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TABÙ
EUROCLUB
Questa è la vera storia di una delle tragedie più allucinanti dei nostri tempi,
una storia disperata che ha turbato il mondo come poche altre, la storia
agghiacciante dei passeggeri di un aereo che per non morire mangiano i
compagni morti.
L’Uruguay, uno dei più piccoli paesi del continente sudamericano, venne
fondato sulla riva est del Rio de la Plata come uno Stato cuscinetto tra i
giganti che allora emergevano, il Brasile e l’Argentina. Geograficamente, era
un territorio ameno, con bestiame in libertà su pascoli immensi; la
popolazione viveva modestamente dedicandosi al commercio o alle
professioni di medico e di avvocato nella città di Montevideo, oppure
conducendo l’esistenza fiera e vagabonda dei gauchos nelle praterie.
La storia degli uruguayani nel diciannovesimo secolo abbonda, in un
primo tempo, di battaglie feroci per l’indipendenza contro l’Argentina e il
Brasile, poi di schermaglie civili altrettanto selvagge tra i partiti blanco e
colorado, i conservatori dell’interno e i liberali di Montevideo. Nel 1904,
l’ultima sollevazione del partito bianco venne repressa dal presidente del
partito colorado, José Batlle y Ordóñez, il quale istituì poi uno Stato secolare
e democratico che, per molti decenni, fu considerato il più progredito e il più
illuminato dell’America Latina.
L’economia di questo Stato del benessere era basata sui prodotti della
pastorizia e dell’agricoltura che l’Uruguay esportava in Europa, e, finché i
prezzi mondiali della lana, della carne di manzo e delle pelli rimasero alti,
l’Uruguay continuò a essere prospero; ma, nel corso degli anni cinquanta, il
valore di questi beni diminuì e l’Uruguay cominciò a declinare. Si ebbero
disoccupazione e inflazione che, a loro volta, diedero luogo allo scontento
sociale. Il personale dell’amministrazione dello Stato era eccessivamente
numeroso e mal pagato; avvocati, architetti ed ingegneri, un tempo
l’aristocrazia della nazione, vennero a trovarsi con poco lavoro e i loro
compensi, per quel poco che c’era da fare, divennero troppo bassi. Molti
furono costretti a dedicarsi ad altre professioni, di minor prestigio. Soltanto
coloro che possedevano terre nell’interno poteva essere certi della prosperità;
gli altri lavoravano, quando riuscivano a trovare lavoro, in un’atmosfera di
ristagno economico e di corruzione amministrativa.
Per conseguenza, sorse il primo e il più importante movimento di
guerriglieri rivoluzionari urbani, i Tupamaros, che miravano ad abbattere
l’oligarchia dalla quale era governato l’Uruguay per il tramite dei partiti
bianco e colorado. Per qualche tempo le cose volsero a loro favore. Essi
rapirono, costringendoli a versare riscatti, funzionari e diplomatici e si
infiltrarono nelle forze di polizia che erano state schierate contro di loro. Il
governo fece ricorso all’esercito, che strappò spietatamente questi guerriglieri
urbani alle loro case della media borghesia. Il movimento venne soppresso, i
Tupamaros furono imprigionati.
Nei primi anni Cinquanta, un gruppo di genitori cattolici, allarmati dalle
tendenze atee degli insegnanti, e non soddisfatti dell’insegnamento dell’inglese
da parte dei Gesuiti, invitò la Provincia Irlandese dei Fratelli Cristiani a
fondare una scuola a Montevideo. La richiesta fu accolta e cinque Fratelli laici
irlandesi giunsero dall’Irlanda, passando per Buenos Aires, allo scopo di
fondare il Collegio Stella Maris (una scuola per ragazzi tra i nove e i sedici
anni) nel sobborgo di Carrasco. Nel maggio del 1955 i corsi ebbero inizio in
una casa sulla rambla che, sotto il cielo sconfinato, dominava l’Atlantico
meridionale.
Sebbene parlassero soltanto uno spagnolo stentato, questi Fratelli irlandesi
erano senz’altro tagliati per il compito che si accingevano ora ad affrontare.
L’Uruguay poteva essere lontano dall’Irlanda, ma anch’esso era un piccolo
paese dall’economia agricola. Gli uruguayani si nutrivano con carne di manzo
come gli irlandesi si nutrivano di patate, e la vita lì, come in Irlanda, si
svolgeva con un ritmo lento. Inoltre, la struttura di quella classe della società
uruguayana della quale essi si occupavano riusciva familiare ai Fratelli. Le
famiglie che abitavano nei piacevoli palazzi moderni costruiti tra i pini di
Carrasco (il sobborgo più ridente di Montevideo) erano per la massima parte
numerose ed esistevano, tra genitori e figli, saldi legami che persistevano
durante l’adolescenza e fino alla maturità. L’affetto e il rispetto che i ragazzi
avevano per i genitori si trasferì subito sui loro maestri; ciò contribuì ad
assicurare un comportamento corretto e, su richiesta dei genitori i allievi, i
Fratelli Cristiani rinunciarono all’antica consuetudine delle punizioni inflitte
con una bacchetta.
Era inoltre consuetudine nell’Uruguay che i giovani, maschi e femmine,
continuassero ad abitare con i genitori anche dopo aver terminato gli studi, e
soltanto dopo essersi sposati lasciassero la casa paterna. I Fratelli Cristiani si
domandavano so come mai, in un mondo nel quale l’acrimonia tra le
generazioni sembrava essere talora lo spirito dell’epoca, ai cittadini
dell’Uruguay, o per lo meno a quelli che risiedevano a Carrasco, tale conflitto
venisse risparmiato. Era come se la torrida vastità del Brasile, a nord, e le
acque limacciose del Rio de la Piata, a sud e ad ovest, agissero non soltanto
come ostacoli naturali, ma anche come guscio protettivo in un bozzolo del
tempo.
Nemmeno i Tupamaros turbavano la disciplina del Collegio Stella Maris.
Gli allievi, che appartenevano a famiglie cattoliche dalle tendenze
conservatrici, erano stati mandati dai genitori ai Fratelli Cristiani a causa dei
metodi tradizionali e degli scopi all’antica di quest’Ordine. Era più probabile
che l’idealismo politico fiorisse con i Gesuiti, i quali educavano l’intelletto,
anziché con i Fratelli Cristiani, il cui scopo era quello di plasmare il carattere
dei loro ragazzi, e il ricorso frequente ai castighi corporali, cui essi avevano
rinunciato su richiesta dei genitori, non era il solo mezzo a loro disposizione
per conseguire tale scopo. L’altro consisteva nel rugby.
Il gioco, così come si svolgeva al Collegio Stella Maris, e continua ad
essere, quello stesso giocato in Europa. Due squadre di quindici uomini si
affrontano sul campo. I giocatori non hanno caschi né rivestimenti protettivi,
e non ci sono rimpiazzi. Lo scopo di ogni squadra è quello di portare la palla
ovale sulla linea di meta difesa dagli avversari, o di calciarla al di sopra della
sbarra trasversale e tra i due pali della meta a forma di «H». La palla può
essere calciata, tenuta nelle mani o passata indietro; il giocatore che ha la palla
può essere placcato da un avversario, il quale ha gli si lancia contro per farlo
cadere, afferrandolo al collo, alla vita o alle gambe. La sola difesa contro il
placcaggio consiste nello schivarlo o nel respingerlo, con una mano premuta
contro la faccia o il corpo dell’avversario.
Se il gioco si ferma (come quando, ad esempio, la palla viene passata
avanti, anziché indietro), l’arbitro fischia e ordina una mischia. Gli avanti
delle due squadre si avvinghiano come un granchio gigantesco. In prima fila,
tre giocatori premono con la testa e le spalle contro la testa e le spalle dei tre
contrapposti avversari. Dietro di loro viene la seconda fila, nella quale i
giocatori appoggiano il capo contro le natiche dei compagni in prima fila.
Questo ariete umano è tenuto insieme da un «catenaccio» in coda e sostenuto
da un’«ala avanzata» a ciascun lato.
Il mediano di mischia della squadra in vantaggio lancia il pallone nel
mezzo, tra le due squadre, dopodiché l’uomo al centro in prima fila lo calcia
indietro, oppure gli avanti spingono i loro rivali lontano dalla palla. Il
mediano di mischia ricupera allora quest’ultima e la lancia ai mediani, che
corrono avanti passando all’indietro la palla lungo il loro schieramento ai tre
quarti d’ala affinché tentino di segnare un punto.
È un gioco duro, bello se giocato con abilità, brutale se giocato
goffamente. Una gamba fratturata o un naso rotto non sono inconsueti; ogni
mischia significa stinchi sbucciati, ogni placcaggio lascia un giocatore senza
fiato. Il rugby richiede non soltanto doti fisiche eccezionali che consentano di
giocare molto velocemente per un’ora e mezzo (includendo dieci minuti di
riposo a metà tempo), ma anche autocontrollo e spirito di squadra. Il
giocatore che pone la palla sulla linea mediana non è necessariamente il più
abile, ma, il più delle volte, soltanto l’ultimo anello della catena.
Quando i primi Fratelli Cristiani giunsero nell’Uruguay, il rugby non
veniva quasi affatto giocato laggiù; invero, essi vennero a trovarsi in un paese
nel quale il calcio era non soltanto lo sport nazionale, ma una passione
collettiva. Assieme al consumo pro capite di carne di manzo, esso era la sola
sfera nella quale l’Uruguay trionfasse sulle grandi nazioni del mondo (gli
uruguayani vinsero la coppa del mondo nel 1930 e nel 1950) e chiedere ai
giovani di quel paese di appassionarsi a un gioco diverso era come nutrirli
con pane e patate anziché con la dieta cui erano assuefatti.
Dopo aver sacrificato un pilastro del loro sistema educativo rinunciando
alla bacchetta, i Fratelli Cristiani non intendevano rinunciare anche all’altro. Si
attennero alla loro tesi secondo la quale il calcio era uno sport da prime
donne, mentre il rugby avrebbe insegnato ai ragazzi a soffrire in silenzio e ad
agire come una squadra. I genitori fecero rimostranze, ma in ultimo
acconsentirono e a suo tempo finirono con il condividere il parere dei Fratelli
Cristiani per quanto concerne i meriti del gioco.
Quanto ai loro figli, essi lo giocarono con crescente entusiasmo e allorché
la prima generazione si fu lasciata indietro il collegio, molti dei diplomati non
vollero rinunciare né al rugby né allo Stella Maris. Venne concepito il progetto
di un gruppo di ex alunni e, dieci anni dopo la fondazione del collegio, fu
creata questa associazione. Si chiamò Club dei Vecchi Cristiani e la sua
principale attività consistette nell’organizzare partite di rugby la domenica
pomeriggio.
Con il trascorrere degli anni queste partite divennero popolari, persino alla
moda, e ogni estate nuovi ex studenti si iscrivevano al Club dei Vecchi
Cristiani, rendendo così possibile una più ampia scelta di giocatori e la
formazione di una squadra migliore. Il rugby stesso attecchì in Uruguay, e i
primi quindici giocatori del Club dei Vecchi Cristiani, con il trifoglio d’Irlanda
sulle camicie, divennero una delle più abili squadre del paese. Nel 1968, e poi
ancora nel 1970, vinsero il campionato nazionale uruguayano. Le ambizioni
crebbero il successo. La squadra attraversò l’estuario del Rio de la Plata per
giocare contro le squadre argentine e, nel 1971, i giocatori decisero di recarsi
più lontano e di giocare nel Cile. Per rendere possibile e non troppo costoso
tale progetto, il Club noleggiò un aereo dell’aviazione militare uruguayana
perché portasse la squadra da Montevideo a Santiago e i biglietti dei posti non
necessari ai giocatori furono venduti ai amici e sostenitori. Il viaggio costituì
un grande successo. La squadra del Club giocò contro la squadra nazionale
cilena e contro i quindici migliori giocatori della Old Boys Grange, vincendo
una partita e perdendo nell’altra. Al contempo, gli uruguayani trascorsero un
breve periodo di vacanza in un paese straniero. Per molti di loro si trattava del
primo viaggio aereo ed era la prima volta che vedevano le vette nevose
ghiacciai delle Ande. In effetti, il viaggio riuscì talmente bene che, non appena
rientrati a Montevideo, i giocatori fecero progetti per ripeterlo l’anno
seguente.
2
Esisteva poco spazio nel quale restare in piedi, per non parlare di sdraiarsi. La
spaccatura in coda alla fusoliera era frastagliata e irregolare, lasciava sette
finestrini sul lato sinistro all’aereo, ma soltanto quattro su quello destro. La
distanza alla cabina di pilotaggio allo squarcio apertosi era di soli sei sette
metri e la maggior parte dello spazio disponibile rilaneva ingombra dall’intrico
dei sedili. Il solo tratto di palmento che fossero riusciti a sgombrare prima del
cader della Dtte si trovava accanto all’ingresso, e lì essi distesero i feriti più
gravi, vale a dire Susana e Nando Parrado e Panchito Abal. Potevano giacervi
quasi orizzontalmente, ma erano assai poco protetti dalla neve e dal vento
gelido che si ingolivano entro la fusoliera dalle tenebre. Marcelo Pérez, con
aiuto di una robusta ala sinistra a nome Roy Harley, aveva fatto del suo meglio
per innalzare una barriera contro il freddo, servendosi di tutto ciò che gli era
capitato sotto mano (in particolare dei sedili e delle valigie), ma il vento era
violento e la precaria parete seguitava a cadere.
Perez, Harley e un gruppo di ragazzi illesi rimasero pigiati gli uni contro gli
altri accanto ai feriti, vicino allo squarcio, bevendo il vino acquistato dai piIoti
a Mendoza e facendo tutto il possibile per mantenere in piedi la barriera
improvvisata. Gh altri superstiti dormirono dove poterono, tra i sedili e i
cadaveri. Tutti coloro che riuscirono a trovarvi posto, compresa Liliana
Methol, si portarono nell’angusto spazio del vano bagagli, situato tra la cabina
passeggeri e la cabina di pilotaggio. Non ci si poteva muovere ed era
scomodo, ma si trattava senz’altro del posto più caldo sull’aereo. Anche là, i
superstiti si passarono i bottiglioni di vino acquistati a Mendoza. Alcuni dei
giovani indossavano ancora camicette dalle maniche corte, e trangugiarono un
quarto di vino dopo l’altro pur di mantenere un po’ di calore nei loro corpi.
Inoltre, si sferrarono pugni e si massaggiarono a vicenda. Questo parve essere
il solo sistema per tenersi caldi, finché Canessa non ebbe la prima delle sue
idee ingegnose. Esaminando i cuscini e i sedili sparsi tutto intorno a loro,
constatò che il rivestimento, di tessuto di nylon color turchese, era fissato ai
sedili semplicemente mediante chiusure lampo. Fu pertanto semplicissimo
toglierlo, e, una volta sfilate, queste fodere poterono essere utilizzate come
piccole coperte. Si trattava senza dubbio di una protezione miseramente
inadeguata contro temperature inferiori allo zero, ma certo erano pur sempre
meglio di niente.
Peggiore del gelo, quella notte, risultò l’atmosfera di panico e di isterismo
nell’angusta cabina passeggeri del Fairchild. Tutti erano persuasi che le
proprie ferite fossero le più gravi e si lagnavano a voce alta con gli altri. Uno
dei giovani, che aveva una gamba fratturata, inveiva urlando contro chiunque
lo avvicinasse. Diceva che gli facevano male alla gamba e imprecava per
questo, ma quando volle avvicinarsi allo squarcio per prendere un po’ di neve
con cui dissetarsi, strisciò sopra gli altri ignorando nel modo più assoluto le
loro ferite Marcelo Pérez fece tutto il possibile per calmarlo. Cercò inoltre di
calmare Roy Harley, il quale diventava isterico ogni qual volta parte della
parete provvisoria crollava.
E continuamente, dalle tenebre, salivano i gemiti, gli urli e le deliranti
farneticazioni dei feriti. Dal vano bagagli si udivano ancora i Iamenti di
Lagurara «Abbiamo superato Curicó» diceva, «abbiamo superato Curicó.» Si
lagnava chiedendo acqua e implorava che gli dessero la pistola.
Nella cabina passeggeri vera e propria, gli urli più disperati erano quelli
della señora Mariani, sempre intrappolata dalle gambe fratturate sotto i sedili.
A un certo momento fu fatto un nuovo tentativo di liberarla, ma esso risultò
impossibile. Mentre i giovani lavoravano, le grida di lei divento ancora più
acute, ed ella giurò che se l’avessero spostata ebbe morta. Rinunciarono allora
al tentativo. Due dei ragazzi, Rafael Echavarren e Moncho Sabella, le presero
la mano, cercando di confortarla, e in qualche modo vi riuscirono, ma più
tardi gli urli ricominciarono.
«Per amor di Dio, taccia!» giunsero grida dal fondo l’aereo. «Lei non è in
condizioni peggiori di tutti gli altri».
A queste parole, gli urli raddoppiarono di intensità.
«Chiudi il becco», sbraitò Carlitos Pàez, «o vengo a sfondarti la faccia con
un pugno!»
Gli strilli divennero più forti e più insistenti, poi cessarono, ma di lì a non
molto ricominciarono quando uno dei giovani ancora in stato di choc la
calpestò mentre cercava di arrivare all’uscita.
«Allontanatelo!» urlò la donna. «Allontanatelo, sta cercando di uccidermi,
sta cercando di uccidermi!»
L’«assassino», Eduardo Strauch, venne tirato giù sul pavimento da suo
cugino, ma poco dopo egli si rimise in piedi e cercò di strisciare sopra i sedili
e i corpi per trovare UN posto più caldo e più comodo in cui dormire. Questa
volta CAlpestò l’unico membro superstite dell’equipaggio (oltre a Lagurara),
Carlos Roque, il meccanico. Anche costui scambiò Eduardo Strauch per un
assassino e, con la pignoleria dei militari di carriera, gli chiese di farsi
riconoscere.
«Mi mostri i documenti!» urlò. «Si faccia riconoscere. Si faccia
riconoscere.»
Quando Eduardo non consegnò il passaporto, ma continuò strisciare sopra
Roque verso lo squarcio, il meccanico dinne isterico.
«Aiuto!» urlò. «È pazz! Sta cercando di uccidermi.» Una volta di più
Eduardo venne trascinato indietro al suo posto dal cugino.
In un altro punto dell’aereo, una seconda sagoma, quella di Pancho
Delgado, si alzò e si diresse verso l’uscita. «Faccio un salto fino all’emporio
per prendere una Coca Cola» annunciò ai suoi amici.
«Allora, già che ci sei, portami una bottiglia d’acqua minale», rispose
Carlitos Pàez.
Nonostante gli enormi disagi, alcuni dei ragazzi riuscirono a scivolare nel
sonno, ma fu una notte interminabile.
Le grida di dolore continuarono mentre uno dei giovani incespicava
contro arti fratturati per andare a prende po’ di neve con cui dissetarsi, o
mentre un altro si destava, senza capire dove si trovasse, e cercava di uscire
dall’aereo. Si levarono urli di protesta, inoltre, da coloro che erano irritati dai
belati di autocompatimento, e si ebbero battibecchi astiosi tra alcuni Vecchi
Cristiani e gli allievi del collegio gesuita del Sacro Cuore.
Quelli rimasti desti si pigiavano il più possibile gli contro gli altri, mentre
le raffiche di vento si insinuavano traverso le difese improvvisate e gli altri
squarci aperti ne fusoliera. I ragazzi vicini all’ingresso soffrivano più di tutti
gli altri; avevano le membra intorpidite dal gelo, le facce solleticate dai fiocchi
di neve che continuavano a posarsi su i loro. I giovani rimasti illesi potevano
almeno riscaldarsi in parte sferrandosi pugni a vicenda e massaggiandosi i
piedi e le dita per mantenere la circolazione del sangue. La situazione più
terribile era quella dei due Parrado e di Panchito Abal. Essi non riuscivano a
riscaldarsi e, sebbene le lesioni che avevano subito fossero tremende, soltanto
Nando era privo di sensi, ignaro delle proprie sofferenze. Abal invocava un
aiuto che nessuno era in grado di dargli: «Oh, aiutatemi, per piacere aiutatemi.
Fa così freddo, fa così freddo…» e Susana gridava continuamente alla madre
morta: «Mamma, mamma, mamma, andiamocene di qui. Torniamo a casa». In
ultimo cominciò a delirare e cantò una nenia infantile.
Nel corso della notte, il terzo studente di medicina, Diego Storm, decise
che Parrado, sebbene privo di sensi, sembrava essere ferito più
superficialmente degli altri due. Per conseguenza, ne trascinò il corpo tra il
gruppo dei suoi amici, e raggruppandoglisi attorno tutti quanti, riuscirono a
tenerlo caldo. Sembrava insensato fare la stessa cosa per gli altri due.
La notte era interminabile. A un certo momento parve a Zerbino di
intravedere la luminosità dell’alba attraverso la parete improvvisata. Guardò
l’orologio da polso: erano appena le nove di sera. Più tardi ancora, coloro i
quali si trovavano al centro dell’aereo udirono una voce straniera vicino alla
sezione di coda. Per un momento pensarono che si trattasse di un gruppo di
soccorso, ma poi capirono che era solo Susana, intenta a pregare in inglese.
6
Entro lunedì mattina, il quarto giorno, alcuni dei giovani più gravemente feriti
avevano cominciato a dar segni di miglioramento, nonostante le cure mediche
rudimentali. Molti di loro continuavano a soffrire molto, ma quasi tutte le
enfiagioni si erano ridotte, e le ferite aperte andavano rimarginandosi.
Vizintìn, del quale Canessa e Zerbino avevano temuto la morte imminente
a causa dell’emorragia, chiamò Zerbino perché Io aiutasse a uscire e a urinare
sulla neve. La sua urina risultò essere di un color bruno scuro e ciò indusse
Zerbino a dire al paziente che poteva essere affetto da un’epatite.
«Ci mancherebbe soltanto questo», disse Vizintìn, prima di tornare
zoppicando sulla cuccetta nel vano bagagli.
La guarigione di Parrado fu notevolmente rapida, nonostante le fatiche che
egli sosteneva per curare Susana. Le condizioni di lei non lo gettarono nella
disperazione. All’opposto, man mano che andava ricuperando le forze,
cresceva in lui una decisione fanatica di fuggire. Mentre quasi tutti i compagni
pensavano soltanto alla possibilità di essere soccorsi, Parrado stava
prendendo in considerazione la scelta a di tornare in qualche modo alla civiltà
con i suoi mezzi, confidò tale sua determinazione a Carlitos Pàez, anche gli
desideroso di andarsene.
«Impossibile», disse Carlitos. «Moriresti di freddo sulla neve.»
«No, se fossi abbastanza coperto.»
«Allora moriresti di fame. Non puoi scalare montagne nutrendoti con un
pezzetto di cioccolata e un sorso di vino.»
«Allora taglierò un pezzo di carne da uno dei piloti», asserì Parrado.
«In fin dei conti, sono stati loro a cacciarci questo guaio.» Le sue parole
non scandalizzarono Carlitos perché non le prese sul serio. Egli era,
comunque, uno di quelli che si preoccupavano sempre più a causa del lungo
periodo di tempo occorrente per trarli in salvo. Quattro giorni erano ormai
corsi dal momento del disastro e, a parte il biplano che aveva inclinato le ali
sorvolandoli il giorno prima, nessun in indizio stava a dimostrare che il
mondo fosse informato dell’esistenza di superstiti. Siccome l’idea di non
poter essere veduti dall’alto, o di essere stati dati per perduti, era tanto
terribile, quasi tutti i giovani la escludevano dalla propria mente. Formularono
una teoria in base alla quale erano stati avvistati, ma si trovavano troppo in
alto sulla cordillera per poter essere tratti in salvo da elicotteri; di
conseguenza, una spedizione li avrebbe raggianti per via di terra. Marcelo ne
era persuaso, così come lo credeva Pancho Delgado, uno studente di legge
che zoppicava intorno all’aereo sulla gamba valida, conversando allegramente
assieme agli altri e insistendo nel dire, con eloquenza, che Dio non li avrebbe
dimenticati nella loro critica situazione.
Quasi tutti i ragazzi erano grati a Delgado perché egli calmava il panico
che sentivano crescere dentro di loro. Si sentivano invece meno
favorevolmente disposti nei confronti del più piccolo gruppo di pessimisti (in
particolare Canessa, Zerbino, Parrado e i cugini Strauch), i quali ponevano in
dubbio l’ipotesi che i soccorsi fossero in viaggio.
«Perché», domandò Fito Strauch, «se sanno dove ci troviamo non ci
lanciano rifornimenti?»
«Perché si rendono conto che rimarrebbero sepolti nella neve e che noi
non saremmo in grado di recuperarli.»
Nessuno dei giovani aveva un’idea precisa di dove si trovassero. Nella
cabina di pilotaggio avevano trovato carte e le studiarono per ore e ore,
accalcati al riparo del vento nella fusoliera buia. Nessuno di loro sapeva
leggere le carte aeronautiche ma Arturo Nogueira, un giovane timido,
dall’indole chiusa, che si era fratturato entrambe le gambe, si autonominò
cartografo dell’intero gruppo e trovò Cuneo tra le tante cittadine e i numerosi
villaggi. Ricordavano tutti come il secondo pilota avesse detto ripetutamente
che Curicó era stata superata, e dalla carta risultava chiaramente che Curicó si
trovava molto al di là del confine del Cile, sul versante occidentale delle
Ande. Pertanto dovevano essere in qualche punto sui primi contrafforti della
catena montuosa. La lancetta dell’altimetro indicava duemilatrecento metri. A
ovest, i villaggi cileni non potevano essere molto lontani.
La difficoltà da sormontare consisteva nel fatto che ogni eventuale
sentiero diretto a ovest sembrava bloccato dalle montagne gigantesche, mentre
la valle nella quale si trovavano intrappolati era orientata ad est, verso il
cuore, ritenevano loro, della cordillera. Erano persuasi che soltanto se fossero
riusciti a scalare la montagna a ovest, fino alla vetta, si sarebbero trovati di
fronte a un panorama di verdi vallate e di fattorie cilene.
Avevano potuto allontanarsi dall’aereo soltanto fino alle nove circa del
mattino. Più tardi, se splendeva il sole, la crosta gelata si scioglieva ben presto
ed essi affondavano fino alle cosce nella neve soffice e farinosa. Ciò, fino a
quel giorno, aveva impedito loro di avventurarsi a più di pochi metri
dall’aereo, perché temevano di poter semplicemente scomparire nella neve
alta, come era accaduto a Valeta. Fito Strauch, l’inventore del gruppo, scoprì
tuttavia che i cuscini dei sedili nella cabina passeggeri, legati alle scarpe,
fungevano da passabili racchette da neve. Camminare in quel modo riusciva
difficoltoso, ma era possibile, e tanto lui quanto Canessa vollero
immediatamente incamminarsi su per la china, non soltanto allo scopo di
vedere che cosa ci fosse dall’altra parte, ma anche per accertare se qualcuno
dei loro amici (e, nel caso di Fito, un altro dei suoi cugini) vivesse ancora
dopo la caduta dell’aereo, rifugiato entro la coda del Fairchild.
Esistevano altri incentivi. Roque aveva detto loro che sulla coda del
velivolo avrebbero trovato batterie per azionare la radio VHF (Very High
Frequency, radio ad alta frequenza). Vi sarebbero potute essere, inoltre,
valigie sparse sul fianco della montagna, poiché il percorso seguito dalla
fusoliera era ancora visibile nella neve. Nelle valigie avrebbero trovato altri
indumenti.
Anche Carlitos Pàez e Numa Turcatti, tra altri, erano impazienti di scalare
la montagna, e alle sette del mattino di martedì, 17 ottobre, si incamminarono
tutti e quattro. Il cielo era sereno, ma il freddo continuava a essere intenso,
per cui la superficie della neve rimaneva solida. Con gli scarponi da rugby,
avanzarono facilmente. Canessa portava guanti che aveva ricavato da un paio
di calzini.
Camminarono per un’ora, si riposarono, poi proseguirono. L’aria era
rarefatta e la salita faticosa; man mano che il sole si alzava nel cielo, la crosta
si scioglieva ed essi dovettero legare agli scarponi i cuscini, che ben presto si
inzupparono. Per evitare che un piede urtasse contro l’altro, dovevano
camminare a gambe larghe. Nessuno di loro aveva mangiato qualcosa di
sostanzioso da quasi cinque giorni, e, di lì non molto, Canessa propose di
tornare indietro. Gli altri, di parere opposto, prevalsero, e continuarono tutti
ad arrancare, ma poco tempo dopo Fito affondò fino alla vita nella neve
sull’orlo di un crepaccio. Questo li spaventò tutti. L’aereo sotto di loro
sembrava piccolissimo nel vasto paesaggio; i ragazzi intorno alla fusoliera
erano puntolini sulla neve. Non si vedevano valigie, né alcuna traccia della
coda.
«Non sarà facile andarsene da qui», disse Canessa.
«Ma se non verranno a soccorrerci, dovremo pure andarcene», obiettò
Fito.
«Non ce la faremmo mai», disse Canessa. «Guarda come ci siamo
indeboliti senza cibo.»
«Lo sai che cosa mi ha detto Nando?» confidò Carlitos a Fito. «Ha detto
che se nessuno fosse venuto a soccorrerci avrebbe mangiato uno dei piloti per
andarsene di qui.» Vi fu silenzio; poi Carlitos soggiunse: «Quel colpo alla testa
deve averlo fatto diventare un po’ matto».
«Non lo so», disse Fito, e i suoi lineamenti franchi e seri non parvero
turbati. «Potrebbe essere il solo modo per sopravvivere.»
Carlitos non disse nulla, poi si voltarono per ridiscendere la montagna.
10
Per coloro che erano rimasti a casa, le ore immediatamente successive alle
prime notizie della scomparsa dell’aereo fu»no colmate soltanto dalla
confusione e da un’ansia disperata. Dopo i primi comunicati radiofonici i
quali annunciamo che il Fairchild aveva sostato a Mendoza (una tappa della
quale nessuno dei parenti sapeva nulla) per ripartire il giorno seguente e poi
scomparire, seguì il silenzio ufficiale, e il vuoto venne riempito da una serie di
notizie contrastanti provenienti da fonti non ufficiali. Il padre di Daniel
Fernandez apprese sabato 14 che l’aereo era stato «trovato», ancor prima di
aver saputo della sua scomparsa, in quanto non aveva ascoltato la radio la
sera prima. Altri vennero a sapere che i giovani erano arrivati sani e salvi e si
trovavano nel loro albergo a Santiago. Corse inoltre un’altra voce, secondo la
qualel’ atterraggio aveva avuto luogo non già a Santiago, ma in qualche
località nel sud del Cile.
Il mezzo mediante il quale alcune notizie vennero inizialmente diffuse e
successivamente rettificate fu una radio ricetrasmittente situata in una casa di
Carrasco. Rafael Ponce de Léon era un radio dilettante, un hobby ereditato da
suo padre, che aveva installato un’intera gamma di apparecchiature sofisticate,
compresa una potente radio trasmittente, una Collins KWM2, nello scantinato
della loro casa. Anche Rafael era un Vecchio Cristiano, amico di Marcelo
Pérez. Non aveva partecipato egli stesso al viaggio a Santiago soltanto perché
riluttante a lasciar sola la moglie, incinta da sette mesi. Su richiesta di Marcelo,
Rafael si era servito della radio per prenotare le camere ai componenti della
squadra di rugby a Santiago, chiamando un radio dilettante cileno il quale lo
aveva collegato con la rete telefonica del Cile. Più rapido e meno costoso di
una telefonata diretta, questo sistema non era strettamente legale, ma veniva
tollerato.
Quando a tarda ora del giorno 13, Rafael seppe che il Fairchild era
precipitato sulle Ande, accorse alla sua radio. Si mise in contatto con l’Hotel
Crillon di Santiago e gli fu detto che i Vecchi Cristiani erano arrivati.
Allorché, successivamente, altre notizie fecero apparire dubbia la cosa, Rafael
richiamò l’albergo e venne a sapere che soltanto due dei giocatori si
trovavano là, entrambi giunti a Santiago con voli di linea, l’uno, Gilberto
Regules, perché non era arrivato in tempo alla partenza del Fairchild, e l’altro,
Bobby Jaugust, perché suo padre rappresentava la KLM a Montevideo.
Aveva appena chiarito la falsa notizia, quando il telefono squillò
comunicandogli come la novia cilena di uno dei giovani sull’aereo avesse
parlato con i futuri suoceri, i Magri, per avvertirli che l’aereo era atterrato in
una cittadina del Cile meridionale e che tutti erano salvi. Dopo aver destato
false speranze con la notizia dell’Hotel Crillon, Rafael era deciso a controllare
quest’altra, e si mise in contatto con l’incaricato d’affari uruguayano a
Santiago, César Charlone. Charlone gli disse di ritenere la cosa improbabile;
secondo le notizie ufficiali, l’aereo continuava a risultare scomparso. Ormai la
voce del ritrovamento dell’aereo era corsa dai Magri a una metà delle famiglie
interessate. Temendo che le loro speranze potessero essere infondate, Rafael
decise di risalire alla fonte della voce, la novia di Guido Magri, María de los
Angeles. Si mise in contatto con lei mediante la sua trasmittente e le domandò
se fosse vero; Maria confessò che non si trattava della verità. La señora Magri
le era parsa così desolata al telefono, che lei le aveva raccontato quella
menzogna. «Ero tanto sicura del prossimo ritrovamento dell’aereo», spiegò,
«che le dissi ch’era già stato trovato.» Rafael registrò le sue dichiarazioni e più
tardi quella sera mandò il nastro a Radio Monte Carlo perché lo trasmettessero
con il primo notiziario. Era mezzanotte passata quando spense la trasmittente,
ma non aveva lavorato invano. Alle nove della mattina dopo, la voce non
circolava più. L’aereo non era stato trovato.
Carlos Pàez Vilaró, noto pittore e padre di Carlitos, fu il primo a giungere
al comando del SAR, a Los Cerrillos. Aveva avuto la notizia della scomparsa
dell’aereo dalla casa della sua ex moglie a Carrasco, soltanto per caso,
avendovi accompagnato la figlia il pomeriggio di venerdì, in quanto, dopo il
divorzio, i figli vivevano con la madre, Madelón Rodríguez. Si era affrettato
ad assumere tutte le informazioni possibili negli ambienti ufficiali,
dall’incaricato d’affari uruguayano a Santiago e da un ufficiale dell’aviazione
militare uruguayana che egli conosceva personalmente. Charlone, l’ncaricato
d’affari, non era stato rassicurante, e, sebbene l’ufficiale d’aviazione avesse
definito Ferradas «il migliore e il più esperto pilota» dell’arma aerea, Páez
Vilaró sapeva che il suo amico e Ferradas erano gli unici due piloti superstiti
della loro generazione, tutti gli altri essendo periti in incidenti aerei. Dopo aver
detto a Madelón che avrebbe trovato egli stesso i ragazzi, Vilaró partì per
Santiago nelle prime ore di sabato mattina. Quel pomeriggio percorse con un
DC-6 dell’aviazione militare la rotta probabile del Fairchild. Quando tornò
all’aeroporto, erano arrivati i genitori di un altro dei ragazzi e l’indomani se ne
trovavano lì complessivamente ventidue.
Di fronte a quell’invasione, il comandante Massa comunicò che non
sarebbe stato consentito ad altri genitori di volare sugli aerei impiegati nelle
ricerche, per cui essi si riunirono invece nell’ufficio di César Charlone. Là
seppero che un minatore a nome Camilo Figueroa aveva riferito alla polizia
cilena di aver veduto il Fairchild precipitare in fiamme circa centodieci
chilometri a nordest di Curicó, nella zona di El Tiburcio.
Lunedì 16, García e Massa concentrarono le ricerche su quella zona. Nulla
fu veduto durante la mattina, ma nel pomeriggio un pilota riferì da E1
Tiburcio di vedere una colonna fumo salire dalle montagne. Un volo
ravvicinato rivelò che fumo proveniva dalla capanna di un contadino.
Quello stesso giorno partirono per via di terra gruppi di ricerca formati da
carabineros (la polizia militarizzata cilena) da appartenenti al Cuerpo de
Socorro Andino, un corpo di volontari organizzato per trarre in salvo coloro
che si smarriscono sulle Ande. Questi gruppi si incamminarono da Rancagua
e si diressero verso la zona tra il Planchón e El Tiburcio, ma furono fermati
nel pomeriggio da una fitta nevicata e da una bufera di vento.
Le stesse condizioni meteorologiche impedirono anche agli aerei di
decollare il giorno dopo e l’indomani, 17 e 18 ottobre, nubi impenetrabili e
neve coprivano l’intero settore delle ricerche. Scoraggiati, alcuni dei genitori
tornarono a Montevideo. Gli altri rimasero e cominciarono a prendere in
considerazione la possibilità di organizzare una ricerca per loro conto. Non
perche ritenessero che i cileni facevano meno di quanto era possibile (anche
l’aereo gemello del Fairchild, inviato a dare man forte ai cileni dall’aviazione
militare uruguayana, era stato costretto a restare a terra dal maltempo), ma
perché si rendevano conto che il tempo stava trascorrendo e che gli esperti
non credevano affatto in una possibilità di salvezza per i loro figli. «È
impossibile», aveva detto il comandante Massa ai giornalisti. «E, se anche
qualcuno fosse ancora vivo, affonderebbe nella neve.»
Pàez Vilaró rifletté su ciò che avrebbe potuto fare di sua iniziativa. Trovò
in una libreria di Santiago un volume intitolato Le nevi e le montagne del
Cile; in esso era detto che il territorio nel quale si trovavano le montagne
Tinguiririca e Palomo apparteneva a un certo Joaquin Gandarillas. Pensando
che il proprietario del terreno doveva conoscerlo meglio d’ogni altro, Vilaró si
recò a far visita a Gandarillas, il quale lo ricevette cortesemente, ma spiegò
che la sua enorme proprietà era stata confiscata di recente in base al piano di
riforma agraria del presidente Allende. Ciò nonostante, Gandarillas conosceva
quella zona come il palmo della propria mano e, prima del termine del
colloquio, Pàez Vilaró lo aveva persuaso a partire con lui il giorno dopo per il
vulcano Tinguiririca.
Un viaggio di due giorni in automobile e a cavallo li portò sul versante
occidentale della montagna. Le tormente erano cessate, ma la neve fresca non
faceva che porre in risalto la solitudine dei luoghi. Non c’era niente da vedere,
né esseri viventi, né morti, eppure Pàez Vilaró rimase immobile a contemplare
la mole immensa della montagna e fischiò pensando che, grazie a chissà quale
magia, il suono potesse giungere fino a suo figlio. Il fischio echeggiò tra le
rocce e venne soffocato dalla neve. Non restava altro da fare che tornare
indietro.
***
Mentre Pàez Vilaró prendeva questa iniziativa per ritrovare suo figlio, altri,
nell’Uruguay, avevano fatto ricorso a sistemi di ricerca e di soccorso meno
ortodossi… tra costoro, la madre della ex moglie di lui, Madelón.
Accompagnata dal fratello di Javier Methol, Juan José, ella si recò, il 16
ottobre, da un vecchio di Montevideo, un rabdomante di professione che si
diceva possedesse facoltà di chiaroveggenza capaci di scoprire molto di più
delle sorgenti nascoste. Portarono con sé una carta delle Ande. Quando il
vecchio tenne la sua bacchetta biforcuta sopra la carta, i due la videro vibrare
e poi cadere su un punto del versante est del vulcano Tinguiririca, a circa
trenta chilometri dalla località termale di Termas del Flaco.
Madelón riferì la cosa a Páez Vilaró, nel Cile, per il tramite radio di Rafael
Ponce de Léon, ma Vilaró le disse che il SAR aveva già condotto accurate
ricerche in quella zona e che, se l’aereo era precipitato lassù, i ragazzi non
potevano assolutamente essersi salvati.
Era, questa, un’asserzione che Madelón voleva escludere dal campo delle
possibilità, e perciò ella bandì il rabdomante dalla propria mente. Eppure,
l’idea di poter essere aiutata da un chiaroveggente rimase in lei. Si recò
dall’astrologo uruguayano Boris Cristoff e gli domandò chi fosse il più abile
chiaroveggente del mondo.
«Croiset», rispose l’altro, senza esitare. «Gérard Croiset, Utrecht.»
***
Rosina Stràuch, la madre di Fito, sperava di essere aiutata da qualcun
altro. La Vergine di Garabandal, le avevano detto, era apparsa ad alcuni
fanciulli in Spagna circa dieci anni prima, un’apparizione mai accettata dal
Vaticano. Per persuadere il Papa di essere realmente apparsa, la Vergine
doveva senza dubbio voler compiere un miracolo. In tal caso quella poteva
essere l’occasione attesa, e, persuase di ciò, Rosina e altre due madri
cominciarono a pregare la Vergine di Garabandal.
Ma altre donne si erano ormai rassegnate alla perdita e pregavano per le
anime dei loro figli e per avere la forza di sopportare quel grande dolore.
Ogni speranza riusciva impossibile alla madre di Carlos Valeta, il giovane
scomparso nella neve subito dopo la caduta dell’aereo. Il pomeriggio di
venerdì ella aveva avuto una visione, dapprima di un aereo che precipitava,
poi della faccia ferita di suo figlio, poi di Carlos addormentato, e alle
diciassette e trenta era ormai certa della morte di lui. Altri genitori si
rassegnarono per ragioni diverse, basate sul convincimento che i ragazzi non
avrebbero potuto salvarsi e che sopravvivere a un disastro aereo per pacchi
giorni sulla cordillera era fuori questione.
Ciò nonostante, parenti, amici e amiche dei ragazzi gremivano ogni sera lo
scantinato di Rafael Ponce de Léon, disperatamente ansiosi di avere notizie.
***
Le ricerche del SAR vennero riprese il 19 ottobre. Continuarono per tutto
quel giorno, e il giorno successivo, fino alla mattinata del 21.
Contemporaneamente, aerei argentini effettuarono voli partendo da Mendoza.
Páez Vilaró ed altri continuarono a cercare il Fairchild con un Cessna ceduto
loro in prestito dall’Aereo Club di San Fernando. Ma, nonostante tutti questi
tentativi, non si trovò alcuna traccia dell’apparecchio.
Le ricerche erano in corso da otto giorni, due dei quali andati perduti a
causa del maltempo. Le vite degli uomini del SAR venivano poste a
repentaglio e si consumava carburante costoso per una ricerca che, come ogni
persona ragionevole poteva capire, era ormai inutile. Così, a mezzogiorno del
21, i comandanti García e Massa annunciarono: «Le ricerche del velivolo
uruguayano n. 571 cessano a causa dei risultati negativi».
Parte Terza
1
Non so che cosa potete passare tu, la mamma, papà e i bambini; non
immagini quanto mi rattristi pensare che state offrendo, e non faccio che
chiedere a Dio di rassicurarvi e di darvi coraggio, perché questo è il solo
modo di cavarsela da una simile situazione. Credo che presto vi sarà un lieto
fine per tutti.
Ti spaventerai, rivedendomi. Sono sudicio, con la barba, e un po' più
magro e ho un lungo taglio sulla testa e un altro sul petto che ormai è
guarito, nonché un taglio piccolissimo che mi sono fatto oggi lavorando
nella cabina dell'aereo, oltre a vari altri piccoli tagli sulla gamba e su una
spalla; ma, nonostante tutto, sto bene.
3
La notizia che i cileni avevano posto termine alle ricerche ei loro figli dopo
otto giorni appena, durante due dei quali Gli aerei erano rimasti a terra a causa
del maltempo, lascio sbigottiti quei genitori i quali erano ancora persuasi che i
loro figli fossero vivi. Essi si sentirono amaramente delusi per il fatto che i
cileni si erano affrettati a rinunciare con tanta disinvoltura ed esasperati contro
il loro governo perché faceva così poco. Nel Cile, Pàez Vilarò rese noto che,
dal canto suo, avrebbe continuato le ricerche; a Carrasco, Madelon Rodriguez
si mise in contatto con Gérard Croiset.
Gérard Croiset era nato nel 1910 da genitori olandesi ebrei e in gioventù
non aveva ricevuto, in pratica, alcuna istruzione. Nel 1945 fu scoperto da un
tale a nome Willem Tenhaeff, che aveva cominciato a compiere ricerche
sistematiche nel campo dei fenomeni della chiaroveggenza. Nel 1953,
all’Università di Utrecht, Tenhaeff venne nominato professore di
parapsicologia (si trattava di una cattedra che non aveva precedenti) e, cosa
ancora più stupefacente, tra la quarantina i chiaroveggenti che lavoravano con
lui si trovava Croiset.
Il maggior talento di Croiset consisteva nel ritrovamento di persone
scomparse, e per questo motivo egli era stato consultato spesso dalla polizia
olandese e da quella degli Stati Uniti. Il suo metodo era semplice: egli toccava
un oggetto appartenuto alla persona scomparsa, oppure parlava con qualcuno
degli interessati, e poi descriveva l’immagine, o la serie di immagini che gli si
formavano nella mente. Se un caso aveva una certa affinità con qualche sua
esperienza, Croiset constatava che la sensibilità psichica diveniva più acuta;
così, ad esempio, se un bambino scomparso era annegato in un canale,
diveniva più probabile che egli vedesse la scena perché nella fanciullezza per
poco non era annegato lui stesso. Non accettava mai denaro per il ricorso alle
sue facoltà, e reagiva con minor successo nei confronti di coloro che lo
interpellavano al solo scopo di ricuperare oggetti personali.
Ogni caso del quale egli si occupava veniva documentato dal professor
Tenhaeff e, dopo quasi vent’anni e parecchie centinaia di esperimenti, Croiset
aveva accumulato una serie impressionante di successi.
Madelón si recò all’Ambasciata olandese di Montevideo e, servendosi di
uno dei diplomatici come interprete, telefonò all’Istituto parapsicologico di
Utrecht. Le fu detto che Gérard Croiset si trovava in clinica ed era in
convalescenza dopo un intervento chirurgico. Ella supplicò ugualmente
affinché la facessero parlare con lui, e in ultimo venne posta in
comunicazione con il figlio, Gérard Croiset Jr., a Enschede, che aveva
trentaquattro anni e si riteneva avesse ereditato le facoltà del padre. Per il
tramite dell’interprete, il giovane Croiset chiese che gli venisse inviata una
carta delle Ande.
Madelón spedì immediatamente una carta aeronautica della zona, con un
diagramma rudimentale che indicava i corridoi aerei nel Cile e nell’Argentina.
Frecce erano state tracciate sulla carta e segnavano la rotta del Fairchild, con
un punto interrogativo sul passo del Planchon.
La volta successiva che ella telefonò al giovane Croiset, questi le disse di
essere stato in contatto con l’aereo. Uno dei motori aveva avuto un guasto,
facendo perdere quota al velivolo. Il pilota non si era trovato ai comandi, ma
il secondo pilota aveva sorvolato altre volte le Ande e ricordava una valle ove
riteneva che fosse possibile effettuare un atterraggio d’emergenza. Aveva
pertanto virato a sinistra (a sud) o forse a destra (a nord), precipitando nei
pressi di un lago che distava sessantacinque chilometri dal Planchon. L’aereo
giaceva «come un verme» e aveva il muso schiacciato. Croiset non riusciva
più a vedere i piloti, ma vedeva vita. C’erano dei superstiti.
Madelón sapeva come un chiaroveggente giapponese residente a Cordoba,
in Argentina, avesse detto che l’aereo si era diretto a sud. Le parve che ciò
decidesse a favore della direzione sud, e non nord, dal Planchon. Si recò
subito a casa di Rafael Ponce de Léon.
Anche Rafael era rimasto scandalizzato dalla sospensione e ricerche e
aveva deciso che, fino a quando uno qualsiasi genitori avesse insistito nelle
ricerche dei ragazzi, egli ebbe fatto in modo da porre a disposizione degli
intenti un’intera rete di comunicazioni. A tale scopo, si tea in contatto con
numerosi altri radioamatori del Cile, il tramite di uno di essi parlò con Pàez
Vilaró e Madelón riferì a quest’ultimo la sua conversazione con Gérard
Croiset.
La notizia secondo cui il chiaroveggente olandese aveva stabilito il
contatto psichico con l’aereo si diffuse rapidamente fra gli altri genitori.
Anche se molti di loro l’accolsero con scetticismo, specie i padri dei giovani,
venne, ciò nonostante, nominata una delegazione formata da tre di essi
affinché si presentassero al comandante in capo dell’aviazione militare
uruguayana. La delegazione chiese esplicitamente che un aereo uruguayano
venisse inviato nel Cile a cercare il Fairchild le montagne intorno a Talca, un
villaggio situato circa duecentoquaranta chilometri a sud di Santiago. A tale
richiesta opposto un rifiuto.
***
Le notizie sulla visione del giovane Croiset contribuirono molto a
risollevare il morale di Pàez Vilaró. Egli aveva sempre trovato la magia più
impressionante della scienza. Aveva inoltre sorvolato la zona ove il SAR
riteneva che il Fairchild fosse precipitato, la zona dei vulcani Tinguiririca e
Palomo e sapeva di non poter effettuare ricerche sulle montagne a
quell’altezza; ma Croiset aveva situato il luogo dell’incidente sulla pre-
cordillera, dove i monti erano assai più bassi. Una fatica d’Ercole era stata
ridotta a dimensioni che la ponevano a portata dei mortali.
Pàez Vilaró partì immediatamente per il sud e, il giorno dopo, domenica
22 ottobre, stava già sorvolando le montagne intorno a Talca con un velivolo
ottenuto dall’Aereo Club di San Fernando.
Nei giorni che seguirono, visse in una frenesia di attività, compilò un
elenco di tutti coloro che possedevano aerei privati nel Cile e chiese ai piloti
consigli che, in vari abilmente, tramutarono nell’offerta dei loro servigi. Pàez
Vilaró avrebbe potuto avere trenta aerei a sua disposizione ed esitava a
servirsene soltanto a causa della scarsità di carburante nel Cile. L’uomo che lo
avesse fatto volare sul suo aereo per un’ora sarebbe stato costretto, egli lo
sapeva, a rinunciare a servirsi dell’automobile per un mese; eppure molte
persone, sebbene personalmente persuase che i ragazzi fossero periti, fecero
questo senza chiedere alcun compenso.
Subito dopo vennero organizzati i radiodilettanti che Rafael aveva
reclutato con le sue trasmissioni da Carrasco. Molti di costoro offrirono a
Pàez Vilaró non soltanto le radiotrasmittenti, ma i loro indumenti e le loro
automobili. Ovunque egli si recasse sulle montagne, veniva seguito da una
Citroën Deux Chevaux, munita di antenne che oscillavano come quelle di una
cavalletta. L’automobile poteva, dopo soli pochi attimi di preavviso, metterlo
in contatto con Rafael a Montevideo e, per il tramite di Rafael, con chiunque
altro al mondo.
Pàez Vilaró non rimase a Talca, ma partì per parecchie spedizioni sulle
Ande, Madelón Rodríguez e la madre di Diego Storm erano arrivate a Talca, e
questo lo rese libero di attuare i propri progetti. Non si accontentò di farsi
aiutare nelle ricerche dei giovani dai ricchi cileni con i loro aerei privati; volle
far sapere a tutti i più poveri contadini, nelle valli più remote delle Ande, che
erano in corso ricerche dei superstiti. In ogni villaggio nel quale giungeva,
domandava se qualcuno avesse veduto un aereo cadere dal cielo e ascoltava i
racconti di molti episodi affascinanti ma non pertinenti. A coloro che
interrogava offriva un liquore o una tazza di caffè. Una volta prenotò quattro
camere in quattro diversi alberghi, nell’eventualità che le ricerche potessero
condurlo in una qualsiasi delle quattro direzioni. Non aveva denaro, ma i
proprietari dei ristoranti e delle locande o non volevano denaro, oppure
venivano pagati con un disegno su un piatto, su un tovagliolo o su una
tovaglia.
Egli era preceduto dalla sua fama. Ormai, quando entrava in un villaggio,
si riuniva una piccola folla e la gente gridava: «Ecco, arriva il matto che sta
cercando suo figlio!» Pàez Vilaró non se ne curava; considerava la sua
missione come un che di magico e di fantastico, un intero esercito spiegato
alla ricerca di un aereo scomparso e guidato da un veggente olandese. I
contadini lo credevano un mago perché aveva con sé la macchina fotografica
Polaroid e regalava a mini che non avevano mai veduto prima di allora una
fotografia le loro immagini.
O su aerei o a piedi, esplorò la zona situata a sessantacinque chilometri dal
corridoio aereo sopra il Planchon, ma non trovò nulla. Chiese per radio a
Rafael di telefonare ancora a volta a Croiset e di domandargli altri particolari.
Così fatto e, una notte dopo l’altra, alle due del mattino, Croiset, in pigiama,
rispose al telefono ed evocò immagini delle Ande nella propria mente.
Riuscì a dar loro altri particolari, ma gran parte di quel che vedeva
riguardava il volo dell’aereo, più che la sua posizione attuale. A varie riprese,
descrisse un uomo grasso (probabilmente il pilota) che, affetto da
avvelenamento da cibi, usciva dalla cabina e affidava i comandi al secondo
pilota. Indossava un giubbotto sportivo e giocherellava con gli occhiali. Poi
un motore dell’aereo si fermava e il secondo pilota portava il velivolo verso
una sponda, forse sul mare, forse su un lago, che ricordava per aver sorvolato
in precedenza le Ande. Riusciva a trovare un lago (o, piuttosto, un gruppo di
tre lati), e tentava l’atterraggio, ma l’apparecchio precipitava alla base di una
montagna, rimanendo nascosto da una parete di roccia strapiombante. Vicino
ad esso si trovava una montagna «senza la vetta», ed egli vedeva pericolo…
forse un cartello stradale che segnalava pericolo. Non riusciva più a scorgere
vita sull’aereo, ma forse questo significava soltanto che i ragazzi l’avevano
abbandonato per rifugiarsi nei pressi.
Ad ogni nuovo particolare, Pàez Vilaró e i suoi amici cileni ripartivano per
effettuare ricerche sulle montagne., e ormai la fiducia nella visione di Croiset
si era comunicata anche ad altri. Madelón, recatasi a Santiago, aveva persuaso
il SAR a inviare aerei sopra le montagne intorno a Talca. Il comandante
militare di Talca fece partire una pattuglia verso il Cerro Picasso (che
corrispondeva alla descrizione di una montagna senza vetta), e, per cinque
giorni, questi soldati cileni cercarono nel gelo intenso i rottami del Fairchild.
Anche alcuni sacerdoti slesiani si recarono sulle montagne e cercarono per tre
giorni tra vette inaccessibili, come una forma di «preghiera di speranza».
Non venne avvistato alcunché, e poiché i voli a bassa quota nella regione
montuosa erano pericolosissimi, il SAR sospese di nuovo le ricerche. Soltanto
elicotteri avrebbero potuto volare abbastanza in basso per vedere un aereo
seminascosto da qualche parete rocciosa, o ragazzi uruguayani rifugiatisi sotto
i pini; ma, in un periodo nel quale non si riusciva a trovare nel Cile né sapone
né sigarette, sarebbe stato praticamente impossibile ottenere elicotteri.
Per Madelón, però, questo era soltanto un ostacolo trascurabile, ed ella
decise di rivolgersi al presidente Salvador Allende in persona per essere
autorizzata a impiegare il suo elicottero privato. Prima che avesse attuato tale
proposito, però, un amico le parlò di un suo conoscente il quale noleggiava
piccoli elicotteri per irrorare disinfestanti sui raccolti o per sollevare sui piloni
i cavi dell’alta tensione e, dieci minuti dopo, si era già concordato che, non
appena quegli elicotteri fossero stati disponibili, Madelón avrebbe potuto
noleggiarli alla tariffa caritatevole di dieci dollari l’ora.
Nel frattempo, Pàez Vilaró e Rafael riconobbero, il pomeriggio del 28
ottobre, che, a parte gli elicotteri, tutto il possibile era stato fatto per accertare
se la visione di Gérard Croiset corrispondesse alla realtà.
2
Nei giorni successivi, il tempo rimase sul bello. Non vi fu furono abbondanti
nevicate e i più forti e i più energici tra diciannove superstiti poterono scavare
una seconda galleria per uscire dalla parte di coda della fusoliera. Servendosi
di badili costruiti con pezzi di lamiera o di plastica staccati dalla carcassa
dell’aereo, spezzarono la neve indurita, recuperando oggetti andati perduti
nella valanga. Pàez, ad esempio, trovò le sue scarpe da rugby.
Una volta scavata la galleria, poterono accingersi a togliere dalla cabina
passeggeri sia la neve, sia i cadaveri sepolti sotto ad essa. La neve sembrava
roccia e i loro attrezzi erano inadeguati. I cadaveri, irrigiditi nell’ultimo gesto
di difesa, taluni con le braccia alzate a proteggersi il volto come le vittime del
Vesuvio a Pompei, non erano facili a rimuoversi. Alcuni dei giovani non
riuscivano a indursi a toccare i morti, e in particolare le salme dei loro più
intimi amici, perciò legarono una delle lunghe cinghie di nylon intorno alle
spalle dei cadaveri e li trascinarono fuori.
Quelli seppelliti accanto all’ingresso furono lasciati dove si trovavano,
racchiusi nel muro di ghiaccio che proteggeva i vivi da eventuali altre
valanghe. I ragazzi accantonarono una riserva di cibo, nel caso che un’altra
valanga o una violenta tormenta avessero coperto e nascosto i cadaveri
appena trascinati fuori, poiché le vittime della caduta dell’aereo erano ormai
completamente perdute sotto la neve. Per lo stesso motivo, quando i superstiti
rientravano, la sera, lasciavano braccio o una gamba, o parte di un torace,
nella «veranda», se per caso le condizioni meteorologiche del giorno dopo
avessero impedito loro di uscire.
Occorsero otto giorni per rendere più o meno abitabile la fusoliera, ma a
entrambi i lati rimaneva una parete di neve, e lo spazio nel quale dovevano
vivere era più angusto di ma, pur tenendo conto del loro numero ridotto.
Molti evocavano con blanda nostalgia i bei tempi prima della valanga:
«Credevamo di essere sistemati male, allora, ma quali lussi e quali comodità
in confronto a questo!» La valanga aveva reso possibile un unico vantaggio:
gli indumenti in più che potevano essere tolti ai morti. Ritenendo che Dio
avrebbe li aiutati se essi stessi si fossero aiutati, i superstiti non soltanto si
dedicarono ai compiti che potevano rendere più sopportabile la loro vita
immediata, ma progettarono e prepararono la loro fuga ultima.
***
Prima della valanga, avevano deciso che un gruppo dei più robusti tra loro
si sarebbe dovuto dirigere verso il Cile. A tutta prima vi erano stati dissensi
fra coloro i quali ritenevano che un gruppo più numeroso avesse maggiori
probabilità di cavarsela e quelli persuasi invece che sarebbe stato opportuno
concentrare le loro risorse in un gruppo di sole tre o quattro persone. Quando
apparve chiaro, nelle giornate successive alla caduta dell’aereo, e in
particolare nei giorni tempestosi dopo la valanga, che le difficoltà incontrate
da qualsiasi spedizione sarebbero state enormi, il ragionamento dei sostenitori
della seconda tesi prevalse. Quattro o cinque soltanto di loro sarebbero stati
prescelti; avrebbero avuto razioni di carne più abbondanti, i posti migliori in
cui dormire, e sarebbero stati esentati dai compiti quotidiani del taglio della
carne e dello sgombero della neve, in modo che, quando fosse cominciata
infine l’estate e la neve avesse cominciato a sciogliersi, verso la fine di
novembre, si sentissero più forti, più sani, e in grado di affrontare la marcia
fino al Cile.
Il primo fattore da prendere in considerazione, nella scelta di questi
componenti del gruppo, consisteva nelle loro condizioni fisiche. Alcuni di
coloro rimasti illesi nell’incidente avevano sofferto in seguito. Gli occhi di
Zerbino non si erano ripresi del tutto dopo la scalata. Inciarte aveva foruncoli
dolorosi su una gamba. Sabella e Fernández stavano abbastanza bene, ma,
non essendo giocatori di rugby, erano meno forti e resistenti di quelli della
prima squadra o dei Vecchi Cristiani. Eduardo Strauch, robusto all’inizio, era
stato indebolito dalla ripugnanza che aveva provato nel nutrirsi con carne
umana subito dopo la valanga. La scelta dovette pertanto essere limitata a
Parrado, Canessa, Harley, Páez, Turcatti, Vizintín e Fito Strauch. Alcuni di
loro erano candidati più entusiasti degli altri. Parrado era talmente deciso a
tentate che, se non fosse stato prescelto, se ne sarebbe anche per suo conto.
Anche Turcatti riteneva fermamente di dover far parte della spedizione; i due
tentativi precedenti avevano dimostrato la sua resistenza fisica e mentale e i
ragazzi più giovani erano persuasi che, con la sua partecipazione, il tentativo
avrebbe avuto successo.
Canessa possedeva più immaginazione di alcuni dei compagni e
prevedeva i pericoli e gli stenti che avrebbero dovuto affrontare, ma riteneva
fosse suo dovere compiere il tentativo a causa della propria eccezionale forza
fisica e della propria capacità inventiva. Anche Fito Strauch si offrì
volontario, indotto a ciò da ragioni analoghe: più per un senso del dovere che
per un reale desiderio di abbandonare la sicurezza, sia pur relativa, del
Fairchild. Ma la natura intervenne a decidere per lui, in quanto, otto giorni
dopo la valanga, cominciò a essere tormentato da una forma grave di
emorroidi che lo escluse senz’altro dai candidati. I suoi due cugini furono
felicissimi che egli fosse costretto a rimanere.
Gli altri tre, Paez, Harley e Vizintìn, volevano tutti far parte della
spedizione, ma, sebbene venissero ritenuti fisicamente idonei, sussistevano
taluni dubbi per quanto concerneva la loro maturità e la loro forza d’animo.
Venne pertanto deciso che questi tre avrebbero tentato una spedizione
sperimentale della durata di un giorno. Già, dopo la valanga, erano state
effettuate alcune puntate esplorative nei pressi immediati dell’aereo. François
e Inciarte avevano scalato la montagna portandosi un centinaio di metri più in
alto e riposandosi ogni dieci passi per fumare una sigaretta. Turcatti era salito
fino all’ala con Algorta, arrampicandosi con minore energia e più fatica di un
tempo, in quanto anch’egli era stato indebolito dal disgusto nei confronti della
carne cruda.
***
Pàez, Harley e Vizintìn partirono alle undici del mattino, sette giorni dopo
la valanga, per mettere alla prova sé stessi. Si proponevano di scendere
diagonalmente la valle verso la rande montagna al lato opposto. Sembrava
essere una meta aggiungibile da quella spedizione della durata di un giorno.
I giovani indossavano due maglioni ciascuno, due paia li calzoni, e
avevano scarpe da rugby. La superficie della neve era gelata, per cui discesero
facilmente la valle, zigzagando quando il pendio era troppo ripido per
affrontarlo direttamente. Non portavano nulla che potesse ostacolarli. Dopo
aver proseguito in questo modo per un’ora e mezzo, trovarono il portello
posteriore dell’aereo e, sparpagliata più vanti, parte dell’attrezzatura della
cucina: due contenitori vuoti, in alluminio, per caffè e Coca Cola, un bidone
per i rifiuti e un barattolo di caffè solubile, vuoto tranne un residuo di polvere
rimasto nel fondo. I tre misero immediatamente un po’ di neve nel barattolo,
la fecero sciogliere come meglio potevano e bevvero l’acqua insaporita di
caffè. Vuotarono poi il bidone dei rifiuti e, con somma felicità, vi trovarono
alcuni pezzetti di dolciumi che divisero scrupolosamente in tre parti e
succhiarono, mettendosi a sedere sulla neve. Si sentirono, durante quei pochi
momenti, in estasi. Cercarono ancora, ma non riuscirono a trovare altro che
una bombola di gas, un thermos rotto e un po’ di maté. Misero il maté nel
thermos, poi ripresero il cammino.
Dopo aver disceso la valle per altre due ore, cominciarono a rendersi
conto che le distanze sono ingannevoli sulla neve e che non si trovavano
molto più vicini alla montagna di fronte a loro di quando erano partiti. La
marcia stava inoltre diventando più difficoltosa perché il sole di mezzogiorno
aveva sciolto la superficie della neve, ed essi vi affondavano ora fino alle
ginocchia. Alle tre del pomeriggio, decisero di tornare all’aereo, ma, mentre
cominciavano a ripercorrere i loro passi, scoprirono ben presto che salire su
per la montagna era molto più difficoltoso di quanto lo fosse stato scenderla.
Nuvole minacciose avevano oscurato il cielo e alcuni fiocchi di neve
cominciarono a cadere e a turbinare intorno a loro nel vento.
Raggiunsero il punto nel quale avevano lasciato il barattolo di caffè e di
nuovo si ristorarono con acqua dal lieve sapore di caffè solubile. Roy e
Carlitos presero i due contenitori della cucina, rendendosi conto che
sarebbero stati utili per fare sciogliere la neve, ma poi constatarono che erano
troppo pesanti e li gettarono via. Vizintìn, però, non volle separarsi dal grosso
bidone per i rifiuti e se ne servì come di una sorta di bastone per spingersi in
su sulla montagna.
L’ascesa divenne eccezionalmente difficile. Continuavano ad affondare
nella neve fino alle ginocchia, i pendii erano più ripidi, i fiocchi leggeri si
tramutarono in una fitta nevicata, e tutti e tre si sentirono stanchissimi. Roy e
Carlitos rasentavano il panico. Nelle confuse prospettive del paesaggio
coperto di neve, non avevano la più pallida idea della loro distanza dal
Fairchild, non sapevano se l’aereo fosse vicino o lontano. C’erano
ondulazioni sul fianco della montagna e ogni volta, superandone una, si
aspettavano di vedere il Fairchild, ma non lo trovavano mai, e ad ogni
delusione il loro morale crollava. Roy cominciò a piangere e Carlitos, in
ultimo, si afflosciò sulla neve. «Non ce la faccio a proseguire», disse. «Non
posso, non posso. Abbandonatemi. Continuate voi. Lasciatemi qui a morire.»
«Su, vieni, Carlitos», disse Roy, tra le lacrime. «Per amor di Dio, prosegui!
Pensa alla tua famiglia… a tuo padre… a tua madre…»
«Non posso… non posso muovermi…»
«Alzati, femminuccia», disse Vizintìn. «Creperemo tutti sgelati se restiamo
qui.»
«E va bene, sono una femminuccia. Sono un vigliacco. Lo ammetto.
Proseguite voi.»
Ma non volevano abbandonarlo. Lo sottoposero a un bombardamento di
esortazioni e di insulti, e in ultimo riuscirono a farlo rimettere in piedi.
Salirono ancora un po’, fino alla sommità di un’altra ondulazione, ma, di
nuovo, non videro l’aereo.
«Quanto dista ancora?» domandò Carlitos. «Quanto è lontano, ancora?»
Poco dopo, si afflosciò di nuovo sulla neve.
«Continuate voi», disse. «Io vi raggiungerò tra un minuto.» Ma, ancora,
Vizintìn e Harley non vollero abbandonarlo una volta di più, lo insultarono e
lo supplicarono finché non si fu rialzato e non ebbe ripreso a camminare nella
neve accecante.
Tornarono all’aereo dopo il tramonto del sole. Gli altri ragazzi erano
entrati e li stavano aspettando ansiosamente. Quando i tre rotolarono giù per
la galleria entro il Fairchild, completamente esausti, Carlitos e Roy in lacrime,
divenne chiaro a tutti che il cimento era stato terribile e che qualcuno di loro
non aveva resistito.
«Era impossibile», disse Carlitos. «Era impossibile e io mi sono lasciato
cadere sulla neve, ho desiderato di morire e ho pianto come un bambino.»
Roy rabbrividì, pianse, e non disse nulla.
Gli occhi piccoli e ravvicinati di Vizintìn erano completamente asciutti. «È
stato duro», egli disse, «ma possibile.»
Così Vizintìn divenne il quarto componente della spedizione. Carlitos ritirò
la propria candidatura dopo quella prima esperienza, e Parrado disse a Roy
che non avrebbe potuto andare con gli altri perché piangeva troppo, al che
Roy scoppiò in lacrime. Ma era deluso soltanto perché credeva che Fito si
sarebbe recato in cerca di soccorsi. Lo conosceva da quando erano bambini, e
al suo fianco si sentiva al sicuro. Ma quando a Fito vennero le emorroidi ed
egli dovette rinunciare a prendere parte alla spedizione, Roy fu felicissimo di
essere tra coloro che sarebbero rimasti nella fusoliera.
***
I quattro componenti della spedizione, una volta scelti, divennero una
classe di guerrieri i cui particolari doveri davano loro diritto a speciali
privilegi. Ottennero tutto ciò che avrebbe potuto migliorarne le condizioni
fisiche e spirituali. Mangiavano più carne degli altri e sceglievano i pezzi che
preferivano. Dormivano dove, come e quanto volevano. Nessuno pretendeva
più che sbrigassero i compiti quotidiani, il taglio della carne e le pulizie
nell’aereo, sebbene Parrado e, in minor misura, Canessa continuassero a
lavorare. E, come essi venivano coccolati fisicamente, lo erano anche
moralmente. I giovani recitavano ogni sera preghiere per la loro salute e il
loro benessere e ogni conversazione che si svolgesse alla loro presenza aveva
un tono ottimistico. Se anche Methol riteneva che l’aereo fosse precipitato nel
cuore delle Ande, si guardava bene dal dirlo a uno dei componenti della
spedizione. Quando si parlava con loro della situazione in cui si trovavano, il
Cile distava appena due o tre chilometri e si stendeva al di là della prima
montagna.
Era inevitabile, forse, che i quattro approfittassero, in una certa misura, di
questa posizione privilegiata e che ciò causasse del risentimento. Sabella
dovette sacrificare il suo secondo paio di calzoni per cederlo a Canessa;
François aveva un solo paio di calzini, mentre Vizintìn ne possedeva ben sei.
Pezzi di grasso accuratamente estratti dalla neve da qualche ragazzo affamato
venivano requisiti da Canessa, il quale diceva: «A me servono per
rinforzarmi, e se non mi rinforzo non riuscirete mai ad andarvene da qui».
Parrado, però, non approfittava in alcun modo della propria posizione, e
neppure ne approfittava Turcatti. Entrambi lavoravano duramente come prima
e, come prima, erano sereni, affettuosi, ottimisti.
I componenti della spedizione non venivano considerati i capi del gruppo,
ma costituivano una casta a sé, ed erano separati dagli altri dai loro privilegi e
dalle loro preoccupazioni. Sarebbero potuti diventare una oligarchia se i loro
poteri non fossero stati limitati dal triumvirato dei cugini Strauch.
Tra tutti i sottogruppi di amici e parenti esistiti prima della langa, il loro
era l’unico a sopravvivere intatto. Il gruppo di ragazzi più giovani aveva
perduto Nicolich e Storm; Canessa aveva perduto Maspons; Nogueira aveva
perduto Platero; Methol sua moglie. E inoltre era scomparso Marcelo, il capo
che essi avevano ereditato dal mondo esterno.
Gli stretti rapporti di parentela tra Fito Strauch, Eduardo Strauch e Daniel
Fernández facevano sì che essi godessero un vantaggio immediato su tutti gli
altri nel resistere non già alle sofferenze fisiche, ma a quelle mentali causate
dal loro isolamento tra le montagne. Essi possedevano inoltre doti realismo e
di praticità assai più utili, in una situazione così brutale, dell’eloquenza di
Pancho Delgado o dell’indole buona e gentile di Coche Inciarte. La
reputazione che si erano conquistati, Fito soprattutto, durante la prima
settimana per quanto concerneva la loro capacità di far fronte a realtà ingrate e
prendere decisioni sgradevoli, aveva ottenuto loro il rispetto di quei giovani le
cui vite erano state salvate in tal modo. Fito, il più giovane dei tre, era anche il
più rispettato, non soltanto per le sue opinioni giudiziose, ma per il modo con
il quale era riuscito a organizzare il salvataggio dei compagni intrappolati dalla
valanga nei momenti di maggiore isterismo. Il suo realismo, oltre alla sua
salda fede nella salvezza finale, inducevano molti dei giovani a riporre in lui
tutte le loro speranze, e Carlitos e Roy proposero che venisse nominato capo
al posto di Marcelo. Ma Fito rifiutò questa supremazia offertagli. Non esisteva
alcuna necessità di istituzionalizzare l’ascendente dei cugini Strauch.
Tra tutti i lavori che bisognava sbrigare quello di tagliare i carne dai
cadaveri dei defunti amici era il più difficile e sgradevole, ed esso veniva
eseguito da Fito, Eduardo e Daniel Fernández. Si trattava di un lavoro orribile,
che anche i più coriacei, come Parrado o Vizintìn, non riuscivano a indursi a
compiere. I cadaveri dovevano anzitutto essere disseppelliti dalla neve,
affinché sgelassero al sole. Il freddo li aveva conservati come erano stati al
momento della morte. Se gli occhi restavano aperti, si poteva chiuderli, in
quanto riuniva difficile fare a pezzi un amico sotto il suo sguardo vitreo, pur
essendo certi che l’anima di lui se ne fosse andata a un pezzo.
Gli Strauch e Fernández, spesso aiutati da Zerbino, staccavano grossi
brandelli di carne dal cadavere; essi venivano poi passati a un altro gruppo,
che li divideva in pezzi più piccoli servendosi di lamette da rasoio.
Quest’ultimo lavoro non era tanto sgradito, poiché, una volta staccata la carne
dai cadaveri, riusciva più facile dimenticare che cosa fosse.
La carne era severamente razionata, e anche a questo provvedevano i due
Strauch e Daniel Fernández. La razione base, distribuita a mezzogiorno, non
ammontava a un granché e si aggirava sui duecento grammi, ma tutti
riconoscevano che chi lavorava poteva averne di più perché con le sue fatiche
consumava maggiori energie, e che i componenti della spedizione avevano
diritto quasi a tutto ciò che volevano. Un cadavere veniva sempre sfruttato
completamente prima di passare a quello successivo.
Per necessità di cose, i giovani avevano finito con il mangiare quasi ogni
parte del corpo. Canessa sapeva che il fegato conteneva riserve di vitamine;
per tale motivo, se ne cibava egli stesso e incoraggiava gli altri a fare
altrettanto. Continuarono tutti a nutrirsene finché il fegato non venne messo
da parte per i componenti della spedizione. Una volta sormontata la
ripugnanza per quanto concerneva questa parte del corpo, fu più facile
passare al cuore, ai reni e agli intestini. Fare una cosa simile parve loro meno
straordinario di quanto sarebbe potuto sembrare a un europeo o a un
nordamericano, perché era un’abitudine assai diffusa nell’Uruguay gustare gli
intestini e le glandole linfatiche dei manzi agli asados.
Gli strati di grasso ricavati dai cadaveri venivano fatti seccare al sole
finché si formava una crosta, e poi venivano mangiati da tutti. Erano una
fonte di energia e, sebbene non fossero apprezzati quanto la carne, non
rientravano nel razionamento, come del resto i diversi brandelli delle carcasse
precedenti che, abbandonate sulla neve intorno all’aereo, potevano essere
saccheggiate da chiunque. Ciò contribuiva a riempire lo stomaco di chi aveva
fame, poiché soltanto i futuri partecipanti alla spedizione potevano mangiare
carne a sazietà. Gli altri erano continuamente avidi di averne di più, ma si
rendevano conto dell’importanza del razionamento. Soltanto i polmoni, la
pelle, la testa e gli organi genitali dei cadaveri venivano scartati.
Esistevano regole ben precise, ma, al di fuori di tali regole, vigeva un
sistema non ufficiale e tollerato di furtarelli da parte degli Strauch. Ecco
perché il compito di tagliare i pezzi più grossi era tanto ambito; di tanto in
tanto era possibile cacciarsi in bocca un piccolo brandello di carne. Tutti
coloro che tagliavano la carne si comportavano in questo modo, anche
Fernández e gli Strauch, e nessuno protestava, purché non si esagerasse. Un
pezzo cacciato in bocca ogni dieci tagliati per gli altri costituiva la misura più o
meno normale. Mangino, a volte, aumentava la proporzione arrivando a un
brandello di carne ogni cinque o sei fette, e Páez si spingeva addirittura sino a
uno ogni tre, ma essi non riuscivano a nascondere quello che facevano, e
desistevano quando gli altri protestavano ad alta voce.
Questo sistema, come una costituzione valida, era equo in teoria e
abbastanza flessibile per tener conto delle debolezze della natura umana, ma
ad andarci di mezzo erano coloro che o non potevano o non volevano
lavorare. Echavarren e Nogueira rimanevano imprigionati nella fusoliera a
causa delle gambe fratturate, gonfie, infette e cancrenose, e solo di quando in
quando riuscivano a trascinarsi giù dalle amache e a strisciar fuori per
defecare o per far sciogliere neve ricavandone acqua potabile. Essi non
potevano in alcun nodo tagliare carne né frugare nella neve in cerca di altri
resti. Anche Delgado aveva una gamba fratturata, e la gamba di Inciarte era
infetta. Methol continuava a soffrire di mal li montagna. François e Roy
Harley erano a loro volta invalidi, in un certo qual modo; non fisicamente, ma
spiritualmente. Sarebbero stati in grado di lavorare e invece lo choc della
valanga seguito dal fallimento della spedizione di prova sembrava aver
distrutto in loro ogni senso, ogni scopo. Essi si limitavano pertanto a starsene
seduti al sole.
Chi lavorava, provava ben poca compassione per gli altri, giudicati dei
parassiti. In una situazione di estremo pericolo come quella, il rimanere in
letargo sembrava criminoso. Vizintìn riteneva che a chi non lavorava non si
dovesse dar niente da mangiare finché non si fosse deciso a essere attivo. Gli
altri si rendevano conto di dover mantenere in vita i loro compagni, ma non
vedevano alcun motivo per fare di più. Erano crudeli, inoltre, nel giudicare le
condizioni di quelli che, secondo loro, erano dei simulatori. Alcuni ritenevano
che Nogueira non avesse le gambe fratturate e che egli si limitasse a
immaginare le sue sofferenze. Pensavano inoltre che Delgado esagerasse il
dolore causatogli dal femore fratturato. Anche Mangino, in fin dei conti, si era
rotto una gamba, eppure riusciva a lavorare tagliando la carne. Tutti quanti
rispettavano ben poco il mal di montagna di Methol o i piedi congelati di
François. Ne conseguiva che il solo supplemento alla razione dei «parassiti» lo
fornivano le cellule dei loro stessi organismi.
Alcuni dei ragazzi continuavano a trovare difficile nutrirsi con carne
umana cruda. Mentre gli altri ampliavano il limite di quello che riuscivano a
mandar giù, includendovi il fegato, il cuore, i reni e gli intestini dei morti,
Inciarte, Harley e Turcatti recalcitravano ancora dinanzi alla rossa carne dei
muscoli. Riusciva loro facile mangiare soltanto quando la carne veniva cotta;
e tutte le mattine Inciarte sbirciava Paez, assegnato a tale incarico, e
domandava: «Carlitos, cuciniamo oggi?»
Carlitos rispondeva: «Non lo so; dipende dal vento».
Riuscivano infatti ad accendere il fuoco soltanto se il tempo era bello. Ma
entravano in gioco anche altri fattori. La provvista di legno era limitata;
quando ebbero bruciato tutte le casse di Coca Cola, rimasero soltanto sottili
strisce di legno che formavano in parte la parete divisoria nella fusoliera.
Inoltre bisognava tener conto della tesi di Canessa, secondo il quale le
proteine venivano distrutte da temperature elevate, e di quella di Fito,
persuaso che la carne abbrustolita si restringesse, per cui restava meno da
mangiare. Di conseguenza, cucinare era consentito soltanto una o due volte
alla settimana, quando il tempo lo permetteva, e in quelle occasioni i meno
schizzinosi si limitavano per consentire agli altri di mangiare di più.
3
Nei dieci giorni che trascorsero tra la scelta dei quattro componenti della
spedizione e il 15 novembre, la data entro la quale i superstiti speravano nella
cessazione del freddo, i diciannove sopravvissuti migliorarono sia come
gruppo, sia individualmente.
Parrado, ad esempio, che prima dell’incidente era stato un aspirante
playboy goffo e timido, veniva adesso considerato un eroe. Il suo coraggio, la
sua forza d’animo e il suo altruismo facevano sì che fosse amato più d’ogni
altro. Egli era sempre il più deciso a sfidare le montagne e il gelo e a
incamminarsi verso la civiltà; per questo motivo, coloro i quali erano più
giovani, più deboli, o meno decisi, riponevano lui una fiducia cieca. Parrado
li consolava, inoltre, quando piangevano e si addossava gran parte delle
fatiche più noiose torno all’aereo, quelle dalle quali, come partecipante alla
spedizione, era ufficialmente esonerato. Non proponeva mai la linea d’azione
senza offrirsi spontaneamente, al contempo, di attuarla. Una notte, quando
parte della parete protetta venne demolita da un vento impetuoso, fu Parrado
a strisciare fuori di sotto le coperte per ricostruirla. Allorché rientrò nella
fusoliera, era talmente gelato che chi dormiva accanto a lui dovette sferrargli
pugni e massaggiargli tutto il corpo per riattivare la circolazione del sangue;
eppure, quando, mezz’ora dopo, la parete cadde una seconda volta, fu di
nuovo Parrado ad alzarsi e a ricostruirla.
Aveva soltanto due punti deboli. Il primo consisteva nella cocciuta
decisione di andarsene. Se avesse potuto fare a modo suo, sarebbe partito
subito dopo la valanga, senza alcun adeguato preparativo. Si mostrava
paziente con i suoi simili, a impaziente con le circostanze; non riusciva a
valutare con distacco, come Fito Strauch, la situazione. Se gli avessero
consentito di partire quando voleva lui, non si sarebbe mai salvato.
L’altro suo difetto consistenza nell’irritazione causatagli da Roy Harley. Lo
esasperava il fatto che un giovane dal fisico sano e robusto dovesse essere
continuamente in lacrime. Eppure i loro compagni, ugualmente demoralizzati
dalla tragicità della situazione, trovavano in Parrado il maggior motivo di
conforto. Egli era semplice, affettuoso, equanime, ottimista e di buon
carattere. Di rado, se non mai, imprecava, e tutti avrebbero voluto dormire
accanto a lui.
Subito dopo Parrado, il più ben voluto dei giovani era Numna Turcatti.
Aveva un corpo piccoletto, ma muscoloso, che sin dall’inizio era stato posto al
servizio della causa comune. Le spedizioni tentate prima della valanga lo
avevano indebolito e quando Algorta era salito assieme a lui fino all’ala del
Fairchild, aveva notato come Numa non possedesse più l’energia di un
tempo. Inoltre, la carne cruda continuava a ripugnargli. Poiché, prima della
partenza da Montevideo, aveva conosciuto pochi dei ragazzi, ciò costituiva la
prova della sua forza d’animo, della sua semplicità e di una assoluta incapacità
di cattiveria, per cui si era meritato l’affetto e il rispetto di tutti loro. I ragazzi
erano persuasi che se lui e Parrado avessero tentato una spedizione, sarebbero
riusciti.
Gli altri due che avrebbero dovuto prendere parte a quest’ultima, non
erano altrettanto amati. Si riconosceva che Canessa aveva avuto buone idee,
come quella di fare le coperte e di costruire le amache che tanto avevano
contribuito a migliorare le condizioni di vita all’interno della fusoliera. Egli
possedeva cognizioni in fatto di proteine e vitamine ed era stato un energico
fautore della necessità di nutrirsi con la carne dei cadaveri. D’altro canto, la
sua rinomanza di abile «medico», così grande allorché aveva operato Platero,
era diminuita da quando, essendosi egli deciso a incidere uno dei foruncoli
sulla gamba di Inciarte, vi era stato un peggioramento dell’infezione.
Ma ciò che rendeva difficile vivere con lui era la personalità di Canessa.
Nervoso e teso, egli dava in escandescenze alla minima provocazione e urlava
imprecazioni e insulti con la sua voce acuta. Spasmodicamente coraggioso e
altruista, accadeva molto più di frequente che si spazientisse e desse prova di
cocciutaggine. Il nomignolo di «Muscoli» gli era stato dato non per la sua
forza fisica, ma per l’ostinazione del carattere. Sul campo di rugby, ciò
portava a un gioco caratterizzato da idiosincrasie; sull’aereo significava che
egli passava addosso ai corpi dei compagni addormentati per andare ove più
gli piacesse. Faceva quello che voleva, e nessuno poteva impedirglielo.
Soltanto Parrado aveva un certo ascendente su di lui. Quanto agli Strauch,
avrebbero potuto dominarlo in una certa misura, ma non volevano irritare un
componente della futura spedizione.
Vizintìn non era dogmatico e prepotente come Canessa, ma dimostrava di
essere ancora più egocentrico e questo difetto non veniva compensato in lui
da doti di inventività e ingegnosità. Possedeva coraggio, come aveva
dimostrato durante la spedizione di prova, ma nell’aereo il suo
comportamento era viziato e infantile. Litigava con tutti, in particolare con
Inciarte e Algorta, e il solo lavoro che sbrigasse consisteva nello sciogliere un
po’ di neve per sé e nel fare poche piccole altre cose cui era personalmente
interessato; con il rivestimento dei sedili, confezionò guanti per tutti coloro
che avrebbero partecipato alla spedizione, e costruì parecchie paia di occhiali
da sole. Durante la notte piangeva pensando a sua madre.
Soltanto Canessa riusciva a dominare in qualche modo Vizintin, che però
riusciva simpatico a Mangino. Si sarebbe detto che i tre ragazzi più suscettibili
e aggressivi, tutti diciannovenni, avessero formato una piccola associazione.
Mangino si sentiva isolato; anche lui, come Turcatti, non aveva conosciuto
molti dei ragazzi in passato, ed ora non provava alcun ritegno nel dire loro di
andare all’inferno. Nei giorni immediatamente successivi alla caduta
dell’aereo era stato egoista e isterico, ma poi aveva finito con il lavorare più di
quasi tutti gli altri a favore del gruppo, e alcuni degli altri (in particolare
Canessa e Eduardo Strauch) si sentivano protettivi nei suoi riguardi.
Anche nel caso di Bobby François si riteneva che la gioventù giustificasse
i difetti, il più grave dei quali era l’abulia. Si sarebbe detto che egli fosse
venuto al mondo privo dell’stinto di autoconservazione; sin dal momento
dell’incidente, quando si era messo a sedere sulla neve e aveva acceso una
sigaretta dicendo con noncuranza «Siamo stati fregati», Bobby aveva
continuato a comportarsi come se non valesse la pena di lottare per
sopravvivere. Era sempre stato un ragazzo pigro, anche prima della partenza
per il Cile, il nomignolo datogli dai suoi compagni era «Fatty» (Bombolo),
ma, nella situazione in cui si trovavano adesso, la pigrizia equivaleva al
suicidio, e, se egli fosse stato abbandonato a sé stesso, senza alcun dubbio
sarebbe morto. Non lavorava, e ne stava seduto al sole e faceva sciogliere
neve per ricavarne acqua quando vi era costretto; altrimenti si massaggiava i
piedi, colpiti da un grave congelamento a causa della valanga. Durante la
notte, quando la coperta gli scivolava di dosso, non riusciva a trovare in sé
stesso l’energia per tornare a coprirsi; doveva pensarci qualcun altro. A un
certo momento Daniel Fernández fu costretto a massaggiargli i piedi per
impedire la cancrena.
Giunse un periodo in cui l’abulia di Bobby esasperò a tal punto i cugini,
che essi pensarono di costringerlo a lavorare. Per conseguenza gli dissero che,
se non si fosse dato da fare, non avrebbe più avuto cibo. Bobby si limitò a
stringersi nelle spalle, li guardò luttuosamente con i suoi grandi e begli occhi e
disse: «Sì, questo è abbastanza giusto». Ma quel mattino lavorò assai poco,
come sempre, e allorché giunse mezzogiorno, l’ora alla quale venivano
distribuite le razioni, non prese il proprio piatto e non si unì alla coda.
Sembrava essergli del tutto indifferente se fosse vissuto o se fosse morto, e lo
si sarebbe detto soddisfattissimo che fossero gli altri a decidere per lui. Ma i
suoi compagni non erano disposti a far questo. Il loro «incentivo» non aveva
avuto successo. Bobby ottenne ugualmente la razione.
Tra i ragazzi un po’ più avanti negli anni e più robusti, Eduardo Strauch
era come Parrado, buono con i giovani e con i deboli: con Mangino, con
François e con Moncho Sabella. Sebbene illeso, Moncho sembrava essere più
debole di quasi tutti gli altri e avere un’indole nervosa. Si era comportato bene
nel momento del disastro (Nicolich riteneva che gli avesse salvato la vita) e gli
sarebbe piaciuto dimostrarsi pari a tutti gli altri in fatto di coraggio e di dure
fatiche, ma non ne aveva la forza. Divenne uno del coro, uno di coloro che se
ne stavano seduti al sole, fumando, chiacchierando e facendo sciogliere la
neve, mentre gli altri dominavano al centro del palcoscenico.
Anche Javier Methol faceva parte del coro. Il mal di montagna, dal quale
era sempre affetto, continuava a stordirlo. Parlava molto, ma balbettava e non
completava mai le frasi. I ragazzi, i quali erano tutti di almeno dieci anni più
giovani, tendevano a considerarlo una figura buffa. Lo chiamavano «Dumbo»
(Tonto) perché egli aveva detto loro che questo era stato il suo nomignolo da
bambino, e ridevano di lui quando camminava pesantemente sulla neve. Gli
combinavano scherzi, che lui assecondava, esagerando la propria insipienza
perché sapeva che questo divertiva i giovani e ne teneva alto il morale. Ad
esempio, qualcuno di loro sosteneva che Dumbo non aveva mai mangiato un
cannolo alla crema (ensaimade), e allora Methol si lanciava in una prolissa e
pedante descrizione.
Proprio quando stava per terminare, un secondo ragazzo si avvicinava e
domandava: «Di che cosa stai parlando, Dumbo?»
«Sto descrivendo un cannolo alla crema.»
«Un cannolo alla crema? Che cos’è?»
«Non lo sai? Bè, è rotondo, lungo press’a poco cosi…» ed eccolo lanciarsi
in una seconda descrizione. Ma, quando era sul punto di concludere,
sopraggiungeva un terzo ragazzo che, a sua volta, sosteneva di non aver mai
mangiato un cannolo alla crema.
La specialità di Methol consisteva nel raschiar via il grasso dalla carne e
nel tenerlo da parte come lassativo. Spettava inoltre a lui il compito di affilare
i coltelli, sia sfregandone le lame le une contro le altre, sia passandole su e giù
su una roccia. Costruì occhiali dapprima per Canessa e poi per se stesso,
servendosi di pezzi di plastica e di perspex recuperati nella cabina di
pilotaggio. Tutti notarono, mentre era impegnato in questo lavoro, che ritagliò
una sola lente di perspex. I ragazzi si resero così conto per la prima volta che
egli ci vedeva soltanto da un occhio.
Methol consolava i ragazzi quando erano infelici. Altrettanto faceva Coche
Inciarte, il quale era benvoluto nel gruppo come Parrado e Turcatti. Questi
ultimi, però, dovevano far parte della spedizione e perciò consideravano gli
altri con un certo distacco, mentre Coche poteva capire le debolezze altrui,
essendo debole egli stesso. Aveva lavorato alquanto, finché non gli si era
infettata la gamba, ma di recente non faceva più nulla. Non si curava del fatto
che la sua razione era più piccola perché la carne non gli piaceva cruda. Non
pensava mai alla situazione critica nella quale ano venuti a trovarsi, ma
trascorreva le giornate sognando la vita di un tempo a Montevideo. Sebbene
gli altri fossero spesso esasperati dalla sua inattività, egli riusciva troppo
simpatico a tutti perché potessero adirarsi. Coche aveva un’indole
estremamente aperta e franca: era buono, dolce, si esprimeva in tono mite e
con arguzia. Nessuno riusciva a evitare i suoi occhi candidi e sorridenti, anche
se lo scopo dei loro sguardi era quello di scroccare una sigaretta o un pezzo di
carne in più.
Pancho Delgado, d’altro canto, sebbene non fosse parassita più di Inciarte,
non aveva il vantaggio della candida personalità di quest’ultimo, né della sua
lunga amicizia con Fito Strauch. Era un ragazzo dal fascino e dall’eloquenza
considerevoli e fino a quel momento se l’era cavata bene nella vita grazie a tali
doti. I Sartori, ad esempio, un tempo contrari al suo fidanzamento con la loro
figliola, erano stati conquistati dai mazzi di fiori e dai doni che egli portava
sempre quando si recava a casa loro.
Sulla montagna non c’erano fiori e il fascino e l’eloquenza non erano le
doti che venissero ricercate in una situazione di estremi disagi. In effetti,
l’eloquenza di Delgado agiva adesso a suo sfavore. Il piccolo gruppo di
superstiti non gli perdonava il troppo facile ottimismo; egli era uno dei più
anziani e avrebbe dovuto essere abbastanza assennato per non destare le loro
speranze senza buone ragioni. E così, quando diceva di non essere in grado di
lavorare a causa della gamba, alcuni non gli credevano e lo consideravano un
simulatore.
Si trattava di uno stato d’animo pericoloso. Ogni gruppo di persone in
difficoltà cerca sempre un capro espiatorio, e Delgado era un probabile
candidato. Il solo che gli fosse amico da tempo era Numa Turcatti, troppo
nobile d’animo per rendersi conto di quello che stava accadendo. Tutti gli altri
che non lavoravano erano in qualche modo protetti: Methol dal suo stato;
Mangino, Sabella, Harley e François dalla loro gioventù; Inciarte dal buon
carattere. Inoltre, Inciarte non pretendeva di essere niente di più di quello che
era, mentre Delgado aveva già una mentalità da avvocato. Giocava la vita
come se si fosse trattato di una partita a poker, ma non si rendeva conto che in
quel momento disponeva di pessime carte. Si sentiva debole perché aveva
fame, ma, unico tra i diciannove sopravvissuti, non poteva far conto su
protettori e amici disposti a rubare per lui. Era una situazione destinata a
peggiorare.
***
Gli effetti della spedizione di prova su Roy Harley e su Carlitos Pàez
furono l’opposto di quanto ci si sarebbe potuti aspettare. Roy, che si era
comportato meglio di Carlitos, cominciò a declinare. L’essere stato scartato
come partecipante alla futura spedizione lo indusse a pensare di aver deluso
compagni e perciò, venendo così subito dopo la morte del suo amico
Nicolich, fu deleterio per la sua mente come lo sarebbe stato un osso
scheggiato per il suo corpo. Diventò ipersensibile, piangeva se qualcuno gli
parlava in tono aspro, e si esprimeva con un piagnucolio acuto, come un
bambino pedante. Era pigro ed egoista, e soltanto le imprecazioni e i
maltrattamenti di tutti riuscivano a indurlo a fare qualcosa.
Carlitos, d’altro canto, reagì nel modo opposto. La femminuccia viziata e il
codardo autoconfesso divenne un individuo sempre più responsabile e
disposto a lavorare duramente. Egli non soltanto aiutava ora a tagliare la
carne, ma si era assunto il compito di chiudere l’ingresso alla fusoliera ogni
notte.
Aveva qualità contrastanti. Era prepotente, litigioso e rubacchiava più
d’ogni altro; ciò nonostante, la sua nuova personalità contribuì in misura
eccezionale a tenere alto il morale del gruppo. Sebbene fosse il più giovane,
era robusto e aveva una voce rauca come quella di un gigantesco orsacchiotto
di stoffa. Il suo modo di pensare era ingenuo, le sue asserzioni avevano un
che di pomposo, e inoltre egli si comportava spesso in modo irresponsabile
(perdeva accendini e coltelli nella neve) eppure, sulla montagna come a
Montevideo, il solo pensare a Carlitos faceva affiorare un sorriso lille labbra.
Pàez faceva sorridere gli altri non tanto perché le sue battute fossero spiritose
quanto perché tutta la sua personalità aveva un effetto comico. Si trattava di
un talento importante a possedersi, perché esisteva ben poco d’altro che stesse
divertirli.
Carlitos Pàez si trovava in seconda fila nell’ordine gerarchico del potere.
Insieme con Algorta e Zerbino, era l’aiutante di Daniel Fernàndez e dei cugini
Strauch. I tre potevano essere considerati i sottufficiali che ricevevano gli
ordini dall’alto e li trasmettevano ai subordinati. Gustavo Zerbino, in
particolare, tendeva ad adulare i ragazzi più anziani e a fare il prepotente con i
più giovani, sebbene, avendo diciannove anni, fosse egli stesso uno dei più
giovani del gruppo. Era affettuoso, ma nervoso. Al pari di Canessa, perdeva
facilmente il controllo e si lasciava andare a furie isteriche se, ad esempio,
qualcuno occupava il suo posto, nella fusoliera, di fronte a Daniel Fernández.
Aveva finito, infatti, con l’affezionarsi particolarmente a Fernández. Se
quest’ultimo gli chiedeva un paio dei suoi pantaloni, lui glielo dava; se
Vizintìn, prescelto per fare parte della futura spedizione, gli rivolgeva la stessa
richiesta, Zerbino diceva: «Va all’inferno, sudicione. Trovateli per tuo conto, i
calzoni».
Zerbino si impegnò con Fernández a raccogliere e a custodire tutto il
denaro e tutti i documenti di coloro che erano periti. Si assunse inoltre il
compito di indagare su ogni misfatto, come, ad esempio, i cambiamenti di
posto durante la notte. Per questo motivo veniva a volte soprannominato
l’«investigatore». Prima della caduta dell’aereo, il suo nomignolo era stato
«Orecchie», ma ora esso venne mutato in «Caruso» quando risultò, durante
una conversazione sui cibi, che Zerbino non aveva mai mangiato i cappelletti
alla Caruso (una sorta di ravioli con una salsa che prendeva il nome dal
cantante Caruso), e non sapeva nemmeno che cosa fossero. La sua indole
affettuosa e semplice faceva sì che fosse facile prenderlo in giro. A volte i
ragazzi ridevano di lui perché, a tarda sera o al mattino presto, non riusciva a
dire se il sole fosse la luna, o la luna il sole. Egli era inoltre continuamente
pessimista. Se Fito lo mandava fuori a vedere come fosse il tempo, Zerbino
tornava sempre indietro dicendo: «Fa un freddo cane e si sta preparando una
tormenta».
Fito allora si rivolgeva a Carlitos e diceva: «Vai tu a dare un’occhiata». E
Carlitos, che era ottimista, una volta rientrato riferiva: «Sta nevicando un po’,
ma non durerà a lungo. Tra mezz’ora avremo il cielo limpido e azzurro».
Pedro Algorta era un eroe improbabile. In base alle ragioni che avevano
demolito il coraggio di alcuni degli altri, egli sarebbe dovuto essere il primo a
perire. Sebbene avesse iniziato gli studi assieme agli altri al Collegio Stella
Maris, li aveva continuati a Santiago e a Buenos Aires (a causa del lavoro di
suo padre) e pertanto conosceva pochi dei diciannove giovani. Dei suoi due
amici, uno, Felipe Maquirriain, era morto, e l’altro, Arturo Nogueira, si
trovava, invalido e imbronciato, all’interno della fusoliera.
Numerose caratteristiche avrebbero potuto distinguere Algorta dagli altri.
Egli era timido, introspettivo e socialista, mentre i suoi compagni erano
chiassosi, estroversi e conservatori. Nell’Uruguay, Pedro aveva lavorato per il
Frente Amplio, una sorta di Fronte Popolare presentatosi per la prima volta
all’elettorato nel corso delle recenti elezioni presidenziali. Daniel Fernández e
Fito Strauch, d’altro canto, apparivano entrambi al Movimento Nazionale
dell’Università (MUN), che sosteneva Wilson Ferreira (un liberale blanco);
Eduardo Strauch era favorevole a Batlle (un liberale colorado); mentre
Carlitos Páez aveva votato per il reazionario blanco, generale Aguerrondo.
Un altro svantaggio per Algorta consisteva nella sua amnesia. Egli non
riusciva ancora a ricordare che cosa fosse accaduto nei giorni che avevano
preceduto l’incidente. Una vola corse felice tutto intorno all’aereo, quando
Inciarte gli disse che una squadra argentina aveva vinto il campionato calcio.
Non era affatto vero. Su un piano più serio, Algorta aveva completamente
dimenticato di essersi recato nel e non soltanto per acquistarvi testi scolastici a
minor prezzo per studiare di persona il socialismo sudamericano, ma per una
ragazza conosciuta quando abitava a Santiago. Si era persuaso allora di
amarla, ma per un anno e mezzo non avevano più potuto incontrarsi e le
lettere che si erano scambiate non bastavano a mantenere i loro sentimenti a
quel diapason da lui desiderato. Il suo scopo, allora, era stato quello di veder
chiaro nella relazione, in un senso o nell’altro, ma ormai aveva dimenticato
che essa fosse mai esistita. E, invero, una delle ragioni per le quali desiderava
tornare a Montevideo era quella di trovarsi un’amichetta.
La sua mente era sufficientemente sveglia perché egli si rendesse conto
che doveva lavorare per sopravvivere, e la buona volontà di lui meritò
l’approvazione dei cugini, in particolare di Fito. Algorta continuava a sentirsi
lievemente escluso (soprattutto perché non poteva prendere parte alla
conversazione, dedicata così spesso all’agricoltura), ma non a punto tale da
sentir nascere in sé stesso una grave sensazione di isolamento.
***
I tre che costituivano il governo di questa piccola comunità, Eduardo e
Fito Strauch, e Daniel Fernández, non erano, in quanto individui, tanto diversi
dagli altri. Dominavano il gruppo grazie alla forza che si assicuravano a
vicenda.
Daniel Fernández, ad esempio, era il più anziano dei superstiti, dopo
Methol, e si rendeva conto delle responsabilità che ciò gli imponeva. Era
maturo anche per la sua età (aveva ventisei anni) e lavorava duramente per
mantenere pulita la cabina passeggeri, per raccogliere i documenti, per
controllare la distribuzione degli accendini e dei coltelli. Massaggiava i piedi
congelati di Bobby François (in cambio, Bobby prometteva di essere il suo
schiavo quando avrebbero fatto ritorno a Montevideo) e ammoniva Canessa a
non intervenire sulla gamba infetta di Coche. Sebbene fosse timido per
temperamento, a Daniel piaceva parlare. Era calmo, degno di fiducia,
equanime. In effetti, le sole doti che gli mancassero erano la forza fisica e una
forte personalità.
Eduardo Strauch, sebbene soprannominato «il tedesco», sembrava, sotto
ogni aspetto, meno tedesco dei due cugini. Fisicamente somigliava alla madre,
una Urioste, in quanto aveva una corporatura più esile di quella di Fito. Il suo
contegno era simpatico, i suoi modi erano piacevoli. Si trattava del più
compito dei diciannove giovani (forse perché aveva viaggiato in Europa) ed
era quello dall’intelligenza più aperta. In genere conservava la calma, ma a
volte si lasciava travolgere da ire appassionate. Tendeva ad essere autoritario,
specie con Páez, ma, al pari di Fito, dava prova di indulgenza con i ragazzi più
giovani e più irritanti, come Mangino e François.
Fito Strauch era più instabile di Eduardo, eppure ispirava maggior fiducia
al gruppo. Quando i ragazzi esaminavano la loro critica situazione, il suo
modo di pensare era sempre il più positivo, i suoi giudizi erano sempre i più
validi. Andava inoltre a suo merito l’invenzione degli occhiali da sole, dei
quali avevano bisogno per difendere gli occhi dalla luminosità abbacinante
della neve. Tolte dalla cabina di pilotaggio le mascherine anti abbaglianti, che
erano fatte di perspex scuro, egli vi ritagliò due piccoli dischi e li cucì in una
fascia di plastica ricavata dalla copertina di una cartella che aveva contenuto il
piano di volo.
Fito non andava esente da difetti. Come Daniel Fernández, si lasciava
irritare da Mangino. Una volta litigò con Eduardo mentre si accingevano a
coricarsi e un’altra si infuriò a tal punto contro Algorta, perché gli si era
appoggiato contro durante la notte, che balzò in piedi e gli urlò: «Mi stai
ammazzando! Mi stai ammazzando!»
Algorta si limitò ad aprire gli occhi e a dire: «Oh, Fito, come puoi?» Poi si
riaddormentò.
4
Il sistema che era stato elaborato funzionava bene. Come nella Costituzione
degli Stati Uniti, esistevano freni ed equilibri. I cugini Strauch, con i loro
aiutanti, limitavano il potere dei componenti della spedizione, e i componenti
della spedizione limitavano il potere degli Strauch. Entrambi i gruppi si
rispettavano vicendevolmente, ed entrambi agivano col tacito consenso di tutti
e diciannove i superstiti.
Due tra loro non potevano avere alcuna parte attiva nel gruppo a causa
delle lesioni subite quando l’aereo era precitato. Si trattava di Rafael
Echavarren e di Arturo Noleira. Entrambi dormivano sull’amaca che era stata
costruita da Canessa e uscivano soltanto di rado dalla fusoliera. Soffrivano
troppo camminando e, trascinandosi fuori sulla neve, esaurivano quasi tutta
l’energia rimasta nelle loro membra.
I due differivano molto, sia per origini, sia per temperamento. Nogueira, a
ventun anni, era uno studente di sinistra iscritto alla facoltà di economia;
Echavarren, che aveva ventidue anni, era un allevatore di bestiame di
tendenze conservatrici. I loro valori divergevano, né era probabile che
potessero riconciliarsi sul comune giaciglio ove soffrivano entrambi, poiché il
minimo e inavvertito movimento dell’uno causava all’altro grandi torture.
Echavarren, di origine basca, aveva un’indole aperta e coraggiosa. Lo stato
della sua gamba era spaventoso. Il muscolo del polpaccio, strappato via
dall’osso, era stato rimesso a posto, ma la ferita aveva finito con l’infettarsi.
Peggio ancora, egli non riusciva a spostare la gamba né a muovere i piedi
durante la notte, per cui le dita dei piedi divennero dapprima viola e poi nere,
man mano che il congelamento le aggrediva. Durante il giorno Rafael
chiedeva agli altri di provare a ristabilire la circolazione. «Patroncito», diceva
a Daniel Fernández, «fammi un massaggio alle gambe, vuoi? Sono tanto
intorpidite che non le sento più.» E, quando Daniel aveva finito di
massaggiarlo, Rafael gli diceva: «Ti prometto, Fernández, che se uscirò vivo
di qui, avrai tutto il formaggio che vorrai fino al termine dei tuoi giorni».
Era assolutamente deciso ad andarsene. Ogni mattina diceva a sé stesso:
«Sono Rafael Echavarren e giuro che ritornerò». Quando qualcuno gli
consigliava di scrivere una lettera ai genitori, o alla sua novia, rispondeva:
«No, racconterò ogni cosa quando sarò tornato». Questa fiducia lo aveva fatto
benvolere dagli altri ragazzi, come la sua franchezza e la sua lealtà. Quando
qualcuno gli urtava la gamba, lui lanciava imprecazioni, ma poi, uno o due
minuti dopo, si scusava. Faceva inoltre ridere tutti gli altri fingendo di
mangiare caramelle tolte da una scatola vuota e li divertiva descrivendo come
si produceva il formaggio nella sua cascina.
Andava però peggiorando. La gamba gli si riempì di pus e la pelle nera
della carne cancrenosa si allargò dalle dita del piede al piede stesso. Un
mattino, con un tono di voce deciso e ottimistico come sempre, invitò tutti ad
ascoltarlo e disse che stava per morire. Gli altri protestarono, ma lui insistette.
Lo diceva, spiegò, perché desiderava che i superstiti rendessero noti alla sua
famiglia gli ultimi desideri da lui espressi: la motocicletta doveva andare
all’amministratore della tenuta, e la jeep alla sua novia. I ragazzi tornarono a
protestare, ma il giorno dopo questa sensazione della fine imminente lo
abbandonò ed egli fu di nuovo ottimista.
Le condizioni fisiche di Arturo Nogueira erano migliori di quelle di
Echavarren, ma lo stato d’animo di lui sembrava essere di gran lunga peggiore
di quello di tutti gli altri. Anche prima del disastro aereo egli era stato un
individuo dal carattere labile e difficile, chiuso e taciturno persino in famiglia.
La sola persona che fosse riuscita a renderlo meno introverso era stata la sua
novia, Inés Lombardero. Ella stessa aveva sofferto molto nella vita… uno dei
suoi fratelli era annegato assieme ad altri due ragazzi, essendosi la loro canoa
capovolta al largo della costa di Carrasco. Il solo che la consolasse era Arturo;
egli la baciava davanti a tutti, per la strada.
Nogueira aveva una sola altra passione, la politica. Uno spiccatissimo
senso della giustizia faceva di lui un idealista militante… talora socialista,
talora anarchico. Aveva più o meno abbandonato il cattolicesimo a favore
dell’utopia. Come Zerbino, per ordine dei Gesuiti, si era adoprato a favore
poveri nei quartieri miserabili di Montevideo, ma ormai credeva in soluzioni
più radicali dei problemi della povertà e dell’oppressione.
Nella fusoliera del Fairchild giaceva sempre solo, i grandi occhi verdi
spalancati nel volto emaciato, il mento decorato da una barbetta. Per qualche
tempo aveva dimostrato di prendersela in qualche modo a cuore a causa della
loro critica situazione, interessandosi soprattutto al problema della posizione
esatta del Fairchild sulle Ande, e si era assunto il compito di cartografo, ma,
con il trascorrere dei giorni, la fiducia in lui in una possibile salvezza era
andata diminuendo, ed egli aveva messo da parte le carte. Ricordò di aver
avuto da bambino la premonizione che sarebbe morto all’età di ventun anni.
Disse a Parrado di essere sicuro che ebbe morto.
Più grave ancora di questa disperazione era il suo isolamento nell’ambito
del gruppo. Si mostrava scorbutico e imbronciato con gli altri, e nessuno, in
quella situazione, si dava la pena di penetrare quel guscio ostile. Pedro
Algorta era il suo solo intimo amico, ma anche Pedro correva il pericolo di
restare isolato, e non era certo in grado di integre Arturo nel gruppo contro la
sua volontà.
L’antagonismo di lui nei confronti degli altri era in vasta misura politico.
Con Echavarren litigava in apparenza per le coperte o per la posizione dei
rispettivi piedi, ma era il sotterraneo divergere dei loro punti di vista a rendere
questi litigi tanto astiosi. Un giorno, Pàez stava raccontando agli altri episodi
concernenti suo padre. Disse loro che Pàez Vilaró aveva viaggiato in Africa
con Günther Sachs e che Günther Sachs e Brigitte Bardot erano stati ospiti
della sua famiglia a Punta Ballena.
«Ehi, Arturo, che cosa ne pensi di tutto questo?» domandò Canessa.
«Non mi interessa affatto; io sono socialista», rispose Nogueira.
«Tu non sei un socialista, sei uno sciocco», disse Canessa. «Finiscila di
farti credere tanto incallito.»
«Voi siete tutti quanti oligarchici e reazionari», replicò Arturo, aspro, «e io
non voglio vivere in un Uruguay imbevuto dal genere di valori materialistici
che voi rappresentate… specie tu, Pàez.»
«Non lo starò a sentire», disse Carlitos.
«Tu potrai essere socialista», osservò Inciarte, balbettando tanto era
indignato, «ma sei anche un essere umano, ed è questo che conta, qui.»
«Ignorali», disse Algorta a Nogueiia. «È tutto così privo di importanza.»
Nogueira tornò a chiudersi nel silenzio, e in seguito ammise con Pàez che si
pentiva di quanto aveva detto.
Durante il giorno, anche quando splendeva il sole, Nogueira restava nella
fusoliera. Raccoglieva l’acqua che gocciolava attraverso un foro nel soffitto,
oppure Algorta, Canessa o Zerbino gli portavano da bere dall’esterno. Gli
parlavano della sua famiglia e cercavano di persuaderlo a uscire dalla
fusoliera, anche perché alcuni di loro sospettavano che le lesioni alla gamba
fossero immaginarie; ma tutto ciò che questi amici facevano per risollevargli il
morale non serviva a niente.
La fusoliera del Fairchild era gelida, buia e umida. Quelli che restavano
chiusi in essa respiravano soltanto aria bagnata. Nogueira si indebolì e
solamente dopo una settimana gli altri si accorsero che non aveva consumato
la sua razione di carne. Dopo di allora Algorta gliela portò personalmente e gli
mise in bocca i pezzetti di carne, bagnati dalla saliva che continuava a
sfuggirgli dalle labbra.
Parrado e Fito Strauch si erano resi conto, infine, che l’isolamento di
Nogueira lo avrebbe ucciso. Parrado si recò a parlargli. «Vuoi restare qui?» gli
domandò. «Restare qui» era l’eufemismo di cui si servivano per riferirsi alla
morte.
«So che ci resterò», rispose Arturo.
«No, niente affatto», disse Parrado. «Ti porterò via di qui per il
compleanno di Inés, vedrai.»
Una sera, mentre si accingevano a dormire, Arturo domandò se potesse
essere lui a recitare il rosario. Gli altri risposero affermativamente e Pàez
glielo porse. Arturo espresse allora le proprie volontà, pregando Dio per le
famiglie di tutti loro, per il loro paese, per i compagni periti e per quelli lì
presenti. Parlò con tanto sentimento nella voce, che gli altri diciotto (alcuni
dei quali consideravano il rosario un altro modo di contare le pecore) si
sentirono pervasi da un nuovo rispetto e da un nuovo affetto nei suoi
riguardi. Quando egli ebbe terminato le cinque decine, tacquero tutti; si poté
udire soltanto lo stesso Arturo piangere sommessamente sull’amaca. Pedro
alzò gli occhi verso di lui e gli domandò perché stesse piangendo. «Perché
sono cosi vicino a Dio», rispose lui.
Tra le sue cose, c’era un elenco dei propri indumenti compilato prima di
fare la valigia. Sul retro di questo foglio egli scrisse, con caratteri molto più
incerti di quelli di un tempo, una lettera ai genitori e alla sua novia.
In situazioni come questa, anche la ragione non riesce a capire l’infinito
e assoluto potere di Dio sugli uomini. Non ho mai sofferto come adesso,
fisicamente e moralmente, sebbene non abbia mai creduto tanto in Lui. Dal
punto di vista fisico questa è una tortura, giorno dopo giorno, notte dopo
notte, con una gamba fratturata e la caviglia gonfia, e la caviglia dell’altra
gamba gonfia anch’essa. Ma soffro anche moralmente perché tu non sei qui
ed io anelo a vederti… e ti abbraccio come abbraccio la mia diletta mamma
e il mio diletto papà, ai quali voglio dire che ho sbagliato con il mio
comportamento nei loro riguardi… Forza. La vita è dura, ma merita di
essere vissuta. Anche soffrendo. Coraggio.
La morte di Nogueira fu uno choc per tutti loro. Demolì la tesi secondo cui
coloro i quali erano sopravvissuti alla valanga dovevano salvarsi. Andarsene
divenne ora una necessità più urgente, e i ragazzi erano impazienti che i
partecipanti alla spedizione partissero; ma giorni e giorni di venti gelidi e di
neve sferzante continuarono a tenerli prigionieri entro la fusoliera.
Dopo la valanga, avevano dormito senza rispettare un ordine particolare; il
primo a entrare al cader della notte poteva scegliere i posti più caldi. In
seguito escogitarono un sistema più severo, studiato affinché la distribuzione
dei posti fosse più equa. Daniel Fernández e Pancho Delgado toglievano i
cuscini dal tetto della fusoliera, ove erano stati lasciati ad asciugare al sole, e li
disponevano sul pavimento della cabina passeggeri. Poi, verso le cinque e
mezzo, quando il sole scompariva dietro la montagna e cominciava
improvvisamente a far freddo, i ragazzi si mettevano in coda secondo l’ordine
nel quale dovevano dormire. Per primo entrava Inciarte (ma senza Páez, che
era il suo compagno di notte); toccava quindi a Fito e a Eduardo; poi a Daniel
Fernández e a Gustavo Zerbino (a meno che non toccasse a loro dormire
accanto all’ingresso). Dopo questi due, l’ordine non era più tanto rigido.
Canessa dormiva dove gli piaceva, e Parrado si sdraiava di solito accanto a
lui. François e Harley rimanevano insieme. Javier Methol dormiva con
Mangino, Algorta dormiva con Turcatti o con Delgado, e Sabella con Vizintìn.
L’ultima di queste coppie ad entrare era quella cui toccava il turno di dormire
nel punto più freddo, accanto all’ingresso. Ma, ultimissimo di tutti, veniva
Carlitos, al quale era stato segnato il compito di chiudere ogni notte l’ingresso
contro il diritto (assieme a Inciarte) al posto più caldo dell’aereo.
Era il loro tapiador (costruttore del muro); ma il suo posto accanto alla
cabina di pilotaggio implicava un altro compito, consistente nello svuotare il
boccale di plastica, che adoperavano come vaso da notte, attraverso un foro
nella fusoliera. Si trattava di un compito tedioso in quanto il boccale risultava
spesso più piccolo della vescica che ne aveva bisogno e doveva essere passato
per una seconda o anche una terza volta; ma non esisteva un recipiente più
grande che si prestasse a quell’impiego. Inoltre esso veniva continuamente
richiesto, in quanto spesso i giovani rimanevano chiusi nella fusoliera anche
per quindici ore di seguito. Quasi tutti erano così gentili da urinare prima di
entrare, e si servivano del bacile, se ne sentivano la necessità, verso le nove,
quando la luna cominciava a splendere e loro cercavano di dormire; ma alcuni
di essi, e in particolare Mangino, si destavano invariabilmente alle tre o alle
quattro del mattino e chiedevano il boccale a Carlitos. A volte ciò esasperava
Carlitos a tal punto che egli fingeva di non riuscire a trovarlo e Mangino
doveva uscire a tastoni dall’aereo nel gelo; una notte Pàez barattò i suoi servizi
contro una sigaretta in più.
A un certo momento tentarono di creare una seconda «latrina» all’ingresso
della fusoliera, ma constatarono come, quando la neve si scioglieva,
altrettanto accadesse all’urina, che filtrava all’interno dell’aereo. Ciò
nonostante, riusciva difficile a coloro i quali dormivano all’ingresso dell’aereo
chiedere il boccale durante la notte in quanto ciò significava destare tutti gli
altri per farselo passare. Algorta, una volta, si destò con la necessità di urinare
e sentì tale inibizione; decise pertanto di pisciare contro il muro di neve. La
mattina dopo, alla luce del giorno, si accorse di aver urinato sul vassoio
contenente il grasso di qualcuno dei suoi compagni. Ma non disse niente.
L’interno della fusoliera divenne un disastro di disordine e sporcizia. Non
era soltanto l’urina a insudiciarla, ma anche i pezzetti di grasso e i frammenti
di ossa lasciati sul pavimento. Dopo qualche tempo, venne decisa una nuova
norma: nessun osso doveva essere portato entro l’aereo e, chiunque vi
portasse del grasso, doveva riportarlo fuori entro lo stesso giorno. Ciò
nonostante, la neve a entrambe le estremità rimaneva sudicia, e soltanto il gelo
impediva che venissero soffocati dal fetore.
Riusciva difficile dormire. Erano talmente pigiati l’uno contro l’altro che
se uno di loro si spostava, tutti gli altri dovevano spostarsi e tutte le sottili
coperte ricavate dalle fodere dei sedili scivolavano via. Inoltre, erano
ossessionati dal comprensibile terrore di una seconda valanga. Udivano
continuamente rumori strani fuori dell’aereo… o i brontolii del vulcano
Tinguiririca, o il tuono di nuove valanghe in altri punti della montagna.
Macigni si staccavano dai pendii e rotolavano verso di loro. Una volta un
sasso colpì la fusoliera mentre stavano cercando di addormentarsi, e Inciarte e
Sabella balzarono in piedi pensando che si trattasse di un’altra valanga. Gli
altri erano sempre pronti a fare altrettanto. Methol dormiva seduto, la testa
coperta da una camicia da rugby per riscaldare l’aria che respirava. Poi,
quando si addormentava profondamente, ciondolava in avanti o pencolava da
un lato, con disagio e irritazione di chiunque gli dormisse accanto.
Furono irritazioni di questo genere a causare i soli litigi sfociati in risse
vere e proprie. Imprecavano tutti gli uni contro gli altri per aver ricevuto una
pedata in faccia, o perché era stata rubata una coperta, ma soltanto in rare
occasioni si arrivò a un vero e proprio scambio di colpi. Canessa e Vizintìn
erano i più incapaci di dominarsi, sotto questo aspetto. Più forti degli altri,
approfittavano del loro rango di partecipanti alla spedizione per dormire come
e dove volevano, sebbene stessero bene attenti a non provocare l’ostilità di
Parrado, di Fernández o degli Strauch. Una volta, Vizintìn appoggiò un piede
sulla faccia di Harley perché quest’ultimo non voleva fargli posto. Invitato a
togliere il piede, non volle saperne. Roy, allora, spinse giù il piede dalla
propria faccia e Vizintìn gli sferrò un calcio. Roy, a questo punto, si infuriò e
lo avrebbe percosso se non fosse intervenuto Daniel Fernández. In un’altra
occasione, Vizintìn prese a calci Turcatti, e Numa, che di solito aveva un
carattere angelico, travolto dall’ira, gli urlò: «Sudicio bruto, non ti rivolgerò
mai più la parola fino a quando avrò vita!» E Inciarte, prendendo le parti di
Turcatti, rincarò la dose: «Figlio di puttana, togli di mezzo quella gamba, o ti
rompo il muso!» Vizintìn disse a entrambi di andare all’inferno, e, una volta
di più, Fernández intervenne e gridò a tutti di calmarsi.
Inciarte inoltre litigò con Canessa, che aveva alzato la mano per
percuoterlo. Gli disse: «Se osi far questo, ti spezzo il collo», parole coraggiose
da parte di uno dei più deboli tra loro; ma furono sufficienti a far cambiare
idea a Canessa. Questo litigio, al pari di quasi tutti gli altri, si concluse
rapidamente come era cominciato, con nuove lacrime, abbracci, e la conferma
di ciò di cui erano tutti persuasi: che, se non fossero rimasti uniti, non
sarebbero mai riusciti a cavarsela.
Ma gli alterchi, le minacce, le imprecazioni e le lagnanze erano anche il
solo modo con il quale riuscivano a dare sfogo l’intensa frustrazione
accumulatasi in loro. Se qualcuno urtava la gamba di Echavarren, ad esempio,
egli urlava in modo del tutto sproporzionato al dolore causatogli, trovando
così, in un certo qual modo, sollievo alle torturanti sofferenze dalle quali era
tormentato continuamente. Nello stesso modo, si sentivano meglio gridando
«coglione!» a Vizintìn, dando del «figlio di puttana» a Canessa. La cosa strana
era che alcuni di loro, e in particolare Parrado, non litigavano.
Una notte, Coche Inciarte sognò che stava dormendo sul pavimento della
casa di suo zio a Buenos Aires. Mangino gli dormiva accanto e si strofinava
contro la sua gamba infetta. Nel sogno, Coche cominciò a sferrargli calci; poi
udì urli, si destò e vide Fito e Carlitos che lo scrollavano per le spalle, mentre
Mangino era in lacrime accanto a lui. Il sogno aveva finito con l’avverarsi…
soltanto che egli non si trovava nella casa di suo zio, a Buenos Aires, ma sul
relitto di un Fairchild, nel cuore delle Ande.
6
Canessa precedeva gli altri trainando, a mo’ di slitta, la metà di una valigia di
samsonite sulla quale si trovavano ammonticchiati i quattro calzettoni da
rugby pieni di carne, la bottiglia d’acqua e i cuscini che avrebbero adoperato
come racchette da neve non appena il sole avesse ammorbidito la dura
superficie dei nevai. Veniva poi Vizintìn, carico come un mulo da soma con
tutte le coperte, mentre l’ultimo era Parrado.
Progredirono rapidamente verso nordest. Stavano scendendo il pendio e
le loro scarpe da rugby mordevano saldamente la neve gelata. Man mano che
avanzavano, Canessa si portò più avanti e, quando camminavano da due ore,
Parrado e Vizintìn lo udirono gridare e poi lo videro far loro cenno. Si era
fermato sulla sommità di una cresta di neve e, mentre lo raggiungevano, egli
disse: «Ho una sorpresa per voi»
«Che cosa?» domandò Parrado.
«La coda.»
Parrado e Vizintìn giunsero sulla sommità della duna di neve e là,
effettivamente, cento metri più avanti, si trovava la coda del Fairchild. Aveva
perduto entrambi i timoni ma cono vero e proprio rimaneva intatto. A destare
immediatamente il loro interesse, furono le valigie che scorsero sparpagliate
tutto attorno. Si precipitarono accanto ad esse, le aprirono e frugarono tra il
loro contenuto. Fu come trovare un tesoro: c’erano blue-jeans, maglioni,
calzini, e l’attrezzatura da sci di Panchito Abal. Nella valigia di Abal trovarono
inoltre una scatola di cioccolatini; ne mangiarono immediatamente quattro per
ciascuno, ma poi decisero di razionare gli altri.
I tre giovani si tolsero poi di dosso i sudici indumenti che issavano,
sostituendoli con i capi più caldi che riuscirono a trovare. Canessa e Parrado
si tolsero le calze fatte di pelle umana e le gettarono via. Disponevano adesso
di buone calze di lana in abbondanza e ne presero tre paia per ciascuno.
Vizintìn ne prese quattro per imbottire le scarpe di Nicolich, che gli stavano
troppo larghe. Prese inoltre il passamontagna che faceva parte dell’attrezzatura
da sci di Abal, mentre Parrado si impadroniva degli scarponi.
Subito dopo, entrarono nella coda dell’aereo e trovarono nella cucina un
pacco di zucchero e tre pasticci di carne di Mendoza; questi ultimi li
mangiarono subito; lo zucchero lo tennero per dopo. Dietro il cucinino si
trovava un vasto e buio vano bagagli nel quale c’erano altre valigie. Le
aprirono tutte, togliendone gli indumenti e sparpagliandoli intorno a sé sul
pavimento. In una valigia trovarono una bottiglia di rum e in molte altre
stecche di sigarette.
Cercarono le batterie dell’aereo che, secondo il meccanico Roque, si
trovavano nella sezione di coda e le scoprirono dopo aver aperto un piccolo
portello esterno. Trovarono inoltre altre casse di Coca Cola e album a fumetti,
con cui accesero un fuoco. Canessa cominciò a cuocere parte della carne che
avevano portato con sé, mentre Vizintìn e Parrado continuavano a frugare
alFintemo della coda; vi trovarono alcuni panini imbottiti chiusi in involucri
di plastica; erano muffiti, ma tolsero l’involucro e ricuperarono ciò che
sembrava edibile. Poi mangiarono la carne che avevano cucinato e conclusero
il pasto con un cucchiaio di zucchero mescolato con pasta dentifricia alla
clorofilla sciolta in due dita di rum. Mai in vita loro un pudding aveva avuto
un sapore più delizioso.
Il sole scomparve dietro le montagne e cominciò a far freddo. Vizintìn e
Parrado portarono dentro tutti i capi di vestiario sparsi intorno alla coda e li
distesero sul pavimento del vano bagagli, mentre Canessa individuava i fili
collegati alle batterie e se ne serviva per accendere una lampadina trovata nella
cucina. Li collegò allo zoccolo, ma la lampadina si fulminò. Provò allora con
un’altra e quest’ultima si accese. Entrarono allora tutti e tre nel vano bagagli,
chiusero ermeticamente la porta con valigie e indumenti e si distesero sul
pavimento. Grazie alla luce, poterono leggere i fumetti prima di
addormentarsi. Dopo la mancanza di spazio nella fusoliera, lì si stava
deliziosamente caldi e comodi. Alle nove, Canessa staccò la lampadina.
Avevano mangiato bene, ed ora dormirono profondamente.
La mattina dopo nevicava un po’, ma essi caricarono la loro slitta
improvvisata, riempirono gli zaini e continuarono a scendere la valle verso
nordest. Vedevano una montagna enorme alla loro sinistra e calcolarono che
sarebbero potuti occorrere tre giorni per aggirarla sin dove la valle avrebbe
piegato a ovest.
Smise di nevicare, il cielo si rasserenò e, verso le undici del mattino,
cominciò a far molto caldo. Il sole picchiava loro sulla schiena e la neve lo
rifletteva sulla faccia dei giovani. Di tanto in tanto essi sostavano per togliersi
un paio di calzoni o un maglione; ma, per far questo, occorrevano molte delle
loro energie, e gli indumenti erano tanto fastidiosi a trasportarsi quanto a
indossarli.
Verso mezzogiorno, giunsero su un affioramento di rocce sulle quali
scorreva un rivoletto d’acqua. Era quasi un ruscello e i tre decisero di fermarsi
lì e di ripararsi dal sole costruendo una tenda con le coperte e con le aste
metalliche che avevano con sé. Mangiarono parte della carne e Vizintìn andò a
bere un po’ dell’acqua corrente, ma sembrava essere salmastra e gli altri due
preferirono sciogliere la neve.
Mentre giacevano all’ombra, contemplarono la montagna enorme davanti
a loro. Le sue dimensioni sfidavano ogni calcolo per stabilire quanto distasse
dal punto in cui si trovavano loro. Man mano che la luce cambiava, sembrava
allontanarsi sempre più e le ombre remote ove la valle avrebbe potuto piegare
a ovest parevano ancor più distanti. Quanto più Vanessa studiava lo scenario
dinanzi a loro, tanto più diventava scettico riguardo la strategia prescelta. Da
quel che poteva vedere, la valle continuava a scendere verso est; per
conseguenza, ogni passo che facevano, pensò lui, li conduceva ancor più
addentro nelle Ande. Ma quel pomeriggio non disse nulla di ciò agli altri due.
Erano stanchi e il sole ardeva; tuttavia, non appena li ebbe abbandonati
per calare a ovest dietro le montagne, la temperatura precipitò fino allo zero e
la luce cominciò a svanire. Per conseguenza decisero di trascorrere la notte lì
dove si trovavano. Scavarono una buca nella neve per avere un minimo di
protezione e, una volta distesisi in essa, si coprirono con le coperte che
avevano portato con sé.
Era una notte meravigliosa, con il cielo limpido. Grazie all’altezza,
potevano vedere milioni e milioni di stelle luminose. L’aria rimaneva del tutto
immobile; non soffiava assolutamente alcun vento. La loro situazione sarebbe
potuta essere persino invidiabile se non avesse fatto tanto freddo, poiché, man
mano che la notte passava, la temperatura continuò a scendere sempre più e i
tre componenti della spedizione cominciarono a sentirsi gelare. Vestiti e
coperte sembravano non riscaldarli quasi affatto. In preda alla disperazione, si
distesero uno sopra l’altro: Vizintìn sotto, Parrado in mezzo e Canessa in cima.
In questo modo riuscirono a scaldarsi a vicenda con il tepore dei propri corpi,
ma dormirono assai poco.
Canessa e Parrado erano entrambi desti quando il sole spuntò la mattina
dopo. «È impossibile», disse Canessa. «Non riusciremo a sopravvivere a un
altra notte come questa.»
Parrado si alzò e guardò a nordest. «Dobbiamo proseguire», disse. «Gli
altri contano su di noi.»
«Non serviremo loro a nulla giacendo morti sulla neve.»
«Io proseguo.»
«Guarda», disse Canessa, additando la montagna. «Non c’e nessun varco.
La valle non piega a est. Non stiamo facendo altro che addentrarci sempre più
nelle Ande.»
«Non si può mai sapere. Se proseguiamo…»
«Non illuderti.»
Parrado volse di nuovo lo sguardo a nordest e vide ben poco che potesse
incoraggiarlo. «Allora che cosa proponi di fare?» domandò.
«Tornare alla coda dell’aereo», rispose Canessa. «Togliere le batterie e
portarle su al Fairchild. Roque ha detto che con le batterie avremmo potuto
far funzionare la radio.»
Parrado parve dubbioso. Si rivolse a Vizintìn, il quale, nel frattempo, si
era svegliato. «Tu che cosa ne pensi, Tintin?»
«Non lo so. Farò qualsiasi cosa deciderete voi due.»
«Ma, secondo te, che cosa dovremmo fare? Dovremmo proseguire?»
«Forse.»
«O dovremmo tentare di far funzionare la radio?»
«Sì, forse dovremmo far questo.»
«Ma quale delle due cose?»
«Mi è indifferente.»
Parrado si infuriò per l’indecisione di Vizintìn, e cercò di far sì che si
schierasse o da un lato o dall’altro. In ultimo Vizintìn si schierò con Canessa,
quando quest’ultimo osservò: «Se per poco non siamo morti di freddo in una
notte serena, pensate a quello che accadrebbe con la tormenta. Sarebbe un
suicidio».
Tornarono sui loro passi verso la coda del velivolo, e, sebbene fosse
notevolmente più difficoltoso risalire la valle di quanto lo fosse stato
discenderla, raggiunsero la meta nelle prime ore del pomeriggio e si
lasciarono cadere sugli immensi agi del pavimento del vano bagagli cosparso
di indumenti. Era un rifugio straordinariamente comodo, li proteggeva dal
sole durante il giorno e dal gelo la notte, ed essi furono tentati di rimanervi nei
due giorni successivi, ma le lo serve di carne andavano riducendosi, per cui
decisero di ire al Fairchild. Canessa e Vizintìn salirono, attraverso il piccolo
portello, nel vano della sezione di coda dove si trovavano le batterie,
staccarono i collegamenti e le consegnarono a Parrado. Vizintìn scoprì inoltre
che i grossi tubi dell’impianto di riscaldamento dell’aereo erano fasciati da un
materiale isolante largo circa sessanta centimetri e spesso oltre un centimetro;
si trattava di una sostanza plastica e di fibre artificiali. Ne ritagliò alcune
strisce, pensando che sarebbero servite come efficace rivestimento interno del
suo giubbotto.
Le batterie vennero caricate sulla slitta e i tre giovani tentarono di trainarla,
ma il peso era tale che non riuscirono a smuoverla. Poiché alcuni dei pendii
che dovevano risalire avevano inclinazioni anche di quarantacinque gradi,
divenne immediatamente manifesto che sarebbe stato impossibile portare le
batterie fino all’aereo. I giovani, però, non perdettero di coraggio, in quanto
Canessa assicurò loro che non sarebbe stato difficile smontare la radio dalla
cabina di pilotaggio e portarla giù fino alla coda del Fairchild.
Al posto delle batterie, allora, Canessa e Vizintìn ammonticchiarono sulla
slitta e pigiarono dentro gli zaini indumenti caldi per i loro compagni e trenta
stecche di sigarette, mentre Parrado tornava nel cucinino e scriveva sopra
l’acquaio, con vernice per le unghie: «Salite. Diciotto persone ancora vive».
Ripeté questo messaggio due volte, su altre parti della coda, nei nitidi caratteri
a stampatello che aveva imparato tracciare quando apponeva le etichette alle
casse di dadi e bulloni nell’azienda di suo padre. Canessa entrò nella cui per
prendere la cassetta dei medicinali che vi avevano trovato. Conteneva molti
tipi diversi di farmaci, compreso il cortisone, che avrebbe potuto alleviare
l’asma della quale soffrivano sia Sabella sia Zerbino.
Quando i due giovani uscirono, videro che Vizintìn, salendo sulla slitta,
l’aveva sfondata. Questo mandò Parrado su tutte le furie; egli se la prese con
Vizintìn, imprecando contro la sua maldestra goffaggine, ma Canessa riuscì a
riparare il danno e infine partirono arrancando con le scarpe da neve sui
soffici e ripidi pendii verso la fusoliera.
10
Una nuova ondata di ottimismo dilagò tra i genitori alla notizia secondo cui un
C47 appositamente attrezzato dell’aviazione militare uruguayana sarebbe stato
inviato alla ricerca del Fairchild, e molti padri si offrirono volontari per
partecipare alla spedizione. Pàez Vilaró si trovava ancora in Brasile, ma,
sebbene l’aviazione avesse consentito a soli cinque passeggeri di volare
assieme ai piloti, era chiaro che egli avrebbe voluto essere uno di essi. Un
altro doveva essere Ramon Sabella, ma il suo medico glielo sconsigliò. Gli
altri quattro prescelti per accompagnare Pàez Vilaró furono Rodriguez
Escalada e i padri di Roberto Canessa, Roy Harley e Gustavo Nicolich. Non
soltanto questi uomini, però, si interessarono all’operazione; le famiglie di
Methol, di Maquirriain, di Abal, Parrado, Valeta e di molti altri contribuirono
con denaro e consigli, mentre Rafael Ponce de Leon si manteneva in contatto
con i radioamatori del Cile.
L’8 dicembre, un gruppo di genitori, compresi quelli che dovevano
prendere parte alla spedizione, si recò alla base n. 1 dell’aviazione militare per
conferire con il pilota del C47, maggiore Ruben Terra, e per studiare i piani
delle ricerche. Quel giorno stesso Pàez Vilaró fece ritorno dal Brasile e
confermò che, per quanto diffidasse degli aerei dell’aviazione militare
uruguayana, avrebbe partecipato alla spedizione.
Continuarono per tutto il giorno successivo a fare i preparativi della
partenza e il giorno 10 dicembre ebbe luogo un’ultima riunione di tutti i
genitori, i parenti e le novias, assieme ai componenti della spedizione, nello
spazioso bungalow moresco dei Nicolich. Alla riunione erano stati invitati
due' esperti piloti uruguayani e tutto il materiale raccolto dai SAR cileno,
dall’aviazione militare uruguayana e dai genitori stessi fu esposto sul tavolo
affinché ognuno dei presenti potesse esaminarlo. Il dottor Surraco mostrò
carte geografiche e spiegò perché lui e altri erano ormai persuasi che l’aereo
fosse precipitato tra le montagne Tinguiririca e Sosneado. Nessuno contestò il
loro parere. I monti intorno a Talca e a Vilches erano stati dimenticati; la
ragione aveva trionfato sulla parapsicologia.
La riunione si protrasse fino a sera. Quando si sciolse, le due coppie
Strauch si recarono in casa Harley, ove continuarono a parlare fino a notte alta
della spedizione che speravano tanto potesse trovare i loro figli. Al termine
della serata, Walter Harley si rivolse a Rosina Strauch e disse: «Stia a sentire:
setaccerò le Ande. Cercherò i ragazzi, un passo dopo l’altro, finché non li
avrò trovati. Ma chiederò anche a lei di fare qualcosa. Se falliremo anche
questa volta, dovrà rassegnarsi al fatto che non c’è più speranza. Al ritorno
dalla spedizione, dovremo rinunciare ad ogni ingannevole attesa».
Alle sei della mattina dopo, 11 dicembre, il C47 decollò per Santiago. A
bordo si trovavano il pilota, maggiore Ruben Terra, quattro uomini
d’equipaggio e Pàez Vilaró, Canessa, Harley, Nicolich e Rodriguez Escalada.
Anche a quell’ora mattutina, molti genitori erano accorsi all’aeroporto per
vederli partire.
Il C47 era un apparecchio da trasporto militare. Non esistevano posti
comodi nella fusoliera e i cinque uomini di età matura dovettero sedere su
panche laterali. I motori facevano inoltre un grande strepito, ma tutti erano
soddisfattissimi perché, per la prima volta dopo la scomparsa del Fairchild,
avevano a loro disposizione un mezzo con il quale effettuare ricerche tra le
più alte vette delle Ande. Secondo ia stampa uruguayana, il C47 era stato
attrezzato appositamente per questa spedizione; in ogni caso, disponeva
delFossi geno e della pressurizzazione necessaria per i voli ad alta quota.
Mentre sorvolavano l’estuario del Rio de la Piata, Pàez Vilaró prese un
giornale trovato sull’aereo e lesse un articolo sulla spedizione. Alzò gli occhi,
di quando in quando, per vedere se riuscisse a scorgere l’«equipaggiamento
speciale di eccezionale precisione» di cui parlava il giornale e, quando arrivò
al passo nel quale erano esaltate l’abilità e la magnificenza dell’aviazione
militare uruguayana, si irritò un poco. Questo era, in fin dei conti, quasi il
primo sforzo che i militari facevano, dopo la scomparsa del Fairchild, per
ritrovare cinque dei loro stessi uomini.
Pàez si domandò che cosa pensasse il pilota dell’articolo e si recò nella
cabina di pilotaggio. Vide, entrando, che erano arrivati sulla sponda argentina
dell’estuario e stavano per sorvolare Buenos Aires.
«Ha veduto questo?» urlò a Ruben Terra, mostrando il giornale con
l’articolo che aveva appena letto.
«Sì», rispose il maggiore.
«Che cosa ne pensa?»
«È molto giusto.» Pàez Vilaró alzò lievemente le enormi spalle.
Il pilota parve essersene accorto, poiché continuò: «Ad esempio, uno dei
motori si è fermato ed io sono riuscito a fare atterrare l’apparecchio soltanto
con l’altro…»
Nel momento stesso in cui parlava, l’aereo ebbe un improvviso scossone e
cominciò a vibrare. Pàez Vilaró si voltò a guardare l’ala e vide ciò che il
maggiore aveva appena descritto: l’elica del motore destro si stava fermando.
Tornò a voltarsi verso il pilota. «Bene, è successo di nuovo», disse.
Fecero un atterraggio di emergenza nell’aeroporto militare di El Palomar,
ove Ruben Terra telegrafò a Montevideo perché gli mandassero un motore
nuovo, ma i suoi passeggeri non erano disposti ad aspettare che il motore
arrivasse e venisse montato sul C47. Noleggiarono un piccolo aereo che li
condusse all’aeroporto di Ezeiza e là salirono a bordo di un aereo di linea
della LAN diretto a Santiago. Arrivarono alle sette di sera e si fecero portare
immediatamente da un tassì al comando del SAR a Los Cerrillos.
«Cosa?» esclamò il comandante Massa quando vide Pàez Vilarò e i suoi
compagni. «Loro sono di nuovo qui? Questo non è di certo il momento giusto
per cominciare a cercare. Avevamo detto che sarebbero stati avvertiti al
momento opportuno.»
Il comandante aveva le sue buone ragioni per sentirsi confuso. Non era
inconsueto che un aereo scomparisse sulle Ande, ma era estremamente
insolito che qualcuno continuasse a cercarlo dopo due mesi. Anche quando
un DC3 dell’aviazione militare degli Stati Uniti era precipitato nel 1968, gli
americani non avevano continuato a cercarlo così a lungo. Eppure, ecco un
gruppo di civili uruguayani che entravano nel suo ufficio e si rifiutavano di
essere congedati.
«Mi dica, comandante», domandò Walter Harley, «quante probabilità vi
sono che l’aereo, intrappolato tra le montagne, abbia effettuato un atterraggio
d’emergenza sulla neve?»
«Con un po’ di fortuna», rispose Massa, «due su duemila.»
«A noi ne basta una», disse Harley.
Gli uruguayani cominciarono a questo punto a contrattare per l’impiego
degli elicotteri del SAR, ma il comandante Massa, pur ascoltando compito le
loro proposte, non potè accettarle. «Loro non si rendono conto», disse. «È
pericolosissimo sorvolare con elicotteri la cordillera. Non posso rischiare le
vite dei miei piloti se non esistono prove specifiche del fatto che i rottami si
trovino in un punto ben determinato. Se dispongono di qualche prova del
genere, me la diano ed io agirò di conseguenza, ma fino a quel momento…
sono dolente.»
I cinque uomini tornarono all’albergo senza aver ottenuto altro che questa
mezza promessa da parte di Massa; ciò nonostante, non erano scoraggiati.
Sebbene stanchi dopo il frenetico viaggio, si accinsero immediatamente a
studiare piani. Si sarebbero suddivisi in tre gruppi. L’uno avrebbe esplorato,
per via di terra, la zona dei monti Palomo e Tinguiririca, l’altro l’avrebbe
sorvolata non appena il C47 fosse arrivato a Santiago, mentre il terzo sarebbe
andato in cerca del minatore Camilo Figueroa, il quale asseriva di aver veduto
precipitare il Fairchild. Questi dovevano essere i tre rebbi del loro attacco alle
Ande. Denominarono il piano Operazione Natale.
Parte Settima
1
Mentre nella fusoliera stavano accadendo tutte queste cose, i tre componenti
della spedizione e Roy Harley si trovavano nella coda del Fairchild. Avevano
impiegato appena un’ora e mezzo per scendere e durante il tragitto erano
capitati su una valigia appartenuta alla madre di Parrado. Conteneva tra altro
caramelle e due bottiglie di Coca Cola.
Il resto della prima giornata lo trascorsero riposandosi dentro la sezione di
coda ed esaminando il contenuto delle valigie apparse sotto la neve scioltasi
dopo l’ultima volta che erano stati là. Tra altre cose, Parrado trovò una
macchina fotografica carica, e la sacca con due bottiglie di liquore che sua
madre aveva acquistato a Mendoza, chiedendogli di portarle. Nessuna dell
edue bottiglie si era rotta e ne sturarono una lasciando l’altra per la spedizione
che avrebbero dovuto organizzare se non fossero riusciti a far funzionare la
radio.
Canessa e Harley si accinsero a quel compito la mattina dopo. Parve a tutta
prima che la cosa non sarebbe stata dificile, perché le prese dietro la
trasmittente erano contrassegnate con le indicazioni BAT e ANT per indicare
dove doveano essere inserite le spine delle batterie e dell’antenna.
Sforunatamente, esistevano altri cavetti i cui collegamenti non erano
altrettanto chiari. Soprattutto, non riuscivano a capire quale dei cavi fosse
positivo e quale negativo, per cui, speso, quando procedevano a un
collegamento, scintille sprizzavano loro negli occhi.
Le speranze di successo aumentarono quando Vizintìn trovò sulla neve,
accanto alla coda, il manuale di istruzioni del Fairchild. Cercarono nell’indice
qualche riferimento alla radio e scoprirono che l’intero capitolo
trentaquattresimo era dedicato alle «Comunicazioni», ma quando vollero
consultarlo si accorsero che il vento aveva strappato dal volumetto alcune
pagine e tali pagine erano proprio quelle del capitolo di cui avrebbero avuto
bisogno.
Non restava altro da fare, pertanto, che ricominciare con i tentativi e gli
errori. Si trattava di un lavoro che richiedeva molta pazienza e mentre gli altri
si affannavano con la radio, Parrado e Vizintìn frugavano qua e là,
riesaminando il contenuto di tutte le valigie, o accendendo il fuoco per
cuocere la carne. Sebbene fossero soltanto in quattro, non andavano esenti
dalle tensioni che si determinavano più in alto nella fusoliera. Roy Harley si
irritò, ad esempio, perché Parrado non volle dargli la stessa razione degli altri;
gli sembrava chiaro che, poiché aveva preso parte alla spedizione, sarebbe
stato suo diritto mangiare quanto gli altri. Parrado, d’altro canto, sostenne che
egli era soltanto un elemento aggregato; se la radio non avesse funzionato,
non gli sarebbe toccato di marciare con gli altri sulle montagne. Per
conseguenza doveva mangiare soltanto quanto era indispensabile per
sopravvivere.
Né egli voleva consentire a Roy di fumare sigarette. Secondo il suo
ragionamento, disponevano di un solo accendino e ne avrebbero avuto
bisogno per la spedizione finale; del resto, nemmeno Parrado, né Canessa, né
Vizintìn fumavano essi stessi, ma erano tutti intollerabilmente irritati dai
piagnucolii e dai lamenti di Roy. Così gli dissero che gli sarebbe stato
possibile fumare soltanto quando avessero acceso il fuoco. Una volta, però,
quando Roy si avvicinò per accendere una sigaretta alla fiamma, Parrado, il
quale stava cucinando, gli disse di togliersi dai piedi e di tornare quando lui
avesse finito. Ma allorché Roy tornò, il fuoco era spento. Roy era talmente
adirato che si impadronì dell’accendino lasciato da Parrado su un pezzo di
cartone e accese una sigaretta. Allorché i tre componenti della spedizione se
ne accorsero, gli si lanciarono addosso come un branco di tre studenti anziani
incaricati della disciplina. Lo coprirono di insulti e gli avrebbero strappato la
sigaretta dalla bocca se non ne fossero stati impediti da Canessa che aveva
riflettuto meglio. «Lasciatelo stare», egli disse agli altri due. «Non dimenticate
che potrà essere Roy a salvare la vita a noi tutti facendo funzionare questa
dannata radio.»
Il terzo giorno, apparve chiaro che non avevano portato con sé carne a
sufficienza per il periodo di tempo occorrente per riparare la radio. Di
conseguenza, Parrado e Vizintìn ripartirono verso l’aereo, lasciando Harley e
Canessa nella sezione di coda. L’ascesa, come la prima volta, fu mille volte
più difficoltosa di quanto lo fosse stata la discesa. Quando giunsero sulla
sommità del rilievo che si trovava subito a est dell’aereo, Parrado fu assalito
da una momentanea ma profonda disperazione; al posto della fusoliera e dei
suoi tredici abitanti non si vedeva altro che un’immensa distesa di neve.
Suppose immediatamente che vi fosse stata un’altra valanga la quale aveva
coperto completamente l’aereo, ma poi guardò meglio e non scorse alcun
segno di neve fresca sui fianchi sovrastanti delle montagne. Proseguì e, con
suo immenso sollievo, trovò l’aereo all’altro lato del rilievo successivo.
I giovani non li aspettavano e non avevano preparato carne. Inoltre, erano
quasi tutti troppo deboli per poter disseppellire i cadaveri che pure era
necessario trovare se i componenti della spedizione dovevano rifornirsi. Per
conseguenza, gli stessi Parrado e Vizintìn si misero a scavare. Trovarono un
cadavere dal quale i cugini tagliarono carne che misero in calzettoni da rugby
e, dopo due notti trascorse nell’aereo, tornarono alla sezione di coda.
Là constatarono che Harley e Canessa avevano proceduto a tutti i
collegamenti necessari tra batterie e radio e tra radio e antenna, ma che ancora
non riuscivano a captare alcun segnale con le cuffie. Pensarono che potesse
essere difettosa l’antenna e allora strapparono fili metallici dai circuiti elettrici
dell’aereo e li unirono, legandone poi un’estremità alla coda del Fairchild e
l’altra a un sacco pieno di sassi collocato in alto sul fianco della montagna;
formarono così un’antenna lunga una ventina di metri. Quando la collegarono
alla radiolina a transistor che avevano portato con sé, riuscirono a captare
molte stazioni radio del Cile, dell’Argentina e dell’Uruguay. Ma quando la
collegarono alla radio del Fairchild non udirono un bel nulla. Pertanto, la
ricollegarono alla radiolina a transistor, sintonizzarono quest’ultima su una
emittente che trasmetteva musica allegra, e si rimisero al lavoro.
A un tratto, vi fu un grido da parte di Parrado; egli aveva trovato, in una
delle valigie, la fotografia di un bambino a una festa di compleanno. Si
trattava di una bimbetta, in realtà; sedeva davanti a un tavolo sul quale si
ammonticchiavano panini imbottiti, torte e cracker. Parrado, tenendo ben
stretta la fotografia, divorava i cibi con lo sguardo, ma ben presto gli altri tre,
posti all’erta dal grido, si avvicinarono alle sue spalle e presero parte al
banchetto. «Guardate un po’ quella torta», disse Canessa, gemendo e
massaggiandosi lo stomaco.
«E i panini imbottiti, allora?» disse Parrado. «Io credo che preferirei
quelli.»
«I cracker», gemette Vizintìn. «A me date soltanto i cracker.»
***
Dalla radiolina a transistor alla quale avevano collegato l’antenna, i quattro
udirono un notiziario nel corso del quale venne annunciato che le ricerche
sarebbero state riprese con un Douglas C47 dell’aviazione militare
uruguayana. I ragazzi accolsero la notizia in modi diversi. Harley era in estasi
per la speranza e la felicità. Anche Canessa sembrava sollevato. Vizintìn non
reagì in alcun modo particolare, mentre Parrado parve quasi deluso. «Non
siate troppo ottimisti», ammonì gli altri. «Non è detto che ci troveranno
soltanto perché ci cercano di nuovo.»
Decisero, ciò nonostante, che sarebbe stata una buona idea tracciare una
grande croce sulla neve in prossimità della sezione di coda, e così fecero
servendosi delle valigie che giacevano sparse tutto attorno. Ormai avevano
quasi rinunciato alla speranza della radio, sebbene Canessa continuasse ad
armeggiare e tergiversasse per quanto concerneva il ritorno alla fusoliera.
Parrado e Vizintìn, d’altro canto, pensavano già alla spedizione, in quanto era
stato deciso nell’aereo che, se la radio non avesse funzionato, loro tre
sarebbero partiti subito, basandosi sulla sola cosa della quale erano certi: che
il Cile si trovava a ovest. Così, Vizintìn staccò il resto del materiale avvolto
intorno all’impianto di riscaldamento del Fairchild, nello scuro ripostiglio alla
base della coda che aveva contenuto le batterie. Si trattava di un materiale
leggero, ma studiato dall’industria tecnologicamente più sofisticata del mondo
per trattenere il calore; cucito insieme in modo da formare un ampio sacco,
avrebbe costituito un ottimo sacco a pelo, eliminando così la difficoltà più
grave dalla quale erano stati ostacolati: come tenersi caldi la notte senza il
rifugio della sezione di coda o della fusoliera.
Mentre si trovavano nella coda, la neve aveva continuato a sciogliersi
intorno a loro… tutta la neve, cioè, tranne quella situata immediatamente sotto
la sezione di coda e riparata dal sole. Per conseguenza, la coda aveva finito
con il rimanere in equilibrio su una sorta di pilastro di neve; ciò non solo ne
rendeva più difficile l’accesso, ma faceva sì che essa fosse pericolosamente
instabile mentre si spostavano all’interno. Durante l’ultima notte, la sezione di
coda oscillò a tal punto che Parrado fu pervaso dal terrore; temeva che
cadesse e scivolasse come un razzo giù per il fianco della montagna. I quattro
giovani giacevano immobili il più possibile, ma imperversava un vento che
faceva oscillare la coda e Parrado non riusciva a dormire. «Ehi», disse infine
agli altri, «non vi sembra che sarebbe meglio dormire fuori?»
Vizintìn grugnì e Canessa disse: «Senti, Nando, se dobbiamo morire,
moriremo; quindi tanto vale goderci almeno ma notte di buon sonno».
***
La sezione di coda si trovava sempre allo stesso posto la mattina dopo, ma
ovviamente non era più sicura. Sembrava altrettanto ovvio che nessun altro
tentativo sarebbe riuscito a ar funzionare la radio. Per conseguenza, decisero
di tornare illa fusoliera. Prima di partire, si caricarono una volta di più di
sigarette, e Harley, per dare sfogo a tutta l’infelicità e la frustrazione di quegli
otto giorni, a furia di calci fece a pezzi le diverse parti della radio che così
faticosamente avevano messo insieme.
Sbagliò a sprecare energie. Per arrivare alla fusoliera dovevano superare
un pendio di quarantacinque gradi lungo un chilometro e mezzo. A tutta prima
la cosa non fu tanto difficile perché la superficie della neve era dura. In
seguito, quando divenne molle ed essi o affondarono fino alle cosce, o
dovettero legarsi ai piedi i pesanti e ingombranti cuscini che servivano come
racchette da neve, occorse uno sforzo quasi sovrumano che il povero Roy
non era in grado di sostenere. Sebbene si riposassero ogni trenta passi, egli
ben presto rimase indietro, ma Parrado gli stette al fianco… incitandolo,
insultandolo, esortandolo a proseguire. Roy ci provava e poi ricadeva sulla
neve disperato e spossato. La sua voce era piagnucolosa come non mai; le
lacrime scorrevano più abbondanti. Supplicò di essere lasciato lì a morire, ma
Parrado non volle abbandonarlo. Imprecò contro di lui e lo insultò per
incendiargli il sangue. Lo offese come non aveva mai offeso nessuno.
Gli insulti erano atroci, ma ottennero il risultato voluto. Fecero sì che Roy
proseguisse; tuttavia, giunse un momento in cui egli non reagì più né alle
imprecazioni né alle offese. Allora Parrado gli tornò accanto e gli rivolse la
parola somnessamente, dicendo: «Ascolta, non siamo molto lontani, ormai.
Non credi che valga la pena di compiere un ultimo sforzo per rivedere tua
madre e tuo padre?»
Poi lo prese per mano e lo aiutò a rimettersi in piedi. Una volta di più Roy
riprese a salire barcollante, appoggiandosi al braccio di Parrado e, quando
giunsero dinanzi a un pendio tanto ripido da impedire a Roy di sormontarlo,
anche con tutta la forza della sua volontà, Parrado lo afferrò e, con l’enorme
energia che sembrava ancora possedere, lo trascinò su verso il Fairchild.
Giunsero alla fusoliera tra le sei e mezzo e le sette di sera. Soffiava un
vento gelido, con qualche sfarfallio di neve. I tredici giovani erano già entrati
e accolsero malinconicamente i componenti della spedizione.
Canessa, tuttavia, non fu tanto colpito dalla loro ostilità quanto dallo
spettacolo di desolazione che offrivano. Dopo essere rimasto assente per otto
giorni, potè constatare con una certa obiettività quanto fossero diventate
scavate e smunte le facce barbute dei suoi compagni. Aveva osservato inoltre,
con occhi nuovi, l’orrore della neve sudicia, disseminata di carcasse sventrate
e di crani spaccati, e si era detto che, prima dell’arrivo dei soccorsi, dovevano
fare qualcosa per eliminare tutto ciò.
3
I tredici giovani rimasti nel Fairchild avevano seguito il cammino dei tre
componenti della spedizione su per la montagna attraverso i loro improvvisati
occhiali da sole. Fu facile osservarli il primo giorno, ma il secondo erano
appena dei puntolini sulla neve. A sconfortare i giovani fu la lentezza con cui
progredivano; avevano creduto che sarebbe bastata una mattinata, o che
sarebbe occorso al massimo un giorno per arrivare alla vetta, e invece, il
mattino del secondo giorno, i tre si trovavano ancora a malapena a metà
strada. Nel pomeriggio del secondo giorno, raggiunsero una fascia di schisti e
scomparvero alla vista.
Contemporaneamente, però, un aereo apparve oltre la vetta della
montagna. I giovani si prepararono immediatamente a fare segnalazioni, ma lo
avevano appena veduto che esso tornò verso ovest.
Non potevano fare più niente per i componenti della spedizione, tranne
pregare; d’altro canto, dovevano risolvere numerosi problemi pratici. Il più
importante era la scarsità di cibo. Sebbene non avessero ancora trovato tutti i
cadaveri intorno all’aereo, Fito decise di salire sulla montagna alla ricerca dei
corpi caduti dall’aereo. Ogni giorno che passava, nuove forme e nuove
chiazze scure apparivano sul pendio ed egli ritenne importante, se si trattava di
cadaveri, andare a coprirli con la neve prima che imputridissero.
Zerbino, che era salito sulla montagna e aveva trovato i cadaveri più di
sette settimane prima, accettò di accompagnare Fito, e i due partirono nelle
prime ore del mattino del 13 dicembre. La superficie della neve era ancora
dura e salirono rapidamente. Erano meglio equipaggiati di quanto lo fosse
stato Zerbino durante la prima spedizione con Maspons e Turcatti e inoltre
entrambi i giovani avevano adesso un maggior allenamento. Di quando in
quando, man mano che arrivavano sempre più in alto, si soffermavano per
riposare e per guardare il Fairchild sotto di loro e le montagne di fronte e ai
lati. Quanto più salivano, tanto più numerosi divenivano i monti visibili, tutti
straordinariamente alti e coperti di neve, e questo li scoraggiò moltissimo.
Sembrava impossibile che si trovassero, come avevano sperato, sui primi
contrafforti delle Ande. Con vette così gigantesche tutto intorno a loro,
potevano essere soltanto nel cuore stesso della catena montuosa. Quali
possibilità potevano avere Canessa, Parrado e Vizintìn di raggiungere il Cile
attraverso una zona così invalicabile? Dovevano distare di molti chilometri
dalla più vicina abitazione umana, e i tre componenti della spedizione avevano
portato con sé cibo per soli quindici giorni.
«Potremo essere costretti a far partire un’altra spedizione», disse Fito.
«Questa volta con più provviste.»
«Formata da chi?» domandò Zerbino.
«Da noi due e da Carlitos, forse, o da Daniel.»
«Forse l’aereo ci troverà prima.»
Si fermarono e guardarono, in basso, il Fairchild. Poiché il tetto della
fusoliera era bianco, esso rimaneva praticamente invisibile; da quell’altezza, si
vedevano più chiaramente i sedili, gli indumenti e le ossa sparse qua e là sulla
neve.
«Faremo bene a lasciar fuori tutte le ossa», disse Fito. «Sono le sole cose
che si possano vedere.»
Dopo essersi arrampicati per due ore, i giovani scorsero il primo indizio
del fatto che si trovavano nella zona ove giacevano i cadaveri. Si trattava di
una giacca di velluto foderata con lana. Fito la prese, scrollò la neve, e la
infilò sopra il maglione.
Continuarono a salire e ben presto scorsero un cadavere disteso supino
sulla neve. Fito rimase scosso riconoscendo le fattezze di un altro suo cugino,
Daniel Shaw. Immediatamente lo pervasero sentimenti contrastanti; aveva
trovato il cibo che cercava, ma, siccome il cadavere era quello di suo cugino
provava una straordinaria riluttanza ad utilizzarlo. Si voltò verso Zerbino:
«Proseguiamo e vediamo se riusciamo a trovare gli altri».
Continuarono ad arrancare sulla neve, che stava diventando rapidamente
molliccia sotto i loro passi. Quando furono giunti nel luogo in cui sembrava
di ricordare a Zerbino che si trovassero gli altri cadaveri, videro soltanto vari
framnentì dell’aereo stesso. Uno di questi ultimi era grande abbastanza per
essere adoperato come una sorta di slitta e Fito, rendendosi conto che il suo
dovere nei confronti dei compagni non gli lasciava vie d’uscita, lo prese
prima di tornare indietro verso il corpo di suo cugino.
Quando furono giunti di nuovo accanto ad esso, legarono il cadavere,
irrigidito dalla morte e dal freddo, al pezzo di metallo curvo, servendosi delle
funi di nylon trovate nel vano bagagli. Fito sedette su uno dei cuscini che
avevano portato con sé come racchette e lo legò alla slitta. Poi, affondando i
tacchi nella neve e spingendo, cominciarono a scivolare giù per il fianco della
montagna.
Quel mezzo improvvisato per trasportare il cadavere risultò essere più
efficiente, di quanto avessero supposto e, mentre scivolavano verso la valle,
acquistò velocità e cominciò a filare davvero molto rapidamente. Zerbino,
seduto dietro il cadavere, cercava di guidare la slitta con i piedi, ma vi riusciva
assai poco… non certo quanto bastava per manovrarla tra i macigni
disseminati sulla neve. Parve, tuttavia, che li guidasse una mano invisibile,
poiché la slitta non finì contro alcun macigno e, quando giunsero all’altezza
del Fairchild, Fito affondò i piedi nella neve e la corsa, adagio, cessò.
Avevano sbagliato direzione. Si trovavano sull’altro lato della valle, e
ormai la neve era tanto soffice, ed entrambi si sentivano così stanchi, che
decisero di lasciare il morto dove si trovava, sepolto nella neve, e di tornare a
prenderlo il giorno dopo. Mentre stavano scavando una buca con le mani,
scorsero le figure di Eduardo, di Fernández, di Algorta e di Páez venire verso
di loro.
«State bene?» gridò Fernández.
Non risposero.
«Vi abbiamo veduti saettare giù per la montagna a una velocità tale che
abbiamo creduto vi sareste ammazzati.»
Di nuovo non risposero.
«Avete trovato qualcosa?»
«Sì», disse Fito. «Abbiamo trovato Daniel.»
Fernández guardò Fito, ma non disse niente. Tornarono al Fairchild, e, la
mattina dopo, quando la superficie della neve era di nuovo gelata, tornarono a
prendere il cadavere. Allorché lo ebbero portato all’aereo, Fito chiese agli altri
ragazzi se il corpo di suo cugino poteva essere posto accanto a quelli che
avevano deciso di conservare fino all’ultimissimo momento, e ottenne una
risposta affermativa.
Páez e Algorta partirono di nuovo e salirono sulla montagna per vedere se
riuscivano a trovare un altro cadavere. Trovarono dapprima una borsetta per
signora dalla quale tolsero il rossetto, tanto utile per proteggere le loro labbra
screpolate dal sole. Entrambi cominciarono subito a passarselo sulla bocca,
guardandosi nello specchietto del portacipria. «Sai che cosa penseranno?»
disse Carlitos, ridendo nel vedere la faccia dipinta di Pedro. «Se verranno a
salvarci, questo pomeriggio, e ci troveranno conciati così, penseranno che la
frustrazione sessuale abbia fatto di noi degli invertiti frenetici.»
Continuarono a salire e trovarono un cadavere. La pelle della faccia e delle
mani, rimasta esposta al sole, era diventata nera, e gli occhi mancavano, o
perché il sole li aveva bruciati, o perché i condor li avevano beccati. Ormai
faceva caldo e la neve stava diventando soffice; pertanto coprirono il corpo e
ridiscesero.
Il giorno dopo, Algorta tornò a prendere il cadavere insieme con Fito e
Zerbino. Cominciarono subito a farlo a pezzi, essendo pervenuti alla
conclusione che questo sistema sarebbe stato più comodo del trasporto
dell’intero corpo fino all’aereo. Misero la carne e il grasso nei calzettoni da
rugby, e mangiarono tutto quello che ritennero di meritare per il consumo in
più di energia. Poi, alle nove e mezzo del mattino, sebbene non avessero
portató a termine il lavoro, si incamminarono verso la fusoliera del Fairchild,
Fito e Zerbino con gli zaini pieni, Algorta portando sulla spalla un braccio del
morto e, legata alla vita, la scure.
Quando arrivarono al Fairchild, videro una scena straordinaria. Gli altri
superstiti si trovavano tutti fuori della fusoliera, in piedi al centro della croce
tracciata sulla neve, e fissavano il cielo. Alcuni di loro si stavano
abbracciando; altri pregavano Dio a voce alta. All’estremità esterna della
croce, Pancho Delgado, in ginocchio, stava urlando: «Gastón, povero Gastón!
Come vorrei che fosse qui, adesso!»
Daniel Fernández era in piedi al centro della croce, con Ia radiolina
accostata all’orecchio. «Hanno trovato una croe» disse. «Abbiamo appena
sentito alla radio che hanno trovato una croce in una località chiamata
montagna SantaElena.»
Il morale dei tre arrivati in quel momento con la carne si risollevò a tale
notizia; quale altra croce sarebbe potuta ssere avvistata, infatti, se non la loro?
Ritennero che la montagna Santa Elena fosse quella alle loro spalle e per tutto
il resto della mattinata aspettarono i soccorsi che credevano imminenti,
Fernández sempre con la radiolina accostata all’orecchio. Udì che aerei cileni
e argentini si erano uniti al C47 uruguayano nelle ricerche e che le autorità
argentine stavano indagando sulla croce, in quanto sembrava che essa si
trovasse sul loro territorio.
Mentre Fernández ascoltava la radio, Methol portò fuori la statuetta di
sant’Elena che avevano trovato tra gli oggetti personali di Liliana Methol.
Insieme con alcuni giovani, egli pregò quella santa protettrice degli smarriti, e
molti di loro pronunciarono un voto: se mai avessero avuto una figlia, le
avrebbero dato il nome di Elena.
Per tutto il giorno aspettarono gli elicotteri e a un tratto li udirono all’altro
lato della montagna. Una volta di più si abbracciarono e spiccarono balzi in
aria, ma quell’esultanza era prematura. Nessun elicottero apparve nel cielo. Il
rombo che avevano udito divenne un mormorio e poi si dileguò, lasciando al
proprio posto soltanto il silenzio enorme della cordillera. Quanto avevano
scambiato per motori di elicotteri era stato il frastuono di una valanga.
Quando la sera discese, rientrarono nella fusoliera, amaramente delusi.
Incominciarono a riflettere con maggiore serietà. Quale aereo aveva sorvolato
loro, o la coda del Fairchild, se era stata avvistata l’una o l’altra delle croci
tracciate nella neve? E, se erano stati veduti, come mai gli elicotteri non
arrivavano?
La mattina dopo, molto presto, e con una temperatura gelida, gli stessi tre
giovani del giorno prima tornarono al cadavere sulla montagna per tagliare la
carne rimasta prima che si decomponesse. Una volta di più, mangiarono
quanto ritenevano di meritare e riempirono gli zaini, lasciando soltanto la
colonna vertebrale, le costole, i piedi e il cranio.
Quest’ultimo lo spaccarono con la scure, ma il cervello sapeva di putrido
e pertanto rinunciarono a prenderlo e ridiscesero.
2
Il mattino del 15 dicembre, i giovani sui sedili disposti di fronte alla fusoliera
videro a un tratto qualcosa che scendeva a una velocità tremenda lungo il
fianco della montagna. Pensarono a tutta prima che fosse un macigno smosso
dallo scioglimento delle nevi, ma, quando fu più vicino, distinsero la sagoma
di un uomo e, allorché si avvicinò ulteriormente, riconobbero Vizintìn. Si
sarebbe detto che egli stesse precipitando, ma la sua discesa era controllata,
poiché sedeva su un cuscino, e, una volta arrivato all’altezza della fusoliera,
affondò i piedi nella neve e si fermò.
Tutta una serie di terribili supposizioni si affacciò nei tredici giovani
mentre lo guardavano arrancare verso di loro sulla neve. Pensarono che l’uno
o l’altro dei suoi compagni, o entrambi, avessero perduto la vita, o che tutti e
tre avessero rinunciato e Vizintìn fosse il primo a tornare. Alcuni di loro, un
po’ più ottimisti, sperarono che i componenti della spedizione fossero stati
veduti dall’aereo apparso dietro la sommità della montagna.
Non appena li ebbe raggiunti, Vizintìn spiegò quanto era accaduto.
«Nando e Muscoli sono arrivati sulla vetta», disse. «Stanno proseguendo, ma
mi hanno mandato indietro per far durare di più i viveri.»
«Ma che cosa c’è dall’altra parte?» domandarono tutti, raggruppandoglisi
intorno.
«Altre montagne… montagne sin dove arriva lo sguardo. Quanto a me,
non credo che abbiano molte probabilità di riuscire.»
Di nuovo essi si abbandonarono allo scoraggiamento. Un altro sogno, che
esistessero vallate verdeggianti al lato opposto della montagna, era stato
distrutto dalla brutale realtà. Ciò che Vizintìn disse li sconfortò tutti. «La
scalata è stata un inferno», egli riferì, «un vero inferno. Abbiamo impiegato ì
giorni per arrivare lassù. Credo che non ce la farei, se dovessi ripetere una
simile impresa.»
«Quanto tempo hai impiegato per scendere?» Vizintìn rise. «Tre quarti
d’ora. Venir giù non è un problema. Il brutto è salire.» Si interruppe, poi
soggiunse: «E il buffo è che a est c’è meno neve», e additò il fondo valle, «di
quanta ce ne sia a ovest. A Muscoli, inoltre, è sembrato vedere una strada.»
«Una strada? Dove?»
«A est.» Gli Strauch crollarono il capo. «Ma questo è impossibile. Il Cile si
trova a ovest.»
«Sì», cantilenarono i ragazzi più giovani, «il Cile è a ovest, il Cile è a
ovest…»
A mezzogiorno vi fu un breve alterco per stabilire quanta carne si sarebbe
dovuta dare a Vizintìn. «Ma sono appena tornato da una spedizione. Devo
rimettermi in forze… e non ho mangiato molto. Ho dato tutti i miei viveri a
Nando e a Muscoli.»
Gli diedero qualcosa di più, ma con l’intesa che in avvenire sarebbe stato
trattato come tutti gli altri. Quel pomeriggio, perciò, Vizintìn girò intorno
all’aereo, raccattò tutti i pezzi di polmone che riuscì a trovare e li
ammonticchiò sul suo vassoio. Fino a quel momento erano stati gettati via
(tranne una volta, quando Canessa li aveva fatti passare per fegato) e nessuno
si era mai dato la pena di coprirli con la neve; per conseguenza avevano
cominciato a marcire e il calore del sole stava formando intorno ad essi una
sorta di dura crosta. Gli altri osservarono Vizintìn raccattare quei brandelli e
disporli sulla sua parte del tetto della fusoliera.
«Vuoi mangiare questa roba?» domandò qualcuno.
«Sì.»
«Ti ammalerai.»
«Niente affatto. Muscoli ha detto che mi avrebbe fatto bene.»
Continuarono ad osservarli mentre tagliava pezzi dai polmoni putridi e li
mangiava; poi, quando, il giorno dopo, constatarono che non stava affatto
peggio per questo, alcuni degli altri ragazzi comunicarono a seguire il suo
esempio. Si comportarono in questo modo per la necessità di un sapore
nuovo, non perché il cibo facesse difetto, in quanto, a un tratto la neve,
sciogliendosi, aveva cominciato a lasciare allo scoperto tutti i cadaveri di
coloro che erano periti a causa della caduta dell’aereo, o subito dopo. I
cadaveri erano dieci, ma cinque di essi i giovani si erano impegnati a
mangiarli soltanto in caso di estrema necessità. Uno era stato consumato in
gran parte prima della valanga, ma i sei che restavano, assieme a quelli dei
due piloti, tuttora sui loro seggiolini, sarebbero potuti durare ai sopravvissuti
per altre cinque o sei settimane. Tutti i corpi erano stati perfettamente
conservati dalla neve e, siccome si trattava delle prime vittime, erano più
ricchi di carne, e di carne migliore, delle vittime della valanga o dei giovani
periti successivamente.
Questi frutti improvvisi del disgelo avrebbero potuto tentare un gruppo
meno disciplinato ad attenuare il severo razionamento della carne, ma gli
Strauch pensavano molto seriamente di poter essere costretti a organizzare una
seconda spedizione fornendole provviste per un viaggio molto più lungo di
quello previsto per Canessa, Parrado e Vizintìn. Per conseguenza, scavarono
due buche nella neve. Nell’una misero i cadaveri che dovevano essere
conservati fino all’ultimo momento e nell’altra quelli da consumare man
mano che ciò si rendesse necessario.
Sarebbe stato possibile, adesso, evitare di nutrirsi con polmoni putridi e
con intestini putrefatti di cadaveri tagliati già da settimane, ma una metà dei
giovani continuò ugualmente a cibarsene perché v’era la necessità di un
sapore più forte. Era occorso uno sforzo supremo della volontà a questi
ragazzi per indursi a mangiare carne umana, ma, una volta cominciato e
perseverato, l’appetito era venuto mangiando, essendo l’istinto della
sopravvivenza un tiranno inesorabile il quale esigeva non soltanto che
divorassero i loro compagni, ma che si abituassero a farlo.
Il più paradossale, forse, sotto questo aspetto, era Pedro Algorta. Egli non
apparteneva come gli altri a una famiglia di proprietari di ranch (era un
sensibile intellettuale socialista) e aveva giustificato l’ingestione di quelle
prime fettine di carne umana paragonandola a quanto si faceva ingerendo il
corpo e il sangue del Cristo con la Santa Comunione. Eppure, adesso, quando
scoprirono una volta di più quella stessa carcassa dalla quale avevano ricavato
il primo pasto, Algorta si mise a sedere su un cuscino, armato di coltello, e
raschiò via la carne marcia e zuppa rimasta intorno alle spalle e alle costole.
Riusciva ancora più difficile a lui e agli altri mangiare ciò che era
riconoscibilmente umano, una mano, ad esempio, o un piede, ma se ne
nutrivano ugualmente.
A metà giornata il sole era ormai tanto caldo che potevano quasi cucinare
la carne sul tetto della fusoliera. Vi furoo anche altre conseguenze del rapido
disgelo. Il livello della neve si abbassò fino alla base della fusoliera, e ciò non
soltanto rese difficile salire sul tetto, ma li indusse a temere che l’aereo potesse
rovesciarsi. Inoltre la neve, sciogliendosi, smuoveva, più in alto sulla
montagna, macigni che precipitano verso di loro. L’aumento della temperatura
portò altri segni di vita; alcune rondini volarono intorno alla fusoliera, una di
esse si posò sulla spalla di un ragazzo, che cercò di afferrarla, ma invano. In
complesso, tuttavia, l’attesa aveva un pessimo effetto sui loro nervi. Nei
pensieri, vacillavano tra la speranza nel successo di Canessa e Parrado e i più
rassegnati progetti di una seconda spedizione, che sarebbe dovuta artire il 2 o
il 3 di gennaio.
Era il momento adatto perché capri espiatori dominassero sulla scena. Il
contenuto di un tubetto di pasta dentifricia era stato distribuito all’intero
gruppo, una minima quantità per volta, come dessert; questo tubetto venne
trovato spremuto e vuotato sul pavimento della fusoliera. Seguì un
‘immediata indagine e i sospetti parvero cadere su Moncho Sabella e Pancho
Delgado, perché essi erano stati i soli a trovarsi all’interno dell’aereo, ma
siccome non si riuscì a provare nulla, nessuno venne apertamente accusato.
Nel corso delle indagini, però, risultò che Roy Harley aveva, tra le sue cose,
un pieccolo tubetto di pasta dentifricia. Quando gli chiesero di giustificarne il
possesso, egli disse di averlo barattato con Delgado contro sette sigarette.
«E tu dove lo avevi preso, Pancho?» domandarono gli altri a Delgado.
«Muscoli lo portò su dalla coda dell’aereo e me lo diede perché lo dessi a
Numa. Così, quando Numa morì…»
«Tu lo tenesti?»
«Sì.»
«Perché non lo restituisti alla comunità?»
«Restituirlo? Non lo so. Non mi venne in mente.»
La questione fu discussa e dodici giudici ritennero che Delgado non
avesse avuto alcun diritto di tenere il dentifricio dopo la morte di Numa; non
avrebbe neppure avuto, pertanto, il diritto di darlo a Roy contro sette sigarette.
Il tubetto doveva essere pertanto confiscato dalla comunità, e Delgado doveva
fare ammenda con Roy.
Roy fu giudicato innocente perché non si era trovato nella sezione di coda
in quasi tutto il periodo durante il quale Delgado aveva avuto il tubetto e
pertanto poteva non sapere che esso doveva essere consegnato a Numa.
Delgado venne riconosciuto colpevole; ma i giudici, in genere, pensarono che
si fosse comportato in quel modo in buona fede, e poiché egli accettò di
buona grazia il verdetto dei propri pari e restituì le sigarette a Roy (anche se
soltanto quattro, perché parte della pasta dentifricia era stata mangiata), quel
particolare incidente venne dimenticato. Nella mente di alcuni dei suoi
compagni rimase tuttavia il sospetto che fosse stato lui a mangiare il contenuto
dell’altro tubetto di dentifricio; sebbene nessuno osasse accusarlo
apertamente, tutti fecero insinuazioni irose alla sua presenza.
Mentre ognuno dei giovani rubacchiava pezzi di carne di più, del tutto
apertamente (Inciarte, ad esempio, quando cucinava), Delgado rubava di
nascosto, e, siccome aveva minori possibilità degli altri, prendeva di più ogni
volta. Lo zelante Zerbino, per conseguenza, attenendosi al suo compito di
investigatore, decise di predisporre una trappola. Daniel Fernández stava
tagliando un cadavere a una certa distanza dalla fusoliera. Consegnava i pezzi
di carne più grossi a Zerbino, il quale, quando non se li metteva in bocca, li
passava a Delgado, che li consegnava a Eduardo Strauch affinché venissero
tagliati in pezzi più piccoli. Due dei pezzi meno grossi non arrivarono a
destinazione. Zerbino immediatamente ordinò a Fito di tener d’occhio
Delgado e poi consegnò un grosso pezzo di carne. Delgado, ignaro di essere
osservato, lo posò furtivamente su un vassoio accanto al suo sedile e passò a
Eduardo un pezzo più piccolo.
Zerbino lo affrontò subito. «Che cosa sta succedendo?» domandò.
«Succedendo?» disse Pancho.
«Che cos’è quella roba sul tuo vassoio?» volle sapere Fito.
«Di che cosa stai parlando?» domandò Pancho. «Questo? Questo pezzo di
carne? Oh, è un pezzettino che ha lasciato Daniel stamane.»
Fito e Zerbino lo fissarono con disprezzo, e si sforzarono di dominare
l’ira; poi gli voltarono le spalle e andarono a dirlo al «tedesco». Eduardo riuscì
meno bene a dominarsi. Non rivolse la parola direttamente a Delgado, che
rimaneva sul sedile a qualche passo di distanza, ma lo insultò con gli altri a
voce così alta che Pancho non potè non udirlo.
«Che cos’è questa storia?» domandò a Eduardo. «Stai parlando di me?»
«Proprio così», rispose l’altro. «Questa è la settima volta che scompare del
cibo, ed ecco che lo hai tu, sul tuo vassoio.»
Delgado impallidì e non rispose; Fito afferrò suo cugino per il braccio.
«Lascia perdere, lasciamo perdere», disse.
La furia del tedesco si dileguò, ma la disapprovazione dei cugini costituiva
un grave svantaggio nella piccola comunità del Fairchild. Venne a
determinarsi, contro Delgado, un forte risentimento. Se qualcosa mancava, si
facevano alla sua presenza scoperte insinuazioni sull’«opportunista» o sulla
«mano santa». Questo stato d’animo era condiviso anche da Algorta, che
dormiva insieme con lui, e che ricordava come Delgado lo avesse riscaldato
dopo la valanga. Sebbene egli non fosse affatto persuaso che ogni piccolo
furto venisse commesso da Delgado, si lasciò trascinare da quell’atmosfera di
antagonismo. Temeva persino che, difendendo Delgado, sarebbe stato
ignorato egli stesso dal gruppo. Methol e Mangino non ce l’avevano con
Pancho, ma l’unico giovane che continuò a essergli amico fu Coche Inciarte,
in quanto egli ricordava come Delgado gli avesse prestato la giacca quando
aveva freddo e costretto a mangiare carne e grasso quando, a causa della
ripugnanza, si sarebbe lasciato morire di fame. Eppure Coche era tanto
benvoluto, non solamente dai cugini, ma da tutti i ragazzi, che nessuno voleva
mettersi contro di lui a causa della sua piacevole compagnia. Questo solo
fattore salvò Pancho Delgado dall’isolamento totale.
***
Gli incidenti come questi con Delgado non miglioravano certo il morale.
Man mano che passavano i giorni, la radiolina captava soltanto brutte notizie.
La croce avvistata su una montagna non era la loro, ma l’opera di un gruppo
di geofisici argentini di Mendoza. Per conseguenza, gli elicotteri del SAR
venivano di nuovo tenuti al suolo. Soltanto il C47 uruguayano continuava le
ricerche.
Poi, un pomeriggio, udirono nel cielo il ronzio dei suoi motori. Una volta
di più, come quando avevano saputo della croce, i giovani arrivarono a
parossismi di entusiasmo e cominciarono a urlare e a pregare finché,
inorridendo, non udirono il rombo dell’aereo diventare più fioco. Serbarono
allora il silenzio più assoluto e, in piedi sulla neve, tesero le orecchie per udire
anche il suono più lieve. Il ronzio del velivolo si attenuò, poi ridivenne forte,
poi tornò a indebolirsi, e di nuovo divenne più forte. Non riuscivano a
scorgerlo, ma dedussero dal suono che stava sorvolando la zona secondo
linee parallele. Subito indossarono tutti i loro indumenti più vistosi e,
rendendosi conto che dall’aereo sarebbe stato più facile scorgere qualcosa in
movimento, si esercitarono in tutta una routine in base alla quale i più sani
correvano in tondo formando due cerchi, mentre gli zoppicanti formavano
una fila e agitavano le braccia verso il cielo. Affinché tutti sapessero dove
correre e dove restare fermi, segnarono i punti con ossa: una linea retta, con
un circolo a ciascun lato. Aspettarono fino a sera, mentre il rombo dei motori
dell’aereo risuonava sempre più vicino; e quando cominciò a far buio e nel
cielo non si udì più alcun suono, andarono a coricarsi felici pensando che il
velivolo avrebbe senza dubbio ripreso le ricerche là ove erano state interrotte.
Quella notte, come le altre notti, pregarono.per la salvezza, ma pregarono
anche affinché i componenti della spedizione venissero soccorsi prima che
l’aereo trovasse loro. La mattina dopo, quasi che quest’ultima preghiera fosse
stata esaudita in parte, appresero dalla radio che il C47 uruguayano aveva
avuto noie ai motori e si trovava di nuovo immobilizzato a Santiago.
Era trascorsa una settimana dalla partenza di Canessa e di Parrado, e
mancava meno di una settimana al giorno di Natale. Il pensiero che ormai,
quasi certamente, avrebbero dovuto trascorrere il Natale sulla montagna era
sconfortante all’estremo per quasi tutti loro. Soltanto Pedro Algorta si sentiva
ragionevolmente soddisfatto; egli non vedeva l’ora di fumare il sigaro Avana
che sarebbe toccato a ognuno di loro per festeggiare l’occasione. Per gli altri,
invece, l’imminenza del Natale fu causa del massimo scoraggiamento. Persino
Fito, avendo scalato la montagna assieme a Zerbino e veduto quel che li
circondava, dubitava che Parrado e Canessa riuscissero a passare. Parlò di
una nuova spedizione con Páez, Zerbino e i suoi cugini, ma senza l’ottimismo
e l’entusiasmo che aveva dimostrato in occasione della prima. Se i campioni
avevano fallito, quali probabilità potevano avere loro di riuscire?
Durante la mattinata, le menti dei giovani furono distratte da questo
pessimistico corso di pensieri dal lavoro del taglio della carne. Soltanto dopo
che ebbero mangiato e furono risaliti nella fusoliera per la siesta, si sentirono
quanto mai sviliti. Non riuscirono né a lavorare né a dormire, ma giacquero
irrequieti nell’umida e afosa cabina passeggeri, in attesa del fresco della sera.
Mangino era triste per Canessa. Methol, avendo trovato soltanto allora la
lettera scritta da Liliaa ai suoi figli, pianse copiosamente leggendola.
Ogni giorno, verso le tre o le quattro del pomeriggio, tornavano a uscire, e
le ore prima dell’oscurità erano le più iacevoli della giornata. Seduti, si
dedicavano a lavoretti di poco conto, come raschiare carne da un osso o
sciogliere neve per ricavarne acqua potabile, dimenticando così per un
momento dove si trovavano. Quindi, mentre il sole tramontava dietro le
montagne a ovest, risalivano per un breve tratto la valle e si mettevano a
sedere sui cuscini per fumare l’ultima sigaretta alla luce del crepuscolo. In
quel momento della giornata erano quasi felici.
Parlavano insieme di tutto, tranne che delle loro case delle loro famiglie;
ma la sera del 20 dicembre, i due Strauch e Daniel Fernández, mentre
sedevano in attesa del freddo e dell’oscurità, non poterono fare a meno di
pensare aIle feste natalizie degli anni precedenti che avevano trascorso
insieme così meravigliosamente. Il sangue tedesco continuava d essere in tutti
e tre abbastanza forte per rendere particolarmente intollerabile l’idea che quei
festeggiamenti continuassero anche senza di loro. Per la prima volta dopo
molti giorni, calde lacrime cominciarono a rotolare non soltanto sulle gote di
Eduardo e di Daniel, ma anche su quelle di Fito.
Parte Nona
1
La visuale che aveva dinanzi agli occhi era quella del paradiso. La neve
cessava lì. Da sotto il suo bianco manto si riversava un torrente d’acqua grigia
che scorreva con impeto tremendo in una gola e si rovesciava verso ovest su
macigni e grossi sassi. Ma, cosa ancor più splendida, ovunque egli guardasse
c’erano chiazze di verde… muschio, erba, giunchi, cespugli di ginestre, e fiori
gialli e viola.
Mentre Parrado rimaneva lì in piedi, con la faccia bagnata da lacrime di
felicità, Canessa si avvicinò alle sue spalle e anch’egli lanciò esclamazioni di
gioia e di delizia alla vista di quella valle benedetta. Poi entrambi i giovani si
allontanarono barcollando dalla neve e si lasciarono cadere sulle rocce lungo
il fiume. Là, tra uccelli e lucertole, pregarono Dio a voce alta, ringraziandoLo
con tutto il fervore dei loro giovani cuori per averli salvati dal gelo e
dall’arida morsa delle Ande.
Per più di un’ora riposarono al sole e, come se davvero quello fosse stato
il Paradiso Terrestre, gli uccelli che non avevano quasi mai veduto per un così
lungo periodo di tempo rimanevano appollaiati accanto a loro sulle rocce e
sembravano non essere affatto spaventati dalla straordinaria apparizione di
quei due esseri umani barbuti ed emaciati, i cui corpi erano imbottiti da
parecchi strati di indumenti sudici, le cui schiene erano ingobbite dagli zaini e
le cui facce erano screpolate e coperte di vesciche a causa del sole.
I due giovani erano ormai sicuri di essersi salvati, ma dovevano
proseguire e fare presto. Canessa raccattò un sasso per darlo a Laura quando
fosse tornato a casa, poi entrambi gettarono via uno dei cuscini, tenendo
soltanto quello su cui dormire. Quindi iniziarono la discesa sul lato destro
della gola. Sebbene non ci fosse più neve, il cammino non era facile.
Dovevano marciare su scabre rocce e scavalcare macigni grossi come
poltrone. A mezzogiorno si fermarono per mangiare. Poi proseguirono e
soltanto dopo che camminavano già da un’ora Canessa si accorse di aver
perduto gli occhiali da sole. Ricordò immediatamente di esserseli tolti per
metterli su una roccia mentre consumavano il pranzo, e, per quanto odiasse
l’idea di tornare indietro nella direzione dalla quale erano venuti, fu più
grande il timore che senza gli occhiali gli occhi potessero ustionarsi e orlarsi
di vesciche come le labbra. Così, mentre Parrado lo aspettava, Canessa tornò
sui propri passi fino al luogo nel quale avevano mangiato. Vi giunse in meno
di un’ora, ma, pur avendo riconosciuto il luogo stesso, non riuscì a ricordare
su quale tra centinaia di macigni avesse lasciato gli occhiali. Cominciò a
cercare e cercando pregò perché non vedeva in nessun posto quel che gli
stava a cuore. Lacrime di disperazione cominciarono a sgorgargli dagli occhi;
era stanco e demoralizzato… ma in ultimo, su un’alta roccia la cui sommità gli
era rimasta fino a quel momento nascosta, scorse gli occhiali da sole.
Due ore dopo aver lasciato Parrado, Canessa tornò da lui, e
immediatamente ripresero entrambi il cammino. Poco più oltre, però, furono
costretti a fermarsi da un affioramento di rocce che saliva quasi verticalmente
davanti a loro e scendeva a picco verso il fiume alla loro sinistra. Da dove si
trovavano, videro che il terreno era meno accidentato sull’altra riva del corso
d acqua. Anziché scalare l’ostacolo, decisero per conseguenza di attraversare il
fiume a guado. Questa non era un impresa facile di per sé. Il corso d’acqua
aveva una larghezza di sette-otto metri e la corrente era talmente impetuosa da
trascinare con sé macigni enormi. Ciò nonostante, esisteva al centro del fiume
una roccia grande abbastanza per resistere alla corrente e alta abbastanza per
emergere dall’acqua. Decisero che sarebbero riusciti a passare saltando dalla
riva su questa roccia, e dalla roccia alla riva opposta.
Canessa fu il primo. Si spogliò per non bagnare i vestiti, si legò intorno
alla vita una delle cinghie di nylon del vano bagagli, e vi aggiunse,
annodandole, altre due cinghie. Poi, mentre Parrado reggeva l’altra estremità,
nel caso egli fosse caduto nel fiume, saltò sulla roccia, e da essa sulla riva
opposta. Parrado, quando vide che il suo compagno era al sicuro, prese il
sacco a pelo, lo legò alla cinghia, e lo lanciò con tutta la sua forza sull’altra
riva. Là Canessa sciolse il nodo e rilanciò la cinghia, affinché indumenti,
bastoni, zaini, scarpe, tutto quel che possedevano, potesse essergli passato
nello stesso modo. Occorse un grande sforzo per fare arrivare gli zaini così
lontano, e il secondo cadde troppo in acqua, piombando contro le rocce lungo
la riva. Canessa dovette scendere fino all’orlo dell’acqua per ricuperarlo,
venne bagnato dagli spruzzi e quando lo aprì constatò che la bottiglia del rum
si era rotta.
A questo punto Parrado lo raggiunse, ma poiché gran parte dei loro
indumenti si era bagnata, proseguirono soltanto per un breve tratto. Trovata
una sporgenza rocciosa sotto la quale si sarebbero potuti riparare, decisero di
trascorrere lì la notte. Il sole continuava a splendere ed essi distesero ad
asciugare i capi di vestiario bagnati. Poi si sistemarono sui cuscini e
mangiarono un po’ di carne, osservati da un gran numero di lucertole curiose.
Quella notte fu più calda di ogni altra in passato. Dormirono bene e la
mattina dopo ripartirono per la loro ottava giornata di marcia attraverso le
Ande. Nella luce mattutina, lo scenario che avevano dinanzi era di una
bellezza insuperabile e lo sarebbe stato anche per occhi meno avidi dei loro
dei frutti della natura. Sebbene si trovassero ancora nell’ombra delle grandi
montagne che avevano alle spalle, il sole illuminava in lontananza l’angusta
valle, colorando con l’argento e l’oro della nebbia e della luce il verde delle
ginestre e dei cactus. Ora si cominciavano a vedere alberi più avanti e, verso
la metà della mattinata, a Canessa parve di scorge una mandria di vacche al
pascolo sul fianco della montata.
«Vedo delle vacche!» egli gridò a Parrado.
«Vacche?» ripetè quest’ultimo, battendo le palpebre e guardando in
lontananza, senza però veder nulla a causa della sua miopia. «Sei sicuro che
siano vacche?»
«Sembrano vacche.»
«Forse sono cervi… o tapiri.»
Quanto vedevano dinanzi a loro aveva a tal punto, in ogni caso, l’aspetto
di un miraggio, che essi non riposero esagete aspettative in quei distanti
animali. Ma, grazie a ciò che avevano veduto, il loro morale rimase alto e il
loro stato d’animo ottimista proprio nel momento in cui il corpo di entrambi,
e soprattutto quello di Canessa, risentiva degli sforzi compiuti. L’orizzonte
poteva essere verdeggiante, ma il terreno che stavano percorrendo non era più
facile di prima; avevano continuare a balzare, appesantiti dagli zaini, da un
vacillante macigno all’altro, oppure camminare, con le loro fragili caviglie,
sulle pietre e i ciottoli lungo la riva del fiume.
Poi, improvvisamente, trovarono un segno più tangibile della civiltà, un
barattolo vuoto di minestra in scatola. Era arrugginito, ma si poteva ancora
leggere sull’etichetta il nome del produttore: Maggi. Canessa lo tenne ben
stretto nella mano. «Guarda, Nando», disse. «Significa che qui c’è stato
qualcuno.»
Parrado era più prudente. «Potrebbe essere caduto da un aereo.»
«Come diavolo potrebbe essere caduto da un aereo? Gli aerei non hanno
finestrini apribili, no?»
Non c’era modo di stabilire da quanto tempo il barattolo trovasse lì, ma il
vederlo li colmò di speranza e, mentre continuavano a discendere la valle,
scorsero alta segni di vita. Videro due lepri balzare oltre le rocce, sull’altra riva
del urne. Poi capitarono su degli escrementi.
«Questo è sterco di vacca», esclamò Canessa. «Te l’avevo detto, erano
vacche quelle che vedevo.»
«Come lo sai?» domandò Parrado. «Questo potrebbe ssere sterco di
qualsiasi animale.»
«Se ti intendessi di vacche», disse Canessa, «la metà di quanto ti intendi di
automobili, sapresti che è sterco di vacca.»
Parrado fece una spallucciata e proseguirono. Più avanti, sedettero accanto
al fiume per riposare e mangiare un po’ di carne. Notarono, mentre aprivano il
calzettone da rugby, che, sebbene le loro provviste continuassero a essere
sufficienti, cominciavano a guastarsi a causa della temperatura più elevata.
Dopo aver mangiato una razione di due pezzi, rimisero ugualmente via il resto
e continuarono a scendere. Il fiume era più largo perché di tanto in tanto
veniva alimentato da ruscelli e torrentelli che si gettavano in esso dai fianchi
delle montagne.
E lì, ove il fiume si ampliava, trovarono un ferro di cavallo. Era
arrugginito come il barattolo di minestra; per conseguenza non si poteva
sapere da quanto tempo si trovasse in quel luogo, ma non si trattava di
qualcosa che potesse essere caduto da un aereo e pertanto era la prova
incontestabile del fatto che si stavano avvicinando a una regione abitata delle
Ande. Poco dopo, ne ebbero un’ulteriore prova. Dopo aver aggirato uno dei
tanti affioramenti rocciosi della valle, si trovarono a un tratto a un centinaio di
metri dalle vacche che Canessa aveva veduto da lontano quel mattino.
Ma Parrado continuò a essere circospetto. «Sei sicuro che non siano
vacche selvatiche?» domandò a Canessa, fissando gli animali che
ricambiavano il suo sguardo.
«Vacche selvatiche? Non ci sono vacche selvatiche sulle Ande. Puoi star
certo, Nando, che in qualche posto qui attorno troveremo il proprietario della
mandria, o qualcuno che la sta sorvegliando.» E, come per dimostrare che la
sua asserzione era vera, additò ceppi d’alberi abbattuti a colpi di scure da
mani umane. «Non mi dirai che sono stati i tapiri o le vacche selvatiche ad
abbattere questi alberi.»
Parrado non potè contestare che le intaccature sul legno fossero quelle di
una scure, e un po’ più avanti nella valle trovarono un recinto per il bestiame
fatto con rami e ramaglie; un materiale eccellente, i due giovani se ne resero
conto, per accendere il fuoco. Decisero per conseguenza di sostare lì per
quella notte e di festeggiare la salvezza imminente banchettando con la carne
rimasta.
«In fin dei conti», osservò Canessa, «sta marcendo. E possiamo essere
certi che domattina troveremo un pastore o un contadino. Domani sera, te lo
prometto, Nando, dormiremo in una casa.»
Si tolsero gli zaini, accesero il fuoco e vuotarono i calzettoni che
contenevano le provviste. Arrostirono poi dieci pezzi di carne per ciascuno e
mangiarono finché il loro stomaco si rifiutò di accogliere altro cibo. Quindi si
infilarono nel sacco a pelo, in attesa del tramonto del sole.
Ora che la salvezza sembrava così certa, consentirono a sé stessi di
pensare a cose fino a quel momento troppo pericolose a contemplarsi.
Canessa parlò a Parrado di Laura Suraco e descrisse i pranzi nella casa di lei,
la domenica; Parado, a sua volta, parlò a Roberto delle ragazze che aveva
conosciuto prima del disastro del Fairchild e gli disse quanto li invidiava la
fidanzata.
Il fuoco si spense. Il sole tramontò. E, con questi pensieri piacevoli nella
mente, i due giovani ingozzati di cibo si adormentarono.
3
Il sole spuntò nel decimo giorno del loro viaggio attraverso le Ande. Alle sei
entrambi i giovani erano desti e, guardando la riva opposta del fiume, videro
il fumo di un fuoco e un uomo in piedi accanto ad esso. Al suo fianco si
trovavano altri due uomini, entrambi ancora a cavallo. Non appena li scorse,
Parrado si precipitò di nuovo verso il margine della gola; venne allora a
trovarsi abbastanza vicino all’uomo dall’altro lato per riuscire ad interpretarne
i gesti, che lo invitavano a scendere il fianco della gola fino alla riva del
fiume. Così egli si regolò e il pastore fece altrettanto, finché furono separati
soltanto dalla larghezza del torrente, una trentina di metri. Sebbene fossero ora
più vicini, lo scroscio dell’acqua che scendeva a cascata era ancor più forte di
prima, e i due non avrebbero mai potuto parlarsi, ma il pastore, che aveva una
faccia tonda e scaltra, sormontata da un cappello di paglia, era venuto
preparato. Prese un pezzo di carta, vi scrisse su qualcosa, lo avvolse intorno a
un sasso e lo lanciò al di là del fiume.
Parrado incespicò sui ciottoli, raccattò il messaggio e spiegò il foglio. Su
di esso lesse:
Più tardi arriverà un uomo al quale ho detto di venire.
Pàez si ficcò le lettere in tasca, alzò gli occhi e vide che il secondo
elicottero era in posizione. Andò verso di esso con Algorta ed Eduardo e salì a
bordo. Dopo di lui venne Inciarte, che fu aiutato da Dìaz; con i quattro
superstiti, Massa aveva ormai la sua quota di passeggeri e si risollevò…
lasciando Delgado, Sabel, François, Vizintìn, Methol, Zerbino, Harley e Fito
Strauch conn i tre del Soccorso Andino e con l’inserviente d’ospedale.
L’ascesa dal lato est della montagna non fu meno terricante di quella
dall’altra parte, terrificante a tal punto, invero, che i nuovi passeggeri
cominciarono a pentirsi di aver rinunciato alla relativa sicurezza della loro
«casa» nella fusiliera del Fairchild. Fernández si voltò verso Parrado, mentre
l’intero elicottero vibrava a causa dello sforzo dei motori, e gli domandò se
quelle vibrazioni fossero normali.
«Oh, sì!» gli urlò Parrado, ma Fernández capì dalla sua faccia che egli era
altrettanto spaventato.
Mangino si rivolse al soldato seduto accanto a lui e domandò se
l’elicottero fosse in grado di affrontare simili condizioni. Il meccanico lo
rassicurò, ma l’espressione che aveva sulla faccia era meno fiduciosa delle
parole, e Mangino cominciò a pregare come non aveva mai pregato fino a
quel momento.
La difficoltà cui si trovavano di fronte García e Massa consisteva nel fatto
che l’aria a quell’altezza era troppo rarefatta perché gli elicotteri potessero
sollevarsi con la sola potenza dei motori. Essi, pertanto, tentavano di
impiegare gli apparecchi come alianti, cercando una corrente d’aria calda che
li sollevasse di alcuni metri, poi librandosi a quella quota finché una nuova
corrente non li portava ancora più in alto. Si trattava di una tecnica che
richiedeva un’abilità eccezionale, ma non più di quanta essi ne possedessero,
poiché finalmente vennero a trovarsi al di sopra della vetta e discesero
rapidamente nella valle all’altro lato, verso la biforcazione e Los Maitenes.
***
Occorsero loro soltanto quindici minuti per giungere al Campo Alfa, ove i
sei superstiti appena tratti in salvo balzarono sul terreno verdeggiante in preda
a un’estasi di felicità e di sollievo. Erano meravigliati dai colori che
improvvisamente li circondavano ovunque, inebriati dal profumo dell’erba e
dei fiori; come se fossero stati brilli, si abbracciarono e si rotolarono per terra.
Eduardo si distese supino sull’erba, quasi l’avesse trovata più morbida della
più morbida seta. Si voltò e vide una margherita a un palmo dal suo naso. La
colse, la odorò, poi la porse a Carlitos, che gli si era disteso al fianco; Carlitos
la prese e stava a sua volta per odorarla, ma poi se la mise in bocca e la
mangiò.
In quello stesso momento, Canessa e Algorta si abbracciavano e si
rotolavano a terra; entusiasta ed eccitato com’era, Algorta afferrò Canessa per
i capelli. Ecco che ricomincia, lo stupido idiota, pensò Canessa. Ricomincia a
tormentarmi proprio come lassù.
Quando questa prima ondata di effervescenza si fu placata e i giovani si
resero conto di essere riusciti a sopravvivere non soltanto ai settantun giorni
trascorsi sulle Ande ma anche al volo terrificante in elicottero, i loro pensieri
si volsero immediatamente al cibo e tutti e sei si precipitarono sul caffè
bollente, sulla cioccolata e sul formaggio che erano stati preparati per loro. Al
contempo la squadra medica li visitò e constatò che, sebbene soffrissero tutti,
in un modo o nell’altro, di denutrizione e di carenze vitaminiche, nessuno di
essi si trovava in condizioni critiche.
Gli otto superstiti che erano già stati tratti in salvo dal luogo dell’incidente
potevano pertanto aspettare mentre gli elicotteri sarebbero tornati a prendere
gli altri; ma Garcìa disse al colonnello che, siccome nessuno sulla montagna
era in imminente pericolo di vita, non sarebbe stato prudente tornare lassù
quella sera stessa, tenuto conto delle condizioni meteorologiche proibitive.
Morel riconobbe che la seconda operazione di soccorso poteva essere
rimandata al giorno dopo; quanto ai primi otto superstiti, avrebbero raggiunto
in aereo San Fernando nel pomeriggio.
2
L’ospedale di San Giovanni di Dio, a San Fernando, era stato avvertito alle sei
di quel mattino, dal colonnello Morel, di prepararsi a ricoverare i superstiti del
Fairchild uruguayano. Il direttore, dottor Baquedano, formò immediatamente
un gruppo con i suoi collaboratori più capaci, i dottori Ausin, Valenzuela e
Melej, affinché impartissero tutte le disposizioni necessarie. In quel momento
essi non erano in grado di sapere in quali condizioni sarebbero stati i
superstiti; sapevano soltanto che erano rimasti bloccati sulle Ande, con poco o
nessun cibo, per più di settanta giorni.
Per prima cosa, fecero preparare i letti. L'ospedale piccolo e sistemato in
un vetusto edificio, una costruzione a un solo piano, con cortili interni e una
veranda coperta intorno a ciascun reparto. Ma esisteva un’ala riservata ai
pazienti solventi, e si decise di sgombrarla per accogliervi i superstiti. Mentre
ciò veniva fatto, i tre medici telefonarono a un altro dottor Valenzuela,
direttore del reparto terapie intensive nell’Ospedale Centrale di Santiago. Gli
spiegarono quali cure fossero state previste per i pazienti al loro arrivo, ed
ebbero la sua conferma del fatto che si trattava di quelle indicate.
Le autoambulanze con i primi otto superstiti arrivarono alle quindici e
dieci. I giovani furono portati nel cortile, tra l’edificio principale dell’ospedale
e la cappella di mattoni su un lato, e quindi vennero fatti sdraiare su lettini a
rotelle… tutti tranne Parrado, il quale volle a tutti i costi entrare a piedi e si
aprì un varco tra la folla di infermiere e di curiosi accorsi per assistere
all’arrivo. Quando giunse all’ingresso dell’ala privata, venne fermato dal
poliziotto posto là di guardia.
«Spiacente», disse l’uomo. «Non può entrare qui. È riservato ai
superstiti.»
«Ma io sono uno dei superstiti», rispose Parrado.
Il poliziotto osservò l’alto giovane che aveva di fronte, e soltanto la barba
e i capelli lunghi e arruffati lo persuasero del fatto che quanto Parrado diceva
era vero. Anche le infermiere erano incredule e tentarono di convincere il
componente della spedizione a mettersi a letto, ma lui rifiutò di coricarsi e di
lasciarsi visitare dai medici prima di avere fatto il bagno. Le infermiere
sembravano allibite e andarono a informarsi dai dottori, i quali si strinsero
nelle spalle e dissero che tanto valeva lasciarlo fare a modo suo.
Incominciarono così a rendersi conto del fatto che i loro pazienti non si
sarebbero comportati affatto come si aspettavano.
Il bagno venne preparato per Parrado. Egli chiese uno shampoo, e
un’infermiera andò a prendere il suo personale. Parrado poté finalmente
togliersi i vestiti puzzolenti e affondare il proprio corpo nell’acqua. Si lavò
dappertutto e rimase nell’acqua calda per un’ora e mezzo. Dopo il bagno fece
la doccia per togliersi di dosso l’acqua sporca, quindi indossò il camice
bianco fornitogli dall’ospedale. Si sentiva meravigliosamente bene e, con
benevola indifferenza, consentì ai tre medici perplessi di visitarlo. Non
riuscirono a trovare in lui alcuna disfunzione.
Naturalmente, Parrado, come tutti gli altri sette, era molto dimagrito.
Aveva perduto più di ventidue chili del suo peso normale. A dimagrire meno
erano stati Fernández, Páez, Algorta e Mangino, che avevano perduto tra i
tredici e i quindici chilogrammi ciascuno. Canessa era dimagrito di diciassette
chili, Eduardo Strauch di diciannove, e Inciarte di quaranta. Questa enorme
differenza dimostrava non soltanto quanto fossero diventati magri, ma quanto
erano stati robusti in passato; infatti, mentre Fernández, Algorta, Mangino
Eduardo Strauch avevano pesato tra sessantasei e settantacinque chili prima
dell’incidente, Parrado e Inciarte ne pesavano entrambi quasi novanta. I
medici si stupirono per il fatto che Páez, il quale non era un ragazzo alto,
pesava ben sessantotto chilogrammi al momento del ricovero nell’ospedale an
Giovanni di Dio, a San Fernando.
Alcuni dei giovani avevano lesioni o disturbi specifici che i medici fecero
del loro meglio per curare. Mangino aveva una gamba fratturata, la gamba di
Inciarte continuava a essere gravemente infetta. Algorta soffriva di dolori al
fegato. Mangino era inoltre febbricitante, aveva la pressione alta e il polso
irregolare. Per giunta gli esami rivelarono in tutti loro una carenza di grassi,
proteine e vitamine. I giovani soffrivano anche di ustioni solari alle labbra, di
congiuntivite e di varie malattie della pelle.
Ben presto apparve chiaro ai tre medici dai quali furono visitati che quegli
otto ragazzi si erano nutriti con qualcosa di più della neve sciolta nelle scorse
dieci settimane, e uno di essi, esaminando la gamba di Inciarte, gli domandò:
«Che cosa è stata l’ultima cosa che ha mangiato?»
«Carne umana», rispose Coche.
Il dottore continuò a curare la gamba senza fare commenti e senza tradire
alcuno stupore.
Fernández e Mangino rivelarono entrambi ai medici di che cosa si erano
nutriti sulla montagna, e, una volta di più, i dottori non fecero alcun
commento in un senso o nell’altro, pur dando severe disposizioni affinché
nessun giornalista venisse lasciato entrare nell’ospedale. Eppure, non
pensarono a modificare le disposizioni impartite per quanto concerneva
l’alimentazione degli otto superstiti. Mangino, Inciarte e Eduardo Strauch, i
più pericolosamente denutriti, furono alimentati mediante fleboclisi; agli altri
vennero somministrati liquidi e modeste porzioni di una gelatina
appositamente preparata poi li si lasciò riposare.
Soltanto dopo qualche tempo i giovani si resero conto che per il momento
non avrebbero avuto altro. L’unico cibo solido che avessero veduto dopo il
ricovero in ospedale era il pezzo di formaggio portato da Canessa, come
ricordo, dalle capanne di Los Maitenes, e posto sul comodino accanto al suo
letto. Ogni ragazzo aveva la propria camera, ma i più in forze passarono
dall’una all’altra e ben presto si accordarono tutti nel senso di chiedere alle
infermiere qualcosa di più sostanzioso da mangiare. Le infermiere opposero
alla richiesta gli ordini severi dei dottori Melej, Ausin e Valenzuela, secondo i
quali non doveva essere servito loro alcun altro cibo.
La necessità rende l’uomo ladro. Carlitos Pàez si era reso conto di essere,
in un certo qual modo, una celebrità e promise alle infermiere ogni genere di
autografi «speciali» e di souvenirs, se soltanto gli avessero procurato qualcosa
di solido da mangiare. Ma le incantevoli infermiere cilene non si lasciavano
corrompere tanto facilmente. I ragazzi cominciarono pertanto a compilare una
petizione di protesta contro i dottori Melej, Ausin e Valenzuela, i quali,
asserirono, li stavano facendo morire di fame.
I medici tornarono nel reparto e ascoltarono la lettura della petizione.
Risposero spiegando quanto fosse pericoloso ingerire cibi solidi dopo lunghi
periodi di denutrizione.
«Ma dottore», disse Canessa, «io ho mangiato fagioli e maccheroni, ieri a
pranzo, e oggi sto benissimo.»
I medici si arresero. Ordinarono alle infermiere di servire un pasto
completo a ognuno degli otto superstiti.
***
Appariva ormai chiaro che nessuno degli otto pazienti si trovava in
condizioni fisiche critiche. La preoccupazione dei dottori si spostò a questo
punto sul settore della loro salute mentale. Avevano notato sin dai primissimi
momenti, nei giovani, due sintomi: anzitutto un impulso coattivo che li
costringeva a parlare e, in secondo luogo, la paura di essere lasciati soli.
Coche Inciarte, il primo a entrare in ospedale, aveva afferrato la mano del
dottor Ausin, dal lettino a rotelle tenendola stretta finché non era stato messo
letto. In seguito aveva parlato con chiunque fosse entrato nella sua stanza; e
altrettanto avevano fatto glia altri, in particolare Carlitos Pàez.
Questo comportamento non ora straordinario in giovani che avevano
trascorso dieci settimane isolati sulle Ande, ma, tenuto conto del fatto, appena
venuto a conoscenza dei medici, che i loro pazienti erano vivi grazie a una
dieta di care umana, esso sarebbe potuto essere la prima manifestazione di un
più grave modo di agire psicotico. Per tale motivo i dottori ordinarono che a
nessuno fosse consentito di far visita ai giovani, nemmeno alle madri di
Carlitos e Canessa, le quali erano già arrivate da Montevideo.
Per un uomo, tuttavia, tra la ressa delle persone pigiate all’ingresso
dell’ospedale, fu fatta eccezione alla regola. Si trattava di padre Andrés Rojas,
il curato della chiesa parrocchiale di San Fernando Rey. Come tutti gli altri a
San Ferìando, egli aveva saputo del «miracolo di Natale» (com’era stato ormai
denominato il ritrovamento dei superstiti), e veduto quel pomeriggio gli
elicotteri sorvolare la cittadina all’arrivo da Los Maitenes. Era stato assalito
dall’impulso immediato di recarsi all’ospedale e di offrire tutto l’aiuto che
avrebbe potuto dare, ma tale impulso aveva trovato un ostacolo in una certa
riluttanza ad interferire con la direzione del San Giovanni di Dio. Più tardi nel
pomeriggio, però, egli ricordò certi impegni che gli fornivano un pretesto per
recarsi là.
Era un giovane di appena ventisei anni, consacrato sacerdote soltanto
l’anno prima. Dimostrava ancor meno della sua età, essendo piuttosto basso
di statura, con i capelli neri, la pelle bruna e una fisionomia fanciullesca.
Indossava, inoltre, non già la nera tonaca clericale, ma un paio di calzoni grigi
e una camicia grigia dal colletto aperto, per cui, una volta arrivato
all’ospedale, non sarebbe stato notato tra la folla se i dottori Ausin e Melej
non lo avessero riconosciuto e invitato a far visita ai superstiti.
Fu introdotto nel reparto solventi, e là entrò nella prima camera del
corridoio, quella di Coche Inciarte. Fu una scelta fortunata poiché il
balbettante Coche, non appena saputo che si trattava di un sacerdote, prese a
parlare e a parlare. Raccontò a padre Andrés quanto era accaduto sulla
montagna… non già con la fredda obiettività di un osservatore distaccato, ma
con parole nobili e mistiche, tali da lasciar capire assai meglio che cosa avesse
significato per lui quella esperienza.
«È stata una cosa che nessuno avrebbe potuto immaginare. Io ero solito
andare a Messa tutte le domeniche, e la Santa Comunione aveva finito con il
rappresentare per me un qualcosa di automatico. Ma lassù, assistendo a tanti
miracoli, essendo così vicino a Dio, quasi toccandolo, mi sono reso conto
come tutto sia molto diverso. Ora prego Dio affinché mi conceda la forza di
non tornare a essere quello di un tempo, e, me lo impedisca. Ho imparato che
la vita è amore, e che amore significa dare al proprio prossimo, l’anima di un
uomo è la cosa più bella che esista in lui. Non c’è niente di meglio del donare
ai nostri simili…»
Padre Andrés, ascoltando, si rese conto della natura esatta del dono al
quale si riferiva Inciarte… il dono, da parte dei compagni defunti, della
propria carne. Non appena lo ebbe capito, il giovane sacerdote si affrettò ad
assicurare a Inciarte che quanto egli aveva fatto non era un peccato. «Tornerò
qui oggi stesso per comunicarti», disse.
«Allora vorrei confessarmi», disse Coche.
«Hai già confessato», osservò il sacerdote, «con questa conversazione.»
Entrato nella camera di Alvaro Mangino, padre Andrés si trovò di fronte
allo stesso fenomeno: il desiderio intenso da parte del giovane di spiegare ciò
che aveva fatto, descritto con un insieme confuso di rimorsi e di
giustificazioni. Una volta di più il sacerdote rassicurò quel ragazzo
preoccupato: l’azione da lui commessa non era un peccato. Avrebbe potuto
fare la comunione quel pomeriggio stesso senza confessarsi; oppure, se
voleva confessarsi, la confessione sarebbe servita soltanto a liberarlo di altri
peccati.
Vi fu una domanda, tuttavia, che Inciarte gli pose e alla quale egli non
seppe rispondere. Come mai lui aveva vissuto, mentre altri erano morti? Qual
era stato lo scopo di Dio nel procedere a quella scelta? Che senso poteva
avere? «Nessuno», rispose padre Andrés. «Vi sono momenti in cui la volontà
di Dio non può essere capita dalla nostra intelligenza umana. Vi sono cose che
dobbiamo accettare in tutta umiltà come un mistero.»
Consentendo a padre Andrés di far visita ai superstiti, i medici avevano
scelto una terapia estremamente efficace. La decisione di nutrirsi con i corpi
dei loro amici fini era stata un grave cimento per la coscienza di molti giovani
sulla montagna. Erano tutti cattolici romani e accessibili al giudizio della loro
Chiesa su quanto avevano fatto. Poiché, secondo l’insegnamento della Chiesa
cattolica l’antropofagia in extremis è ammissibile, questo sacerdote potè non
tanto perdonarli quanto dir loro che non avevano fatto nulla di male. Tale
giudizio, appoggiato da tutta l’autorità della Chiesa, assicurò, per lo meno a
coloro i quali si sentivano incerti, la pace dello spirito.
Uno o due dei giovani non sentivano la necessità di essere rassicurati, o
non ammettevano di sentirla, ed ebbero ben poco da dire a padre Andrés.
Algorta, ad esempio, non era in vena di parlare con chicchessia, e meno che
mai con quel giovane ecclesiastico il cui volto aveva l’espressione di un santo.
4
Gli otto superstiti rimasti sulla montagna seguirono con lo sguardo l’ascesa
dei due elicotteri finché non furono scomparsi entrambi al di là della vetta.
Poi Zerbino si rivolse a Lucerò, uno dei tre appartenenti al Corpo di Soccorso
Andino, e lo invitò a visitare la loro «casa», la fusoliera del Fairchild, in attesa
del ritorno degli elicotteri. Mentre si dirigevano verso l’ingresso, Lucero
sbirciò i frammenti di ossa umane che giacevano sparsi sulla neve e domandò:
«I cadaveri sono stati divorati dai condor?»
«No», rispose Zerbino, seguendo la direzione del suo sguardo. «Da noi.»
Lucero non disse nulla e non tradì alcuno stupore, ma, quando giunsero
dinanzi alla fusoliera del Fairchild, il cui tetto era coperto da strisce di grasso,
esitò un attimo. Poi si chinò ed entrò. Zerbino entrò assieme a lui e gli spiegò
come avessero vissuto e dormito per così lungo tempo in uno spazio tanto
angusto, e come la valanga, avventandosi giù dalla montagna, avesse ucciso
otto di coloro che erano sopravvissuti all’incidente. Lucero ascoltava con
molta comprensione e con interesse, ma non riusciva a ignorare il fetore che
pervadeva l’interno dell’aereo. Sfortunatamente, il suo anfitrione sembrava
ignaro dell’esistenza di un odore qualsiasi, e lui era troppo compito per
parlarne, ma tornò il più rapidamente possibile all’aria aperta.
Nel frattempo, l’altro ospite si era occupato dei compagni di Zerbino,
medicandoli e provvedendo alle richieste più urgenti dei loro stomachi. Vi
furono anzitutto sandwich con carne, fette di manzo arrosto tra fettine di pane
non lievitato. Poi succo d’arancia, succo di limone, minestra (riscaldata sul
fornello degli appartenenti al Corpo di Soccorso) e infine una torta alla frutta,
che Dìaz aveva portato perché quel giorno era il suo compleanno. Fu un
banchetto. I giovani mangiarono e bevvero con voluttà e si servirono del
burro con le dita.
Preparandosi al ritorno degli elicotteri, gli ospiti cercarono a questo punto
di costruire uno spiazzo d’atterraggio sulla neve. Demolirono la parete
all’ingresso della fusoliera, presero una grande lastra di plastica che un tempo
aveva fatto parte della parete divisoria tra la cabina passeggeri e il vano
bagagli, e la collocarono sulla neve in una posizione il più possibile
orizzontale. Completarono l’improvvisato spiazzo di atterraggio per gli
elicotteri, partiti ormai da qualche tempo, servendosi di pezzi di cartone.
Cominciarono inoltre a fotografare quel che vedevano intorno a loro.
Notando ciò, i ragazzi si turbarono e domandarono perché mai fosse
necessario. Gli appartenenti al Corpo di Soccorso li calmarono dicendo che si
limitavano a fornire una documentazione all’esercito cileno, come era stato
loro richiesto, e che nessuna delle fotografie sarebbe mai stata pubblicata.
I ragazzi parvero soddisfatti, e in ogni caso sarebbe stato difficile adirarsi
con soccorritori cortesi come i quattro cileni. Uno di questi ultimi offrì
persino una sigaretta a Zerbino.
«No, grazie», disse il giovane, «preferisco le mie.» E senza sorridere, per
non far capire che aveva già provato quella battuta, accese una delle sue
ultime sigarette uruguayane.
Verso le quattro del pomeriggio, divenne manifesto che gli elicotteri non
sarebbero tornati quella sera. Subito l’animazione degli otto superstiti cedette
il posto al pensiero desolante che sarebbero stati costretti a trascorrere un’altra
notte sulla montagna. Gli ospiti, rendendosene conto, fecero tutto il possibile
per risollevare il morale. Accesero il fornello e cucinarono altre minestre,
dapprima minestra di pollo, poi minestra di cipolle, poi minestra scandinava.
In seguito Methol domandò se, per caso, avessero un po’ di maté.
«Maté? Ma naturale che abbiamo il maté! Come ha potuto immaginare che
quattro cileni fossero senza maté?»
Prepararono il maté, e poi il caffè. Nel frattempo, il sole era scomparso
dietro le montagne e cominciava a far freddo. Per i giovani, quell’improvviso
abbassamento della temperatura era ormai abituale. Gli appartenenti al Corpo
di Soccoro Andino, dal canto loro, disponevano di anorak impermeabili, dalle
vivide tinte, che li proteggevano dal gelo. L’unico che cominciò a soffrire fu
Bravo, l’inserviente d’ospedale, che si era lanciato dall’elicottero con una
camicetta dalle maniche corte, calzando mocassini; ma i cileni del Corpo di
Soccorso gli procurarono alcuni indumenti.
Quindi i quattro cileni, messisi a sedere nella fusoliera assieme ai
superstiti, cominciarono a intonare canzoni per tenere alto il morale; ma, man
mano che il sole continuava a calare dietro le montagne, fece sempre più
freddo, e giunse per tutti loro il momento di tentar di dormire. Gli otto
sopravvissuti, del tutto logicamente, invitarono gli ospiti a restare con loro
nella fusoliera, ma i cileni mostrarono qualche riluttanza, uscirono dal
Fairchild e montarono una tenda sulla neve, a una certa distanza. Gli otto
uruguayam si risentirono alquanto vedendo così disdegnata la loro ospitalità
(sebbene alcuni di loro avessero ormai intuito che l’interno della fusoliera
poteva non avere per gli altri lo stesso soave olezzo che essi percepivano) e
decisero di fare in modo che almeno uno degli appartenenti al Corpo di
Soccorso passasse la notte assieme a loro.
Scelsero Dìaz perché il giorno dopo era il suo compleanno. Dissero che se
non fosse venuto a dormire con loro avrebbero strappato dalla neve i picchetti
della tenda a mezzanotte. Dìaz si arrese. Mentre i suoi colleghi e l’inserviente
d’ospedale si ritiravano nella tenda, aiutò i ragazzi a ricostruire la parete
all’ingresso della fusoliera, poi si arrampicò dentro con essi e sedette in mezzo
agli otto puzzolenti, emaciati, felici uruguayani. Nessuno dormì e nemmeno ci
provò. Dìaz parlò ai giovani della vita degli appartenenti al Corpo di Soccorso
Andino e narrò loro alcune delle sue avventure sulle montagne. Essi, a loro
volta, gli raccontarono con maggiori particolari quel che avevano passato.
Dìaz li avvertì che quanto avevano fatto poteva scandalizzare il mondo.
«Ma la gente capirà?» gli domandarono i giovani.
«Ma certo», li rassicurò lui. «Quando tutti i fatti saranno resi noti, ognuno
si renderà conto che faceste come dovevate fare.»
A mezzanotte Dìaz compiva quarantotto anni, e gli otto uruguayani gli
cantarono «Happy birthday to you».
Nessuno dormì, quella notte, e, sin dalle prime ore della mattina dopo, i
loro pensieri si volsero al cibo. Tutte le provviste si trovavano nella tenda,
però, e quando uscirono sulla neve, alla prima luce dell’alba, nulla dava a
vedere che gli altri tre cileni fossero desti. Un coro risuonò allora nella valle,
«Vogliamo la colazione! Vogliamo la colazione!», e di lì a poco le facce
assonnate di Lucero e di Villegas apparvero tra i lembi di tela della tenda.
«Che cosa volete per colazione?» gridò Lucero.
«Ieri abbiamo preso il caffè», gridò, a sua volta, uno dei ragazzi. «Oggi
vogliamo il tè!»
«Il tè? Benissimo.» Lucero, Villegas, poi Bravo, uscirono dalla tenda e,
poco dopo, gli otto superstiti stavano facendo colazione con tè bollente e
biscotti secchi. Mentre mangiavano, quelli del Corpo di Soccorso spiegarono
come dovevano avvicinarsi agli elicotteri, al loro arrivo, in quanto avevano
rinunciato all’idea dello spiazzo d’atterraggio e sapevano che gli apparecchi
avrebbero potuto soltanto librarsi sopra la neve.
Dopo colazione, i giovani si prepararono a essere tratti in salvo.
Riordinarono i vestiti che indossavano e di nuovo si pettinarono; Zerbino
portò fuori della fusoliera la valigia nella quale lui e Fernández avevano
riposto tutto il denaro e i documenti delle vittime. Inoltre portarono fuori la
minuscola scarpetta rossa che completava il paio acquistato da Parrado a
Mendoza.
«Non riuscirà a portare quella sull’elicottero», disse uno dei cileni,
vedendo Zerbino con la valigia.
«Devo», rispose il giovane. Spiegò quale fosse il contenuto della valigia e
descrisse a Lucero il luogo nel quale giacevano i cadaveri dei viaggiatori
caduti fuori della fusoliera, sulla sommità della montagna.
Verso le dieci udirono il rombo degli elicotteri e poi ne videro apparire tre
nel cielo sopra di loro. Nell’aria meno turbolenta del mattino, gli apparecchi
non erano sbalestrati come il giorno prima; ciò nonostante non si abbassarono
subito, ma girarono sopra il relitto del Fairchild. I superstiti, che si stavano
sbracciando freneticamente per salutare i velivoli, videro macchine
fotografiche e cineprese sporgere dai finestrini. Infine le une e le altre furono
ritirate e il primo elicottero si abbassò sempre e sempre più, fino ad
appoggiare uno degli sci sulla neve.
I primi tre giovani si fecero avanti, ma era difficile avvicinarsi
all’apparecchio ruggente a causa del vento causato dal rotore. Roy Harley, in
condizioni di estrema debolezza, fu aiutato ad andare verso l’elicottero da
Bobby François, ma anche quest’ultimo venne respinto dalle folate di vento.
Soltanto con l’aiuto dei cileni essi riuscirono a salire a bordo.
Infine il primo elicottero si sollevò con i tre passeggeri e il secondo si
abbassò; il pilota cercava di evitare che le pale del rotore urtassero contro la
roccia, il successivo gruppo di superstiti faceva in modo da evitare di essere
decapitato dalle pale stesse; poi anche questi giovani vennero a trovarsi a
bordo; l’apparecchio si sollevò, il terzo prese il suo posto, e gli ultimi due
sopravvissuti salirono a bordo, compreso Zerbino, con la sua valigia. I piloti
dovevano lottare con correnti d’aria meno traditrici, quel mattino, e, di lì a
non molto, furono al di là della montagna e discesero più agevolmente nella
valle, verso la «Y». Attraverso le pareti trasparenti degli elicotteri, i superstiti
videro il fiume Azufre, con le rive chiazzate da verde vegetazione, una
vegetazione che andò estendendosi e infittendosi sempre più finché non
atterrarono sui pascoli lussureggianti di Los Maitenes.
Là i giovani si riversarono fuori dei velivoli e caddero sull’erba, ridendo,
rotolandosi, abbracciandosi e ringraziando Dio a voce alta. Erano storditi da
tutto quel verdeggiare. Come Carlos il giorno prima, Methol colse un fiore e
cominciò a masticarne lo stelo; si sentiva talmente in estasi, alla vista degli
alberi e del trifoglio, che decise, una volta in Uruguay, di trascorrere molti
mesi nella sua estancia, semplicemente contemplando il verde paesaggio
circostante.
L’elicottero di Garcìa decollò ancora una volta per andare a prendere gli
appartenenti al Corpo di Soccorso e l’inserviente d’ospedale. Nel frattempo,
un medico militare, Sanchez, visitò i superstiti per accertare se a qualcuno di
loro occorressero cure urgenti. Constatò che erano tutti in grado di viaggiare;
invero, gli otto uruguayani si stavano comportando non tanto come invalidi
quanto come giovanotti a un picnic. Mentre alcuni si lavavano nel ruscello
che scorreva accanto alla capanna di Serda e Gonzales, gli altri conversavano
con Sergio Catalan e i suoi figli; Fito Strauch e Zerbino, dal canto loro, si
fecero prestare un cavallo per fare una galoppata.
Si trattennero a Los Maitenes circa mezz’ora, dopodiché Garcìa tornò con
Lucerò, Dìaz, Villegas e Bravo e l’intero gruppo salì di nuovo sugli elicotteri e
partiì per San Fernando. Fito Strauch, Bobby François, Moncho Sabella e
Gustavo Zerbino si trovavano sul primo elicottero; non appena esso si fu
posato nel cortile della caserma del reggimento Colchagua, la madre e il padre
di Fito si fecero avanti verso il figlio. Le loro facce sembravano maschere di
sofferenza, tanto erano felici, e non appena le pale del rotore si fermarono e il
portello venne aperto, i due ebbero tra le braccia il giovane. Rosina lo
abbracciò. Mentre lo stringeva a sé, pregò la piccola Vergine di Garabandal,
che aveva compiuto quel miracolo.
Dietro gli Strauch vennero i due Zerbino, con gli occhi asciutti e il volto
sereno, per farsi incontro al loro robusto e sano figliolo, e poi, quasi che fosse
stato stabilito un ordine di precedenza, a seconda della fiducia riposta da
ognuno dei genitori nella salvezza del proprio figlio, la madre e il padre di
Bobby François. Il ragazzo, alla cui morte essi si erano rassegnati dieci
settimane prima, si trovava adesso con loro, e la gioia parve rendere quasi
incapace il dottor François. Uomo affabile e taciturno, egli era dimagrito
dall’ultima volta che suo figlio lo aveva veduto, e, mentre si avvicinava
all’elicottero, parve smarrito e confuso. Per gli Strauch, e anche per i due
Zerbino, il ritorno dei figli costituiva il trionfo di tutti i loro sforzi e di tutte le
loro speranze. Per il dottor François si trattava di una risurrezione che, in
quanto uomo di scienza, egli non aveva chiesto né si era aspettato.
Con l’elicottero successivo giunsero Roy Harley, Javier Methol, Antonio
Vizintìn e Pancho Delgado. Di questi quattro, soltanto Roy trovò i genitori ad
aspettarlo. Per questi ultimi, l’arrivo di lui premiava fiducia e tentativi
disperati, ma, come nel caso di tutti gli altri genitori, alla felicità si
accompagnava la sofferenza della compassione a causa di ciò che il lora
figliolo aveva sopportato. Videro come il ragazzo congedatosi da loro quando
era un gagliardo giocatore di rugby fosse ormai ridotto pelle e ossa. Non
esisteva più un briciolo di carne nel suo corpo. Aveva gli occhi infossati nelle
orbite, la pelle tesa sugli zigomi, le mani sembravano quelle di uno scheletro
rivestite da pelle incartapecorita e grinzosa. E non erano soltanto queste
conseguenze fisiche dell’inedia e delle privazioni a dir loro quanto avesse
sofferto; c’era anche l’espressione negli occhi di lui.
Dopo essersi ritrovati con i genitori presenti all’arrivo, gli otto superstiti
furono condotti nell’infermeria del reggimento per una nuova visita medica di
controllo, mentre i dottori, il comitato, e l’incaricato d’affari uruguayano,
César Charlone, discutevano allo scopo di decidere se dovessero essere
portati all’ospedale di San Fernando, come gli altri, o fatti proseguire
direttamente in volo per Santiago. Una volta accertato che stavano tutti
abbastanza bene per continuare il viaggio, venne presa quest’ultima decisione.
Era ormai sabato, 23 dicembre, e si riteneva importante per la serenità
dell’intero gruppo che i superstiti potessero trascorrere con i parenti le feste
natalizie. Essi, di conseguenza, salirono sugli elicotteri per la terza volta quel
giorno. Anche agli Harley e alla señora Zerbino fu consentito di viaggiare con
i figli e i tre velivoli decollarono dalla caserma del reggimento Colchagua e
atterrarono poco dopo sul tetto dell’ospedale pubblico, il Posta Central, come
è denominato a Santiago.
2
La sera del 23 dicembre, l’intero gruppo degli uruguayani accorsi nel Cile
dopo la notizia del salvataggio era sistemato a Santiago: i superstiti, con i
genitori e i parenti, all’Hotel Sheraton Cristóbal, situato alla periferia della
città; i genitori e i parenti di coloro che non erano sopravvissuti nel più
antiquato Hotel Crillon, in centro.
Là, al Crillon, il padre di Gustavo Nicolich aprì le due lettere dategli da
Zerbino, quelle che aveva scritto suo figlio sulla montagna:
Una cosa ti sembrerà incredibile (sembra incredibile anche a me): oggi
abbiamo cominciato a tagliare carne dai morti per mangiarla. Non rimane
altro da fare
Poi, un po’ più avanti, le parole con le quali il giovane aveva così
nobilmente predetto la propria sorte:
Se dovrà venire il giorno in cui potrò salvare qualcuno con il mio corpo,
lo farò volentieri
Era questa la prima volta che uno qualsiasi dei genitori al Crillon si
rendeva conto della verità: erano stati i cadaveri dei loro figli a mantenere in
vita i sedici superstiti, e Nicolich, già stordito dal dolore a causa della morte
del figlio, fu ancora più sconvolto dalla realtà spaventosa che la lettera
lasciava intravedere. Pensando, in quel momento, che la verità potesse non
essere mai conosciuta, staccò quel foglio della lettera (indirizzata alla novia di
Gustavo, Rosina Machitelli) e lo nascose.
Nel frattempo, all’Hotel Sheraton Cristóbal, i dodici superstiti dimessi
dall’ospedale si stavano godendo in abbondanza tutto ciò che, per così lungo
tempo, era stato loro negato. Sei di loro avevano con sé i genitori. Pancho
Delgado e Roberto Canessa erano assieme, una volta di più, alle loro fedeli
novias, Susana Sartori e Laura Surraco. Al Posta Central, Coche Inciarte
aveva la compagnia di Soledad González. L’albergo stesso era l’assoluto
opposto del Fairchild. Si trattava di un edificio nuovissimo che dominava
Santiago, con l’atmosfera e l’odore del lusso più raffinato; vi si trovavano una
piscina, nonché un ristorante, naturalmente, e i dodici giovani avevano
approfittato subito di quest’ultimo. Quando Moncho Sabella arrivò allo
Sheraton, nel pomeriggio del 23, trovò Canessa già seduto a tavola e intento a
gustare un abbondante piatto di gamberetti. Moncho sedette immediatamente a
un tavolo insieme con suo fratello, arrivato in aereo da Montevideo, e ordinò
anch’egli un piatto di gamberetti. Poco dopo averli mangiati, entrambi i
giovani vomitarono, ma ciò non guastò loro l’appetito. Ordinarono subito
dell’altro e ricominciarono daccapo con bistecche, insalata, dolci e gelato.
D’altro canto, né Sabella né Canessa si lasciarono impressionare dal lusso.
Quando il dottor Surraco fece osservare a Roberto che l’albergo doveva
sembrargli straordinariamente comodo dopo la fusoliera del Fairchild, egli
rispose che per lui non faceva alcuna differenza mangiare gamberetti e gelato
nell’Hotel Sheraton, o formaggio nella capanna di un pastore.
I genitori e i parenti dei dodici giovani erano tanto felici di riaverli tra i
vivi che non mossero alcuna obiezione a quel loro coattivo indulgere a
un’avidità patologica. Si erano già resi conto che i loro figli e novios non
avrebbero potuto comportarsi come se fossero appena tornati da una vacanza
estiva. Le lunghe settimane di sofferenze e di fame avevano lasciato il segno
sul comportamento dei giovani; come bambini viziati, non tolleravano alcun
freno e, allorché non indulgevano alle più scoperte manifestazioni di gioia e di
piacere per quella riunione, scivolavano nel sarcasmo tagliente e
nell'irritabilità, soprattutto con i genitori, la cui preoccupazione per loro
benessere li irritava. Non avevano forse dimostrato di per badare a sé stessi?
Questi stati d’animo erano esacerbati dalla reazione di alcuni genitori
all’aspetto antropofago del «miracolo di Natale». Impreparati alla notizia, essi
erano rimasti scandalizzati e, nella grande maggioranza, non vi accennavano
più. Paventavano inoltre, in modo assai ovvio, che la cosa venisse saputa, e,
anche se alcuni dei superstiti riconoscevano in cuor loro che la reazione dei
genitori era prevedibile, si sentivano tutti decisamente turbati e offesi per il
fatto che gli altri potessero essere rimasti sgomenti da quanto essi avevano
fatto. Vedevano, in quelle manifestazioni involontarie di orrore e di disgusto,
una predilezione per l’altra alternativa… che tutti quanti fossero periti, senza
nutrirsi con i cadaveri.
La loro serenità di spirito non era certo aiutata dalla presenza nell’albergo
di una massa di giornalisti e di fotografi i quali facevano senza posa domande
e scattavano fotografie nei qual volta i superstiti si muovevano, mangiavano o
abbracciavano i genitori. E ancor più tormentose erano le altrettanto insistenti
domande dei parenti dei giovani che non avevano fatto ritorno… i genitori di
Gustavo Nicolich e di Rafael Echavarren; i fratelli di Daniel Shaw, Alexis
Hounìe e Guiido Magri… i quali venivano dall’Hotel Crillon per accertare le
circostanze esatte della morte dei loro fratelli o dei loro figli. Non si trattava di
episodi che, in quel momento, i superstiti desiderassero ricordare e descrivere.
Inoltre i giovani non erano affatto acclimatati alle raffinatezze dell’Hotel
Sheraton Cristóbal. Si sentivano estremamente a disagio negli ampi e soffici
letti, essendo abituati dormire in posizioni contorte. Quella notte, Sabella si
destò ogni mezz’ora e ogni volta, quando era desto, chiamò la cameriera
perché gli portasse qualcosa da mangiare. Fu una notte dura per lui… e una
notte dura per suo fratello, che dormiva nella stessa camera.
Il giorno dopo, 24 dicembre, i quattro rimasti al Posta Central vennero
dimessi e raggiunsero gli altri allo Sheraton, ma i sedici superstiti rimasero
insieme per breve tempo perché la famiglia François e Daniel Fernàndez
avevano deciso di tornare subito a Montevideo. Sebbene due zie e due zii di
Daniel si trovassero lì a Santiago, egli voleva rivedere i genitori e gli sembrava
inutile e dispendioso farli venire a Santiago. Di conseguenza partì per
Montevideo con un volo di linea della KLM. Il padre e il fratello di Daniel
Shaw si trovavano sullo stesso aereo.
Alcuni degli altri giovani decisero di rifornirsi di capi di vestiario e
avrebbero voluto chiamare un taxi, ma i cileni nell’albergo non vollero
saperne e insistettero per accompagnarli in centro con le loro automobili. Una
volta giunti in città, essi percorsero le vie guardando le vetrine dei negozi.
Tutti li riconobbero come i superstiti perché, essendo abituati alla neve alta,
camminavano pesantemente, come pinguini; ogni volta venivano accolti con
tanta gioia e bontà dai cittadini di Santiago da far pensare che a salvarsi dalle
Ande fossero stati i loro figli.
Quando entrarono in un negozio di abbigliamento e scelsero gli acquisti, i
proprietari non vollero accettare denaro, ma insistettero per far loro dono di
quei capi di vestiario. La stessa cosa accadde quando capitarono accanto a una
lunga coda formatasi davanti a una tabaccheria a causa della scarsità di
sigarette. Un vecchio in prima fila volle a tutti i costi che accettassero il suo
pacchetto di sigarette.
Di nuovo, quando tornarono all’albergo (Parrado vi tornò a piedi dal
centro di Santiago) e alcuni di loro sedettero a tavola per pranzare e
ordinarono una bottiglia di vino, i cileni seduti al tavolo accanto offrirono la
propria bottiglia. Al bar si vedevano offrire continuamente whisky e
champagne… e nel vestibolo dell’albergo un ragazzetto fece loro dono di una
grossa scatola di gomma da masticare.
Erano ammirati e festeggiati non già come eroi che avevano sopportato i
rigori delle imponenti Ande, le quali si profilano minacciose lungo l’intero
Cile, e trionfato su di esse, ma come la viva personificazione di un evidente
miracolo.
Il formaggio e le erbe con cui dicevano di essersi nutriti sembravano un
cibo misterioso quanto i pani e i pesci del Vangelo. La sopravvivenza di quei
giovani aveva un che di incontestabilmente miracoloso. Venne addirittura
all’albergo una donna che aveva il figlio malato, persuasa di vederlo guarire
se soltanto avesse potuto abbracciare uno dei superstiti.
Quella sera ebbe luogo la festa di Natale organizzata da César Charlone.
Fu un momento di intensa commozione per tutti. Appena quattro giorni prima
sembrava non essere più esistita alcuna speranza che i genitori potessero mai
rivedere i loro figli, o che i figli potessero trascorrere il Natale con i genitori.
Ora si trovavano tutti insieme. L’ardente fede di Madelón Rodriguez, di
Rosina Strauch, di Mecha Canessa e di Sarah Strauch; le eroiche ricerche di
Carlos Pàez Vilaró, Jorge Zerbino, di Roy Harley e di Juan Carlos Canessa…
tutto ciò veniva ora premiato dalle vive mani, dalle labbra dai corpi dei figli di
ognuno di loro. Come nel caso di Abramo e di Isacco, Dio aveva perdonato il
sacrificio dei giovani nel momento stesso in cui il mondo cristiano si
accingeva a celebrare la nascita di Suo figlio.
Più tardi, quella sera, un Gesuita uruguayano che insegnava teologia
nell’Università Cattolica di Santiago venne all’albergo invitato dalla signora
Charlone per parlare con alcuni superstiti, prima della Messa da celebrarsi per
loro il giorno dopo. Padre Rodriguez si trattenne poi a conversare con Fito
Strauch e con Gustavo Zerbino fino alle cinque della mattina successiva. I
giovani gli dissero che avevano mangiato i cadaveri dei loro amici per
rimanere in vita e, come padre Andrés a San Fernando, padre Rodriguez non
esitò ad approvare la decisione che essi avevano preso. Se potevano esservi
stati dubbi nella sua mente sulla moralità di ciò che essi avevano fatto,
vennero fugati dalla serietà e dalla religiosità con le quali la decisione era stata
presa. Fito e Gustavo gli riferirono le parole di Algorta quando era stata
tagliata la carie dal primo cadavere e il Gesuita, pur respingendo un qualsiasi
rapporto tra cannibalismo e Comunione, rimase commosso, come tanti altri,
dallo spirito religioso che la frase rivelava.
La Messa natalizia fu celebrata all’Università Cattolica a mezzogiorno
dell’indomani, e la predica di padre Rodriguez, pur non accennando in alcun
modo all’antropofagia, approvò n modo inequivocabile quel che i giovani
avevano fatto per mantenersi in vita. Sebbene non tutti i ragazzi o i loro
genitori conoscessero Karl Jaspers, o il concetto di una situazione limitata,
credevano nell’autorità della Chiesa cattolica e furono profondamente
rassicurati da quanto egli disse.
Ma fu la calma prima della tempesta. I festeggiamenti del Natale dopo la
Messa costituirono le ultime ore serene che i giovani dovevano trascorrere a
Santiago. Giornalisti di tutto il mondo continuavano a spiarli come i condor
delle Ande, e gli uruguayani si rendevano ben conto che essi non avevano
ancora fiutato l’odore della vera preda. Non che i giovani e i loro genitori
cospirassero (a parte le menzogne non troppo convincenti sulle erbe e il
formaggio) per nascondere quel che avevano fatto; speravano soltanto che la
notizia potesse essere mantenuta segreta fino al loro ritorno a Montevideo.
La verità venne rivelata da un quotidiano del Perù e fu immediatamente
resa nota dai giornali argentini, cileni e brasiliani. Non appena i giornalisti di
Santiago ebbero fiutato la notizia, si lanciarono di nuovo sui superstiti e
domandarono se fosse vera. Confusi, i giovani continuarono a negare, ma chi
aveva tradito il loro segreto era stato in grado di fornire anche la prova, e il 26
dicembre il quotidiano di Santiago El Mercurio pubblicò in prima pagina la
fotografia di una gamba umana divorata a mezzo che giaceva sulla neve
contro il fianco della fusoliera del Fairchild. I giovani si riunirono per
discutere sul da farsi e decisero che, invece di riferire a un qualsiasi giornale
quanto era accaduto, avrebbero tenuto una conferenza stampa una volta
tornati a Montevideo. Poiché si erano messi in contatto con il presidente dei
Vecchi Cristiani, Daniel Juan, stabilirono di tenere la conferenza nella loro
scuola di un tempo, il Collegio Stella Maris.
Ma queste erano ben fragili difese contro il tornado che infuriava intorno
ad essi. Le notizie, che erano state riferite ai giornali dagli appartenenti al
Corpo di Soccorso Andino, non avevano fatto che aguzzare gli appetiti della
stampa mondiale, e i giovani all’albergo furono tempestati di domande alle
quali non intendevano rispondere. Rimasero, anzi, sempre più disgustati dai
giornalisti, i quali non davano prova di alcuna reticenza né del minimo tatto
nell’interrogarli. Un giornalista argentino insinuò addirittura, ripetutamente,
che non vi era stata alcuna valanga, ma che i giovani l’avevano inventata per
nascondere una verità ben diversa: i superstiti più forti avevano ucciso i più
deboli per procurarsi il cibo.
I sopravvissuti erano ancora vulnerabili all’estremo, e questi attacchi li
sconvolsero. Videro inoltre che una rivista cilena, specializzata di solito nella
pornografia, aveva riempito due pagine con fotografie di membra e di ossa
sparse intorno al Fairchild. E un quotidiano cileno pubblicò la notizia sotto il
titolo Possa Dio perdonarli. Alcuni dei genitori, quando lessero queste
parole, piansero.
L’atmosfera nell’Hotel Sheraton Cristóbal venne avvelenata da questi
clamori. I superstiti erano impazienti di tornare a Montevideo e accettarono
con riluttanza di partire in aereo, anziché in torpedone o in treno. Charlone
(che non era mai stato perdonato da alcuni genitori dei giovani per quello che
essi consideravano il suo freddo atteggiamento verso Madelon Rodríguez e
Estela Pérez) dispose affinché un Boeing 727 della LAN cilena li portasse a
Montevideo il 28 dicembre. Prima di tale data, però, Algorta accettò, con i
genitori, l’ospitalità di amici di famiglia nei dintorni di Santiago. Anche
Parrado lasciò l’Hotel Sheraton Cristóbal assieme Juan, a Graciela e a suo
padre, per passare dapprima allo Sheraton Carrera, nel centro di Santiago, e
poi in una casa di Viña del Mar, posta a loro disposizione da amici. Era stanco
di essere fotografato in ogni momento della giornata e disgustato dalle
domande spietate dei giornalisti. Anche gli incessanti festeggiamenti lo
deprimevano, in qualche modo, poiché, sebbene lui fosse vivo, le due donne
che tutti loro avevano amato più di ogni altra al mondo rimanevano sulle
Ande, gelidi cadaveri.
Parte Quindicesima
1
Mentre l’ultima parola usciva dalle loro labbra, l’apparecchio si posò sul
suolo uruguayano.
Dopo aver rullato sulla pista, si fermò dinanzi allo stesso edificio
dell’aeroporto dal quale erano usciti così festosamente quasi undici settimane
prima. Le differenze tra la partenza e questo ritorno erano molte; mentre
soltanto uno o due appartenenti alle rispettive famiglie erano venuti allora ad
accompagnarli, l’intera città di Montevideo sembrava adesso essere presente
per accoglierli, compresa la consorte del presidente dell’Uruguay. Sulle
terrazze dell’edificio dell’aeroporto si assiepavano persone che gridavano e si
sbracciavano, e c’erano file di poliziotti per impedire alla folla di invadere la
pista. Nessuno aveva più veduto niente di simile da quando la squadra
uruguayana aveva vinto la Coppa del Mondo.
I superstiti e le loro famiglie furono fatti salire su autobus che si
avvicinarono all’aereo. I giovani avrebbero voluto passare davanti alle
terrazze per poter salutare gli amici, ma, per ordine dell’esercito, gli autobus
uscirono subito dall’aeroporto, diretti al Collegio Stella Maris.
Tutto era stato predisposto per il loro arrivo. Nella vasta sala delle
riunioni, progettata dal padre di Marcelo Pérez, si trovava, come per le
distribuzioni dei premi, un lungo tavolo su un podio, e un impianto di
microfoni e di altoparlanti avrebbe consentito ai molti giornalisti, già seduti
davanti al palcoscenico, di udire quanto sarebbe stato detto. Non erano stati
soltanto i Fratelli Cristiani a organizzare tutto ciò, ma anche i dirigenti dei
Vecchi Cristiani, che accolsero i superstiti quando gli autobus entrarono nel
viale d’accesso del Collegio.
Fu un incontro commovente, nel corso del quale il tumulto della
situazione, con cineprese che ronzavano e macchine fotografiche che
scattavano tutto attorno ai superstiti, non poté attenuare la luttuosa verità: tra
coloro che discesero dall’autobus e presero posto sul podio si trovavano
soltanto tre giocatori della squadra di Rugby partita per il Cile: Canessa,
Zerbino e Parrado. Parrado e Harley erano ancora nel Cile. Osservando le
facce smunte e barbute, Daniel Juan e Adolfo Gelsi cercarono con lo sguardo
i loro campioni: Pérez, Platero, Nicolich, Hounìe, Maspons, Abal, Magri,
Costemalle, Martìnez-Lamas, Nogueira, Shaw.. ma non erano lì.
In ogni modo, l’intero gruppo di superstiti aveva affidato la conferenza
stampa alle capacità organizzative dei Vecchi Cristiani, e padroneggiando con
calma una situazione potenzialmente caotica (una sala gremita di giornalisti
accorsi da tutto il mondo, di genitori dei vivi e genitori dei morti, di parenti, di
amici, e di telecamere), Daniel Juan prese posto al centro del podio e la
conferenza ebbe inizio.
I superstiti avevano deciso di parlare a turno, ognuno di essi occupandosi
di un aspetto particolare della loro esperienza; poi, una volta terminato,
avrebbero domandato ai giornalisti uruguayani se desiderassero fare altre
domane. La sola divergenza fra loro concerneva il modo di affrontare la
questione del cannibalismo. Alcuni giovani, e i loro genitori, ritenevano di
dover rivelare con assoluta franchezza quanto era accaduto; altri pensavano
che potessero essere sufficienti alcune vaghe allusioni. Un terzo gruppo, e in
particolare Canessa e suo padre, era del parere che non si dovesse parlarne
affatto.
Pervennero a compromesso: sarebbe stato Inciarte a parlare della cosa.
Egli si offrì volontariamente, e tutti riconobbero che era la persona più adatta,
a causa del suo nobile atteggiamenti nei confronti di ciò che avevano fatto;
ma, il giorno della conferenza stampa, lo stesso Coche cominciò a dubitare
delle proprie capacità. Balbettava e temeva di fare scena muta davanti a tutti
quei giornalisti e a quelle telecamere. Pancho Delgado propose allora
spontaneamente di prendere il suo posto.
La conferenza cominciò. Tutti ascoltarono in silenzio mentre, uno dopo
l’altro, i superstiti narravano la loro eroica e tragica storia. Venne poi la volta
di Delgado. Quasi subito la sua eloquenza, che era stata così poco utile sulla
montagna, si fece valere.
Quando ci si desta al mattino nel grande silenzio delle montagne e si
scorgono tutto attorno le vette coperte di neve, lo scenario è maestoso,
sensazionale, in un certo qual modo spaventoso, e ci si sente soli, soli, soli
al mondo, tranne la presenza di Dio. Posso assicurarvi, infatti, che Dio è là.
Lo sentivamo tutti, dentro di noi, e non perché fossimo quel genere di
giovani molto pii che pregano continuamente dalla mattina alla sera, anche
se abbiamo avuto tutti un’educazione religiosa. Niente affatto. Ma lassù uno
sente la presenza di Dio. Sente, soprattutto, quella che viene denominata la
mano di Dio, e se ne lascia guidare… Quando giunse il momento in cui non
avevamo più viveri, più nulla con cui potessimo nutrirci, ci dicemmo che se
Gesù, durante l’ultima cena, aveva spartito la Sua carne e il Suo sangue
con gli Apostoli, questo era un segno del fatto che noi avremmo dovuto
regolarci nello stesso modo… assumere la carne e il sangue come un’intima
comunione tra tutti noi. Fu questo ad aiutarci a sopravvivere, e ora noi non
vogliamo che questa cosa, la quale fu per noi un che di intimo, molto intimo,
venga profanata, o contaminata, o qualcosa di simile. In un paese straniero
abbiamo tentato di affrontare l’argomento nello spirito più elevato
possibile, e ora ne parliamo con voi, nostri compatrioti, esattamente come
fu…
Ventinove di coloro che erano partiti con il Fairchild non avevano fatto
ritorno, e, per le famiglie di questi ventinove, il ritorno dei sedici significava
la conferma della loro morte. Si trattava inoltre d’una conferma di natura
sconvolgente. Gli Abal furono informati delle sofferenze fisiche del loro
figliolo; i Nogueira conobbero le sofferenze mentali del loro. Ogni
appartenente ad ogni famiglia venne a trovarsi di fronte alla consapevolezza
che mariti, madri e figli non soltanto erano morti, ma potevano essere stati
divorati.
Si trattava di un calice amaro per cuori già colmi fino all’orlo di
sofferenze, poiché, per quanto la mente potesse essere nobile e razionale nel
contemplare tale fine, nasceva un orrore primitivo e irreprimibile all’idea che
le spoglie delle persone amate potessero essere state utilizzate in quel modo.
Nella grande maggioranza, tuttavia, le famiglie riuscirono a dominare questa
ripugnanza. I genitori diedero prova dello stesso altruismo e dello stesso
coraggio dei figli e si schierarono intorno ai sedici superstiti. Il dottor Valeta,
padre di Carlos, si recò con la famiglia alla conferenza stampa e in seguito
parlò con l’inviato del quotidiano El Pais. «Sono venuto qui con i miei»,
disse, «perché volevamo conoscere tutti coloro che erano gli amici di mio
figlio e perché siamo sinceramente felici di riaverli tra noi. Quel che più
conta, siamo lieti che fossero quarantacinque, poiché ciò ha aiutato almeno
sedici di loro a tornare. Vorrei dire inoltre che ho sempre saputo, sin dal
primo momento, quanto è stato confermato oggi. Come medico, mi resi
subito conto che nessuno avrebbe potuto sopravvivere in un luogo come
quello e in condizioni come quelle senza ricorrere a decisioni coraggiose. Ora
che ho avuto la conferma di quanto è accaduto, ripeto, ringrazio Dio che
fossero in quarantacinque, perché sedici famiglie hanno riavuto i loro figli.»
Il padre di Arturo Nogueira scrisse una lettera ai giornali:
Cari signori, queste poche parole, scritte per esprimere quanto abbiamo
nel cuore, vogliono rendere un tributo, con deferenza, ammirazione e
riconoscenza, ai sedici eroi sopravvissuti alla tragedia delle Ande.
Ammirazione perché questo è ciò che proviamo dinanzi alle tante prove di
solidarietà, fede, coraggio e serenità che essi dovettero affrontare e che
superarono. Riconoscenza profonda e sincera, a causa delle cure che
prodigarono in ogni momento al nostro diletto figlio e fratello Arturo fino al
momento della sua morte, molti giorni dopo l'incidente.
Invitiamo ogni cittadino di questo paese a impiegare qualche minuto
meditando sull’immensa lezione di solidarietà, di coraggio e di disciplina
che ci è stata data da questi ragazzi, nella speranza che essa aiuterà noi
tutti a sormontare i bassi egoismi e le meschine ambizioni, e la mancanza di
interessamento per i nostri fratelli.
FINE