrado e Vizintìn frugavano qua e là,
riesaminando il contenuto di tutte le valigie, o accendendo il fuoco per
cuocere la carne. Sebbene fossero soltanto in quattro, non andavano esenti
dalle tensioni che si determinavano più in alto nella fusoliera. Roy Harley si
irritò, ad esempio, perché Parrado non volle dargli la stessa razione degli altri;
gli sembrava chiaro che, poiché aveva preso parte alla spedizione, sarebbe
stato suo diritto mangiare quanto gli altri. Parrado, d’altro canto, sostenne che
egli era soltanto un elemento aggregato; se la radio non avesse funzionato,
non gli sarebbe toccato di marciare con gli altri sulle montagne. Per
conseguenza doveva mangiare soltanto quanto era indispensabile per
sopravvivere.
Né egli voleva consentire a Roy di fumare sigarette. Secondo il suo
ragionamento, disponevano di un solo accendino e ne avrebbero avuto
bisogno per la spedizione finale; del resto, nemmeno Parrado, né Canessa, né
Vizintìn fumavano essi stessi, ma erano tutti intollerabilmente irritati dai
piagnucolii e dai lamenti di Roy. Così gli dissero che gli sarebbe stato
possibile fumare soltanto quando avessero acceso il fuoco. Una volta, però,
quando Roy si avvicinò per accendere una sigaretta alla fiamma, Parrado, il
quale stava cucinando, gli disse di togliersi dai piedi e di tornare quando lui
avesse finito. Ma allorché Roy tornò, il fuoco era spento. Roy era talmente
adirato che si impadronì dell’accendino lasciato da Parrado su un pezzo di
cartone e accese una sigaretta. Allorché i tre componenti della spedizione se
ne accorsero, gli si lanciarono addosso come un branco di tre studenti anziani
incaricati della disciplina. Lo coprirono di insulti e gli avrebbero strappato la
sigaretta dalla bocca se non ne fossero stati impediti da Canessa che aveva
riflettuto meglio. «Lasciatelo stare», egli disse agli altri due. «Non dimenticate
che potrà essere Roy a salvare la vita a noi tutti facendo funzionare questa
dannata radio.»
Il terzo giorno, apparve chiaro che non avevano portato con sé carne a
sufficienza per il periodo di tempo occorrente per riparare la radio. Di
conseguenza, Parrado e Vizintìn ripartirono verso l’aereo, lasciando Harley e
Canessa nella sezione di coda. L’ascesa, come la prima volta, fu mille volte
più difficoltosa di quanto lo fosse stata la discesa. Quando giunsero sulla
sommità del rilievo che si trovava subito a est dell’aereo, Parrado fu assalito
da una momentanea ma profonda disperazione; al posto della fusoliera e dei
suoi tredici abitanti non si vedeva altro che un’immensa distesa di neve.
Suppose immediatamente che vi fosse stata un’altra valanga la quale aveva
coperto completamente l’aereo, ma poi guardò meglio e non scorse alcun
segno di neve fresca sui fianchi sovrastanti delle montagne. Proseguì e, con
suo immenso sollievo, trovò l’aereo all’altro lato del rilievo successivo.
I giovani non li aspettavano e non avevano preparato carne. Inoltre, erano
quasi tutti troppo deboli per poter disseppellire i cadaveri che pure era
necessario trovare se i componenti della spedizione dovevano rifornirsi. Per
conseguenza, gli stessi Parrado e Vizintìn si misero a scavare. Trovarono un
cadavere dal quale i cugini tagliarono carne che misero in calzettoni da rugby
e, dopo due notti trascorse nell’aereo, tornarono alla sezione di coda.
Là constatarono che Harley e Canessa avevano proceduto a tutti i
collegamenti necessari tra batterie e radio e tra radio e antenna, ma che ancora
non riuscivano a captare alcun segnale con le cuffie. Pensarono che potesse
essere difettosa l’antenna e allora strapparono fili metallici dai circuiti elettrici
dell’aereo e li unirono, legandone poi un’estremità alla coda del Fairchild e
l’altra a un sacco pieno di sassi collocato in alto sul fianco della montagna;
formarono così un’antenna lunga una ventina di metri. Quando la collegarono
alla radiolina a transistor che avevano portato con sé, riuscirono a captare
molte stazioni radio del Cile, dell’Argentina e dell’Uruguay. Ma quando la
collegarono alla radio del Fairchild non udirono un bel nulla. Pertanto, la
ricollegarono alla radiolina a transistor, sintonizzarono quest’ultima su una
emittente che trasmetteva musica allegra, e si rimisero al lavoro.
A un tratto, vi fu un grido da parte di Parrado; egli aveva trovato, in una
delle valigie, la fotografia di un bambino a una festa di compleanno. Si
trattava di una bimbetta, in realtà; sedeva davanti a un tavolo sul quale si
ammonticchiavano panini imbottiti, torte e cracker. Parrado, tenendo ben
stretta la fotografia, divorava i cibi con lo sguardo, ma ben presto gli altri tre,
posti all’erta dal grido, si avvicinarono alle sue spalle e presero parte al
banchetto. «Guardate un po’ quella torta», disse Canessa, gemendo e
massaggiandosi lo stomaco.
«E i panini imbottiti, allora?» disse Parrado. «Io credo che preferirei
quelli.»
«I cracker», gemette Vizintìn. «A me date soltanto i cracker.»
***
Dalla radiolina a transistor alla quale avevano collegato l’antenna, i quattro
udirono un notiziario nel corso del quale venne annunciato che le ricerche
sarebbero state riprese con un Douglas C47 dell’aviazione militare
uruguayana. I ragazzi accolsero la notizia in modi diversi. Harley era in estasi
per la speranza e la felicità. Anche Canessa sembrava sollevato. Vizintìn non
reagì in alcun modo particolare, mentre Parrado parve quasi deluso. «Non
siate troppo ottimisti», ammonì gli altri. «Non è detto che ci troveranno
soltanto perché ci cercano di nuovo.»
Decisero, ciò nonostante, che sarebbe stata una buona idea tracciare una
grande croce sulla neve in prossimità della sezione di coda, e così fecero
servendosi delle valigie che giacevano sparse tutto attorno. Ormai avevano
quasi rinunciato alla speranza della radio, sebbene Canessa continuasse ad
armeggiare e tergiversasse per quanto concerneva il ritorno alla fusoliera.
Parrado e Vizintìn, d’altro canto, pensavano già alla spedizione, in quanto era
stato deciso nell’aereo che, se la radio non avesse funzionato, loro tre
sarebbero partiti subito, basandosi sulla sola cosa della quale erano certi: che
il Cile si trovava a ovest. Così, Vizintìn staccò il resto del materiale avvolto
intorno all’impianto di riscaldamento del Fairchild, nello scuro ripostiglio alla
base della coda che aveva contenuto le batterie. Si trattava di un materiale
leggero, ma studiato dall’industria tecnologicamente più sofisticata del mondo
per trattenere il calore; cucito insieme in modo da formare un ampio sacco,
avrebbe costituito un ottimo sacco a pelo, eliminando così la difficoltà più
grave dalla quale erano stati ostacolati: come tenersi caldi la notte senza il
rifugio della sezione di coda o della fusoliera.
Mentre si trovavano nella coda, la neve aveva continuato a sciogliersi
intorno a loro… tutta la neve, cioè, tranne quella situata immediatamente sotto
la sezione di coda e riparata dal sole. Per conseguenza, la coda aveva finito
con il rimanere in equilibrio su una sorta di pilastro di neve; ciò non solo ne
rendeva più difficile l’accesso, ma faceva sì che essa fosse pericolosamente
instabile mentre si spostavano all’interno. Durante l’ultima notte, la sezione di
coda oscillò a tal punto che Parrado fu pervaso dal terrore; temeva che
cadesse e scivolasse come un razzo giù per il fianco della montagna. I quattro
giovani giacevano immobili il più possibile, ma imperversava un vento che
faceva oscillare la coda e Parrado non riusciva a dormire. «Ehi», disse infine
agli altri, «non vi sembra che sarebbe meglio dormire fuori?»
Vizintìn grugnì e Canessa disse: «Senti, Nando, se dobbiamo morire,
moriremo; quindi tanto vale goderci almeno ma notte di buon sonno».
***
La sezione di coda si trovava sempre allo stesso posto la mattina dopo, ma
ovviamente non era più sicura. Sembrava altrettanto ovvio che nessun altro
tentativo sarebbe riuscito a ar funzionare la radio. Per conseguenza, decisero
di tornare illa fusoliera. Prima di partire, si caricarono una volta di più di
sigarette, e Harley, per dare sfogo a tutta l’infelicità e la frustrazione di quegli
otto giorni, a furia di calci fece a pezzi le diverse parti della radio che così
faticosamente avevano messo insieme.
Sbagliò a sprecare energie. Per arrivare alla fusoliera dovevano superare
un pendio di quarantacinque gradi lungo un chilometro e mezzo. A tutta prima
la cosa non fu tanto difficile perché la superficie della neve era dura. In
seguito, quando divenne molle ed essi o affondarono fino alle cosce, o
dovettero legarsi ai piedi i pesanti e ingombranti cuscini che servivano come
racchette da neve, occorse uno sforzo quasi sovrumano che il povero Roy
non era in grado di sostenere. Sebbene si riposassero ogni trenta passi, egli
ben presto rimase indietro, ma Parrado gli stette al fianco… incitandolo,
insultandolo, esortandolo a proseguire. Roy ci provava e poi ricadeva sulla
neve disperato e spossato. La sua voce era piagnucolosa come non mai; le
lacrime scorrevano più abbondanti. Supplicò di essere lasciato lì a morire, ma
Parrado non volle abbandonarlo. Imprecò contro di lui e lo insultò per
incendiargli il sangue. Lo offese come non aveva mai offeso nessuno.
Gli insulti erano atroci, ma ottennero il risultato voluto. Fecero sì che Roy
proseguisse; tuttavia, giunse un momento in cui egli non reagì più né alle
imprecazioni né alle offese. Allora Parrado gli tornò accanto e gli rivolse la
parola somnessamente, dicendo: «Ascolta, non siamo molto lontani, ormai.
Non credi che valga la pena di compiere un ultimo sforzo per rivedere tua
madre e tuo padre?»
Poi lo prese per mano e lo aiutò a rimettersi in piedi. Una volta di più Roy
riprese a salire barcollante, appoggiandosi al braccio di Parrado e, quando
giunsero dinanzi a un pendio tanto ripido da impedire a Roy di sormontarlo,
anche con tutta la forza della sua volontà, Parrado lo afferrò e, con l’enorme
energia che sembrava ancora possedere, lo trascinò su verso il Fairchild.
Giunsero alla fusoliera tra le sei e mezzo e le sette di sera. Soffiava un
vento gelido, con qualche sfarfallio di neve. I tredici giovani erano già entrati
e accolsero malinconicamente i componenti della spedizione.
Canessa, tuttavia, non fu tanto colpito dalla loro ostilità quanto dallo
spettacolo di desolazione che offrivano. Dopo essere rimasto assente per otto
giorni, potè constatare con una certa obiettività quanto fossero diventate
scavate e smunte le facce barbute dei suoi compagni. Aveva osservato inoltre,
con occhi nuovi, l’orrore della neve sudicia, disseminata di carcasse sventrate
e di crani spaccati, e si era detto che, prima dell’arrivo dei soccorsi, dovevano
fare qualcosa per eliminare tutto ciò.
3

Verso la fine della prima settimana di dicembre, quando si trovavano sulla


montagna da cinquantasei giorni, apparvero nel cielo due condor che
ruotarono sopra i diciassette superstiti. Quei due enormi uccelli da preda, con
la testa e il collo calvi, un collare di piccole piume bianche, e un’apertura alare
di quasi tre metri, erano il primo segno di vita che i giovani vedessero da più
di otto settimane. I sopravvissuti temettero subito che i condor si abbassassero
e portassero via il cadavere appena scoperto. Avrebbero sparato contro di essi
con la rivoltella, ma temevano che i colpi potessero provocare una nuova
valanga.
A volte i condor si allontanavano, ma poi ricomparivano la mattina dopo.
Continuarono a spiare i movimenti degli esseri umani, ma non si abbassarono
mai, e, dopo alcuni giorni, scomparvero definitivamente. Furono seguiti,
tuttavia, da altri segni di vita. Una volta un’ape entrò nella fusoliera e tornò a
uscirne; più avanti ancora, una o due mosche, e infine una farfalla, furono
vedute intorno all’aereo.
Ormai, durante il giorno faceva caldo; a mezzogiorno, invero, il caldo era
tale che la pelle bruciava e le labbra si screpolavano e sanguinavano. Alcuni
dei giovani cercarono di montare una tenda, per ripararsi dal sole, con le aste
delle amache e una pezza di tessuto acquistata da Liliana Methol a Mendoza
per fare un vestito a sua figlia. Ritennero inoltre che essa sarebbe stata un’utile
segnalazione per ogni aereo il quale fossero stati sorvolati; tale possibilità,
infatti, contianuava a dominare nella loro mente. Roy e i componenti della
spedizione, al ritorno dalla sezione di coda, avevano riferito ai tredici rimasti
nella fusoliera la notizia udita con la radiolina a transistor: che le ricerche
erano state riprese.
I giovani erano decisi a far sì che ciò non tentasse i componenti della
spedizione a rinunciare a un nuovo tentativo. Non avevano riposto molte
speranze nella possibilità di far fuzionare la radio del Fairchild e non si erano
abbandonati alla disperazione al ritorno di Harley, Canessa, Parrado e Vizintìn,
ma volevano che i tre ripartissero quasi immediatalente. Ben presto apparve
manifesto, però, che mentre la nozia del C47 non aveva influenzato in alcun
modo la decisione di Parrado di ripartire, essa faceva nascere in Canessa una
certa riluttanza a porre a repentaglio la vita sul fianco ella montagna. «Sarebbe
assurdo se partissimo adesso», gli disse, «con questo aereo appositamente
addestrato che sta per venirci a cercare. Dovremmo dargli almeno dieci giori
di tempo, e poi, forse, partire. È pazzesco rischiare inutilmente le nostre vite.»
Questo rinvio infuriò gli altri. Non avevano viziato Canesa e sopportato la
sua intollerabile irascibilità così a lungo soltanto per sentirsi dire da lui che
non sarebbe partito. Né erano così ottimisti da credere che il C47 li avrebbe
trovati, poiché udirono alla radio dapprima che l’apparecchio era stato
costretto ad atterrare a Buenos Aires, poi che aveva dovuto far revisionare i
motori a Los Cerrillos. E inoltre, li minacciava la scarsità di viveri in quanto,
pur sapendo che c’erano cadaveri nascosti nella neve sotto di loro, non
riuscivano a trovarli, o trovavano soltanto quelli che avevano deciso di non
mangiare.
Esisteva anche un altro fattore, e cioè il loro orgoglio per ciò ch’erano
riusciti a fare. Sopravvivevano ormai da otto settimane nelle condizioni più
impossibili e disumane. Volevano dimostrare che sapevano anche salvarsi di
loro iniziativa. Tutti si compiacevano di immaginare l’espressione sulla faccia
del primo pastore o del primo contadino che avrebbero trovato, quando
costui si sarebbe sentito dire che i tre della spedizione erano superstiti del
Fairchild uruguayano. Tutti loro si esercitavano mentalmente al tono
noncurante che avrebbero adottato telefonando ai loro parenti a Montevideo.
L’impazienza di Fito era di carattere più pratico. «Non ti rendi conto», egli
disse a Canessa, «che non stanno cercando superstiti? Cercano vittime. E
l’attrezzatura speciale di cui parlano è l’equipaggiamento fotografico.
Scatteranno una serie di fotografie aeree, per poi tornare indietro, svilupparle,
studiarle… Impiegheranno settimane per trovarci, anche se dovessero volare
proprio sopra di noi.»
Questo ragionamento parve persuadere Canessa. Parrado non aveva
bisogno di essere persuaso e Vizintìn accettava sempre quello che decidevano
gli altri due. Per conseguenza, si misero al lavoro e prepararono la spedizione
definitiva. I cugini tagliarono carne dai cadaveri non soltanto per le necessità
quotidiane, ma allo scopo di predisporre le provviste per il viaggio. Gli altri si
accinsero a cucire il materiale isolante trovato nella coda dell’aereo per
ricavarne un sacco a pelo. Fu difficile. Rimasero senza filo, e dovettero
servirsi dei fili metallici dei circuiti elettrici.
Parrado li avrebbe aiutati in questo lavoro, ma non era molto abile nel
servirsi delle proprie mani. Per conseguenza scattò fotografie con la macchina
trovata nella sezione di coda e mise insieme gli indumenti e l’equipaggiamento
di cui avrebbero avuto bisogno durante la spedizione. In uno zaino ricavato
da un paio di bluejeans mise la bussola dell’aereo, la coperta da viaggio di sua
madre, quattro paia di calze di ricambio, il passaporto, quattrocento dollari
americani, una bottiglia d’acqua, un temperino, e un rossetto da donna per
curarsi le labbra screpolate.
Vizintìn mise nel proprio zaino il servizio da barba, non tanto perché
volesse radersi durante la spedizione, prima di raggiungere la civiltà, quanto
perché era un dono di suo padre e non voleva lasciarlo nella fusoliera. Prese
inoltre le carte dell’aereo, una bottiglia di rum, una bottiglia d’acqua, calzini
asciutti e la rivoltella.
Lo zaino di Canessa venne riempito con tutti i medicinali che egli ritenne
potessero essere loro utili durante il viaggio: cerotti adesivi, un tubetto di
dentifricio, aspirine, pillole contro la diarrea, crema antisettica, compresse di
caffeina, unguento per riscaldare i muscoli, e una grossa pillola i cui effetti
non erano noti. Aggiunse a tutto ciò crema per la pelle, i suoi documenti,
compreso il certificato di vaccinazione, il temperino di Methol, un cucchiaio,
un foglio di carta, un pezzo di filo metallico, e un pelo d’elefante come
portafortuna.
L’8 dicembre era la festa dell’Immacolata Concezione. Allo scopo di
onorare la Vergine e di persuaderla a intercedere per il successo dell’ultima
spedizione, i giovani del Fairchild decisero di recitare tutti e quindici i misteri
del rosario. Ahimè, subito dopo che ne avevano recitato cinque le loro voci
divennero più esili e meno numerose, e ad uno ad uno essi si
addormentarono. Per conseguenza, recitarono il resto del rosario la sera dopo,
il 9 dicembre, che era anche il ventitreesimo compleanno di Parrado. Fu una
ricorrenza malinconica, perché troppe volte si erano consolati progettando la
festa che avrebbero dato a Montevideo. Per festeggiare Parrado, lì sulla
montagna, la comunità gli regalò uno dei sigari Avana che erano stati trovati
nella coda. Parrado lo fumò, a il tepore del sigaro gli fece più piacere
dell’aroma.
Il 10 dicembre, Canessa continuò ad affermare che la spedizione non era
ancora pronta a partire. Il sacco a pelo non era stato cucito in modo da
soddisfarlo, né egli aveva messo insieme tutto ciò di cui avrebbe avuto
bisogno. Ma, invece di dedicarsi a ciò che ancora doveva essere fatto, Canessa
oziava per «conservare le energie», oppure si incaponiva a curare i foruncoli
che Roy Harley aveva sulle gambe. Litigò, inoltre, con i ragazzi più giovani.
Disse a François che nella sezione di coda del Fairchild Vizintìn si era pulito il
sedere con la più bella canottiera Lacoste di Bobby, il che fece infuriare
insolitamente quest’ultimo. Litigò addirittura con il suo grande amico e
ammiratore Alvaro Mangino, poiché quella mattina, mentre stava defecando
sulla fodera di un sedile dell’aereo (aveva la diarrea per essersi nutrito con
carne putrida), disse a Mangino di spostare la gamba. Man gino rispose di
essere stato tormentato dai crampi per tutta la notte, e pertanto non l’avrebbe
mossa. Canessa alzò la voce con lui e Mangino imprecò. Canessa perdette la
pazienza e afferrò Mangino per i capelli. Stava per picchiarlo, ma poi si limitò
a scaraventarlo contro la parete della fusoliera.
«Adesso non sei più amico mio», disse Mangino, singhiozzando.
«Scusami», mormorò Canessa, rimettendosi a sedere e dominando di
nuovo la propria irascibilità. «È solo che mi sento tanto male.»
Nessuno lo considerò suo amico, quel giorno. I cugini ritenevano che egli
stesse deliberatamente rimandando la partenza ed erano adirati con lui più di
tutti gli altri. Quella notte non gli riservarono il posto speciale come
componente della spedizione, ed egli dovette dormire accanto all’ingresso. Il
solo a esercitare un qualche ascendente su di lui era Parrado, e la sua
decisione di partire continuava a essere ferma come sempre. La mattina dopo,
mentre giacevano nella fusoliera in attesa di uscire, disse a un tratto: «Sapete,
se quell’aereo dovesse sorvolarci, potrebbe non vederci. Dovremmo tracciare
una croce». E, senza aspettare che qualcun altro approvasse la sua idea, uscì
dall’aereo e cercò una zona di neve intatta che meglio si prestasse per
tracciarvi una croce. Gli altri giovani lo seguirono e ben presto tutti coloro che
erano in grado di camminare senza soffrire stavano calpestando la neve lungo
linee prestabilite per tracciare una croce gigantesca.
Al centro, ove le due linee si intersecavano, collocarono, capovolto, il
bidone dei rifiuti che Vizintìn aveva portato dalla spedizione di prova.
Disposero inoltre sulla neve i vividi giubbotti gialli e verdi dei piloti.
Rendendosi conto che il movimento avrebbe attratto l’attenzione di chi li
avesse sorvolati, stabilirono di correre in circolo non appena l’aereo fosse
stato avvistato.
Quella notte, Fito Strauch andò a parlare con Parrado e gli disse che se
Canessa non voleva partire con la spedizione avrebbe preso lui il suo posto.
«No», rispose Parrado, «non preoccuparti. Ho parlato con Muscoli. Verrà.
Deve venire. È molto più allenato di te… Dobbiamo soltanto terminare il
sacco a pelo.»
La mattina dopo, gli Strauch si alzarono presto e si misero al lavoro sul
sacco a pelo. Erano decisi a far sì che entro quella sera non vi fossero più
pretesti per ulteriori indugi. Ma quel giorno doveva accadere qualcosa che
avrebbe reso superflue le loro minacce e le loro ammonizioni.
***
Numa Turcatti aveva continuato a indebolirsi ogni giorno. La salute di lui,
come quella di Roy Harley e di Coche Inciarte, causava le più vive
preoccupazioni ai due «medici», Canessa e Zerbino. Sebbene Turcatti, così
puro di spirito, fosse benvoluto da tutti sull’aereo, il suo più intimo amico ma
delFincidente era stato Pancho Delgado, e ora fu Delgado ad assumersi il
compito di occuparsi di lui. Portava nella fusoliera la razione di Turcatti,
faceva sciogliere la neve per procurargli acqua, cercava di indurlo a smettere
di fumare perché Canessa aveva detto che le sigarette nuocevano alla sua
salute, e gli dava da mangiare piccole dosi di pasta dentifricia da un tubetto
che Canessa aveva portato dalla coda del Fairchild.
Nonostante tutte queste cure, Turcatti continuava a declinare, e Delgado
decise che occorreva fare qualcosa di più. Stabilì di procurare cibo in più al
paziente e, assecondando la propria indole, ricorse al sistema dei furti.
Riteneva forse che se avesse chiesto ai cugini una razione supplementare di
cibo essi avrebbero rifiutato. Giunse un giorno, però, in cui Canessa aveva la
diarrea e sedeva vicino al giaciglio di Numa nella fusoliera. Delgado andò
fuori a prendere il cibo e rientrò con tre piatti. Canessa aveva deciso di non
mangiare, a causa della diarrea, ma quel giorno era stato cucinato uno stufato,
e, allorché egli vide ciò che Delgado aveva portato dentro, chiese di
assaggiarlo. Delgado glielo consentì volentieri; Canessa assaggiò lo stufato,
poi decise che, tutto sommato, avrebbe preso la sua razione.
Si avvicinò a Eduardo, intento a distribuire le razioni, e chiese quella che
gli spettava. Eduardo disse: «Ma la tua razione l’ho data a Pancho».
«Bè, lui non me l’ha consegnata.» Eduardo perdeva rapidamente la
pazienza e così accadde in quel momento. Cominciò a insultare Delgado e,
proprio allora, il giovane uscì dalla fusoliera.
«Stai parlando di me?»
«Proprio così. Hai rubato una razione e credevi che non me ne sarei
accorto?»
Delgado arrossì e disse: «Non so come tu possa pensare una cosa simile di
me».
«Allora perché non hai dato a Muscoli la sua razione?»
«Credi che l’abbia tenuta per me?»
«Sì.»
«Era per Numa. Forse tu non te ne sei reso conto, ma Numa sta
diventando più debole ogni giorno. Se non avrà cibo in più, morirà.»
Eduardo fu colto di sorpresa. «Allora perché non l’hai chiesto a noi?»
«Pensavo che poteste rifiutare.»
I cugini lasciarono correre, ma continuarono a sospettare di Delgado.
Sapevano, ad esempio, che nei giorni in cui la carne era cruda difficilmente si
riusciva a persuadere Numa a mangiare una razione, e tanto meno due. Né
sfuggì alla loro attenzione che Delgado fumava egli stesso le sigarette sottratte
così coscienziosamente a Numa per impedirgli di fumare troppo.
Anche con una razione in più, le condizioni di Numa non migliorarono.
Egli continuò, anzi, a indebolirsi. Man mano che si indeboliva e diventava più
svogliato, si preoccupava sempre meno di nutrirsi e ciò lo rendeva ancor più
debole. Gli venne inoltre una piaga da decubito sul coccige e quando chiese a
Zerbino di darci un’occhiata, quest’ultimo si rese conto del suo estremo
dimagrimento. Fino ad allora la faccia di lui era rimasta nascosta dalla barba e
il corpo dai vestiti. Spogliandolo per esaminare la piaga, Zerbino potè
constatare che, in pratica, non esisteva più carne tra la pelle e la spina dorsale.
Numa era diventato uno scheletro, e Zerbino disse agli altri, in seguito, che a
suo parere gli restavano soltanto pochi giorni di vita.
Come Inciarte e Sabella, Numa delirò a intermittenza, ma la notte del 10
dicembre dormì serenamente. Al mattino, Delgado uscì per andare a sedersi al
sole. Gli era stato detto che Numa poteva morire, ma la sua mente si rifiutava
di accettare una simile eventualità. Più tardi nel corso della mattinata, pero,
Canessa usci e gli disse che Turcatti era in coma. Delgado rientrò
immediatamente nella fusoliera e si avvicinò all’amico. Numa giaceva lì con
gli occhi aperti ma parve ignaro della presenza di Delgado. Aveva il respiro
lento e faticoso. Delgado gli si inginocchiò accanto e cominciò a recitare il
rosario. Mentre pregava, il respiro cessò.
A mezzogiorno, i cuscini vennero nuovamente disposti sul pavimento
della fusoliera. Era diventata un’abitudine a causa del calore del sole, fare la
siesta. Li sconfortava tutti giacere inattivi in quel modo, ma era meglio che
arrostirsi. Si mettevano a sedere e conversavano, oppure si appisolavano. In
quel particolare pomeriggio, Javier Methol giaceva in fondo alla fusoliera.
«Sta attento», egli disse a Coche, mentre questi si alzava e scavalcava il corpo
di Numa, «sta attento a non calpestare Numa.»
«Ma Numa è morto», disse Parrado.
Javier non si era reso conto della morte del giovane e ora, quando capì, il
suo morale crollò completamente. Pianse come aveva pianto per la morte di
Liliana, in quanto aveva finito con il voler bene al timido e semplice Numa
Turcatti come se fosse stato suo fratello o suo figlio.
***
La morte di Turcatti ottenne ciò che i ragionamenti e le esortazioni non
erano riusciti a ottenere; persuase Canessa che non potevano aspettare più a
lungo. Roy Harley, Coche Inciarte e Moncho Sabella erano tutti debolissimi e
sull’orlo del delirio. Un giorno di ritardo poteva costare la vita a tutti loro.
Decisero pertanto che la spedizione definitiva doveva partire l’indomani,
diretta a ovest, verso il Cile.
Quella sera, prima di entrare per l’ultima volta nell’aereo, Parrado si
appartò con i tre cugini Strauch e disse loro che, se fossero rimasti a corto di
viveri, avrebbero dovuto mangiare i cadaveri di sua madre e di sua sorella.
«Naturalmente, preferirei che non lo faceste», soggiunse, «ma, se sarà una
questione di sopravvivenza, dovrete farlo.»
I cugini tacquero; la loro espressione lasciò capire però quanto erano
rimasti commossi dalle parole di Parrado.
4

Alle cinque della mattina dopo, Canessa, Parrado e Vizintìn si prepararono a


partire. Indossarono anzitutto gli indumenti che avevano scelto nei bagagli dei
quarantacinque passeggeri e degli uomini dell’equipaggio. Subito sopra la
pelle Parrado infilò una canottiera Lacoste e un paio di pantaloni lunghi di
lana, da donna. Si mise poi tre paia di bluejeans e, sopra la canottiera, sei
maglioni. Si coprì il capo con un passamontagna di lana, poi aggiunse il
cappuccio e le spalle che aveva ritagliato dalla pelliccia di Susana e da ultimo
infilò un giubbotto. Sotto le scarpe da rugby aveva quattro paia di calze
rivestite da sacchetti di plastica del supermarket, per tener fuori l’umidità. Le
mani erano protette da guanti, gli occhi da un paio di occhiali scuri. E, per
aiutarsi a salire, disponeva di un’asta di alluminio che teneva legata al polso.
Anche Vizintìn aveva un passamontagna bianco. Indossava altrettanti
maglioni e altrettante paia di bluejeans, ma aveva coperto il tutto con un
impermeabile, e calzava un paio di stivaletti spagnoli. Come nelle occasioni
precedenti, portava inoltre il fardello più pesante, comprendente un terzo della
carne, riposta sia in un sacchetto di plastica, sia in calzettoni da rugby.
Assieme alla carne c’erano pezzi di grasso, per fornire energia, e pezzi di
fegato, contenenti vitamine. Le provviste erano state calcolate per durare ai tre
giovani quindici giorni.
Canessa portava il sacco a pelo. Per coprirsi e tenersi caldo aveva cercato
indumenti di lana, persuaso che le condizioni durissime nelle quali dovevano
marciare richiedevano materiali naturali. Gli piaceva pensare, inoltre, che ogni
indumento aveva qualcosa di prezioso. Uno dei maglioni che indossava gli era
stato regalato da una cara amica di sua madre, un altro da sua madre stessa, e
un terzo era stato lavorato per lui dalla sua novia, Laura Surraco. Un paio dei
calzoni che portava era appartenuto al suo più intimo amico, Daniel Maspons,
e la cintola gliel’aveva data Parrado con queste parole: «È un regalo di
Panchito, il mio migliore amico. Ora il mio migliore amico sei tu, e dunque
prendila». Canessa aveva accettato il dono; portava inoltre i guanti da sci di
Abal e gli scarponi da sci che appartenevano a Javier Methol.
I cugini diedero ai componenti della spedizione qualcosa per colazione
prima di congedarsi da loro. Gli altri stettero a guardare in silenzio. Non
esistevano parole in grado di esprimere ciò che provavano in quel momento
tremendo; sapevano tutti come si trattasse della loro ultima possibilità di
salvezza. Infine Parrado si separò, una volta di più, dal paio di scarpette rosse
che aveva acquistato a Mendoza per sua nipote. Ne mise una in tasca e appese
l’altra alla reticella dei cappelli nella fusoliera. «Tornerò a prenderla», disse.
«Non preoccupatevi.»
«Benissimo», dissero tutti, il morale sollevato dal suo ottimismo. «E non
dimenticare di prenotarci le camere nel’albergo di Santiago.» Poi si
abbracciarono e, tra grida di Hasta luego!, i tre componenti della spedizione
si incamminarono su per la montagna.
Quando avevano percorso un cinquecento metri, Pancho Delgado uscì
zoppicando dalla fusoliera. «Aspettate», urlò, agitando una statuetta che
stringeva nella mano, «avete dimenticato la Vergine di Lujan!»
Canessa si fermò e si voltò. «Non preoccuparti», gli gridò. «Se ha voluto
restare, lasciala rimanere. Noi andremo con Dio nel cuore.»
Risalirono la valle, ma sapevano che questo itinerario li conduceva
lievemente a nordovest e che, a un certo momento, avrebbero dovuto piegare
a ovest e scalare direttamente la montagna. La difficoltà stava nel fatto che i
versanti dai quali erano circondati sembravano uniformemente ripidi e alti.
Canessa e Parrado cominciarono a discutere per stabilire quando avrebbero
dovuto iniziare la scalata. Vizintìn, come sempre, non ebbe alcun parere da
esprimere al riguardo. Infine i due si trovarono d’accordo. Consultarono la
bussola sferica dell’aereo e cominciarono a salire in direzione ovest su per il
fianco della valle. Era un’ascesa faticosissima. Non soltanto si trovavano di
fronte al ripido pendio, ma la neve aveva già cominciato a sciogliersi e, anche
con le loro improvvisate racchette, affondavano fino alle ginocchia. La neve
bagnata, inoltre, inzuppò i cuscini, che divennero eccezionalmente pesanti da
trascinare, con le gambe arcuate, su per la montagna. Ma essi perseverarono,
fermandosi ogni pochi metri per un breve riposo, e, quando si fermarono su
un affioramento di rocce per pranzare a mezzogiorno, si trovavano già molto
in alto. Sotto di loro vedevano ancora il Fairchild, con alcuni dei ragazzi
seduti al sole e intenti ad osservare la loro scalata.
Dopo il pasto a base di carne e grasso e dopo un breve riposo, ripresero il
cammino. Si proponevano di giungere sulla vetta prima dell’oscurità, poiché
sarebbe stato quasi impossibile dormire sui ripidi versanti della montagna.
Arrampicandosi, pensavano al panorama che speravano di poter vedere
dall’altro lato… una veduta di colline e di verdi valli, magari con la capanna
di un pastore o un cascinale già visibili.
Come avevano già avuto modo di rendersi conto, tuttavia, le distanze sulla
neve erano ingannevoli, e quando il sole scomparve dietro alla montagna non
si trovavano affatto vicini alla vetta. Rendendosi conto che in qualche modo
avrebbero dovuto dormire sul pendio, cominciarono a cercare una superficie
pianeggiante. Con loro crescente sgomento, parve non esservene alcuna. La
montagna era quasi verticale. Vizintìn si arrampicò su un affioramento di
roccia (per evitare di aggirarlo sulla neve) e vi rimase bloccato. Per poco non
cadde all’indietro a causa del peso dello zaino e riuscì a salvarsi soltanto
sganciandolo e gettandolo giù sulla neve. L’esperienza lo snervò; cominciò a
gemere, dicendo che non ce la faceva a proseguire. Era totalmente spossato e
per muovere le gambe doveva sollevarle con le mani.
Il buio andava scendendo; una sensazione di panico li pervadeva tutti.
Raggiunsero un altro affioramento di roccia. Parrado ritenne che potesse
esservi una superficie piana sulla sommità e cominciò a scalarlo, mentre
Canessa aspettava in basso con lo zaino. A un tratto Canessa udì un grido:
«Attento!» e un grosso sasso, smosso dalle scarpe da rugby di Parrado, gli
piombò addosso, mancandogli per un pelo la testa. «Per amor di Dio!» urlò
Canessa. «Stai cercando di ammazzarmi?» Poi cominciò a piangere. Era
completamente scoraggiato e disperato.
In cima all’affioramento non esisteva il minimo spazio sul quale potessero
dormire, ma un po’ più avanti trovarono un macigno immenso, accanto al
quale il vento aveva scavato una trincea nella neve. Il fondo della trincea non
era orizzontale, ma la parete di neve avrebbe impedito loro di scivolare giù
per la montagna; decisero pertanto di accamparsi lì e si infilarono nel sacco a
pelo.
Era una notte perfettamente limpida e la temperatura si abbassò di molti
gradi sotto lo zero, ma il sacco a pelo riuscì a tenerli caldi. Mangiarono inoltre
ancora un po’ di carne e bevvero un sorso per ciascuno del rum che avevano
portato con sé. La veduta, da dove giacevano, era magnifica. Dinanzi a loro si
stendeva un enorme paesaggio di montagne coperte di neve e illuminate dalla
luce scialba della luna e delle stelle. Parve loro strano trovarsi lì (con Canessa
nel mezzo), dominati in parte dal terrore e dalla disperazione, ma anche, in
parte, meravigliati dalla magnificenza di tanta gelida bellezza.
Finalmente dormirono, o scivolarono a intermittenza in una sorta di
sonno. La notte era troppo gelida e il terreno troppo duro perché i tre giovani
potessero dormire bene, e le prime luci dell’alba li trovarono tutti desti.
Continuava a far freddo e rimasero nel sacco a pelo, in attesa che il sole
spuntasse da dietro le montagne e sgelasse le loro scarpe, diventate dure come
ghiaccio sulla roccia ove le avevano lasciate. Mentre aspettavano, bevvero un
po’ dell’acqua contenuta nella bottiglia, mangiarono un po’ di carne e
mandarono giù un’altra sorsata di rum per ciascuno.
Osservarono tutti il paesaggio mutare man mano che faceva giorno, ma lo
sguardo di Canessa, che aveva la vista più acuta degli altri due, si posò su una
linea lungo la valle a est, molto più avanti della fusoliera e della sezione di
coda del Fairchild. Poiché tutta quella zona si trovava ancora in ombra, non
era facile stabilirlo, ma gli parve che il terreno laggiù non fosse coperto dalla
neve e che la linea dalla quale era attraversato potesse essere una strada. Non
disse niente agli altri perché l’idea sembrava assurda; il Cile si trovava ad
ovest.
Quando il sole salì da dietro le montagne di fronte, riominciarono ad
arrampicarsi… Parrado in testa, seguito da Vanessa e da Vizintìn. Erano
ancora stanchi tutti e tre e aveano le gambe rigide a causa delle fatiche del
giorno precedente, ma trovarono sulle rocce una sorta di sentiero che
sembrava condurre alla vetta.
La montagna era adesso così ripida che Vizintìn non osava guardare in
basso. Si limitava a seguire Canessa alla stessa prudente distanza con la quale
Canessa seguiva Parrado. A frustrarli tutti era il fatto che ogni vetta dinanzi a
loro risultava essere un’illusione, un cumulo di neve o un affioramento di
rocce. Si fermarono accanto a uno di questi affioramenti per mangiare a metà
giornata, si riposarono per breve tempo, poi ripresero a salire. A metà del
pomeriggio ancora non erano giunti sulla vetta, ma, sebbene sentissero di
essere vicini, temettero di commettere lo stesso errore della sera prima. Per
conseguenza cercarono e trovarono un’analoga trincea scavata dal vento
accanto allo stesso tipo di roccia, e decisero di fermarsi lì.
A differenza da Vizintìn, Canessa non aveva avuto paura di guardare in
basso mentre si arrampicavano su per la montagna e ogni volta gli era
accaduto di vedere quella linea in lontananza diventare più netta e più simile a
una strada. Ora, mentre sedevano con le gambe infilate nel sacco a pelo e
aspettavano il tramonto, la additò agli altri. «Vedete quella linea laggiù?» disse.
«Secondo me è una strada.»
«Non vedo niente», disse Nando, che era miope. «Ma, di qualunque cosa
si tratti, non può essere una strada, in quanto stiamo guardando a est e il Cile
si trova ad ovest.»
«Lo so che il Cile si trova ad ovest», insistette Canessa, «ma continuo a
sostenere che quella è una strada. E laggiù non c’è neve. Guarda, Tintin, la
vedi anche tu, no?»
La vista di Vizintìn non era molto migliore di quella di Parrado. Egli
guardò in lontananza con i suoi piccoli occhi.
«Riesco appena a distinguere una linea, sì», rispose, «ma non potrei dire
se sia una strada o meno.»
«Non può essere una strada», dichiarò Parrado.
«Potrebbe esserci una miniera, laggiù», disse Canessa.
«Esistono miniere di rame proprio nel cuore della cordillera.»
«Come lo sai?» domandò Parrado.
«L’ho letto in qualche posto.»
«È più probabile che sia un cedimento geologico.»
Seguì un silenzio. Poi Canessa disse: «Credo che dovremmo tornare
indietro».
«Tornare indietro?» ripetè Parrado.
«Sì», confermò Canessa, «tornare indietro. Queste montagna è troppo alta.
Non arriveremo mai sulla vetta. Ad ogni passo rischiamo la vita. È una pazzia
proseguire.»
«E che cosa faremo tornando indietro?» domandò Parrado.
«Arriveremo su quella strada.»
«E se la strada non fosse una strada?»
«Senti», disse Canessa, «io ci vedo meglio di te e ti dico che quella è una
strada.»
«Potrebbe esserlo», osservò Parrado, «e potrebbe non esserlo; ma una
cosa la sappiamo con certezza. A ovest c’è il Cile. Se continueremo verso
ovest è certo che arriveremo Cile.»
«Se continueremo verso ovest è certo che ci romperemo l’osso del collo.»
Parrado sospirò.
«Bene, io in ogni modo torno indietro», disse Canessa.
«E io proseguo», disse Parrado. «Se arrivi fino a quella strada e ti accorgi
che non è una strada, sarà troppo tardi tentare di nuovo da questa parte. Sono
già a corto di viveri, laggiù. Non ce ne sarebbero abbastanza per una nuova
spedizione come questa, e vorrebbe dire la fine di tutti; rimarremo quassù
sulla cordillera.»
Dormirono, quella notte, senza aver risolto le loro divergenze. A un certo
momento Vizintìn fu destato da lampi in lontananza e svegliò Canessa
temendo che una tormenta fosse punto di investirli. Ma la notte continuava a
essere limla, non c’era vento e i due ragazzi si riaddormentarono.
La notte non modificò la decisione di Parrado. Non appena cominciò a far
luce, egli si preparò a continuare la scalata. Canessa sembrava meno sicuro di
lui per quanto concerneva il ritomo al Fairchild e pertanto propose che
Parrado e Vizintìn gli lasciassero gli zaini e salissero ancora un breve tratto per
vedere se fossero arrivati alla vetta. Parrado accettò la proposta e partì
immediatamente, seguito da Vizintìn, ma, impaziente com’era di arrivare in
cima, si arrampicò in fretta e ben presto Vizintìn rimase indietro.
L’ascesa era diventata eccezionalmente difficile. La parete neve si levava
quasi verticale e Parrado riusciva a proseguire soltanto scavando gradini per
le mani e per i piedi, gradini dei quali si serviva in seguito Vizintìn. Se fosse
scivolato, sarebbe precipitato per qualche centinaio di metri, ma questo non lo
sgomentava; la superficie della neve era tanto ripida e il cielo in alto tanto
azzurro che egli sapeva di essere ormai vicino alla vetta. Lo sospingeva
l’entusiasmo dell’alpinista il cui trionfo è a portata di mano, ed era
ansiosissimo di vedere che cosa ci fosse dall’altro lato. Mentre si arrampicava,
diceva a se stesso: «Vedrò una valle, vedrò un fiume, vedrò erba verde e
alberi…» e poi, a un tratto, la ripida parete della montagna non fu più tanto
ripida. Passò bruscamente a un’inclinazione lieve, quindi si appiattì e divenne
uno spiazzo largo circa quattro metri, prima di ridiscendere al lato opposto.
Parrado era giunto sulla vetta.
La sua gioia per essere riuscito durò soltanto i pochi secondi occorrenti
per rimettersi in piedi; il panorama che aveva dinanzi non era di verdi vallate
dirette verso l’Oceano Pacifico, ma di una sconfinata distesa di montagne
coperte di neve. Dal punto in cui egli si trovava, nulla impediva la visuale
della vasta cordillera e, per la prima volta, Parrado si rese conto che erano
finiti. Cadde in ginocchio, desideroso di bestemmiare e di protestare a gran
voce con il cielo contro una simile ingiustizia, ma non un suono gli uscì dalle
labbra e, mentre guardava di nuovo, ansimante a causa delle recenti fatiche
nell’aria rarefatta della montagna, la momentanea disperazione fu sostituita,
una volta di più, da una certa esultanza a causa di quello che aveva fatto. Era
vero che il panorama dinanzi a lui consisteva di montagne, le cui vette si
susseguivano fino all’estremo orizzonte, ma il fatto che egli si trovava più in
alto di esse dimostrava come avesse scalato la più alta cima delle Ande. Ho
scalato questa montagna, si disse, e la chiamerò Monte Seler, il nome di mio
padre.
Aveva con sé il rossetto che adoperava per le labbra screpolate e una sacca
di plastica, di ricambio; scrisse con il rossetto il nome «Seler» sulla sacca di
plastica e mise quest’ultima sotto un sasso sulla vetta. Poi sedette per
ammirare il panorama.
Mentre studiava le montagne che aveva dinanzi notò come, esattamente a
ovest, all’estrema sinistra del panorama, si trovassero due montagne le cui
vette non erano coperte di neve. «La cordillera deve pur finire in qualche
punto», disse a sé stesso, «e quindi forse quei due monti si trovano nel Cile.»
La verità era, naturalmente, che non sapeva nulla della cordillera, ma questa
idea ristabilì il suo ottimismo e, quando egli udì Vizintìn chiamarlo dal basso,
gli urlò in un tono di voce allegro: «Torna indietro a chiamare Muscoli. Digli
che tutto andrà bene. Digli che salga a vedere egli stesso!» Poi, dopo essersi
accertato che Vizintìn lo aveva udito e stava ridiscendendo, Parrado
ricominciò ad ammirare il panorama dalla vetta del Monte Seler.
***
Quando gli altri due erano ripartiti verso la vetta, Canessa, seduto accanto
agli zaini, aveva osservato la sua «strada» mentre cambiava colore nella luce
mutevole. Quanto più la issava, tanto più si persuadeva che si trattava di una
strada, ma poi, due ore dopo, Vizintìn tomo con la notizia che Parrado era
arrivato sulla vetta e voleva essere raggiunto la ia Canessa.
«Sei sicuro che sia sulla vetta?»
«Sì, sicurissimo.»
«Tu ci sei arrivato?»
«No, ma Nando dice che è meraviglioso. Dice che tutto andrà bene.»
Con riluttanza, Canessa si mise in piedi e si arrampicò su per il fianco
della montagna. Aveva lasciato il suo zaino a Vizintìn, ma impiegò ugualmente
un’ora di più di Parrado. Seguì i gradini tagliati dai due nella neve e, mentre si
avvicinava alla vetta, chiamò l’amico. Udì il grido di risposta di Parrado e
seguì le sue indicazioni finché non venne a trovarsi sulla cima della montagna.
L’effetto di ciò che vide fu identico a quello che il panorama di vette
aveva fatto a Parrado. Guardò allibito le innumerevoli montagne che si
perdevano verso ovest. «Ma per noi è finita» disse, «è assolutamente finita.
Non abbiamo una sola probabilità, per l’inferno, di attraversare tutti quei
monti.»
«Però, guarda», disse Parrado. «Guarda là, ad ovest. Non vedi? Sulla
sinistra? Due montagne senza neve?»
«Vuoi dire quelle tette?»
«Le tette. Sì.»
«Ma sono lontane chilometri e chilometri. Impiegheremo cinquanta giorni
per arrivarci.»
«Cinquanta giorni? Tu credi? Ma guarda là.» Parrado additò un punto
intermedio. «Se discendiamo questa montagna e seguiamo quella valle, si
arriva a una specie di biforcazione. Ebbene, uno dei rami della biforcazione
deve condurre alle tette.»
Canessa seguì con lo sguardo la direzione indicata dal braccio di Parrado,
vide la valle e vide la biforcazione. «Può darsi», disse. «Ma impiegheremo
ugualmente cinquanta giorni, e abbiamo viveri soltanto per dieci.»
«Lo so», replicò Parrado. «Però ho pensato una cosa. Perché non
mandiamo indietro Tintin?»
«Non so se vorrà.»
«Tornerà indietro se glielo diciamo noi. In tal caso potremo tenere i suoi
viveri. Se li razioniamo accuratamente, dovrebbero durarci per venti giorni.»
«E dopo?»
«Dopo troveremo qualcosa.»
«Non lo so», disse Canessa. «Credo che preferirei tornare indietro e
cercare quella strada.»
«Allora toma indietro», esclamò Parrado, in tono aspro. «Toma indietro e
trova la strada. Ma io vado in Cile.»
Tornarono sui loro passi giù per la montagna e ritrovarono Vizintìn e gli
zaini verso le cinque del pomeriggio. Durante la loro assenza, Vizintìn aveva
fatto sciogliere un po’ di neve, per cui poterono ora placare la sete prima di
mangiare ancora un po’ di carne. Mentre stavano mangiando, Canessa si
rivolse a Vizintìn e disse, nel tono più noncurante di cui fu capace: «Ehi,
Tintin, secondo Nando sarebbe preferibile che tu tornassi all’aereo. Vedi, in
questo modo noi avremmo più cibo».
«Tornare indietro?» disse Vizintìn, e la faccia gli si illuminò. «Certo. Se la
pensate così.» E, prima che l’uno o l’altro avessero potuto aggiungere
qualcosa, prese lo zaino e fece per assicurarselo sulle spalle.
«Non questa notte», disse Canessa. «Domattina potrà bastare.»
«Domattina?» disse Vizintìn. «Okay. Bene.»
«Non ti dispiace?»
«Dispiacermi? No. Tutto quello che volete voi.»
«E quando sarai tornato», soggiunse Canessa, «dirai agli altri che noi
siamo andati a ovest. E se l’aereo vi troverà e vi salverà, non dimenticatevi di
noi, per piacere.»
Canessa rimase desto, quella notte; non era ancora affatto certo che
sarebbe andato con Parrado, invece di tornare indietro con Vizintìn. Continuò
a discutere la cosa con Parrado, sotto le stelle, e Vizintìn si addormentò al
suono delle loro voci che ragionavano. Ma la mattina dopo, quando si
destarono, Canessa aveva deciso. Sarebbe andato con Parrado. Per
conseguenza, si fecero consegnare da Vizintìn la carne e ogni altra cosa che
avrebbe potuto essere loro utile (ma non la rivoltella, che avevano sempre
considerato un peso morto) e si accinsero a congedarsi da lui.
«Senti, Muscoli», disse Vizintìn, «c’è qualcosa… voglio dire, c’è qualche
parte dei cadaveri che non si dovrebbe mangiare?»
«Niente», rispose Canessa. «Tutto ha qualche valore nutritivo.»
«Anche i polmoni?»
«Anche i polmoni.» .
Vizintìn annuì. Poi tornò a guardare Canessa. «Senti», disse, «visto che voi
due proseguite e io tomo indietro, ce qualcosa di mio che potrebbe
occorrervi? Non esitate a dirlo, perché le vite di noi tutti saranno salve se
riuscirete a passare»
«Bè», disse Canessa, guardando Vizintìn da capo a piedi e osservando il
suo equipaggiamento. «Non mi aispiacerebbe avere quel passamontagna.»
«Questo?» disse Vizintìn, toccando il passamontagna di lana bianca che
aveva sul capo. «Vuoi dire questo?»
«Sì. Quello.»
«Io… ehm.,, credi che davvero ne avrai bisogno?»
«Tintin, te lo avrei chiesto se pensassi di non averne bisogno?»
Con riluttanza, Tintin si tolse e consegnò il diletto passamontagna.
«Bene, buona fortuna», disse.
«Altrettanto a te», rispose Parrado. «Fa attenzione, scendendo.»
«Sicuro che starò attento.»
«Non dimenticare», soggiunse Canessa. «Di a Fito che siamo andati a
ovest. E, se vi salveranno, dite che vengano a cercarci.»
«Non preoccuparti», rispose Vizintìn. Abbracciò i due compagni e si
incamminò giù per la montagna.
Parte Ottava
1

I tredici giovani rimasti nel Fairchild avevano seguito il cammino dei tre
componenti della spedizione su per la montagna attraverso i loro improvvisati
occhiali da sole. Fu facile osservarli il primo giorno, ma il secondo erano
appena dei puntolini sulla neve. A sconfortare i giovani fu la lentezza con cui
progredivano; avevano creduto che sarebbe bastata una mattinata, o che
sarebbe occorso al massimo un giorno per arrivare alla vetta, e invece, il
mattino del secondo giorno, i tre si trovavano ancora a malapena a metà
strada. Nel pomeriggio del secondo giorno, raggiunsero una fascia di schisti e
scomparvero alla vista.
Contemporaneamente, però, un aereo apparve oltre la vetta della
montagna. I giovani si prepararono immediatamente a fare segnalazioni, ma lo
avevano appena veduto che esso tornò verso ovest.
Non potevano fare più niente per i componenti della spedizione, tranne
pregare; d’altro canto, dovevano risolvere numerosi problemi pratici. Il più
importante era la scarsità di cibo. Sebbene non avessero ancora trovato tutti i
cadaveri intorno all’aereo, Fito decise di salire sulla montagna alla ricerca dei
corpi caduti dall’aereo. Ogni giorno che passava, nuove forme e nuove
chiazze scure apparivano sul pendio ed egli ritenne importante, se si trattava di
cadaveri, andare a coprirli con la neve prima che imputridissero.
Zerbino, che era salito sulla montagna e aveva trovato i cadaveri più di
sette settimane prima, accettò di accompagnare Fito, e i due partirono nelle
prime ore del mattino del 13 dicembre. La superficie della neve era ancora
dura e salirono rapidamente. Erano meglio equipaggiati di quanto lo fosse
stato Zerbino durante la prima spedizione con Maspons e Turcatti e inoltre
entrambi i giovani avevano adesso un maggior allenamento. Di quando in
quando, man mano che arrivavano sempre più in alto, si soffermavano per
riposare e per guardare il Fairchild sotto di loro e le montagne di fronte e ai
lati. Quanto più salivano, tanto più numerosi divenivano i monti visibili, tutti
straordinariamente alti e coperti di neve, e questo li scoraggiò moltissimo.
Sembrava impossibile che si trovassero, come avevano sperato, sui primi
contrafforti delle Ande. Con vette così gigantesche tutto intorno a loro,
potevano essere soltanto nel cuore stesso della catena montuosa. Quali
possibilità potevano avere Canessa, Parrado e Vizintìn di raggiungere il Cile
attraverso una zona così invalicabile? Dovevano distare di molti chilometri
dalla più vicina abitazione umana, e i tre componenti della spedizione avevano
portato con sé cibo per soli quindici giorni.
«Potremo essere costretti a far partire un’altra spedizione», disse Fito.
«Questa volta con più provviste.»
«Formata da chi?» domandò Zerbino.
«Da noi due e da Carlitos, forse, o da Daniel.»
«Forse l’aereo ci troverà prima.»
Si fermarono e guardarono, in basso, il Fairchild. Poiché il tetto della
fusoliera era bianco, esso rimaneva praticamente invisibile; da quell’altezza, si
vedevano più chiaramente i sedili, gli indumenti e le ossa sparse qua e là sulla
neve.
«Faremo bene a lasciar fuori tutte le ossa», disse Fito. «Sono le sole cose
che si possano vedere.»
Dopo essersi arrampicati per due ore, i giovani scorsero il primo indizio
del fatto che si trovavano nella zona ove giacevano i cadaveri. Si trattava di
una giacca di velluto foderata con lana. Fito la prese, scrollò la neve, e la
infilò sopra il maglione.
Continuarono a salire e ben presto scorsero un cadavere disteso supino
sulla neve. Fito rimase scosso riconoscendo le fattezze di un altro suo cugino,
Daniel Shaw. Immediatamente lo pervasero sentimenti contrastanti; aveva
trovato il cibo che cercava, ma, siccome il cadavere era quello di suo cugino
provava una straordinaria riluttanza ad utilizzarlo. Si voltò verso Zerbino:
«Proseguiamo e vediamo se riusciamo a trovare gli altri».
Continuarono ad arrancare sulla neve, che stava diventando rapidamente
molliccia sotto i loro passi. Quando furono giunti nel luogo in cui sembrava
di ricordare a Zerbino che si trovassero gli altri cadaveri, videro soltanto vari
framnentì dell’aereo stesso. Uno di questi ultimi era grande abbastanza per
essere adoperato come una sorta di slitta e Fito, rendendosi conto che il suo
dovere nei confronti dei compagni non gli lasciava vie d’uscita, lo prese
prima di tornare indietro verso il corpo di suo cugino.
Quando furono giunti di nuovo accanto ad esso, legarono il cadavere,
irrigidito dalla morte e dal freddo, al pezzo di metallo curvo, servendosi delle
funi di nylon trovate nel vano bagagli. Fito sedette su uno dei cuscini che
avevano portato con sé come racchette e lo legò alla slitta. Poi, affondando i
tacchi nella neve e spingendo, cominciarono a scivolare giù per il fianco della
montagna.
Quel mezzo improvvisato per trasportare il cadavere risultò essere più
efficiente, di quanto avessero supposto e, mentre scivolavano verso la valle,
acquistò velocità e cominciò a filare davvero molto rapidamente. Zerbino,
seduto dietro il cadavere, cercava di guidare la slitta con i piedi, ma vi riusciva
assai poco… non certo quanto bastava per manovrarla tra i macigni
disseminati sulla neve. Parve, tuttavia, che li guidasse una mano invisibile,
poiché la slitta non finì contro alcun macigno e, quando giunsero all’altezza
del Fairchild, Fito affondò i piedi nella neve e la corsa, adagio, cessò.
Avevano sbagliato direzione. Si trovavano sull’altro lato della valle, e
ormai la neve era tanto soffice, ed entrambi si sentivano così stanchi, che
decisero di lasciare il morto dove si trovava, sepolto nella neve, e di tornare a
prenderlo il giorno dopo. Mentre stavano scavando una buca con le mani,
scorsero le figure di Eduardo, di Fernández, di Algorta e di Páez venire verso
di loro.
«State bene?» gridò Fernández.
Non risposero.
«Vi abbiamo veduti saettare giù per la montagna a una velocità tale che
abbiamo creduto vi sareste ammazzati.»
Di nuovo non risposero.
«Avete trovato qualcosa?»
«Sì», disse Fito. «Abbiamo trovato Daniel.»
Fernández guardò Fito, ma non disse niente. Tornarono al Fairchild, e, la
mattina dopo, quando la superficie della neve era di nuovo gelata, tornarono a
prendere il cadavere. Allorché lo ebbero portato all’aereo, Fito chiese agli altri
ragazzi se il corpo di suo cugino poteva essere posto accanto a quelli che
avevano deciso di conservare fino all’ultimissimo momento, e ottenne una
risposta affermativa.
Páez e Algorta partirono di nuovo e salirono sulla montagna per vedere se
riuscivano a trovare un altro cadavere. Trovarono dapprima una borsetta per
signora dalla quale tolsero il rossetto, tanto utile per proteggere le loro labbra
screpolate dal sole. Entrambi cominciarono subito a passarselo sulla bocca,
guardandosi nello specchietto del portacipria. «Sai che cosa penseranno?»
disse Carlitos, ridendo nel vedere la faccia dipinta di Pedro. «Se verranno a
salvarci, questo pomeriggio, e ci troveranno conciati così, penseranno che la
frustrazione sessuale abbia fatto di noi degli invertiti frenetici.»
Continuarono a salire e trovarono un cadavere. La pelle della faccia e delle
mani, rimasta esposta al sole, era diventata nera, e gli occhi mancavano, o
perché il sole li aveva bruciati, o perché i condor li avevano beccati. Ormai
faceva caldo e la neve stava diventando soffice; pertanto coprirono il corpo e
ridiscesero.
Il giorno dopo, Algorta tornò a prendere il cadavere insieme con Fito e
Zerbino. Cominciarono subito a farlo a pezzi, essendo pervenuti alla
conclusione che questo sistema sarebbe stato più comodo del trasporto
dell’intero corpo fino all’aereo. Misero la carne e il grasso nei calzettoni da
rugby, e mangiarono tutto quello che ritennero di meritare per il consumo in
più di energia. Poi, alle nove e mezzo del mattino, sebbene non avessero
portató a termine il lavoro, si incamminarono verso la fusoliera del Fairchild,
Fito e Zerbino con gli zaini pieni, Algorta portando sulla spalla un braccio del
morto e, legata alla vita, la scure.
Quando arrivarono al Fairchild, videro una scena straordinaria. Gli altri
superstiti si trovavano tutti fuori della fusoliera, in piedi al centro della croce
tracciata sulla neve, e fissavano il cielo. Alcuni di loro si stavano
abbracciando; altri pregavano Dio a voce alta. All’estremità esterna della
croce, Pancho Delgado, in ginocchio, stava urlando: «Gastón, povero Gastón!
Come vorrei che fosse qui, adesso!»
Daniel Fernández era in piedi al centro della croce, con Ia radiolina
accostata all’orecchio. «Hanno trovato una croe» disse. «Abbiamo appena
sentito alla radio che hanno trovato una croce in una località chiamata
montagna SantaElena.»
Il morale dei tre arrivati in quel momento con la carne si risollevò a tale
notizia; quale altra croce sarebbe potuta ssere avvistata, infatti, se non la loro?
Ritennero che la montagna Santa Elena fosse quella alle loro spalle e per tutto
il resto della mattinata aspettarono i soccorsi che credevano imminenti,
Fernández sempre con la radiolina accostata all’orecchio. Udì che aerei cileni
e argentini si erano uniti al C47 uruguayano nelle ricerche e che le autorità
argentine stavano indagando sulla croce, in quanto sembrava che essa si
trovasse sul loro territorio.
Mentre Fernández ascoltava la radio, Methol portò fuori la statuetta di
sant’Elena che avevano trovato tra gli oggetti personali di Liliana Methol.
Insieme con alcuni giovani, egli pregò quella santa protettrice degli smarriti, e
molti di loro pronunciarono un voto: se mai avessero avuto una figlia, le
avrebbero dato il nome di Elena.
Per tutto il giorno aspettarono gli elicotteri e a un tratto li udirono all’altro
lato della montagna. Una volta di più si abbracciarono e spiccarono balzi in
aria, ma quell’esultanza era prematura. Nessun elicottero apparve nel cielo. Il
rombo che avevano udito divenne un mormorio e poi si dileguò, lasciando al
proprio posto soltanto il silenzio enorme della cordillera. Quanto avevano
scambiato per motori di elicotteri era stato il frastuono di una valanga.
Quando la sera discese, rientrarono nella fusoliera, amaramente delusi.
Incominciarono a riflettere con maggiore serietà. Quale aereo aveva sorvolato
loro, o la coda del Fairchild, se era stata avvistata l’una o l’altra delle croci
tracciate nella neve? E, se erano stati veduti, come mai gli elicotteri non
arrivavano?
La mattina dopo, molto presto, e con una temperatura gelida, gli stessi tre
giovani del giorno prima tornarono al cadavere sulla montagna per tagliare la
carne rimasta prima che si decomponesse. Una volta di più, mangiarono
quanto ritenevano di meritare e riempirono gli zaini, lasciando soltanto la
colonna vertebrale, le costole, i piedi e il cranio.
Quest’ultimo lo spaccarono con la scure, ma il cervello sapeva di putrido
e pertanto rinunciarono a prenderlo e ridiscesero.
2

Il mattino del 15 dicembre, i giovani sui sedili disposti di fronte alla fusoliera
videro a un tratto qualcosa che scendeva a una velocità tremenda lungo il
fianco della montagna. Pensarono a tutta prima che fosse un macigno smosso
dallo scioglimento delle nevi, ma, quando fu più vicino, distinsero la sagoma
di un uomo e, allorché si avvicinò ulteriormente, riconobbero Vizintìn. Si
sarebbe detto che egli stesse precipitando, ma la sua discesa era controllata,
poiché sedeva su un cuscino, e, una volta arrivato all’altezza della fusoliera,
affondò i piedi nella neve e si fermò.
Tutta una serie di terribili supposizioni si affacciò nei tredici giovani
mentre lo guardavano arrancare verso di loro sulla neve. Pensarono che l’uno
o l’altro dei suoi compagni, o entrambi, avessero perduto la vita, o che tutti e
tre avessero rinunciato e Vizintìn fosse il primo a tornare. Alcuni di loro, un
po’ più ottimisti, sperarono che i componenti della spedizione fossero stati
veduti dall’aereo apparso dietro la sommità della montagna.
Non appena li ebbe raggiunti, Vizintìn spiegò quanto era accaduto.
«Nando e Muscoli sono arrivati sulla vetta», disse. «Stanno proseguendo, ma
mi hanno mandato indietro per far durare di più i viveri.»
«Ma che cosa c’è dall’altra parte?» domandarono tutti, raggruppandoglisi
intorno.
«Altre montagne… montagne sin dove arriva lo sguardo. Quanto a me,
non credo che abbiano molte probabilità di riuscire.»
Di nuovo essi si abbandonarono allo scoraggiamento. Un altro sogno, che
esistessero vallate verdeggianti al lato opposto della montagna, era stato
distrutto dalla brutale realtà. Ciò che Vizintìn disse li sconfortò tutti. «La
scalata è stata un inferno», egli riferì, «un vero inferno. Abbiamo impiegato ì
giorni per arrivare lassù. Credo che non ce la farei, se dovessi ripetere una
simile impresa.»
«Quanto tempo hai impiegato per scendere?» Vizintìn rise. «Tre quarti
d’ora. Venir giù non è un problema. Il brutto è salire.» Si interruppe, poi
soggiunse: «E il buffo è che a est c’è meno neve», e additò il fondo valle, «di
quanta ce ne sia a ovest. A Muscoli, inoltre, è sembrato vedere una strada.»
«Una strada? Dove?»
«A est.» Gli Strauch crollarono il capo. «Ma questo è impossibile. Il Cile si
trova a ovest.»
«Sì», cantilenarono i ragazzi più giovani, «il Cile è a ovest, il Cile è a
ovest…»
A mezzogiorno vi fu un breve alterco per stabilire quanta carne si sarebbe
dovuta dare a Vizintìn. «Ma sono appena tornato da una spedizione. Devo
rimettermi in forze… e non ho mangiato molto. Ho dato tutti i miei viveri a
Nando e a Muscoli.»
Gli diedero qualcosa di più, ma con l’intesa che in avvenire sarebbe stato
trattato come tutti gli altri. Quel pomeriggio, perciò, Vizintìn girò intorno
all’aereo, raccattò tutti i pezzi di polmone che riuscì a trovare e li
ammonticchiò sul suo vassoio. Fino a quel momento erano stati gettati via
(tranne una volta, quando Canessa li aveva fatti passare per fegato) e nessuno
si era mai dato la pena di coprirli con la neve; per conseguenza avevano
cominciato a marcire e il calore del sole stava formando intorno ad essi una
sorta di dura crosta. Gli altri osservarono Vizintìn raccattare quei brandelli e
disporli sulla sua parte del tetto della fusoliera.
«Vuoi mangiare questa roba?» domandò qualcuno.
«Sì.»
«Ti ammalerai.»
«Niente affatto. Muscoli ha detto che mi avrebbe fatto bene.»
Continuarono ad osservarli mentre tagliava pezzi dai polmoni putridi e li
mangiava; poi, quando, il giorno dopo, constatarono che non stava affatto
peggio per questo, alcuni degli altri ragazzi comunicarono a seguire il suo
esempio. Si comportarono in questo modo per la necessità di un sapore
nuovo, non perché il cibo facesse difetto, in quanto, a un tratto la neve,
sciogliendosi, aveva cominciato a lasciare allo scoperto tutti i cadaveri di
coloro che erano periti a causa della caduta dell’aereo, o subito dopo. I
cadaveri erano dieci, ma cinque di essi i giovani si erano impegnati a
mangiarli soltanto in caso di estrema necessità. Uno era stato consumato in
gran parte prima della valanga, ma i sei che restavano, assieme a quelli dei
due piloti, tuttora sui loro seggiolini, sarebbero potuti durare ai sopravvissuti
per altre cinque o sei settimane. Tutti i corpi erano stati perfettamente
conservati dalla neve e, siccome si trattava delle prime vittime, erano più
ricchi di carne, e di carne migliore, delle vittime della valanga o dei giovani
periti successivamente.
Questi frutti improvvisi del disgelo avrebbero potuto tentare un gruppo
meno disciplinato ad attenuare il severo razionamento della carne, ma gli
Strauch pensavano molto seriamente di poter essere costretti a organizzare una
seconda spedizione fornendole provviste per un viaggio molto più lungo di
quello previsto per Canessa, Parrado e Vizintìn. Per conseguenza, scavarono
due buche nella neve. Nell’una misero i cadaveri che dovevano essere
conservati fino all’ultimo momento e nell’altra quelli da consumare man
mano che ciò si rendesse necessario.
Sarebbe stato possibile, adesso, evitare di nutrirsi con polmoni putridi e
con intestini putrefatti di cadaveri tagliati già da settimane, ma una metà dei
giovani continuò ugualmente a cibarsene perché v’era la necessità di un
sapore più forte. Era occorso uno sforzo supremo della volontà a questi
ragazzi per indursi a mangiare carne umana, ma, una volta cominciato e
perseverato, l’appetito era venuto mangiando, essendo l’istinto della
sopravvivenza un tiranno inesorabile il quale esigeva non soltanto che
divorassero i loro compagni, ma che si abituassero a farlo.
Il più paradossale, forse, sotto questo aspetto, era Pedro Algorta. Egli non
apparteneva come gli altri a una famiglia di proprietari di ranch (era un
sensibile intellettuale socialista) e aveva giustificato l’ingestione di quelle
prime fettine di carne umana paragonandola a quanto si faceva ingerendo il
corpo e il sangue del Cristo con la Santa Comunione. Eppure, adesso, quando
scoprirono una volta di più quella stessa carcassa dalla quale avevano ricavato
il primo pasto, Algorta si mise a sedere su un cuscino, armato di coltello, e
raschiò via la carne marcia e zuppa rimasta intorno alle spalle e alle costole.
Riusciva ancora più difficile a lui e agli altri mangiare ciò che era
riconoscibilmente umano, una mano, ad esempio, o un piede, ma se ne
nutrivano ugualmente.
A metà giornata il sole era ormai tanto caldo che potevano quasi cucinare
la carne sul tetto della fusoliera. Vi furoo anche altre conseguenze del rapido
disgelo. Il livello della neve si abbassò fino alla base della fusoliera, e ciò non
soltanto rese difficile salire sul tetto, ma li indusse a temere che l’aereo potesse
rovesciarsi. Inoltre la neve, sciogliendosi, smuoveva, più in alto sulla
montagna, macigni che precipitano verso di loro. L’aumento della temperatura
portò altri segni di vita; alcune rondini volarono intorno alla fusoliera, una di
esse si posò sulla spalla di un ragazzo, che cercò di afferrarla, ma invano. In
complesso, tuttavia, l’attesa aveva un pessimo effetto sui loro nervi. Nei
pensieri, vacillavano tra la speranza nel successo di Canessa e Parrado e i più
rassegnati progetti di una seconda spedizione, che sarebbe dovuta artire il 2 o
il 3 di gennaio.
Era il momento adatto perché capri espiatori dominassero sulla scena. Il
contenuto di un tubetto di pasta dentifricia era stato distribuito all’intero
gruppo, una minima quantità per volta, come dessert; questo tubetto venne
trovato spremuto e vuotato sul pavimento della fusoliera. Seguì un
‘immediata indagine e i sospetti parvero cadere su Moncho Sabella e Pancho
Delgado, perché essi erano stati i soli a trovarsi all’interno dell’aereo, ma
siccome non si riuscì a provare nulla, nessuno venne apertamente accusato.
Nel corso delle indagini, però, risultò che Roy Harley aveva, tra le sue cose,
un pieccolo tubetto di pasta dentifricia. Quando gli chiesero di giustificarne il
possesso, egli disse di averlo barattato con Delgado contro sette sigarette.
«E tu dove lo avevi preso, Pancho?» domandarono gli altri a Delgado.
«Muscoli lo portò su dalla coda dell’aereo e me lo diede perché lo dessi a
Numa. Così, quando Numa morì…»
«Tu lo tenesti?»
«Sì.»
«Perché non lo restituisti alla comunità?»
«Restituirlo? Non lo so. Non mi venne in mente.»
La questione fu discussa e dodici giudici ritennero che Delgado non
avesse avuto alcun diritto di tenere il dentifricio dopo la morte di Numa; non
avrebbe neppure avuto, pertanto, il diritto di darlo a Roy contro sette sigarette.
Il tubetto doveva essere pertanto confiscato dalla comunità, e Delgado doveva
fare ammenda con Roy.
Roy fu giudicato innocente perché non si era trovato nella sezione di coda
in quasi tutto il periodo durante il quale Delgado aveva avuto il tubetto e
pertanto poteva non sapere che esso doveva essere consegnato a Numa.
Delgado venne riconosciuto colpevole; ma i giudici, in genere, pensarono che
si fosse comportato in quel modo in buona fede, e poiché egli accettò di
buona grazia il verdetto dei propri pari e restituì le sigarette a Roy (anche se
soltanto quattro, perché parte della pasta dentifricia era stata mangiata), quel
particolare incidente venne dimenticato. Nella mente di alcuni dei suoi
compagni rimase tuttavia il sospetto che fosse stato lui a mangiare il contenuto
dell’altro tubetto di dentifricio; sebbene nessuno osasse accusarlo
apertamente, tutti fecero insinuazioni irose alla sua presenza.
Mentre ognuno dei giovani rubacchiava pezzi di carne di più, del tutto
apertamente (Inciarte, ad esempio, quando cucinava), Delgado rubava di
nascosto, e, siccome aveva minori possibilità degli altri, prendeva di più ogni
volta. Lo zelante Zerbino, per conseguenza, attenendosi al suo compito di
investigatore, decise di predisporre una trappola. Daniel Fernández stava
tagliando un cadavere a una certa distanza dalla fusoliera. Consegnava i pezzi
di carne più grossi a Zerbino, il quale, quando non se li metteva in bocca, li
passava a Delgado, che li consegnava a Eduardo Strauch affinché venissero
tagliati in pezzi più piccoli. Due dei pezzi meno grossi non arrivarono a
destinazione. Zerbino immediatamente ordinò a Fito di tener d’occhio
Delgado e poi consegnò un grosso pezzo di carne. Delgado, ignaro di essere
osservato, lo posò furtivamente su un vassoio accanto al suo sedile e passò a
Eduardo un pezzo più piccolo.
Zerbino lo affrontò subito. «Che cosa sta succedendo?» domandò.
«Succedendo?» disse Pancho.
«Che cos’è quella roba sul tuo vassoio?» volle sapere Fito.
«Di che cosa stai parlando?» domandò Pancho. «Questo? Questo pezzo di
carne? Oh, è un pezzettino che ha lasciato Daniel stamane.»
Fito e Zerbino lo fissarono con disprezzo, e si sforzarono di dominare
l’ira; poi gli voltarono le spalle e andarono a dirlo al «tedesco». Eduardo riuscì
meno bene a dominarsi. Non rivolse la parola direttamente a Delgado, che
rimaneva sul sedile a qualche passo di distanza, ma lo insultò con gli altri a
voce così alta che Pancho non potè non udirlo.
«Che cos’è questa storia?» domandò a Eduardo. «Stai parlando di me?»
«Proprio così», rispose l’altro. «Questa è la settima volta che scompare del
cibo, ed ecco che lo hai tu, sul tuo vassoio.»
Delgado impallidì e non rispose; Fito afferrò suo cugino per il braccio.
«Lascia perdere, lasciamo perdere», disse.
La furia del tedesco si dileguò, ma la disapprovazione dei cugini costituiva
un grave svantaggio nella piccola comunità del Fairchild. Venne a
determinarsi, contro Delgado, un forte risentimento. Se qualcosa mancava, si
facevano alla sua presenza scoperte insinuazioni sull’«opportunista» o sulla
«mano santa». Questo stato d’animo era condiviso anche da Algorta, che
dormiva insieme con lui, e che ricordava come Delgado lo avesse riscaldato
dopo la valanga. Sebbene egli non fosse affatto persuaso che ogni piccolo
furto venisse commesso da Delgado, si lasciò trascinare da quell’atmosfera di
antagonismo. Temeva persino che, difendendo Delgado, sarebbe stato
ignorato egli stesso dal gruppo. Methol e Mangino non ce l’avevano con
Pancho, ma l’unico giovane che continuò a essergli amico fu Coche Inciarte,
in quanto egli ricordava come Delgado gli avesse prestato la giacca quando
aveva freddo e costretto a mangiare carne e grasso quando, a causa della
ripugnanza, si sarebbe lasciato morire di fame. Eppure Coche era tanto
benvoluto, non solamente dai cugini, ma da tutti i ragazzi, che nessuno voleva
mettersi contro di lui a causa della sua piacevole compagnia. Questo solo
fattore salvò Pancho Delgado dall’isolamento totale.
***
Gli incidenti come questi con Delgado non miglioravano certo il morale.
Man mano che passavano i giorni, la radiolina captava soltanto brutte notizie.
La croce avvistata su una montagna non era la loro, ma l’opera di un gruppo
di geofisici argentini di Mendoza. Per conseguenza, gli elicotteri del SAR
venivano di nuovo tenuti al suolo. Soltanto il C47 uruguayano continuava le
ricerche.
Poi, un pomeriggio, udirono nel cielo il ronzio dei suoi motori. Una volta
di più, come quando avevano saputo della croce, i giovani arrivarono a
parossismi di entusiasmo e cominciarono a urlare e a pregare finché,
inorridendo, non udirono il rombo dell’aereo diventare più fioco. Serbarono
allora il silenzio più assoluto e, in piedi sulla neve, tesero le orecchie per udire
anche il suono più lieve. Il ronzio del velivolo si attenuò, poi ridivenne forte,
poi tornò a indebolirsi, e di nuovo divenne più forte. Non riuscivano a
scorgerlo, ma dedussero dal suono che stava sorvolando la zona secondo
linee parallele. Subito indossarono tutti i loro indumenti più vistosi e,
rendendosi conto che dall’aereo sarebbe stato più facile scorgere qualcosa in
movimento, si esercitarono in tutta una routine in base alla quale i più sani
correvano in tondo formando due cerchi, mentre gli zoppicanti formavano
una fila e agitavano le braccia verso il cielo. Affinché tutti sapessero dove
correre e dove restare fermi, segnarono i punti con ossa: una linea retta, con
un circolo a ciascun lato. Aspettarono fino a sera, mentre il rombo dei motori
dell’aereo risuonava sempre più vicino; e quando cominciò a far buio e nel
cielo non si udì più alcun suono, andarono a coricarsi felici pensando che il
velivolo avrebbe senza dubbio ripreso le ricerche là ove erano state interrotte.
Quella notte, come le altre notti, pregarono.per la salvezza, ma pregarono
anche affinché i componenti della spedizione venissero soccorsi prima che
l’aereo trovasse loro. La mattina dopo, quasi che quest’ultima preghiera fosse
stata esaudita in parte, appresero dalla radio che il C47 uruguayano aveva
avuto noie ai motori e si trovava di nuovo immobilizzato a Santiago.
Era trascorsa una settimana dalla partenza di Canessa e di Parrado, e
mancava meno di una settimana al giorno di Natale. Il pensiero che ormai,
quasi certamente, avrebbero dovuto trascorrere il Natale sulla montagna era
sconfortante all’estremo per quasi tutti loro. Soltanto Pedro Algorta si sentiva
ragionevolmente soddisfatto; egli non vedeva l’ora di fumare il sigaro Avana
che sarebbe toccato a ognuno di loro per festeggiare l’occasione. Per gli altri,
invece, l’imminenza del Natale fu causa del massimo scoraggiamento. Persino
Fito, avendo scalato la montagna assieme a Zerbino e veduto quel che li
circondava, dubitava che Parrado e Canessa riuscissero a passare. Parlò di
una nuova spedizione con Páez, Zerbino e i suoi cugini, ma senza l’ottimismo
e l’entusiasmo che aveva dimostrato in occasione della prima. Se i campioni
avevano fallito, quali probabilità potevano avere loro di riuscire?
Durante la mattinata, le menti dei giovani furono distratte da questo
pessimistico corso di pensieri dal lavoro del taglio della carne. Soltanto dopo
che ebbero mangiato e furono risaliti nella fusoliera per la siesta, si sentirono
quanto mai sviliti. Non riuscirono né a lavorare né a dormire, ma giacquero
irrequieti nell’umida e afosa cabina passeggeri, in attesa del fresco della sera.
Mangino era triste per Canessa. Methol, avendo trovato soltanto allora la
lettera scritta da Liliaa ai suoi figli, pianse copiosamente leggendola.
Ogni giorno, verso le tre o le quattro del pomeriggio, tornavano a uscire, e
le ore prima dell’oscurità erano le più iacevoli della giornata. Seduti, si
dedicavano a lavoretti di poco conto, come raschiare carne da un osso o
sciogliere neve per ricavarne acqua potabile, dimenticando così per un
momento dove si trovavano. Quindi, mentre il sole tramontava dietro le
montagne a ovest, risalivano per un breve tratto la valle e si mettevano a
sedere sui cuscini per fumare l’ultima sigaretta alla luce del crepuscolo. In
quel momento della giornata erano quasi felici.
Parlavano insieme di tutto, tranne che delle loro case delle loro famiglie;
ma la sera del 20 dicembre, i due Strauch e Daniel Fernández, mentre
sedevano in attesa del freddo e dell’oscurità, non poterono fare a meno di
pensare aIle feste natalizie degli anni precedenti che avevano trascorso
insieme così meravigliosamente. Il sangue tedesco continuava d essere in tutti
e tre abbastanza forte per rendere particolarmente intollerabile l’idea che quei
festeggiamenti continuassero anche senza di loro. Per la prima volta dopo
molti giorni, calde lacrime cominciarono a rotolare non soltanto sulle gote di
Eduardo e di Daniel, ma anche su quelle di Fito.
Parte Nona
1

A mezzogiorno del 12 dicembre, il C47 arrivò finalmente all’aeroporto di Los


Cerrillos a Santiago. Pàez Vilaró e i suoi compagni si fecero incontro al pilota,
il quale disse loro di aver avuto ulteriori noie ai motori mentre sorvolava le
Ande. Sembrava che il freddo intenso alle alte quote influisse sui carburanti, e
il pilota diede immediatamente disposizioni affinché i motori venissero
controllati e riparati. Per tenere a freno l’impazienza, i civili tentarono di
noleggiare un elicottero degli Helicopservices, dai quali erano già stati aiutati
quando si trovavano a Talca. La cosa risultò impossibile. Si era diffusa la
voce che le ricerche dovevano essere effettuate tra le alte vette delle Ande
centrali, una zona assolutamente sconsigliabile per un piccolo elicottero.
Alle sei della mattina dopo, il C47 era pronto a partire per la sua prima
missione, e decollò, con Nicolich e Rodrìguez Escalada a bordo, per sorvolare
la zona del Planchon. Pàez Vilaró, nel frattempo, si diresse a sud. Voleva
assicursi di nuovo l’aiuto dei suoi amici del Radio Club di Talca dell’Aereo
Club di San Fernando. Il suo obiettivo tattico insisteva nel prendere accordi
per i diritti di atterraggio e per i rifornimenti del C47 in quei piccoli aeroporti
provinciali. Strategicamente, voleva destare, una volta di più, l’interesse nei
confronti delle ricerche del Fcdrchild.
Il giorno seguente, 14 dicembre, Canessa e Harley si recarono a Curicò.
Dovevano rintracciare il minatore Camilo Figueroa. Dopo la sua prima
dichiarazione immediatamente successiva alla scomparsa del Fairchild e
secondo la quale egli aveva veduto l’aereo precipitare in fiamme e scomparire
dietro una montagna, non si era saputo più nulla di lui. I due parlarono con
suo fratello, ma non riuscirono a sapere dove potesse trovarsi Camilo. D’altro
canto, furono presentati a un grande amico dell’introvabile minatore, Diego
Rivera, che lavorava egli stesso in miniera ed era segretario di una piccola
cooperativa di minatori della quale faceva parte Figueroa. Rivera e sua moglie
si erano trovati entrambi nella valle Teno il 13 ottobre e dissero di aver udito i
motori del Fairchild, ma di non averlo veduto perché in quel momento stava
nevicando. Figueroa, affermarono, lavorava più vicino al punto nel quale era
precipitato il velivolo; lo aveva veduto dirigersi dal Planchon verso Santiago e
poi scomparire dietro i monti Gamboa e Colorado.
Canessa e Harley furono incoraggiati da queste notizie, perché
confermavano il parere generale secondo il quale l’aereo doveva trovarsi in
qualche punto nella zona della montagna Tinguiririca. Immediatamente si
recarono nella casa di uno dei fedeli radioamatori, il quale li mise in contatto
con Santiago. Parlarono con Nicolich, che aveva volato di nuovo sul C47, e
stavano per riferirgli le informazioni avute da Rivera, quando egli li
interruppe con la notizia che era stata veduta una croce tracciata nella neve sul
fianco della montagna Santa Elena.
La scoperta di una croce, incontestabilmente tracciata da uomini, sui
pendìi di una delle più alte vette della catena delle Ande, ebbe un effetto
devastatore in tutti e tre i paesi più meridionali del continente sudamericano.
Una volta di più, i giornali pubblicarono grossi titoli sulla sorte del Fairchild
uruguayano; una volta di più, quei genitori di Montevideo che da tempo ormai
disperavano riaprirono i loro cuori alla speranza; una volta di più, le aviazioni
del Cile e dell’Argentina ripresero la ricerca dei superstiti. In questo periodo
voli furono effettuati non soltanto da Santiago, ma anche da Mendoza, perché
la croce era stata avvistata sul lato argentino del confine.
Per i padri dei giovani che si trovavano nel Cile, Pàez Vilaró, Canessa,
Harley e Nicolich, questi voli non erano sufficienti. Essi avevano veduto la
croce e volevano recarsi laggiù immediatamente. A tale scopo necessitavano
di un elicottero in grado di volare a quelle quote, ma il SAR cileno continuava
a rifiutare di mettere elicotteri a loro disposizione finché non esistesse la prova
certa della presenza di vita umana.
Canessa e Harley non vollero accettare questa decisione e, con una
fotografia della croce, si recarono a chiedere un collquio con il presidente del
Cile, Salvador Allende. Fu detto loro che Allende non poteva riceverli
personalmente, si stava riposando dopo un viaggio nell’Unione Sovietica; ma,
per il tramite di un aiutante, egli concesse agli uruguayani l’impiego
dell’elicottero presidenziale il giorno dopo.
Ma non dovevano utilizzarlo; prima di essere posto a loro disposizione,
l’elicottero di Allende ebbe un guasto. Queto nuovo contrattempo ridusse i
padri alla disperazione. Dopo tanto tempo, i loro figli avevano dato un segno
di esere ancora in vita, e adesso non esisteva la possibilità di trarli a salvo.
Immediatamente Pàez Vilaró, Canessa e Nicolich ripartirono con il loro C47
per sorvolare una volta di più la croce e vedere se nei pressi esistesse qualche
traccia dell’aereo stesso. Ma, quando giunsero sopra le Ande, uno dei motori
del C47 tornò a non funzionare. Mentre i quattro uomini vedevano l’elica
fermarsi adagio, e l’apparecchio rollava violentemente, si raddrizzava e poi
virava per tornare a Santiago, parve che un fato malevolo stesse cercando di
frustrarli all’ultimo momento della loro importante ricerca.
Quel mattino, il 16 dicembre, il Ministro cileno degli Interni dichiarò che
la croce era un segnale di soccorso. Non mancavano però, anche tra i cinque
uruguayani, coloro i quali dubitavano che la croce fosse stata tracciata dai
ragazzi, in quanto era di una precisione addirittura geometrica. A Montevideo,
le speranze di quelle madri che non avevano rinunciato a credere nella
salvezza dei loro figli vennero incoraggiate, ma altre furono più caute, quasi
temessero di abbandonarsi ancora una volta alle illusioni. Erano confuse,
inoltre, perché i cinque uomini a Santiago sembravano non essere d’accordo.
Si affollarono intorno alla radio di Rafael Ponce de Léon, ascoltando le
notizie e parlando con Pàez Viaró, Harley, Nicolich, Rodriguez Escalada e, in
ultimo, con Canessa. Quando quest’ultimo venne all’apparecchio, la señora
Nogueira si impadronì del microfono e gli domandò che cosa pensasse,
poiché riponeva una grande fiducia nei suoi giudizi.
«Quando seppi della croce», rispose il dottor Canessa, «decisi di lanciarmi
con il paracadute. Ma, dopo aver veduto la fotografia, mi resi conto che la
croce era di gran lunga troppo perfetta perché potessero essere stati i nostri
figlioli a tracciarla.»
La señora Nogueira non fece alcun commento; una volta tornata a casa
però, disse al marito: «La croce non è stata tracciata dai ragazzi».
La señora Delgado, d’altro canto, che appena quattro o cinque giorni
dopo l’incidente si era rassegnata alla morte di Pancho, ora si persuase di
nuovo che egli era senz’altro vivo. Ma la sua convinzione ebbe breve durata.
Quello stesso pomeriggio, il pomeriggio del 16 dicembre, venne annunciato
dall’Argentina che la croce era l’opera di una spedizione geofisica partita da
Mendoza. Venti coni erano stati affondati nella neve, formando una «X».
Fotografandoli dall’alto a intervalli regolari, gli scienziati potevano valutare la
rapidità con la quale la neve andava sciogliendosi sulle montagne, e in base a
ciò, arguire la quantità d’acqua che ci si poteva aspettare si riversasse nelle
vallate aride dell’Argentina.
2

L’effetto di questa notizia fu spaventoso. La señora Delgado si ammalò, gli


aerei rimasero di nuovo al suolo, e la pattuglia del reggimento Colchagua che
era stata inviata alla ricerca della croce dal comandante dell’unità a San
Fernando, il colonnello Morel, ricevette l’ordine di tornare indietro. Ma,
nonostante la delusione in entrambi i paesi, i cinque uruguayani che si
trovavano nel Cile non fecero ritorno a Montevideo. Si erano impegnati a
continuare le ricerche e mantennero la promessa. Il 17 dicembre, Canessa e
Harley tornarono a Curicó per condurre il minatore Diego Rivera a Santiago.
Là egli fece una descrizione più precisa del punto nel quale l’aereo era stato
veduto cadere tra le montagne, e questa descrizione, una volta di più,
confermò l’ipotesi che si dovesse cercare nella zona del vulcano Tinguiririca.
L’altro minatore, Camilo Figueroa, che si era trovato più vicino al luogo
dell’incidente, continuò a rimanere irreperibile.
L’indomani, 18 dicembre, Páez Vilaró noleggiò un aereo per sorvolare il
Tinguiririca, e questa volta condusse con sé non soltanto il minatore, Rivera,
ma anche Claudio Lucero, comandante del Cuerpo de Socorro Andino,
formato tutto da volontari. Al secondo volo, passarono sopra un lago coperto
di neve, orientato ad ovest rispetto al Tinguiririca, e un tratto Lucerò notò che
sul lago c’erano impronte di piedi umani. L’aereo virò e tornò indietro per
sorvolare di nuovo il lago, a quota così bassa che anche Pàez Vilaró riuscì a
scorre le orme nella neve. «Che cosa ne pensa?» domandò a Lucero.
«Sono senza dubbio orme umane.»
«I ragazzi?»
«Impossibile. No. Dev’essere qualche pastore.»
«E perché mai dovrebbe camminare sulla neve in questa solitudine?»
Lucerò si strinse nelle spalle.
Dopo la delusione della croce sulla montagna Santa Elena, Pàez Vilaró non
voleva indursi a credere che le orme fossero quelle dei superstiti del
Fairchild. Lo ossessionò però un’altra idea: che si trattasse delle orme lasciate
dall’introvabile minatore Figueroa, recatosi a derubare i cadaveri dei
quarantacinque uruguayani. Quando atterrarono a San Fernando, riferì questo
suo sospetto a Rodriguez Escalada, soggiungendo: «Rulo, se verrai con me,
arriveremo là prima dei banditi».
Nel frattempo, il dottor Canessa parlò delle stesse impronte con Lucero.
«È sicuro che non siano quelle dei ragazzi?» ornando.
Lucero guardò malinconicamente Canessa. «Dottore», disse, «sono passati
più di due mesi.»
Senza lasciarsi scoraggiare dallo scetticismo di Lucero, Pàez Vilaró andò a
parlare con il comandante del reggimento, colonnello Morel, con il quale
aveva ormai stretto un’affettuosa amicizia. Il colonnello accettò di inviare una
pattuglia in quella zona e, quello stesso pomeriggio, si fece portare nella valle
da un elicottero militare per vedere con i suoi occhi. Non riuscì a trovare le
orme vedute da Pàez Vilaró e da Lucero, ma quando tornò continuava a essere
ottimista: «Senti, Carlitos», disse a Pàez Vilaró, «va a casa per Natale e stai a
sentire che cosa farò durante la tua assenza. Terremo una pattuglia nella zona,
nel caso che qualcuno si faccia vivo, e tra due o tre giorni porteremo laggiù
un gruppo del Cuerpo de Socorro e staremo a vedere che cosa riuscirà a
trovare. Se le ricerche non daranno alcun esito, allora potrai tornare indietro
dopo le feste di Natale e ricominceremo tutto daccapo.»
Pàez Vilaró accettò la proposta, come gli altri quattro del gruppo. Canessa,
Harley e Nicolich si prepararono a tornare a Montevideo il giorno dopo con il
C47, mentre Pàez Vilaró e Rodriguez Escalada prenotavano i posti su un aereo
di linea per il giorno successivo.
Parte Decima
1

Dopo che Vizintìn se ne fu andato, Canessa e Parrado decisero di trascorrere


l’intera giornata riposando in prossimità della vetta. La scalata di tre giorni li
aveva spossati, e sapevano che avrebbero avuto bisogno di tutte le loro
energie per tornare di nuovo in cima alla montagna e scendere dall’altro lato.
Speravano inoltre che l’aereo dal quale per poco non erano stati sorvolati il
giorno prima potesse compiere un altro volo nella stessa direzione. Ma, in
effetti, il silenzio del loro alto nido non venne turbato. Consumarono il pasto,
sciolsero neve, bevvero, e pensarono a quanto li aspettava; Canessa cercò di
disperdere il suo pessimismo con riflessioni quali: «Qui ne risque rien, n’a
rien», o «L’acqua che scende da questo lato della montagna deve pure in
qualche modo arvare al mare».
Alle nove del mattino di sabato, 16 dicembre, Parrado e Canessa si
incamminarono di nuovo verso la vetta, Parrado era primo. Questa volta
portavano gli zaini che, dopo la partenza di Vizintìn, erano ancor più pesanti
di prima. Resero l’ascesa considerevolmente più difficile. L’aria, a
quell’altezza, era molto rarefatta; il loro cuore batteva in fretta e ogni tre passi
dovevano fermarsi e riposare, avvinghiati alla precipite parete di neve.
Impiegarono tre ore per arrivare sulla vetta. Là riposarono ancora e
guardarono, al di là dell’altro lato, la via migliore per scendere. C’era
notevolmente meno neve, la valle verso la quale dovevano dirigersi sembrava
quasi del tutto sgombra, ma i dirupi della montagna sembravano uguali
dappertutto, e così scelsero una via a caso e si incamminarono, Parrado di
nuovo precedendo il compagno. Il percorso era molto difficoltoso, poiché i
fianchi della montagna, pur non essendo a picco, scendevano molto ripidi e
spesso, anziché di roccia compatta, erano costituiti da detriti. I due giovani
erano legati da una lunga cinghia di nylon del vano bagagli, ma quasi sempre
si lasciavano scivolare sulla schiena e sul deretano, prima Parrado e poi
Canessa, facendo si che piccole valanghe di pietra grigia rotolassero giù per la
montagna. Avevano le ginocchia deboli e vacillanti, ma sapevano che un solo
passo falso avrebbe potuto farli precipitare giù per gli scoscendimenti, o che
si sarebbero potuti slogare una caviglia, e questo, nella loro situazione,
sarebbe stato altrettanto disastroso. Canessa dialogava continuamente con Dio.
Aveva veduto il film II violinista sul tetto e ricordava che Tevye si rivolgeva a
Dio come a un amico; ora adottò lo stesso tono con il proprio Creatore. «Puoi
rendere l’impresa difficile, Dio», pregava, «ma non renderla impossibile.»
Dopo che erano discesi in questo modo per qualche centinaio di metri,
arrivarono in un punto in cui il fianco della montagna si trovava nell’ombra di
un’altra vetta e la neve era ancora spessa sul terreno. Il pendio scendeva
ripido, ma la superficie della neve era compatta e liscia e pertanto Parrado
decise di lasciarvisi scivolare su un cuscino. Allentò la cinghia dei bagagli,
sedette su uno dei due cuscini, strinse l’asta d’alluminio tra le gambe perché
servisse da freno e si spinse giù per il pendio. Cominciò immediatamente a
scivolare a grandissima velocità e, quando affondò l’asta nella neve, essa non
lo frenò affatto. Procedette sempre e sempre più rapido, raggiungendo una
velocità che calcolò essere di circa cento chilometri all’ora. Affondò i calcagni
nella neve, ma anch’essi non lo fermarono, ed egli fu preso dal terrore
spaventoso di poter rotolare e rompersi una gamba o il collo. A un tratto vide
dinanzi a sé una candida parete di neve disposta proprio trasversalmente sulla
sua traiettoria. Se ci sono macigni, là sotto, si disse, per me è finita. Un attimo
dopo, piombava contro la parete e si fermava. Era completamente in sé e
stava benissimo. L’ostacolo sembrava essere costituito soltanto da neve.
Di lì a un momento, Canessa lo raggiunse. «Nando, Nando! Stai bene?»
gridò.
Una sagoma alta e alquanto scossa emerse dal cumulo di neve. «Sto bene,
sì», disse. «Proseguiamo.»
Continuarono entrambi a scendere, con maggior cautela, lungo il fianco
della montagna.
Alle quattro del pomeriggio vennero a trovarsi su una ande roccia piatta e,
sebbene non avessero in realtà la più pallida idea di dove si trovassero,
decisero che avrebbero fatto meglio a fermarsi lì e ad asciugarsi i vestiti prima
dell’oscurità. Calcolarono di essere circa a due terzi del fianco della montagna.
Si tolsero le calze per farle asciugare al sole della sera e, quando il sole fu
tramontato, si infilarono nel sacco pelo e dormirono sulla roccia. Non fece
molto freddo, quella notte, ma il loro giaciglio risultò particolarmente
scomodo.
***
Si destarono la mattina dopo alla prima luce, ma aspettarono nel sacco a
pelo di essere illuminati dai raggi del sole prima di fare colazione con un po’
di carne cruda e un sorso li rum e di ripartire. Era il sesto giorno del loro
viaggio e a mezzogiorno giunsero ai piedi della montagna. Si trovavano dove
avevano previsto di essere: all’imboccatura della valle che conduceva alla
biforcazione a «Y». La superficie era coperta di neve, alta e molle a quell’ora
della giornata, per cui dovettero mettersi ai piedi i cuscini che servivano da
racchette, ma il pendio non sembrava più ripido di dieci o dodici gradi. Prima
di proseguire, però, pranzarono. Il sole li riscaldò mentre mangiavano, e poi
mentre proseguivano, il che, assieme, alla fatica necessaria per arrancare sulla
neve con i cuscini zuppi, li rese estremamente accaldati, ma entrambi
preferirono sudare sotto i loro quattro paia di bluejeans anziché perdere
tempo e sprecare energie per alleggerirsi.
Subito dopo che avevano cominciato a discendere la valle, la cinghia del
sacco da montagna di Canessa si spezzò ed egli dovette fermarsi per
aggiustarla. Fu grato di quel pretesto che gli consentiva di mettersi a sedere,
perché le forze stavano cominciando a mancargli. Ogni volta che l’intrepido
Parrado si voltava, vedeva Canessa seduto sulla neve. Gli gridava di
proseguire e adagio Canessa si rimetteva in piedi e gli arrancava dietro.
Camminando, Parrado pregava. Ogni passo divenne una parola del Padre
Nostro. Ma i pensieri del giovane non andavano tanto a suo Padre in cielo
quanto a suo padre sulla terra. Sapeva quanto egli soffrisse; sapeva quale
necessità avesse di lui. Continuava a camminare sulla neve non tanto per
salvare sé stesso, quanto per salvare quell’uomo cui voleva un gran bene.
Pensando in questo modo a suo padre, Parrado precedeva Canessa.
Quando si ricordava di nuovo del compagno, si voltava e lo vedeva parecchie
centinaia di metri più indietro. Allora aspettava e, quando Canessa lo aveva
raggiunto, lo lasciava riposare per quattro o cinque minuti. Durante una di
queste soste nel corso della marcia, i due giovani videro alla loro destra un
ruscelletto che scendeva dal fianco della montagna. Era la prima acqua
potabile che vedessero da quando Vizintìn aveva assaggiato il rivoletto
salmastro che scorreva su una roccia durante la loro primissima spedizione.
Dal punto in cui si trovavano, riuscivano appena a vedere un po’ di muschio,
assieme a qualche erba e a qualche giunco crescere lungo il ruscello. Erano le
prime tracce di vegetazione che vedevano da sessantacinque giorni, e Canessa,
sebbene fosse stanco morto, si arrampicò fino al ruscello, colse un po’ d’erba
e di giunchi e se li ficcò in bocca. Strappò altra erba e la mise in tasca. Poi
entrambi i giovani bevvero l’acqua del ruscello prima di proseguire.
Quando si avvicinò il tardo pomeriggio, Canessa e Parrado cominciarono
a discutere allo scopo di decidere quando avrebbero dovuto fermarsi per
trascorrere la notte.
«Non c’è nessun posto in cui dormire, qui», disse Parrado. «Non una
roccia, niente. Proseguiamo.»
«Dobbiamo fermarci», rispose Canessa. «Io sono sfinito. Devo riposare. E
ti ammazzerai anche tu se non rallenti.»
Una lotta momentanea si svolse nella mente di Parrado tra l’impazienza di
proseguire e il buon senso dello studente di medicina che gli ingiungeva di
conservare le forze. Appariva manifesto, inoltre, che, se anche Parrado fosse
riuscito a sopravvivere a una simile marcia forzata, Canessa non ce l’avrebbe
fatta. Egli accettò pertanto di fermarsi per quel giorno, e si accamparono sulla
neve. Il sole era tramontato dietro le montagne e aveva cominciato a far
freddo, per cui si infilarono nel sacco a pelo e si riscaldarono con un sorso
del rum che avevano portato con loro. Poi si distesero e contemplarono la
valle, la loro via verso la libertà, domandandosi che cosa li aspettasse il giorno
dopo.
Da dove si trovavano, vedevano, un po’ più avanti, il termine della valle,
la «Y» verso la quale si erano diretti. Poi, D un tratto, notarono che, mentre il
sole li aveva lasciati verso le sei di sera, continuava a splendere sulla
montagna nata sul lato più lontano della «Y». Osservarono questo fenomeno
con crescente concentrazione ed entusiasmo, poiché, se il sole continuava a
illuminare quella montagna a tarda sera, ciò significava che più avanti non si
trovava alcun altro rilievo.
Soltanto alle nove di sera la roccia rossastra striata di neve rimase in
ombra. Canessa e Parrado si addormentarono, quella notte, con la ferma
convinzione che un braccio della «Y» fosse aperto verso ovest.
***
La mattina seguente, dopo la solita colazione, ricominciarono a scendere la
valle pieni di ottimismo, ma, una volta di più, Parrado precedette il
compagno, spronato dalla sua curiosità di vedere che cosa ci fosse alla fine
della valle. Canessa non riuscì a stargli dietro. Ben poche forze gli erano
torrnate con la notte di riposo. Quando Parrado si fermò e voltò gridandogli
di affrettarsi, rispose che era stanco e che non ce la faceva a proseguire.
«Pensa a qualche altra cosa», disse Parrado. «Distraiti dalla marcia.»
Canessa cominciò a immaginare che stava percorrendo le vie di Montevideo
per guardare le vetrine, e, quando Parrado gli gridò di nuovo di affrettarsi,
rispose: «Non posso. Non riuscirei a vedere tutte le vetrine». Più tardi ancora
si dirasse urlando il nome di una ragazza che Parrado gli aveva detto una volta
di trovare molto bella: «Makechu… Makechu…!» Il nome si perdette sulla
neve tutto intorno a loro, ma Parrado lo udì, sorrise e aspettò il suo
compagno.
Proseguirono e a poco a poco il suono dei cuscini bagnati sulla neve, il
solo dal quale fosse stato turbato il silenzio, venne sormontato da uno
scroscio che diventò sempre e sempre più forte mentre si avvicinavano al
termine della valle. Il panico penetrò nel cuore di entrambi. E se un torrente
impossibile ad attraversarsi avesse bloccato loro a quel punto il cammino?
Parrado fu ora completamente dominato dall’impazienza di vedere che cosa si
trovasse più avanti. Affrettò il passo, già rapido, e le sue falcate divennero
ancor più ampie sulla neve.
«Ti ammazzerai!» gli gridò dietro Canessa, mentre l’altro lo precedeva;
eppure anch’egli era dominato non tanto dalla curiosità quanto dal terrore di
ciò che stavano per vedere. «Oh, Dio», pregò una volta di più, «mettici
senz’altro alla prova fino ai limiti della nostra sopportazione, ma, ti prego, fa
che sia umanamente possibile proseguire. Ti prego, fa che vi sia una sorta di
sentiero lungo il fiume!»
Parrado camminava sempre e sempre più in fretta. Pregava anche lui, ma,
soprattutto, era ossessionato dalla curiosità. Si portò duecento metri più avanti
di Canessa e poi, di colpo, venne a trovarsi al termine della valle.
2

La visuale che aveva dinanzi agli occhi era quella del paradiso. La neve
cessava lì. Da sotto il suo bianco manto si riversava un torrente d’acqua grigia
che scorreva con impeto tremendo in una gola e si rovesciava verso ovest su
macigni e grossi sassi. Ma, cosa ancor più splendida, ovunque egli guardasse
c’erano chiazze di verde… muschio, erba, giunchi, cespugli di ginestre, e fiori
gialli e viola.
Mentre Parrado rimaneva lì in piedi, con la faccia bagnata da lacrime di
felicità, Canessa si avvicinò alle sue spalle e anch’egli lanciò esclamazioni di
gioia e di delizia alla vista di quella valle benedetta. Poi entrambi i giovani si
allontanarono barcollando dalla neve e si lasciarono cadere sulle rocce lungo
il fiume. Là, tra uccelli e lucertole, pregarono Dio a voce alta, ringraziandoLo
con tutto il fervore dei loro giovani cuori per averli salvati dal gelo e
dall’arida morsa delle Ande.
Per più di un’ora riposarono al sole e, come se davvero quello fosse stato
il Paradiso Terrestre, gli uccelli che non avevano quasi mai veduto per un così
lungo periodo di tempo rimanevano appollaiati accanto a loro sulle rocce e
sembravano non essere affatto spaventati dalla straordinaria apparizione di
quei due esseri umani barbuti ed emaciati, i cui corpi erano imbottiti da
parecchi strati di indumenti sudici, le cui schiene erano ingobbite dagli zaini e
le cui facce erano screpolate e coperte di vesciche a causa del sole.
I due giovani erano ormai sicuri di essersi salvati, ma dovevano
proseguire e fare presto. Canessa raccattò un sasso per darlo a Laura quando
fosse tornato a casa, poi entrambi gettarono via uno dei cuscini, tenendo
soltanto quello su cui dormire. Quindi iniziarono la discesa sul lato destro
della gola. Sebbene non ci fosse più neve, il cammino non era facile.
Dovevano marciare su scabre rocce e scavalcare macigni grossi come
poltrone. A mezzogiorno si fermarono per mangiare. Poi proseguirono e
soltanto dopo che camminavano già da un’ora Canessa si accorse di aver
perduto gli occhiali da sole. Ricordò immediatamente di esserseli tolti per
metterli su una roccia mentre consumavano il pranzo, e, per quanto odiasse
l’idea di tornare indietro nella direzione dalla quale erano venuti, fu più
grande il timore che senza gli occhiali gli occhi potessero ustionarsi e orlarsi
di vesciche come le labbra. Così, mentre Parrado lo aspettava, Canessa tornò
sui propri passi fino al luogo nel quale avevano mangiato. Vi giunse in meno
di un’ora, ma, pur avendo riconosciuto il luogo stesso, non riuscì a ricordare
su quale tra centinaia di macigni avesse lasciato gli occhiali. Cominciò a
cercare e cercando pregò perché non vedeva in nessun posto quel che gli
stava a cuore. Lacrime di disperazione cominciarono a sgorgargli dagli occhi;
era stanco e demoralizzato… ma in ultimo, su un’alta roccia la cui sommità gli
era rimasta fino a quel momento nascosta, scorse gli occhiali da sole.
Due ore dopo aver lasciato Parrado, Canessa tornò da lui, e
immediatamente ripresero entrambi il cammino. Poco più oltre, però, furono
costretti a fermarsi da un affioramento di rocce che saliva quasi verticalmente
davanti a loro e scendeva a picco verso il fiume alla loro sinistra. Da dove si
trovavano, videro che il terreno era meno accidentato sull’altra riva del corso
d acqua. Anziché scalare l’ostacolo, decisero per conseguenza di attraversare il
fiume a guado. Questa non era un impresa facile di per sé. Il corso d’acqua
aveva una larghezza di sette-otto metri e la corrente era talmente impetuosa da
trascinare con sé macigni enormi. Ciò nonostante, esisteva al centro del fiume
una roccia grande abbastanza per resistere alla corrente e alta abbastanza per
emergere dall’acqua. Decisero che sarebbero riusciti a passare saltando dalla
riva su questa roccia, e dalla roccia alla riva opposta.
Canessa fu il primo. Si spogliò per non bagnare i vestiti, si legò intorno
alla vita una delle cinghie di nylon del vano bagagli, e vi aggiunse,
annodandole, altre due cinghie. Poi, mentre Parrado reggeva l’altra estremità,
nel caso egli fosse caduto nel fiume, saltò sulla roccia, e da essa sulla riva
opposta. Parrado, quando vide che il suo compagno era al sicuro, prese il
sacco a pelo, lo legò alla cinghia, e lo lanciò con tutta la sua forza sull’altra
riva. Là Canessa sciolse il nodo e rilanciò la cinghia, affinché indumenti,
bastoni, zaini, scarpe, tutto quel che possedevano, potesse essergli passato
nello stesso modo. Occorse un grande sforzo per fare arrivare gli zaini così
lontano, e il secondo cadde troppo in acqua, piombando contro le rocce lungo
la riva. Canessa dovette scendere fino all’orlo dell’acqua per ricuperarlo,
venne bagnato dagli spruzzi e quando lo aprì constatò che la bottiglia del rum
si era rotta.
A questo punto Parrado lo raggiunse, ma poiché gran parte dei loro
indumenti si era bagnata, proseguirono soltanto per un breve tratto. Trovata
una sporgenza rocciosa sotto la quale si sarebbero potuti riparare, decisero di
trascorrere lì la notte. Il sole continuava a splendere ed essi distesero ad
asciugare i capi di vestiario bagnati. Poi si sistemarono sui cuscini e
mangiarono un po’ di carne, osservati da un gran numero di lucertole curiose.
Quella notte fu più calda di ogni altra in passato. Dormirono bene e la
mattina dopo ripartirono per la loro ottava giornata di marcia attraverso le
Ande. Nella luce mattutina, lo scenario che avevano dinanzi era di una
bellezza insuperabile e lo sarebbe stato anche per occhi meno avidi dei loro
dei frutti della natura. Sebbene si trovassero ancora nell’ombra delle grandi
montagne che avevano alle spalle, il sole illuminava in lontananza l’angusta
valle, colorando con l’argento e l’oro della nebbia e della luce il verde delle
ginestre e dei cactus. Ora si cominciavano a vedere alberi più avanti e, verso
la metà della mattinata, a Canessa parve di scorge una mandria di vacche al
pascolo sul fianco della montata.
«Vedo delle vacche!» egli gridò a Parrado.
«Vacche?» ripetè quest’ultimo, battendo le palpebre e guardando in
lontananza, senza però veder nulla a causa della sua miopia. «Sei sicuro che
siano vacche?»
«Sembrano vacche.»
«Forse sono cervi… o tapiri.»
Quanto vedevano dinanzi a loro aveva a tal punto, in ogni caso, l’aspetto
di un miraggio, che essi non riposero esagete aspettative in quei distanti
animali. Ma, grazie a ciò che avevano veduto, il loro morale rimase alto e il
loro stato d’animo ottimista proprio nel momento in cui il corpo di entrambi,
e soprattutto quello di Canessa, risentiva degli sforzi compiuti. L’orizzonte
poteva essere verdeggiante, ma il terreno che stavano percorrendo non era più
facile di prima; avevano continuare a balzare, appesantiti dagli zaini, da un
vacillante macigno all’altro, oppure camminare, con le loro fragili caviglie,
sulle pietre e i ciottoli lungo la riva del fiume.
Poi, improvvisamente, trovarono un segno più tangibile della civiltà, un
barattolo vuoto di minestra in scatola. Era arrugginito, ma si poteva ancora
leggere sull’etichetta il nome del produttore: Maggi. Canessa lo tenne ben
stretto nella mano. «Guarda, Nando», disse. «Significa che qui c’è stato
qualcuno.»
Parrado era più prudente. «Potrebbe essere caduto da un aereo.»
«Come diavolo potrebbe essere caduto da un aereo? Gli aerei non hanno
finestrini apribili, no?»
Non c’era modo di stabilire da quanto tempo il barattolo trovasse lì, ma il
vederlo li colmò di speranza e, mentre continuavano a discendere la valle,
scorsero alta segni di vita. Videro due lepri balzare oltre le rocce, sull’altra riva
del urne. Poi capitarono su degli escrementi.
«Questo è sterco di vacca», esclamò Canessa. «Te l’avevo detto, erano
vacche quelle che vedevo.»
«Come lo sai?» domandò Parrado. «Questo potrebbe ssere sterco di
qualsiasi animale.»
«Se ti intendessi di vacche», disse Canessa, «la metà di quanto ti intendi di
automobili, sapresti che è sterco di vacca.»
Parrado fece una spallucciata e proseguirono. Più avanti, sedettero accanto
al fiume per riposare e mangiare un po’ di carne. Notarono, mentre aprivano il
calzettone da rugby, che, sebbene le loro provviste continuassero a essere
sufficienti, cominciavano a guastarsi a causa della temperatura più elevata.
Dopo aver mangiato una razione di due pezzi, rimisero ugualmente via il resto
e continuarono a scendere. Il fiume era più largo perché di tanto in tanto
veniva alimentato da ruscelli e torrentelli che si gettavano in esso dai fianchi
delle montagne.
E lì, ove il fiume si ampliava, trovarono un ferro di cavallo. Era
arrugginito come il barattolo di minestra; per conseguenza non si poteva
sapere da quanto tempo si trovasse in quel luogo, ma non si trattava di
qualcosa che potesse essere caduto da un aereo e pertanto era la prova
incontestabile del fatto che si stavano avvicinando a una regione abitata delle
Ande. Poco dopo, ne ebbero un’ulteriore prova. Dopo aver aggirato uno dei
tanti affioramenti rocciosi della valle, si trovarono a un tratto a un centinaio di
metri dalle vacche che Canessa aveva veduto da lontano quel mattino.
Ma Parrado continuò a essere circospetto. «Sei sicuro che non siano
vacche selvatiche?» domandò a Canessa, fissando gli animali che
ricambiavano il suo sguardo.
«Vacche selvatiche? Non ci sono vacche selvatiche sulle Ande. Puoi star
certo, Nando, che in qualche posto qui attorno troveremo il proprietario della
mandria, o qualcuno che la sta sorvegliando.» E, come per dimostrare che la
sua asserzione era vera, additò ceppi d’alberi abbattuti a colpi di scure da
mani umane. «Non mi dirai che sono stati i tapiri o le vacche selvatiche ad
abbattere questi alberi.»
Parrado non potè contestare che le intaccature sul legno fossero quelle di
una scure, e un po’ più avanti nella valle trovarono un recinto per il bestiame
fatto con rami e ramaglie; un materiale eccellente, i due giovani se ne resero
conto, per accendere il fuoco. Decisero per conseguenza di sostare lì per
quella notte e di festeggiare la salvezza imminente banchettando con la carne
rimasta.
«In fin dei conti», osservò Canessa, «sta marcendo. E possiamo essere
certi che domattina troveremo un pastore o un contadino. Domani sera, te lo
prometto, Nando, dormiremo in una casa.»
Si tolsero gli zaini, accesero il fuoco e vuotarono i calzettoni che
contenevano le provviste. Arrostirono poi dieci pezzi di carne per ciascuno e
mangiarono finché il loro stomaco si rifiutò di accogliere altro cibo. Quindi si
infilarono nel sacco a pelo, in attesa del tramonto del sole.
Ora che la salvezza sembrava così certa, consentirono a sé stessi di
pensare a cose fino a quel momento troppo pericolose a contemplarsi.
Canessa parlò a Parrado di Laura Suraco e descrisse i pranzi nella casa di lei,
la domenica; Parado, a sua volta, parlò a Roberto delle ragazze che aveva
conosciuto prima del disastro del Fairchild e gli disse quanto li invidiava la
fidanzata.
Il fuoco si spense. Il sole tramontò. E, con questi pensieri piacevoli nella
mente, i due giovani ingozzati di cibo si adormentarono.
3

Quando si destarono, la mattina dopo, le vacche erano scomparse. Questo


non li allarmò. Si liberarono di ciò che ritenevano ormai superfluo: il
martello, il sacco a pelo, un paio di scarpe di ricambio, e indumenti. Una volta
alleggerito il loro carico, ripartirono, aspettandosi di vedere, dietro ogni
affioramento di rocce, la casa di un contadino cileno. Man nano che la
mattinata trascorreva, però, la valle continuava ad avere sempre lo stesso
aspetto. Anzi, non trovarono nepur più quegli indizi della presenza dell’uomo,
come il barattolo di minestra e il ferro di cavallo, che tanto li avevano
incoraggiati il giorno prima, e Parrado cominciò a rimproverare Canessa per il
suo ottimismo. «Sicché tu conosci bene la campagna, eh? Sicché io sono
soltanto un povero sciocco, pratico esclusivamente di automobili e
motociclette? Bè, io almeno non ero tanto sicuro che esistesse una fattoria
subito dopo voltato l’angolo… Ora abbiamo mangiato la metà della carne e
gettato via il sacco a pelo.»
«La carne è ormai marcia, del resto», disse Canessa, la cui irascibilità non
era certo attenuata dalle prime, spiacevoli sensazioni di un attacco di diarrea.
Inoltre, la spossatezza lo pervadeva sempre più. Aveva tutto il corpo
indolenzito, e ogni passo accresceva le sue sofferenze. Gli occorreva tutta la
forza di volontà di cui era capace per portare un piede davanti all’altro… ma
quando si fermava o restava indietro, le imprecazioni e gli insulti di Parrado
lo spronavano a proseguire.
Nella tarda mattinata vennero a trovarsi di fronte a un affioramento di
rocce particolarmente alto, ove si poteva scegliere tra una via più breve ma
più pericolosa lungo il fiume, e un sentiero più lungo, ma più sicuro, che lo
scavalcava. Parrado, che precedeva Canessa, scelse la via più prudente e
cominciò ad arrampicarsi su per le rocce, ma il suo compagno si sentiva
troppo stanco per potersi consentire una simile cautela e, una volta giunto
nello stesso punto, discese là ove il terreno degradava ripido verso il fiume
sottostante.
Quando aveva aggirato soltanto a mezzo l’affioramento di rocce, passando
da un punto d’appoggio all’altro, o spostandosi lungo le sporgenze della
roccia, la tempesta che minacciava esplose nei suoi intestini; gli spasimi
spaventosi della diarrea acuta gli sconvolsero a un tratto il ventre. Erano tanto
lancinanti le ondate di quelle fitte, che Canessa fu costretto a trovare una
roccia piatta, a togliersi le tre paia di calzoni e ad accosciarsi nel tentativo di
trovare sollievo. In circostanze normali non sarebbe occorso molto tempo,
ma, nel suo caso, una irregolarità era stata preceduta da quella opposta. Gli
escrementi esplosivi erano saldamente bloccati nel basso colon dai
sottoprodotti duri come sassi della precedente costipazione, e soltanto dopo
aver eliminato questi ultimi con le dita Canessa riuscì a liberarsi da ciò che gli
stava infuriando nel ventre.
Parrado, nel frattempo, era arrivato al lato opposto e cominciò ad
allarmarsi e a irritarsi perché il compagno non si faceva vivo. Lo chiamò a
gran voce e udì, per tutta risposta, parole soffocate. Cominciò a inveire contro
Canessa per quel ritardo e continuò finché la sagoma sparuta e miserabile non
tu apparsa sulla ripida riva del fiume.
«Dove diavolo sei stato?» domandò Roberto «Ho avuto la diarrea. Sto
male da morire.»
«Bè, ascolta. C’è una specie di sentiero, qui, che segue la riva del fiume.
Percorrendolo, è certo che arriveremo in qualche posto.»
«Non posso proseguire», disse Canessa, lasciandosi cadere a terra.
«Devi proseguire. Lo vedi quel pianoro?» Additò, più n basso nella valle,
un tratto di terreno sopraelevato. «Dobbiamo arrivare là prima di questa sera.»
«Non posso», disse Canessa. «Sono troppo stanco. Non se la faccio più a
camminare.»
«Non essere così stupido. Non puoi arrenderti, proprio adesso che stiamo
per arrivare.»
«Ti dico che ho avuto la diarrea.»
Parrado divenne rosso in faccia per l’ira e l’impazienza. «Sei sempre
indisposto. Sta a sentire, porterò io il tuo zaino, così non avrai altri pretesti.»
Ciò detto, prese il carico di Canessa e si incamminò con tutti e due gli zaini
sulle spalle. «E se vuoi qualcosa da mangiare», si voltò a gridare all’amico,
«farai bene a seguirmi, perché adesso tutta la carne l’ho io.»
Canessa gli incespicò dietro, malconcio e zoppicante. In cuor suo
anch’egli era furente, non tanto con Parrado, che aveva schernito il suo
malessere, quanto con sé stesso, per la propria debolezza.
Era più facile camminare lungo il sentiero e di quando in quando
venivano incoraggiati da tracce di sterco di cavallo. I sintomi della diarrea
cessarono nel ventre di Canessa ed entrambi i giovani presero a camminare a
passi ritmati. Davanti a loro si stendeva il pianoro; man mano che il
pomeriggio trascorreva, andava facendosi sempre più vicino. Ora che non si
trovavano più sulla neve, riusciva facile valutare le distanze. Verso sera,
avevano raggiunto la scarpata che conduceva ad esso, e la prospettiva del
riposo là in cima diede a Canessa la forza necessaria per seguire il ripido
sentiero fino in alto.
La prima cosa che videro fu un recinto per bestiame con muri di pietra e
un cancello. Al centro si trovava un palo conficcato nel terreno e impiegato
per legarvi i cavalli. Il terreno nel recinto era stato calpestato da poco da
zoccoli, ed entrambi i giovani sentirono tornare tutto il loro ottimismo, ma le
condizioni fìsiche di Canessa si erano deteriorate a tal punto che egli non
poteva certo essere rinvigorito da un tonico semplice come la rinnovata
speranza. Camminando, barcollava; doveva appoggiarsi al braccio di Parrado
e, quando giunsero in un boschetto, decisero entrambi di trascorrere la notte.
Pensavano tutti e due che Canessa sarebbe stato cotretto a riposarsi più a
lungo.
Mentre Parrado andava in cerca di legna per accendere il fuoco, e a vedere
se per caso vi fosse qualche abitazione umana nelle immediate prossimità,
Canessa si distese sotto di alberi. Il terreno era rivestito d’erba fresca, le
montagne si levavano alle sue spalle, e lo scroscio del fiume poteva essere
udito da parecchie centinaia di metri di distanza, là dove esso si avventava
verso il basso attraverso la gola. Per quanto fosse spossato, sfinito in ogni
parte del corpo, quasi al punto dell’estinzione, Canessa non mancò di notare
la bellezza del luogo. Contemplò languidamente l’erica e i fiori selvatici, e i
pensieri di lui andarono al suo cavallo, al suo cane, e alle campagne
dell’Uruguay.
Alzò gli occhi, poi, e vide Parrado tornare indietro, la sua alta figura
incurvata dall’ansia. «Com’è il terreno?» domandò.
Parrado scosse la testa. «Non tanto buono. C’è un altro fiume che si getta
in questo. Ci taglia la strada e non so come riusciremo ad attraversare l’uno o
l’altro.»
Canessa ricadde giù e Parrado gli sedette accanto. «Però ho visto due
cavalli e due vacche», disse.
«Da questa parte del fiume?»
«Sì. Da questa parte del fiume.» Esitò, poi soggiunse: «Lo sai come si fa
ad ammazzare una vacca?»
«Ad ammazzare una vacca?»
«La carne è putrida. Ci occorrerà altro cibo.»
«Non lo so come si fa ad ammazzare una vacca» disse Canessa.
«Bene, mi è venuta un’idea», disse Parrado, sporgendosi in avanti con una
sorta di fervido entusiasmo. «Ho visto che dormono sotto certi alberi.
Domani, mentre staranno pascolando, mi arrampichero su uno degli alberi
con un sasso e lascerò cadere il sasso sulla testa di una delle vacche.»
Canessa rise. «Non riuscirai mai ad uccidere una vacca in questo modo.»
«Perché no?»
«Non ce la faresti mai ad arrampicarti sull’albero con un sasso abbastanza
grosso… e in ogni modo, non è detto che dormano sempre nello stesso
posto.»
Parrado rifletté in silenzio. A un tratto la faccia gli venne illuminata da una
nuova idea. «Ora so come fare», disse.
«Taglieremo dei rami e li potremo adoperare come lance.»
Canessa scrollò il capo.
«E colpirle sulla testa?»
«No. Non riuscirai mai a fame fuori una in questo nodo.»
«Allora che cosa proponi?»
Canessa si strinse nelle spalle.
«Vieni a vedere tu stesso. Sono sdraiate laggiù.» Parado esitò di nuovo.
«Ci sono anche i cavalli, però. Credi che si avvicinerebbero a noi?»
«No di certo.»
«Che cosa pensi di fare, allora?»
«Be’, in primo luogo penso che se uccidessimo una vacca il proprietario
non sarebbe propenso ad aiutarci.»
«Questo è vero.»
«Sarebbe preferibile se potessimo mungerla.»
«Ma devi catturarla, per poterla mungere.»
«Lo so.» Canessa cogitò sul problema. «So io come fare», disse.
«Potremmo prendere al laccio un vitello con le cinghie dei bagagli e legarlo a
un albero. Poi, non appena la madre si avvicinerà, potremmo afferrarla.»
«E se se ne andasse?»
«No, se la legassimo con una cinghia.»
«Ma come potremmo portare il latte.»
«Non lo so.»
«Ci occorrerebbe carne.»
«Allora potremmo uccidere la vacca, ma tagliandole prima i tendini per
impedirle di fuggire.»
«E il proprietario?»
«Lo faremmo soltanto se non ci fosse nessuno in giro.»
«Okay.» Parrado si rimise in piedi.
«Ma, per amor di Dio, aspettiamo fino a domani», disse Canessa.
«Davvero non posso fare altro questa sera.»
Parrado abbassò gli occhi su di lui e vide che quanto aveva detto era
verissimo. «Accendiamo un fuoco, ad ogni modo», disse. «Così, se c’è
qualcuno, qui attorno, sarà più probabile che ci veda.»
Parrado si allontanò da Canessa in cerca di rami spezzati e ramaglia.
Canessa si ridistese e guardò con occhi vacui l’altra riva del fiume. Nel sole al
tramonto, alberi e macigni i piedi della montagna proiettavano lunghe ombre
ed esse davano l’impressione che si muovessero e cambiassero forma. Poi, ad
un tratto, da quelle ombre emerse qualcosa in movimento, qualcosa di
abbastanza grande per essere un uomo a cavallo. Canessa cercò
immediatamente di alzarsi, ma anche nell’eccitazione le gambe quasi non
volevano muoversi, e pertanto urlò a Parrado: «Nando, Nando! Guarda, c’è
un uomo, un uomo a cavallo! Credo di aver visto un uomo a cavallo!»
Parrado alzò gli occhi verso di lui, poi guardò nella direzione indicata da
Canessa, ma era tanto miope che non vide niente.
«Dove?» gridò a sua volta. «Non riesco a vederlo.»
«Va, presto! Corri! Sull’altra riva del fiume!» urlò Canessa con la sua voce
acuta. E, mentre Parrado correva verso il fiume, lui stesso cominciò a
strisciare sull’erba e sui sassi verso l’uomo a cavallo lontano un trecento
metri. Di tanto in tanto si fermava, alzava gli occhi e vedeva Parrado correre
nella direzione sbagliata. «No, Nando!» urlava. «A destra, a destra!» E,
udendolo, Parrado cambiava direzione e correva alla cieca… perché ancora
non riusciva a scorgere un bel niente sull’altra riva. Inoltre, le loro grida e i
loro ampi gesti con le braccia avevano spaventato le vacche, che si erano
alzate e si frapponevano tra Parrado e il fiume. Fissavano il giovane dilatando
le narici, e il coraggioso Nando non fu coraggioso al punto da non fare una
lieve deviazione per evitarle. In questo modo, lui e Canessa arrivarono al
margine della gola quasi contemporaneamente.
«Dov’è?» domandò Parrado. «Dov’è l’uomo a cavallo?»
Con suo grande sgomento, Canessa, quando guardò, ai di là del torrente
scrosciante, il punto nel quale aveva veduto l’uomo, scorse soltanto un’alta
roccia e la sua ombra sempre più lunga.
«Sono sicuro che fosse un uomo», disse. «Giuro che l’ho visto. Un uomo
a cavallo.»
Parrado scosse la testa. «Non c’è nessuno là, adesso.»
«Lo so», riconobbe Canessa, lasciandosi cadere a terra e abbassando la
testa deluso.
«Su, vieni», disse Parrado, prendendo il compagno per il braccio. «Sarà
meglio tornare indietro e accendere il fuoco prima che faccia buio.»
Si erano alzati entrambi e voltati di nuovo verso il loro accampamento
quando a un tratto, più forte dello scroscio tonante del fiume, udirono il
suono di un grido umano. Girano sui tacchi e là, sull’altra riva, scorsero non
uno, ma tre uomini a cavallo. Li fissavano mentre guidavano tre vacche lungo
uno stretto sentiero che passava tra il fiume e la montagna.
Immediatamente i due giovani cominciarono ad agitare le braccia e a
gridare, e i tre parvero osservarli, ma il rombo del fiume era così forte che le
parole di Canessa e Parrado sembravano non arrivare fino alla riva opposta.
In effetti, l’interessamento dei tre pastori aveva l’aria di essere superficiale e
faceva pensare che essi potessero proseguire senza reagire in alcun modo
particolare ai due uruguayani.
Parrado e Canessa fecero gesti ancor più frenetici e griirono ancor più
forte che erano superstiti dell’aereo uruayano precipitato sulle Ande.
«Aiutateci!» urlarono. «Aiuteci!» E, mentre la voce di Canessa saliva a un
nuovo diapason perché egli riteneva che una voce acuta potesse giungere più
lontano, Parrado cadde in ginocchio e giunse le mani in un gesto di supplica.
Gli uomini a cavallo esitarono. Uno di loro fermò la valcatura e gridò
alcune parole al di là della gola; la sola che riuscirono a decifrare fu
«domani». Poi i tre proseguirono, spingendo le vacche dinanzi a sé.
Parrado e Canessa tornarono incespicando al loro accampamento. Anche
Parrado era spossato, e Canessa non riusciva a camminare senza aiuto.
Quell’unica parola che avevano udito, però, bastava a colmarli di un’enorme
speranza. Finalmente erano riusciti a stabilire un contatto con altri uomini.
Entrambi i giovani, pur essendo sfiniti, decisero di fare turni di guardia
per due ore di seguito e di tenere acceso il fuoco. Ma, nonostante la
spossatezza, stentarono a dormire. Erano troppo eccitati. Poi, verso l’alba,
Parrado scivolò nel sonno e dormì più delle due ore sulle quali si erano
accordati. Canessa lo lasciò dormire; sapeva che non ce l’avrebbe più fatta a
camminare e Parrado avrebbe avuto bisogno di tutte le energie rimastegli,
l’indomani.
4

Il sole spuntò nel decimo giorno del loro viaggio attraverso le Ande. Alle sei
entrambi i giovani erano desti e, guardando la riva opposta del fiume, videro
il fumo di un fuoco e un uomo in piedi accanto ad esso. Al suo fianco si
trovavano altri due uomini, entrambi ancora a cavallo. Non appena li scorse,
Parrado si precipitò di nuovo verso il margine della gola; venne allora a
trovarsi abbastanza vicino all’uomo dall’altro lato per riuscire ad interpretarne
i gesti, che lo invitavano a scendere il fianco della gola fino alla riva del
fiume. Così egli si regolò e il pastore fece altrettanto, finché furono separati
soltanto dalla larghezza del torrente, una trentina di metri. Sebbene fossero ora
più vicini, lo scroscio dell’acqua che scendeva a cascata era ancor più forte di
prima, e i due non avrebbero mai potuto parlarsi, ma il pastore, che aveva una
faccia tonda e scaltra, sormontata da un cappello di paglia, era venuto
preparato. Prese un pezzo di carta, vi scrisse su qualcosa, lo avvolse intorno a
un sasso e lo lanciò al di là del fiume.
Parrado incespicò sui ciottoli, raccattò il messaggio e spiegò il foglio. Su
di esso lesse:
Più tardi arriverà un uomo al quale ho detto di venire.

Dimmi che cosa ti serve.

Parrado immediatamente si frugò le tasche, cercandovi una penna o una


matita, ma trovò soltanto un rossetto per le labbra. A gesti fece allora capire
all’uomo sulla riva opposta che non aveva niente con cui scrivere dopodiché
il pastore prese la sua penna a sfera, l’avvolse assieme a un sasso in un
fazzoletto a scacchi bianchi e blu e la lanciò al di là del fiume.
Una volta avuta la penna, Parrado si mise a sedere e febbrilmente scrisse il
seguente messaggio:
Vengo da un aereo che è precipitato sulle montagne.

Sono uruguayano. Abbiamo camminato per dieci giorni. Ho un amico


lassù che è malato. Nell’aereo si trovano ancora quattordici persone in
cattive condizioni di salute. Dobbiamo andarcene da qui subito e non
sappiamo come fare. Non abbiamo cibo. Siamo deboli.
Quando verrete a prenderci? Per piacere. Non possiamo nemmeno
camminare. Dove ci troviamo?

A queste parole aggiunse un SOS tracciato con il rossetto, vi avvolse il


pezzo di carta intorno al sasso e il sasso nel fazzoletto. Quindi rilanciò il
messaggio all’altro lato del fiume, ove venne raccolto dal pastore.
Parrado guardò e pregò mentre il pastore cileno svolgeva e poi leggeva il
messaggio. Infine l’uomo alzò gli occhi e fece cenno di aver capito. Poi si
tolse di tasca un pezzo di pane, lo lanciò al di là del fiume, salutò con la mano
e si voltò per risalire il fianco della gola.
Parrado fece altrettanto. Giunse sul pianoro e tornò indietro verso Canessa
stringendo nelle mani il pane, una prova tangibile del fatto che avevano
finalmente stabilito il contatto con il mondo esterno.
«Guarda», disse a Canessa, quando gli fu giunto accanto, «guarda che
cosa ho avuto.»
Canessa voltò la faccia ovale verso l’amico e fissò con gli occhi stanchi il
pezzo di pane. «Siamo salvi», disse.
«Sì», rispose Parrado, «siamo salvi.» Sedette e spezzò il pane in due.
«Prendi», disse, «facciamo colazione.»
«No», protestò Canessa, «mangialo tu. Sono stato così inutile. Non lo
merito.»
«Suvvia», disse Parrado. «Potrai non meritarlo, ma ne hai bisogno.»
Porse il pezzo di pane a Canessa e questa volta il suo amico lo accettò. Poi
i due giovani, seduti, mangiarono ciò che era stato loro donato, e mai nella
vita di entrambi il pane aveva avuto un così buon sapore.
Due o tre ore dopo, verso le nove del mattino, videro un altro uomo a
cavallo; ma questa volta si trattava della stessa parte del fiume e veniva verso
di loro. Parrado balzò subito in piedi e gli si fece incontro.
Il nuovo arrivato salutò il giovane con molta reticenza, celando
l’impressione straordinaria che doveva avergli fatto quella figura alta, barbuta,
malconcia, che indossava parecchi indumenti sudici, uno sopra l’altro.
L’uomo seguì Parrado sin dove giaceva Canessa e ascoltò il cicaleccio di
entrambi con un’espressione paziente sulla faccia cotta dalle intemperie.
Quando gli fu consentito di parlare, si presentò come Armando Serda. Gli
avevano detto che i due uruguayani si trovavano lì, ma credeva che fossero
molto più a monte e la sua intenzione era stata quella di andare a prenderli nel
pomeriggio. L’uomo che li aveva veduti si era recato a cavallo a Puente Negro
per informare i carabineros della sua scoperta.
Parrado e Canessa si resero conto che il contadino era povero, tanto
povero, invero, da indossare panni ancora più malridotti dei loro, ma
sospettarono che, per quanto miserabile, quell’uomo potesse avere ciò che, in
quel momento, essi apprezzavano più di qualsiasi tesoro; e infatti, quando
dissero a Serda che stavano morendo di fame, lui si tolse di tasca un pezzo di
formaggio e lo diede ai due giovani.
Parrado e Canessa furono così felici di avere quel formaggio che non si
preoccuparono quando il cileno li lasciò soli per risalire la valle; doveva dare
un’occhiata alle vacche al pascolo lassù e aprire alcune chiuse per irrigare i
campi.
Durante la sua assenza, mangiarono il formaggio e si riposarono. Poi,
prima che Serda tornasse, presero gli avanzi della carne umana che avevano
portato con loro e li seppellirono sotto un sasso, poiché, subito dopo aver
gustato il pane e il formaggio, parte della ripugnanza provata un tempo era
tornata ad assalirli.
Verso le undici di mattina il contadino terminò il proprio lavoro e tornò
dai due superstiti. Canessa non era in grado di camminare, pertanto fu posto
sul cavallo di Serda e i tre si incamminarono giù per la valle. Quando
giunsero all’affluente del fiume Azufre, ritenuto da Parrado non
attraversabile, Serda disse a Canessa di smontare e diede a entrambi i giovani
indicazioni per arrivare a una passerella che Parrado la sera prima non aveva
veduto; nel frattempo lui avrebbe portato il cavallo su per la montagna, fino a
un guado.
Sull’altra riva del fiume aspettarono Serda e il cavallo; quando il
contadino li ebbe raggiunti, Canessa venne rimesso in sella per proseguire
lungo la valle. Più avanti, in un pascolo, si trovava la prima abitazione umana
che avessero veduto dopo l’incidente. Era una capanna modesta, ricostruita
ogni primavera, con pareti di legno e di canne e il tetto fatto con rami
d’albero, ma nessun palazzo sarebbe potuto sembrare loro più splendido.
Canessa smontò e rimase in piedi sull’erba accanto a Parrado, inebriato dal
profumo delle roselline sel natiche che crescevano sulla primitiva veranda. Il
loro anfitrione li condusse nell’aia, li fece sedere a un tavolo e li presentò a un
altro contadino, Enrique Gonzales. Altro formaggio e poi latte fresco furono
portati loro da quest’uomo, mentre Armando Serda si dava da fare davanti
alla cucina economica. Di lì a poco, portò a ciascuno di loro un piatto di
fagioli, che tornò a riempire quattro volte mentre essi si ingozzavano.
Entrambi i giovani mangiarono come non avevano mai mangiato prima di
allora, senza pensare affatto alle condizioni del loro stomaco. Una volta finiti i
fagioli, passarono ai maccheroni cucinati con pezzi di manzo, e in seguito al
pane intinto nel sugo d’arrosto.
A tutta prima, mentre mangiavano, i due cileni rimasero timidamente in
piedi a una certa distanza, ma Parrado e Canessa li pregarono di sedere con
loro. I contadini sedettero e osservarono i due giovani rimpinzarsi con il cibo
che avevano preparato. Poi, quando entrambi non poterono inghiottire altro,
li condussero in una capanna di legno di fronte a quella nella quale essi
abitavano. Era stata costruita per il proprietario delle terre quando veniva a
ispezionare la tenuta, e vi si trovavano due comodi letti sui quali Parrado e
Canessa furono invitati a fare la siesta. Dopo ripetute frasi di gratitudine
rivolte ai timidi anfitrioni, essi accettarono. Non erano quasi riusciti a
chiudere occhio la notte prima e avevano camminato per dieci giorni tra
alcune delle più alte montagne del mondo.
Era mezzogiorno di giovedì, 21 dicembre, settanta giorni dopo il disastro
del Fairchild schiantatosi sulle Ande.
Parte Undicesima
1

Il C47 dell’aviazione militare uruguayana partì da Santiago, diretto a


Montevideo, alle due del pomeriggio di mercoledì 20 dicembre, ma, mentre
sorvolava Curicó, i piloti furono informati di condizioni meteorologiche
avverse sul versante argentino delle Ande, e per conseguenza rientrarono a
Santiago. I tre passeggeri, Canessa, Harley e Nicolich, aspettarono
all’aeroporto fino alle cinque, quando fu detto loro che il tempo era
migliorato e potevano ripartire. L’aereo decollò, si diresse a sud su Curicó, poi
a est verso il Planchon; tuttavia, mentre si avvicinava a Malargüe, in
Argentina, fu scosso di nuovo dal familiare rullio che si accompagnava al
guasto di uno dei motori.
Ai piloti non rimase altra scelta che effettuare un atterraggio di emergenza
nell’aeroporto di San Rafael, circa duecentottanta chilometri a sud di
Mendoza. Là, in quella piccola città argentina, i passeggeri trascorsero la notte.
La mattina dopo, vennero a sapere dai meccanici all’aeroporto che l’aereo non
sarebbe potuto essere riparato prima dell’arrivo di alcuni pezzi da
Montevideo. A questo punto i tre uomini erano propensi a trovare qualche
altro mezzo di trasporto per continuare il viaggio, ma esisteva un fattore che li
fece esitare: i due piloti uruguayani cui era affidato il C47. Entrambi erano
stati amici di Ferradas e di Lagurara e, sebbene già da tempo avessero perduto
ogni speranza di ritrovarli vivi, ritenevano che, scoprendo la causa
dell’incidente, avrebbero potuto tutelarne l’onore. Erano sconfortati, del tutto
logicamente, dai continui guasti del C47, e proprio per sostenerli e
incoraggiarli Harley e Nicolich decisero di aspettare che l’aereo fosse stato
riparato. Canessa, d’altro canto, aveva promesso di tornare a casa per Natale e
scoprì che un torpedone partiva da San Rafael per Buenos Aires quella sera.
Mentre aspettavano, i tre uomini decisero di parlare con le mogli per
mezzo della rete radio di Rafael Ponce de Léon, Una volta di più, cercarono
uno dei volonterosi radioamatori che si trovavano ovunque andassero.
Incontrarono qualche difficoltà nel sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda giusta
perché c’erano interferenze da parte di altri radiodilettanti del Cile, e soltanto
tra crepitii e fischi i quattro uomini udirono parte di una conversazione tra due
radioamatori: «… sembra incredibile, ma l’aereo è stato trovato». Erano
appena giunte loro all’orecchio queste parole che la stazione non fu più
captata.
I tre uruguayani si guardarono. «Non potrebbe essere…?» prese a dire
uno di loro. Gli altri scossero la testa. Troppe volte le loro speranze erano
state destate soltanto per essere infrante, perché potessero far conto su un così
breve scambio di parole.
Un momento dopo erano in contatto con Rafael. Gli riferirono quanto era
accaduto: che l’aereo aveva dovuto atterrare e sarebbero tornati non appena
possibile. Ponce de Léon promise di avvertire le loro famiglie.
I tre uomini si aggirarono per le calde e soffocanti vie di San Rafael finché
non giunse il momento di accompagnare Canessa al torpedone. Alle otto il
dottore abbracciò i due amici e partì per Buenos Aires.
2

Quello stesso pomeriggio, Pàez Vilaró e Rodriguez si erano recati in macchina


da Santiago all’aeroporto Pudahuel per salire sull’aereo diretto a Montevideo.
Quando arrivarono, si misero in coda per il controllo dei bagagli, ma, ogni
volta che la fila faceva un passo avanti, Pàez Vilaró restava dov’era,
consentendo ai viaggiatori alle sue spalle di passare.
«Non parti?» gli domandò Rodriguez.
«Sto aspettando qualcosa», rispose Pàez Vilaró.
«Sì, ma finirai con il perdere l’aereo», disse Rodriguez.
«Tu precedimi, non mi ci vorrà molto.» Rodriguez passò i controlli dei
passaporti e della dogana mentre Pàez Vilaró continuava a restare in coda alla
fila.
Poi, proprio quando l’ultimo passeggero era stato controllato e veniva
dato l’ultimo avviso della partenza, un uomo sopraggiunse di corsa.
«Eccolo qui», disse, consegnando furtivamente a Pàez Vilaró un piccolo
cucciolo di barboncino che egli aveva promesso di portare a casa alle sue
figliole per Natale.
Sapendo che era contro i regolamenti portare un animale a bordo
dell’aereo, Pàez Vilaró si affrettò a nascondere il cucciolo sotto la giacca e a
mettere la valigia sulla bilancia. Poi, con il biglietto in mano, superò il
controllo passaporti e il controllo doganale. Nessuno parve accorgersi della
strana posizione del suo braccio sinistro, e Pàez Vilaró si stava già
congratulando con sé stesso per il proprio successo come contrabbandiere,
quando dagli altoparlanti dell’aeroporto giunsero le parole: «Qui la polizia
intemazionale, qui la polizia internazionale. Trattenete Carlos Pàez Vilaró.
Trattenete Carlos Pàez Vilaró».
Egli si rabbuiò in viso. Qualcuno doveva averlo veduto mettere il
cagnolino sotto la giacca. Si voltò verso il poliziotto più vicino a lui e disse:
«Sono io Carlos Pàez Vilaró».
Venne accompagnato attraverso l’ampio atrio dell’aeroporto e imprecò
contro quest’ultima sfortuna, ma, entrato nel’ufficio della polizia, si trovò di
fronte non già a un paio di manette ma ad un apparecchio telefonico.
«Che cos’è questa storia?» domandò.
L’ufficiale si strinse nelle spalle. «Non lo so… una telefonata urgente per
lei.» Cercando sempre di nascondere il cucciolo, egli afferrò il ricevitore.
«Parla Pàez Vilaró», disse.
«Carlitos? Sei tu?» Era il colonnello Morel.
«Sì, sono io», rispose Vilaró in un tono di blanda irritazione. «E ti sono
grato di aver telefonato per salutarmi, ma l’aereo mi sta aspettando… Ci
vediamo dopo Natale.»
«Okay», disse Morel.
«Scusami se ti ho trattenuto. Soltanto, mi son detto che poiché stai
cercando da tanto tempo quei ragazzi, potrebbe farti piacere venire a vederli.»
Pàez Vilaró non disse niente. Il cucciolo cadde sul pavimento.
«Inoltre potresti aiutarmi a interpretare questo biglietto», continuò Morel.
«Potrebbe essere un falso, ma non credo. Dice: ’Vengo da un aereo che è
precipitato sulle montagne. Sono uruguayano…’»
***
Accecato dalle lacrime, Pàez Vilaró corse fuori del comando di polizia e si
precipitò sulla pista. I motori dell’aereo erano già in moto, stavano aspettando
soltanto che egli salisse la scaletta per ritirarla.
«Rulo! Rulo!» gridò Vilaró. «Li hanno trovati! Io rimango!» Un attimo
dopo Rodríguez si trovava al suo fianco e i due uruguayani piangenti si
gettavano uno nelle braccia dell’altro e urlavano al cielo: «Sono vivi! Sono
vivi!» Poi, insieme, corsero indietro attraverso la sala della dogana e del
controllo passaporti, gridando, piangendo, causando una certa costernazione
tra i vari funzionari e i viaggiatori.
«Che cosa sta succedendo?» volle sapere un poliziotto da un suo collega,
domandandosi se non dovessero impedire quel comportamento alquanto
insolito.
«Lasciateli stare», disse l’altro. «È il matto che cerca suo figlio, una delle
vittime dell’aereo precipitato sulla cordillera.»
Soltanto dopo essere giunti al posteggio dei taxi Pàez Vilaró e Rodríguez si
accorsero di non avere denaro cileno.
«È disposto a portarci a San Fernando?» domandarono all’autista del
primo tassì della fila.
«Non saprei», rispose l’uomo. «È un lungo tragitto.»
«Hanno trovato mio figlio. Era nell’aereo precipitato sulle Ande.»
«Oh, sì», disse il tassista, riconoscendo Pàez Vilaró. «Lei è il matto, vero?
Okay, salgano.»
«Non abbiamo soldi.»
«Non si preoccupino», e i due uomini salirono sul taxi. Arrivarono a San
Fernando tre ore dopo e andarono direttamente al comando del reggimento
Colchagua. Là, mentre il tassista si occupava del barboncino, venne loro
incontro non soltanto il colonnello, ma anche una gran folla formata da tutti i
cileni che li avevano aiutati nelle ricerche… i radioamatori dai quali era stata
diffusa la notizia del biglietto, i piloti dell’Aereo Club di San Fernando, le
guide, gli scalatori locali delle Ande, e i soldati stessi che così spesso aveano
marciato senza alcun risultato tra le montagne.
Quando Morel riuscì a strappare Pàez Vilaró a questa torba di eccitati
sostenitori, lo condusse al comando dei carabinieri e gli mostrò il biglietto che
era stato portato da Puente Negro. «Che cosa te ne pare?» gli domandò. «È
autentico?»
Pàez Vilaró lo esaminò attentamente. A tutta prima fu propenso a
giudicarlo un falso. Aveva ricevuto molte volte in passato telefonate che erano
poi risultate tragiche burle, e ora gli sottoponevano un biglietto non firmato.
Inoltre, la scrittura sembrava eccezionalmente nitida per una persona rimasta
settanta giorni sulle Ande.
«Non saprei», rispose. «Potrebbe essere un falso.» Subito dopo riesaminò
il biglietto e gli parve di riconoscere, nello stile e nella formulazione, qualcosa
che era tipico del Collegio Stella Maris. «Ma potrei sbagliarmi», si affrettò ad
aggiungere. «Potrebbe anche essere stato scritto da uno dei ragazzi.»
Tornò con Morel al comando di reggimento. Là era stato costituito un
comando operativo formato da Morel, quale comandante in capo, dal sindaco
di San Fernando, dal comandante della guarnigione e dal comandante dei
carabinieri. Morel invitò Pàez Vilaró a farne parte. «Hai cercato per tanto di
quel tempo», disse. «Ora non puoi semplicemente estare passivo senza far
niente.»
3

A mezzanotte, a San Rafael, Harley e Nicolich si misero nuovamente in


contatto con Ponce de Léon a Montevideo. Egli disse loro, subito, come alla
polizia di San Fernando fosse stato consegnato un biglietto scritto da
qualcuno che sosteneva di essere un superstite dell’aereo uruguayano
precipitato.
Harley e Nicolich decisero di tornare immediatamente nel Cile, ma a
quell’ora della notte non era chiaro come vi sarebbero potuti riuscire.
Aspettarono, innervositi e frustrati, per una mezz’ora nella casa del
radioamatore che, saputa la notizia, era corso in cerca di qualche mezzo di
trasporto. Tornò trenta minuti dopo, con l’automobile del sindaco.
Senza aspettare di ritirare il loro bagaglio, chiuso nel C47 all’aeroporto di
San Rafael, i due uomini partirono per Mendoza. Vi arrivarono alle quattro
del mattino e andarono immediatamente all’aeroporto militare. Non avevano
denaro, ma, quando spiegarono che cosa era accaduto, gli ufficiali
dell’aviazione militare argentina promisero loro un passaggio sul primo aereo
in partenza per il Cile.
Per il resto di quella notte sedettero in attesa, protetti dal freddo grazie ai
pastrani dati loro dai due piloti uruguayani prima della partenza da San
Rafael. Alle otto del mattino, atterrò un aereo con un carico di carne congelata
diretta a Santiago. Mezz’ora dopo, l’apparecchio decollava con Harley e
Nicolich a bordo.
4

Quella stessa mattina, il dottor Canessa arrivò a Buenos Aires. Aveva


trascorso la notte seduto nel torpedone; prima di ripartire per Montevideo,
pensò di andare a rinfrescarsi, e magari a riposare un po’, in casa di un amico.
Uscì dal capolinea, chiamo un taxi e si abbandonò sul sedile posteriore mentre
il veicolo sobbalzava e zigzagava lungo le vie della città.
La radio stava trasmettendo musica, ma il tassista impedì di ascoltarla
voltando a mezzo la testa verso il dottor Canessa e dicendo: «Ha sentito le
notizie? Hanno trovato l’aereo».
«Quale aereo?»
«L’aereo uruguayano. Il Fairchild.»
L’autista, prima di aver potuto aggiungere una sola parola, trovò il
passeggero seduto accanto a sé e intento a girare le manopole della radio.
«Ne è sicuro?» domandò Canessa.
«Certo che ne sono sicuro.»
«Ci sono superstiti?»
«Due giovani.»
«Hanno dato i loro nomi?»
«I loro nomi… sì, mi sembra di sì, ma a dire il vero non ho afferrati.»
A un tratto Canessa alzò una mano per far tacere il tassta. La radio stava
comunicando la notizia: due superstiti del Fairchild uruguayano precipitato
sulle Ande il 13 ottobre erano stati trovati in una località chiamata Los
Maitenes, sul fiume Azufre, nella provincia di Colchagua. Si chiamavano
Fernando Parrado e Roberto Canessa.
Lacrime striarono le gote del dottor Canessa, quando egli udì quest’ultimo
nome; con un grido di felicità, l’uomo robusto, di età matura, si voltò e
abbracciò l’esterrefatto autista del tassì mentre guidava la macchina lungo le
vie di Buenos Aires.
Parte Dodicesima
1

Canessa e Parrado, i due componenti della spedizione, si destarono dalla


siesta alle sette di sera. Dalla capanna di legno uscirono nella valle, illuminata
dalla luce calda della sera, e si saturarono i polmoni con l’aria tiepida,
profumata di fiori e di erbe. I letti sui quali avevano dormito e il profumo
nell’aria costituivano la prova, per la loro mente stordita e incredula, del fatto
che non si trovavano più intrappolati nelle Ande; ciò nonostante, percorsero
immediatamente il sentiero erboso verso la capanna dei contadini, rivestita
dalle roselline selvatiche, per parlare con i loro anfitrioni. I due giovani
avevano parlato tra loro abbastanza a lungo, ora desideravano nversare con
qualcun altro. C’era inoltre il piccolo problema del cibo, poiché fagioli,
formaggio, maccheroni, pane e sugo d’arrosto, tutto era stato ben digerito dal
loro stomaco mentre dormivano e ora si sentivano entrambi pronti a manire di
nuovo.
Enrique e Armando li stavano aspettando; timidamente comprensivi, si
resero subito conto di quello che i due uruguayani desideravano. Sebbene la
loro dispensa fosse ormai quasi vuota, portarono ai giovani altro latte, e
formaggio, e poi dulce-de-leche e caffè solubile.
Canessa e Parrado, divorando questo pasto serale e facendo abbrustolire il
formaggio sul fuoco, interrogarono i due contadini a proposito dell’uomo
recatosi alla polizia. Vennero così a sapere che si chiamava Sergio Catalan
Martìnez; abitava sulle alture ed era stato lui a vedere per primo i due giovani
sull’altra riva del fiume, il giorno innanzi. Aveva creduto che si trattasse di
due turisti venuti per una partita caccia, che Canessa fosse la moglie di
Parrado e che il loro bastoni fossero fucili per la caccia al cervo.
«Ma siete sicuri che sia andato ad avvertire la polizia?»
«Sì. È andato dai carabinieri.»
«Quanto dista il posto più vicino?»
Enrique e Armando si guardarono con un’espressione incerta. «È a Puente
Negro.»
«Quanto è lontano da qui?»
Di nuovo i due contadini si sbirciarono.
«Quaranta chilometri? Ottanta chilometri?»
«Un giorno, direi», rispose uno di loro.
«Meno di un giorno», disse l’altro.
«A piedi?» domandò Parrado.
«A cavallo.»
«È andato a cavallo?»
«Sì. A cavallo.»
«E quanto dista la cittadina meno lontana?»
«San Fernando?»
«Sì. San Fernando.»
«Due giorni, direi», rispose Armando.
«Sì, due giorni», confermò Enrique.
«A cavallo?»
«A cavallo. Sì.»
I giovani non erano impazienti per sé stessi. Con lo stomaco pieno,
avevano ricominciato a pensare ai quattordici amici prigionieri nel Fairchild.
Pensavano non soltanto al loro morale, ma a Roy, a Coche e a Moncho, le cui
condizioni di salute erano state così gravi dieci giorni prima. Ogni ora in più
di attesa poteva decidere tra la vita e la morte.
A un tratto si udì un grido più in basso nella valle. I due giovani balzarono
in piedi. Parrado corse alla porta della capanna e Canessa gli zoppicò dietro.
Di là videro correre verso di loro, e sbuffare e ansimare mentre correva, un
carabiniere grasso con un rotolo di corda sulla spalla. Subito dietro di lui ne
veniva un altro. Giunsero alla capanna e il primo, ancora trafelato dopo tanta
fatica, disse ai due uruguayani: «Okay, ragazzi, dov’è l’aereo?»
Canessa si fece avanti dalla veranda della capanna.
«Bene», rispose, additando la parte alta della valle. «Lo vede quel varco
lassù?»
«Sì», rispose il carabiniere.
«Bene, continui a salire di là per ottanta o cento chiloìetri, volti a destra,
poi prosegua finché non trova un’alta montagna. L’aereo si trova dall’altro
lato.»
Il carabiniere sedette.
«Sta arrivando qualcun altro?» domandò Parrado, ansiosamente.
«Sì, sì», rispose uno dei carabinieri. «Una pattuglia ci segue.»
Poco dopo, dieci carabinieri a cavallo furono veduti risalire la valle con i
loro tipici berretti, i pastrani, e rotoli di corda appesi alle selle. Li seguiva,
anch’egli a cavallo, Sergio Catalan, l’uomo al quale Parrado aveva lanciato il
biglietto.
Canessa e Parrado abbracciarono i carabinieri. Poi si avicinarono a
Catalan e abbracciarono anche lui. Egli sorrise e disse ben poco. «Sia
ringraziato Dio», mormorò, sorridendo continuamente e saettando occhiate
qua e là per nascondere la propria timidezza. Poi, quando la gratitudine dei
due giovani divenne ancora più espansiva, alzò entrambe le mani per farli
tacere. «Non mi ringraziate», disse. «Ho fatto solanto il mio dovere come
cileno e come figlio di Dio.»
Il capitano dei carabinieri interrogò Parrado e Canessa ulla posizione
dell’aereo. Domandò se ritenessero che si poetsse arrivare lassù a piedi, ma,
dopo avere ascoltato una sommaria descrizione della loro marcia attraverso le
Ande, si rese conto che non sarebbe stato possibile. Ordinò pertanto a due dei
suoi uomini di tornare a Puente Negro e di far venire un elicottero da
Santiago.
Gli uomini partirono assieme ad altri due che dovevano far loro da guida.
Ormai la luce del crepuscolo si era dileguata e Canessa e Parrado si resero
conto che per quel giorno non potevano fare niente di più. Consentirono a sé
stessi di dimenticare temporaneamente i quattordici amici sui monti e
sedettero per conversare con i carabinieri, per raccontare loro la storia
incredibile di quanto era accaduto al Fairchild, omettendo soltanto uno o due
particolari. Fu, forse, il pensiero di quanto avevano omesso a indurre i due
giovani a osservare con una certa curiosità gli zaini e i tascapane dei
carabinieri.
Immediatamente, l’intera pattuglia, resasi conto del significato dei loro
sguardi, mostrò quello che aveva, e Canessa e Parrado cominciarono il terzo
banchetto della giornata, ingozzandosi di uova, pane e succo d’arancia e
spazzando via tutte le provviste della pattuglia di carabinieri così come
avevano svuotato la dispensa dei due contadini, Enrique e Armando. Dopo
aver mangiato, però, ricominciarono ad avere appetito di conversazione, e i
carabinieri furono lieti di ascoltarli. Infine, alle tre del mattino, il capitano
propose di andare tutti a dormire, così da essere pronti per gli elicotteri, che
certo sarebbero arrivati subito dopo l’alba.
***
Quando Canessa e Parrado uscirono dalla capanna, il giorno dopo,
constatarono con sgomento di essere avvolti da un banco di nebbia. Nell’altra
casupola trovarono Catalan, Enrique, Armando e il capitano, intenti tutti a
contemplare con altrettanta delusione la fitta nebbia.
«Possono atterrare con questo tempo?» domandò Parrado.
«Non credo», rispose il capitano. «Non ci troveranno.»
«Aspetti», disse Catalan. «È una nebbia mattutina; non durerà in eterno.»
I due giovani sedettero per consumare la colazione preparata da Enrique e
da Armando. La delusione per l’ulteriore ritardo nel salvataggio degli amici
non diminuì il piacere di riassaporare cibi normali, ed essi divorarono pane
raffermo e bevvero caffè solubile con enorme gusto. Mentre stavano
terminando di far colazione, udirono uno strano frastuono in lontananza. Non
si trattava del rombo di un motore, e pertanto non poteva trattarsi di un
elicottero; sembrava piuttosto il cinguettio di uno stormo di uccelli. Man mano
che i suoni si avvicinavano e diventavano più forti, riuscirono a distinguere le
voci e le grida di una turba di esseri umani.
Immaginando che gli abitanti di un vicino villaggio stessero, per qualche
strana ragione, marciando verso di loro, i giovani, i contadini e i carabinieri
uscirono tutti dalla capanna, guardarono in giù nella valle verso Puente
Negro, e poi si irrigidirono in preda allo stupore a causa di quel che videro.
Verso di loro, lungo il sentiero del pascolo, veniva una colonna di uomini in
abiti da città, uomini ansimanti, incespicanti, curvi sotto il peso di borse di
cuoio e di macchine fotografiche d’ogni genere. Da questa orda che andava
avvicindosi giungevano grida di «Los Maitenes?» e «I superstiti, dove sono i
superstiti?», finché il primo a giungere alla capanna capì subito, dai lunghi
capelli, dalle facce smunte, e dalla barba, quali fossero gli uomini che tutti
erano venuti a vedere.
«El Mercurio, di Santiago», disse uno dei nuovi arrivati, con il taccuino e
la matita in mano.
«La BBC di Londra», disse un altro, schiaffando con una mano un
microfono sotto il naso dei due giovani, e con l’altra azionando i comandi di
un registratore a nastro portaile. Improvvisamente furono circondati da
cinquanta giornalisti che si spingevano a vicenda e parlavano tutti insieme.
Canessa e Parrado furono completamente travolti da quest’orda. Assieme
agli altri ragazzi sulla montagna, avevano nodestamente immaginato che le
loro esperienze potessero nteressare soltanto uno o due giornalisti a
Montevideo. Con l’esperienza limitata delle loro brevi vite, erano stati
incapaci di prevedere l’avidità di notizie sensazionali che aveva porato il
branco, con tazi e con automobili private, lungo la stretta strada da Santiago,
facendolo poi proseguire a piedi per due ore e mezzo, carico di cineprese e
telecamere, su per una stretta e pericolosa mulattiera.
Una volta di fronte a questi giornalisti, tuttavia, Canessa e Parrado furono
lietissimi di rispondere alle domande, di nuovo omettendo qualche
particolare, soprattutto quelli concernenti che cosa avevano mangiato per
restare in vita. Nel bel mezzo dell’improvvisata conferenza stampa, furono
chiamati dal capitano dei carabinieri. La nebbia si era sollevata un poco, ma
ancora gli elicotteri non si vedevano e di conseguenza il capitano aveva deciso
di mandare Parrado e Canessa a cavallo, a Puente Negro. Furono fatti montare
dietro due dei suoi uomini, e, tra i ronzii e gli scatti delle cineprese e delle
macchine fotografiche e le grida che li invitavano ad assumere questa o
quell’altra posa, partirono giù per la valle; non erano arrivati molto lontano,
tuttavia, quando udirono il rombo degli elicotteri che si avvicinavano dal
fondo valle. Mentre lo strepito assordante passava direttamente sopra di loro e
li superava, i cavalli si impennarono, si voltarono, risalirono al piccolo
galoppo la valle e arrivarono a Los Maitenes proprio mentre tre elicotteri
dell’aviazione cilena sbucavano fuori delle nubi e atterravano sulla riva
opposta del fiume.
2

Quando il colonnello Morel aveva informato il SAR, al Los Cerrillos di


Santiago, che due superstiti del Fairchild si trovavano a Los Maitenes, vi era
stato un diffuso scetticismo. Una conferma della notizia venne richiesta a San
Fernando, ma nel frattempo il SAR mise all’erta i due ufficiali dell’aviazione, i
comandanti Carlos García e Jorge Massa, che avevano diretto le prime
ricerche dell’aereo uruguayano. Era il tardo pomeriggio (di giovedì 21
dicembre) quando Garcìa, comandante del Gruppo d’azione numero 10,
ricevette la notizia, e anch’egli si mostrò scettico e suppose che Catalan si
fosse imbattuto in due scalatori che cercavano il Fairchild.
In ogni modo, era troppo tardi per prendere una qualsiasi iniziativa quello
stesso giorno. García, per conseguenza, ordinò agli elicotteri del suo gruppo
di tenersi pronti a decollare alle sei della mattina dopo, e andò a dormire. Nel
cuore della notte giunsero, ai suoi subordinati, notizie secondo le quali i due a
Los Maitenes venivano molto probabilmente dal Fairchild; apprendere ciò, la
mattina dopo, fu uno choc considerevole per García.
Tenuto conto di quanto gli era stato riferito, egli decise di assumere
personalmente il comando del primo elicottero e di pilotarlo. Al secondo
assegnò Massa, e al terzo, come ausiliario, un certo tenente Avila. Decise
inoltre di condurre due meccanici in luogo dei secondi piloti, un’infermiera
dell’aviazione militare, un inserviente d’ospedale, e tre appartenenti al Corpo
di Soccorso Andino, compreso il suo comandante, Claudio Lucero.
Il tempo a Los Cerrillos era spaventoso. Nevicava e la visibilità non
superava i novanta metri, con una coltre di fitta nebbia a una trentina di metri
dal suolo. Alle sette, nulla lasciava prevedere che il tempo potesse migliorare,
per cui, alle sette e dieci, i tre elicotteri decollarono diretti a San Fernando,
volando sotto la nebbia, quasi al livello del suolo.
A San Fernando, atterrarono nella caserma del reggimento Colchagua e
furono accolti dal colonnello Morel e da Páez Vilaró.
«Cosa? Di nuovo lei?» disse García, quando vide quest’ultimo. «Non
vorrà dirmi che continua a darsi da fare per quella faccenda del Fairchild?»
Poteva pure scherzare. Era ormai confermato che due di coloro dati per
perduti due mesi prima vivevano. Il contadino, Sergio Catalan, aveva detto
che parlavano in modo strano; questo poteva essere spiegato dall’accento
uruguayano, e i lue giovani a Los Maitenes avevano dichiarato di chiamarsi
Fernando Parrado e Roberto Canessa, i nominativi di due passeggeri
dell’aereo.
Il comitato predispose un piano per il salvataggio. Gli elicotteri avrebbero
proseguito per Los Maitenes, che sarebbe stato designato Campo Alfa.
Avrebbero portato laggiù il colonnello Morel, un medico, e un inserviente
d’ospedale.
«E anche tu, Carlitos», disse il colonnello Morel. «Meriti di venire.»
«No», rispose Pàez Vilaró. «Non voglio occupare il posto di qualcun altro.
Aspetterò qui.» Poi si rivolse a un appartenente al Corpo di Soccorso Andino
e disse, profondamente commosso: «Ma se mio figlio, Carlos Miguel, si trova
tra i superstiti, forse lei vorrà essere così gentile da consegnargli questa lettera.
E tu, Morel, prendi i miei stivali da neve. Potrai averne bisogno, e in questo
modo camminerai con i miei piedi».
Gli elicotteri decollarono una volta di più. Si diressero verso il fiume
Tinguiririca e poi ne seguirono il corso fino alle montagne. Disponevano di
carte, ma durante il primo sorvolo della valle non individuarono il punto in
cui il fiume Azufre si getta nel Tinguiririca e così dovettero tornare indietro
per trovarlo. In base alle informazioni di cui disponevano, i carabinieri si
trovavano a circa tre chilometri da questa confluenza, ma la visibilità era
talmente scarsa che García e Massa non riuscivano a vedere nulla. La visibilità
si ridusse a tal punto da costringerli o al volo cieco, o ad atterrare… e, nella
valle relativamente stretta, preferirono quest’ultima alternativa. Per
conseguenza, portarono gli elicotteri sulla riva sinistra del fiume.
Quando il rombo dei motori cessò, udirono grida giungere dall’altra riva.
Discesero fino all’orlo dell’acqua e là, ancora una volta, un ufficiale dei
carabinieri lanciò loro un messaggio avvolto in un fazzoletto informandoli del
fatto che, del tutto per caso, erano arrivati nel posto giusto. Essi risalirono
allora sugli elicotteri e li portarono all’altro lato del fiume.
Non occorse molto tempo per stabilire che i due giovani emaciati e barbuti
erano effettivamente i superstiti del Fairchild. Uno di loro, Canessa, era
ancora paralizzato dallo sfinimento, e il medico e i suoi due assistenti si
misero all’opera auscultandogli il cuore e massaggiandogli le gambe
indolenzite. L’altro, Parrado, rifiutò queste cure mediche e cominciò subito ad
assediare Garcìa e Massa affinché ripartissero per il Fairchild. Garcìa gli disse
che ciò era impossibile a causa della nebbia. Lo interrogò, però, sulla
posizione del Fairchild, e Parrado gli descrisse il loro itinerario giù dalla
montagna.
«Non ha idea dell’altezza alla quale si trova l’aereo?» domandò Garcia.
«No, con precisione no», rispose Parrado. «Molto in alto, direi. Non
c’erano alberi, né altra vegetazione di alcun genere.»
«Con che cosa vi siete nutriti?»
«Oh, avevamo un po' di formaggio e cose del genere.»
«Riesce a ricordare se l’altimetro dell’aereo indicava qualcosa?»
«Sì», rispose Canessa. «Duemilatrecento metri.»
«Duemilatrecento metri? Bene. Allora non dovrebbe essere troppo
difficile. Crede che li troveremo facilmente?»
Canessa e Parrado si scambiarono uno sguardo. «Non tanto facilmente»,
disse Parrado. «È sulla neve.» Esitò, dibattuto tra la paura di volare e il
desiderio che aveva da tempo di viaggiare su un elicottero. L’incertezza
continuò per qualche secondo, finché non ebbe ricordato la promessa fatta ai
compagni di tornare a prendere l’altra scarpetta rossa. Allora proruppe, rivolto
a Garcia: «Verrò con lei, se vuole, e le mostrerò la strada».
Aspettarono che la nebbia si sollevasse. Molti giornalisti, intanto, si
accinsero a tornare a Santiago e a scrivere gli articoli. Poi, tre ore dopo
l’arrivo, Garcìa decise che la visibilità era migliorata a sufficienza per
consentire a due elicotteri di decollare. Vi presero posto i meccanici,
l'inserviente d’ospedale e i tre appartenenti al Corpo di Soccorso Andino
Claudio Lucero, Osvaldo Villegas e Sergio Dìaz. Dietro Dìaz sedeva Parrado,
con un casco sul capo e il microfono davanti alla bocca.
Era ormai l’una del pomeriggio, l’ora peggiore del giorno per volare sulle
Ande. Per questo motivo, García e Massa pensarono che non avrebbero
portato in salvo i quattordici superstiti con quel volo, ma che si sarebbero
limitati a stabilire la loro posizione. Parrado diede prova di essere una guida
eccellente. Guardò in basso attraverso i finestrini dell’elicottero e riconobbe
tutti i punti della valle ove avevano marciato; poi, quando arrivarono alla «Y»,
disse a García di virare a destra e di seguire la valle più stretta e coperta di
neve che si addentrava tra le montagne.
Il volo era ormai difficoltoso, ma García vide, tenendo d’occhio
l’altimetro, che si stavano avvicinando ai duemilatrecento metri di quota e
ritenne di poter guidare l’elicottero a quell’altezza. Dinanzi a sé, tuttavia,
scorse non già il relitto del Fairchild, ma la parete a picco di una montagna
enorme.
«Dove dobbiamo andare, adesso?» domando a Parrado, attraverso il
sistema di comunicazioni interne.
«Lassù», rispose Parrado, additando la montagna dinanzi a loro.
«Dove?»
«Lassù, di fronte a noi.»
«Ma non potete essere discesi di là.»
«Sì, invece. L’aereo si trova dall’altro lato.»
García pensò che Parrado non lo avesse udito. «Non potete essere discesi
giù da quella montagna», ripetè.
«Sì, siamo discesi di là», disse Parrado.
«In che modo?»
«Scivolando, inciampando…»
García guardò dinanzi a sé, poi in alto. Quello che Parrado gli aveva detto
sembrava incredibile, ma non aveva alternative, doveva credergli. Cominciò a
salire. Dietro di lui veniva Massa, sul secondo elicottero. Mentre si
innalzavano, l’aria divenne più rarefatta e più turbolenta; i motori forzavano e
l’intero elicottero cominciò a scuotersi e a vibrare. Eppure la montagna era
sempre davanti a loro. La vetta continuava a essere più in alto. L’altimetro
segnò tremilatrecento metri, poi quattromila, poi quattromilatrecento finché, a
quattromilaquattrocentocinquanta metri, raggiunsero la sommità della
montagna. Là gli elicotteri furono investiti da un vento violento che soffiava
dall’altro lato e che li scaraventò indietro e più in basso. García fece un nuovo
tentativo, ma di nuovo l’elicottero venne gettato indietro. Parrado, alle sue
spalle, gridò di paura, e Diaz, che gli sedeva accanto, disse a García, mediante
il microfono: «Comandante, abbiamo una situazione di panico qui dietro».
García era troppo impegnato nel pilotaggio dell’elicottero per prestare
molta attenzione. Vide che il crinale della montagna era un po’ più basso alla
sua destra, rinunciò all’attacco alla vetta e portò l’elicottero intorno alla
sommità della montagna, finché, ancora scrollati e schiaffeggiati dalle violente
correnti d’aria, vennero a trovarsi sull’altro lato… ma la rotta diversa aveva
disorientato Parrado. Egli non sapeva più dove si trovassero e nessuno
riusciva a scorgere il Fairchild. L’elicottero fece un giro e il giovane si guardò
attorno disperatamente in cerca di un caratteristica familiare del paesaggio
grazie alla quale potesse orientarsi. Poi, a un tratto, al lato opposto della valle,
vide la vetta di una montagna che riconobbe e di colpo capì dove si trovava.
«L’aereo deve essere laggiù», disse a García.
«Non riesco a vedere niente», rispose il pilota.
«Scenda», disse Parrado.
L’elicottero cominciò a scendere e man mano i profili delle montagne e gli
affioramenti di rocce divennero più familiari a Parrado finché in ultimo,
lontano sotto di sé, scorse i minuscoli puntini che sapeva essere i resti del
Fairchild.
«Eccoli là!» gridò a Garcla.
«Dove? Dove? Non riesco a vederli.»
«Là!» gridò Parrado. «Là!»
E infine García, sempre alle prese con i comandi dell’elicottero che saltava
e vibrava, vide quello che stava cercando. «Bene!» urlò. «Ora lo vedo!
Adesso non mi parli, non mi parli! Vediamo se riesco a farlo scendere.»
Parte Tredicesima
1

Nella notte di mercoledì, 20 dicembre, lo scoraggiamento dei quattordici


giovani rimasti sulla montagna fu grande come non mai. Nove giorni erano
trascorsi dalla partenza dei componenti della spedizione, sette da quando
Vizintìn era tornato dalla vetta. Sapevano tutti quante razioni essi avessero
portato con sé. Sapevano tutti, pertanto, che il tempo a loro disposizione si
stava esaurendo. Con riluttanza, affrontarono la prospettiva di una seconda
spedizione… e del Natale trascorso sulle Ande.
Quella notte, dopo aver recitato il rosario come sempre, Carlitos Pàez
pronunciò una speciale preghiera per suo zio, che aveva perduto la vita
allorché l’aereo sul quale viaggiava era precipitato, alcuni anni prima. Il
giorno dopo, il 21, sarebbe stato l’anniversario di quell’incidente, ed egli
sapeva che anche sua nonna avrebbe pregato per il figlio, chiedendogli, per
quel giorno, una grazia particolare.
La mattina dopo, ascoltarono le notizie alla radio e non vi fu alcun
accenno ad alcuna operazione di soccorso. All’opposto, venne annunciato che
il C47 dell’aviazione militare uruguayana era partito dal Cile il giorno prima;
pertanto i giovani si accinsero ai loro compiti quotidiani nello stesso stato
d’animo pessimistico del giorno precedente. A mezzogiorno mangiarono la
razione di carne, poi si ritirarono nella fusoliera per ripararsi dal sole.
Più tardi, nel pomeriggio, mentre usciva dall’aereo, Carlitos provò la
sensazione improvvisa, ma molto precisa, che Parrado e Canessa fossero stati
trovati. Fece alcuni passi sulla neve e si portò davanti alla fusoliera, ove vide
Fito accosciato sulla «latrina». Si abbassò allo stesso livello di Fito e disse,
sommessamente: «Ascolta, Fito, non dirlo agli alta, ma ho la netta sensazione
che Nando e Muscoli siano arrivati in qualche posto».
Fito rinunciò al tentativo di defecare, si tirò su i calzoni e salì con Carlitos
per un breve tratto sulla montagna. Sebbene non fosse superstizioso, fu felice
di consentire a quella premonizione di disperdere la sua tetraggine. «Credi
davvero che abbiano trovato qualcuno?» domandò.
«Sì», rispose Carlitos con la sua voce brusca e chiara.
«Ma non dirlo agli altri, perché non voglio deluderli se non è vero.»
Una volta di più, i quattordici si dedicarono alle loro occupazioni mentre il
sole si abbassava nel cielo. Poi, quelli che avevano ancora sigarette (le
provviste si erano quasi esaurite), le accesero per l’ultima fumatina della
giornata. Il sole tramontò. L’aria divenne fredda. Daniel Fernández e Pancho
Delgado entrarono per preparare la cabina passeggeri, poi tutti si misero in fila
a coppie per tornare nella fusoliera e trascorrervi la loro settantesima notte
sulla montagna.
Recitarono il rosario e Carlitos accennò in modo particolare a suo zio, ma
non disse nulla del presentimento. Una volta recitato il rosario, però, Daniel
Fernández esclamò a un tratto: «Signori, ho la netta sensazione che i due
componenti della spedizione ce l’abbiano fatta. Verremo tratti in salvo domani
o dopodomani».
«Anch’io», disse allora Carlitos. «L’ho sentito questo pomeriggio. Nando e
Muscoli devono essere riusciti.»
La seconda premonizione parve confermare la prima e quasi tutti i
quattordici sopravvissuti si addormentarono, quella sera, rasserenati dalla
speranza e dall’ottimismo
La mattina dopo, come sempre, Daniel Fernández e Eduardo Strauch
uscirono alle sette e mezzo e si sintonizzarono sulla stazione radio di
Montevideo per ascoltare le notizie. Per prima cosa udirono che due uomini, i
quali sostenevano di essere superstiti dal Fairchild uruguayano, erano stati
trovati in una remota valle delle Ande. Eduardo stava per balzare in piedi e
gridarlo agli altri, ma Fernàndez gli afferrò il braccio. «Aspetta», disse.
«Potrebbe essere uno sbaglio. Dobbiamo essere sicuri. Non possiamo
deluderli di nuovo.»
Era stato lui a ridestare le loro speranze con la notizia dell’avvistamento di
una croce; non voleva commettere di nuovo quell’errore. I due riportarono
l’attenzione sulla radio, cominciarono a sintonizzarla su altre stazioni e ad un
tratto l’intero etere parve essere colmato da quella notizia, comunicata dalle
stazioni pubbliche dell’Argentina e del Brasile e dai radioamatori del Cile,
dell’Argentina e dell’Uruguay.
Eduardo poté ora urlare forte quanto gli piaceva, e tutti i giovani che si
trovavano fuori sulla neve si riunirono intorno alla radio per ascoltare con le
loro orecchie lo straordinario e magnifico cicaleccio dei radioamatori. Le
parole, una volta pronunciate, si diffusero nell’etere da un paese all’altro,
finché ogni lunghezza d’onda del continente parve diffondere la notizia
sensazionale che due superstiti dell’aereo uruguayano precipitato sulle Ande
dieci settimane prima erano stati trovati, che altri quattordici restavano ancora
sul luogo dell’incidente, e che il loro salvataggio era in corso.
Il momento fantasticato dai giovani per così lungo tempo era finalmente
giunto. Essi si sbracciarono, urlarono alle vette indifferenti dalle quali erano
circondati che stavano per essere salvati e ringraziarono Dio, sia a voce alta,
sia nei loro cuori, per la lieta notizia della salvezza. Poi andarono a prendere i
sigari. Non avrebbero trascorso il Natale sulle Ande; di lì a un’ora o due, gli
elicotteri sarebbero arrivati per condurli via. Aprirono la scatola di sigari
Romeo e Giulietta e ognuno di loro ne prese uno e lo accese, soffiando
l’ineffabile lusso del denso fumo nell’aria asciutta della montagna. Quelli che
avevano ancora sigarette, le divisero con chi le voleva, e anche le sigarette
vennero accese.
Mentre fumavano, cominciarono a calmarsi. «Dovremo ripulirci un po’»,
disse Eduardo. «Guarda che zazzera hai, Carlitos. Faresti bene a pettinarti.»
«E tutta quella roba?» domandò Fernández, additando i resti e i pezzi di
corpi umani che si trovavano disseminati intorno all’aereo. «Non credete che
dovremmo seppellirla?»
Fito sferrò calci con la punta della scarpa alla superficie della neve. Era
ancora ghiacciata e dura. Poi alzò gli occhi sulle facce smunte e tirate dei
ragazzi intorno a lui. «Non ce la faremo mai a scavare una buca, finché la
neve è così gelata.»
«Perché darsene la pena, del resto?» disse Algorta.
«Che cosa succederà se scatteranno fotografie?» domandò Fernàndez.
«Fracasseremo le macchine fotografiche», disse Carlitos.
«Ad ogni modo», osservò Eduardo, «non è affatto necessario nascondere
quello che abbiamo fatto.»
Algorta non riusciva a capire di che cosa stessero parlando e ben presto gli
altri si dimenticarono dei cadaveri. Zerbino e Sabella cominciarono a
domandarsi che cosa avrebbero fatto all’arrivo dei soccorritori. «Lo so io che
cosa faremo», disse Moncho. «Non appena uditi gli elicotteri, entreremo nella
fusoliera e aspetteremo là. Poi, quando verranno a cercarci, diremo: ’Salve.
Che cosa volete?»
«E quando mi offriranno una sigaretta cilena», esclamò Zerbino con una
risata, «io dirò: ’No, grazie, preferisco le mie!’» Mostrò il pacchetto di
sigarette uruguayane. «Terrò da parte qualche La Paz soltanto per poter fare
questo.»
Sentendo che il salvataggio doveva ormai essere imminente, i giovani si
prepararono per il mondo esterno. Pàez si pettinò, come gli aveva detto
Eduardo, e addirittura si mise sui capelli un po’ di brillantina trovata nei
bagagli. Sabella e Zerbino si misero camicia e cravatta. Tutti e quattordici
cercarono di trovare indumenti che fossero un po’ meno sudici. Per la
maggior parte di loro, ciò significò togliersi sia gli strati esterni sia quelli
interni di quel che indossavano, tenendo soltanto i capi di vestiario portati nel
mezzo. Si pulirono inoltre i denti con l’ultima pasta dentifricia rimasta,
spremendola generosamente sugli spazzolini e sciacquandosi la bocca con la
neve.
Erano pronti, ma gli elicotteri non arrivavano. La radio continuava a
trasmettere le notizie del loro salvataggio. Vi fu persino una preghiera di
ringraziamento diffusa da una stazione del Cile che li commosse tutti mentre
l’ascoltavano ma a mezzogiorno ancora non si vedeva alcun segno di soccorsi
e i superstiti, alquanto confusi, non sapevano se tornare alla loro routine o no.
Molti erano ormai affamati, ma la carne preparata il giorno prima l’avevano
gettata via quel mattino nell’entusiasmo Ora Zerbino e Daniel cominciarono di
nuovo a cercarla. Roy Harley, che aveva pensato di poter aspettare un
gabinetto decente, non poté più resistere e andò a defecare davanti alla
fusoliera, ove fu deriso dagli altri, i quali dissero che il suo fondoschiena
senza carne sembrava la coda di una gallina spennata.
Cominciò inoltre a far caldo e molti si rifugiarono dentro l’aereo. Mentre
giacevano lì, impazienti, ma sempre estaticamente felici grazie alla prospettiva
della salvezza, Eduardo Strauch disse agli altri: «Pensate come sarebbe orribile
se fosse un’altra valanga proprio adesso, subito prima che ungano a
soccorrerci».
«Non può succedere», disse Fernández. «Non è possibile, dopo che
abbiamo resistito fino ad ora.»
Ad un tratto udirono un urlo: «Attenzione! Una valanga!» Vi fu un
violento fruscio e scorsero una massa bianca avvicinarsi. Per un momento il
terrore li paralizzò, ma quando la «neve» cominciò ad assestarsi, videro che
era la schiuma dell’estintore dell’aereo, e dietro ad essa non si trovava il volto
tetro della morte, bensì il sogghigno folle di Fito Strauch.
Soltanto dopo l’una udirono per la prima volta i due elicotteri e poi li
videro sorvolare il crinale della montagna, lievemente a nordest di dove si
trovavano loro. Il suono non sembrava affatto come lo avevano immaginato,
e questo dimostrò ai giovani che quanto vedevano e udivano non era un
miraggio. Quelli che si trovavano fuori sulla neve cominciarono
immediatamente a urlare e a sbracciarsi e quelli che erano nella fusoliera si
precipitarono di nuovo fuori.
Non senza sgomento da parte loro, gli elicotteri sembravano non riuscire a
scorgerli. Si allontanarono nella direzione sbagliata, poi virarono, fecero un
giro e passarono oltre. Questo accadde tre volte prima che l’elicottero in testa,
scosso e dondolante nel vento, si abbassasse e facesse un giro sopra di loro.
Riuscirono appena a intravedere Nando, che gesticolava, indicandosi la bocca
e poi alzando quattro dita di una mano. Videro inoltre che gli altri
nell’elicottero li stavano cinematografando e scattavano fotografie. Il pilota
sembrava trovarsi nell’impossibilità di atterrare. Il vento investiva l’elicottero
con tanta violenza che ogni volta, quando si abbassava, l’enorme apparecchio
correva il pericolo di essere scaraventato contro la parete rocciosa della
montagna più vicina. Una bombola fumogena venne gettata fuori
dell’elicottero, ma il vento spinse il fumo in tutte le direzioni
contemporaneamente, senza lasciar capire in alcun modo da quale parte
soffiasse. In ultimo, però, dopo circa un quarto d’ora, il primo elicottero si
abbassò al punto da sfiorare la neve con uno degli sci. Due zaini furono
lanciati dal portello aperto, seguiti, un secondo dopo, da due uomini.
Il primo di costoro era Sergio Dìaz, del Soccorso Andino, l’altro
l’inserviente d’ospedale. Non appena si fu allontanato dal rotore
dell’elicottero, Diaz avanzò verso i ragazzi a braccia aperte, e molti di loro gli
corsero incontro, stringendo e abbracciando il corpulento professore
universitario e facendolo cadere sulla neve. Non tutti i giovani lo accolsero
nello stesso modo. Alcuni superstiti erano sconcertati dall’invasione di quegli
estranei nella loro casa. Pedro Algorta, vedendo Fito abbracciare Dìaz,
domandò se lo avesse già conosciuto.
Temevano inoltre che il frastuono dei motori potesse causare un’altra
valanga, e i due giovani più vicini al primo elicottero si chinarono sotto le
pale del rotore e cercarono il modo di salire a bordo. Non era un’impresa
facile. García non osava atterrare sulla neve, anzitutto a causa del pendio, e in
secondo luogo perché sapeva che la neve non avrebbe sopportato il peso di
un elicottero. Per conseguenza faceva librare l’apparecchio orizzontalmente,
temendo ad ogni momento che le pale del rotore toccassero il fianco della
montagna e nell’impossibilità di disporsi su un angolo che avrebbe facilitato
l’ascesa ai giovani. Il primo a tentare fu Fernández. Si protese e venne
afferrato da Parrado, che lo tirò dentro. Il secondo fu Mangino, che aveva
zoppicato sulla neve per salire sull elicottero e ora riuscì ad arrampicarsi a
bordo.
Con quei due passeggeri, oltre a Parrado, a Morel e ai meccanico, García
ritenne di essere a pieno carico e riportò in alto il velivolo, poi si librò mentre
Massa eseguiva la stessa manovra e faceva scendere altri due appartenenti al
Soccorso Andino, con il loro equipaggiamento.
Mentre i due elicotteri si alternavano in questo modo, Dìaz si districò
dall’abbraccio dei giovani e chiese di Pàez. Carlitos si presentò a Dìaz e gli
consegno le due lettere di suo padre. «Una è per lei», disse, «e l’altra per tutto
il gruppo.»
Carlitos le aprì e lesse per prima quella destinata a tutti loro:
Rallegratevi e abbiate fiducia, diceva. Vi offro un elicottero come dono di
Natale.
La seconda era soltanto per luidestinata:
Come puoi constatare, non ti sono mai venuto meno. Ti sto aspettando e
confido in Dio come non mai. La mamma sta venendo nel Cile. Il tuo
vecchio.

Pàez si ficcò le lettere in tasca, alzò gli occhi e vide che il secondo
elicottero era in posizione. Andò verso di esso con Algorta ed Eduardo e salì a
bordo. Dopo di lui venne Inciarte, che fu aiutato da Dìaz; con i quattro
superstiti, Massa aveva ormai la sua quota di passeggeri e si risollevò…
lasciando Delgado, Sabel, François, Vizintìn, Methol, Zerbino, Harley e Fito
Strauch conn i tre del Soccorso Andino e con l’inserviente d’ospedale.
L’ascesa dal lato est della montagna non fu meno terricante di quella
dall’altra parte, terrificante a tal punto, invero, che i nuovi passeggeri
cominciarono a pentirsi di aver rinunciato alla relativa sicurezza della loro
«casa» nella fusiliera del Fairchild. Fernández si voltò verso Parrado, mentre
l’intero elicottero vibrava a causa dello sforzo dei motori, e gli domandò se
quelle vibrazioni fossero normali.
«Oh, sì!» gli urlò Parrado, ma Fernández capì dalla sua faccia che egli era
altrettanto spaventato.
Mangino si rivolse al soldato seduto accanto a lui e domandò se
l’elicottero fosse in grado di affrontare simili condizioni. Il meccanico lo
rassicurò, ma l’espressione che aveva sulla faccia era meno fiduciosa delle
parole, e Mangino cominciò a pregare come non aveva mai pregato fino a
quel momento.
La difficoltà cui si trovavano di fronte García e Massa consisteva nel fatto
che l’aria a quell’altezza era troppo rarefatta perché gli elicotteri potessero
sollevarsi con la sola potenza dei motori. Essi, pertanto, tentavano di
impiegare gli apparecchi come alianti, cercando una corrente d’aria calda che
li sollevasse di alcuni metri, poi librandosi a quella quota finché una nuova
corrente non li portava ancora più in alto. Si trattava di una tecnica che
richiedeva un’abilità eccezionale, ma non più di quanta essi ne possedessero,
poiché finalmente vennero a trovarsi al di sopra della vetta e discesero
rapidamente nella valle all’altro lato, verso la biforcazione e Los Maitenes.
***
Occorsero loro soltanto quindici minuti per giungere al Campo Alfa, ove i
sei superstiti appena tratti in salvo balzarono sul terreno verdeggiante in preda
a un’estasi di felicità e di sollievo. Erano meravigliati dai colori che
improvvisamente li circondavano ovunque, inebriati dal profumo dell’erba e
dei fiori; come se fossero stati brilli, si abbracciarono e si rotolarono per terra.
Eduardo si distese supino sull’erba, quasi l’avesse trovata più morbida della
più morbida seta. Si voltò e vide una margherita a un palmo dal suo naso. La
colse, la odorò, poi la porse a Carlitos, che gli si era disteso al fianco; Carlitos
la prese e stava a sua volta per odorarla, ma poi se la mise in bocca e la
mangiò.
In quello stesso momento, Canessa e Algorta si abbracciavano e si
rotolavano a terra; entusiasta ed eccitato com’era, Algorta afferrò Canessa per
i capelli. Ecco che ricomincia, lo stupido idiota, pensò Canessa. Ricomincia a
tormentarmi proprio come lassù.
Quando questa prima ondata di effervescenza si fu placata e i giovani si
resero conto di essere riusciti a sopravvivere non soltanto ai settantun giorni
trascorsi sulle Ande ma anche al volo terrificante in elicottero, i loro pensieri
si volsero immediatamente al cibo e tutti e sei si precipitarono sul caffè
bollente, sulla cioccolata e sul formaggio che erano stati preparati per loro. Al
contempo la squadra medica li visitò e constatò che, sebbene soffrissero tutti,
in un modo o nell’altro, di denutrizione e di carenze vitaminiche, nessuno di
essi si trovava in condizioni critiche.
Gli otto superstiti che erano già stati tratti in salvo dal luogo dell’incidente
potevano pertanto aspettare mentre gli elicotteri sarebbero tornati a prendere
gli altri; ma Garcìa disse al colonnello che, siccome nessuno sulla montagna
era in imminente pericolo di vita, non sarebbe stato prudente tornare lassù
quella sera stessa, tenuto conto delle condizioni meteorologiche proibitive.
Morel riconobbe che la seconda operazione di soccorso poteva essere
rimandata al giorno dopo; quanto ai primi otto superstiti, avrebbero raggiunto
in aereo San Fernando nel pomeriggio.
2

Il comando nella cittadina venne informato di questa decisione per radio e al


contempo ricevette l’elenco completo dei sedici sopravvissuti. Il
radiotelegrafista che lo trascrisse lo consegnò al membro del comitato che si
era assunto il compito di battere a macchina messaggi del genere: Carlos Páez
Vilarò.
Paez Vilaró si rifiutò di prendere il foglio. Sapeva ora che dei quaranta
passeggeri partiti con il Fairchild soltanto sedici si erano salvati. Ignorava se
suo figlio, Carlitos, fosse uno di quei sedici e quando giunse il momento in
cui avrebbe potuto saperlo, il terrore della verità fu troppo forte per lui. Senza
pronunciar parola, spinse il foglio di carta verso l’aiue del colonnello Morel.
Il breve elenco venne ben presto battuto a macchina e passò molto tempo
prima che, una volta di più, i sedici nominativi si trovassero di fronte a Páez
Vilaró. Eppure, egli non seppe ancora indursi a leggerli; coprì l’elenco con un
altro foglio di carta. Proprio in quel momento squillò il teleo: era Radio
Carve, a Montevideo.
«Avete ricevuto altre notizie?» domandarono.
«Sì», rispose Páez Vilaró. «Abbiamo i nomi dei superstiti, ma non posso
comunicarveli senza l’autorizzazione del comandante, ed egli si trova con gli
elicotteri.»
Il sindaco di San Fernando, avendo udito queste parole, disse a Páez
Vilaró che lo autorizzava lui a leggere l’elenco, e così, sempre con la cornetta
accostata alla bocca, il pittore scoprì adagio il primo nome dell’elenco, nello
stesso modo con il quale un uruguayano guarda la propria mano di carte
giocando al truco. «Roberto Canessa», disse. E poi ripeté: «Roberto Canessa».
Subito dopo spostò verso il basso, di qualche millimetro, il foglio di carta.
«Fernando Parrado», disse. «Fernando Parrado.» Spostò nuovamente, di
poco, il foglio verso il basso. «José Luis Inciarte… José Luis Inciarte.» Il
foglio venne abbassato ancora: «Daniel Fernàndez… Daniel Fernández». Un
nuovo, piccolo spostamento: «Carlos Páez… Carlos Páez». Le lacrime lo
soffocarono, allora, e per un momento non riuscì più a leggere.
I nomi, man mano che egli li pronunciava, venivano radiodiffusi
direttamente nelle case di tutti gli uruguayani che avevano acceso la radio e si
erano sintonizzati su quella stazione. Tra loro si trovava la signora Nogueira.
Ella aveva aspettato le notizie nel giardino dei Ponce de Léon, ma l’atmosfera,
laggiù, le era sembrata troppo tesa e isterica; ora si trovava nella cucina di casa
sua e quando Pàez cominciò a leggere l’elenco dei nominativi, la mente e il
corpo le si paralizzarono, come se tutte le speranze e i terrori degli ultimi due
mesi si fossero concentrati in quel momento. «Carlos Pàez», ripetè Vilaro. Poi
seguirono altri nomi: Mangino, Strauch, Strauch, Harley, Vizintìn, Delgado,
Algorta, Francois, Methol e Sabella.
Non ci fu altro. Le sue speranze, destate, distrutte e poi ridestate
innumerevoli volte, crollarono ora per l’ultima volta. Com’è bello, ella pensò,
che il piccolo Sabella si sia salvato. Non conosceva la famiglia del ragazzo,
ma aveva parlato con la madre di lui al telefono. Le era sembrata allora
infinitamente triste; ora sarebbe stata felice.
***
Harley e Nicolich, i due padri recatisi in volo da Mendoza a Santiago con
l’aereo carico di carne congelata, giunsero a San Fernando proprio mentre si
stavano facendo gli ultimi preparativi per l’arrivo degli elicotteri con i primi
otto superstiti. I due uomini non sapevano ancora quali dei giovani si fossero
salvati. Si aprirono un varco tra la folla di eccitati cileni in attesa davanti
all’ingresso della caserma e si unirono a Pàez Vilaró, in piedi con César
Charlone, l’incaricato d’affari uruguayano, davanti a trecento soldati del
reggimento Colchagua schierati come per una parata.
A un tratto un grido si levò dalla folla, nella quale si trovavano molti di
coloro che con i loro andirivieni, i loro aerei, le loro radiotrasmittenti e le loro
preghiere avevano aiutato Pàez Vilaró nelle sue stravaganti ricerche. Erano
stati veduti i tre elicotteri dell’aviazione militare cilena che si stavano
avvicinando. La vista di tre croci nel cielo o di una schiera di angeli non
sarebbe potuta essere, in quel momento, più commovente o più miracolosa di
quella dei rumorosi e sofisticati apparecchi che fendettero l’aria, si librarono,
girarono sopra la caserma e infine si posarono sull’asfalto del cortile.
Prima ancora che i motori si fermassero, i portelli vennero aperti e Pàez
Vilarò padre vide la faccia di Pàez figlio. Con un grido egli si lanciò avanti e si
sarebbe gettato contro le pale ruotanti dell’elicottero se Charlone non l’avesse
trattenuto. Aspettò, allora, mentre Carlitos saltava giù e correva verso di lui. Il
giovane fu seguito da Parrado, che a sua volta corse verso Pàez Vilaró, il
quale, liberato da colui che lo tratteneva, si precipitò verso i due giovani e li
abbracciò entrambi contemporaneamente.
Non una parola venne pronunciata. Per il padre, le settimane di cocciuta
follia trovarono una ricompensa nei corpi che egli stringeva contro il suo.
Pianse e, alle sue spalle, lacrime striarono le gote dei trecento soldati del
reggimentio Colchagua. Per il figlio, trovarsi tra le braccia forti del padre fu
come essere già a casa. La sola pecca nella sua felicità era costituita dalla
faccia spaventata e colma di aspettativa di Nicolich, là, dietro a suo padre.
Abbassò gli occhi. Pur nella gioia, gli parve che un braccio si sollevasse
per sferrare un colpo micidiale sul capo del padre del suo migliore amico; ma,
quando tornò ad alzare gli occhi vide che Nicolich stava parlando con Daniel
Fernàndez. L’espressione sulle due facce lasciò capire molto chiaramente che
cosa veniva detto.
3

L’ospedale di San Giovanni di Dio, a San Fernando, era stato avvertito alle sei
di quel mattino, dal colonnello Morel, di prepararsi a ricoverare i superstiti del
Fairchild uruguayano. Il direttore, dottor Baquedano, formò immediatamente
un gruppo con i suoi collaboratori più capaci, i dottori Ausin, Valenzuela e
Melej, affinché impartissero tutte le disposizioni necessarie. In quel momento
essi non erano in grado di sapere in quali condizioni sarebbero stati i
superstiti; sapevano soltanto che erano rimasti bloccati sulle Ande, con poco o
nessun cibo, per più di settanta giorni.
Per prima cosa, fecero preparare i letti. L'ospedale piccolo e sistemato in
un vetusto edificio, una costruzione a un solo piano, con cortili interni e una
veranda coperta intorno a ciascun reparto. Ma esisteva un’ala riservata ai
pazienti solventi, e si decise di sgombrarla per accogliervi i superstiti. Mentre
ciò veniva fatto, i tre medici telefonarono a un altro dottor Valenzuela,
direttore del reparto terapie intensive nell’Ospedale Centrale di Santiago. Gli
spiegarono quali cure fossero state previste per i pazienti al loro arrivo, ed
ebbero la sua conferma del fatto che si trattava di quelle indicate.
Le autoambulanze con i primi otto superstiti arrivarono alle quindici e
dieci. I giovani furono portati nel cortile, tra l’edificio principale dell’ospedale
e la cappella di mattoni su un lato, e quindi vennero fatti sdraiare su lettini a
rotelle… tutti tranne Parrado, il quale volle a tutti i costi entrare a piedi e si
aprì un varco tra la folla di infermiere e di curiosi accorsi per assistere
all’arrivo. Quando giunse all’ingresso dell’ala privata, venne fermato dal
poliziotto posto là di guardia.
«Spiacente», disse l’uomo. «Non può entrare qui. È riservato ai
superstiti.»
«Ma io sono uno dei superstiti», rispose Parrado.
Il poliziotto osservò l’alto giovane che aveva di fronte, e soltanto la barba
e i capelli lunghi e arruffati lo persuasero del fatto che quanto Parrado diceva
era vero. Anche le infermiere erano incredule e tentarono di convincere il
componente della spedizione a mettersi a letto, ma lui rifiutò di coricarsi e di
lasciarsi visitare dai medici prima di avere fatto il bagno. Le infermiere
sembravano allibite e andarono a informarsi dai dottori, i quali si strinsero
nelle spalle e dissero che tanto valeva lasciarlo fare a modo suo.
Incominciarono così a rendersi conto del fatto che i loro pazienti non si
sarebbero comportati affatto come si aspettavano.
Il bagno venne preparato per Parrado. Egli chiese uno shampoo, e
un’infermiera andò a prendere il suo personale. Parrado poté finalmente
togliersi i vestiti puzzolenti e affondare il proprio corpo nell’acqua. Si lavò
dappertutto e rimase nell’acqua calda per un’ora e mezzo. Dopo il bagno fece
la doccia per togliersi di dosso l’acqua sporca, quindi indossò il camice
bianco fornitogli dall’ospedale. Si sentiva meravigliosamente bene e, con
benevola indifferenza, consentì ai tre medici perplessi di visitarlo. Non
riuscirono a trovare in lui alcuna disfunzione.
Naturalmente, Parrado, come tutti gli altri sette, era molto dimagrito.
Aveva perduto più di ventidue chili del suo peso normale. A dimagrire meno
erano stati Fernández, Páez, Algorta e Mangino, che avevano perduto tra i
tredici e i quindici chilogrammi ciascuno. Canessa era dimagrito di diciassette
chili, Eduardo Strauch di diciannove, e Inciarte di quaranta. Questa enorme
differenza dimostrava non soltanto quanto fossero diventati magri, ma quanto
erano stati robusti in passato; infatti, mentre Fernández, Algorta, Mangino
Eduardo Strauch avevano pesato tra sessantasei e settantacinque chili prima
dell’incidente, Parrado e Inciarte ne pesavano entrambi quasi novanta. I
medici si stupirono per il fatto che Páez, il quale non era un ragazzo alto,
pesava ben sessantotto chilogrammi al momento del ricovero nell’ospedale an
Giovanni di Dio, a San Fernando.
Alcuni dei giovani avevano lesioni o disturbi specifici che i medici fecero
del loro meglio per curare. Mangino aveva una gamba fratturata, la gamba di
Inciarte continuava a essere gravemente infetta. Algorta soffriva di dolori al
fegato. Mangino era inoltre febbricitante, aveva la pressione alta e il polso
irregolare. Per giunta gli esami rivelarono in tutti loro una carenza di grassi,
proteine e vitamine. I giovani soffrivano anche di ustioni solari alle labbra, di
congiuntivite e di varie malattie della pelle.
Ben presto apparve chiaro ai tre medici dai quali furono visitati che quegli
otto ragazzi si erano nutriti con qualcosa di più della neve sciolta nelle scorse
dieci settimane, e uno di essi, esaminando la gamba di Inciarte, gli domandò:
«Che cosa è stata l’ultima cosa che ha mangiato?»
«Carne umana», rispose Coche.
Il dottore continuò a curare la gamba senza fare commenti e senza tradire
alcuno stupore.
Fernández e Mangino rivelarono entrambi ai medici di che cosa si erano
nutriti sulla montagna, e, una volta di più, i dottori non fecero alcun
commento in un senso o nell’altro, pur dando severe disposizioni affinché
nessun giornalista venisse lasciato entrare nell’ospedale. Eppure, non
pensarono a modificare le disposizioni impartite per quanto concerneva
l’alimentazione degli otto superstiti. Mangino, Inciarte e Eduardo Strauch, i
più pericolosamente denutriti, furono alimentati mediante fleboclisi; agli altri
vennero somministrati liquidi e modeste porzioni di una gelatina
appositamente preparata poi li si lasciò riposare.
Soltanto dopo qualche tempo i giovani si resero conto che per il momento
non avrebbero avuto altro. L’unico cibo solido che avessero veduto dopo il
ricovero in ospedale era il pezzo di formaggio portato da Canessa, come
ricordo, dalle capanne di Los Maitenes, e posto sul comodino accanto al suo
letto. Ogni ragazzo aveva la propria camera, ma i più in forze passarono
dall’una all’altra e ben presto si accordarono tutti nel senso di chiedere alle
infermiere qualcosa di più sostanzioso da mangiare. Le infermiere opposero
alla richiesta gli ordini severi dei dottori Melej, Ausin e Valenzuela, secondo i
quali non doveva essere servito loro alcun altro cibo.
La necessità rende l’uomo ladro. Carlitos Pàez si era reso conto di essere,
in un certo qual modo, una celebrità e promise alle infermiere ogni genere di
autografi «speciali» e di souvenirs, se soltanto gli avessero procurato qualcosa
di solido da mangiare. Ma le incantevoli infermiere cilene non si lasciavano
corrompere tanto facilmente. I ragazzi cominciarono pertanto a compilare una
petizione di protesta contro i dottori Melej, Ausin e Valenzuela, i quali,
asserirono, li stavano facendo morire di fame.
I medici tornarono nel reparto e ascoltarono la lettura della petizione.
Risposero spiegando quanto fosse pericoloso ingerire cibi solidi dopo lunghi
periodi di denutrizione.
«Ma dottore», disse Canessa, «io ho mangiato fagioli e maccheroni, ieri a
pranzo, e oggi sto benissimo.»
I medici si arresero. Ordinarono alle infermiere di servire un pasto
completo a ognuno degli otto superstiti.
***
Appariva ormai chiaro che nessuno degli otto pazienti si trovava in
condizioni fisiche critiche. La preoccupazione dei dottori si spostò a questo
punto sul settore della loro salute mentale. Avevano notato sin dai primissimi
momenti, nei giovani, due sintomi: anzitutto un impulso coattivo che li
costringeva a parlare e, in secondo luogo, la paura di essere lasciati soli.
Coche Inciarte, il primo a entrare in ospedale, aveva afferrato la mano del
dottor Ausin, dal lettino a rotelle tenendola stretta finché non era stato messo
letto. In seguito aveva parlato con chiunque fosse entrato nella sua stanza; e
altrettanto avevano fatto glia altri, in particolare Carlitos Pàez.
Questo comportamento non ora straordinario in giovani che avevano
trascorso dieci settimane isolati sulle Ande, ma, tenuto conto del fatto, appena
venuto a conoscenza dei medici, che i loro pazienti erano vivi grazie a una
dieta di care umana, esso sarebbe potuto essere la prima manifestazione di un
più grave modo di agire psicotico. Per tale motivo i dottori ordinarono che a
nessuno fosse consentito di far visita ai giovani, nemmeno alle madri di
Carlitos e Canessa, le quali erano già arrivate da Montevideo.
Per un uomo, tuttavia, tra la ressa delle persone pigiate all’ingresso
dell’ospedale, fu fatta eccezione alla regola. Si trattava di padre Andrés Rojas,
il curato della chiesa parrocchiale di San Fernando Rey. Come tutti gli altri a
San Ferìando, egli aveva saputo del «miracolo di Natale» (com’era stato ormai
denominato il ritrovamento dei superstiti), e veduto quel pomeriggio gli
elicotteri sorvolare la cittadina all’arrivo da Los Maitenes. Era stato assalito
dall’impulso immediato di recarsi all’ospedale e di offrire tutto l’aiuto che
avrebbe potuto dare, ma tale impulso aveva trovato un ostacolo in una certa
riluttanza ad interferire con la direzione del San Giovanni di Dio. Più tardi nel
pomeriggio, però, egli ricordò certi impegni che gli fornivano un pretesto per
recarsi là.
Era un giovane di appena ventisei anni, consacrato sacerdote soltanto
l’anno prima. Dimostrava ancor meno della sua età, essendo piuttosto basso
di statura, con i capelli neri, la pelle bruna e una fisionomia fanciullesca.
Indossava, inoltre, non già la nera tonaca clericale, ma un paio di calzoni grigi
e una camicia grigia dal colletto aperto, per cui, una volta arrivato
all’ospedale, non sarebbe stato notato tra la folla se i dottori Ausin e Melej
non lo avessero riconosciuto e invitato a far visita ai superstiti.
Fu introdotto nel reparto solventi, e là entrò nella prima camera del
corridoio, quella di Coche Inciarte. Fu una scelta fortunata poiché il
balbettante Coche, non appena saputo che si trattava di un sacerdote, prese a
parlare e a parlare. Raccontò a padre Andrés quanto era accaduto sulla
montagna… non già con la fredda obiettività di un osservatore distaccato, ma
con parole nobili e mistiche, tali da lasciar capire assai meglio che cosa avesse
significato per lui quella esperienza.
«È stata una cosa che nessuno avrebbe potuto immaginare. Io ero solito
andare a Messa tutte le domeniche, e la Santa Comunione aveva finito con il
rappresentare per me un qualcosa di automatico. Ma lassù, assistendo a tanti
miracoli, essendo così vicino a Dio, quasi toccandolo, mi sono reso conto
come tutto sia molto diverso. Ora prego Dio affinché mi conceda la forza di
non tornare a essere quello di un tempo, e, me lo impedisca. Ho imparato che
la vita è amore, e che amore significa dare al proprio prossimo, l’anima di un
uomo è la cosa più bella che esista in lui. Non c’è niente di meglio del donare
ai nostri simili…»
Padre Andrés, ascoltando, si rese conto della natura esatta del dono al
quale si riferiva Inciarte… il dono, da parte dei compagni defunti, della
propria carne. Non appena lo ebbe capito, il giovane sacerdote si affrettò ad
assicurare a Inciarte che quanto egli aveva fatto non era un peccato. «Tornerò
qui oggi stesso per comunicarti», disse.
«Allora vorrei confessarmi», disse Coche.
«Hai già confessato», osservò il sacerdote, «con questa conversazione.»
Entrato nella camera di Alvaro Mangino, padre Andrés si trovò di fronte
allo stesso fenomeno: il desiderio intenso da parte del giovane di spiegare ciò
che aveva fatto, descritto con un insieme confuso di rimorsi e di
giustificazioni. Una volta di più il sacerdote rassicurò quel ragazzo
preoccupato: l’azione da lui commessa non era un peccato. Avrebbe potuto
fare la comunione quel pomeriggio stesso senza confessarsi; oppure, se
voleva confessarsi, la confessione sarebbe servita soltanto a liberarlo di altri
peccati.
Vi fu una domanda, tuttavia, che Inciarte gli pose e alla quale egli non
seppe rispondere. Come mai lui aveva vissuto, mentre altri erano morti? Qual
era stato lo scopo di Dio nel procedere a quella scelta? Che senso poteva
avere? «Nessuno», rispose padre Andrés. «Vi sono momenti in cui la volontà
di Dio non può essere capita dalla nostra intelligenza umana. Vi sono cose che
dobbiamo accettare in tutta umiltà come un mistero.»
Consentendo a padre Andrés di far visita ai superstiti, i medici avevano
scelto una terapia estremamente efficace. La decisione di nutrirsi con i corpi
dei loro amici fini era stata un grave cimento per la coscienza di molti giovani
sulla montagna. Erano tutti cattolici romani e accessibili al giudizio della loro
Chiesa su quanto avevano fatto. Poiché, secondo l’insegnamento della Chiesa
cattolica l’antropofagia in extremis è ammissibile, questo sacerdote potè non
tanto perdonarli quanto dir loro che non avevano fatto nulla di male. Tale
giudizio, appoggiato da tutta l’autorità della Chiesa, assicurò, per lo meno a
coloro i quali si sentivano incerti, la pace dello spirito.
Uno o due dei giovani non sentivano la necessità di essere rassicurati, o
non ammettevano di sentirla, ed ebbero ben poco da dire a padre Andrés.
Algorta, ad esempio, non era in vena di parlare con chicchessia, e meno che
mai con quel giovane ecclesiastico il cui volto aveva l’espressione di un santo.
4

Il momento della riunione non poteva essere rimandato ancora a lungo. I


genitori e i parenti dei superstiti non sapevano nulla del delicato problema che
i medici avevano dovuto prendere in considerazione prima di farli passare, e
sebbene quasi tutti avessero dato prova di una pazienza quasi eroica mentre
aspettavano di vedere i loro figlioli risorti dal regno dei morti, ve ne furono
alcuni che smaniarono sempre più.
Graciela Berger, la sorella sposata di Parrado, andò su tutte le furie perché
venne fermata da un poliziotto sulla porta del reparto solventi. «Ma voglio
vedere mio fratello!» urlò.
Udì, dall’interno, la voce di Nando che gridava: «Graciela, sono qui!»
Dopodiché la decisa giovane donna uruguayana passò ugualmente, scostando
il poliziotto, ed entrò nella camera di Parrado. Non appena lo ebbe veduto,
scoppiò in lacrime. La commozione nel rivedere Nando, aggiunta allo choc
causatole dal suo aspetto sciatto ed emaciato, aggredì in misura insostenibile il
dominio che ella aveva di sé stessa.
Dietro di lei entrò il marito Juan e, subito dopo, la figura curva e
piangente di Seler Parrado. Questo pover’uomo, disamoratosi completamente
della vita quando il figlio, la moglie e la figlia erano scomparsi sulle Ande, era
stato nuovamente indotto a speranze illusorie da un falso elenco nel quale tutti
e tre figuravano come superstiti. Soltanto allora, pochi momenti prima di
rivedere il figlio, gli era stata detta la verità: il solo Nando viveva. Per
conseguenza, era dilaniato da questi sentimenti contrastanti di gioia e di
dolore… ma, quando vide Nando e lo prese tra le braccia, la felicità
sopraffece la sofferenza e le lacrime che gli sgorgarono dagli occhi furono
lacrime di felicità.
Più avanti nel corridoio, anch’egli in una camera tutta per lui, Canessa
giaceva sul letto e ascoltava le voci dei parenti man mano che entravano. A un
tratto alzò gli occhi e vide, inquadrato dalla porta, il viso della sua novia,
Laura Surraco. La prima reazione del giovane fu sconvolgente. Si era sempre
detto, sulle montagne, che l’avrebbe riveduta a Montevideo; ora la sua
presenza lì nel Cile sembrava in qualche modo ingiusta… e quando ella corse
verso di lui e scoppiò in lacrime, Roberto si tirò indietro.
Laura Surraco era seguita da Mecha Canessa. Quest’ultima entrò con
un’aria serena e disse: «Buon Natale, Roberto». Poi si mise a piangere a sua
volta non appena vide la faccia raggrinzita di un vecchio sotto la barba di suo
figlio.
Il dottor Canessa, quando entrò nella stanza, scoppiò anche lui in lacrime;
questo torrente di emozioni fece piangere Roberto a tal punto che i genitori di
lui temettero per la sua salute e gli proposero di andarsene. Ma il giovane non
volle che lo lasciassero e, allorché tutti furono più calmi, cominciò a
descrivere l’incidente e come erano sopravvissuti, compreso il fatto che
avevano mangiato carne umana. Dei tre, venuti cosi a conoscenza della cosa,
soltanto il padre trasalì scandalizzato prima di riuscire a dominarsi quanto
bastava per celare i propri sentimenti. Le due donne sembravano tanto felici
di riavere Roberto, che quasi non si curavano di quanto egli diceva. Il dottore,
d’altro canto, capì attraverso quali orrori doveva essere passato suo figlio e
quali altri cimenti lo avrebbero aspettato.
L’incontro di Eduardo Strauch con la madre, il padre e sua zia Rosina fu,
in qualche modo, altrettanto imbarazzante. Sarah Strauch fece del suo meglio
per mostrarsi calma, ma era nervosa di natura, e il momento in cui si ritrovò
con Eduardo fu quasi eccessivo per il suo autocontrollo. Dominata com’era al
contempo dalla gioia nel rivederlo vivo, dallo sgomento nel constatarlo così
sciupato, e da una spirituale esultanza perché le preghiere da lei rivolte alla
Vergine di Garabanil erano state esaudite, non riuscì a celare l’espressione
inorridita del suo viso quando Eduardo le parlò degli estremi cui erano dovuti
arrivare affinché quel miracolo potesse avverarsi.
Analogamente, Madelón Rodriguez fece un’involontaria smorfia d’orrore
quando Carlitos le disse che cosa avevano mangiato per restare in vita. Al pari
di molte altre madri che ancora credevano nella salvezza dei loro figli, non si
era soffermata a pensare, nei particolari, in qual modo il miracolo cui sperava
potesse compiersi; aveva supposto che vi fossero, sulle montagne, boschi nei
quali i giovani si sarebbero potuti riparare, con conigli selvatici in fuga sugli
aghi di pino e pesci che nuotavano nei torrenti. Né lei, né alcun altro dei
genitori e dei parenti dei ragazzi avevano immaginato che essi potessero
nutrirsi con i corpi dei morti. Era inevitabile, per conseguenza, che, in un
primo momento, la consapevolezza di quanto era accaduto li inorridisse; e i
giovani, per quanto fossero rimasti scossi e disorientati dopo il lungo cimento,
avevano ancora abbastanza buon senso e una sufficiente consapevolezza del
comportamento umano lontano dalle vette delle Ande per capire che non
sarebbe potuto essere altrimenti.
Faceva eccezione soltanto Algorta. Egli giaceva sul letlo, nella sua stanza,
senza provare alcun bisogno irresistibile di parlare, e congedò il pio sacerdote.
Vennero a trovarlo suo padre e una donna nella quale riconobbe la madre
della ragazza che avrebbe dovuto rivedere a Santiago. Le domandò notizie di
sua figlia, e la mattina dopo la fanciulla stessa venne a fargli visita. Egli sentì
subito nei suoi riguardi tutto l’affetto che era esistito prima dell’incidente. La
sola pecca di quell’incontro fu l’espressione d’orrore sul viso della madre
quando Algorta le disse che cosa aveva mangiato per sopravvivere. Lo choc
della donna scandalizzò lui. Come poteva stupirsi perché avevano mangiato i
cadaveri se quella era stata in cosa tanto normale e ovvia da farsi?
Coche Inciarte, il più vulnerarabile alle involontarie espressioni di biasimo
degli altri, evitò tali reazioni parlando delle speranze del gruppo soltanto nei
termini più nobili.
«Carlos», disse a suo zio, il primo dei dodici parenti che arrivarono nel
Cile, «Carlos, sono pieno di Dio.»
E lo zio rispose nello stesso tono. «Cristo ha voluto che tu scendessi dalle
Ande, Coche, e adesso è con te.»
Parte Quattordicesima
1

Gli otto superstiti rimasti sulla montagna seguirono con lo sguardo l’ascesa
dei due elicotteri finché non furono scomparsi entrambi al di là della vetta.
Poi Zerbino si rivolse a Lucerò, uno dei tre appartenenti al Corpo di Soccorso
Andino, e lo invitò a visitare la loro «casa», la fusoliera del Fairchild, in attesa
del ritorno degli elicotteri. Mentre si dirigevano verso l’ingresso, Lucero
sbirciò i frammenti di ossa umane che giacevano sparsi sulla neve e domandò:
«I cadaveri sono stati divorati dai condor?»
«No», rispose Zerbino, seguendo la direzione del suo sguardo. «Da noi.»
Lucero non disse nulla e non tradì alcuno stupore, ma, quando giunsero
dinanzi alla fusoliera del Fairchild, il cui tetto era coperto da strisce di grasso,
esitò un attimo. Poi si chinò ed entrò. Zerbino entrò assieme a lui e gli spiegò
come avessero vissuto e dormito per così lungo tempo in uno spazio tanto
angusto, e come la valanga, avventandosi giù dalla montagna, avesse ucciso
otto di coloro che erano sopravvissuti all’incidente. Lucero ascoltava con
molta comprensione e con interesse, ma non riusciva a ignorare il fetore che
pervadeva l’interno dell’aereo. Sfortunatamente, il suo anfitrione sembrava
ignaro dell’esistenza di un odore qualsiasi, e lui era troppo compito per
parlarne, ma tornò il più rapidamente possibile all’aria aperta.
Nel frattempo, l’altro ospite si era occupato dei compagni di Zerbino,
medicandoli e provvedendo alle richieste più urgenti dei loro stomachi. Vi
furono anzitutto sandwich con carne, fette di manzo arrosto tra fettine di pane
non lievitato. Poi succo d’arancia, succo di limone, minestra (riscaldata sul
fornello degli appartenenti al Corpo di Soccorso) e infine una torta alla frutta,
che Dìaz aveva portato perché quel giorno era il suo compleanno. Fu un
banchetto. I giovani mangiarono e bevvero con voluttà e si servirono del
burro con le dita.
Preparandosi al ritorno degli elicotteri, gli ospiti cercarono a questo punto
di costruire uno spiazzo d’atterraggio sulla neve. Demolirono la parete
all’ingresso della fusoliera, presero una grande lastra di plastica che un tempo
aveva fatto parte della parete divisoria tra la cabina passeggeri e il vano
bagagli, e la collocarono sulla neve in una posizione il più possibile
orizzontale. Completarono l’improvvisato spiazzo di atterraggio per gli
elicotteri, partiti ormai da qualche tempo, servendosi di pezzi di cartone.
Cominciarono inoltre a fotografare quel che vedevano intorno a loro.
Notando ciò, i ragazzi si turbarono e domandarono perché mai fosse
necessario. Gli appartenenti al Corpo di Soccorso li calmarono dicendo che si
limitavano a fornire una documentazione all’esercito cileno, come era stato
loro richiesto, e che nessuna delle fotografie sarebbe mai stata pubblicata.
I ragazzi parvero soddisfatti, e in ogni caso sarebbe stato difficile adirarsi
con soccorritori cortesi come i quattro cileni. Uno di questi ultimi offrì
persino una sigaretta a Zerbino.
«No, grazie», disse il giovane, «preferisco le mie.» E senza sorridere, per
non far capire che aveva già provato quella battuta, accese una delle sue
ultime sigarette uruguayane.
Verso le quattro del pomeriggio, divenne manifesto che gli elicotteri non
sarebbero tornati quella sera. Subito l’animazione degli otto superstiti cedette
il posto al pensiero desolante che sarebbero stati costretti a trascorrere un’altra
notte sulla montagna. Gli ospiti, rendendosene conto, fecero tutto il possibile
per risollevare il morale. Accesero il fornello e cucinarono altre minestre,
dapprima minestra di pollo, poi minestra di cipolle, poi minestra scandinava.
In seguito Methol domandò se, per caso, avessero un po’ di maté.
«Maté? Ma naturale che abbiamo il maté! Come ha potuto immaginare che
quattro cileni fossero senza maté?»
Prepararono il maté, e poi il caffè. Nel frattempo, il sole era scomparso
dietro le montagne e cominciava a far freddo. Per i giovani, quell’improvviso
abbassamento della temperatura era ormai abituale. Gli appartenenti al Corpo
di Soccoro Andino, dal canto loro, disponevano di anorak impermeabili, dalle
vivide tinte, che li proteggevano dal gelo. L’unico che cominciò a soffrire fu
Bravo, l’inserviente d’ospedale, che si era lanciato dall’elicottero con una
camicetta dalle maniche corte, calzando mocassini; ma i cileni del Corpo di
Soccorso gli procurarono alcuni indumenti.
Quindi i quattro cileni, messisi a sedere nella fusoliera assieme ai
superstiti, cominciarono a intonare canzoni per tenere alto il morale; ma, man
mano che il sole continuava a calare dietro le montagne, fece sempre più
freddo, e giunse per tutti loro il momento di tentar di dormire. Gli otto
sopravvissuti, del tutto logicamente, invitarono gli ospiti a restare con loro
nella fusoliera, ma i cileni mostrarono qualche riluttanza, uscirono dal
Fairchild e montarono una tenda sulla neve, a una certa distanza. Gli otto
uruguayam si risentirono alquanto vedendo così disdegnata la loro ospitalità
(sebbene alcuni di loro avessero ormai intuito che l’interno della fusoliera
poteva non avere per gli altri lo stesso soave olezzo che essi percepivano) e
decisero di fare in modo che almeno uno degli appartenenti al Corpo di
Soccorso passasse la notte assieme a loro.
Scelsero Dìaz perché il giorno dopo era il suo compleanno. Dissero che se
non fosse venuto a dormire con loro avrebbero strappato dalla neve i picchetti
della tenda a mezzanotte. Dìaz si arrese. Mentre i suoi colleghi e l’inserviente
d’ospedale si ritiravano nella tenda, aiutò i ragazzi a ricostruire la parete
all’ingresso della fusoliera, poi si arrampicò dentro con essi e sedette in mezzo
agli otto puzzolenti, emaciati, felici uruguayani. Nessuno dormì e nemmeno ci
provò. Dìaz parlò ai giovani della vita degli appartenenti al Corpo di Soccorso
Andino e narrò loro alcune delle sue avventure sulle montagne. Essi, a loro
volta, gli raccontarono con maggiori particolari quel che avevano passato.
Dìaz li avvertì che quanto avevano fatto poteva scandalizzare il mondo.
«Ma la gente capirà?» gli domandarono i giovani.
«Ma certo», li rassicurò lui. «Quando tutti i fatti saranno resi noti, ognuno
si renderà conto che faceste come dovevate fare.»
A mezzanotte Dìaz compiva quarantotto anni, e gli otto uruguayani gli
cantarono «Happy birthday to you».
Nessuno dormì, quella notte, e, sin dalle prime ore della mattina dopo, i
loro pensieri si volsero al cibo. Tutte le provviste si trovavano nella tenda,
però, e quando uscirono sulla neve, alla prima luce dell’alba, nulla dava a
vedere che gli altri tre cileni fossero desti. Un coro risuonò allora nella valle,
«Vogliamo la colazione! Vogliamo la colazione!», e di lì a poco le facce
assonnate di Lucero e di Villegas apparvero tra i lembi di tela della tenda.
«Che cosa volete per colazione?» gridò Lucero.
«Ieri abbiamo preso il caffè», gridò, a sua volta, uno dei ragazzi. «Oggi
vogliamo il tè!»
«Il tè? Benissimo.» Lucero, Villegas, poi Bravo, uscirono dalla tenda e,
poco dopo, gli otto superstiti stavano facendo colazione con tè bollente e
biscotti secchi. Mentre mangiavano, quelli del Corpo di Soccorso spiegarono
come dovevano avvicinarsi agli elicotteri, al loro arrivo, in quanto avevano
rinunciato all’idea dello spiazzo d’atterraggio e sapevano che gli apparecchi
avrebbero potuto soltanto librarsi sopra la neve.
Dopo colazione, i giovani si prepararono a essere tratti in salvo.
Riordinarono i vestiti che indossavano e di nuovo si pettinarono; Zerbino
portò fuori della fusoliera la valigia nella quale lui e Fernández avevano
riposto tutto il denaro e i documenti delle vittime. Inoltre portarono fuori la
minuscola scarpetta rossa che completava il paio acquistato da Parrado a
Mendoza.
«Non riuscirà a portare quella sull’elicottero», disse uno dei cileni,
vedendo Zerbino con la valigia.
«Devo», rispose il giovane. Spiegò quale fosse il contenuto della valigia e
descrisse a Lucero il luogo nel quale giacevano i cadaveri dei viaggiatori
caduti fuori della fusoliera, sulla sommità della montagna.
Verso le dieci udirono il rombo degli elicotteri e poi ne videro apparire tre
nel cielo sopra di loro. Nell’aria meno turbolenta del mattino, gli apparecchi
non erano sbalestrati come il giorno prima; ciò nonostante non si abbassarono
subito, ma girarono sopra il relitto del Fairchild. I superstiti, che si stavano
sbracciando freneticamente per salutare i velivoli, videro macchine
fotografiche e cineprese sporgere dai finestrini. Infine le une e le altre furono
ritirate e il primo elicottero si abbassò sempre e sempre più, fino ad
appoggiare uno degli sci sulla neve.
I primi tre giovani si fecero avanti, ma era difficile avvicinarsi
all’apparecchio ruggente a causa del vento causato dal rotore. Roy Harley, in
condizioni di estrema debolezza, fu aiutato ad andare verso l’elicottero da
Bobby François, ma anche quest’ultimo venne respinto dalle folate di vento.
Soltanto con l’aiuto dei cileni essi riuscirono a salire a bordo.
Infine il primo elicottero si sollevò con i tre passeggeri e il secondo si
abbassò; il pilota cercava di evitare che le pale del rotore urtassero contro la
roccia, il successivo gruppo di superstiti faceva in modo da evitare di essere
decapitato dalle pale stesse; poi anche questi giovani vennero a trovarsi a
bordo; l’apparecchio si sollevò, il terzo prese il suo posto, e gli ultimi due
sopravvissuti salirono a bordo, compreso Zerbino, con la sua valigia. I piloti
dovevano lottare con correnti d’aria meno traditrici, quel mattino, e, di lì a
non molto, furono al di là della montagna e discesero più agevolmente nella
valle, verso la «Y». Attraverso le pareti trasparenti degli elicotteri, i superstiti
videro il fiume Azufre, con le rive chiazzate da verde vegetazione, una
vegetazione che andò estendendosi e infittendosi sempre più finché non
atterrarono sui pascoli lussureggianti di Los Maitenes.
Là i giovani si riversarono fuori dei velivoli e caddero sull’erba, ridendo,
rotolandosi, abbracciandosi e ringraziando Dio a voce alta. Erano storditi da
tutto quel verdeggiare. Come Carlos il giorno prima, Methol colse un fiore e
cominciò a masticarne lo stelo; si sentiva talmente in estasi, alla vista degli
alberi e del trifoglio, che decise, una volta in Uruguay, di trascorrere molti
mesi nella sua estancia, semplicemente contemplando il verde paesaggio
circostante.
L’elicottero di Garcìa decollò ancora una volta per andare a prendere gli
appartenenti al Corpo di Soccorso e l’inserviente d’ospedale. Nel frattempo,
un medico militare, Sanchez, visitò i superstiti per accertare se a qualcuno di
loro occorressero cure urgenti. Constatò che erano tutti in grado di viaggiare;
invero, gli otto uruguayani si stavano comportando non tanto come invalidi
quanto come giovanotti a un picnic. Mentre alcuni si lavavano nel ruscello
che scorreva accanto alla capanna di Serda e Gonzales, gli altri conversavano
con Sergio Catalan e i suoi figli; Fito Strauch e Zerbino, dal canto loro, si
fecero prestare un cavallo per fare una galoppata.
Si trattennero a Los Maitenes circa mezz’ora, dopodiché Garcìa tornò con
Lucerò, Dìaz, Villegas e Bravo e l’intero gruppo salì di nuovo sugli elicotteri e
partiì per San Fernando. Fito Strauch, Bobby François, Moncho Sabella e
Gustavo Zerbino si trovavano sul primo elicottero; non appena esso si fu
posato nel cortile della caserma del reggimento Colchagua, la madre e il padre
di Fito si fecero avanti verso il figlio. Le loro facce sembravano maschere di
sofferenza, tanto erano felici, e non appena le pale del rotore si fermarono e il
portello venne aperto, i due ebbero tra le braccia il giovane. Rosina lo
abbracciò. Mentre lo stringeva a sé, pregò la piccola Vergine di Garabandal,
che aveva compiuto quel miracolo.
Dietro gli Strauch vennero i due Zerbino, con gli occhi asciutti e il volto
sereno, per farsi incontro al loro robusto e sano figliolo, e poi, quasi che fosse
stato stabilito un ordine di precedenza, a seconda della fiducia riposta da
ognuno dei genitori nella salvezza del proprio figlio, la madre e il padre di
Bobby François. Il ragazzo, alla cui morte essi si erano rassegnati dieci
settimane prima, si trovava adesso con loro, e la gioia parve rendere quasi
incapace il dottor François. Uomo affabile e taciturno, egli era dimagrito
dall’ultima volta che suo figlio lo aveva veduto, e, mentre si avvicinava
all’elicottero, parve smarrito e confuso. Per gli Strauch, e anche per i due
Zerbino, il ritorno dei figli costituiva il trionfo di tutti i loro sforzi e di tutte le
loro speranze. Per il dottor François si trattava di una risurrezione che, in
quanto uomo di scienza, egli non aveva chiesto né si era aspettato.
Con l’elicottero successivo giunsero Roy Harley, Javier Methol, Antonio
Vizintìn e Pancho Delgado. Di questi quattro, soltanto Roy trovò i genitori ad
aspettarlo. Per questi ultimi, l’arrivo di lui premiava fiducia e tentativi
disperati, ma, come nel caso di tutti gli altri genitori, alla felicità si
accompagnava la sofferenza della compassione a causa di ciò che il lora
figliolo aveva sopportato. Videro come il ragazzo congedatosi da loro quando
era un gagliardo giocatore di rugby fosse ormai ridotto pelle e ossa. Non
esisteva più un briciolo di carne nel suo corpo. Aveva gli occhi infossati nelle
orbite, la pelle tesa sugli zigomi, le mani sembravano quelle di uno scheletro
rivestite da pelle incartapecorita e grinzosa. E non erano soltanto queste
conseguenze fisiche dell’inedia e delle privazioni a dir loro quanto avesse
sofferto; c’era anche l’espressione negli occhi di lui.
Dopo essersi ritrovati con i genitori presenti all’arrivo, gli otto superstiti
furono condotti nell’infermeria del reggimento per una nuova visita medica di
controllo, mentre i dottori, il comitato, e l’incaricato d’affari uruguayano,
César Charlone, discutevano allo scopo di decidere se dovessero essere
portati all’ospedale di San Fernando, come gli altri, o fatti proseguire
direttamente in volo per Santiago. Una volta accertato che stavano tutti
abbastanza bene per continuare il viaggio, venne presa quest’ultima decisione.
Era ormai sabato, 23 dicembre, e si riteneva importante per la serenità
dell’intero gruppo che i superstiti potessero trascorrere con i parenti le feste
natalizie. Essi, di conseguenza, salirono sugli elicotteri per la terza volta quel
giorno. Anche agli Harley e alla señora Zerbino fu consentito di viaggiare con
i figli e i tre velivoli decollarono dalla caserma del reggimento Colchagua e
atterrarono poco dopo sul tetto dell’ospedale pubblico, il Posta Central, come
è denominato a Santiago.
2

Intanto, nell’ospedale San Giovanni di Dio, a San Fernando, il primo gruppo


di superstiti, per la prima volta dopo settantun giorni, aveva trascorso la notte
in un letto. Non fu facile per loro abituarsi agli agi. Daniel Fernández sognò
che una valanga si stava riversando dalla montagna e si destò con un sussulto,
constatando che a coprirlo non era neve, ma lenzuola e coperte. Cercò di
riaddormentarsi, ma si sentiva a disagio. «Chi è il maledetto idiota che si
appoggia a me con i piedi?» pensò; una volta di più, si destò trasalendo e vide
di essere solo in un letto d’ospedale.
Coche Inciarte dormì più profondamente di Fernández e venne destato da
cinguettii d’uccelli. Si ridistese, meravigliato e felice, e quando un’infermiera
entrò nella camera, la pregò di spalancare la finestra. Ella lo accontentò e lui si
riempì i polmoni d’aria fresca. Al contempo, i superstiti più sani di lui
uscirono dalle loro camere e sedettero sulle poltroncine di vimini in fondo al
corridoio, ove le finestre davano verso i primi contrafforti delle Ande.
Alle otto, padre Andrés tornò all’ospedale con un registratore a cassette
sul quale registrò le dichiarazioni dei superstiti. «Avevamo un desiderio
enorme di sopravvivere», disse Mangino, «e tanta fede in Dio. Il nostro
gruppo è sempre rimasto unito. Quando uno di noi si demoralizzava, gli altri
facevano in modo di confortarlo. Recitare il rosario ogni sera rafforzò la fede
di noi tutti, e questa fede ci aiutò a tirare avanti. Dio ci ha fatto vivere
quest’esperienza per cambiarci. Io sono cambiato. So adesso che sarò diverso
da quello di un tempo… e di questo ringrazio Dio.»
«Speriamo di predicare la fede al mondo», dichiarò Carlitas Páez.
«Sebbene questa esperienza sia stata triste a causa di tutti gli amici che
abbiamo perduto, ci ha aiutati molto… in effetti, è la più grande esperienza di
tutta la mia vita. Per quanto concerne viaggiare, non salirò mai più su un
aereo… viaggerò in treno… Ho una lunga esperienza come giocatore di rugby.
Quando un punto viene segnato, non è il singolo giocatore a segnarlo, ma
l’intera squadra. E si tratta dell’aspetto più bello del gioco. Se siamo riusciti a
sopravvivere, ciò è accaduto perché abbiamo agito tutti con uno spirito di
squadra, con la più grande fede in Dio… e perché abbiamo pregato.»
Alle dieci e mezzo ebbe luogo una conferenza stampa all’aperto, davanti al
reparto solventi, per l’orda di giornalisti disperati che assediavano l’ospedale
sin dal giorno prima. Inciarte e Mangino rimasero a letto, ma gli altri superstiti
si lasciarono fotografare, poiché indossavano ormai i vestiti che l’ospedale
aveva acquistato presso i negozianti di San Fernando, o che, il più delle volte,
questi ultimi avevano donato. La conferenza stampa fu breve e venne detto
poco. Quando i giornalisti domandarono che cosa avessero mangiato per
restare in vita, i giovani risposero che avevano acquistato molto formaggio a
Mendoza e che sulla montagna crescevano erbe.
Alle undici, il vescovo di Rancagua e tre altri sacerdoti celebrarono al
Messa nella chiesa di mattoni adiacente all’ospedale. I superstiti, alcuni dei
quali su sedie a rotelle, si trovavano in prima file. Fu un’occasione importante
e solenne per tutti loro, e le facce emaciate esprimevano l’amore e la
gratitudine che essi sentivano per Dio. Nelle lunghe settimane durante le quali
avevano aspettato quel giorno, la loro fede in Dio non era mai venuta meno,
neppure per un momento; mai avevano dubitato del Suo amore, o temuto che
Egli disapprovasse la loro disperata e orribile lotta per sopravvivere. Ora, le
stesse bocche che si erano nutrite con i cadaveri degli amici anelavano al
corpo e al sangue del Cristo: e, una volta di più, dalle mani dei sacerdoti ella
loro Chiesa, i giovani ricevettero il sacramento della Santa Comunione.
Dopo la Messa si prepararono a partire per Santiago, in quanto nel
frattempo era stato deciso che, mentre Mangino e Inciarte sarebbero stati
portati con un’autoambulanza al Posta Central, gli altri sei avrebbero potuto
raggiungere direttamente l’Hotel Sheraton Cristóbal ove tutti gli uruguayani
dovevano festeggiare il Natale.
Prima di partire, alcuni dei superstiti accettarono gli inviti a pranzo dei vari
cittadini di San Fernando. La famiglia Canessa andò a casa del dottor Ausin,
mentre Parrado, con il padre, la sorella e il cognato, si recava al ristorante con
un certo signor Hughes e suo figlio Ricky; in seguito i tre percorsero i circa
centoquaranta chilometri fino a Santiago su una Chevrolet Camaro, un
piacere, per Parrado, non certo sminuito dalla sua esperienza sulle Ande.
***
Javier Methol fu il primo del secondo gruppo di superstiti a entrare nel
Posta Central di Santiago. Una corsia era ata riservata a loro all’ultimo piano
dell’ospedale, e siccome l’elicottero atterrò sul tetto a terrazza, egli dovette
essere trasportato soltanto per una rampa dì scale. Gli ampi corridoi erano
gremiti da persone sorridenti, plaudenti, o addirittura piangenti di gioia alla
vista dei giovani uruguayani così miracolosamente riportati alla vita.
Non appena gli fu mostrato il suo letto, Methol, che indossava ancora gli
stessi indumenti portati sulle Ande, chiese di poter fare una doccia.
«Ma certo», disse l’infermiera e lo portò sulla sedia a rotelle nel bagno più
vicino. Gli spiegò poi che, siccome era responsabile del suo benessere,
sarebbe dovuta restargli accanto mentre faceva la doccia. Methol la
tranquillizzò subito. Anche se fosse stato l’uomo più pudico del mondo,
nemmeno un’intera fila di infermiere gli avrebbe impedito di fare la doccia. Si
tolse gli indumenti sudici e si mise sotto i forti getti d’acqua calda. Frustarono
la pelle della sua schiena e delle spalle scarne, ma si trattava di una sofferenza
piacevole a sopportarsi. Quando uscì dalla doccia e indossò la tenuta bianca
dell’ospedale, si sentì un uomo nuovo. Si rimise subito sulla sedia a rotelle e
l’infermiera lo riportò nella corsia, ove egli vide un gruppetto di superstiti che
ancora indossavano i panni sporchi della montagna.
«Oh, per favore», disse Methol, «per favore, porti fuori di qui quei sudici
individui.»
I medici del Posta Central, non appena i loro pazienti si furono lavati, li
visitarono, facendo radiografie ed esami del sangue. Ritennero che tutti,
tranne Harley e Methol, potevano trasferirsi all’Hotel Sheraton Cristóbal nel
pomeriggio. I due non dimessi furono posti in una corsia con Inciarte e
Mangino, arrivati da San Fernando. Il più grave dei quattro era Roy, poiché
gli esami del sangue rivelarono un’accentuata carenza di potassio che metteva
a repentaglio il cuore.
Gli altri, però, non soltanto stavano bene, ma erano quasi patologicamente
vivaci. Gustavo Zerbino fuggì dall’ospedale per acquistare un paio di scarpe,
accompagnato da suo padre che incontrò uscendo. Moncho Sabella si scolò
un’intera bottiglia di Coca Cola e ciò gli diede una dilatazione di stomaco.
Dovette inoltre subire lo zelo di una giovane infermiera, tanto ansiosa di fare
qualcosa per i giovani uruguayani che tentò di togliere sangue dal braccio di
Moncho senza sapere, a quanto pareva, come si trovasse la vena in cui
affondare l’ago. Il giovane sopportò questa ricerca scientifica, anche se poi il
braccio continuò a dolergli per tre giorni, ma, come del resto i suoi compagni,
sapeva benissimo quale fosse la medicina che ci voleva per loro; tutti, mentre
i medici li visitavano, chiesero cibo.
Le infermiere servirono un po’ di tè, biscotti e formaggio. I superstiti
chiesero immediatamente altro formaggio. Arrivò, e poco dopo venne loro
servito il pranzo: dapprima una bistecca con purea di patate, pomodori e
maionese, poi gelatina. La gelatina fu divorata in un attimo, e i famelici
pazienti ne chiesero dell’altra. Poi vollero il dolce di Natale, ma venne detto
loro che non potevano averlo. Ora dovevano riposare.
Alle sette di sera, dopo la Messa celebrata nell’anfiteatro del Posta,
Delgado, Sabella, François, Vizintìn, Zerbino e Fito Strauch uscirono per
raggiungere gli altri all’Hotel Sheraton Cristóbal. Alle nove, quelli rimasti in
ospedale videro premiata la loro pazienza con una fetta di dolce natalizio. Le
infermiere dissero, inoltre, che alle undici avrebbero portato una sorpresa e
infatti, all’ora stabilita, ognuno di loro ebbe una deliziosissima mousse di
cioccolata coperta di panna, il dolce che le infermiere stesse avrebbero dovuto
mangiare quella sera. I quattro superstiti divorarono la mousse, gustando ogni
cucchiaiata, e poi si addormentarono felici.
Un’ora dopo, Javier Methol si destò. Aveva lo stomaco in tumulto. Suonò
per l’infermiera e chiese qualcosa che lo aiutasse a digerire. L’infermiera gli
portò una pozione che lui inghiottì, ma, di lì a un’ora, tornò a destarsi e
constatò di avere una tremenda diarrea. Stava pagando lo scotto della mousse.
3

La sera del 23 dicembre, l’intero gruppo degli uruguayani accorsi nel Cile
dopo la notizia del salvataggio era sistemato a Santiago: i superstiti, con i
genitori e i parenti, all’Hotel Sheraton Cristóbal, situato alla periferia della
città; i genitori e i parenti di coloro che non erano sopravvissuti nel più
antiquato Hotel Crillon, in centro.
Là, al Crillon, il padre di Gustavo Nicolich aprì le due lettere dategli da
Zerbino, quelle che aveva scritto suo figlio sulla montagna:
Una cosa ti sembrerà incredibile (sembra incredibile anche a me): oggi
abbiamo cominciato a tagliare carne dai morti per mangiarla. Non rimane
altro da fare
Poi, un po’ più avanti, le parole con le quali il giovane aveva così
nobilmente predetto la propria sorte:
Se dovrà venire il giorno in cui potrò salvare qualcuno con il mio corpo,
lo farò volentieri

Era questa la prima volta che uno qualsiasi dei genitori al Crillon si
rendeva conto della verità: erano stati i cadaveri dei loro figli a mantenere in
vita i sedici superstiti, e Nicolich, già stordito dal dolore a causa della morte
del figlio, fu ancora più sconvolto dalla realtà spaventosa che la lettera
lasciava intravedere. Pensando, in quel momento, che la verità potesse non
essere mai conosciuta, staccò quel foglio della lettera (indirizzata alla novia di
Gustavo, Rosina Machitelli) e lo nascose.
Nel frattempo, all’Hotel Sheraton Cristóbal, i dodici superstiti dimessi
dall’ospedale si stavano godendo in abbondanza tutto ciò che, per così lungo
tempo, era stato loro negato. Sei di loro avevano con sé i genitori. Pancho
Delgado e Roberto Canessa erano assieme, una volta di più, alle loro fedeli
novias, Susana Sartori e Laura Surraco. Al Posta Central, Coche Inciarte
aveva la compagnia di Soledad González. L’albergo stesso era l’assoluto
opposto del Fairchild. Si trattava di un edificio nuovissimo che dominava
Santiago, con l’atmosfera e l’odore del lusso più raffinato; vi si trovavano una
piscina, nonché un ristorante, naturalmente, e i dodici giovani avevano
approfittato subito di quest’ultimo. Quando Moncho Sabella arrivò allo
Sheraton, nel pomeriggio del 23, trovò Canessa già seduto a tavola e intento a
gustare un abbondante piatto di gamberetti. Moncho sedette immediatamente a
un tavolo insieme con suo fratello, arrivato in aereo da Montevideo, e ordinò
anch’egli un piatto di gamberetti. Poco dopo averli mangiati, entrambi i
giovani vomitarono, ma ciò non guastò loro l’appetito. Ordinarono subito
dell’altro e ricominciarono daccapo con bistecche, insalata, dolci e gelato.
D’altro canto, né Sabella né Canessa si lasciarono impressionare dal lusso.
Quando il dottor Surraco fece osservare a Roberto che l’albergo doveva
sembrargli straordinariamente comodo dopo la fusoliera del Fairchild, egli
rispose che per lui non faceva alcuna differenza mangiare gamberetti e gelato
nell’Hotel Sheraton, o formaggio nella capanna di un pastore.
I genitori e i parenti dei dodici giovani erano tanto felici di riaverli tra i
vivi che non mossero alcuna obiezione a quel loro coattivo indulgere a
un’avidità patologica. Si erano già resi conto che i loro figli e novios non
avrebbero potuto comportarsi come se fossero appena tornati da una vacanza
estiva. Le lunghe settimane di sofferenze e di fame avevano lasciato il segno
sul comportamento dei giovani; come bambini viziati, non tolleravano alcun
freno e, allorché non indulgevano alle più scoperte manifestazioni di gioia e di
piacere per quella riunione, scivolavano nel sarcasmo tagliente e
nell'irritabilità, soprattutto con i genitori, la cui preoccupazione per loro
benessere li irritava. Non avevano forse dimostrato di per badare a sé stessi?
Questi stati d’animo erano esacerbati dalla reazione di alcuni genitori
all’aspetto antropofago del «miracolo di Natale». Impreparati alla notizia, essi
erano rimasti scandalizzati e, nella grande maggioranza, non vi accennavano
più. Paventavano inoltre, in modo assai ovvio, che la cosa venisse saputa, e,
anche se alcuni dei superstiti riconoscevano in cuor loro che la reazione dei
genitori era prevedibile, si sentivano tutti decisamente turbati e offesi per il
fatto che gli altri potessero essere rimasti sgomenti da quanto essi avevano
fatto. Vedevano, in quelle manifestazioni involontarie di orrore e di disgusto,
una predilezione per l’altra alternativa… che tutti quanti fossero periti, senza
nutrirsi con i cadaveri.
La loro serenità di spirito non era certo aiutata dalla presenza nell’albergo
di una massa di giornalisti e di fotografi i quali facevano senza posa domande
e scattavano fotografie nei qual volta i superstiti si muovevano, mangiavano o
abbracciavano i genitori. E ancor più tormentose erano le altrettanto insistenti
domande dei parenti dei giovani che non avevano fatto ritorno… i genitori di
Gustavo Nicolich e di Rafael Echavarren; i fratelli di Daniel Shaw, Alexis
Hounìe e Guiido Magri… i quali venivano dall’Hotel Crillon per accertare le
circostanze esatte della morte dei loro fratelli o dei loro figli. Non si trattava di
episodi che, in quel momento, i superstiti desiderassero ricordare e descrivere.
Inoltre i giovani non erano affatto acclimatati alle raffinatezze dell’Hotel
Sheraton Cristóbal. Si sentivano estremamente a disagio negli ampi e soffici
letti, essendo abituati dormire in posizioni contorte. Quella notte, Sabella si
destò ogni mezz’ora e ogni volta, quando era desto, chiamò la cameriera
perché gli portasse qualcosa da mangiare. Fu una notte dura per lui… e una
notte dura per suo fratello, che dormiva nella stessa camera.
Il giorno dopo, 24 dicembre, i quattro rimasti al Posta Central vennero
dimessi e raggiunsero gli altri allo Sheraton, ma i sedici superstiti rimasero
insieme per breve tempo perché la famiglia François e Daniel Fernàndez
avevano deciso di tornare subito a Montevideo. Sebbene due zie e due zii di
Daniel si trovassero lì a Santiago, egli voleva rivedere i genitori e gli sembrava
inutile e dispendioso farli venire a Santiago. Di conseguenza partì per
Montevideo con un volo di linea della KLM. Il padre e il fratello di Daniel
Shaw si trovavano sullo stesso aereo.
Alcuni degli altri giovani decisero di rifornirsi di capi di vestiario e
avrebbero voluto chiamare un taxi, ma i cileni nell’albergo non vollero
saperne e insistettero per accompagnarli in centro con le loro automobili. Una
volta giunti in città, essi percorsero le vie guardando le vetrine dei negozi.
Tutti li riconobbero come i superstiti perché, essendo abituati alla neve alta,
camminavano pesantemente, come pinguini; ogni volta venivano accolti con
tanta gioia e bontà dai cittadini di Santiago da far pensare che a salvarsi dalle
Ande fossero stati i loro figli.
Quando entrarono in un negozio di abbigliamento e scelsero gli acquisti, i
proprietari non vollero accettare denaro, ma insistettero per far loro dono di
quei capi di vestiario. La stessa cosa accadde quando capitarono accanto a una
lunga coda formatasi davanti a una tabaccheria a causa della scarsità di
sigarette. Un vecchio in prima fila volle a tutti i costi che accettassero il suo
pacchetto di sigarette.
Di nuovo, quando tornarono all’albergo (Parrado vi tornò a piedi dal
centro di Santiago) e alcuni di loro sedettero a tavola per pranzare e
ordinarono una bottiglia di vino, i cileni seduti al tavolo accanto offrirono la
propria bottiglia. Al bar si vedevano offrire continuamente whisky e
champagne… e nel vestibolo dell’albergo un ragazzetto fece loro dono di una
grossa scatola di gomma da masticare.
Erano ammirati e festeggiati non già come eroi che avevano sopportato i
rigori delle imponenti Ande, le quali si profilano minacciose lungo l’intero
Cile, e trionfato su di esse, ma come la viva personificazione di un evidente
miracolo.
Il formaggio e le erbe con cui dicevano di essersi nutriti sembravano un
cibo misterioso quanto i pani e i pesci del Vangelo. La sopravvivenza di quei
giovani aveva un che di incontestabilmente miracoloso. Venne addirittura
all’albergo una donna che aveva il figlio malato, persuasa di vederlo guarire
se soltanto avesse potuto abbracciare uno dei superstiti.
Quella sera ebbe luogo la festa di Natale organizzata da César Charlone.
Fu un momento di intensa commozione per tutti. Appena quattro giorni prima
sembrava non essere più esistita alcuna speranza che i genitori potessero mai
rivedere i loro figli, o che i figli potessero trascorrere il Natale con i genitori.
Ora si trovavano tutti insieme. L’ardente fede di Madelón Rodriguez, di
Rosina Strauch, di Mecha Canessa e di Sarah Strauch; le eroiche ricerche di
Carlos Pàez Vilaró, Jorge Zerbino, di Roy Harley e di Juan Carlos Canessa…
tutto ciò veniva ora premiato dalle vive mani, dalle labbra dai corpi dei figli di
ognuno di loro. Come nel caso di Abramo e di Isacco, Dio aveva perdonato il
sacrificio dei giovani nel momento stesso in cui il mondo cristiano si
accingeva a celebrare la nascita di Suo figlio.
Più tardi, quella sera, un Gesuita uruguayano che insegnava teologia
nell’Università Cattolica di Santiago venne all’albergo invitato dalla signora
Charlone per parlare con alcuni superstiti, prima della Messa da celebrarsi per
loro il giorno dopo. Padre Rodriguez si trattenne poi a conversare con Fito
Strauch e con Gustavo Zerbino fino alle cinque della mattina successiva. I
giovani gli dissero che avevano mangiato i cadaveri dei loro amici per
rimanere in vita e, come padre Andrés a San Fernando, padre Rodriguez non
esitò ad approvare la decisione che essi avevano preso. Se potevano esservi
stati dubbi nella sua mente sulla moralità di ciò che essi avevano fatto,
vennero fugati dalla serietà e dalla religiosità con le quali la decisione era stata
presa. Fito e Gustavo gli riferirono le parole di Algorta quando era stata
tagliata la carie dal primo cadavere e il Gesuita, pur respingendo un qualsiasi
rapporto tra cannibalismo e Comunione, rimase commosso, come tanti altri,
dallo spirito religioso che la frase rivelava.
La Messa natalizia fu celebrata all’Università Cattolica a mezzogiorno
dell’indomani, e la predica di padre Rodriguez, pur non accennando in alcun
modo all’antropofagia, approvò n modo inequivocabile quel che i giovani
avevano fatto per mantenersi in vita. Sebbene non tutti i ragazzi o i loro
genitori conoscessero Karl Jaspers, o il concetto di una situazione limitata,
credevano nell’autorità della Chiesa cattolica e furono profondamente
rassicurati da quanto egli disse.
Ma fu la calma prima della tempesta. I festeggiamenti del Natale dopo la
Messa costituirono le ultime ore serene che i giovani dovevano trascorrere a
Santiago. Giornalisti di tutto il mondo continuavano a spiarli come i condor
delle Ande, e gli uruguayani si rendevano ben conto che essi non avevano
ancora fiutato l’odore della vera preda. Non che i giovani e i loro genitori
cospirassero (a parte le menzogne non troppo convincenti sulle erbe e il
formaggio) per nascondere quel che avevano fatto; speravano soltanto che la
notizia potesse essere mantenuta segreta fino al loro ritorno a Montevideo.
La verità venne rivelata da un quotidiano del Perù e fu immediatamente
resa nota dai giornali argentini, cileni e brasiliani. Non appena i giornalisti di
Santiago ebbero fiutato la notizia, si lanciarono di nuovo sui superstiti e
domandarono se fosse vera. Confusi, i giovani continuarono a negare, ma chi
aveva tradito il loro segreto era stato in grado di fornire anche la prova, e il 26
dicembre il quotidiano di Santiago El Mercurio pubblicò in prima pagina la
fotografia di una gamba umana divorata a mezzo che giaceva sulla neve
contro il fianco della fusoliera del Fairchild. I giovani si riunirono per
discutere sul da farsi e decisero che, invece di riferire a un qualsiasi giornale
quanto era accaduto, avrebbero tenuto una conferenza stampa una volta
tornati a Montevideo. Poiché si erano messi in contatto con il presidente dei
Vecchi Cristiani, Daniel Juan, stabilirono di tenere la conferenza nella loro
scuola di un tempo, il Collegio Stella Maris.
Ma queste erano ben fragili difese contro il tornado che infuriava intorno
ad essi. Le notizie, che erano state riferite ai giornali dagli appartenenti al
Corpo di Soccorso Andino, non avevano fatto che aguzzare gli appetiti della
stampa mondiale, e i giovani all’albergo furono tempestati di domande alle
quali non intendevano rispondere. Rimasero, anzi, sempre più disgustati dai
giornalisti, i quali non davano prova di alcuna reticenza né del minimo tatto
nell’interrogarli. Un giornalista argentino insinuò addirittura, ripetutamente,
che non vi era stata alcuna valanga, ma che i giovani l’avevano inventata per
nascondere una verità ben diversa: i superstiti più forti avevano ucciso i più
deboli per procurarsi il cibo.
I sopravvissuti erano ancora vulnerabili all’estremo, e questi attacchi li
sconvolsero. Videro inoltre che una rivista cilena, specializzata di solito nella
pornografia, aveva riempito due pagine con fotografie di membra e di ossa
sparse intorno al Fairchild. E un quotidiano cileno pubblicò la notizia sotto il
titolo Possa Dio perdonarli. Alcuni dei genitori, quando lessero queste
parole, piansero.
L’atmosfera nell’Hotel Sheraton Cristóbal venne avvelenata da questi
clamori. I superstiti erano impazienti di tornare a Montevideo e accettarono
con riluttanza di partire in aereo, anziché in torpedone o in treno. Charlone
(che non era mai stato perdonato da alcuni genitori dei giovani per quello che
essi consideravano il suo freddo atteggiamento verso Madelon Rodríguez e
Estela Pérez) dispose affinché un Boeing 727 della LAN cilena li portasse a
Montevideo il 28 dicembre. Prima di tale data, però, Algorta accettò, con i
genitori, l’ospitalità di amici di famiglia nei dintorni di Santiago. Anche
Parrado lasciò l’Hotel Sheraton Cristóbal assieme Juan, a Graciela e a suo
padre, per passare dapprima allo Sheraton Carrera, nel centro di Santiago, e
poi in una casa di Viña del Mar, posta a loro disposizione da amici. Era stanco
di essere fotografato in ogni momento della giornata e disgustato dalle
domande spietate dei giornalisti. Anche gli incessanti festeggiamenti lo
deprimevano, in qualche modo, poiché, sebbene lui fosse vivo, le due donne
che tutti loro avevano amato più di ogni altra al mondo rimanevano sulle
Ande, gelidi cadaveri.
Parte Quindicesima
1

La notizia che i giovani uruguayani erano riusciti a sopravvivere per dieci


settimane sulle Ande aveva avuto aspetti abbastanza sensazionali per
interessare i giornali e le stazioni radiofoniche e televisive di tutto il mondo,
ma quando si venne a sapere che essi erano riusciti a salvarsi nutrendosi con
le vittime, quegli stessi mezzi di comunicazione diventarono frenetici. La
notizia venne diffusa per radio e per televisione e pubblicata in ogni nazione
del mondo, con una sola eccezione degna di nota, lo stesso Uruguay.
I giornali avevano annunciato, naturalmente, il ritrovamento e il
salvataggio dei superstiti, ma quando le voci di cannibalismo giunsero nelle
redazioni dei quotidiani di Montevideo, esse furono accolte dapprima con
scetticismo, e poi con reticenza. In quel periodo non esisteva alcuna censura
sulla stampa (a parte il divieto di accennare in qualsiasi modo ai Tupamaros);
la decisione presa dai giornalisti uruguayani, di aspettare che i loro
compatrioti tornassero a Montevideo e fornissero la propria versione di
quanto era accaduto, può essere spiegata soltanto come il prodotto di uno
spontaneo riserbo patriottico.
Certo, c’erano giornalisti impazienti di accertare se le dicerie rispondessero
alla verità, ma poiché quasi tutti i superstiti si trovavano ancora a Santiago,
non era quella una facile impresa. Daniel Fernández, tuttavia, aveva già fatto
ritorno a Montevideo. Era stato accolto all’aeroporto dai genitori, che lo
avevano portato in macchina a casa loro e rifiutavano di far entrare qualsiasi
visitatore. Il giorno dopo, però, l’intero isolato era assediato da amici e da
giornalisti ansiosi di parlargli. Essendo il giorno di Natale, i Fernández non
potevano continuare a tener chiusa la porta di casa, e pertanto l’aprirono per
far passare un amico… ma, dopo averla aperta, non riuscirono più a
chiuderla. Un’orda di giornalisti e di conoscenti si riversò nell’appartamento,
e Daniel accettò di essere intervistato.
Sedette di fronte al gruppo di giornalisti, uno dei quali gli porse a un tratto
un foglio di carta chiedendogli di leggerlo. Daniel spiegò il foglio e vide che si
trattava di un dispaccio Telex con la notizia che lui e gli altri quindici superstiti
avevano mangiato carne umana.
«Non ho niente da dire al riguardo», osservò.
«Può confermare o smentire la notizia?» domandò il giornalista.
«Non ho niente da dire fino a quando i miei amici non avranno fatto
ritorno nell’Uruguay», disse Daniel.
Mentre si stava svolgendo questo dialogo, Juan Manuel Fernández lesse il
Telex. «L’uomo che ha scritto questo è un figlio di puttana e l’uomo che lo ha
portato qui è anche più figlio di puttana di lui», esclamò con grande foga.
Stava per mettere alla porta il giornalista senza cerimonie, ma un amico di
Daniel lo trattenne, e l’altro se ne andò di sua iniziativa.
Quando fu uscito, Fernández si appartò con suo figlio e disse: «Sta a
sentire, tu devi dire adesso che la notizia non è vera».
«È vera», asserì Daniel.
Fernández lo fissò con un’espressione di blando disgusto; ma in seguito,
dopo essersi reso conto del fatto che suo figlio aveva fatto una cosa simile per
necessità, si abituò all’idea e si stupì di non aver mai pensato prima che
potesse essere accaduta.
2

Il Boeing 727 della LAN cilena, noleggiato da Charlone per riportare i


superstiti e le loro famiglie a Montevideo, venne affidato all’equipaggio scelto
al quale si ricorreva quando lo stesso presidente Allende si recava all’estero.
L’aereo era pronto sulla pista dell’aeroporto Pudahuel, il pomeriggio del 18
dicembre, mentre ai suoi sessantotto passeggeri veniva dato un emotivo e
cerimonioso commiato dai cileni i quali, in complesso, li avevano trattati così
bene.
Gli uruguayani salirono sul Boeing alle sedici, ma dovettero aspettare
un’ora prima del decollo. La prima causa del ritardo fu Vizintìn, il quale era
stato trattenuto a Santiago per un’intervista; poi vi furono i rapporti sulle
condizioni meteorologiche della cordillera. Continuavano a essere
sfavorevoli, ma, per non allarmare i superstiti, l’equipaggio disse di essere
rimasto senza succhi di frutta e di doversi rifornire.
Vizintìn arrivò. L’aereo rimase però sulla pista. I superstiti erano nervosi e
tesi mentre agganciavano le cinture di sicurezza. Quasi tutti avrebbero voluto
tornare per via di terra e si erano rassegnati a partire in aereo soltanto perché il
viaggio in treno attraverso le Ande e attraverso l’Argentina veniva considerato
pericoloso nelle loro attuali condizioni di salute.
Finalmente, i rapporti sulle condizioni meteorologiche divennero
favorevoli e il Boeing decollò. Poco tempo dopo, il pilota, comandante
Larson, annunciò che stavano sorvolando lo Curicó, ma nessuno accolse il
suo invito di recarsi nella cabina di pilotaggio per vedere la cittadina il cui
nome aveva rivestito tanta importanza per loro. I giovani erano tutti
innervositi, non soltanto perché si trovavano di nuovo su un aereo, ma perché
si sentivano incerti riguardo a quanto li aspettava nell’Uruguay. Parlarono,
come se non potessero farne a meno, tra loro e con i due giornalisti cileni dai
quali erano accompagnati.
Uno di essi, Pablo Honorato, del quotidiano El Mercurio, sedeva accanto a
Pancho Delgado, che, quando l’aereo cominciò a scendere per atterrare
all’aeroporto di Carrasco, diventò ancor più nervoso di quanto fosse stato, e
afferrò il braccio del suo vicino di posto. Ma poi si levarono grida di «¡Viva
Uruguay!» e di «¡Viva Chile!», per incoraggiare i superstiti. Mentre il Boeing
girava sopra Montevideo e i giovani rivedevano le acque melmose del Rio de
la Plata e i tetti e le vie della loro diletta città, cominciarono tutti a cantare
l’inno nazionale:
Orientali, il nostro paese o la tomba,

Libertà, oppure la morte con onore…

Mentre l’ultima parola usciva dalle loro labbra, l’apparecchio si posò sul
suolo uruguayano.
Dopo aver rullato sulla pista, si fermò dinanzi allo stesso edificio
dell’aeroporto dal quale erano usciti così festosamente quasi undici settimane
prima. Le differenze tra la partenza e questo ritorno erano molte; mentre
soltanto uno o due appartenenti alle rispettive famiglie erano venuti allora ad
accompagnarli, l’intera città di Montevideo sembrava adesso essere presente
per accoglierli, compresa la consorte del presidente dell’Uruguay. Sulle
terrazze dell’edificio dell’aeroporto si assiepavano persone che gridavano e si
sbracciavano, e c’erano file di poliziotti per impedire alla folla di invadere la
pista. Nessuno aveva più veduto niente di simile da quando la squadra
uruguayana aveva vinto la Coppa del Mondo.
I superstiti e le loro famiglie furono fatti salire su autobus che si
avvicinarono all’aereo. I giovani avrebbero voluto passare davanti alle
terrazze per poter salutare gli amici, ma, per ordine dell’esercito, gli autobus
uscirono subito dall’aeroporto, diretti al Collegio Stella Maris.
Tutto era stato predisposto per il loro arrivo. Nella vasta sala delle
riunioni, progettata dal padre di Marcelo Pérez, si trovava, come per le
distribuzioni dei premi, un lungo tavolo su un podio, e un impianto di
microfoni e di altoparlanti avrebbe consentito ai molti giornalisti, già seduti
davanti al palcoscenico, di udire quanto sarebbe stato detto. Non erano stati
soltanto i Fratelli Cristiani a organizzare tutto ciò, ma anche i dirigenti dei
Vecchi Cristiani, che accolsero i superstiti quando gli autobus entrarono nel
viale d’accesso del Collegio.
Fu un incontro commovente, nel corso del quale il tumulto della
situazione, con cineprese che ronzavano e macchine fotografiche che
scattavano tutto attorno ai superstiti, non poté attenuare la luttuosa verità: tra
coloro che discesero dall’autobus e presero posto sul podio si trovavano
soltanto tre giocatori della squadra di Rugby partita per il Cile: Canessa,
Zerbino e Parrado. Parrado e Harley erano ancora nel Cile. Osservando le
facce smunte e barbute, Daniel Juan e Adolfo Gelsi cercarono con lo sguardo
i loro campioni: Pérez, Platero, Nicolich, Hounìe, Maspons, Abal, Magri,
Costemalle, Martìnez-Lamas, Nogueira, Shaw.. ma non erano lì.
In ogni modo, l’intero gruppo di superstiti aveva affidato la conferenza
stampa alle capacità organizzative dei Vecchi Cristiani, e padroneggiando con
calma una situazione potenzialmente caotica (una sala gremita di giornalisti
accorsi da tutto il mondo, di genitori dei vivi e genitori dei morti, di parenti, di
amici, e di telecamere), Daniel Juan prese posto al centro del podio e la
conferenza ebbe inizio.
I superstiti avevano deciso di parlare a turno, ognuno di essi occupandosi
di un aspetto particolare della loro esperienza; poi, una volta terminato,
avrebbero domandato ai giornalisti uruguayani se desiderassero fare altre
domane. La sola divergenza fra loro concerneva il modo di affrontare la
questione del cannibalismo. Alcuni giovani, e i loro genitori, ritenevano di
dover rivelare con assoluta franchezza quanto era accaduto; altri pensavano
che potessero essere sufficienti alcune vaghe allusioni. Un terzo gruppo, e in
particolare Canessa e suo padre, era del parere che non si dovesse parlarne
affatto.
Pervennero a compromesso: sarebbe stato Inciarte a parlare della cosa.
Egli si offrì volontariamente, e tutti riconobbero che era la persona più adatta,
a causa del suo nobile atteggiamenti nei confronti di ciò che avevano fatto;
ma, il giorno della conferenza stampa, lo stesso Coche cominciò a dubitare
delle proprie capacità. Balbettava e temeva di fare scena muta davanti a tutti
quei giornalisti e a quelle telecamere. Pancho Delgado propose allora
spontaneamente di prendere il suo posto.
La conferenza cominciò. Tutti ascoltarono in silenzio mentre, uno dopo
l’altro, i superstiti narravano la loro eroica e tragica storia. Venne poi la volta
di Delgado. Quasi subito la sua eloquenza, che era stata così poco utile sulla
montagna, si fece valere.
Quando ci si desta al mattino nel grande silenzio delle montagne e si
scorgono tutto attorno le vette coperte di neve, lo scenario è maestoso,
sensazionale, in un certo qual modo spaventoso, e ci si sente soli, soli, soli
al mondo, tranne la presenza di Dio. Posso assicurarvi, infatti, che Dio è là.
Lo sentivamo tutti, dentro di noi, e non perché fossimo quel genere di
giovani molto pii che pregano continuamente dalla mattina alla sera, anche
se abbiamo avuto tutti un’educazione religiosa. Niente affatto. Ma lassù uno
sente la presenza di Dio. Sente, soprattutto, quella che viene denominata la
mano di Dio, e se ne lascia guidare… Quando giunse il momento in cui non
avevamo più viveri, più nulla con cui potessimo nutrirci, ci dicemmo che se
Gesù, durante l’ultima cena, aveva spartito la Sua carne e il Suo sangue
con gli Apostoli, questo era un segno del fatto che noi avremmo dovuto
regolarci nello stesso modo… assumere la carne e il sangue come un’intima
comunione tra tutti noi. Fu questo ad aiutarci a sopravvivere, e ora noi non
vogliamo che questa cosa, la quale fu per noi un che di intimo, molto intimo,
venga profanata, o contaminata, o qualcosa di simile. In un paese straniero
abbiamo tentato di affrontare l’argomento nello spirito più elevato
possibile, e ora ne parliamo con voi, nostri compatrioti, esattamente come
fu…

Mentre Delgado concludeva, risultò del tutto manifesto che l’intero


pubblico era profondamente commosso da quanto egli aveva detto, e, quando
Daniel Juan domandò ai giornalisti lì riuniti se avessero domande da fare ai
superstiti, gli fu risposto che non ve n’era alcuna. Dopodiché ovunque nella
sala scoppiò uno spontaneo evviva per i gentiluomini della stampa
uruguayana e interazionale, seguito da un ultimo applauso in onore di coloro
che non avevano fatto ritorno.
3

Dopo la conclusione della conferenza stampa, il pubblico cimento dei


superstiti, che aveva seguito così immediatamente il loro cimento privato,
ebbe termine, ed essi poterono tornare finalmente alle case e alle famiglie che
avevano sognato mentre erano prigionieri delle Ande.
Non fu facile adattarsi alla realtà. La loro esperienza era stata lunga e
tremenda; aveva agito in profondità sul conscio e sull’inconscio e il
comportamento dei giovani rispecchiò tale choc. Molti di essi erano bruschi e
irritabili con i genitori, con le novias, con i fratelli e le sorelle. Scattavano
irosamente ad ogni minima frustrazione dei loro più insignificanti capricci.
Accadeva spesso che fossero imbronciati e taciturni, oppure parlavano a non
finire, come se non avessero potuto fame a meno, dell’incidente. E,
soprattutto, mangiavano. Non appena un piatto veniva posto a tavola, vi si
gettavano sopra, e al termine dei pasti si ingozzavano di dolciumi e cioccolata,
tanto che Canessa, ad esempio, ingrassò enormemente in un periodo di poche
settimane appena.
I genitori si sentivano indifesi di fronte a questo comportamento. Alcuni
di loro erano stati avvertiti dagli psicanalisti di Santiago, i quali avevano
visitato superficialmente qualche giovane, che i giovani stessi avrebbero
potuto incontrare una certa difficoltà nel riadattarsi alla vita normale, e che si
poteva fare ben poco al riguardo. Il caso dei superstiti, naturalmente, era
sconcertante per gli psicanalisti come per gli essi genitori, in quanto
esistevano ben pochi precedenti relativi alla violazione di quel particolare
tabù. Nessuno era in grado di sapere quali sarebbero state le conseguenze
sulla loro mente; si poteva soltanto aspettare e stare a vedere.
Anche alcuni dei genitori, del resto, si trovavano in stato choc. Li si
sarebbe detti paralizzati dallo stupore e dalla gratitudine nel rivedere quei
figlioli che avevano già considerati morti. La madre di Coche Inciarte, ad
esempio, non riusciva a distogliere gli occhi da suo figlio, mentre mangiava.
La notte dormiva nella sua stessa camera, ma non chiudeva gli occhi; si
limitava a osservarlo quando lui era addormento.
Le madri che risultarono meglio preparate a far fronte la situazione
eccezionale nella quale erano venute a trovarsi furono Rosina e Sarah Strauch
e Madelón Rodríguez. Queste tre donne non soltanto avevano una forte
personalità che nulla riusciva a intimidire, ma consideravano altresì l’intera
saga come se fosse stata vissuta da esse stesse e non solamente dai loro figli.
Si comportavano, in un certo senso, come se la sopravvivenza dei giovani
fosse dovuta tanto alla loro fede e alle loro preghiere quanto agli sforzi dei
giovani stessi. Vedevano assolutamente chiaro, in cuor loro, per quanto
concerneva qualcosa che continuava a lasciare confusi i superstiti… il
significato di quel che avevano passato. Per queste tre donne, i ragazzi erano
scomparsi e poi avevano fatto ritorno allo scopo di dimostrare al mondo i
poteri miracolosi della Madonna; nel caso delle sorelle Strauch i poteri della
Vergine di Garabandal.
I beneficiari di tale miracolo, invece, rimanevano comprensibilmente
confusi perché venivano prospettate altre interpretazioni. Da un canto
sapevano che molte persone, specie tra i più anziani, erano inorridite da
quanto essi avevano fatto e ritenevano che avrebbero dovuto optare per la
morte. Persino la madre di Madelón, la quale aveva creduto quanto chiunque
altro al ritorno del nipote, non riusciva a indursi a contemplare questo aspetto
della sua sopravvivenza.
La Chiesa cattolica, tuttavia, non tardò a riprovare tale reazione primitiva.
«Non si può condannare quel che hanno fatto», disse monsignor Andrés
Rubio, il vescovo ausiliario di Montevideo, «se era la sola possibilità di
sopravvivenza… Mangiare qualcuno che è morto per sopravvivere significa
incorporarne la sostanza, ed è possibilissimo paragonare ciò a un trapianto. La
carne sopravvive quando viene assimilata da qualcuno che ne ha estrema
necessità, precisamente come accade quando un occhio o il cuore di un
defunto vengono trapiantati m un vivente… Che cosa avremmo fatto noi, in
una situazione analoga?… Che cosa direste a chi vi rivelasse nella confessione
un simile segreto? Una sola cosa: di non tormentarsene di non incolparsi
d’una cosa per la quale non incolperebbe altri e di cui nessuno gli fa colpa.»
Carlos Partelli, l’arcivescovo di Montevideo, confermò il suo giudizio.
«Moralmente non vedo obiezione alcuna, in quanto era una questione di
sopravvivenza. È sempre necessario nutrirsi con qualsiasi cosa sia disponibile,
nonostante la ripugnanza che può causare.»
E, infine, il teologo de L’Osservatore Romano, Gino Concetti, scrisse che
chi ha ricevuto dalla comunità è altresì tenuto a dare alla comunità, o ai suoi
singoli appartenenti, quando si trovino in estrema necessità di aiuto per
sopravvivere. Tale imperativo si estende in modo particolare al corpo,
altrimenti destinato alla dissoluzione, all’inutilità. «Tenuto conto di tali realtà»,
continuò padre Concetti, «giustifichiamo un fondamento etico il fatto che i
superstiti dell’aereo uruguayano si siano nutriti con il solo cibo disponibile
per evitare la morte certa. È legittimo ricorrere a corpi umani senza vita allo
scopo di sopravvivere.»
D’altro canto, la Chiesa non concordò con il punto di vista espresso da
Delgado nel corso della conferenza stampa, che cibarsi della carne dei loro
amici era equivalso alla Santa Comunione. Quando a monsignor Rubio venne
domandato se il rifiuto di nutrirsi con la carne di un essere umano morto
poteva essere interpretato come una forma di suicidio, e l’opposto come una
comunione, egli rispose: «Non può essere interpretato in alcun modo come un
suicidio, ma anche l’impiego del termine comunione non è corretto. Tutt’al
più si può dire che sia corretto servirsi del termine come una fonte li
ispirazione. Ma non si tratta di comunione».
Era chiaro, pertanto, che i superstiti non dovevano essere considerati né
santi né peccatori; ma si cercò sempre più di assegnare loro il ruolo di eroi
nazionali. I giornali e le stazioni radiofoniche e televisive cominciarono
comprensibilmente ad inorgoglirsi a causa di quanto avevano fatto quei
giovani compatrioti. L’Uruguay è una piccola nazione in un vasto mondo, e
mai dopo la vittoria calcistica della Coppa del Mondo, nel 1956, le imprese di
un qualsiasi uruguayano avevano raggiunto una tale rinomanza in tutto il
pianeta. Vennero pubblicati molti articoli che descrivevano il coraggio, la
capacità di sopportazione e l’ingegnosità dei superstiti. E i superstiti, in
complesso, dimostrarono di saper essere all’altezza delle circostanze. Molti di
loro tennero la barba e i capelli lunghi, né si dispiacquero di essere
riconosciuti ovunque andassero a Montevideo e a Punta del Este.
Sebbene ogni intervista e ogni articolo sottolineassero il fatto che il
successo era stato opera dell’intero gruppo, divenne inevitabile che alcuni
superstiti si adattassero al ruolo di eroe nazionale meglio degli altri. Qualche
giovane, ad esempio, non figurava neppure sul palcoscenico. Pedro Algorta si
era recato presso i suoi genitori in Argentina. Daniel Fernández aveva
raggiunto il padre e la madre nella loro estancia in campagna. I due cugini di
lui, Fito e Eduardo Strauch, erano troppo taciturni per poter rappresentare per
il pubblico un’immagine corrispondente alla parte da essi impersonata sulla
montagna.
Il personaggio più abile dell’intera esperienza era Pancho Delgado, e fu
del tutto naturale, essendo stato lui ad affrontare la questione del cannibalismo
durante la conferenza stampa, che la stampa lo cercasse per ulteriori
informazioni. Delgado dimostrò di sapersela cavare a meraviglia. Si recò in
torpedone a Rio de Janeiro (con Ponce de Lèon) per apparire alla televisione,
e concesse lunghe interviste alla rivista cilena Chile Hoy e alla rivista
argentina Gente. Non era il caso di stupirsi, del resto, se Delgado, trovandosi
una volta di più in una situazione nella quale i suoi talenti potevano rendersi
utili, li sfruttò; né se la stampa sfruttò un superstite così loquace. Il fatto che
egli si mettesse tanto in vista con il pubblico, però, non lo rese caro ai
compagni di un tempo.
L’altro appartenente al gruppo il cui comportamento taluni giudicarono
sconveniente fu Parrado. Il suo carattere aveva subito una metamorfosi
maggiore di quella degli altri. Il ragazzo timido e incerto era emerso dal
cimento come un uomo imperioso e sicuro di sé che ovunque veniva
riconosciuto e acclamato come l’eroe dell’odissea andina; ma quest’uomo
aveva ancora in sé i gusti e gli entusiasmi del ragazzo e, liberatosi ormai dalla
sua intima conoscenza con la morte, voleva a tutti i costi indulgere ad essi.
Credendolo morto, suo padre aveva venduto la motocicletta Suzuki 500 di
lui a un amico, ma fu così felice di vedere Nando tornato dalla tomba che gli
comprò un’Alfa Romeo 1750. Su di essa Parrado filava rombando lungo la
costa per recarsi a Punta del Este e vivere la dolce vita sulle spiagge, nei
ristoranti e nei club notturni dell’elegante località di soggiorno. Tutte le belle
ragazze che un tempo lo avevano considerato il timido amico di Panchito
Abal, ora lo assediavano e si emulavano l’una con l’altra per essere degnate
delle sue attenzioni. Parrado non ne era avaro. A una sola cosa consentì di
allontanarlo da Punta del Este, le corse automobilistiche di Formula 1 a
Buenos Aires. Là conobbe i corridori Emerson Fittipaldi e Jackie Stewart, e
vennero fotografati insieme, poiché ovunque Parrado si recasse era seguito da
un’orda di giornalisti e di fotografi.
Queste fotografie apparvero su tutti i giornali uruguayani e sgomentarono
i suoi quindici compagni. Quando un giornale lo mostrò tra un gruppo di
«bellezze al bagno», a Punta del Este, come giudice di un concorso di bellezza,
gli altri protestarono, e Parrado si ritirò; per lui, come per tutti gli altri, la
compattezza dei sedici rivestiva ancora la più grande importanza.
Sebbene egli riconoscesse che erano state le fatiche collettive a salvar loro
la vita, considerava la sua impresa un trionfo e pensava di avere il diritto di
celebrarlo. La vita aveva sconfitto la morte, e doveva essere vissuta appieno,
come del resto era stato prima dell’incidente.. ma, inutile dirlo, alcune cose
erano cambiate per sempre. Una sera, verso la metà di gennaio, Parrado si
recò in un night club con un amico e due ragazze. Si trattava di un locale che
aveva frequentato con Panchito Abal, ed egli non vi era più tornato dopo il
disastro del Fairchild. Mentre sedeva a un tavolino e ordinava liquori, si rese
conto a un tratto della realtà: Panchito era morto. E, per la primissima volta, in
tre mesi di cimenti e di sofferenze, scoppiò in lacrime. Appoggiò la testa al
tavolo e pianse e pianse e pianse. Non riusciva ad arginare quel fiume di
lacrime, e così uscirono tutti e quattro dal nightclub. Poco tempo dopo,
Parrado ricominciò a lavorare vendendo bulloni e dadi nell’azienda paterna,
La Casa del Tornillo.
***
La ragione per cui gli altri quindici superstiti non vedevano di buon
occhio il ritorno di Parrado al genere di vita condotta in passato consisteva nel
fatto che essi avevano un concetto più elevato, quasi mistico, della loro
esperienza. Inciarte, Mangino e Methol erano certi di essere stati i beneficali di
un miracolo. Delgado riteneva che la salvezza durane l’incidente, la valanga e
le settimane successive poteva essere attribuita alla mano di Dio; ma, secondo
lui, la spedizione era stata più che altro una manifestazione del coraggio
umano. Canessa, Zerbino, Pàez, Sabella e Harley ritenevano tutti che Dio
avesse avuto una parte fondamentale nella loro sopravvivenza, che Egli fosse
stato là, presente, sulla montagna. D’altro canto, Fernández, Fito e Eduardo
Strauch, e Vizintìn erano più propensi a credere, sia pure con tutta la
modestia, che la sopravvivenza e la salvezza dovessero essere attribuite ai loro
sforzi. Senza dubbio, le preghiere li avevano aiutati, erano state un legame che
aveva contribuito a tenerli uniti e una salvaguardia contro la disperazione; ma,
se avessero fatto conto soltanto sulle preghiere, si sarebbero trovati ancora
sulla montagna. Forse la grazia di Dio era servita soprattutto a mantenerli sani
di mente.
I due più scettici sulla parte avuta da Dio nella loro salvezza erano lo
stesso Parrado e Pedro Algorta. Parrado aveva le sue buone ragioni perché, al
pari di molti di loro, non riusciva a scorgere alcuna logica umana nella scelta
tra sopravvissuti e morti. Se Dio era stato colui cui dovevano la vita, Egli
aveva lasciato che gli altri morissero; e se Dio era buono, come aveva potuto
lasciar morire sua madre, come aveva potuto consentire che Panchito e
Susana soffrissero così tremendamente prima della morte? Forse li aveva
voluti in paradiso, ma come potevano, sua madre e sua sorella, essere felici
lassù finché lui e suo padre continuavano a soffrire sulla terra?
Il caso di Algorta era più complesso, perché l’istruzione impartitagli dai
Gesuiti a Santiago e a Buenos Aires lo aveva preparato a far fronte ai misteri
della fede cattolica meglio dei più semplici insegnamenti dei Fratelli Cristiani.
Inoltre, tra i passeggeri dell’aereo, egli era stato, prima di partire, il più
fervidamente religioso. Non possedeva la disinvolta, anche se alquanto poco
ortodossa, familiarità con Dio di Carlitos Pàez, ma l’orientamento della sua
vita, e in particolare delle sue convinzioni politiche, era incentrato sul precetto
secondo il quale Dio è amore. Dopo settanta giorni nelle selvagge solitudini
delle Ande, non era certo meno persuaso che Dio fosse amore, ma
quell’esperienza gli aveva insegnato come l’amore di Dio non fosse qualcosa
su cui si poteva far conto per sopravvivere. Nessun angelo era disceso dal
Cielo per aiutarli. Soltanto le loro stesse doti di coraggio e di sopportazione li
avevano salvati. Semmai, l’esperienza lo aveva reso meno religioso; ora egli
credeva assai più nell’uomo.
Riconoscevano tutti, comunque, che il cimento sulla montagna aveva
mutato il loro atteggiamento nei confronti della vita; sofferenze e privazioni
avevano insegnato a tutti i superstiti quanto fossero state frivole le loro
esistenze. Il denaro era divenuto privo di ogni significato. Nessuno, lassù,
avrebbe dato una sola sigaretta contro i cinquemila dollari ammucchiati nella
valigia. Ogni giorno che passava, eliminava strato su strato di superficialità,
finché, in ultimo, in essi erano rimaste soltanto quelle verità che realmente
avevano a cuore: le loro famiglie, le loro novias, la fede in Dio e la patria. Ora
disprezzavano il mondo dei vestiti eleganti, dei nightclub, delle ragazze facili e
della vita oziosa. Avevano deciso di prendere assai più sul serio il loro lavoro,
di essere più devoti nelle pratiche religiose, e di dedicare più tempo alle
proprie famiglie.
Né intendevano tenere per sé quel che avevano imparato. Molti di loro,
soprattutto Canessa, Pàez, Sabella, Inciarte, Mangino e Delgado, sentivano in
sé una vocazione, volevano porre in qualche modo a buon frutto la loro
esperienza. Si sentivano toccati da Dio e ispirati da Lui a impartire agli altri la
lezione d’amore e di altruismo insegnata loro dalle sofferenze. Se l’apprendere
che si erano nutriti con i cadaveri dei loro amici aveva scandalizzato il mondo,
quello choc doveva ora essere sfruttato per insegnare al mondo che cosa
significasse, in realtà, amare il proprio prossimo come sé stessi.
Esisteva una sola rivale, per così dire, della lezione che doveva essere
tratta dal ritorno dei sedici superstiti, e cioè la Vergine di Garabandal, poiché,
quali che fossero i pareri dei giovani, restava il gruppo di donne decise le
quali avevano invocato l’intercessione della Vergine e credevano adesso che le
loro preghiere fossero state esaudite. Ricordavano i giorni in cui gli scettici
avevano ammesso che i ragazzi sarebbero potuti essere salvati soltanto da un
miracolo, ed erano risolute a fare in modo che la Vergine non ne venisse
defraudata soltanto perché la loro salvezza si prestava a una spiegazione
razionale di natura alquanto sgradevole. Invero, esse eliminavano l’ortica del
cannibalismo con la tesi secondo la quale la manna piovuta dal Cielo sui
deserti del Sinai era stata soltanto una descrizione eufemistica dell’ispirazione
data da Dio agli ebrei di sfamarsi con i corpi dei loro morti.
4

Ventinove di coloro che erano partiti con il Fairchild non avevano fatto
ritorno, e, per le famiglie di questi ventinove, il ritorno dei sedici significava
la conferma della loro morte. Si trattava inoltre d’una conferma di natura
sconvolgente. Gli Abal furono informati delle sofferenze fisiche del loro
figliolo; i Nogueira conobbero le sofferenze mentali del loro. Ogni
appartenente ad ogni famiglia venne a trovarsi di fronte alla consapevolezza
che mariti, madri e figli non soltanto erano morti, ma potevano essere stati
divorati.
Si trattava di un calice amaro per cuori già colmi fino all’orlo di
sofferenze, poiché, per quanto la mente potesse essere nobile e razionale nel
contemplare tale fine, nasceva un orrore primitivo e irreprimibile all’idea che
le spoglie delle persone amate potessero essere state utilizzate in quel modo.
Nella grande maggioranza, tuttavia, le famiglie riuscirono a dominare questa
ripugnanza. I genitori diedero prova dello stesso altruismo e dello stesso
coraggio dei figli e si schierarono intorno ai sedici superstiti. Il dottor Valeta,
padre di Carlos, si recò con la famiglia alla conferenza stampa e in seguito
parlò con l’inviato del quotidiano El Pais. «Sono venuto qui con i miei»,
disse, «perché volevamo conoscere tutti coloro che erano gli amici di mio
figlio e perché siamo sinceramente felici di riaverli tra noi. Quel che più
conta, siamo lieti che fossero quarantacinque, poiché ciò ha aiutato almeno
sedici di loro a tornare. Vorrei dire inoltre che ho sempre saputo, sin dal
primo momento, quanto è stato confermato oggi. Come medico, mi resi
subito conto che nessuno avrebbe potuto sopravvivere in un luogo come
quello e in condizioni come quelle senza ricorrere a decisioni coraggiose. Ora
che ho avuto la conferma di quanto è accaduto, ripeto, ringrazio Dio che
fossero in quarantacinque, perché sedici famiglie hanno riavuto i loro figli.»
Il padre di Arturo Nogueira scrisse una lettera ai giornali:
Cari signori, queste poche parole, scritte per esprimere quanto abbiamo
nel cuore, vogliono rendere un tributo, con deferenza, ammirazione e
riconoscenza, ai sedici eroi sopravvissuti alla tragedia delle Ande.
Ammirazione perché questo è ciò che proviamo dinanzi alle tante prove di
solidarietà, fede, coraggio e serenità che essi dovettero affrontare e che
superarono. Riconoscenza profonda e sincera, a causa delle cure che
prodigarono in ogni momento al nostro diletto figlio e fratello Arturo fino al
momento della sua morte, molti giorni dopo l'incidente.
Invitiamo ogni cittadino di questo paese a impiegare qualche minuto
meditando sull’immensa lezione di solidarietà, di coraggio e di disciplina
che ci è stata data da questi ragazzi, nella speranza che essa aiuterà noi
tutti a sormontare i bassi egoismi e le meschine ambizioni, e la mancanza di
interessamento per i nostri fratelli.

Anche le madri diedero prova di un analogo coraggio, alcune videro i loro


figli periti nei superstiti, poiché non era difficile capire che, se fossero stati i
loro figli a rimanere in vita e gli altri a perire, sarebbe accaduta la stessa cosa;
e, se tutti e quarantacinque fossero sopravvissuti all’incidente e alla valanga,
tutti e quarantacinque sarebbero ormai morti. Potevano immaginare, inoltre, le
sofferenze mentali e fisiche sopportate dai superstiti. Una sola cosa si
auguravano, adesso: che dimenticassero quanto avevano passato. In fin dei
conti, non si erano nutriti, per sopravvivere, dei figli, o dei fratelli, o dei
genitori dei loro amici. Essi si trovavano già i paradiso.
Quasi tutti i genitori si erano rassegnati alla morte dei loro figli poco dopo
l’incidente. Alcuni di loro, però, si sentirono particolarmente defraudati dal
fato. Estela Pérez aveva creduto con la stessa fermezza di Madelón Rodríguez
e di Sarah e Rosina Strauch che Marcelo fosse vivo, eppure, mentre le altre
avevano veduto premiata la loro fede, non era stato così per la sua. Era inoltre
un perfido e amaro tiro del destino il fatto che la señora Costemalle, il cui
altro figlio era annegato al largo della costa di Carrasco e il cui marito era
morto all’improvviso nel Paraguay, avesse ora dovuto perdere l’unico
superstite della famiglia.
I genitori di Gustavo Nicolich si tormentavano sapendo che il loro figliolo
aveva vissuto per due settimane dopo l’incidente. Provavano inoltre una certa
animosità nei confronti di Gérard Croiset figlio il quale, così ritenevano, li
aveva messi su una falsa pista in un periodo nel quale insistere nella zona dei
monti Tinguiririca e Sosneado avrebbe potuto salvare la vita del loro figliolo.
Era senz’altro vero che l’interpretazione della chiaroveggenza di Croiset
aveva fuorviato i genitori, ma non poche cose dette da lui erano risultate
corrispondere alla verità. Egli aveva veduto alcune difficoltà con funzionari a
proposito dei documenti di uno dei giovani all’aeroporto di Carrasco e vi era
stato un incidente del genere. Aveva detto che il pilota non si trovava ai
comandi dell’apparecchio, ed effettivamente il Fairchild era pilotato da
Lagurara, non da Ferradas. L’aereo, egli aveva asserito, giaceva come un
verme, con il muso schiacciato, ma senza le ali e con il portello anteriore
semiaperto. Tutto questo corrispondeva alla verità. Croiset aveva inoltre
descritto esattamente le manovre che sarebbero state necessarie affinché un
pilota scorgesse il relitto dall’alto. Secondo lui, per giunta, l’aereo si trovava
in prossimità di un cartello con la scritta «pericolo» e non lontano da un
villaggio di case bianche, in stile messicano. Anche se niente del genere era
stato veduto da Parrado e da Canessa durante la marcia nel Cile, una
successiva spedizione diretta dall’Argentina verso il luogo dell’incidente trovò
nelle vicinanze un cartello con la scritta «pericolo» e un piccolo villaggio,
Minas de Sominar, formato da bianche case messicane.
Il paesaggio intorno all’aereo come lo aveva descritto Croiset (le tre
montagne, una delle quali senza vetta, e il lago) fu trovato dai genitori, ma
sessantacinque chilometri a sud del Planchón, mentre il Fairchild era
precipitato sessantacinque chilometri a nord del Planchón. L’aereo non si
trovava ai piedi di una montagna, e neppure in un lago o nelle vicinanze; né il
pilota si era diretto verso un lago per effettuare un atterraggio di fortuna.
L’incidente non era stato causato dal mancato funzionamento di un
carburatore, come aveva detto Croiset, né il pilota si trovava solo nella cabina;
e non era dato sapere se soffrisse o meno di indigestione. Esistevano altri
particolari forniti da Croiset, quando i genitori esercitavano pressioni su di lui
affinché desse loro altre informazioni, che in retrospettiva parvero non avere
alcun rapporto con la tragedia, ma, per lo meno, fornendoli, egli aveva salvato
alcune delle madri dalla disperazione.
Anche i sogni della señora Valeta erano stati straordinariamente precisi,
ma la sola percezione extrasensoriale dimostrata del tutto esatta dagli eventi fu
quella del vecchio rabdomante dal quale si erano recati la madre di Madelón e
Juan José Methol nel quartiere povero di Maroña, a Montevideo. Egli aveva
indicato sulla carta un punto situato a trenta chilometri dalla località termale di
Termas del Flaco, esattamente dove si constatò che il Fairchild era precipitato.
Ricordandolo, Juan José andò in cerca del vecchio e lo compensò offrendogli
carne e denaro, che egli a sua volta divise con i miseri vicini.
5

Un’inchiesta sulle cause dell’incidente venne svolta dalle aviazioni militari


dell’Uruguay e del Cile. Entrambe attribuirono la responsabilità del disastro a
un errore umano del pilota, il quale aveva iniziato la discesa verso Santiago
mentre si trovava ancora nel cuore delle Ande. Il punto ove il Fairchild era
effettivamente piombato al suolo non si trovava affatto vicino a Curicò. La
montagna sulla quale i giovani avevano trascorso tanti giorni era situata sul
lato argentino della frontiera, tra i vulcani Sosneado e Tinguiririca. La
fusoliera si trovava a circa tremilaottocento metri d’altezza; la montagna
scalata dai componenti della spedizione raggiungeva quasi i
quattromilacinquecento metri. Si calcolò che se i giovani avessero disceso la
valle al di là della coda dell’aereo, invece di scalare la montagna a ovest,
avrebbero trovato una strada in circa tre giorni (anche se la strada che Canessa
credette di vedere scalando la montagna era quasi certamente una faglia
geologica). Appena otto chilometri a est del Fairchild si trovava un albergo
che, sebbene aperto soltanto in estate, era fornito di provviste in scatola.
Il tentativo di chiamare soccorsi con la radio dell’aereo, che
complessivamente era costato loro due settimane in più sulla montagna, non
sarebbe mai potuto riuscire. La trasmittente richiedeva una corrente alternata a
115 volt, fornita di norma da un invertitore. La batterie fornivano una corrente
continua alla tensione di 24 volt.
***
Non rimane molto da aggiungere per quanto concerne le vittime. Anche se
alcuni dei genitori ce l’avevano con l’aviazione militare uruguayana per
l’incapacità dei suoi piloti, non era quello il momento più opportuno nella
storia politica dell’Uruguay per prendersela con una delle forze armate. In
genere essi accettarono quanto era accaduto come la volontà di Dio e furono
grati al Signore per coloro che erano tornati, in armonia con il nobile punto di
vista dei superstiti.
Javier Methol, ora che risiedeva al livello del mare, si liberò dello
stordimento che lo aveva afflitto alla grande altezza della montagna. Al pari
dei suoi ex compagni, anch’egli era persuaso che Dio avesse consentito loro
di sopravvivere per qualche scopo e il primo compito cui si dedicò consistette
nel compensare, per quanto gli era possibile, i suoi figli della perdita della
madre. Andò ad abitare con la madre e il padre di Liliana, i quali, come egli
aveva previsto, si erano occupati dei bambini. Di nuovo unito a loro, Javier
era quasi sereno; infatti, sebbene Liliana continuasse a mancargli, sapeva che
ella era felice in paradiso.
Una sera, a Punta del Este, andò a passeggiare sulla spiaggia con la sua
figlioletta di tre anni, Marie Noel. La bambina gli saltellava al fianco,
cicalando continuamente, ma a un tratto si fermò e alzò gli occhi su di lui.
«Papà», disse, «tu sei tornato dal paradiso, vero? Ma quand’è che torna la
mamma?»
Javier si accosciò davanti alla sua figlioletta e le disse: «Devi cercare di
capire, Marie Noel, che la mamma è tanto buona, tanto buona, e che Dio ha
bisogno di lei in Cielo. È tanto importante che adesso abita con Dio».
6

Il 18 gennaio 1973, dieci appartenenti al Corpo di Soccorso Andino, assieme a


Freddy Bemales del SAR, al tenente Enrique Crosa dell’aviazione militare
uruguayana, e a un sacerdote cattolico, padre Ivan Caviedes, furono portati
con elicotteri fino al relitto del Fairchild. Là si accamparono, con l’intenzione
di restare alcuni giorni sulla montagna, e si accinsero a raccogliere i resti delle
vittime. Risalirono il pendio per ricuperare quelle salme che vi erano rimaste e
che ora lo scioglimento delle nevi aveva scoperto.
Trovarono un luogo, a circa ottocento metri dal punto dell’incidente, che
era riparato da possibili valanghe e nel quale esisteva terra a sufficienza per
scavare una fossa. Là essi seppellirono le salme ancora intatte e tutti i resti di
quelle che non lo erano più. Un rozzo altare di pietra venne eretto accanto alla
tomba e su di esso fu collocata una croce di ferro alta circa un metro. La croce
era verniciata in arancione e su un lato vi figurava in nero la scritta: «Il
mondo ai suoi fratelli uruguayani», mentre sul lato opposto erano dipinte le
parole: «Più vicini, o Dio, a Te».
Dopo aver celebrato la Messa, padre Caviedes parlò agli uomini che
avevano assistito alla cerimonia. Gli appartenenti al Corpo di Soccorso
tornarono poi alla fusoliera del Fairchild, vi sparsero su benzina e
l’incendiarono. L’aereo bruciò rapidamente nel vento violento e i cileni, non
appena furono certi che il fuoco avesse attecchito bene, si accinsero a
ripartire. Il silenzio delle montagne era stato turbato troppo spesso al rombo
delle valanghe; ritennero che fosse troppo pericoloso restare.

FINE

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