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PENSIERO LIBERO

L'invenzione della natura


© Luiss University Press
Prima edizione: 2017
Prima edizione digitale: 2017
ISBN: 978-88-6105-276-5
ANDREA WULF

L’invenzione della natura


Le avventure di Alexander von Humboldt,
l’eroe perduto della scienza

© traduzione di Lapo Berti


Indice

Mappe

Nota dell’autrice

Prologo
PARTE I
Partenza: la nascita delle idee

Capitolo primo
Gli inizi

Capitolo secondo
Immaginazione e natura

Capitolo terzo
In cerca di una meta
PARTE II
Arrivo: la raccolta delle idee
Capitolo quarto
Sud America

Capitolo quinto
Gli Llanos e l’Orinoco

Capitolo sesto
Attraverso le Ande

Capitolo settimo
Il Chimborazo

Capitolo ottavo
Politica e natura
Thomas Jefferson e Humboldt
PARTE III
Ritorno: l’ordinamento delle idee

Capitolo nono
Europa

Capitolo decimo
Berlino

Capitolo undicesimo
Parigi

Capitolo dodicesimo
Rivoluzioni e natura
Simón Bolívar e Humboldt

Capitolo tredicesimo
Londra

Capitolo quattordicesimo
Girando a vuoto
Maladie centrifuge
PARTE IV
Influenza: la diffusione delle idee

Capitolo quindicesimo
Ritorno a Berlino

Capitolo sedicesimo
Russia

Capitolo diciassettesimo
Evoluzione e natura
Charles Darwin e Humboldt

Capitolo diciottesimo
Il Cosmos di Humboldt

Capitolo diciannovesimo
Poesia, scienza e natura
Henry David Thoreau e Humboldt
PARTE V
Nuovi mondi: l’evoluzione delle idee
Capitolo ventesimo
Il più grande di tutti gli uomini dal Diluvio universale

Capitolo ventunesimo
Uomo e natura
George Perkins Marsh e Humboldt

Capitolo ventiduesimo
Arte, ecologia e natura
Ernst Haeckel e Humboldt

Capitolo ventitreesimo
Tutela e natura
John Muir e Humboldt

Epilogo

Ringraziamenti

Nota sulle pubblicazioni di Humboldt

Abbreviazioni

Fonti e bibliografia

Crediti illustrazioni
A Linnéa (P.o.P.)
Questo eBook è stato acquistato e condiviso dal Team dell'alberello in via totalmente gratuita per tutti.
Se l'hai pagato in qualsiasi modo (tramite abbonamento o acquisto diretto), sei stato truffato.
Si chiudano gli occhi, si presti attento ascolto e, dal più leggero soffio fino al più selvaggio
rumore, dal più elementare suono fino al più complesso accordo, dal più veemente e
appassionato grido fino alle più miti parole della ragione, sarà sempre la natura a parlare, a
rivelare la propria presenza, la propria forza, la propria vita e le proprie connessioni, cosicché
un cieco, a cui l’infinitamente visibile fosse negato, in ciò che è udibile potrà cogliere un
infinitamente vivente.

Johann Wolfgang von Goethe


Mappe

Il viaggio di Humboldt attraverso le Americhe, 1799-1804


Il viaggio di Humboldt attraverso il Venezuela, 1800
Il viaggio di Humboldt attraverso la Russia, 1829
Nota dell’autrice

I libri di Alexander von Humboldt sono stati pubblicati in numerose


lingue. Per le citazioni dirette dai suoi scritti ho confrontato le edizioni
originali tedesche (laddove possibile) con edizioni inglesi del tempo.
Ogniqualvolta più recenti edizioni inglesi si sono rese disponibili, le ho
messe a confronto con le traduzioni più vecchie e quando ho ritenuto
che la nuova edizione offrisse una traduzione migliore ho scelto tale
versione (si vedano i dettagli nelle note finali). Talvolta nessuna
traduzione rendeva la prosa di Humboldt, o frasi intere risultavano
mancanti: in questi casi mi sono presa la libertà di provvedere a una
nuova traduzione. Quando altri protagonisti fanno riferimento
all’opera di Humboldt, ho usato le edizioni che essi leggevano. Charles
Darwin, per esempio, leggeva l’edizione di Personal Narrative
pubblicata in Gran Bretagna tra il 1814 e il 1829 (tradotta da Helen
Maria Williams), mentre John Muir leggeva quella del 1896 (tradotta
da E. C. Otte e H. G. Bohn).
Prologo

Procedevano strisciando sulle mani e sulle ginocchia lungo un alto


crinale, così stretto che in alcuni punti non era più largo di cinque
centimetri. Il sentiero, se così lo si può chiamare, era fatto di strati di
sabbia e pietre sconnesse che si spostavano appena le toccavi. Giù a
sinistra c’era un dirupo scosceso incrostato di ghiaccio che luccicava
quando il sole si apriva un varco nella fitta coltre di nubi. A destra la
vista, con uno strapiombo di mille metri, non era molto più
rassicurante: le pareti scure e quasi perpendicolari erano coperte di
rocce che sporgevano in fuori come lame di coltello1.
Alexander von Humboldt e i suoi tre compagni avanzavano in fila
indiana spingendosi lentamente avanti. Senza equipaggiamento o abiti
adeguati, la scalata era davvero pericolosa. Il vento gelido aveva
intorpidito mani e piedi, la neve sciolta aveva infradiciato le loro
scarpe leggere e cristalli di ghiaccio gli s’incollavano a barba e capelli.
A 5.000 metri sul livello del mare, lottavano per respirare nell’aria
rarefatta. A mano a mano che andavano avanti le rocce puntute
facevano a brandelli le suole delle scarpe e i piedi cominciavano a
sanguinare.
Era il 23 giugno 1802 e scalavano il Chimborazo, un bel vulcano
inattivo a forma di cupola della catena delle Ande che s’innalzava per
quasi 6.500 metri, a circa 150 chilometri a sud di Quito, in quello che
oggi è l’Ecuador. Allora il Chimborazo era considerato la montagna più
alta del mondo. Non stupisce che i portatori, terrorizzati, li avessero
abbandonati al limite delle nevi perpetue. La vetta del vulcano era
avvolta in una nebbia spessa, ma ciononostante Humboldt aveva tirato
avanti.
Da tre anni Alexander von Humboldt viaggiava in lungo e in largo
per l’America Latina, addentrandosi in terre dove fino ad allora pochi
europei si erano sospinti. Ossessionato dall’osservazione scientifica, il
giovane Humboldt, allora trentaduenne, si era portato dall’Europa un
ampio assortimento delle migliori strumentazioni. Per la scalata del
Chimborazo si era lasciato alle spalle gran parte del bagaglio, ma aveva
portato con sé un barometro, un termometro, un sestante, un
orizzonte artificiale e un cosiddetto “cianometro” per misurare
l’“azzurrità” del cielo. Mentre salivano, frugava per tirar fuori i suoi
strumenti con le dita intirizzite e li sistemava su strette, precarie
sporgenze per misurare altezza, gravità e umidità. Elencava
meticolosamente tutte le specie che incontrava: qui una farfalla, là un
esile fiorellino. Tutto veniva registrato nel suo taccuino.
A 5.500 metri videro un ultimo brandello di lichene abbarbicato a
un masso. Poi ogni segno di vita organica sparì, perché a quell’altezza
non si trovavano né piante né insetti. Non si vedevano neanche i
condor che avevano accompagnato le loro precedenti scalate2. E
quando la nebbia sbiancò l’aria in un inquietante spazio vuoto,
Humboldt si sentì completamente isolato dal mondo abitato. “Era
come se fossimo intrappolati in una bolla d’aria”3, raccontò. Poi
all’improvviso la nebbia si sollevò, rivelando la cima del Chimborazo
incappucciata di neve contro il cielo azzurro. Una “vista magnifica”4,
fu il suo primo pensiero; ma poi vide l’enorme crepaccio che si apriva
davanti a loro – largo 20 metri e profondo circa 2005. Ma non c’erano
altre vie per raggiungere la sommità del vulcano. Quando misurò in
5.917,16 metri l’altezza6 a cui si trovavano, scoprì che erano appena
300 metri sotto la vetta.
Nessuno prima aveva mai raggiunto quell’altezza e nessuno aveva
mai respirato un’aria così rarefatta. Mentre stava in piedi sul punto più
alto del mondo, guardando giù sotto di lui le ondulate catene
montuose, Humboldt cominciò a vedere il mondo con occhi diversi.
Vide la terra come un unico grande organismo vivente dove tutto era
connesso, concependo un’audace nuova visione della natura che
tuttora influenza il nostro modo d’intendere il mondo naturale.
Humboldt e la sua squadra mentre scalano un vulcano
La distribuzione delle piante nelle Ande

Descritto dai suoi contemporanei come l’uomo più famoso al mondo


dopo Napoleone7, Humboldt fu uno dei personaggi più affascinanti e
stimolanti del suo tempo. Nato nel 1769 in una ricca famiglia
aristocratica prussiana, rinunciò a una esistenza privilegiata per
scoprire, per suo personale interesse, come funzionava il mondo. Da
giovane, dedicò cinque anni all’esplorazione dell’America Latina,
rischiando molte volte la vita e tornando con una nuova percezione del
mondo. Quel viaggio plasmò la sua vita e il suo pensiero e ne fece un
personaggio leggendario in tutto il globo. Visse in città come Parigi e
Berlino, ma si sentiva a casa anche navigando sui rami più remoti del
fiume Orinoco o nella steppa kazaka al confine mongolo della Russia.
Per gran parte della sua lunga vita fu il punto di riferimento della
comunità scientifica, con oltre 50.000 lettere scritte e almeno il
doppio ricevute. La conoscenza – sosteneva Humboldt – andava
condivisa, scambiata e messa a disposizione di tutti.
L’uomo non era privo di contraddizioni. Critico acceso del
colonialismo e sostenitore delle rivoluzioni in America Latina, fu
tuttavia il ciambellano di due sovrani prussiani. Ammirava gli Stati
Uniti per le loro idee di eguaglianza e libertà, ma non smise mai di
criticarli per non essere riusciti ad abolire la schiavitù. Si definiva
“mezzo americano”8, ma nello stesso tempo paragonava l’America a
un “vortice cartesiano che risucchia e livella tutto fino a una
noiosissima monotonia”9. Era sicuro di sé, eppure costantemente alla
ricerca spasmodica di approvazione. Ammirato per l’ampiezza delle
sue conoscenze, era tuttavia temuto per la sua lingua tagliente. I suoi
libri furono pubblicati in moltissime lingue ed erano così popolari che
la gente corrompeva i librai per ricevere le prime copie, ma morì in
povertà. Poteva essere vanesio, ma insieme capace di dare gli ultimi
soldi che gli rimanevano a un giovane scienziato che lottava per
sfondare. Riempì la sua vita di viaggi e lavoro incessante. Agognò
sempre a sperimentare qualcosa di nuovo e, come era solito dire,
possibilmente “tre cose alla volta”10.
Celebrato per le sue conoscenze e per il suo pensiero scientifico,
Humboldt non era uno studioso cerebrale. Gli studi e i libri non lo
accontentavano, aveva bisogno di buttarsi anima e corpo nello sforzo
fisico, spingendo ai limiti il proprio organismo. Si avventurò nel
profondo del mondo misterioso della foresta pluviale in Venezuela,
strisciò a terra su strette cenge rocciose a un’altezza pericolosa sulle
Ande per vedere le fiamme in un vulcano attivo. Già sessantenne,
percorse oltre 15.000 chilometri fino agli angoli più remoti della
Russia, camminando più in fretta dei suoi più giovani compagni di
viaggio.
Affascinato da strumenti, misurazioni e osservazioni scientifiche,
era pure sospinto da un profondo sentimento di stupore. Ovviamente,
la natura andava misurata e analizzata, ma era anche convinto che la
nostra risposta al mondo naturale si debba in gran parte basare sui
sensi e sulle emozioni. Voleva suscitare “l’amore per la natura”11. In
tempi in cui altri scienziati erano alla ricerca di leggi universali,
Humboldt scriveva che la natura va sperimentata attraverso le
sensazioni12.
A renderlo diverso da tutti era anche la sua capacità di ricordare per
anni i più piccoli dettagli: la forma di una foglia, un certo colore del
suolo o un certo valore della temperatura, la stratificazione di una
roccia. Questa memoria straordinaria gli permetteva di comparare, a
distanza di decenni o di qualche migliaio di chilometri, ciò che aveva
osservato nelle più diverse parti del mondo. Come più tardi ebbe a dire
un collega, Humboldt era capace di “ripercorrere rapidamente e
simultaneamente la catena di tutti i fenomeni di questo mondo”13.
Laddove altri dovevano passare faticosamente al setaccio i loro ricordi
per trovare qualcosa, Humboldt – “i cui occhi erano telescopi e
microscopi naturali”14, come disse ammirato lo scrittore e poeta
Ralph Waldo Emerson – in un attimo aveva a portata di mano ogni
pezzetto delle sue conoscenze e osservazioni.
In piedi sulla vetta del Chimborazo, esausto per la scalata,
Humboldt assorbiva il panorama. Le fasce di vegetazione erano
disposte l’una al di sopra dell’altra ad altezze diverse. Nelle valli aveva
attraversato palmeti e umide foreste di bambù dove variopinte
orchidee si aggrappavano agli alberi. Un po’ più su aveva visto
conifere, querce, ontani e cespugli di bacche che ricordavano le foreste
europee. Poi erano arrivate piante alpine molto simili a quelle che
aveva raccolto sulle montagne in Svizzera e licheni che gli ricordavano
specie provenienti dal Circolo Artico e dalla Lapponia. Nessuno prima
di lui aveva mai guardato le piante in questo modo. Non le vedeva
attraverso le rigide categorie della classificazione botanica, ma come
specie in base alla ubicazione e al clima. Ora c’era un uomo che
considerava la natura come una forza globale, con zone climatiche
corrispondenti attraverso i continenti: un concetto radicale a quei
tempi, ancora capace di influenzare la nostra concezione degli
ecosistemi.
I libri, i diari, le lettere di Humboldt rivelano un pensatore
lungimirante, molto più avanti della sua epoca. Inventò le isoterme –
le linee della temperatura e della pressione che si vedono sulle odierne
mappe climatiche – e scoprì l’equatore magnetico. Sua fu l’idea di zone
climatiche e di vegetazione che si snodavano attraverso il globo. Ma
soprattutto, ed è la cosa più importante, rivoluzionò il nostro modo di
concepire il mondo naturale, trovando connessioni ovunque: niente,
neanche il più minuscolo degli organismi poteva essere visto da solo.
“In questa grande catena di cause ed effetti”, diceva, “non c’è un sol
fatto che possa essere considerato isolatamente”15. Con questa
intuizione aveva inventato la rete della vita, il concetto di natura che
noi oggi conosciamo.
Quando la natura è concepita come una rete, anche la sua
vulnerabilità diventa ovvia. Tutto si tiene. Se c’è un filo tirato, tutta la
tela si può disfare. Dopo aver visto i devastanti effetti ambientali delle
piantagioni coloniali del 1800 nella regione del lago di Valencia, in
Venezuela, Humboldt fu il primo scienziato a parlare di cambiamento
climatico dannoso indotto dall’uomo16. La deforestazione aveva reso
arida la terra, i livelli dell’acqua del lago si abbassavano e con la
scomparsa del sottobosco le piogge torrenziali avevano trascinato via
la terra sulle pendici dei monti circostanti. Humboldt fu il primo a
spiegare la capacità della foresta di accrescere l’umidità dell’atmosfera
e il suo effetto refrigerante, così come la sua importanza per la
ritenzione idrica e la protezione del terreno dall’erosione17. Ammonì
che l’uomo stava interferendo sul clima e che ciò poteva aveva un
impatto imprevedibile sulle “generazioni future”18.
L’invenzione della natura insegue i fili invisibili che ci collegano a
quest’uomo straordinario. Humboldt influenzò molti dei più grandi
pensatori, artisti e scienziati del suo tempo. Thomas Jefferson lo
considerava tra i principali artefici della “bellezza” della sua epoca19.
Charles Darwin scrisse che “niente mi ha mai infervorato tanto come
la lettura di Personal Narrative di Humboldt”20, affermando che
senza di lui non si sarebbe mai imbarcato sul Beagle, né avrebbe mai
concepito Origin of Species. Sia William Wordsworth che Samuel
Taylor Coleridge fecero propria nei loro componimenti poetici la
concezione humboldtiana della natura. Il più riverito tra gli scrittori
naturalisti americani, Henry David Thoreau, nei libri di Humboldt
trovò una risposta al dilemma di come riuscire a essere poeta e,
insieme, naturalista: il suo Walden sarebbe stato un libro assai diverso
senza Humboldt. Simón Bolívar, il rivoluzionario che liberò il Sud
America dal dominio spagnolo, attribuì a Humboldt “la scoperta del
Nuovo Mondo”21 e Johann Wolfgang von Goethe, il più grande di tutti
i poeti tedeschi, dichiarò che trascorrere qualche giorno con Humboldt
era come “aver vissuto qualche anno”22.

Il 14 settembre 1869, un secolo dopo la sua nascita, il centenario di


Alexander von Humboldt fu celebrato in tutto il mondo. Ci furono
festeggiamenti in Europa, Africa e Australia, così come nelle Americhe.
A Melbourne e Adelaide la popolazione si riunì per ascoltare i discorsi
in suo onore e lo stesso accadde a Buenos Aires e Città del Messico23.
A Mosca si svolsero feste in cui Humboldt fu chiamato lo “Shakespeare
delle scienze”24 e ad Alessandria d’Egitto si organizzarono serate a
invito sotto un cielo illuminato dai fuochi d’artificio25. Le
commemorazioni più importanti si svolsero negli Stati Uniti, dove da
San Francisco a Philadelphia, da Chicago a Charleston la nazione
assistette a parate, cene e concerti sontuosi26. A Cleveland circa 8.000
persone si riversarono nelle strade e a Syracuse altre 15.000
formarono un corteo lungo più di un chilometro e mezzo27. Il
presidente Ulysses Grant partecipò alle celebrazioni in onore di
Humboldt a Pittsburgh, assieme a 10.000 persone in festa che
bloccarono l’intera città28.
A New York le bandiere sventolavano lungo le strade acciottolate, la
facciata di City Hall era ricoperta di stendardi, interi edifici erano
nascosti dietro enormi poster con la faccia di Humboldt. Persino i
battelli che navigavano al largo sul fiume Hudson erano inghirlandati
da variopinte bandierine. La mattina migliaia di persone seguirono
dieci bande musicali, marciando dalla Bowery e lungo Broadway fino a
Central Park per rendere omaggio a un uomo “di cui nessuna singola
nazione può rivendicare la fama”, come scriveva la prima pagina del
New York Times. Nel primo pomeriggio, 25.000 spettatori si erano
radunati a Central Park per ascoltare i discorsi, mentre veniva
scoperto un grande busto bronzeo di Humboldt. La sera, quando calò
l’oscurità, una processione di 15.000 persone si mise in moto alla luce
delle fiaccole lungo le strade, camminando sotto lanterne cinesi dai
mille colori29.
Immaginiamolo, disse un oratore, “dritto immobile sulle Ande” con
la mente che si libra nei cieli30. Non vi fu discorso al mondo che non
sottolineasse la “correlazione profonda” tra tutti gli aspetti della
natura intuita da Humboldt31. A Boston, Emerson disse ai
maggiorenti della città che Humboldt andava annoverato tra “le
meraviglie del mondo”32. A Londra, il Daily News scriveva che la sua
fama era “in un certo modo legata all’universo stesso”33. In Germania
festeggiamenti si svolsero a Colonia, Amburgo, Dresda, Francoforte e
in tante altre città34, ma le celebrazioni più importanti ebbero luogo a
Berlino, sua città natale, dove malgrado una pioggia torrenziale si
riunirono 80.000 persone. Le autorità avevano ordinato la chiusura di
tutti gli uffici pubblici e degli organismi governativi per l’intera
giornata. Mentre la pioggia scendeva e raffiche di vento gelavano
l’aria, discorsi e canti andarono avanti per ore35.

Per quanto siano oggi pressoché dimenticate fuori dall’accademia –


almeno nel mondo di lingua inglese – le idee di Alexander von
Humboldt ancora plasmano il nostro pensiero. E mentre i suoi libri
raccattano polvere nelle biblioteche, il suo nome resiste ovunque, dalla
Corrente di Humboldt che costeggia Cile e Perù a una gran quantità di
monumenti, parchi e montagne in America Latina, tra cui la Sierra
Humboldt in Messico e Pico Humboldt in Venezuela. Una città in
Argentina, un fiume in Brasile, un geyser in Ecuador e una baia in
Colombia: tutto questo prende nome da Humboldt * 36.
In Groenlandia troviamo Capo Humboldt e il Ghiacciaio Humboldt,
così come troviamo catene montuose nella Cina settentrionale, in
Sudafrica, in Nuova Zelanda e in Antartide. Ci sono fiumi e cascate in
Tasmania e in Nuova Zelanda, parchi in Germania e la Rue Alexandre
de Humboldt a Parigi. Nel solo Nord America quattro contee, tredici
città, montagne, laghi e un fiume prendono il suo nome, così come lo
Humboldt Redwoods State Park in California e gli Humboldt Park a
Chicago e Buffalo. Lo Stato del Nevada fu sul punto di chiamarsi
Humboldt quando la Convenzione Costituzionale ne dibatté il nome
negli anni 186037. Prendono il suo nome quasi 300 piante e oltre 100
animali – tra cui il giglio Humboldt in California (Lilium humboldtii),
il pinguino Humboldt in Sud America (Spheniscus humboldtii) e il
feroce calamaro da preda Humboldt lungo quasi due metri (Dosidicus
gigas) che vive nella Corrente di Humboldt. Diversi minerali
prendono il suo nome – da Humboldtit a Humboldtin – e sulla luna
c’è il “Mare Humboldtianum”. Sono più i luoghi intestati a Humboldt
che a chiunque altro38.
Ecologisti, ambientalisti e scrittori di natura fanno riferimento alle
intuizioni di Humboldt, sia pure nella grande maggioranza dei casi
inconsapevolmente. Silent Spring di Rachel Carson si basa sul
concetto humboldtiano di interconnessione e Gaia, la famosa teoria
della terra come un organismo vivente dello scienziato James
Lovelock, presenta con esse notevoli somiglianze. Quando Humboldt
descrisse la terra come “un insieme naturale animato e mosso da forze
interne”39, anticipava di oltre centocinquant’anni le idee di Lovelock.
Humboldt intitolò Cosmos il libro in cui descriveva questa sua nuova
concezione, dopo aver inizialmente considerato, ma poi scartato, il
titolo “Gäa”40.
Noi siamo plasmati dal nostro passato. Niccolò Copernico ci ha
mostrato il nostro posto nell’universo, Isaac Newton ci ha spiegato le
leggi della natura, a Thomas Jefferson dobbiamo alcuni dei nostri
concetti di libertà e democrazia e Charles Darwin ha dimostrato che
tutte le specie discendono da comuni antenati. Queste idee definiscono
la nostra relazione con il mondo.
Humboldt ci ha donato il nostro stesso concetto di natura. Per
ironia della sorte, le sue intuizioni sono diventate così ovvie da farci
dimenticare l’uomo che vi sta dietro. Ma un filo diretto lega tra loro le
sue idee ed esse ai tanti cui egli si è ispirato; e il concetto di natura di
Humboldt ci lega a lui come una corda.
L’invenzione della natura rappresenta il mio tentativo di trovare
Humboldt. È stato un viaggio attraverso il mondo che mi ha portato in
archivi della California, di Berlino, di Cambridge e in molti altri. Ho
letto da cima a fondo migliaia di lettere, ma ho seguito anche le sue
orme. A Jena, in Germania, ho visto le rovine della torre di anatomia
dove Humboldt trascorse parecchie settimane a dissezionare animali e
ad Antisana, in Ecuador, a 4.000 metri di altezza, con quattro condor
che volteggiavano sulla mia testa e circondata da un branco di cavalli
selvatici, ho trovato la capanna fatiscente nella quale aveva trascorso
una notte nel marzo 1802.
A Quito, ho tenuto tra le mani il passaporto spagnolo originale di
Humboldt, lo stesso documento che gli permise di viaggiare attraverso
l’America Latina. A Berlino, ho finalmente compreso il funzionamento
della sua mente aprendo le scatole che contenevano i suoi appunti:
meravigliosi collage di migliaia di pezzetti di carta, schizzi e numeri.
Più vicino a casa, alla British Library di Londra, ho trascorso molte
settimane leggendo i libri editi di Humboldt, alcuni così grossi e
pesanti che a stento riuscivo a sollevarli per metterli sul tavolo. A
Cambridge ho potuto sfogliare le copie di Darwin dei libri di
Humboldt – quelle che aveva tenuto su uno scaffale vicino alla sua
amaca sul Beagle e aveva riempito di annotazioni a matita. Leggere
quei libri è stato come origliare una conversazione tra Darwin e
Humboldt.
Mi sono trovata a giacere di notte nella foresta pluviale in Venezuela
ascoltando lo strano grido prolungato delle scimmie urlatrici, ma
anche bloccata durante l’uragano Sandy, senza elettricità, a
Manhattan, dove mi ero recata per leggere certi documenti alla Public
Library di New York. Ho ammirato la vecchia villa con la torre del
decimo secolo nel paese di Piobesi, fuori Torino, dove George Perkins
Marsh scrisse parti del suo Man and Nature nei primi anni 1860, un
libro ispirato dalle idee di Humboldt che avrebbe segnato la nascita del
movimento americano per la tutela dell’ambiente. Ho fatto il giro del
lago Walden di Thoreau, camminando nella neve alta appena caduta e
un’escursione nel parco di Yosemite, ricordando a me stessa l’idea di
John Muir secondo cui “la via più diretta per entrare nell’Universo è
quella che attraversa una foresta incontaminata”41.
Il momento più eccitante è stato quando ho finalmente scalato il
Chimborazo, la montagna che aveva influito così profondamente sulla
visione di Humboldt. Mentre risalivo l’arido dirupo, l’aria era così
rarefatta che ogni passo sembrava durare un’eternità – una salita lenta
mentre le gambe si facevano di piombo e come disconnesse dal resto
del mio corpo. Passo dopo passo l’ammirazione per Humboldt
cresceva. Aveva scalato il Chimborazo con un piede ferito (e
sicuramente non con scarponcini da escursione comodi come i miei),
appesantito da strumenti e fermandosi di continuo per prendere
misure.
Il risultato della mia esplorazione attraverso paesaggi e lettere,
pensieri e diari, è questo libro. L’invenzione della natura è il mio
contributo alla riscoperta di Humboldt, per restituirgli il posto che gli
spetta nel pantheon della natura e della scienza. È anche un tentativo
di capire perché oggi il nostro modo di pensare il mondo naturale è
quello che è.
1. AH a WH, 25 novembre 1802, AH WH Lettere 1880, p. 48; AH, “About an Attempt to Climb
to the Top of Chimborazo”, Kutzinski 2012, pp. 135-55; AH, 23 giugno 1802, AH Río
Magdalena 2003, vol. 2, pp. 100-109.
2. AH a WH, 25 novembre 1802, AH WH Lettere 1880, p. 49.
3. AH, “About an Attempt to Climb to the Top of Chimborazo”, Kutzinski 2012, p. 143.
4. Ivi, p. 142.
5. AH fornì misure diverse: per esempio, profondo circa 400 piedi e largo 60 piedi, ivi, p. 142.
6. AH, 23 giugno 1802, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, p. 106.
7. AH e Napoleone: Ralph Waldo Emerson a John F. Heath, 4 agosto 1842, Emerson 1939, vol.
3, p. 77.
8. Rossiter Raymond, 14 maggio 1859, AH Lettere USA 2004, p. 572.
9. AH a Karl Varnhagen, 31 luglio 1854, Humboldt Varnhagen Lettere 1860, p. 235.
10. AH, citato in Leitzmann 1936, p. 210.
11. rnold Henry Guyot, 2 giugno 1859, “Humboldt Commemorations”, Journal of the
American Geographical and Statistical Society, vol. 1, n. 8, ottobre 1859, p. 242; The Sense of
Wonder di Rachel Carson, 1965.
12. AH a Goethe, 3 gennaio 1810, Goethe Humboldt Lettere 1909, p. 305.
13. Matthias Jacob Schleiden, 14 settembre 1869, Jahn 2004.
14. Ralph Waldo Emerson, appunti per il discorso su Humboldt del 14 settembre 1869,
Emerson 1960-92, vol. 16, p. 160.
15. AH Geography 2009, p. 79; AH Geographie 1807, p. 39.
16. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, pp. 140 sgg.; AH, 4 marzo 1800, AH Venezuela
2000, p. 216.
17. AH, settembre 1799, AH Venezuela 2000, p. 140; AH Aspects 1849, vol. 1, pp. 126-7; AH
Views 2014, p. 83; AH Ansichten 1849, vol. 1, p. 158; AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p.
477.
18. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 143.
19. Thomas Jefferson a Carlo de Vidua, 6 agosto 1825, AH Lettere USA 2004, p. 171.
20. Darwin a Alfred Russel Wallace, 22 settembre 1865, Darwin Correspondence, vol. 13, p.
238.
21. Bolívar a Madame Bonpland, 23 ottobre 1823, Rippy e Brann 1947, p. 701.
22. Goethe a Johann Peter Eckermann, 12 dicembre 1828, Goethe Eckermann 1999, p. 183.
23. Melbourner Deutsche Zeitung, 16 settembre 1869; South Australian Advertiser, 20
settembre 1869; South Australian Register, 22 settembre 1869; Standard, Buenos Aires, 19
settembre 1869; Two Republics, Città del Messico, 19 settembre 1869; New York Herald, 1
ottobre 1869; Daily Evening Bulletin, 2 novembre 1869.
24. Herman Trautschold, 1869, Roussanova 2013, p. 45.
25. Die Gartenlaube, n. 43, 1869.
26. Desert News, 22 settembre 1869; New York Herald, 15 settembre 1869; New York Times,
15 settembre 1869; Charleston Daily Courier, 15 settembre 1869; Philadelphia Inquirer, 14
settembre 1869.
27. New York Herald, 15 settembre 1869.
28. Desert News, 22 settembre 1869.
29. New York Times, 15 settembre 1869; New York Herald, 15 settembre 1869.
30. Franz Lieber, New York Times, 15 settembre 1869.
31. Norddeutsches Protestantenblatt, Bremen, 11 settembre 1869; Glogau, Heinrich,
“Akademische Festrede zur Feier des Hundertjährigen Geburtstages Alexander’s von
Humboldt, 14 settembre 1869”, Glogau 1869, p. 11; Agassiz, Louis, “Address Delivered on the
Centennial Anniversary of the Birth of Alexander von Humboldt 1869”, Agassiz 1869, pp. 5,
48; Herman Trautschold, 1869, Roussanova 2013, p. 50; Philadelphia Inquirer, 15 settembre
1869; Humboldt Commemorations, 2 giugno 1859, Journal of American Geological and
Statistical Society, 1859, vol. 1, p. 226.
32. Ralph Waldo Emerson, 1869, Emerson 1960-92, vol. 16, p. 160; Agassiz 1869, p. 71.
33. Daily News, London, 14 settembre 1869.
34. Jahn 2004, pp. 18-28.
35. Illustrirte Zeitung Berlin, 2 ottobre 1869; Vossische Zeitung, 15 settembre 1869;
Allgemeine Zeitung Augsburg, 17 settembre 1869.
36. (nota a piè di pagina) Oppitz 1969, pp. 281-427.
37. La scelta era tra Washoe, Esmeralda, Nevada e Humboldt; Oppitz 1969, p. 290.
38. Egerton 2012, p. 121.
39. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 45; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 52.
40. AH a Karl agosto Varnhagen, 24 ottobre 1834, Humboldt Varnhagen Lettere 1860, p. 18.
41. Wolfe 1979, p. 313.
*. Oggigiorno molte scuole di lingua tedesca in tutta l’America Latina organizzano gare
biennali di atletica chiamate Juegos Humboldt – Giochi Humboldt.
PARTE I

Partenza: la nascita delle idee


Capitolo primo

Gli inizi

Alexander von Humboldt nacque il 14 settembre 1769 in una ricca


famiglia aristocratica prussiana che trascorreva gli inverni a Berlino e
le estati nella proprietà di famiglia di Tegel, un piccolo castello a circa
sedici chilometri a nord-ovest della città. Il padre, Alexander Georg
von Humboldt, era un ufficiale dell’esercito, ciambellano alla corte
prussiana e consigliere del futuro re Federico Guglielmo II. La madre
di Alexander, Marie Elisabeth, era figlia di un ricco industriale e aveva
portato in famiglia denaro e terreni1. Il nome Humboldt era tenuto in
grande considerazione a Berlino e il futuro re era anche padrino di
Alexander2. Ma per quanto tirati su in un ambiente privilegiato,
Alexander e il fratello maggiore, Wilhelm, ebbero un’infanzia infelice3.
L’amato padre morì improvvisamente quando Alexander aveva nove
anni e la madre non dimostrò mai grande affetto ai figli. Quanto il
padre era stato affascinante e cordiale, la madre era formale, fredda ed
emotivamente distante. Anziché calore materno, ai figli offrì la
migliore educazione allora disponibile in Prussia, facendo sì che i due
ragazzi fossero privatamente seguiti da una sequela di precettori che
rappresentavano il pensiero dell’Illuminismo e instillavano in loro
l’amore per la verità, la libertà e la conoscenza4. Erano strane
relazioni, in cui i ragazzi a volte ricercavano una figura paterna. Un
precettore in particolare, Gottlob Johann Christian Kunth, che
sovrintese alla loro educazione per diversi anni, combinava nel modo
d’insegnare manifestazioni di scontentezza e delusione, incoraggiando
al tempo senso un senso di dipendenza. Indugiando dietro di loro e
osservandoli al di sopra delle spalle mentre facevano calcoli,
traducevano testi latini o imparavano lemmi francesi, Kunth li
correggeva in continuazione. Non era mai soddisfatto dei loro
progressi. Ogni volta che facevano un errore, reagiva come se lo
avessero fatto per ferirlo o offenderlo. I ragazzi pativano questo
comportamento più di quanto avrebbero sofferto se li avesse colpiti
con la verga5. Nel costante, disperato bisogno di compiacere Kunth –
come raccontò più tardi Wilhelm – avevano provato l’“ansia perpetua”
di farlo contento6.

Schloss Tegel e la proprietà che lo circonda

Tutto fu particolarmente difficile per Alexander, cui s’impartivano le


stesse lezioni che venivano date al precoce fratello, malgrado fosse di
due anni più giovane. Il risultato fu che si convinse di avere meno
talento. Quando Wilhelm otteneva un risultato eccellente in latino o in
greco, Alexander si sentiva incapace e lento. Lottava fino allo stremo,
al punto che i suoi tutori, come più tardi Alexander ebbe a dire a un
amico, “si chiedevano se in lui si fossero mai sviluppate persino le
ordinarie capacità intellettive”7.
Mentre Wilhelm si perdeva nella mitologia greca8 e nelle storie
dell’antica Roma, Alexander tra i libri si sentiva irrequieto. Appena
poteva scappava dall’aula per vagare in campagna raccogliendo e
disegnando piante, animali, rocce. Quando tornava con le tasche piene
di insetti e piante i familiari lo chiamavano “il piccolo farmacista”9,
ma non prendevano sul serio i suoi interessi. Stando a una leggenda
familiare, un giorno il re di Prussia, Federico il Grande, chiese al
ragazzo se intendeva conquistare il mondo come il suo omonimo,
Alessandro il Grande. Il giovane Humboldt rispose: “Sì, signore, ma
con la mia testa”10.
La sua vita giovanile, raccontò in seguito Humboldt a un amico
intimo, trascorse in buona parte tra gente che gli voleva bene, ma non
lo capiva. Gli insegnanti erano esigenti, la madre viveva ritirata dalla
società e distante dai figli. La preoccupazione più grande di Marie
Elisabeth von Humboldt, diceva Kunth, era promuovere la “perfezione
intellettuale e morale”11 di Wilhelm e Alexander – ma il loro benessere
emotivo non sembrava destare il suo interesse. “Mi furono imposte
mille restrizioni”12 e fui spinto nella solitudine, disse Humboldt, che si
nascondeva dietro un muro di finzioni perché non sentì mai di poter
essere se stesso sotto lo sguardo severo e assillante della madre. A casa
Humboldt, manifestare emozioni o gioia era un comportamento
inaccettabile.
Alexander e Wilhelm erano molto diversi13. Quanto il primo era
avventuroso e gioiva trovandosi all’aperto, l’altro era serio e studioso.
Alexander era spesso lacerato tra molteplici emozioni, mentre il tratto
caratteriale dominante di Wilhelm era l’autocontrollo14. Entrambi i
fratelli si ritirarono nei rispettivi mondi – Wilhelm tra i suoi libri,
Alexander in passeggiate solitarie nei boschi di Tegel, grandi foreste
che erano state piantate con alberi importati dal Nord America15.
Mentre vagava tra colorati aceri da zucchero e imponenti querce
bianche, Alexander percepiva la natura come rasserenante e
consolatoria16. Fu proprio tra quegli alberi provenienti da un altro
mondo che cominciò a sognare paesi lontani.
Crescendo, Humboldt diventò un giovanotto di bell’aspetto. Era alto
poco più di un metro e settanta17, ma il suo portamento eretto e fiero
lo faceva sembrare più grande. Era snello e agile, dalla camminata
svelta18. Aveva mani piccole e delicate, quasi femminili, come ebbe a
commentare un’amica19. Gli occhi erano inquisitivi e sempre all’erta.
Le sue sembianze rispondevano perfettamente agli ideali dell’epoca:
capelli arruffati, labbra carnose ed espressive, fossetta sul mento. Ma
si ammalava spesso, soffriva di febbri e nevrastenia, che Wilhelm
riteneva essere “una sorta di ipocondria” perché “il povero ragazzo è
infelice”20.
Per nascondere la sua vulnerabilità Alexander si costruì una corazza
protettiva fatta d’ingegno e ambizione. Da ragazzo i suoi commenti
taglienti intimorivano e un amico di famiglia lo aveva definito “piccolo
spirito maligno”21 – una reputazione di cui si sarebbe mostrato degno
per tutta la vita. Persino gli amici più intimi ammettevano che c’era in
lui una vena di cattiveria22. Secondo Wilhelm, invece, il fratello non
era mai stato realmente maligno23: forse un po’ vanitoso e spinto da
una profonda smania di essere brillante e di farsi notare. Fin da
giovane Alexander sembrava lacerato tra questa vanità e la solitudine,
tra la ricerca di elogi e l’ardente desiderio di indipendenza24. Insicuro,
e tuttavia certo del suo valore intellettuale, altalenava tra bisogno di
approvazione e senso di superiorità.

Nato nello stesso anno di Napoleone Bonaparte, Humboldt crebbe in


un mondo sempre più globale e accessibile. È significativo che i mesi
immediatamente precedenti la sua nascita abbiano visto la prima
collaborazione scientifica internazionale, quando astronomi di decine
e decine di nazioni avevano coordinato e condiviso le rispettive
osservazioni del passaggio di Venere. Il problema del calcolo
longitudinale era stato finalmente risolto e le aree vuote sulle mappe
del diciottesimo secolo si andavano rapidamente riempiendo. Il
mondo cambiava. Humboldt stava per compiere sette anni quando i
rivoluzionari americani proclamarono l’indipendenza e, poco prima
del suo ventesimo compleanno, la Francia seguì l’esempio con la
rivoluzione del 1789.
La Germania era sempre sotto l’ombrello protettore del Sacro
Romano Impero, che, come disse una volta il pensatore francese
Voltaire, non era né sacro, né romano, né un impero. Non era
nemmeno una nazione, ma un raggruppamento di tanti Stati – di cui
alcuni erano piccoli principati, altri dominati da grandi e potenti
dinastie come gli Hohenzollern in Prussia e gli Asburgo in Austria,
sempre in lotta per affermare la propria supremazia e conquistare
territori. A metà del diciottesimo secolo, durante il regno di Federico il
Grande, la Prussia era assurta al ruolo di principale rivale dell’Austria.
Ai tempi della nascita di Humboldt, la Prussia era rinomata per il
suo possente esercito permanente e per l’efficienza amministrativa.
Pur avendo governato da monarca assoluto, Federico il Grande aveva
tuttavia introdotto riforme, tra cui un sistema di istruzione primaria,
una moderata riforma agraria e si erano mossi anche i primi passi
verso la tolleranza religiosa. Pur celebre per le capacità in campo
militare, di Federico il Grande era noto anche l’amore per la musica, la
filosofia e lo studio. E benché i suoi contemporanei francesi e inglesi
denigrassero spesso i tedeschi come rozzi e arretrati, in Germania
c’erano più università e biblioteche che in qualunque altro paese
europeo25. Mentre fiorivano le attività editoriali e la pubblicazione di
riviste, i tassi di alfabetizzazione aumentavano vertiginosamente.
Intanto, la Gran Bretagna progrediva sul piano economico. Le
innovazioni agricole, quali la rotazione delle colture e nuovi sistemi
d’irrigazione, facevano aumentare la produzione. Una sorta di “febbre”
per la navigazione su fiumi e canali si era impossessata degli inglesi,
spingendoli a collegare l’intera isola con un moderno sistema di
trasporti. La Rivoluzione Industriale aveva introdotto telai meccanici e
altri macchinari e i centri industriali crescevano come funghi
assumendo le dimensioni di vere e proprie città. I coltivatori
passavano da un’agricoltura di sussistenza a coltivazioni e allevamenti
indirizzati ad alimentare le popolazioni che vivevano e lavoravano nei
nuovi centri urbani.
L’uomo cominciò a controllare la natura grazie a nuove tecnologie
quali le macchine a vapore di James Watt e anche tramite nuovi
progressi in campo medico, con le prime vaccinazioni contro il vaiolo
in Europa e nel Nord America. Quando, alla metà del diciottesimo
secolo, Benjamin Franklin inventò il parafulmine, il genere umano
cominciò a domare eventi che erano considerati espressione della furia
di Dio; e, grazie a tale potere, l’uomo perse l’atavica paura della natura.
Nei due secoli precedenti la società occidentale era stata dominata
dall’idea che la natura funzionasse come un apparato complesso – una
“grande e complicata macchina dell’Universo”26, come aveva detto
uno scienziato. Dopotutto, se l’uomo era in grado di costruire orologi e
macchine automatiche complesse, quali grandi cose Dio poteva
creare? Secondo il filosofo francese René Descartes e i suoi seguaci,
Dio aveva dato a questo nostro mondo meccanico l’impulso iniziale,
mentre Isaac Newton riteneva l’universo più simile a un meccanismo
divino, di cui Dio era l’artefice costantemente impegnato a intervenire.
Invenzioni quali telescopi e microscopi facevano scoprire mondi
nuovi e con loro la convinzione che le stesse leggi della natura
potessero essere svelate. In Germania il filosofo Gottfried Wilhelm von
Leibniz alla fine del diciassettesimo secolo aveva propagato l’idea di
una scienza universale fondata sulla matematica e intanto, a
Cambridge, Newton scopriva la meccanica dell’universo applicando la
matematica alla natura. Conseguentemente, nella misura in cui il
genere umano poteva comprendere le leggi naturali, il mondo
cominciava a esser visto come qualcosa di prevedibile. Era
rassicurante.
Matematica, osservazione scientifica ed esperimenti controllati
lastricavano questo sentiero fatto di razionalità che percorreva tutto il
mondo occidentale. Gli scienziati divennero cittadini di una propria
autoproclamata “repubblica delle lettere”, una comunità intellettuale
che trascendeva confini nazionali, lingue e religioni27. E, con le loro
lettere che si incrociavano attraverso l’Europa e l’Oceano Atlantico, si
diffondevano nuove idee e scoperte scientifiche. Questa “repubblica
delle lettere” era un paese senza confini, governato dalla ragione e non
da monarchi. In questa nuova età dell’Illuminismo, dove le società
occidentali avanzavano a grandi passi lungo una traiettoria fatta di
fiducia e progresso, si formò Alexander von Humboldt. Con il
progresso come parola d’ordine del secolo, ogni generazione invidiava
la successiva. Nessuno temeva che la natura stessa potesse andare
distrutta.

I giovani von Humboldt entrarono a far parte dei circoli intellettuali di


Berlino, dove discutevano sull’importanza dell’istruzione, della
tolleranza e della libertà di pensiero. Mentre i due fratelli correvano
tra gruppi di lettura e salotti filosofici, lo studio, in precedenza
un’occupazione tanto solitaria a Tegel, diventò ora un fatto sociale.
Durante le estati la madre spesso si ritirava a Tegel, lasciando i due
giovani fratelli con i loro precettori nella casa di famiglia a Berlino28.
Ma questa libertà non era destinata a durare: la madre, come lei stessa
chiarì, si aspettava che diventassero funzionari statali. Da lei
economicamente dipendenti, dovevano acconsentire ai suoi
desideri29.

Vista di Londra e del Tamigi

Marie Elisabeth von Humboldt mandò il diciottenne Alexander


all’università a Francoforte sull’Oder. A circa centodieci chilometri a
est di Berlino, era un’istituzione di provincia con solo 200 studenti che
lei probabilmente aveva scelto più per la vicinanza a Tegel che per i
meriti accademici30. Quando Alexander ebbe terminato un semestre
di studi in amministrazione dello Stato ed economia politica, si decise
che era pronto per raggiungere Wilhelm a Gottinga, una delle migliori
università negli Stati tedeschi31. Mentre Wilhelm studiava legge,
Alexander si dedicò alla scienza, alla matematica e alle lingue. Benché i
due fratelli vivessero nella stessa città, trascorrevano poco tempo
insieme. “Abbiamo caratteri molti diversi”32, diceva Wilhelm che
studiava sodo, mentre Alexander sognava tropici e avventure33.
Desiderava ardentemente lasciare la Germania. Da ragazzo aveva letto
i diari del capitano James Cook e Louis Antoine de Bougainville:
entrambi avevano circumnavigato il globo e lui s’immaginava via,
lontano. Quando vide le palme tropicali al giardino botanico di
Berlino, desiderò soltanto poterle vedere nel loro ambiente
naturale34.
Il suo vivo desiderio giovanile di viaggiare diventò cosa più seria
quando Humboldt si unì a un vecchio amico, Georg Forster, per un
viaggio di quattro mesi attraverso l’Europa. Forster era un naturalista
tedesco che aveva accompagnato Cook nel suo secondo giro del
mondo. Humboldt e Forster si erano conosciuti a Gottinga. Parlavano
spesso di quella spedizione e le vivaci descrizioni delle isole del
Pacifico meridionale che ascoltava da Forster rendevano sempre più
forte la sua brama di viaggiare35.
Nella primavera del 1790 Forster e Humboldt andarono in
Inghilterra, Olanda e Francia; ma il momento saliente del viaggio fu il
soggiorno a Londra, dove tutto induceva Humboldt a pensare a paesi
lontani. Vedeva il Tamigi affollato di vascelli che portavano merci da
tutti gli angoli del mondo. Circa 15.000 navi entravano ogni anno nel
porto36, cariche di spezie dalle Indie Orientali, di zucchero dalle Indie
Occidentali, di tè dalla Cina, vino dalla Francia e legname dalla Russia.
Il fiume era una “foresta nera” di alberi37. Tra le grandi navi
commerciali c’erano centinaia di chiatte, barchette e piccoli vascelli.
Affollato e congestionato, il fiume era anche un grandioso ritratto della
potenza imperiale della Gran Bretagna.
A Londra, Humboldt fu presentato a botanici, esploratori, artisti e
pensatori. Conobbe il capitano William Bligh (quello dello scellerato
ammutinamento del Bounty) e Joseph Banks, il botanico che aveva
accompagnato Cook nel primo viaggio attorno al mondo e che da
allora era presidente della Royal Society, il più importante forum
scientifico in Gran Bretagna. Poté ammirare i seducenti dipinti e i
disegni riportati da William Hodges, l’artista che aveva partecipato al
secondo viaggio di Cook. Dovunque Humboldt si girasse, come per
magia erano evocati mondi nuovi. Persino di prima mattina, la prima
cosa che vedeva aprendo gli occhi erano le incisioni incorniciate delle
navi della Compagnia delle Indie Orientali che decoravano le pareti
della camera da letto nella sua abitazione38. Humboldt alla vista di
queste immagini spesso piangeva per il doloroso ricordo dei sogni non
realizzati. “C’è una pulsione in me”, scriveva, “che spesso mi fa sentire
come se stessi perdendo la testa.”39
Quando la malinconia diventava intollerabile faceva lunghe
passeggiate solitarie. Durante una di queste escursioni in campagna a
Hampstead, subito a nord di Londra, vide un avviso di reclutamento
affisso a un albero: si cercavano giovani marinai40. Per un attimo
pensò di aver trovato la risposta ai suoi desideri, ma subito dopo si
affacciò alla sua mente il pensiero della madre severa. Sentiva una
inesplicabile attrazione verso l’ignoto, ciò che i tedeschi chiamano
Fernweh – un desiderio ardente di luoghi lontani – ma era “un figlio
troppo buono”41, ammetteva, per rivoltarsi contro di lei.
Era convinto di star lentamente impazzendo e cominciò a scrivere
“lettere insensate”42 agli amici rimasti a casa. “Le infelici condizioni in
cui mi trovo”, scrisse Humboldt a un amico alla vigilia della sua
partenza dall’Inghilterra, “mi fanno desiderare ciò che non posso avere
e fare ciò che non mi piace.”43 Ma ancora non aveva il coraggio di
sfidare le aspettative della madre su ciò che comportava essere stati
educati nella élite prussiana.
Tornato a casa, l’infelicità di Humboldt si trasformò in una sfrenata
energia. Era spinto da una “pulsione perpetua”44, scriveva, come se
“10.000 sbirri” gli dessero la caccia. Guizzava avanti e indietro,
saltando da un argomento all’altro. Non si sentiva più insicuro
riguardo alle sue capacità intellettuali e non pensava più di restare
sempre indietro rispetto al fratello maggiore. Stava dimostrando a se
stesso, agli amici e alla famiglia quanto era intelligente. Forster era
convinto che “il cervello di Humboldt” fosse stato “sottoposto a uno
strapazzo eccessivo”45 – e non era il solo a pensarla così. Anche
Caroline von Dachröden, la fidanzata di Wilhelm che solo da poco
aveva conosciuto Alexander, era preoccupata. Alexander le piaceva,
ma aveva paura che stesse per “saltare”46. Tra quanti lo conoscevano,
molti facevano commenti su quella sua frenetica attività e sulla
velocità a cui parlava – “alla velocità di un cavallo da corsa”47.
Poi, alla fine dell’estate del 1790, Humboldt cominciò a studiare
economia e finanza all’accademia commerciale di Amburgo. Odiava
quegli studi, fatti soltanto di numeri e libri contabili48. Nel tempo
libero s’immergeva in trattati scientifici e libri di viaggio49, studiava
danese e svedese: qualsiasi cosa era meglio che studiare
amministrazione aziendale. Appena poteva usciva a camminare,
scendendo fino al fiume Elba dove si fermava a guardare i grandi
vascelli mercantili che portavano tabacco, riso e indaco dagli Stati
Uniti. La “vista delle navi nel porto”50, disse a un amico, lo aiutava a
non lasciarsi andare: erano il simbolo delle sue speranze e dei suoi
sogni. Non vedeva l’ora di essere finalmente “padrone della propria
sorte”51.
Quando terminò gli studi ad Amburgo aveva ventun anni. Nel
giugno del 1791, ottemperando ancora una volta ai desideri della
madre, si iscrisse alla prestigiosa accademia mineraria di Freiberg52,
una cittadina vicina a Dresda. Era un compromesso che lo avrebbe
preparato a una carriera presso il ministero prussiano delle Miniere –
acquietando sua madre – ma perlomeno gli consentiva di assecondare
i suoi interessi per la scienza e la geologia. L’accademia, che insegnava
le ultime teorie geologiche nel contesto della loro applicazione pratica
in campo minerario, rappresentava l’eccellenza nel settore; inoltre,
avendo attratto alcuni tra i migliori studiosi e professori da tutta
Europa, ospitava una fiorente comunità scientifica.
Nel giro di otto mesi Humboldt aveva portato a termine un
programma di studi che a chiunque altro avrebbe richiesto tre anni53.
Ogni mattina si alzava prima dell’alba e raggiungeva una delle miniere
intorno a Freiberg. Trascorreva le successive cinque ore nel profondo
dei pozzi, esaminando la costruzione delle miniere, i metodi di lavoro,
le rocce. Aiutato dalla sua figura forte e snella, si muoveva con facilità
tra le strette gallerie e le basse grotte trivellando e scalpellando per
portarsi via qualche esemplare. Lavorava con tanto accanimento che
spesso non si accorgeva neanche del freddo o dell’umidità. A
mezzogiorno strisciava fuori dal buio, si scuoteva la polvere di dosso e
si affrettava a ritornare all’accademia per seguire seminari e lezioni su
minerali e geologia. La sera, spesso fino a notte fonda, sedeva al
tavolo, chino sui libri al lume di candela, a leggere e studiare. Nel
tempo libero indagava l’influsso della luce (o della sua assenza) sulle
piante e raccoglieva migliaia di specie botaniche. Misurava, annotava,
classificava. Era figlio dell’Illuminismo54.
Poche settimane dopo il suo arrivo a Freiberg dovette recarsi a
Erfurt, a circa centosessanta chilometri verso ovest, per assistere al
matrimonio del fratello con Caroline. Ma cercava sempre di combinare
eventi sociali o feste familiari con il lavoro e così fece anche quella
volta: invece di limitarsi a unirsi ai festeggiamenti a Erfurt, riuscì a
trasformare il viaggio in una spedizione geologica di 1.000 chilometri
attraverso la regione della Turingia55. Caroline era metà divertita e
metà preoccupata per quel nuovo frenetico cognato: le piaceva la sua
energia, ma a volte si prendeva gioco di lui – come una sorella può
punzecchiare un fratellino minore. Alexander aveva le sue stranezze e
andavano rispettate, diceva a Wilhelm; ma era anche preoccupata per
il suo stato mentale e per la sua solitudine56.
A Freiberg, l’unico vero amico di Humboldt era un compagno di
studi, figlio della famiglia dalla quale aveva affittato una stanza. I due
giovani passavano insieme giorno e notte, studiando e parlando57.
“Non ho mai voluto così tanto bene a nessuno”58, confessava; ma
nello stesso tempo si rimproverava per la costruzione di un legame
così intenso quando sapeva benissimo che alla fine degli studi avrebbe
dovuto lasciare Freiberg, sentendosi poi ancora più solo59.
Il duro lavoro all’accademia, tuttavia, ripagò Humboldt quando,
finiti gli studi, fu nominato ispettore delle miniere: aveva soltanto
ventidue anni, un’età stupefacente per simile incarico, ottenuto
lasciandosi dietro numerosi candidati ben più anziani di lui. Un po’
imbarazzato per la vertiginosa ascesa, era tuttavia abbastanza vanesio
da farne sfoggio in lunghe lettere inviate ad amici e familiari60. Ma la
cosa più importante era che quella posizione gli permetteva di
percorrere migliaia di chilometri per valutare il suolo, pozzi e minerali
– dal carbone nel Brandeburgo al ferro in Slesia all’oro sui monti
Fichtel alle miniere di sale in Polonia.
Durante quei viaggi Humboldt conobbe tante persone, ma
raramente apriva il suo cuore61. Era abbastanza contento, come
scriveva agli amici, ma non era felice. La sera tardi, dopo una giornata
intera trascorsa nelle miniere o a farsi sballottare nella diligenza su
strade accidentate, pensava ai pochi amici che aveva avuto negli anni
passati62 e si sentiva “dannatamente solo”63. Consumando
l’ennesimo pasto solitario in una squallida locanda lungo la strada64,
spesso era troppo stanco per scrivere o pensare. Ma certe notti era così
solo che il bisogno di comunicare vinceva la fatica e allora afferrava la
penna e componeva lunghe lettere che spaziavano e saltavano da
dissertazioni dettagliate sul suo lavoro a osservazioni scientifiche a
esplosioni emotive e dichiarazioni d’amore e amicizia.
Avrebbe dato due anni della sua vita65 per i ricordi del tempo che
avevano trascorso insieme, scriveva all’amico di Freiberg, confessando
di aver passato con lui “le ore più amabili”66 della sua vita. Scritte a
notte fonda, alcune di quelle lettere non contenevano altro che
emozioni allo stato puro ed erano profondamente segnate da una
disperata solitudine. Pagina dopo pagina, Humboldt lasciava sgorgare
i suoi sentimenti e alla fine chiedeva scusa per le sue “lettere folli”67. Il
giorno dopo, quando il lavoro richiedeva tutta la sua attenzione, tutto
veniva dimenticato e a volte passavano settimane o mesi prime che
scrivesse di nuovo. Persino agli occhi dei pochi che lo conobbero
meglio, Humboldt restava una persona spesso difficile da decifrare.
Intanto la sua carriera prendeva il volo e i suoi interessi si
ampliavano. Ora Humboldt cominciava a interessarsi anche delle
condizioni di lavoro dei minatori che tutte le mattine vedeva strisciare
nelle viscere della terra. Per aumentare la loro sicurezza inventò una
maschera respiratoria e una lampada in grado di funzionare anche nei
pozzi più profondi e poveri di ossigeno68. Impressionato dalla loro
ignoranza, scrisse manuali per minatori e fondò una scuola
mineraria69. Quando si rese conto che i documenti storici potevano
rivelarsi utili per lo sfruttamento di miniere dismesse o inefficienti,
perché talvolta menzionavano ricche vene di minerali o conservavano
traccia di vecchi ritrovamenti, passò intere settimane a decifrare
manoscritti del sedicesimo secolo70. Lavorava e viaggiava a un ritmo
così esagitato che qualche collega pensava dovesse avere “8 gambe e 4
braccia”71.
Tuttora preso a combattere febbri ricorrenti e disturbi nervosi,
l’intensità di tutto ciò lo fece ammalare72. Ne attribuiva le ragioni a un
combinarsi di superlavoro e troppo tempo trascorso al freddo nel
profondo delle miniere. Malgrado la malattia e l’agenda lavorativa
stipata d’impegni, Humboldt riuscì comunque a pubblicare i suoi
primi libri, un trattato specialistico sui giacimenti basaltici ancora da
scoprire lungo le rive del Reno73 e un altro libro sulla flora sotterranea
a Freiberg – strane piante simili a muffe e spugnose che crescevano in
un intrico di forme sulle travi umide nelle miniere74. La sua
attenzione si concentrava su tutto quello che poteva misurare e
osservare.
Nel diciottesimo secolo la “filosofia naturale” – ciò che oggi
chiameremmo “scienze naturali” – evolveva da materia ricompresa
nella filosofia, al pari della metafisica, della logica e della filosofia
morale, a disciplina indipendente che richiedeva un proprio approccio
e una propria metodologia. Coerentemente con questa evoluzione,
nell’ambito della filosofia naturale si sviluppavano nuovi filoni, dando
luogo alla nascita di discipline distinte e separate quali la botanica, la
zoologia, la geologia e la chimica. E per quanto Humboldt lavorasse su
discipline differenti nello stesso tempo, lui continuava a tenerle
separate. Questa crescente specializzazione creava una sorta di miopia
che portava sempre di più a focalizzare i dettagli, a detrimento della
visione globale che più tardi sarebbe diventata il tratto caratteristico di
Humboldt.

Uno degli esperimenti sull’elettricità animale condotti da Humboldt utilizzando zampe di rana

Fu in questo periodo che Humboldt s’infatuò della cosiddetta


“elettricità animale”, o Galvanismo, secondo il termine con il quale il
fenomeno è diventato noto, dal nome dello scienziato italiano Luigi
Galvani. Galvani era riuscito a suscitare movimenti convulsi nei
muscoli e nei nervi di animali applicandovi differenti metalli.
Sospettava che i nervi animali contenessero elettricità. Affascinato
dall’idea, Humboldt diede il via a una lunga serie di 4.000 esperimenti
nel corso dei quali tagliava, pungolava e colpiva con scariche elettriche
rane, lucertole e topi. Non contento di fare esperimenti soltanto su
animali, cominciò a usare anche il proprio corpo portandosi sempre
dietro i suoi strumenti nei viaggi di lavoro attraverso la Prussia. La
sera, finito il lavoro ufficiale, allestiva nelle camerette prese in affitto il
suo laboratorio elettrico allineando sul tavolo, insieme a carta e penna,
asticelle di metallo, pinze, vaschette e boccette di vetro piene di
sostanze chimiche di ogni genere. Con un bisturi si incideva le braccia
e il dorso, nelle ferite aperte faceva penetrare con cautela sostanze
chimiche e acidi o si attaccava sulla pelle o sotto la lingua metalli,
cavetti o elettrodi. Annotava meticolosamente ogni contrazione, ogni
spasmo, sensazione di bruciore o dolore75. Spesso le ferite si
infettavano e c’erano giorni in cui aveva la pelle scorticata da piaghe
sanguinolente. Il suo corpo appariva malandato come quello di un
“monello di strada”76, ammetteva, ma riferiva anche con fierezza che
malgrado la grande sofferenza andava tutto “splendidamente”77.
Con questi esperimenti Humboldt s’inseriva in uno dei dibattiti più
accesi che all’epoca impegnavano il mondo scientifico: il concetto di
“materia” organica e inorganica. Contenevano entrambe qualche sorta
di “energia” o “principio attivo”? Newton aveva avanzato l’idea che la
materia fosse sostanzialmente inerte e che Dio vi avesse aggiunto
ulteriori proprietà. Nello stesso tempo, agli scienziati dediti alla
classificazione della flora e della fauna interessava più dare ordine al
caos che non chiedersi se le piante o gli animali potessero essere
governati da un insieme di leggi diverse da quelle che governano gli
oggetti inanimati.
Alla fine del diciottesimo secolo qualche scienziato cominciava a
mettere in discussione questo modello meccanico di natura,
sottolineandone l’incapacità di spiegare l’esistenza di una materia
vivente. E al tempo in cui Humboldt cominciava a fare i suoi
esperimenti sull’“elettricità animale” erano sempre più numerosi gli
scienziati convinti che la materia non fosse senza vita: ci doveva essere
però una forza che ne innescasse l’attività. In tutta Europa gli
scienziati cominciavano a scartare le idee di Descartes, secondo cui gli
animali erano sostanzialmente delle macchine. Da fisici francesi al
chirurgo scozzese John Hunter fino, in particolare, al vecchio docente
di Humboldt a Gottinga, lo scienziato Johann Friedrich Blumenbach,
tutti cominciavano a formulare nuove teorie della vita. Quando
Humboldt era studente a Gottinga Blumenbach aveva pubblicato una
nuova edizione del suo Über den Bildungstrieb, in cui avanzava l’idea
che diverse forze esistessero all’interno di organismi viventi come le
piante e gli animali: ma ciò che contava era quella che lui chiamava
Bildungstrieb78 – la “forza generativa”– la forza che determinava la
formazione di organismi. Ogni organismo vivente, dall’uomo alla
muffa, aveva in sé questa forza generativa – scriveva Blumenbach –
essenziale per la nascita della vita.
Per Humboldt, la vera posta in gioco nei suoi esperimenti era
sciogliere quello che lui chiamava “il nodo gordiano del processo
vitale”79.
1. AH, Meine Bekenntnisse, 1769-1805, Biermann 1987, pp. 50 sgg.; Beck 1959-61, vol. 1, pp. 3
sgg.; Geier 2010, pp. 16 sgg.
2. Fu il principe Federico Guglielmo che divenne re Federico Guglielmo II nel 1786.
3. AH a Carl Freiesleben, 5 giugno 1792, AH Lettere 1973, pp. 191 sgg.; WH a CH, aprile 1790,
WH CH Lettere 1910-16, vol. 1, p. 134.
4. Frau von Briest, 1785, WH CH Lettere 1910-16, vol. 1, p. 55.
5. WH a CH, 2 aprile 1790, ivi, pp. 115-16; Geier 2010, pp. 22 sgg.; Beck 1959-61, vol. 1, pp. 6
sgg.
6. WH a CH, 2 aprile 1790, WH CH Lettere 1910-16, vol. 1, p. 115.
7. AH a Carl Freiesleben, Bruhns 1873, vol. 1, p. 31; e AH, Aus Meinem Leben (1769-1850), in
Biermann 1987, p. 50.
8. Geier 2010, p. 29.
9. Bruhns 1873, vol. 1, p. 20; Beck 1959-61, vol. 1, p. 10.
10. Walls 2009, p. 15.
11. Kunth su Marie Elisabeth von Humboldt, Beck 1959-61, vol. 1, p. 6.
12. A Carl Freiesleben, 5 giugno 1792, AH Lettere 1973, p. 192.
13. WH a CH, 9 ottobre 1804, in WH CH Lettere 1910-16, vol. 2, p. 260.
14. WH 1903-36, vol. 15, p. 455.
15. AH a Carl Freiesleben, 5 giugno 1792, AH Lettere 1973, p. 191; Bruhns 1873, vol. 3, pp. 12-
13.
16. AH a WH, 19 maggio 1829, in AH Lettere Russia 2009, p. 116.
17. Il passaporto di AH lasciando Parigi nel 1798, in Bruhns 1873, vol. 1, p. 394.
18. Karoline Bauer, 1876, in Clark e Lubrich 2012, p. 199.
19. Louise von Bornstedt, 1856, in Beck 1959, p. 385.
20. WH a CH, 2 aprile 1790, p. 116; vedi anche WH a CH, 3 giugno 1791, in WH CH Lettere
1910-16, vol.1, pp. 116, 477; per le malattie, vedi AH a Wilhelm Gabriel Wegener, 24, 25, 27
febbraio 1789 e 5 giugno 1790, AH Lettere 1973, pp. 39, 92.
21. Dove 1881, p. 83; per commenti successivi, vedi Caspar Voght, 14 febbraio 1808, Voght
1959-65, vol. 3, p. 95.
22. Arago su AH, Biermann e Schwarz 2001b, senza numero di pagina.
23. WH su AH, 1788, Dove 1881, p. 83.
24. WH a CH, 6 novembre 1790, WH CH Lettere 1910-16, vol. 1, p. 270.
25. Watson 2010, pp. 55 sgg.
26. George Cheyne, Worster 1977, p. 40.
27. “Repubblica delle lettere” era un’espressione di cui si faceva ampio uso; vedi per esempio
Joseph Pitton de Tournefort a Hans Sloane, 14 gennaio 1701/2 e John Locke a Hans Sloane, 14
settembre 1694, MacGregor 1994, p. 19.
28. Bruhns 1873, vol. 1, p. 33.
29. AH, Meine Bekenntnisse, 1769-1805, Biermann 1987, pp. 50, 53; Holl 2009, p. 30; Beck
1959-1961, vol. 1, pp. 11 sgg.; WH a CH, 15 gennaio 1790, WH CH Lettere 1910-16, vol. 1, p. 74.
30. AH a Ephraim Beer, novembre 1787, AH Lettere 1973, p. 4; Beck 1959-61, vol. 1, p. 14.
31. Holl 2009, pp. 23 sgg.; Beck 1959-61, vol. 1, pp. 18-21.
32. WH, Geier 2009, p. 63.
33. AH, Mein Aufbruch nach America, Biermann 1987, p. 64.
34. AH Cosmos 1845-52, vol. 2, p. 92; AH, Meine Bekenntnisse, 1769-1805, Biermann 1987, p.
51.
35. AH, Ich Über Mich Selbst, 1769-90, Biermann 1987, pp. 36 sgg.
36. White 2012, p. 168; vedi anche Carl Philip Moritz, giugno 1782, Moritz 1965, p. 26.
37. Richard Rush, 7 gennaio 1818, Rush 1833, p. 79.
38. AH a Wilhelm Gabriel Wegener, 20 giugno 1790; AH a Paul Usteri, 27 giugno 1790, AH a
Friedrich Heinrich Jacobi, 3 gennaio 1791, AH Lettere 1973, pp. 93, 96, 117; AH, Ich Über
Mich Selbst, 1769-90, Biermann 1987, p. 39.
39. AH a Wilhelm Gabriel Wegener, 23 settembre 1790, AH Lettere 1973, pp. 106-7.
40. AH, Ich Über Mich Selbst, 1769-90, Biermann 1987, p. 38.
41. AH, Meine Bekenntnisse, 1769-1805, Biermann 1987, p. 51; vedi anche AH a Joachim
Heinrich Campe, 17 marzo 1790, AH Lettere 1973, p. 88.
42. AH, Ich Über Mich Selbst, 1769-90, Biermann 1987, p. 40.
43. AH a Paul Usteri, 27 giugno 1790, AH Lettere 1973, p. 96.
44. AH a David Friedländer, 11 aprile 1799, AH Lettere 1973, p. 658.
45. Georg Forster a Heyne, Bruhns 1873, vol. 1, p. 31.
46. CH a WH, 21 gennaio 1791, WH CH Lettere 1910-16, vol. 1, p. 372; CH e AH si erano
conosciuti nel dicembre 1789.
47. Alexander Dallas Bache, 2 giugno 1859, ‘Tribute to the Memory of Humboldt”, Pulpit and
Rostrum, 15 giugno 1859, p.133; vedi anche WH a CH, 2 aprile 1790, WH CH Lettere 1910-16,
vol. 1, p. 116.
48. AH a William Gabriel Wegener, 23 settembre 1790, AH Lettere 1973, p. 106.
49. AH a Samuel Thomas Sömmerring, 28 gennaio 1791, AH Lettere 1973, p. 122.
50. AH a Willliam Gabriel Wegener, 23 settembre 1790, AH Lettere 1973, p. 106.
51. AH a William Gabriel Wegener, 27 marzo 1789, AH Lettere 1973, p. 47.
52. AH, Meine Bekenntnisse, 1769-1805, Biermann 1987, p. 54.
53. AH a Archibald MacLean, 14 ottobre 1791, AH Lettere 1973, p. 153.
54. AH a Dietrich Ludwig Gustav Karsten, 25 agosto 1791; AH a Paul Usteri, 22 settembre
1791; AH a Archibald MacLean, 14 ottobre 1791, AH Lettere 1973, pp. 144, 151 sgg.
55. AH a Dietrich Ludwig Gustav Karsten, ivi, p. 146.
56. CH a WH, 14 gennaio 1790 e 21 gennaio 1791, CH Lettere 1910-16, vol. 1, pp. 65, 372.
57. AH a Archibald MacLean, 14 ottobre 1791, AH Lettere 1973, p. 154.
58. AH a Carl Freiesleben, 2 marzo 1792, ivi, p. 173.
59. AH a Archibald MacLean, 6 novembre 1791, ivi, p. 157.
60. AH a Freiesleben, 7 marzo 1792, ivi, p. 175.
61. AH a William Gabriel Wegener, 27 marzo 1789, ivi, p. 47.
62. AH a Archibald MacLean, 1 ottobre 1792, 9 febbraio 1793, Jahn e Lange 1973, pp. 216, 233;
vedi anche lettere di AH a Carl Freiesleben in questo periodo, per esempio 14 gennaio 1793, 19
luglio 1793, 21 ottobre 1793, 2 dicembre 1793, 20 gennaio 1794, AH Lettere 1973, pp. 227-9,
257-8, 279-81, 291-2, 310-15.
63. AH a Archibald MacLean, 9 febbraio 1793; vedi anche 6 novembre 1791, AH Lettere 1973,
pp. 157, 233.
64. AH a Carl Freiesleben, 21 ottobre 1793, ivi, p. 279.
65. AH a Carl Freiesleben, 10 aprile 1792, ivi, p. 180.
66. AH a Carl Freiesleben, 6 luglio 1792, ivi, p. 201; vedi anche 21 ottobre 1793 e 20 gennaio
1794, ivi, pp. 279, 313.
67. AH a Carl Freiesleben, 13 agosto 1793, ivi, p. 269.
68. AH, Über die unterirdischen Gasarten und die Mittle, ihren Nachteul zu vermindern. Ein
Beytrag zur Physik der praktischen Bergbaukunde, Braunschweig, Vieweg, 1799,
Illustrazione III; AH a Carl Freiesleben, 20 gennaio 1794, 5 ottobre 1796, AH Lettere 1973, pp.
311 sgg., 531 sgg.
69. AH a Carl Freiesleben, 20 gennaio 1794, AH Lettere 1973, p. 311.
70. Ivi, pp. 310 sgg.
71. AH a Carl Freiesleben, 19 luglio 1793, ivi, p. 257.
72. AH a Carl Freiesleben, 9 aprile 1793 e 20 gennaio 1794; AH a Friedrich Wilhelm von
Reden, 17 gennaio 1794; AH a Dietrich Ludwig Karsten, 15 luglio 1795, ivi, pp. 243-4, 308, 311,
446.
73. AH, Mineralogische Beobachtungen über einige Basalte am Rhein, 1790.
74. AH, Florae Fribergensis specimen, 1793; ispirato dal lavoro del chimico francese Antoine
Laurent Lavoisier e dello scienziato britannico Joseph Priestley, Humboldt cominciò anche a
esaminare gli stimoli della luce e dell’idrogeno sulla produzione di ossigeno nelle piante; AH,
Aphorismen aus der chemischen Physiologie der Pflanzen, 1794.
75. AH a Johann Friedrich Blumenbach, 17 novembre 1793, AH Lettere 1973, p. 471; AH 1797,
vol. 1, p. 3.
76. AH a Johann Friedrich Blumenbach, giugno 1795, Bruhns 1873, vol. 1, p. 150; l’originale
tedesco è “Gassenläufer”, Bruhns 1872, vol. 1, p. 173.
77. AH a Johann Friedrich Blumenbach, 17 novembre 1793, AH Lettere 1973, p. 471.
78. La prima edizione fu pubblicata nel 1781 e la seconda nel febbraio 1789. Humboldt arrivò a
Gottinga nell’aprile 1789; per Blumenbach, vedi Reill 2003, pp. 33 sgg.; Richards 2002, pp.
216 sgg.
79. AH a Freiesleben, 9 febbraio 1796, AH Lettere 1973, p. 495.
Capitolo secondo

Immaginazione e natura

Johann Wolfgang von Goethe e Humboldt

Nel 1794 Alexander von Humboldt interruppe per un breve periodo i


suoi esperimenti e i suoi giri di ispezione nelle miniere per andare a
trovare il fratello, Wilhelm, che ora viveva con la moglie Caroline e i
loro due bambini a Jena, circa 250 chilometri a sud-ovest di Berlino1.
Jena era una città di solo 4.000 abitanti nel Ducato di Sachsen-
Weimar, un piccolo Stato governato da un sovrano illuminato, Karl
August. Era un centro letterario e di studi che nel giro di qualche anno
sarebbe diventato la culla dell’Idealismo e del Romanticismo tedeschi.
L’università di Jena era diventata una delle più grandi e più famose
nelle regioni di lingua tedesca, attraendo pensatori progressisti un po’
da tutti gli altri Stati tedeschi più repressivi in virtù del suo
atteggiamento liberale2. Non c’era nessun altro luogo, diceva il poeta e
drammaturgo locale Friedrich Schiller, in cui i principi di libertà e
verità prevalessero come a Jena3.
Johann Wolfgang von Goethe nel 1787

A soli venti chilometri di distanza c’era Weimar, capitale dello Stato


e patria del più grande poeta tedesco, Johann Wolfgang von Goethe.
Weimar non aveva neanche un migliaio di case e si diceva che era così
piccola che tutti conoscevano tutti. Il bestiame passava per le strade
acciottolate e la posta veniva recapitata con tale irregolarità che
quando Goethe voleva inviare una lettera al suo amico Schiller, che
lavorava all’università di Jena, preferiva affidarla al fruttivendolo, nei
suoi giri di consegna, piuttosto che aspettare il postale4.
A Jena e a Weimar, ebbe a osservare un visitatore, le menti più
brillanti convergevano come i raggi del sole in una lente
d’ingrandimento5. Wilhelm e Caroline si erano trasferiti a Jena nella
primavera del 1794 e facevano parte della cerchia di amici che ruotava
attorno a Goethe e Schiller. Vivevano nella piazza del mercato, di
fronte a Schiller, così vicino che potevano farsi cenni dalla finestra per
concordare i loro incontri quotidiani6. Quando arrivò Alexander,
Wilhelm spedì un biglietto urgente a Weimar invitando Goethe a
Jena7. Goethe ne fu felice e, come suo solito, alloggiò nelle stanze per
gli ospiti che aveva a disposizione al castello del duca, non lontano
dalla piazza del mercato, giusto un paio di isolati a nord.
Durante la visita di Humboldt gli uomini s’incontravano tutti i
giorni. Erano un gruppetto affiatato, animato da discussioni accese e
risate fragorose, che non di rado si protraevano fino a notte tarda8.
Benché fosse il più giovane, Humboldt assumeva spesso la guida del
gruppo. Ci “ha costretto a entrare”9 nelle scienze naturali, dichiarò
entusiasta Goethe: parlavano di zoologia e di vulcani, di botanica,
chimica e Galvanismo. “Neanche passando otto giorni a leggere libri si
potrebbe imparare di più di quanto lui c’insegna in un’ora”10, diceva
Goethe.
Il mese di dicembre 1794 fu terribilmente freddo11. Il Reno
ghiacciato divenne una grande via di scorrimento per le truppe di
Napoleone nel loro percorso di guerra attraverso l’Europa12. Un’alta
coltre di neve ricopriva il Ducato di Sachsen-Weimar. Ciononostante,
tutte le mattine, ancor prima che si levasse il sole, Humboldt, Goethe e
qualche altro amico scienziato arrancavano nel buio e nella neve
attraversando la piazza del mercato di Jena. Avvolti in spessi mantelli
di lana, superavano il severo municipio trecentesco diretti
all’università, dove frequentavano lezioni di anatomia13. Faceva
freddo nell’auditorium quasi deserto della medievale torre rotonda in
pietra inserita nelle antiche mura cittadine – ma il vantaggio delle
temperature insolitamente basse era che i cadaveri che sezionavano si
conservavano più a lungo. Goethe, che detestava il freddo e
normalmente avrebbe preferito il calore scoppiettante della sua
stufa14, non poteva essere più felice. Non smetteva mai di parlare. La
presenza di Humboldt lo stimolava15.
Allora, nel pieno dei suoi quarant’anni, Goethe era il più illustre
esponente della letteratura tedesca. Esattamente vent’anni prima era
stato catapultato ai vertici della fama mondiale da I dolori del giovane
Werther, romanzo sulla figura di un giovane innamorato disperato che
si suicida, in cui era racchiuso tutto il sentimentalismo dell’epoca.
Diventò il libro di un’intera generazione e in molti s’identificavano nel
suo protagonista. Il romanzo fu pubblicato in quasi tutte le lingue
europee e divenne così famoso che tanti, tra cui il giovane Karl August,
Duca di Sachsen-Weimar, avevano preso a vestirsi in una sorta di
uniforme alla Werther: panciotto giallo e calzoni al ginocchio, marsina
azzurra, stivali neri e cappello tondo di feltro16. Si parlava di Werther-
mania17 e i cinesi produssero persino una porcellana Werther per il
mercato europeo.
Quando incontrò Humboldt per la prima volta, Goethe non era più
il giovane, affascinante poeta dello Sturm und Drang, l’era in cui il
pre-Romanticismo tedesco aveva esaltato l’individualità e un’intera
gamma di sentimenti estremi – dall’amore più drammatico alla più
profonda malinconia – fatti di passione, emozioni, poesie e romanzi
romantici. Nel 1775, quando Goethe era stato invitato per la prima
volta a Weimar dall’allora diciottenne Karl August, si era abbandonato
a una lunga serie di avventure amorose, bevute e monellerie. Goethe e
Karl August andavano in giro divertendosi a far baccano per le strade
di Weimar, talvolta avvolti in lenzuoli bianchi per spaventare chi
credeva nei fantasmi18. Avevano rubato dei barili a un mercante locale
per rotolarsi giù dalle colline e amoreggiavano con le contadinelle:
tutto in nome del genio e della libertà. E ovviamente nessuno poteva
lamentarsi, dato che vi era coinvolto Karl August, il giovane sovrano.
Ma quegli anni scapestrati erano lontani e con loro erano sparite le
teatrali dichiarazioni d’amore, le lacrime, i bicchieri fracassati e le
nuotate nudi che avevano scandalizzato la gente del posto. Nel 1788,
sei anni prima della prima visita di Humboldt, Goethe aveva
scandalizzato per l’ennesima volta la società di Weimar prendendosi
come amante una giovane analfabeta, Christiane Vulpius19. Meno di
due anni dopo Christiane, che lavorava a Weimar come sarta, dette
alla luce il loro figlio August. Ignorando convenzioni e pettegolezzi
maligni, Christiane e August vivevano con Goethe.
La casa di Goethe a Weimar

Quando conobbe Humboldt Goethe si era calmato e la sua figura si


era fatta corpulenta, con il doppio mento e una pancia crudelmente
descritta da un conoscente come “quella di una donna agli ultimi stadi
di gravidanza”20. Le sue belle sembianze erano andate – i begli occhi
scomparsi nel “grasso delle guance”21 ed erano in tanti a osservare che
non era più l’affascinante “Apollo” di una volta22. Goethe continuava a
essere l’amico fidato e il consigliere del Duca di Sachsen-Weimar, che
gli aveva attribuito un titolo nobiliare (di qui il “von” nel nome Johann
Wolfgang von Goethe). Dirigeva il teatro di corte e aveva vari incarichi
amministrativi ben retribuiti, tra cui il controllo delle fabbriche e delle
miniere del ducato. Come Humboldt, Goethe amava a tal punto la
geologia (e le attività minerarie) che in determinate occasioni speciali
vestiva il bambino con una uniforme da minatore23.
Goethe era diventato lo Zeus degli ambienti letterari tedeschi,
torreggiando su tutti gli altri poeti e scrittori, ma poteva anche essere
“un Dio freddo e di poche parole”24. Alcuni lo descrivevano come un
uomo malinconico, altri arrogante, fiero e acrimonioso. Goethe non
era mai stato un grande ascoltatore se l’argomento non era di suo
gradimento ed era capace di porre fine a una discussione con una
ostentata manifestazione di disinteresse o cambiando bruscamente
discorso. A volte era così scortese, soprattutto nei confronti di giovani
poeti e pensatori, da farli regolarmente scappare dalla stanza25.
Niente di tutto ciò scalfiva i suoi ammiratori. Il “sacro fuoco
poetico”26, come disse un inglese in visita a Weimar, era arso fino al
raggiungimento della perfezione soltanto in Omero, Cervantes e
Shakespeare; e ora la stessa cosa accadeva con Goethe.
Ma lui non era felice. “Nessuno era più solo di quanto allora lo ero
io.”27 Era più affascinato dalla natura – “la grande Madre”28 – che
dalle persone e la sua grande casa nel centro di Weimar rispecchiava i
suoi gusti e il suo status. Era arredata con eleganza, piena di opere
d’arte e statue italiane, ma anche di grandi collezioni di minerali,
fossili e piante essiccate. Sul retro della casa, una suite di stanze più
semplici fungevano da studio e biblioteca, affacciate su un giardino
che Goethe aveva progettato a fini scientifici. In un angolo del giardino
una piccola costruzione ospitava la sua immensa collezione di reperti
geologici29.
Ma il posto preferito di Goethe era la casa di campagna vicina al
fiume Ilm, fuori dalle vecchia mura cittadine sulla proprietà del duca.
A soli dieci minuti dalla residenza principale, quella graziosa casetta
era stata la sua prima abitazione a Weimar ed era ora il rifugio in cui si
ritirava per sfuggire al flusso continuo di visitatori. Qui Goethe
scriveva, faceva giardinaggio o accoglieva gli amici più intimi. Viti e
caprifogli profumati si arrampicavano sulle pareti e sulle finestre.
C’erano appezzamenti coltivati a orto, un prato con alberi da frutto e
un lungo sentiero fiancheggiato dalle amate malvarose. Quando si era
trasferito qui per la prima volta nel 1776, non solo vi aveva piantato il
suo giardino, ma aveva anche convinto il duca a trasformare il formale
giardino barocco del castello in un bel parco all’inglese, cui gruppi
irregolari di alberi davano un aspetto naturale.
Goethe “cominciava a essere stanco del mondo”30. Il Terrore in
Francia aveva trasformato l’iniziale idealismo della Rivoluzione del
1789 in una realtà sanguinaria fatta di esecuzioni di massa di decine di
migliaia di cosiddetti nemici della rivoluzione. Tutta questa brutalità,
seguita dalla violenza che le guerre napoleoniche facevano dilagare in
tutta Europa, aveva disilluso Goethe spingendolo in uno “stato
d’animo estremamente malinconico”31. A mano a mano che gli eserciti
avanzavano su tutto il continente, lui era preoccupato per le minacce
che incombevano sulla Germania. Viveva come un eremita32, diceva, e
l’unica cosa che gli permetteva di andare avanti erano i suoi studi
scientifici. La scienza era per lui come “una tavola in mezzo a un
naufragio”33.
Oggi Goethe è famoso per le sue opere letterarie, ma era anche uno
scienziato appassionato, affascinato dalla formazione della terra come
lo era dalla botanica. Possedeva una collezione di minerali che alla fine
contava 18.000 esemplari34. Mentre l’Europa scendeva in guerra, lui
lavorava quieto sull’anatomia comparata e l’ottica. Nell’anno della
prima visita di Humboldt, istituì un orto botanico all’università di
Jena. Scrisse un saggio, la Metamorfosi delle piante, in cui sosteneva
l’esistenza di una forma archetipa, o primordiale, sottostante al mondo
vegetale. L’idea era che ogni pianta fosse una variante di questa
Urform: sotto la varietà c’era l’unità35, la foglia era l’Urform, la forma
basilare dalla quale tutto il resto si era sviluppato – i petali, il calice e
così via. “All’origine della pianta e nella sua evoluzione c’è sempre e
soltanto una foglia”, diceva36.
Erano idee stimolanti, ma Goethe non aveva nessuno con cui
discutere sul piano scientifico e sviluppare queste teorie. Tutto cambiò
quando conobbe Humboldt. Fu come se Humboldt facesse scoccare la
scintilla che era mancata per tanto tempo37. Quando era con lui, la
sua mente guizzava in tutte le direzioni. Riprese in mano vecchi
taccuini, libri, schizzi. Le carte si ammucchiavano sul tavolo mentre
discutevano teorie botaniche e zoologiche. Scribacchiavano,
disegnavano, leggevano. A Goethe non interessava classificare, gli
importava soltanto capire quali forze dessero forma agli animali e alle
piante – spiegava. E distingueva tra la forza interna – l’Urform – che
dava a un organismo vivo la forma generale e l’ambiente circostante –
la forza esterna – che lo modellava. Una foca, per esempio, aveva un
corpo adatto al suo habitat marino (la forza esterna), diceva Goethe,
ma nello stesso tempo il suo scheletro rispondeva allo stesso modello
generale (la forza interna) che distingueva i mammiferi terrestri. Come
il naturalista francese Jean-Baptiste Lamarck e più tardi Charles
Darwin, anche Goethe riconosceva che piante e animali si adattano al
proprio ambiente. Ma l’Urform, scriveva, si poteva ritrovare in tutti gli
organismi viventi nei diversi stadi della loro metamorfosi, che fossero
animali o esseri umani38.
Sentendo Goethe parlare delle proprie idee scientifiche con tanto
entusiasmo, Humboldt gli consigliò di pubblicare le sue teorie
sull’anatomia comparata39. E così Goethe cominciò a lavorare a ritmo
frenetico, passando le prime ore del mattino a dettare a un assistente
nella sua camera da letto40. Sempre a letto, appoggiato ai guanciali e
avvolto in coperte per ripararsi dal freddo, lavorava più intensamente
di quanto non faceva da anni. Non c’era molto tempo, perché alle 10
arrivava Humboldt e riprendevano le loro discussioni.
Fu in quel periodo che Goethe, quando usciva a passeggiare,
cominciò a scuotere freneticamente entrambe le braccia intorno al
corpo, suscitando occhiate allarmate tra i vicini. Alla fine spiegò a un
amico di aver scoperto che questo dondolio esagerato delle braccia era
un vestigio dell’animale a quattro zampe – dunque un’ulteriore prova
che l’uomo e gli animali avevano un antenato comune. “È il mio modo
più naturale di camminare”41, diceva, e non gliene poteva importare
di meno se la società di Weimar trovava questo strano comportamento
poco raffinato.
Negli anni immediatamente successivi Humboldt andò
regolarmente a Jena e a Weimar ogniqualvolta ne trovava il tempo42.
Humboldt e Goethe facevano lunghe passeggiate e cenavano insieme.
Facevano esperimenti e visitavano il nuovo giardino botanico di Jena.
Un Goethe pieno di nuovo vigore saltava agilmente da una materia
all’altra: “la mattina presto corretta poesia, poi anatomia delle
rane”43: ecco una tipica annotazione sul suo diario durante una delle
visite di Humboldt. Con tutte le sue idee Humboldt lo stordiva, disse
Goethe a un amico. Non aveva mai conosciuto una persona così
versatile. “Affrontava le questioni scientifiche”44 a una velocità tale,
ebbe a dire Goethe, che a volte era difficile seguirlo.
Tre anni dopo la prima visita, Humboldt arrivò a Jena per una
vacanza di tre mesi. Ancora una volta Goethe lo raggiunse45. Invece di
fare avanti e indietro da Weimar, si trasferì per qualche settimana
nelle sue stanze al vecchio castello Humboldt voleva fare una lunga
serie di esperimenti sull’“elettricità animale”, perché stava cercando di
finire il suo libro sull’argomento46. Quasi ogni giorno – e spesso con
Goethe – Humboldt percorreva a piedi il breve tratto dalla casa del
fratello all’università, dove trascorreva sei o sette ore nell’aula ad
anfiteatro di anatomia47 o tenendo lezioni sul tema48.
Quando, in una calda giornata primaverile, un violento temporale si
abbatté sulla zona, Humboldt si precipitò fuori a sistemare i suoi
strumenti per misurare l’elettricità nell’atmosfera. Mentre la pioggia
veniva giù a dirotto e i tuoni rimbombavano attraverso i campi, la
cittadina era illuminata da una violenta danza di lampi. Humboldt era
nel suo elemento. Il giorno dopo, quando sentì dire che un contadino e
sua moglie erano rimasti uccisi da un fulmine, Humboldt corse a farsi
dare i cadaveri. Adagiati i corpi sul tavolo nella torre rotonda di
anatomia, li ispezionò accuratamente: le ossa delle gambe dell’uomo
sembravano “bucherellate dalle pallottole di un fucile!”, annotò
Humboldt eccitato49, ma il danno peggiore lo avevano subito i
genitali. A prima vista pensò che i peli pubici avessero preso fuoco
provocando ustioni, ma scartò l’idea quando vide che le ascelle della
coppia erano illese. Malgrado il crescente odore putrido di morte e
carne bruciata, Humboldt si godeva ogni attimo della sua
raccapricciante ispezione. “Non posso vivere senza esperimenti”,
diceva50.
Quello che più gli piaceva era un esperimento che aveva scoperto
per caso con Goethe51. Una mattina Humboldt dispose una zampa di
rana su un piatto di vetro e collegò nervi e muscoli in sequenza a
metalli differenti – argento, oro, ferro, zinco e così via – provocando
però nella zampa soltanto un debole, deludente spasmo. Quando si
chinò sopra di essa per controllare i contatti dei metalli, si scatenarono
convulsioni così violente da farla cadere dal tavolo. Rimasero tutti e
due attoniti, finché Humboldt non si rese conto che a innescare quella
reazione era stata l’umidità del suo respiro. Quando le minuscole
goccioline erano entrate in contatto con i metalli avevano creato una
corrente elettrica che aveva fatto muovere la zampa della rana.
Humboldt non ebbe dubbi: era l’esperimento più affascinante che
avesse mai condotto, perché espirando sulla zampa della rana era
come se vi stesse “soffiando dentro la vita con il suo respiro”52. Non
poteva esserci metafora più perfetta per rappresentare la nascita delle
nuove scienze della vita.
In questo contesto, discutevano anche le teorie del vecchio
professore di Humboldt, Johann Friedrich Blumenbach, sulle forze
che consentono agli organismi di prendere forma: la cosiddetta “forza
generativa” e le “forze vitali”. Affascinato, Goethe fece proprie le idee
del professore applicandole alla sua “Urform”. La forza generativa,
scriveva Goethe, innesca lo sviluppo di certe parti di un organismo
nella Urform che lo contraddistingue: per esempio il serpente ha un
collo infinitamente lungo perché non si sono sprecate “né materia né
forze”53 in braccia e zampe, invece la lucertola ha un collo più corto
perché ha anche zampe e la rana ha un collo ancora più corto perché
ha zampe più lunghe. E se per Descartes gli animali altro non erano
che macchine, Goethe spiegava invece che un organismo vivente è
costituito da parti che funzionano soltanto come un unico insieme. In
poche parole: una macchina si può anche smontare e poi assemblarla
di nuovo, ma le parti di un organismo vivente possono funzionare
soltanto in relazione l’una con l’altra. In un sistema meccanico le parti
danno forma all’insieme, mentre in un sistema organico è l’insieme a
dar forma alle parti54.
Humboldt ampliò questo concetto. E benché le sue teorie
sull’elettricità animale fossero destinate a risultare errate, gli offrirono
le fondamenta di quella che sarebbe diventata la sua nuova visione
della natura*. Mentre Blumenbach e altri scienziati applicavano l’idea
delle forze agli organismi, Humboldt l’applicò, a un livello molto più
ampio, alla natura – interpretando il mondo naturale come un unico
insieme animato da forze interattive. Questo nuovo modo di pensare
modificò il suo approccio. Se tutto era connesso, allora bisognava
esaminare differenze e somiglianze senza mai perdere di vista
l’insieme. In luogo di numeri astratti e matematica, lo strumento
principe per conoscere la natura diventò per Humboldt il confronto.
Goethe era incantato e agli amici raccontava quanto ammirasse il
virtuosismo del giovane intellettuale55. È significativo che la presenza
di Humboldt a Jena abbia coinciso con una delle fasi più produttive di
Goethe nel corso di anni. Non solo raggiungeva Humboldt nella torre
di anatomia, ma era anche impegnato nella composizione del poema
epico Ermanno e Dorotea; aveva ripreso in mano le sue teorie
sull’ottica e il colore; esaminava insetti, sezionava vermi e lumache e
portava avanti gli studi di geologia56. I suoi giorni e le sue notti erano
occupati dal lavoro. “La nostra piccola accademia”57, come la
chiamava Goethe, era molto indaffarata. Wilhelm von Humboldt
lavorava alla trasposizione in versi di una tragedia greca di Eschilo e la
discuteva con Goethe58. Con Alexander, Goethe allestì un’attrezzatura
ottica59 per analizzare la luce e indagava la luminescenza del
fosforo60. Il pomeriggio o la sera a volte si trovavano a casa di
Wilhelm e Caroline, ma più spesso si riunivano a casa di Friedrich
Schiller sulla piazza del mercato, dove Goethe recitava le sue poesie e
gli altri illustravano i propri lavori fino a tarda notte61. Goethe era
esausto, al punto di ammettere che quasi quasi non vedeva l’ora di
passare qualche giorno in pace a Weimar “per riprendersi”62.
La ricerca del sapere di Alexander von Humboldt era così
contagiosa, disse una volta Goethe a Schiller, che aveva risvegliato
dall’ibernazione anche i suoi interessi scientifici63. Ma Schiller temeva
che Goethe si allontanasse troppo dalla poesia e dall’estetica64, e tutto
questo era colpa di Humboldt. Del resto, era anche convinto che
Humboldt non avrebbe mai concluso niente di importante, perché si
dilettava di troppe materie. L’unico vero interesse di Humboldt erano
le misurazioni, ma benché ne sapesse tanto il suo lavoro rivelava
“povertà di pensiero”65. Quella di Schiller restava una voce negativa
isolata, persino l’amico con cui si confidava era in disaccordo: sì,
Humboldt nutriva una vera passione per le misurazioni, ma queste
non erano che gli elementi costitutivi della sua ben più ampia
conoscenza della natura.
Dopo aver trascorso un mese a Jena, Goethe tornò a Weimar, ma
perse ben presto i nuovi stimoli che aveva appena trovato e si affrettò a
invitare Humboldt ad andare a trovarlo66. Cinque giorni dopo
Humboldt arrivò a Weimar, dove si fermò una settimana. La prima
sera Goethe restò a casa con il suo ospite, ma il giorno dopo
pranzarono al castello con Karl August e la sera ci fu una grande cena a
casa di Goethe. Goethe ostentò tutto ciò che Weimar aveva da offrire:
portò Humboldt a vedere i dipinti paesaggistici raccolti nelle collezioni
del duca, ma anche alcuni esemplari geologici appena arrivati dalla
Russia. Quasi ogni giorno andavano a pranzo o a cena al castello, dove
Karl August invitava Humboldt a condurre qualche esperimento per
intrattenere gli ospiti. Humboldt doveva prestarsi, ma pensava che il
tempo passato a corte fosse assolutamente sprecato.

Schiller (a sinistra) con Wilhelm e Alexander von Humboldt e Goethe nel giardino di Schiller a
Jena

Il mese successivo, fino alla definitiva partenza di Humboldt da


Jena, Goethe fece la spola tra la casa a Weimar e le sue stanze al
castello. Insieme leggevano libri di storia naturale e facevano lunghe
passeggiate, la sera consumavano insieme la cena e passavano in
rassegna le ultime pubblicazioni filosofiche67. Ora s’incontravano
spesso nella casa di campagna che Schiller aveva appena comprato,
subito fuori le mura. Sul retro, un fiumicello costeggiava il giardino di
Schiller e gli uomini se ne stavano seduti sotto un pergolato68. Al
centro, un tavolo di pietra rotondo era pieno bicchieri e di piatti con
cose da mangiare, ma anche di libri e carte69. Il tempo era stupendo e
loro si godevano le prime tiepide serate estive. La sera si sentiva
soltanto il gorgoglio del ruscello e il canto dell’usignolo70. Parlavano
“di arte, di natura e di idee”71, scriveva Goethe nel suo diario.
Le idee che discutevano impegnavano scienziati e pensatori in tutta
Europa. La questione era: come si arriva a comprendere la natura. In
generale, due scuole di pensiero si contendevano il primato:
razionalismo ed empirismo. I razionalisti tendevano a credere che ogni
conoscenza derivasse dalla ragione e dal pensiero razionale, mentre gli
empiristi sostenevano che si poteva “conoscere” il mondo soltanto
attraverso l’esperienza. Secondo loro nella mente dell’uomo non c’era
niente che non fosse derivato dai sensi. Alcuni si spingevano fino ad
affermare che alla nascita la mente umana è come un foglio di carta
bianca, senza idee già concepite – per riempirsi nel corso della vita
delle conoscenze che possono derivare esclusivamente dall’esperienza
sensoriale. Nel campo delle scienze ciò significava che gli empiristi
dovevano sempre verificare le loro teorie tramite rilevazioni ed
esperimenti, mentre i razionalisti potevano basare una tesi sulla logica
e sul ragionamento.
Pochi anni prima che Humboldt incontrasse per la prima volta
Goethe, il filosofo tedesco Immanuel Kant aveva annunciato una
rivoluzione filosofica da lui orgogliosamente definita altrettanto
radicale della rivoluzione copernicana di circa 250 anni prima. Kant
non mancò di prender posizione nella disputa tra razionalismo ed
empirismo. Le leggi della natura così come noi le intendiamo, scriveva
nella sua famosa Critica della ragion pura, esistono soltanto perché il
nostro intelletto le ha interpretate. Come Copernico era arrivato alla
conclusione che il sole non poteva girare intorno a noi, così, diceva
Kant, noi dobbiamo modificare radicalmente la nostra concezione di
come siamo arrivati a dare un senso alla natura72.
Il dualismo tra mondo esterno e interno aveva occupato il pensiero
dei filosofi per millenni. La domanda era: l’albero che vedo nel mio
giardino è l’idea di quell’albero o è l’albero reale? Ed era questo il
principale interrogativo anche per uno scienziato come Humboldt,
impegnato a comprendere la natura. Il genere umano era come
composto da cittadini di due mondi differenti, che li occupano
entrambi: il mondo della “cosa in sé” (Ding an sich), cioè il mondo
esterno, e il mondo interno della propria percezione (come le cose
“appaiono” agli individui). Secondo Kant la “cosa in sé” non poteva
mai essere realmente conosciuta, mentre il mondo interno era sempre
soggettivo.
Ciò che Kant introdusse nella discussione era il cosiddetto livello
trascendentale: il concetto secondo cui quando noi sperimentiamo un
oggetto esso diventa una “cosa-come-appare-a-noi”. Sia la nostra
sensibilità che la nostra ragione sono come occhiali colorati attraverso
i quali noi percepiamo il mondo. Per quanto possiamo credere che il
modo in cui noi ordiniamo e conosciamo la natura sia basato sulla
ragione pura – classificazioni, leggi del movimento e così via – Kant
riteneva che questo ordine fosse modellato dalla nostra mente,
attraverso quegli occhiali colorati. Noi imponiamo questo ordine alla
natura e non viceversa. E con ciò l’“Io” diventava l’ego creativo – quasi
come un legislatore della natura, anche se ciò significava che noi non
potevamo mai avere una “vera” conoscenza della “cosa in sé”. Il
risultato era che l’enfasi si spostava sull’Io.
C’era dell’altro che interessava Humboldt. Uno dei corsi di maggior
successo tenuti da Kant all’università di Königsberg (oggi Kaliningrad
in Russia, ma allora facente parte della Prussia) era quello di
geografia. In quarant’anni Kant tenne questo corso quarantotto volte.
Nel suo Physische Geographie73, così si chiamava il corso, Kant
sosteneva che la conoscenza era una struttura sistematica in cui i
singoli fatti, per avere senso, dovevano inserirsi in una cornice più
ampia. Per spiegarlo, usava l’immagine di una casa: prima di
costruirla, mattone su mattone e pezzo per pezzo, bisognava avere
un’idea dell’aspetto che l’intero edificio avrebbe assunto. Fu questo
concetto di sistema che in seguito divenne il fulcro del pensiero di
Humboldt74.
Non c’era nessuno a Jena che non facesse i conti con queste idee, ne
parlavano tutti e un visitatore inglese osservò che la cittadina era la
“culla più alla moda della nuova filosofia”75. Goethe ammirava Kant e
aveva letto tutte le sue opere. Wilhelm ne era così affascinato che
Alexander temeva che il fratello a forza di studiare la Critica della
ragion pura “ci morisse sopra”76. Uno dei pupilli di Kant, che
insegnava all’università di Jena, disse a Schiller che entro il secolo
successivo Kant sarebbe stato famoso come Gesù Cristo77.
Ciò che più interessava gli intellettuali della cerchia di Jena era il
rapporto tra mondo interno ed esterno. Cosa che, in definitiva, portava
a questo interrogativo: come è possibile la conoscenza? Nel periodo
dell’Illuminismo, mondo interno e mondo esterno erano stati
considerati due entità completamente distinte; ma successivamente
esponenti del Romanticismo inglese come Samuel Taylor Coleridge e
del Trascendentalismo americano come Ralph Waldo Emerson
avrebbero affermato che l’uomo un tempo era stato tutt’uno con la
natura – in un’età dell’oro da tempo svanita. Ed era questa unità
perduta che si sforzavano di ripristinare, sostenendo che lo si potesse
fare solamente attraverso l’arte, la poesia e le emozioni. Secondo i
romantici la natura poteva essere compresa soltanto volgendo lo
sguardo dentro di noi.
Humboldt era immerso nelle teorie di Kant, di cui in seguito
avrebbe anche collocato un busto nel suo studio, definendolo un
grande filosofo78. Mezzo secolo dopo avrebbe continuato a sostenere
che il mondo esterno esiste soltanto nella misura in cui lo percepiamo
“dentro di noi”79. E come esso prende forma nella nostra mente, è la
nostra mente che modella la nostra conoscenza della natura. Mondo
esterno, idee e sensibilità “si fondono l’uno nell’altra”80 – avrebbe
scritto Humboldt.
Anche Goethe era alle prese con queste idee di Io e natura,
soggettivo e oggettivo, scienza e immaginazione. Aveva sviluppato, ad
esempio, una teoria dei colori in cui discuteva di come il colore è
percepito – un concetto in cui il ruolo dell’occhio diventa centrale,
perché porta all’interno il mondo esterno. Secondo Goethe si può
arrivare alla verità oggettiva soltanto combinando l’esperienza
(attraverso la percezione visiva, per esempio) con la capacità di
ragionamento dell’osservatore. “I sensi non ingannano, è il giudizio
che inganna”, diceva81.
Questa enfasi crescente sulla soggettività cominciò a modificare
radicalmente il modo di pensare di Humboldt. Il tempo trascorso a
Jena lo fece spostare dalla ricerca puramente empirica verso una
propria interpretazione della natura, combinando la precisione dei
dati scientifici con la risposta emotiva a ciò che vedeva. Da lungo
tempo credeva nell’importanza di un’attenta osservazione e di rigorose
misurazioni – abbracciando fermamente i metodi dell’Illuminismo –
ma ora cominciava ad apprezzare anche la percezione e la soggettività
dell’individuo. Soltanto pochi anni prima aveva ammesso che “una
fantasia troppo vivace mi confonde”82, ma ora era arrivato a credere
che l’immaginazione era altrettanto necessaria del pensiero razionale
per comprendere il mondo naturale. “La natura va sperimentata
tramite la sensibilità”, scriveva a Goethe, sostenendo che quanti
pretendevano di descrivere il mondo semplicemente classificando
piante, animali e minerali “più di tanto non vi si avvicineranno
mai”83.
Fu attorno a quel periodo che entrambi lessero il popolare
componimento poetico di Erasmus Darwin Loves of the Plants. Il
nonno di Charles Darwin, Erasmus, era un fisico, inventore e
scienziato che in questo poema aveva tradotto il linneano sistema
sessuato di classificazione delle piante in versi affollati di violette
malate d’amore, primule gelose e rose soffuse di rossore. Popolato di
lumache con le corna, foglie svolazzanti, argentei chiari di luna e
amanti su “letti ricamati di muschio”84, in Inghilterra Loves of the
Plants era il poema più in voga85.
Quarant’anni dopo Humboldt avrebbe scritto a Charles Darwin
quanto aveva ammirato suo nonno per aver dimostrato come fosse
“possente e fertile”86 coniugare amore per la natura e immaginazione.
Goethe non ne era altrettanto colpito. L’idea del poema gli piaceva, ma
trovava la sua realizzazione pedantesca e sconclusionata, commentava
con Schiller, osservando che i versi non avevano un briciolo di “senso
poetico”87.
Goethe credeva nel connubio tra arte e scienza e la sua ridestata
passione per la scienza non lo aveva – come aveva temuto Schiller –
distolto dalla sua arte. Per troppo tempo poesia e scienza erano state
considerate le “più grandi antagoniste”88, diceva Goethe, che ora
cominciava a permeare di scienza il suo lavoro letterario. Nel Faust89,
il suo poema più famoso, il protagonista del dramma, l’irrequieto
studioso Heinrich Faust, fa un patto con il diavolo, Mefistofele, in
cambio di una conoscenza infinita. Pubblicato in due parti distinte
come Faust I e Faust II nel 1808 e nel 1832, Goethe scrisse il Faust in
mezzo a esplosioni di frenetica attività che spesso coincidevano con le
visite di Humboldt. Come Humboldt, Faust era spinto da
un’incessante ricerca della conoscenza, un “impulso misterioso”90,
come dichiara nella prima scena del dramma. Quando lavorava al
Faust, Goethe diceva di Humboldt: “Non ho mai conosciuto nessuno
capace di combinare un’attività così intenzionalmente incanalata con
tale molteplicità di interessi”91 – parole che potevano ben descrivere
Faust. Sia Faust che Humboldt credevano che un’attività frenetica e
altrettanto frenetiche indagini portassero alla conoscenza – ed
entrambi traevano energia dal mondo naturale e credevano nell’unità
della natura. Come Humboldt, Faust voleva scoprire “tutte le energie
nascoste della Natura”92. Quando nella prima scena Faust dichiara la
sua ambizione, “E conoscessi, il mondo, che cos’è / che lo connette
nell’intimo / tutte le forze che agiscono, e i semi eterni vedessi”93, a
parlare avrebbe potuto essere Humboldt. E che nel Faust di Goethe ci
fosse qualcosa di Humboldt – o qualcosa del Faust in Humboldt – era
chiaro a molti; al punto che quando il dramma fu infine pubblicato nel
1808 si commentavano le somiglianze fra i due**94.
C’erano altri esempi della fusione tra arte e scienza nelle opere di
Goethe. Per scrivere il poema Metamorfosi delle piante95, Goethe
tradusse in forma poetica il suo precedente saggio sulla Urform delle
piante. E per le Affinità elettive, romanzo sul matrimonio e l’amore,
scelse come titolo un termine scientifico dell’epoca, che indicava la
tendenza di certi elementi chimici a combinarsi. In ragione di questa
intrinseca “affinità” degli elementi chimici che attivamente si legano
l’un l’altro, questa si presentava come una teoria importante anche
nella cerchia di scienziati impegnati a discutere la forza vitale della
materia. Lo scienziato francese Pierre-Simon Laplace, per esempio,
per il quale Humboldt nutriva grande ammirazione, spiegava che
“tutte le combinazioni chimiche sono il risultato di forze attrattive”96.
Era questa, secondo Laplace, niente meno che la chiave dell’universo.
Goethe usò le proprietà di questi legami chimici per evocare le
relazioni e le mutevoli passioni tra i quattro protagonisti del romanzo:
chimica tradotta in letteratura. Natura, scienza e immaginazione si
avvicinavano sempre di più.
Oppure, come dice Faust, non c’è osservazione, strumento o
esperimento che, da solo, sia capace di strappare informazioni alla
natura:

Natura è mistero alla luce del giorno,


non permette che il velo le sia tolto
e quel che alla tua mente non vuole rivelare
con le leve o le viti non glielo strapperai97.

Le descrizioni della natura offerte da Goethe nei suoi drammi, romanzi


e poemi appaiono a Humboldt non meno veritiere delle scoperte fatte
dai migliori scienziati. Non avrebbe mai dimenticato che era stato
Goethe a incoraggiarlo a combinare natura e arte98, fatti e
immaginazione. E fu questa nuova enfasi sulla soggettività a
permettere a Humboldt di coniugare la vecchia visione meccanicistica
della natura proposta da scienziati come Leibnitz, Descartes o Newton
con l’arte poetica del Romanticismo. Humboldt sarebbe quindi
diventato il nesso connettivo tra l’Opticks di Newton, che spiegava
come l’arcobaleno era creato dal rifrangersi della luce attraverso gocce
di pioggia, e poeti come John Keats, secondo cui Newton “riducendolo
a un prisma, aveva distrutto tutta la poesia dell’arcobaleno”99.
Il periodo di Jena, avrebbe poi ricordato Humboldt, “mi ha
influenzato profondamente”100. La frequentazione di Goethe, diceva,
lo aveva dotato di “nuovi organi”101 con cui vedere e comprendere il
mondo naturale. Ed era con questi nuovi organi che Humboldt
avrebbe visto il Sud America.
1. AH si recò per la prima volta a Jena nel luglio 1792 e soggiornò con il fratello Wilhelm a casa
di Friedrich Schiller ma soltanto nel marzo 1794 incontrò brevemente Goethe, e poi di nuovo
nel dicembre 1794; AH a Carl Freiesleben, 6 luglio 1792, AH Lettere 1973, p. 202; Goethe Tag
zu Tag 1982-96, vol. 3, p. 303.
2. Merseburger 2009, p. 113; Safranski 2011, p. 70.
3. Schiller a Christian Gottlob Voigt, 6 aprile 1795, Schiller Lettere 1943-2003, vol. 27, p. 173.
4. Merseburger 2009, p. 72.
5. de Staël 1815, vol. 1, p. 116.
6. Wilhelm viveva al n. 4 di Unterm Markt e Schiller al n. 1, AH Lettere 1973, p. 386.
7. WH a Goethe, 14 dicembre 1794, Goethe Lettere 1980-2000, vol. 1, p. 350.
8. Maria Körner, 1796, Goethe Begegnungen 1965-2000, vol. 4, p. 222; per gli incontri
quotidiani vedi i diari di Goethe in quel periodo.
9. Goethe, 17-19 dicembre 1794, Goethe Begegnungen 1965-2000, vol. 4, p. 116.
10. Goethe a Karl August, Duca di Sachsen-Weimar, marzo 1797, ivi, p. 288.
11. Goethe, dicembre 1794, Goethe Tag- und Jahreshefte 1994, pp. 31-2; dicembre 1794,
Goethe Begegnungen 1965-2000, vol. 4, pp. 116-17, 122; Goethe a Max Jacobi, 2 febbraio 1795,
Goethe Briefe 1968-76, vol. 2, pp. 194, 557; AH a Reinhard von Haeften, 19 dicembre 1794, AH
Lettere 1973, p. 388.
12. Boyle 2000, p. 256.
13. Goethe, dicembre 1794, Goethe Tag- und Jahreshefte 1994, p. 32.
14. Goethe a Schiller, 27 febbraio 1797, Goethe Briefe 1968-76, vol. 2, p. 257.
15. Goethe, dicembre 1794, Goethe Begegnungen 1965-2000, vol. 4, p. 122.
16. Merseburger 2009, p. 67.
17. Friedenthal 2003, p. 137.
18. Merseburger 2009, pp. 68-9; Boyle 1992, pp. 202 sgg., 243 sgg.
19. Goethe alla fine sposò Christiane Vulpius nel 1806.
20. Botting 1973, p. 38.
21. Karl Böttiger su Goethe, metà anni 1790, Goethe Tag zu Tag 1982-96, vol. 3, p. 354.
22. Maria Körner a K.G. Weber, agosto 1796, Goethe Begegnungen 1965-2000, vol. 4, p. 223.
23. Goethe Tag zu Tag 1982-96, vol. 3, p. 354.
24. Jean Paul Friedrich Richter a Christian Otto, 1796, citato in Klauss 1991, p. 14; per
l’arroganza di Goethe: Friedrich Hölderlin a Christian Ludwig Neuffer, 19 gennaio 1795,
Goethe Tag zu Tag 1982-96, vol. 3, p. 356.
25. W. von Schak su Goethe, 9 gennaio 1806, Goethe Begegnungen 1965-2000, vol. 6, p. 4.
26. Henry Crabb Robinson, 1801, Robinson 1869, vol. 1, p. 86.
27. Goethe, 1791, citato in Safranski 2011, p. 103.
28. Goethe, ivi, p. 106.
29. Klauss 1991; Ehrlich 1983; Goethe Tag zu Tag 1982-96, vol. 3, pp. 295-6.
30. Goethe a Johann Peter Eckermann, 12 maggio 1825, Goethe Eckermann 1999, p. 158.
31. Goethe, 1794, Goethe Tag- und Jahreshefte 1994, p. 26.
32. Goethe, 1790, ivi, p. 19.
33. Goethe, 1793, ivi, p. 25.
34. Ehrlich 1983, p. 7.
35. Goethe, Versuch die Metamorphose der Pflanzen zu erklären, 1790.
36. Goethe, Italienische Reise, Goethe 1967, vol. 11, p. 375.
37. Goethe a Karl Ludwig von Knebel, 28 marzo 1797, Goethe Briefe 1968-76, vol. 2, pp. 260-
61.
38. Richards 2002, pp. 445 sgg.; Goethe nel 1790, Goethe Tag- und Jahreshefte 1994, p. 20.
39. Goethe, 1795, Goethe Begegnungen 1965-2000, vol. 4, p. 122.
40. Goethe a Jacobi, 2 febbraio 1795, Goethe Briefe 1968-76, vol. 2, p. 194; Goethe
Begegnungen 1965-2000, vol. 4, p. 122.
41. Karl Böttiger su Goethe, gennaio 1795, Goethe Begegnungen 1965-2000, vol. 4, p. 123.
42. 6-10 marzo 1794, 15-16 aprile 1794, 14-19 dicembre 1794, 16-20 aprile 1795, 13 gennaio
1797, 1 marzo-30 maggio 1797.
43. Goethe, 9 marzo 1797, Goethe Tagebücher 1998-2007, vol. 2, pt. 1, p. 100.
44. Goethe a Karl Ludwig von Knebel, 28 marzo 1797, Goethe Briefe 1968-76, vol. 2, pp. 260-
61.
45. Goethe si trattenne fino al 31 marzo 1797; vedi diario e lettere del periodo, Goethe
Begegnungen 1965-2000, pp. 288 sgg.; Goethe, marzo-maggio 1797, Goethe Tagebücher
1998-2007, vol. 2, pt. 1, pp. 99-115; Goethe Tag- und Jahreshefte 1994, pp. 58-9.
46. Humboldt, Versuch über die gereizte Muskel- und Nervenfaser (Esperimenti sulla
stimolazione di muscoli e nervi); AH a Carl Freiesleben, 18 aprile 1797, AH a Friedrich
Schuckmann, 14 maggio 1797, AH Lettere 1973, pp. 574, 579.
47. AH a Carl Freiesleben, 18 aprile 1797, AH a Friedrich Schuckmann, 14 maggio 1797, AH
Lettere 1973, pp. 574, 579.
48. Goethe, 3, 5, 6 marzo 1797, Goethe Tagebücher 1998-2007, vol. 2, pt. 1, p. 99.
49. AH a Friedrich Schuckmann, 14 maggio 1797, AH Lettere 1973, p. 580.
50. Ivi, p. 579.
51. AH, Versuche über die gereizte Muskel- und Nervenfaser, 1797, vol. 1, pp. 76 sgg.
52. Ivi, p. 79.
53. Goethe, Erster Entwurf einer Allgemeinen Einleitung in die Vergleichende Anatomie,
1795, p. 18.
54. Richards 2002, pp. 450 sgg.; vedi anche Immanuel Kant, Kritik der Urteilskraft, Kant
1957, vol. 5, p. 488.
55. Goethe a Karl Ludwig von Knebel, 28 marzo 1797, Goethe Briefe 1968-76, vol. 2, pp. 260-
61.
56. Goethe 1797, Goethe Tag- und Jahreshefte 1994, p. 59; Goethe, marzo-maggio 1797,
Goethe Tagebücher 1998-2007, vol. 2, pt. 1, pp. 99-15.
57. Goethe a Karl August, 14 marzo 1797, Goethe Begegnungen 1965-2000, vol. 4, p. 291.
58. 27 marzo 1797, Goethe Tagebücher 1998-2007, vol. 2, pt. 1, p. 103.
59. Goethe, 19 e 27 marzo 1797, ivi, pp. 102-3.
60. Goethe, 20 marzo 1797, ivi, p. 102.
61. Goethe, 25 marzo 1797, ivi, p. 102.
62. Goethe a Karl Ludwig von Knebel, 28 marzo 1797, Goethe Briefe 1968-76, vol. 2, p. 260.
63. Goethe a Friedrich Schiller, 26 aprile 1797, Schiller e Goethe 1856, vol. 1, p. 301.
64. Biermann 1990b, pp. 36-7.
65. Friedrich Schiller a Christian Gottfried Körner, 6 agosto 1797; Christian Gottfried Körner a
Friedrich Schiller, 25 agosto 1797, Schiller e Körner 1847, vol. 4, pp. 47, 49.
66. Goethe a AH, 14 aprile 1797, AH Lettere 1973, p. 573; per la visita di AH vedi Goethe, 19-
24 aprile 1797, Goethe Tagebücher 1998-2007, vol. 2, pt. 1, p. 106; AH a Johannes Fischer, 27
aprile 1797, Goethe Begegnungen 1965-2000, vol. 4, p. 306.
67. Goethe, 25, 29-30 aprile, 19-30 maggio 1797, Goethe Tagebücher 1998-2007, vol. 2, pt. 1,
pp. 107, 109, 115.
68. Goethe, 19, 25, 26, 29, 30 maggio 1797, Goethe Tagebücher 1998-2007, vol. 2, pt. 1, pp.
109, 112, 113, 115.
69. Goethe a Johann Peter Eckermann, 8 ottobre 1827, Goethe Eckermann 1999, p. 672.
70. Friedrich Schiller a Goethe, 2 maggio 1797, Schiller e Goethe 1856, vol. 1, p. 304.
71. Goethe, 16 marzo 1797, Goethe Diary 1998-2007, vol. 2, pt. 1, p. 101.
72. Kant, Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, 1787.
73. AH a Wilhelm Gabriel Wegener, 27 febbraio 1789, AH Lettere 1973, p. 44.
74. Elden e Mendieta 2011, p. 23.
75. Henry Crabb Robinson, 1801, Stelzig 2010, p. 59; dicutevano anche La dottrina della
scienza di Johann Gottlieb Fichte. Fichte riprendeva le idee di Kant di soggettività, coscienza
di sé e mondo esterno e le spingeva oltre, eliminando il dualismo. Fichte lavorava
all’università di Jena e divenne uno dei padri fondatori dell’Idealismo tedesco. A suo avviso
non esisteva alcuna “cosa in sé”, la coscienza era basata esclusivamente sull’Io, non sul mondo
esterno. Con ciò Fichte dichiarava la soggettività come primo principio della conoscenza del
mondo. Se Fichte avesse ragione, le conseguenze per le scienze sarebbero enormi perché non
sarebbe possibile alcuna oggettività autonoma. Per le discussioni di Goethe e AH su Fichte,
vedi Goethe, 12, 14, 19 marzo 1797, Goethe Tagebücher 1998-2007, vol. 2, pt. 1, pp. 101-2.
76. AH a Wilhelm Gabriel Wegener, 27 febbraio 1789, AH Lettere 1973, p. 44.
77. Morgan 1990, p. 26.
78. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 197; vedi anche Knobloch 2009.
79. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 64; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, pp. 69-70.
80. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 64; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 70.
81. Goethe, Maximen und Reflexionen, n. 295, Buttimer 2001, p. 109; vedi anche Jackson
1994, p. 687.
82. AH a Johann Leopold Neumann, 23 giugno 1791, AH Lettere 1973, p. 142.
83. AH a Goethe, 3 gennaio 1810, Goethe Humboldt Lettere 1909, p. 305; vedi anche AH
Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 73; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 85.
84. Darwin (1789) 1791, rigo 232.
85. King-Hele 1986, pp. 67-8.
86. AH a Charles Darwin, 18 settembre 1839, Darwin Correspondence, vol. 2, p. 426. AH si
riferiva al libro di Erasmus Darwin Zoomania che fu pubblicato in Germania nel 1795; vedi
anche AH a Samuel Thomas von Sömmerring, 29 giugno 1795, AH Lettere 1973, p. 439.
87. Goethe a Friedrich Schiller, 26-27 gennaio 1798, Schiller Lettere 1943-2003, vol. 37, pt. 1,
p. 234.
88. Goethe Morphologie 1987, p. 458.
89. Fine dicembre 1794, Goethe Begegnungen 1965-2000, vol. 4, p. 117; Goethe, 1796, Goethe
Tag- und Jahreshefte 1994, p. 53; WH a Friedrich Schiller, 17 luglio 1795, Goethe Tag zu Tag
1982-96, vol. 3, p. 393; Safranski 2011, p. 191; Friedrich Schiller a Goethe, 26 giugno 1797,
Schiller e Goethe, 1856, vol. 1, p. 322; originariamente concepito come l’Urfaust all’inizio degli
anni 1770, Goethe aveva pubblicato anche un breve Fragment del dramma nel 1790.
90. Faust I, Scena 1, Notte, verso 436 (trad. Fortini 1970, p. 37).
91. Goethe a Johann Friedrich Unger, 28 marzo 1797, Goethe Briefe 1968-76, vol. 2, p. 558.
92. Faust I, Scena 1, Notte, verso 438, Faust di Goethe (trad. Fortini 1970, p. 37).
93. Ivi, versi 382 sgg. (trad. Fortini 1970, p. 35).
94. (nota a piè di pagina) Louise Nicolovius, come raccontato da Charlotte von Stein, 20
gennaio 1810, riferendosi a una conversazione con Goethe, Goethe Tag zu Tag 1982-96, vol. 5,
p. 381.
95. Goethe compose e pubblicò il poema nel 1797, Goethe, 1797, Goethe Tag- und Jahreshefte
1994, p. 59.
96. Pierre-Simon Laplace, Exposition du systême du monde, 1796, vedi Adler 1990, p. 264.
97. Faust I, Atto 1, Notte, versi 672-675 (trad. Fortini 1970, p. 57).
98. AH a Goethe, 3 gennaio 1810, Goethe Humboldt Lettere 1909, p. 304.
99. John Keats, 28 dicembre 1817, riferito da Benjamin Robert Haydon, Haydon 1960-63, vol.
2, p. 173.
100. AH a Caroline von Wolzogen, 14 maggio 1806, Goethe AH WH Lettere 1876, p. 407.
101. Ibid.
*. Fu il fisico italiano Alessandro Volta a provare che Humboldt e Galvani erano in errore,
dimostrando che i nervi degli animali non contengono elettricità. Gli spasmi provocati da
Humboldt negli animali erano innescati dal contatto dei metalli – idea che portò Volta nel
1800 a inventare la prima batteria.
*. Altri collegavano anche Humboldt e Mefistofele. La nipote di Goethe affermò di “vedere
Humboldt come Gretchen vedeva Mefistofele” – e non era il miglior complimento, dato che
Gretchen (l’amante di Faust) alla fine del dramma capisce che Mefistofele è il diavolo e si
rivolge a Dio allontanandosi da Faust.
Capitolo terzo

In cerca di una meta

Mentre viaggiava attraverso il vasto territorio prussiano, ispezionando


miniere e incontrando gli amici con cui condivideva la passione per le
scienze, Humboldt continuava a sognare paesi lontani. Un desiderio
forte, che non spariva mai. Ma sapeva che la madre, Marie Elisabeth
von Humboldt, non aveva mai tollerato questi suoi sogni avventurosi.
Si aspettava che facesse carriera nell’amministrazione prussiana e lui
si sentiva “incatenato” alle sue aspirazioni1. Tutto cambiò nel
novembre 1796, quando Marie Elisabeth morì di cancro, dopo aver
lottato contro la malattia per più di un anno.
Humboldtia laurifolia
Né Wilhelm né Alexander si afflissero più di tanto per la perdita
della madre, e del resto la cosa non sorprende. Qualunque cosa
facessero i figli, lei vi aveva sempre trovato qualche difetto – confidò
Wilhelm alla moglie Caroline. Benché avessero completato
brillantemente gli studi e si fossero fatti strada nelle rispettive carriere,
si era sempre mostrata insoddisfatta2. Durante la malattia, Wilhelm si
era doverosamente trasferito da Jena a Tegel e a Berlino per
prendersene cura3; ma gli mancavano gli stimoli intellettuali di Jena.
Oppresso dalla cupa presenza della madre, non riusciva a leggere,
lavorare, pensare. Si sentiva come paralizzato, aveva scritto a
Schiller4. Quando arrivava Alexander per una breve visita5 lui se ne
andava il prima possibile, lasciando al suo posto il fratello. Dopo
quindici mesi Wilhelm non ce l’aveva più fatta a vegliare sulla madre e
fece ritorno a Jena. Due settimane dopo la madre morì, senza nessuno
dei figli al capezzale.
I fratelli non andarono al funerale. Altre cose sembravano più
importanti: Alexander era più eccitato dall’interesse destato dalla sua
nuova lampada da minatore e dai suoi esperimenti galvanici6 e,
quattro settimane dopo la morte della madre, annunciava i preparativi
per il suo “grande viaggio”7. Dopo aver atteso per anni l’opportunità di
esser padrone del proprio destino8, ora finalmente, all’età di ventisette
anni, si sentiva liberato. Quella morte non lo colpiva più di tanto,
confessò al suo vecchio amico di Freiberg, perché erano stati
“reciprocamente estranei”9. Negli anni precedenti Humboldt aveva
trascorso nella casa di famiglia il minor tempo possibile e, ogni volta
che lasciava Tegel, era sollevato10. Come scrisse a Humboldt un amico
intimo: “la sua morte… deve esserti stata particolarmente gradita”11.
Nel giro di un mese Alexander si era dimesso dall’incarico di
ispettore delle miniere. Wilhelm aspettò un po’ di più, ma pochi mesi
dopo si trasferì a Dresda e poi a Parigi, dove lui e Caroline fecero della
loro nuova casa un salotto per scrittori, artisti e poeti12. Con la morte
della madre i due fratelli erano diventati ricchi13: Alexander aveva
ereditato quasi 100.000 talleri. “Possiedo tanto di quel denaro”, si
vantava, “che potrei farmi naso, labbra e orecchi d’oro.”14 Era
abbastanza ricco da potersi permettere di andare dove gli pareva.
Aveva sempre vissuto con semplicità, perché il lusso non lo
interessava: libri in edizioni sontuose, questo sì, o nuovi strumenti
scientifici costosi, ma non aveva interesse per abiti eleganti o mobilia
alla moda. Ma una spedizione sarebbe stata davvero una cosa diversa
ed era disposto a spenderci buona parte della sua eredità. Era così
eccitato che non riusciva a decidere dove andare e nominava tante di
quelle possibili destinazioni che nessuno sapeva quali fossero i suoi
piani: parlava di Lapponia e di Grecia, poi di Ungheria o Siberia, e
forse le Indie Occidentali o le Filippine.
Aimé Bonpland

L’esatta destinazione ancora non era poi così importante, perché


prima si voleva preparare e si mise a farlo con determinazione
pedantesca. Doveva verificare di quali strumenti poteva aver bisogno
(e comprarli), ma doveva anche mettersi in viaggio per l’Europa per
apprendere tutto ciò che poteva in materia di geologia, botanica,
zoologia e astronomia15. Le prime pubblicazioni e una rete di contatti
sempre più ampia gli aprivano le porte – e si era già visto intestare
nuove specie di piante, come la Humboldtia laurifolia, un albero
“splendido” originario dell’India, scrisse a un amico, “non è forse
meraviglioso?”16.
Nei mesi successivi ebbe colloqui con geologi a Freiberg17 e a
Dresda imparò a usare il sestante18. Scalò le Alpi per svolgere indagini
su quelle montagne – in modo da poterle poi comparare ad altre, disse
a Goethe19 – e, a Jena, condusse ulteriori esperimenti elettrici. A
Vienna ispezionò le piante tropicali nelle serre del giardino
imperiale20 e cercò di convincere il giovane direttore, Joseph van der
Schot, ad accompagnarlo nella sua spedizione, sostenendo che insieme
avrebbero avuto un futuro assai “piacevole”21. Trascorse un freddo
inverno a Salisburgo, la città natale di Mozart, per misurare l’altezza
delle vicine Alpi austriache e provare i suoi strumenti meteorologici,
affrontando piogge ghiacciate quando piazzava gli strumenti all’aria
aperta durante i temporali per rilevare l’elettricità atmosferica. Lesse e
rilesse tutti i resoconti di viaggiatori che riuscì a procurarsi e studiò
attentamente libri di botanica22.
Mentre correva da un centro di studi all’altro in tutta Europa, le sue
lettere trasudavano una spasmodica energia. “Sono fatto così, faccio
tutto quel faccio alacremente e con impeto”, diceva23. Non c’era un
unico posto dove poteva imparare tutto né un’unica persona che
potesse insegnargli tutto.
Dopo circa un anno di frenetici preparativi, a Humboldt cominciò
ad apparire chiaro che per quanto i suoi bauli fossero stracolmi di
attrezzature e la testa piena delle ultime conoscenze scientifiche, la
situazione politica in Europa stava mettendo i suoi sogni a repentaglio.
Gran parte dell’Europa era coinvolta nelle guerre rivoluzionarie
francesi. L’esecuzione del re di Francia, Luigi XVI, nel gennaio 1793
aveva unito le nazioni europee contro i rivoluzionari francesi. Negli
anni successivi alla rivoluzione, la Francia aveva dichiarato guerra a
un paese dopo l’altro, in una chiamata alle armi che interessava, tra gli
altri, Austria, Prussia, Spagna, Portogallo e Gran Bretagna. Da
entrambe le parti si registravano vittorie e sconfitte, si firmavano
trattati che poi venivano stracciati; ma nel 1798 Napoleone aveva
sottratto la Renania alla Prussia, conquistato il Belgio, i Paesi Bassi
austriaci e ampie zone d’Italia, cadute sotto il dominio della Francia.
Ovunque si girasse, Humboldt vedeva i suoi movimenti ostacolati da
guerre ed eserciti. Persino l’Italia – con le allettanti prospettive
geologiche offerte dai vulcani dell’Etna e del Vesuvio – grazie a
Napoleone era preclusa24.
Humboldt doveva trovare una nazione in cui poter viaggiare, o che
quantomeno gli consentisse un passaggio verso i suoi possedimenti
coloniali. Chiese aiuto agli inglesi e ai francesi e poi ai danesi. Prese in
considerazione un viaggio verso le Indie Occidentali, ma le battaglie
navali che seguitavano a imperversare mandarono in frantumi le sue
speranze. Accettò un invito ad accompagnare in Egitto l’inglese Conte
di Bristol, benché l’anziano aristocratico fosse noto per essere
alquanto eccentrico25. Ma anche questo progetto finì nel nulla,
quando Bristol venne arrestato dai francesi perché sospettato di
spionaggio26.
Alla fine di aprile del 1798, un anno e mezzo dopo la morte della
madre, Humboldt decise di visitare Parigi, dove ora vivevano Wilhelm
e Caroline27. Non vedeva il fratello da più di un anno; e poi spostare
l’attenzione verso la vittoriosa Francia poteva essere la soluzione
migliore per risolvere il suo dilemma riguardo al viaggio. A Parigi
trascorreva il tempo con il fratello e la cognata, ma scriveva anche
lettere, contattava persone, spargeva blandizie riempiendo i taccuini di
indirizzi di innumerevoli scienziati e comprando altri libri, altra
strumentazione28. “Vivo in mezzo alla scienza”, scriveva eccitato29.
Nei suoi giri conobbe l’eroe della sua adolescenza, Louis-Antoine de
Bougainville, l’esploratore che per primo aveva messo piede a Tahiti
nel 1768. Alla bella età di settant’anni, Bougainville stava pianificando
un viaggio attraverso il globo fino al Polo Sud. Colpito dal giovane
prussiano, invitò Humboldt ad accompagnarlo30.
Fu sempre a Parigi che Humboldt s’imbatté per la prima volta in un
giovane scienziato francese, Aimé Bonpland31, nell’atrio del palazzo in
cui tutti e due avevano affittato una stanza. Con una cassetta per la
raccolta di esemplari botanici – vasculum – piuttosto malconcia
appesa a tracolla, anche Bonpland era, ovviamente, interessato alle
piante. Aveva avuto come insegnanti i migliori naturalisti di Parigi e,
come Humboldt apprese, era un eccellente botanico, specializzato in
anatomia comparata e aveva anche prestato servizio come ufficiale
medico nella marina francese. Nato a La Rochelle, città portuale sulla
costa atlantica, il venticinquenne Bonpland veniva da una famiglia
impegnata in attività navali che aveva nel sangue la passione per le
avventure e i viaggi. Imbattendosi regolarmente l’uno nell’altro nei
corridoi dell’abitazione, Bonpland e Humboldt cominciarono a
parlare, scoprendo ben presto di condividere l’adorazione per le piante
e i viaggi in paesi stranieri.
Come Humboldt, Bonpland era impaziente di vedere il mondo e
Humboldt decise che sarebbe stato un perfetto compagno di viaggio.
Oltre a nutrire un grande amore per la botanica e i tropici, era anche
una persona affascinante e di buon carattere. Di corporatura robusta,
trasudava una solida energia che prometteva capacità di resistenza,
buona salute e affidabilità. Quanto Humboldt trasmetteva un frenetico
attivismo, tanto Bonpland diffondeva calma e remissività. Insieme,
avrebbero formato una bella squadra.
Tutto preso dai preparativi, ora in Humboldt sembrava balenare
qualche sprazzo di senso di colpa nei confronti della madre morta. Si
diceva, come riferì a Goethe Friedrich Schiller, che “Alexander non
riusciva a sbarazzarsi dello spirito di sua madre”32. Era come se gli si
mostrasse incessantemente e una comune conoscenza disse a Schiller
che Humboldt a Parigi partecipava a equivoche sedute in cui era
coinvolta anche lei. Humboldt era sempre stato afflitto da una “gran
paura dei fantasmi”33, come aveva confessato a un amico qualche
anno prima, ma ora le cose andavano decisamente peggio. Malgrado
tutti i suoi sforzi per presentarsi come uno scienziato razionale, si
sentiva sempre addosso lo spirito della madre, a sorvegliare ogni sua
mossa. Era arrivato il momento di fuggire.
Si presentò subito un problema. Il comando della spedizione di
Bougainville era stato affidato a un uomo più giovane, il capitano
Nicolas Baudin. A Humboldt era stato assicurato che poteva unirsi a
Baudin nel suo viaggio; ma l’intera spedizione fallì per mancanza di
finanziamenti governativi34. Humboldt non era disposto a rinunciare
e si chiedeva se non potesse unirsi ai 200 studiosi che
accompagnavano l’esercito di Napoleone, da quando aveva lasciato
Tolone nel maggio 1798 per invadere l’Egitto35. Ma come
raggiungerli? In pochi “hanno avuto difficoltà più grandi delle mie”36,
ammetteva Humboldt.
Insistendo nella ricerca di una nave, Humboldt contattò il console
svedese a Parigi37 che promise di procurargli un passaggio da
Marsiglia ad Algeri, sulla costa nordafricana, da dove via terra sarebbe
potuto arrivare in Egitto. Chiese anche a un conoscente londinese,
Joseph Banks, di procurare un passaporto a Bonpland, casomai
avessero incontrato una nave da guerra inglese38. Era pronto per tutte
le eventualità. Lo stesso Humboldt viaggiava con un passaporto
rilasciatogli dall’ambasciatore prussiano a Parigi. Oltre al nome e
all’età, il documento riportava una descrizione piuttosto dettagliata,
per quanto non propriamente oggettiva, in cui si affermava che aveva
occhi grigi, una bocca grande, un naso grosso e un “mento ben
pronunciato”. Humboldt scarabocchiò scherzosamente a margine:
“bocca grande, nasone, ma mento bien fait”39.
Alla fine di ottobre Humboldt e Bonpland si precipitarono a
Marsiglia, pronti a partire immediatamente. Ma non successe nulla.
Per due mesi, giorno dopo giorno, risalirono la collina fino alla vecchia
chiesa di Notre-Dame de la Garde per scrutare il porto. Quando
vedevano all’orizzonte il bianco baluginare di una nave le loro
speranze crescevano. E quando vennero a sapere che la fregata loro
promessa era stata pesantemente danneggiata da una tempesta,
Humboldt decise di affittare in proprio un vascello, scoprendo però
ben presto che, malgrado tutti i soldi di cui disponeva, le recenti
battaglie navali rendevano impossibile trovare una nave40. Ovunque
si rivolgesse, “tutte le speranze andavano in frantumi”41, scrisse a un
vecchio amico a Berlino. Era esasperato – le tasche ricolme di soldi e
la testa piena delle più aggiornate conoscenze scientifiche e tuttavia
ancora incapace di viaggiare. Guerra e politica, diceva, bloccavano
tutto, “il mondo è chiuso”42.
Alla fine, quando il 1798 volgeva al termine e a due anni esatti dalla
morte della madre, Humboldt lasciò perdere i francesi e andò in cerca
di fortuna a Madrid. Gli spagnoli erano famosi per la loro riluttanza a
lasciar entrare stranieri nei propri territori, ma grazie al suo fascino e a
una sfilza di utili conoscenze alla corte spagnola, Humboldt riuscì a
ottenere l’improbabile permesso43. All’inizio di maggio del 1799 il re
Carlo IV di Spagna gli procurò un passaporto valido per le colonie in
Sud America e le Filippine, alla condizione esplicita che Humboldt si
finanziasse da solo il viaggio. In cambio Humboldt promise di inviare
flora e fauna per il gabinetto e il giardino reali. Mai prima di allora si
era lasciata a un forestiero tanta libertà di esplorare i territori
spagnoli. La decisione del re stupì persino i suoi sudditi.

Tenerife e Pico del Teide

Humboldt non intendeva perdere altro tempo. Cinque giorni dopo


aver ricevuto i passaporti, Humboldt e Bonpland lasciarono Madrid
per la Coruña, porto all’estremità nord-occidentale della Spagna, dove
li attendeva la fregata Pizarro. Ai primi di giugno 1799 erano pronti a
salpare, per quanto ammoniti sulla presenza di navi da guerra inglesi
avvistate nei paraggi. Niente – neanche i cannoni o la paura del
nemico – poteva rovinare quel momento. “Ho la testa stordita dalla
gioia”44, scriveva Humboldt.
Aveva comprato un’intera collezione di strumenti innovativi, che
andavano da telescopi e microscopi a un grande orologio a pendolo e
bussole – in tutto quarantadue strumenti, imballati uno a uno in
scatole foderate di velluto per proteggerli – e poi boccette per
conservare semi e campioni di terra, risme di carta, bilance e
innumerevoli attrezzi45. “Il mio umore è buono”, annotò Humboldt
nel suo taccuino, “come è giusto che sia quando si comincia un lavoro
impegnativo.”46
Nelle lettere scritte alla vigilia della partenza spiegava le sue
intenzioni. Come gli esploratori che lo avevano preceduto, avrebbe
raccolto piante, semi, rocce e animali. Avrebbe misurato l’altezza delle
montagne, calcolato latitudine e longitudine, rilevato le temperature
dell’acqua e dell’aria. Ma il vero scopo del viaggio, diceva, era scoprire
come “tutte le forze della natura sono intrecciate e interconnesse”47 –
come la natura organica e quella inorganica interagivano. L’uomo deve
sforzarsi di lottare “per il bene e per ciò che conta, il resto dipende dal
destino”48, scriveva Humboldt nella sua ultima lettera dalla Spagna.
Non appena salpati verso i tropici, l’eccitazione di Humboldt salì
alle stelle. Catturavano ed esaminavano pesci, meduse, alghe marine e
uccelli. Lui collaudava i suoi strumenti, prendeva temperature e
misurava l’altezza del sole. Una notte l’acqua sembrava come
incendiata da una fosforescenza. Tutto il mare, annotò Humboldt nel
suo diario, era come un “liquido commestibile pieno di particelle
organiche”49. Dopo due settimane di navigazione fecero una breve
sosta a Tenerife, la più grande delle Isole Canarie. All’inizio l’arrivo
sembrò assai poco spettacolare, perché l’intera isola era avvolta nella
nebbia, ma quando la spessa coltre si alzò Humboldt vide la bianca
vetta luccicante del vulcano Pico del Teide illuminata dal sole. Si
precipitò a prua col fiato sospeso per dare una rapida occhiata alla
prima montagna che si accingeva a scalare fuori dall’Europa. Non c’era
tempo da perdere, perché la loro nave aveva in programma di fermarsi
soltanto un paio di giorni a Tenerife50.
La mattina dopo Humboldt, Bonpland e alcune guide locali si
misero in moto verso il vulcano, senza tende né cappotti, armati
soltanto di qualche fievole torcia di legno d’abete51. Nelle vallate
faceva caldo, ma la temperatura scese rapidamente allorché iniziarono
a risalire il vulcano. Quando raggiunsero la vetta, a più di 3.700 metri,
il vento era così forte che facevano fatica a stare in piedi. I loro volti
erano ghiacciati, ma i piedi bruciavano per il calore che emanava dal
terreno bollente52. Soffrivano, ma a Humboldt non importava. C’era
qualcosa nell’aria che creava una trasparenza “magica”53, diceva, una
promessa allettante di ciò che sarebbe seguito. Non riusciva a
staccarsi; ma dovevano tornare alla nave.
Saliti sul Pizarro, si tirarono su le ancore e il viaggio proseguì.
Humboldt era felice. Di una cosa sola si lamentava: di notte non era
consentito accendere lampade o candele per paura di attrarre il
nemico54. Per uno come Humboldt, cui bastavano solo poche ore di
sonno, dover giacere al buio senza niente da leggere, dissezionare o
ispezionare era una tortura. Più procedevano verso sud e più corte
diventavano le giornate e ben presto si ritrovò senza niente da fare già
dalle sei di sera. Così osservava il cielo notturno e, come tanti altri
esploratori e navigatori che avevano oltrepassato l’Equatore, si stupiva
vedendo apparire stelle nuove – costellazioni che ornavano soltanto il
cielo meridionale, notturna testimonianza di quanto si fosse spinto
lontano. Quando vide per la prima volta la Croce del Sud, si rese conto
di aver realizzato i sogni della sua “prima giovinezza”55.
Due pagine del passaporto spagnolo di Humboldt, in cui si vedono le firme di diversi
amministratori delle colonie

Il 16 luglio 1799, quarantun giorni dopo aver lasciato La Coruña in


Spagna, apparve all’orizzonte la costa della Nuova Andalusia, oggi
parte del Venezuela. La prima immagine del Nuovo Mondo che si offrì
alla loro vista era una rigogliosa cintura verde di palme e foreste di
banani che correva lungo la costa, oltre la quale Humboldt scorgeva
grandi montagne con le loro vette lontane che facevano capolino
attraverso strati di nubi. A un chilometro e mezzo nell’interno e
circondata da alberi di cacao giace Cumaná, città fondata dagli
spagnoli nel 1523 e quasi distrutta da un terremoto nel 1797, due anni
prima dell’arrivo di Humboldt56. Vi avrebbero vissuto per qualche
mese. Il cielo era di un azzurro limpidissimo e nell’aria non c’era
traccia di foschia. Il calore era intenso e la luce abbagliante. Quando
Humboldt mise piede fuori dal battello affondò il termometro nella
sabbia bianca: 37,7 °C., scribacchiò nel suo taccuino57.
Cumaná era la capitale della Nuova Andalusia, una provincia che
faceva parte della Capitaneria generale del Venezuela – a sua volta
parte dell’impero coloniale spagnolo che si allungava dalla California
alla punta meridionale del Cile. Tutte le colonie della Spagna erano
controllate dalla corona spagnola e dal Consiglio delle Indie a Madrid.
Era un sistema di dominio assoluto, nel quale viceré e capitani
generali riferivano direttamente alla Spagna. Le colonie non potevano
avere commerci tra di loro senza un permesso esplicito. Anche la
comunicazione era strettamente controllata, per stampare libri e
giornali ci voleva la concessione di una licenza, a livello locale
stamperie e attività manifatturiere erano vietate e soltanto alla
popolazione nata in Spagna era consentito possedere botteghe o
miniere nelle colonie58.
Da quando, nell’ultimo quarto del diciottesimo secolo, i moti
rivoluzionari erano dilagati in Francia e nelle colonie britanniche
nordamericane, i coloni dell’Impero spagnolo erano stati tenuti
rigidamente a freno. Pagavano tasse esorbitanti alla Spagna e non
potevano accedere ad alcun ruolo di governo. Tutte le navi non-
spagnole erano trattate come navi nemiche e nessuno, neanche uno
spagnolo, poteva entrare nelle colonie senza un salvacondotto del re.
Ne risultò un crescente malcontento. Con rapporti così tesi tra le
colonie e la terra madre, a Humboldt apparve chiaro che doveva
procedere con grande cautela. Pur avendo un passaporto concessogli
dal re di Spagna, gli amministratori locali potevano rendergli
estremamente difficile la vita. Era sicuro che se non fosse riuscito “a
destare qualche personale interesse in coloro che governano le
colonie”, avrebbe dovuto far fronte a “innumerevoli disagi”59 durante
la sua permanenza nel Nuovo Mondo.
Intanto, prima di presentare le sue carte al governatore di Cumaná,
Humboldt si godeva il paesaggio tropicale. Tutto era nuovo, tutto era
spettacolare. Ogni uccello, ogni palma, ogni onda “annunciava la
grandiosità della natura”60. Era l’inizio di una nuova vita, un periodo
di cinque anni in cui Humboldt si sarebbe lasciato alle spalle il giovane
curioso e di indubbio talento per diventare lo scienziato più
straordinario dei suoi tempi. Fu lì che Humboldt avrebbe visto la
natura sia con la testa che con il cuore.
1. AH a William Gabriel Wegener, 27 marzo 1789, AH Lettere 1973, p. 47.
2. WH a CH, 9 ottobre 1818, WH CH Lettere 1910-16, vol. 6, p. 219.
3. Geier 2009, p. 199.
4. WH a Friedrich Schiller, 16 luglio 1796, Geier 2009, p. 201.
5. AH a Carl Freiesleben, 7 aprile 1796, AH Lettere 1973, p. 503.
6. AH a Carl Freiesleben, 25 novembre 1796; AH a Carl Ludwig Willdenow, 20 dicembre 1796,
ivi, pp. 551-4, 560.
7. AH a Abraham Gottlob Werner, 21 dicembre 1796, ivi, p. 561.
8. AH a William Gabriel Wegener, 27 marzo 1789, ivi, p. 47; AH, Meine Bekenntnisse, 1769-
1805, in Biermann 1987, p. 55.
9. AH a Carl Freiesleben, 25 novembre 1796, AH Lettere 1973, p. 553.
10. AH a Archibald MacLean, 9 febbraio 1793, ivi, pp. 233-4.
11. Carl Freiesleben a AH, 20 dicembre 1796, ivi, p. 559.
12. Gersdorff 2013, pp. 65-6.
13. Eichhorn 1959, p. 186.
14. AH a Paul Christian Wattenback, 26 aprile 1791, AH Lettere 1973, p. 136.
15. AH a Carl Ludwig Willdenow, 20 dicembre 1796, ivi, p. 560; AH, Meine Bekenntnisse,
1769-1805, in Biermann 1987, pp. 55-8.
16. AH a Carl Freiesleben, 4 marzo 1795, AH Lettere 1973, p. 403.
17. AH a Schuckmann, 14 maggio 1797; AH a Georg Christoph Lichtenberg, 10 giugno 1797;
AH a Joseph Banks, 20 giugno 1797, ivi, pp. 578, 583, 584.
18. AH a Carl Freiesleben, 18 aprile 1797; AH a Schuckmann, 14 maggio 1797, ivi, pp. 575, 578.
19. AH a Goethe, 16 luglio 1795, Goethe AH WH Lettere 1876, p. 311.
20. Personal Narrative 1814-29, p. 5; AH a Carl Freiesleben, 14 e 16 ottobre 1797, AH Lettere
1973, p. 593.
21. AH a Joseph van der Schot, 31 dicembre 1797; vedi anche AH a Carl Freiesleben, 14 ottobre
1797, AH Lettere 1973, pp. 593, 603.
22. AH a Joseph van der Schot, 31 dicembre 1797; AH a Franz Xaver von Zach, 23 febbraio
1798, ivi, pp. 601, 608.
23. AH a Joseph van der Schot, 28 ottobre 1797, ivi, p. 594.
24. AH a Heinrich Karl Abraham Eichstädt, 19 aprile 1798, ivi, p. 625.
25. AH al conte Christian Günther von Bernstorff, 25 febbraio 1798; AH a Carl Freiesleben, 22
aprile 1798, ivi, pp. 612, 629.
26. AH a Carl Ludwig Willdenow, 20 aprile 1799, ivi, p. 661; AH, Aus Meinem Leben (1769-
1850), in Biermann 1987, p. 96.
27. AH a Heinrich Karl Abraham Eichstädt, 19 aprile 1798; AH a Carl Freiesleben, 22 aprile
1798, AH Lettere 1973, pp. 625, 629.
28. Moheit 1993, p. 9; AH a Franz Xaver von Zach, 3 giugno 1798, AH Lettere 1973, pp. 633-4;
AH, Meine Bekenntnisse, 1769-1805, in Biermann 1987, pp. 57-8; Gersdorff 2013, pp. 66 sgg.
29. AH a Marc-Auguste Pictet, 22 giugno 1798, Bruhns 1873, vol. 1, p. 234.
30. AH a Carl Ludwig Willdenow, 20 aprile 1799, AH Lettere 1973, p. 661.
31. Biermann 1990, pp. 175 sgg.; Schneppen 2002; Sarton 1943, pp. 387 sgg.; AH a Carl
Ludwig Willdenow, 20 aprile 1799, AH Lettere 1973, p. 662.
32. Friedrich Schiller a Goethe, 17 settembre 1800, Schiller Lettere 1943-2003, vol. 30, p. 198;
vedi anche Christian Gottfried Körner a Friedrich Schiller, 10 settembre 1800, Schiller Lettere
1943-2003, vol. 38, pt. 1, p. 347.
33. AH a Carl Freiesleben, 19 marzo 1792, AH Lettere 1973, p. 178.
34. AH a Carl Ludwig Willdenow, 20 aprile 1799, ivi, p. 661; AH, Meine Bekenntnisse, 1769-
1805, in Biermann 1987, p. 58.
35. AH a Heinrich Karl Abraham Eichstädt, 21 aprile 1798; AH a Carl Ludwig Willdenow, 20
aprile 1799, AH Lettere 1973, pp. 627, 661.
36. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 1, p. 2.
37. Ivi, p. 8; AH a Carl Ludwig Willdenow, 20 aprile 1799, AH Lettere 1973, p. 662.
38. AH a Banks, 15 agosto 1798, BL Add 8099, ff. 71-2.
39. Bruhns 1873, vol. 1, p. 394.
40. Ivi, p. 239; AH a Carl Ludwig Willdenow, 20 aprile 1799, AH Lettere 1973, p. 662.
41. AH a Carl Ludwig Willdenow, 20 aprile 1799, AH Lettere 1973, p. 661.
42. AH a Joseph Franz Elder von Jacquin, 22 aprile 1798, ivi, p. 631.
43. AH a David Friedländer, 11 aprile 1799; AH a Carl Ludwig Willdenow, 20 aprile 1799; AH a
Carl Freiesleben, 4 giugno 1799, ivi, pp. 657, 663, 680; vedi anche passaporto di AH, 7 maggio
1799, Ministerio de Cultura del Ecuador, Quito; Holl 2009, pp. 59-60.
44. AH a Carl Freiesleben, 4 giugno 1799, AH Lettere 1973, p. 680.
45. AH Personal Narrative 1814-1829, vol. 1, pp. 33-9; Seeberger 1999, pp. 57-61.
46. AH, 5 giugno 1799, AH Venezuela 2000, p. 58.
47. AH a David Friedländer, 11 aprile 1799, AH Lettere 1973, p. 657; in un’altra lettera AH
parlava della interazione delle forze”, AH a Karl Maria Erenbert von Moll, 5 giugno 1799, ivi,
p. 682.
48. AH a Carl Freiesleben, 4 giugno 1799, ivi, p. 680.
49. AH, 6 giugno 1799, AH Venezuela 2000, p. 424.
50. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 1, pp. 110 sgg.
51. Ivi, pp. 153-4.
52. Ivi, pp. 168, 189-90.
53. Ivi, pp. 182, 188; vedi anche AH a WH, 20-25 giugno 1799, AH WH Lettere 1880, p. 10.
54. AH, Mein Aufbruch nach America, in Biermann 1987, p. 82.
55. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 2, p. 20.
56. Ivi, pp. 183 sgg.
57. Ivi, p. 184.
58. Arana 2013, pp. 26 sgg.
59. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 2, pp. 188-9.
60. Ivi, p. 184.
PARTE II

Arrivo: la raccolta delle idee


Capitolo quarto

Sud America

In quelle prime settimane a Cumaná, ovunque si girassero Humboldt e


Bonpland trovavano qualcosa che catturava la loro attenzione. Il
paesaggio lo stregava, diceva Humboldt1. Sontuosi fiori rossi
adornavano le palme, uccelli e pesci sembravano competere esibendo
caleidoscopiche sfumature di colore e persino le aragoste erano gialle e
azzurro-cielo. Fenicotteri rosa stavano in piedi sulla riva su una zampa
sola e le foglie delle palme mosse dal vento screziavano la sabbia
bianca in giochi di sole e ombre2. C’erano farfalle, scimmie e così tante
piante da catalogare che “corriamo di qua e di là come pazzi”3,
scriveva Humboldt a Wilhelm. Anche Bonpland, di solito così
tranquillo, diceva che, “se non smetto subito di farmi travolgere da
sempre nuove meraviglie”, sarebbe ammattito4.
Essendosi sempre vantato del suo approccio sistematico, Humboldt
incontrava difficoltà a trovare un metodo razionale con cui studiare
l’ambiente che lo circondava5. I loro bauli si riempivano così in fretta
che dovevano ordinare in continuazione altre risme di carta su cui
pressare le piante e talvolta trovavano tanti di quegli esemplari che
facevano fatica a portarseli a casa6. Diversamente da altri naturalisti, a
Humboldt non interessava colmare le lacune tassonomiche:
raccoglieva idee, più che semplici oggetti di storia naturale – era solito
dire. La sua mente, scriveva, era affascinata dall’“impressione
dell’insieme”7 più che da qualunque altra cosa.
Humboldt comparava tutto ciò che vedeva con quanto aveva
precedentemente osservato e appreso in Europa. Ogni volta che
raccoglieva una pianta, una roccia o un insetto, la sua mente correva
indietro, a ciò che aveva visto in patria. Gli alberi che crescevano nelle
pianure attorno a Cumaná, con i rami che formavano volte a forma di
ombrello, gli ricordavano i pini italiani8. Vista a distanza, la marea di
cactus creava lo stesso effetto delle piante grasse nelle paludi dei climi
nordici9. Ecco una vallata che lo faceva pensare al Derbyshire in
Inghilterra10, o grotte simili a quelle che si vedono in Germania nella
Franconia e nei Carpazi nell’Est Europa11. Tutto sembrava in qualche
modo connesso – idea che avrebbe plasmato la sua concezione del
mondo naturale per il resto della sua vita.
Humboldt in Sud America

Non era mai stato così felice e in forma12. Il clima caldo gli si
addiceva, le febbri e i disturbi nervosi di cui aveva sofferto in Europa
erano spariti. Mise su anche qualche chilo. Durante il giorno, lui e
Bonpland raccoglievano, la sera si sedevano insieme a scrivere appunti
e di notte facevano lo loro osservazioni astronomiche. In una di quelle
notti restarono ammutoliti per ore mentre una pioggia meteorica
disegnava nel cielo migliaia di code bianche13. Le lettere che
Humboldt scriveva a casa ardevano di eccitazione e portavano il suo
mondo incantato nei salotti di Parigi, Berlino e Roma. Scriveva di
ragni giganti che mangiavano colibrì e di serpenti lunghi dieci metri14.
Intanto con i suoi strumenti destava lo stupore della gente di Cumaná:
i suoi telescopi gli portavano la luna vicina e i microscopi
trasformavano in bestie mostruose i pidocchi che avevano nei
capelli15.
Ma c’era una cosa che smorzava la gioia di Humboldt: il mercato
degli schiavi davanti alla casa che avevano affittato nella piazza
principale di Cumaná. Sin dall’inizio del sedicesimo secolo gli spagnoli
avevano importato schiavi nelle loro colonie in Sud America e
continuavano a farlo. Tutte le mattine giovani africani, uomini e
donne, venivano messi in vendita. Erano costretti a ungersi con olio di
cocco per rendere la loro pelle di un nero lucente e poi fatti sfilare per i
potenziali acquirenti, che gli aprivano a forza la bocca per esaminare i
denti come “cavalli al mercato”16. Questo spettacolo fece diventare per
sempre Humboldt abolizionista.
Poi, il 4 novembre 1799, meno di quattro mesi dopo il loro arrivo in
Sud America, Humboldt per la prima volta avvertì il pericolo che
poteva mettere a rischio la sua vita e i suoi progetti. Era una giornata
calda e umida. A mezzogiorno si addensarono nuvole nere e alle
quattro del pomeriggio lampi violenti illuminarono la città.
All’improvviso la terra cominciò a tremare, mandando Bonpland quasi
a sbattere contro il pavimento mentre era chino sul tavolo a esaminare
alcune piante e scuotendo violentemente Humboldt nella sua amaca17.
La gente si riversò di corsa urlando nelle strade mentre le case
crollavano; ma Humboldt mantenne la calma e si sollevò dall’amaca
per piazzare i suoi strumenti: niente poteva impedirgli di fare le sue
osservazioni, neanche mentre la terra tremava. Cronometrò le scosse,
notò che il terremoto si propagava da nord a sud e misurò l’elettricità.
Ma malgrado l’apparente compostezza, dentro di sé Humboldt visse
un vero e proprio scompiglio. Mentre si muoveva sotto i suoi piedi, la
terra distruggeva tutte le sue illusioni – scrisse: perché l’acqua, non la
terra, era l’elemento del moto. Fu come essere risvegliato
improvvisamente e penosamente da un sogno. Fino a quel momento
aveva nutrito una salda fiducia nella stabilità della natura; ma si era
ingannato. Ora “per la prima volta dobbiamo diffidare di un suolo sul
quale per tanto tempo avevamo poggiato fiduciosamente i piedi”18,
diceva; ma era ancora fermamente deciso a proseguire i suoi viaggi.
Aveva aspettato per anni di vedere il mondo e sapeva che stava
mettendo a rischio la propria vita; ma voleva vedere di più. Due
settimane dopo e dopo aver aspettato con ansia di poter ritirare
denaro con la sua nota di credito spagnola (quando il tentativo fallì, fu
il governatore a dare i soldi a Humboldt dai suoi fondi privati)19
lasciarono Cumaná per Caracas. A metà novembre Humboldt e
Bonpland – con un inserviente meticcio di nome José de La Cruz20 –
noleggiarono un piccolo mercantile locale scoperto lungo dieci metri21
e si misero in navigazione verso ovest, dopo aver imballato i loro
numerosi strumenti e bauli, già pieni di oltre 4.000 esemplari di
piante e di insetti, taccuini e tavole di misurazioni22.
Situata a 900 metri di altezza sul livello del mare, Caracas aveva
40.000 abitanti. Fondata dagli spagnoli nel 1567, era la capitale del
Capitanato Generale del Venezuela. Il 95% della popolazione bianca
della città era costituito da criollos, o “ispano-americani”23 come li
chiamava Humboldt – coloni bianchi di discendenza spagnola ma nati
in Sud America. Per quanto maggioranza, i creoli sudamericani erano
stati esclusi per decenni dalle posizioni amministrative e militari più
elevate. La corona spagnola aveva inviato spagnoli a controllare le
colonie, molti dei quali erano meno istruiti dei creoli. I ricchi
proprietari di piantagioni creoli trovavano esasperante essere
governati da mercanti spediti da una madrepatria lontana; le autorità
spagnole, lamentavano alcuni, li trattavano “come se fossero dei vili
schiavi”24.
Caracas giace adagiata in un’alta vallata cinta da montagne, vicino
alla costa. Ancora una volta Humboldt prese in affitto una casa, come
base da cui partire per brevi escursioni. Da lì Humboldt e Bonpland si
mossero per scalare la Silla con le sue due cime tondeggianti25, una
montagna tanto vicina da poterla vedere da casa, ma sulla quale, come
scoprì Humboldt con sorpresa, nessuno tra quanti aveva conosciuto a
Caracas si era mai arrampicato. Un altro giorno si addentrarono a
cavallo tra le colline pedemontane, dove trovarono una sorgente di
acqua chiarissima che cadeva da una parete di roccia luccicante.
Osservando un gruppo di ragazze intente a prendere l’acqua,
Humboldt tutt’a un tratto fu colpito da un ricordo di quando era in
patria. Quella sera scrisse nel diario: “Ricordi di Werther, Goethe e le
figlie del re”26 – un riferimento a I dolori del giovane Werther, dove
Goethe aveva descritto una scena simile. In altre occasioni era la forma
particolare di un albero, o una montagna, a dargli un immediato senso
di familiarità. Bastava volgere lo sguardo alle stelle nel cielo del Sud, o
alla sagoma dei cactus contro l’orizzonte, per rendersi conto di quanto
fosse lontano dalla sua patria. Ma poi gli bastava sentire il
campanaccio di una mucca o il muggito di un toro ed era di nuovo nei
prati di Tegel27.

Humboldt – a destra, in mezzo agli alberi – mentre disegna la Silla

“Ovunque la natura parla all’uomo con una voce”, diceva Humboldt,


che è “familiare al suo animo”28. Questi suoni erano come voci da
oltre oceano che lo trasportavano in un attimo da un emisfero all’altro.
Come esitanti linee a matita in uno schizzo, cominciava a emergere il
suo nuovo approccio alla conoscenza della natura, basato su
osservazioni scientifiche e sensazioni. Humboldt si rese conto che
ricordi e reazioni emotive fanno parte della capacità dell’uomo di
conoscere e capire la natura. L’immaginazione, diceva, è come “un
balsamo dalle miracolose proprietà curative”29.
Arrivò presto il momento di proseguire – stimolati dalle storie che
Humboldt aveva udito riguardo al misterioso fiume Casiquiare. Più di
mezzo secolo prima, un prete gesuita aveva riferito che il Casiquiare
collegava i due grandi bacini fluviali del Sud America: l’Orinoco e il
Rio delle Amazzoni. L’Orinoco forma un ampio arco dalla sorgente a
sud vicino all’odierno confine tra Venezuela e Brasile fino al delta sulla
costa nordorientale del Venezuela, dove sfocia nell’Oceano Atlantico. A
1.500 chilometri circa più a sud lungo la costa, c’è la foce dell’immenso
Rio delle Amazzoni – il fiume che attraversa praticamente l’intero
continente, dalla sorgente a ovest nelle Ande peruviane a circa 150
chilometri dalla costa del Pacifico fino alla costa atlantica brasiliana a
est.
Nel profondo della foresta pluviale, millecinquecento chilometri
circa a sud di Caracas, si reputava che il Casiquiare connettesse la rete
di affluenti di questi due grandi fiumi. Nessuno era stato in grado di
provarne l’esistenza e solo in pochi credevano che grandi fiumi come
l’Orinoco e il Rio delle Amazzoni potessero essere realmente connessi.
Tutte le conoscenze scientifiche del tempo portavano a ritenere, senza
ombra di dubbio, che i bacini dell’Orinoco e del Rio delle Amazzoni
fossero separati da uno spartiacque, perché l’idea di un corso d’acqua
naturale in grado di collegare due fiumi così grandi cozzava contro
ogni evidenza empirica. I geografi non avevano mai trovato un solo
caso al mondo in cui ciò si verificasse. E in realtà la mappa più
aggiornata della regione mostrava una catena montuosa – il presunto
spartiacque – proprio laddove, secondo le voci giunte a Humboldt,
poteva trovarsi il Casiquiare30.
I preparativi erano complessi. Dovevano scegliere strumenti
abbastanza piccoli da adattarsi alle strette canoe in cui avrebbero
viaggiato. Dovevano organizzare la disponibilità di denaro e merci per
pagare guide e cibo anche nel più profondo della giungla31. Prima di
partire, comunque, Humboldt spedì lettere in Europa e in Nord
America chiedendo ai suoi corrispondenti di pubblicare qualcosa sui
giornali32. Capiva l’importanza della pubblicità. Da La Coruña in
Spagna, per esempio, Humboldt, subito prima di partire, aveva scritto
quarantatré lettere33: se fosse morto durante il viaggio, voleva almeno
non essere dimenticato.

Il 7 febbraio 1800 Humboldt, Bonpland e José, il loro inserviente fin


da Cumaná, partirono da Caracas su quattro muli, lasciandosi dietro la
maggior parte dei bagagli e delle collezioni34. Per raggiungere
l’Orinoco, dovevano dirigersi verso sud lungo una traiettoria quasi
perfettamente dritta attraverso il vuoto immenso degli Llanos – ampie
pianure grandi come la Francia. Il piano prevedeva di raggiungere il
Rio Apure, un affluente dell’Orinoco circa 300 chilometri a sud di
Caracas. Lì si sarebbero procurati un’imbarcazione e provviste per la
loro spedizione a San Fernando de Apure, una missione di frati
cappuccini. Ma prima sarebbero andati verso ovest, facendo una
deviazione di circa 150 chilometri per vedere le vallate lussureggianti
di Aragua, una delle regioni agricole più ricche delle colonie.

Il lago di Valencia nella valle di Aragua

Essendo finita la stagione delle piogge, faceva molto caldo e la terra


attraverso cui cavalcavano era arida. Attraversarono montagne e valli e
dopo sette giorni estenuanti videro finalmente le “ridenti vallate di
Aragua”35. Verso ovest si allungavano quasi a perdita d’occhio
ordinati filari di granturco, canna da zucchero e indigofere. In mezzo si
scorgevano boschetti arborei, piccoli villaggi, fattorie e giardini.
Conducevano alle fattorie sentieri fiancheggiati da siepi di arbusti
fioriti e le case erano ombreggiate da grandi alberi – alte ceibe rivestite
da spesse fioriture gialle, i cui rami ricadevano tra i fiori arancio
splendente degli alberi del corallo36.
In mezzo alla vallata e circondato da montagne si trovava il lago di
Valencia. Punteggiavano il lago una dozzina di isole rocciose, alcune
abbastanza grandi da farvi pascolare capre e essere coltivate. Al
tramonto migliaia di aironi, fenicotteri e anatre selvatiche rendevano
vivo il cielo, volando sul lago per appollaiarsi sulle isole. Tutto
sembrava idillico. Ma, come disse a Humboldt la gente del posto, i
livelli dell’acqua stavano rapidamente scendendo37. Ampie aree di
terreno che solo vent’anni prima erano sott’acqua ora erano campi
densamente coltivati. Quelle che una volta erano state isole ora erano
montagnole che si ergevano sulla terra arida, mentre la linea costiera
continuava ad arretrare. Inoltre, quello del lago di Valencia era un
ecosistema unico: senza sbocchi nell’oceano e con solo qualche
torrentello a riversarvisi, i livelli dell’acqua erano regolati
esclusivamente dall’evaporazione. I locali ritenevano che uno sbocco
sotterraneo drenasse il lago; ma Humboldt aveva idee diverse38.
Misurava, esaminava e indagava. Quando trovò sabbie finissime ai
livelli più alti delle isole, capì che un tempo erano state sommerse39.
Comparò anche l’evaporazione media annua di fiumi e laghi nel
mondo, dalla Francia meridionale alle Indie Occidentali40. E
indagando giunse alla conclusione che l’abbattimento delle foreste
circostanti e la deviazione dell’acqua a scopi irrigui avevano provocato
la caduta dei livelli dell’acqua41. A mano a mano che l’agricoltura
prosperava nella vallata, i coltivatori avevano prosciugato e deviato
alcuni dei torrenti che alimentavano il lago per irrigare i loro campi42.
Avevano abbattuto alberi per liberare terreno e così il sottobosco –
muschio, sterpaglie e apparati radicali – era scomparso, lasciando il
suolo sottostante esposto agli elementi e incapace di ritenzione
idrica43. Già nei dintorni di Cumaná i locali gli avevano detto che
l’aridità della terra era aumentata in concomitanza con l’abbattimento
di antiche piantagioni44. E sulla strada da Caracas alla valle di Aragua
Humboldt aveva notato il suolo arido, lamentando che i primi coloni
avevano “imprudentemente distrutto la foresta”45. Quando la terra si
era ormai impoverita e i campi rendevano meno, i coltivatori si erano
mossi verso ovest, lungo un sentiero che propagava distruzione.
“Foreste decimate”46, scriveva Humboldt nel diario.
Solo qualche decennio prima le montagne e le colline pedemontane
che circondavano la valle di Aragua e il lago di Valencia erano coperte
da foreste. Ora, con gli alberi abbattuti, piogge violente avevano
dilavato il terreno. Tutto ciò era “strettamente connesso”47,
concludeva Humboldt, perché in passato le foreste avevano riparato il
suolo dal sole riducendo l’evaporazione dell’umidità48.
Fu qui, al lago di Valencia, che Humboldt sviluppò l’idea di
cambiamento climatico indotto dall’uomo49. Quando pubblicò le sue
osservazioni, non lasciò dubbi su quale fosse il suo pensiero:

Quando le foreste vengono distrutte, come hanno fatto ovunque in America i coloni
europei con incauta avventatezza, le sorgenti si prosciugano o diventano comunque meno
abbondanti. I letti dei fiumi, restando asciutti per parte dell’anno, si trasformano in
torrenti ogniqualvolta abbondanti piogge cadono sulle alture. Venendo a sparire dai
fianchi delle montagne, con il sottobosco, zolle erbose e muschio, l’acqua che cade sotto
forma di pioggia non è più impedita nel suo corso: e invece di far salire il livello dei fiumi
con infiltrazioni progressive, durante i grandi diluvi scava solchi sui fianchi delle colline,
trascina giù la terra non più trattenuta e provoca quelle inondazioni improvvise che
devastano il paese50.

Qualche anno prima, quando lavorava come ispettore delle miniere,


Humboldt aveva già notato l’eccessiva deforestazione praticata per
ricavare legname e combustibile sui monti Fichtel vicino a Bayreuth51.
Le sue lettere e i suoi rapporti risalenti a quel periodo erano zeppi di
suggerimenti su come ridurre il fabbisogno di legname nelle miniere e
nelle officine metallurgiche. Non era stato il primo a pronunciarsi su
questo tema, ma fino ad allora i motivi di preoccupazione erano stati
di natura essenzialmente economica e non ambientale. Le foreste
fornivano il combustibile per la manifattura e il legname non era
soltanto un materiale importante per l’edilizia, ma anche per costruire
navi, a loro volta così importanti per gli imperi e le potenze marittime.
Il legname era il petrolio del diciassettesimo e diciottesimo secolo e
ogni sua penuria creava preoccupazioni per la disponibilità di
combustibile, la manifattura e i trasporti, analoghe a quelle suscitate
oggi da ogni messa a rischio della produzione di petrolio. Nel lontano
1664 lo scrittore e giardiniere inglese John Evelyn aveva scritto un
libro di grande successo sulla silvicoltura – Sylva, a Discourse of
Forest Tree – in cui affrontava il tema della scarsità di legname
parlandone alla stessa stregua di una calamità nazionale. “Potremmo
fare a meno dell’oro, ma non del legname”52, dichiarava Evelyn: senza
alberi non ci sarebbero industrie metallurgiche e vetrarie, né fiamme
guizzanti a scaldare le case durante le fredde notti invernali, né una
marina militare a proteggere le coste d’Inghilterra.
Cinque anni dopo, nel 1669, il ministro francese delle Finanze,
Jean-Baptiste Colbert, aveva proscritto buona parte dei diritti comuni
dei villaggi all’uso delle foreste e fatto impiantare alberi a futuro uso
della marina. “La Francia morirà di scarsità di legname”53, aveva
proclamato presentando le sue misure draconiane. Voci isolate si
erano alzate anche nei vasti territori delle colonie nordamericane. Nel
1749 il coltivatore americano e collezionista di piante John Bartram
aveva lamentato che “ben presto gli alberi da legname saranno quasi
interamente distrutti”54 – una preoccupazione condivisa dal suo
amico Benjamin Franklin, che aveva anch’egli temuto la “scomparsa di
legname”55 e inventato, come possibile soluzione, un caminetto
alimentato a olio combustibile.
Ora, al lago di Valencia, Humboldt cominciò a comprendere il
problema della deforestazione inserendolo in un contesto più ampio e
proiettando in avanti le analisi svolte in loco per ammonire che le
tecniche agricole dell’epoca potevano avere conseguenze devastanti.
L’azione del genere umano a livello globale, ammoniva, poteva avere
conseguenze sulle generazioni future56. Ciò che allora vedeva al lago
di Valencia lo avrebbe visto e rivisto: dalla Lombardia in Italia al Perù
meridionale e, molti decenni dopo, in Russia57. E descrivendo come
l’uomo stava cambiando il clima divenne, involontariamente, il padre
del movimento ambientalista.
Humboldt fu il primo a spiegare le funzioni fondamentali della
foresta per l’ecosistema e il clima58: la capacità degli alberi di
immagazzinare acqua e arricchire di umidità l’atmosfera, il loro ruolo
nella protezione del suolo e l’effetto refrigerante * 59. Parlò anche
dell’impatto degli alberi sul clima attraverso il rilascio di ossigeno60.
Gli effetti dell’intervento della specie umana erano già “incalcolabili”,
insisteva, e potevano diventare catastrofici se avesse seguitato a
insidiare il pianeta “con tale brutalità”61.
Humboldt avrebbe avuto molte occasioni di vedere come il genere
umano stesse mettendo a soqquadro l’equilibrio della natura. Solo
poche settimane dopo, nel profondo della foresta pluviale
dell’Orinoco, avrebbe visto alcuni monaci spagnoli in una missione
remota illuminare le loro chiese sgangherate con olio estratto da uova
di tartaruga. Il risultato era che la popolazione locale di tartarughe si
era già ridotta in misura significativa. Ogni anno le tartarughe
deponevano le uova lungo la riva sabbiosa del fiume, ma, invece di
lasciarne alcune per far nascere la generazione successiva, i missionari
ne raccoglievano così tante che di anno in anno, come disse a
Humboldt la gente del posto, il loro numero si era ridotto62. In
precedenza, sulla costa venezuelana, Humboldt aveva già osservato
come la pesca incontrollata di perle aveva quasi completamente
distrutto le riserve di ostriche63. Tutto era legato in una reazione
ecologica a catena. “Tutto è interazione e reciprocità”64, avrebbe detto
in seguito Humboldt.
Humboldt si stava allontanando dalla prospettiva antropocentrica
che aveva dominato per millenni l’approccio del genere umano alla
natura: da Aristotele, che aveva scritto “tutto ciò che la natura ha fatto
lo ha fatto specificamente a beneficio dell’uomo”65, al botanico Carl
Linnaeus che più di duemila anni dopo, nel 1749, ancora riecheggiava
lo stesso modo di pensare, affermando che “tutto è fatto a beneficio
dell’uomo”66. A lungo si era creduto che Dio avesse attribuito
all’uomo il dominio sulla natura. Dopo tutto, non diceva forse la
Bibbia che l’uomo doveva essere fecondo e “riempire la terra e
soggiogarla: e dominare i pesci del mare e gli uccelli nell’aria e ogni
cosa vivente che si muove sulla terra”?67 “Il mondo è fatto per
l’uomo”, aveva dichiarato nel diciassettesimo secolo il filosofo inglese
Francis Bacon68, mentre René Descartes sosteneva che gli animali
sono in tutto e per tutto degli automi – complessi, magari, ma incapaci
di ragionare e dunque inferiori agli esseri umani. Esseri umani che,
scriveva Descartes, erano “i signori e i padroni della natura”69.
Nel diciottesimo secolo l’idea della perfettibilità della natura
dominava il pensiero occidentale. Si era convinti che il genere umano
avrebbe reso la natura migliore e la parola “miglioramento” era il
mantra. Campi ordinati, rimozione delle foreste e graziosi villaggi
avrebbero trasformato lande selvagge e desolate in paesaggi gradevoli
e produttivi. La foresta primordiale del Nuovo Mondo era, per contro,
un “orribile territorio selvaggio”70 da soggiogare. Si doveva mettere
ordine nel caos, trasformare il male in bene. Nel 1748 il pensatore
francese Montesquieu aveva scritto che l’uomo aveva “reso la terra più
adatta a farne la sua dimora”71 – rendendola abitabile con il lavoro
delle sue mani e con gli utensili. Frutteti carichi di frutti, orti ordinati e
prati con il bestiame a pascolare erano a quel tempo l’ideale di
natura72. Era un modello destinato a prevalere a lungo nel mondo
occidentale. Quasi un secolo dopo l’affermazione di Montesquieu, lo
storico francese Alexis de Tocqueville, durante una visita negli Stati
Uniti nel 1833, si diceva convinto che fosse stata “l’idea della
distruzione” – dell’accetta in mano all’uomo nelle selvagge terre
americane – ad aver conferito al paesaggio la sua “commovente
bellezza”73.
Qualche pensatore nordamericano arrivò a sostenere che il clima
era cambiato in meglio da quando erano arrivati i primi colonizzatori.
A ogni albero tagliato nella foresta vergine l’aria era diventata più
salubre e mite, affermavano, e l’assenza di ogni prova non gli impediva
di predicare le loro teorie. Uno di essi era Hugh Williamson, fisico e
politico del Nord Carolina, che nel 1770 pubblicò un articolo in cui
osannava l’abbattimento di immense fasce forestali a tutto beneficio
del clima74. Altri erano convinti che l’abbattimento delle foreste
avrebbe rafforzato la circolazione dei venti che, a sua volta, avrebbe
portato nel paese aria più salutare. Soltanto sei anni prima che
Humboldt visitasse il lago di Valencia, un americano aveva suggerito,
come metodo utile per “asciugare le paludi” lungo la costa,
l’abbattimento di alberi nelle regioni interne del continente75. Le
poche voci preoccupate restavano circoscritte nell’ambito di lettere e
conversazioni private. Nel complesso, “domare tutto ciò che è
selvaggio” era nell’opinione prevalente il “fondamento di ogni futuro
beneficio”76.
La diffusione di questo pensiero fu massimamente dovuta al
naturalista francese Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon. Alla metà
del diciottesimo secolo Buffon aveva dipinto un quadro della foresta
primordiale, raffigurandola come un luogo orribile pieno di alberi
marcescenti, foglie in decomposizione, piante parassite, pozze
ristagnanti e insetti velenosi. Tutto ciò che è selvaggio è deforme,
diceva. Benché Buffon fosse morto l’anno precedente la Rivoluzione
francese, la sua visione del Nuovo Mondo continuava a forgiare
l’opinione pubblica77. La bellezza coincideva con l’utilità e ogni acro
strappato alle terre selvagge era una vittoria dell’uomo civilizzato sulla
natura incivile. Era la “natura coltivata”, aveva scritto Buffon78, a
essere “bella”!
Humboldt, invece, ammoniva che il genere umano doveva capire
come agiscono le forze della natura, come tutti quei fili differenti
fossero connessi. L’uomo non poteva limitarsi a modificare il mondo
naturale a suo piacimento e beneficio. “Soltanto comprendendone le
leggi l’uomo può intervenire sulla natura e appropriarsi delle sue forze
per usarle a proprio vantaggio”, avrebbe scritto più tardi79. Il genere
umano ha il potere di distruggere l’ambiente, ammoniva, e le
conseguenze potrebbero essere catastrofiche80.
1. AH a WH, 16 luglio 1799, AH WH Lettere 1880, p. 11.
2. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 2, pp. 183-4; AH a WH, 16 luglio 1799, AH WH Lettere
1880, p. 13.
3. AH a WH, 16 luglio 1799, ivi, p. 13.
4. Ibid.
5. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 2, p. 239.
6. Ivi, vol. 3, p. 72.
7. AH a WH, 16 luglio 1799, AH WH Lettere 1880, p. 13.
8. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 2, p. 183.
9. Ivi, p. 194.
10. Ivi, vol. 3, pp. 111, 122.
11. Ivi, p. 122.
12. AH a Reinhard e Christiane von Haeften, 18 novembre 1799, AH Lettere America 1993, p.
66; AH a WH, 16 luglio 1799, AH WH Lettere 1880, p. 13.
13. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, pp. 332 sgg.
14. AH a Reinhard e Christiane von Haeften, 18 novembre 1799, AH Lettere America 1993, p.
66.
15. Ivi, p. 65.
16. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 2, p. 246.
17. Ivi, vol. 3, pp. 316-17; AH, 4 novembre 1799, AH Venezuela 2000, p. 119.
18. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3., p. 321.
19. AH, novembre 1799, AH Venezuela 2000, p. 166.
20. AH scrisse nel suo diario nel giugno 1801 che José si era unito a loro dall’agosto 1799; AH,
23 giugno-8 luglio 1801, AH Río Magdalena 2003, vol. 1, p. 85.
21. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, pp. 347, 351-2.
22. AH, 18 novembre 1799, AH Venezuela 2000, p. 165.
23. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, p. 435.
24. Juan Vicente de Bolívar, Martín de Tobar e Marqués de Mixares a Francisco de Miranda,
24 febbraio 1782, Arana 2013, p. 21.
25. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, p. 379.
26. AH, 8 febbraio 1800, AH Venezuela 2000, p. 188.
27. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, p. 90.
28. Ivi, p. 160.
29. AH, 22 novembre 1799-7 febbraio 1800, AH Venezuela 2000, p. 179.
30. Holl 2009, p. 131.
31. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, p. 307; l’edizione inglese non fa menzione del
denaro, che troviamo però in quella francese: AH, Voyage aux régions équinoxiales du
Nouveau Continent, vol. 4, p. 5.
32. AH a Ludwig Bolmann, 15 ottobre 1799, Biermann 1987, p. 169.
33. AH Lettere America 1993, p. 9.
34. AH, 7 febbraio 1800, AH Venezuela 2000, p. 185.
35. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 107.
36. Ivi, p. 132.
37. Ivi, pp. 131 sgg.; AH, 4 marzo 1800, AH Venezuela 2000, pp. 215 sgg.
38. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 141.
39. Ivi, p. 140.
40. Ivi, pp. 145 sgg.
41. Ivi, p. 142.
42. Ivi, pp. 148-9.
43. AH, 4 marzo 1800, AH Venezuela 2000, p. 215.
44. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, pp. 24-5.
45. Ivi, vol. 4, p. 63.
46. AH, 7 febbraio 1800, AH Venezuela 2000, p. 186.
47. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 144.
48. Ivi, p. 143.
49. Vedi gli scritti di AH ma anche Holl 2007-8, pp. 20-25; Osten 2012, pp. 61 sgg.
50. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, pp. 143-4.
51. Weigel 2004, p. 85.
52. Evelyn 1670, p. 178.
53. Jean-Baptiste Colbert, Schama 1996, p. 175.
54. John Bartram, “An Essay for the Improvements of Estates, by Raising a Durable Timber
for Fencing, and Other Use”, Bartram 1992, p. 294.
55. Benjamin Franklin a Jared Eliot, 25 ottobre 1750; Benjamin Franklin, “An Account of the
New Invented Pennsylvanian Fire-Places”, 1744, Franklin 1956-2008, vol. 2, p. 422 e vol. 4, p.
70.
56. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 143.
57. Ivi, p. 144.
58. AH, settembre 1799, AH Venezuela 2000, p. 140; AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p.
477.
59. AH Aspects 1849, vol. 1, pp. 126-7; AH Views 2014, p. 82; AH Ansichten 1849, vol. 1, p.
158.
60. AH, settembre 1799, AH Venezuela 2000, p. 140.
61. AH, 4 marzo 1800, ivi, p. 216.
62. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4. p. 486; AH, 6 aprile 1800, AH Venezuela 2000, p.
257.
63. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 2, p. 147.
64. AH, 2-5 agosto 1803, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, p. 258.
65. Aristotele, Politics, Libro.1, Cap. 8.
66. Carl Linnaeus, Worster 1977, p. 37.
67. Genesi, 1, 27-8.
68. Francis Bacon, Worster 1977, p. 30.
69. René Descartes, Thomas 1984, p. 33.
70. Reverendo Johannes Megapolensis, Myers 1912, p. 303.
71. Montesquieu, The Spirit of Laws, London, 1750, p. 391.
72. Chinard 1945, p. 464.
73. Tocqueville, 26 luglio 1833, “A Fortnight in the Wilderness”, Tocqueville 1861, vol. 1, p.
202.
74. Hugh Williamson, 17 agosto 1770, Chinard 1945, p. 452.
75. Thomas Wright in 1794, Thomson 2012, p. 189.
76. Jeremy Belknap, Chinard 1945, p. 464.
77. Judd 2006, p. 4; Bewell 1989, p. 242.
78. Buffon, Bewell 1989, p. 243; vedi anche Adam Hodgson, Chinard 1945, p. 483.
79. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 37; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 36.
80. AH, 4 marzo 1800, AH Venezuela 2000, p. 216.
*. Humboldt lo spiegò più tardi concisamente: “La regione coperta da foreste agisce in tre
modi sull’abbassamento della temperatura: mediante l’azione raffrescante dell’ombra,
l’evaporazione e l’irradiazione”.
Capitolo quinto

Gli Llanos e l’Orinoco

Dopo tre settimane di intense indagini sul lago di Valencia e nella


vallata circostante, Humboldt aveva concluso le sue osservazioni. Era
giunto il momento di dirigersi a sud verso l’Orinoco, ma prima di tutto
dovevano attraversare gli Llanos. Il 10 marzo 1800, quasi esattamente
un mese dopo aver lasciato Caracas, Humboldt e la sua piccola
squadra entrarono nella brulla prateria.
La terra era coperta di polvere incrostata. Le pianure sembravano
stendersi all’infinito e l’orizzonte ballava nella calura. Videro cespugli
di erba secca e palme, ma non molto altro. Il sole implacabile aveva
cotto il terreno, trasformandolo in un’arida superficie piena di crepe.
Humboldt infilò il termometro nella terra e registrò una temperatura
di 50 °C1. Dopo essersi lasciata alle spalle la valle di Aragua così
densamente popolata, si sentì come “catapultato all’improvviso in una
grande solitudine”2. In certi giorni l’aria era così ferma che “tutto
sembra immobile”, scrisse nel diario3. Senza nuvole a fargli ombra
mentre percorrevano il suolo indurito, si coprivano la testa con foglie
per ripararsi dal calore bruciante. Humboldt indossava pantaloni
larghi, un panciotto e semplici camicie di lino4. Aveva un soprabito
per i climi più freddi e portava sempre un morbido foulard bianco.
Aveva scelto gli abiti europei più comodi disponibili a quel tempo –
leggeri e facili da lavare – ma anche così trovava il caldo
insopportabile.
Negli Llanos s’imbattevano in turbini di polvere e frequenti miraggi
evocavano crudeli promesse di frescura e acqua rinfrescante. A volte,
per evitare il sole ardente, viaggiavano di notte. Spesso avevano sete e
fame. Un giorno arrivarono a una piccola fattoria – niente di più di
una casa isolata con intorno qualche piccola capanna. Coperti di
polvere e arrostiti dal sole, gli uomini agognavano a un bagno. In
assenza del padrone, il guardiano li indirizzò a uno stagno lì vicino.
L’acqua era torbida, ma perlomeno era un po’ più fresca dell’aria.
Eccitati, Humboldt e Bonpland si strapparono di dosso gli abiti
sporchi, ma appena misero piede nello stagno un alligatore, che fino a
quel momento era rimasto a giacere immobile sull’altra sponda, decise
di raggiungerli. In una manciata di secondi i due uomini erano saltati
fuori e avevano afferrato i vestiti, scappando di corsa per salvarsi la
vita5.

Humboldt e la sua squadra negli Llanos

Per quanto gli Llanos potessero essere un ambiente inospitale,


Humboldt era affascinato dalla vastità del paesaggio. Nella sua piatta
solitudine e nella sua sconvolgente ampiezza c’era qualcosa che “colma
l’animo di un sentimento d’infinito”, scrisse6. Poi, più o meno a mezza
strada nel viaggio attraverso le pianure, arrivarono nella piccola città
commerciale di Calabozo. Quando la gente del posto gli disse che molti
degli stagni poco profondi nella zona erano pieni di anguille elettriche,
Humboldt non riusciva a credere alla sua fortuna. Dai tempi degli
esperimenti sull’elettricità animale in Germania, aveva sempre
desiderato ardentemente di poter esaminare uno di quei pesci
straordinari. Aveva sentito strani racconti su quelle creature lunghe un
metro e mezzo che potevano rilasciare scariche elettriche di oltre 600
volt.
Il problema era come prendere le anguille, dato che vivevano
sepolte nella melma sul fondo degli stagni e pertanto non era facile
pescarle con una rete. Inoltre erano così cariche di elettricità che
bastava toccarle per morire fulminati. I locali ebbero un’idea.
Radunarono trenta cavalli selvatici degli Llanos e portarono il branco
nello stagno. Appena gli zoccoli dei cavalli agitarono la melma, le
anguille cominciarono a dimenarsi salendo in superficie e rilasciando
possenti scariche elettriche. Estasiato, Humboldt guardava quello
spettacolo raccapricciante: i cavalli urlavano di dolore, le anguille
facevano il diavolo a quattro sotto le loro pance e la superficie
dell’acqua ribolliva agitata. Qualche cavallo cadeva e, calpestato dagli
altri, annegava.
La battaglia tra cavalli e anguille elettriche

Col passare del tempo la violenza delle scariche elettriche diminuì e


le anguille, indebolite, si ritirarono nella melma da cui Humboldt le
tirò su con dei bastoncini di legno asciutti. Ma non aveva aspettato
abbastanza. Quando lui e Bonpland cominciarono a dissezionare gli
animali, subirono violente scosse elettriche. Per quattro ore
condussero una serie di prove pericolose: tenere un’anguilla con due
mani, toccare un’anguilla con una mano e un pezzetto di metallo con
l’altra, oppure Humboldt toccava un’anguilla tenendo per mano
Bonpland, che sussultava. A volte stavano in piedi su terreno asciutto,
a volte su terreno umido; attaccavano elettrodi, davano colpetti alle
anguille con bastoncini impregnati di ceralacca e le tiravano su con
cordoncini fatti di creta umida e fibra tratta dalle palme – non vi fu
materiale che non venisse sperimentato. Non sorprende se alla fine
della giornata Humboldt e Bonpland si sentivano deboli e stavano
male7.
Le anguille indussero Humboldt a riflettere su elettricità e
magnetismo in generale. Guardando l’orribile lotta tra anguille e
cavalli, Humboldt pensava alle forze che, nei campi più svariati,
provocano fulmini, o legano tra loro metalli o fanno muovere gli aghi
delle bussole. Come spesso accadeva, Humboldt partiva da un
dettaglio o un’osservazione e poi passava al contesto più ampio. Tutto
“nasce da una sola fonte e tutto si fonde in un’energia eterna che
ingloba tutto”8.

Alla fine di marzo del 1800, quasi due mesi dopo aver lasciato Caracas,
Humboldt e Bonpland raggiunsero infine la missione dei Cappuccini
di San Fernando de Apure, sul Rio Apure. Di qui avrebbero navigato in
direzione est lungo il Rio Apure e attraverso la foresta fluviale fino al
Basso Orinoco – una distanza di più o meno centocinquanta
chilometri in linea d’aria, ma più del doppio seguendo le anse del
fiume. Una volta raggiunto il punto di confluenza tra il Rio Apure e il
Basso Orinoco, intendevano proseguire verso sud lungo l’Orinoco e
attraverso le grandi rapide di Atures e Maipures, addentrandosi nel
profondo di una regione dove ben pochi uomini bianchi avevano mai
messo piede. Qui speravano di trovare il Casiquiare, il leggendario
raccordo tra i grandi fiumi Rio delle Amazzoni e Orinoco9.
L’imbarcazione che avevano comprato a San Fernando de Apure fu
messa in acqua nel Rio Apure il 30 marzo, carica di provviste per
quattro settimane – insufficienti per l’intera spedizione, ma che erano
quanto l’imbarcazione era in grado di contenere. Dai frati Cappuccini
comprarono banane, radici di manioca, polli e cacao, ma anche i frutti
a forma di baccello dell’albero del tamarindo, di cui avevano sentito
dire che poteva trasformare l’acqua del fiume in una rinfrescante
limonata. Per il resto, il cibo lo dovevano catturare – pesce, uova di
tartaruga, uccelli e altra selvaggina – o procurarselo barattando con le
tribù indigene l’alcool che avevano portato con sé10.
Diversamente dalla maggior parte degli esploratori europei,
Humboldt e Bonpland non viaggiavano con un grande seguito:
soltanto quattro uomini presi sul posto per remare e un pilota per
governare l’imbarcazione, il loro servitore José di Cumaná e il cognato
del governatore provinciale che si era unito a loro11. Humboldt non
temeva la solitudine. Tutt’altro: qui non c’era niente a interrompere i
suoi studi12, la natura offriva stimoli sufficienti e aveva Bonpland
come amico e consulente scientifico. Nei pochi mesi trascorsi insieme
erano diventati fidi compagni di viaggio. Quando aveva conosciuto
Bonpland a Parigi, Humboldt aveva istintivamente visto giusto:
Bonpland era un eccellente botanico che amava lavorare sul campo,
non sembrava badare alla fatica delle loro avventure e restava calmo
anche nelle situazioni più avverse. Ma ciò che contava di più, diceva
Humboldt, era la capacità di Bonpland di essere sempre ottimista e di
buon umore, qualunque cosa succedesse13.
A mano a mano che procedevano, remando sul Rio Apure e poi
sull’Orinoco, un mondo nuovo si dispiegava davanti ai loro occhi.
Dall’imbarcazione avevano una vista perfetta. Centinaia di grossi
coccodrilli si crogiolavano sulle sponde del fiume con le mascelle
aperte, spesso lunghi anche cinque metri. Assolutamente immobili,
sembravano tronchi d’albero – finché all’improvviso non scivolavano
nell’acqua14. Erano così numerosi che difficilmente c’era un momento
in cui non ne vedessero neanche uno. Le grandi scaglie seghettate delle
code ricordavano a Humboldt i draghi nei libri della sua infanzia.
Enormi serpenti boa nuotavano dietro la loro barca, ma nonostante
tutti questi pericoli gli uomini facevano il bagno ogni giorno, in una
prudente rotazione: uno alla volta si lavava, mentre gli altri badavano
agli animali15. Viaggiando sul fiume incontravano anche grandi
branchi di capibara, i roditori più grossi del mondo, che vivevano in
grandi gruppi familiari e nuotavano nell’acqua con le zampe come i
cani. I capibara somigliano alle gigantesche cavie dal naso mozzato
sudamericane, pesano cinquanta chili o anche di più. Ancora più
grossi erano i tapiri, animali diffidenti e solitari che con i loro grugni
carnosi rovistavano in cerca di foglie nei boschetti sulla riva del fiume,
e i giaguari dal bel manto maculato di cui erano preda. La notte,
Humboldt sentiva il verso dei delfini di fiume, che sembrano russare,
sul sottofondo dell’incessante ronzio degli insetti. Gli uomini
passavano davanti a isole abitate da migliaia di fenicotteri, aironi
bianchi e trampolieri rosa, con i loro grandi becchi a spatola.
Una barca sull’Orinoco

Viaggiavano di giorno e di notte si accampavano sulle rive sabbiose


del fiume, piazzando sempre al centro i loro strumenti e le loro
collezioni, con le amache e i diversi fuochi a formare tutt’attorno un
cerchio protettivo. Se era possibile, legavano le amache agli alberi o ai
remi piantati ritti nel terreno. Spesso era difficile trovare legna
abbastanza asciutta per accendere fuochi nella giungla umida e
gocciolante, ma era una difesa indispensabile contro giaguari e altri
animali16.
La foresta pluviale rese il viaggio insidioso. Una notte, uno dei
rematori indios si svegliò e trovò un serpente arrotolato sotto la pelle
di animale sulla quale dormiva17. Un’altra, tutto l’accampamento fu
svegliato dalle urla improvvise di Bonpland. Qualcosa di peloso e con
artigli affilati era atterrato su di lui con un tonfo pesante mentre
dormiva profondamente nella sua amaca. Un giaguaro, pensò,
restando a giacere atterrito. Ma quando Humboldt furtivamente gli si
avvicinò vide che era soltanto un gatto domestico che veniva da un
vicino insediamento tribale18. Poi, un paio di giorni dopo, Humboldt
andò quasi a sbattere contro un giaguaro nascosto nel fitto fogliame.
In preda al terrore, si ricordò di quel che gli avevano detto le guide.
Lentamente, senza correre né muovere le braccia, camminò
all’indietro allontanandosi dal pericolo19.
Gli animali non rappresentavano l’unico rischio. Una volta
Humboldt rischiò di morire toccando inavvertitamente del curaro. Era
un veleno in grado di provocare una paralisi mortale (una volta
entrato in contatto con il sangue) che lui aveva preso da una tribù
indigena e che dal contenitore gli era colato sulle calze. Le tribù lo
usavano come strale avvelenato per le loro cerbottane e Humboldt era
affascinato dalla sua potenza. Fu il primo europeo a descriverne la
preparazione; ma per poco non gli costò la vita. Se avesse infilato i
piedi – coperti di morsi d’insetti e tagli sanguinanti – nelle calze,
sarebbe morto agonizzando per soffocamento, perché il curaro
paralizza i muscoli e il diaframma20.
Malgrado i pericoli, Humboldt era affascinato dalla giungla. Di notte
amava ascoltare il coro delle scimmie, cogliendo i differenti contributi
delle varie specie – dalle grida assordanti delle scimmie urlatrici che
risuonavano nella giungla fino a grandi distanze ai “toni flautati” e ai
“brontolii simili a sbuffi”21 di altri animali. La foresta pullulava di vita.
Ci sono “tante voci a rivelarci che tutta la natura respira”22, scriveva
Humboldt. Diversamente dalla regione agricola attorno al lago di
Valencia, questo era il mondo primordiale in cui “l’uomo non ha
disturbato il corso della natura”23.
Qui poteva studiare dal vivo animali che aveva solamente visto come
specie imbalsamate nelle collezioni europee di storia naturale24.
Catturavano uccelli e scimmie che tenevano in grandi ceste di canne
intrecciate a maglia larga o legati a lunghe funi sperando di poterli
spedire in Europa. Le scimmie titi erano le preferite di Humboldt.
Piccole, con lunghe code e una soffice pelliccia grigiastra, avevano un
musetto bianco che sembrava una maschera a forma di cuore –
annotava Humboldt. Erano belle e aggraziate nei movimenti, saltando
agilmente da un ramo all’altro – di qui il loro nome tedesco,
Springaffe, cioè scimmie saltellanti25. Ma era difficilissimo catturare
scimmie titi vive. Scoprirono che l’unico modo era uccidere una madre
con una cerbottana e un dardo avvelenato. Le scimmiette più piccole
non si sarebbero mai separate dalla madre, neanche se lei si abbatteva
di schianto giù da un albero26. La squadra di Humboldt doveva essere
svelta ad acchiapparle e strapparle via dalla madre morta. Una di
quelle che avevano catturato era così intelligente che faceva sempre
l’atto di afferrare le figure stampate nei libri di Humboldt che
raffiguravano grilli e vespe; con grande divertimento di Humboldt,
sembrava capace di distinguere le immagini che raffiguravano il suo
cibo preferito – ad esempio gli insetti – mentre non si interessava
affatto a scheletri di esseri umani e mammiferi.
Per osservare animali e piante non poteva esserci luogo migliore.
Humboldt era entrato nella più straordinaria “rete della vita” che
potesse esserci sulla terra, una rete “di forze organiche attive”27, ebbe
a scrivere più tardi. Estasiato, ne seguiva ogni filo. Tutto testimoniava
la potenza e la delicatezza della natura: dal boa capace di “inghiottire
un cavallo” all’esile colibrì che si dondola su di un fragile fiore28. Era
un mondo che pulsava di vita, diceva Humboldt, un mondo in cui
“l’uomo non è niente”29.
Una notte, di nuovo svegliato da un’assordante orchestra di grida di
animali30, si mise a far caso alla catena di reazioni. Le guide indios gli
avevano detto che quelle esplosioni di frastuono erano semplicemente
il modo in cui gli animali veneravano la luna. Ma Humboldt era di
tutt’altro avviso, rendendosi conto che quella cacofonia era “una
battaglia fra animali che si stendeva in una lunga catena
amplificandosi sempre di più”31. I giaguari di notte cacciavano,
inseguendo tapiri che scappavano rumorosamente nel folto sottobosco
e a loro volta spaventavano le scimmie che dormivano sui rami più alti
degli alberi. Quando le scimmie cominciavano a strillare, il clamore
svegliava gli uccelli e così tutto il mondo animale. La vita si agitava in
ogni cespuglio, nelle cortecce crepate degli alberi e nel terreno. Tutto
quel trambusto, diceva Humboldt, era il risultato di “qualche lotta nel
profondo della foresta pluviale”32.
Durante i suoi viaggi, Humboldt fu ripetutamente testimone di
queste battaglie. I capibara scappavano dall’acqua per sfuggire alle
mortali ganasce dei coccodrilli, ma solo per incappare dritti dritti nei
giaguari che li aspettavano sul limitare della giungla. Lo stesso era
accaduto con il pesce volante che aveva osservato nel loro viaggio in
mare: quando saltavano fuori dall’oceano per sfuggire ai denti affilati
dei delfini, a mezz’aria venivano catturati dagli albatri33. L’assenza
dell’uomo, osservava Humboldt, consentiva agli animali di prosperare
e moltiplicarsi, ma si trattava di uno sviluppo al quale “essi stessi
ponevano limiti”34 – con la loro reciproca pressione.
Era una rete vitale incessantemente percorsa da lotte sanguinose,
un’idea ben diversa dalla concezione prevalente della natura come
macchina bel oliata in cui ogni animale e ogni pianta hanno un posto
assegnato da un’entità divina.
Carl Linnaeus, per esempio, aveva riconosciuto il concetto di catena
alimentare quando parlava di falchi che si nutrono di uccellini, gli
uccellini di ragni, i ragni di libellule, le libellule di calabroni e i
calabroni di afidi – ma scorgeva in questa catena un equilibrio
armonioso35. Ogni animale, ogni pianta aveva il suo scopo donato da
Dio e conseguentemente si riproduceva solo nella misura che serviva a
mantenere stabile tale equilibrio per l’eternità.
Ma ciò che Humboldt vedeva non era il paradiso terrestre. “L’età
dell’oro è finita”36, scriveva. Gli animali avevano paura l’uno dell’altro
e lottavano per la sopravvivenza. E non soltanto gli animali: notava
anche come vigorose piante rampicanti nella giungla strangolavano
alberi immensi. Qui non c’era “la mano distruttiva dell’uomo”37,
diceva, ma la lotta delle piante per procurarsi la luce e il nutrimento da
cui dipendevano la vita e la crescita.
Mentre Humboldt e Bonpland proseguivano nel loro viaggio
sull’Orinoco, l’equipaggio indiano spesso remava per oltre dodici ore
nel caldo soffocante. La corrente era forte e il fiume era largo quasi
quattro chilometri. Poi, tre settimane dopo aver messo per la prima
volta l’imbarcazione nel Rio Apure e dopo dieci giorni sull’Orinoco, il
fiume cominciò a restringersi38. Si avvicinavano alle rapide di Atures
e Maipures39. Qui, a oltre ottocento chilometri a sud di Caracas,
l’Orinoco procedeva veloce attraverso una catena montuosa in una
serie di piccoli corridoi fluviali larghi circa 150 metri, tra enormi massi
di granito tondeggianti coperti da una fitta foresta. Per diversi
chilometri le rapide scendevano in centinaia di gradini rocciosi, con
l’acqua che ruggiva e turbinava sollevando una nebbia perpetua che
stazionava sul fiume. Le rocce e le isole erano rivestite di
lussureggianti piante tropicali. “Uno scenario naturale maestoso”40,
scriveva Humboldt. Magico, ma anche pericoloso.
Un giorno un violento vento improvviso fece quasi capovolgere
l’imbarcazione41. Mentre un’estremità della canoa cominciava a
riempirsi d’acqua, Humboldt riuscì ad afferrare il suo diario, ma libri e
piante essiccate furono catapultati nell’acqua. Era sicuro che sarebbero
morti. Sapendo che il fiume era popolato di coccodrilli e serpenti, tutti
erano in preda al panico – a eccezione di Bonpland, che rimase calmo
e cominciò a buttar fuori l’acqua con delle zucche vuote incavate. “Non
ti preoccupare amico”, diceva a Humboldt, “ci salveremo”42.
Bonpland mostrava “quella freddezza”43 che aveva sempre nelle
situazioni difficili – annotò più tardi Humboldt. Alla fine persero
soltanto un libro e riuscirono ad asciugare piante e diari. Il pilota era
sconcertato dagli uomini bianchi – i blancos, come li chiamava – che
sembravano preoccuparsi più dei libri e delle collezioni che delle loro
vite.
Il maggior fastidio erano le zanzare. Malgrado il fascino esercitato
su Humboldt da quello strano mondo, era impossibile non lasciarsi
distrarre dagli attacchi incessanti degli insetti. Gli esploratori
provavano di tutto, ma niente serviva: né abiti coprenti, né fumare, né
agitare incessantemente le braccia e foglie di palme. Avevano la pelle
tumefatta e pruriginosa e quando parlavano cominciavano a tossire e a
starnutire, perché le zanzare s’infilavano in bocca e nelle narici44.
Dissezionare una pianta o osservare il cielo con gli strumenti era una
tortura. Humboldt avrebbe voluto avere una “terza mano”45 per
scacciare le zanzare: sentiva di continuo che era sul punto di lasciar
cadere il sestante, o una foglia.
Sotto l’attacco permanente delle zanzare, Bonpland non poteva
essiccare le piante all’aria aperta e prese a usare i cosiddetti
hornitos46 delle tribù native – piccole camere senza finestre che
usavano come forni. S’infilava carponi attraverso una bassa apertura
negli hornitos, dove un fuocherello di rami umidi e foglie faceva un
gran fumo – favoloso contro lo zanzare, ma atroce per Bonpland. Una
volta dentro, chiudeva la porticina e spargeva le sue piante. Il calore
era soffocante e il fumo insopportabile, ma tutto era meglio che farsi
mangiare vivo dalle zanzare. La spedizione non era esattamente una
“crociera di piacere”47, diceva Humboldt.
Noci del Brasile (Bertholletia excelsa)

In questa parte del viaggio – nel profondo della foresta pluviale e


nel tratto dell’Orinoco che corre lungo l’odierno confine tra Venezuela
e Colombia – videro poca gente. Quando passarono davanti a una
missione, un missionario, padre Bernardo Zea, fu così felice di
conoscerli che si offrì di unirsi a loro come guida48. Accettarono ben
volentieri. Humboldt si procurò qualche altro “membro della
squadra”, tra cui un mastino randagio, otto scimmie, sette pappagalli,
un tucano, un macao dal piumaggio purpureo e diversi altri uccelli.
Humboldt li chiamava “il mio zoo itinerante”49. Ma la loro instabile
imbarcazione era piccola e per far posto agli animali, oltre che agli
strumenti e ai bauli, costruirono una piattaforma di rami intrecciati
che si allungava oltre il bordo. Coperta da un basso tetto di cannucce,
creò un po’ di spazio in più; ma era claustrofobica. Humboldt e
Bonpland trascorsero parecchi giorni stipati in quella piattaforma
aggettante, giacendo sdraiati con le gambe esposte a insetti pericolosi,
alla pioggia o al sole bruciante. Era come essere sepolti vivi, scrisse
Humboldt nel diario. Per un uomo irrequieto come lui, era un
supplizio.
Proseguendo, la foresta si fece così vicina al fiume che era difficile
trovare uno spazio in cui accamparsi di notte50. Cominciavano a
essere a corto di cibo e filtravano l’acqua fetida del fiume con una tela
di lino. Mangiavano pesce, uova di tartaruga e a volte frutta, ma anche
formiche affumicate tritate e impastate con farina di manioca: padre
Zea lo definiva un eccellente paté di formiche51. Quando non
trovavano niente da mangiare, domavano la fame con piccole porzioni
di cacao in polvere. Per tre settimane remarono sull’Orinoco verso sud
e poi ancora più a sud per altre due settimane su una rete di affluenti
lungo il Rio Atabapo e il Rio Negro. Alla fine, quando raggiunsero il
punto più meridionale della loro spedizione fluviale, con le riserve
ormai al minimo, trovarono grosse noci che spaccarono per prenderne
i semi nutrienti: le eccellenti noci del Brasile52 che successivamente
Humboldt introdusse in Europa.
Se il cibo scarseggiava, le varietà floreali abbondavano. Ovunque si
girassero c’era qualcosa di nuovo; ma raccogliere piante era il più delle
volte frustrante. Perché quel che riuscivano a cogliere sul terreno della
foresta erano inezie rispetto ai fiori scultorei che vedevano ondeggiare
in alto sopra di loro nella volta verde: la loro apparente vicinanza li
tentava, ma erano troppo lontani per poterci arrivare53. E ciò che
riuscivano a raccogliere spesso si dissolveva sotto i loro occhi
nell’umidità. Bonpland perse la maggior parte delle specie che con
tanta sofferenza aveva essiccato negli hornitos. Sentivano uccelli che
non videro mai e animali che non potevano catturare. Spesso non
riuscivano neanche a descriverli come si deve. Gli scienziati in Europa
sarebbero rimasti delusi, diceva Humboldt fra sé e sé. Era un vero
peccato, scriveva nel diario, che le scimmie non aprissero la bocca
quando la loro canoa gli passava davanti in modo da potergli “contare i
denti”54.
A Humboldt interessava tutto: le piante, gli animali, le rocce e
l’acqua. Come un intenditore di vini, raccoglieva campioni di acqua di
tutti i fiumi. L’Orinoco aveva un sapore singolare, particolarmente
disgustoso – annotava – mentre il Rio Apure variava di sapore da un
posto all’altro e il Rio Atabapo era “delizioso”55. Osservava le stelle,
descriveva il paesaggio, lo incuriosivano gli indigeni che incontrava e
voleva sempre saperne di più. Il loro culto della natura lo affascinava e
li riteneva “eccellenti geografi”56, data la loro capacità di trovare la
strada anche attraverso la giungla più fitta. Erano i migliori
osservatori della natura che avesse mai incontrato. Conoscevano tutte
le piante e gli animali della foresta pluviale ed erano capaci di
riconoscere gli alberi dal solo gusto della loro corteccia – un
esperimento che Humboldt fallì miseramente57: tutti e quindici gli
alberi di cui aveva raccolto un campione a lui sembrava che avessero
esattamente lo stesso sapore.
Diversamente dalla grande maggioranza degli europei, Humboldt
non considerava barbare le popolazioni indigene, anzi, la loro cultura,
le loro credenze e i loro linguaggi lo affascinavano. Quando vedeva
come coloni e missionari trattavano i locali parlava di “barbarie
dell’uomo civilizzato”58. E quando tornò in Europa portò con sé un
ritratto dei cosiddetti “selvaggi” assolutamente nuovo.
La sua unica delusione fu quando gli indios non seppero rispondere
alle sue tante domande – spesso poste tramite una catena di interpreti,
dato che una lingua locale doveva essere tradotta in un’altra e poi in
un’altra ancora finché non c’era qualcuno che conosceva quella lingua
altrettanto bene dello spagnolo. Spesso il contenuto si perdeva nelle
traduzioni e gli indios si limitavano a sorridere e annuire con un cenno
del capo. Non era questo che Humboldt voleva e li accusava di
“indolente indifferenza”59, per quanto riconoscesse che magari “tutte
le nostre domande li hanno stancati”. A queste società tribali, diceva
Humboldt, gli europei devono sembrare sempre trafelati e come
“inseguiti da demoni”60.

Una notte, sotto una pioggia torrenziale, Humboldt era sdraiato nella
sua amaca appesa nella giungla ad alberi di palma. Liane e piante
rampicanti formavano sopra di lui un alto scudo protettivo. Guardava
in su, in quello che sembrava un pergolato naturale, decorato dai
lunghi fiori arancioni delle eliconie che penzolavano e altri fiori dalle
forme strane. Il fuoco del loro accampamento illuminava quella volta
naturale e la luce delle fiamme lambiva i tronchi delle palme fino a
diciotto metri di altezza. I fiori oscillavano entrando e uscendo dai
bagliori di luce tremolanti, mentre il fumo bianco saliva in spirali
verso il cielo che restava nascosto dal fogliame. Era un incanto, disse
Humboldt61.
Aveva descritto le rapide dell’Orinoco “illuminate dai raggi del sole
al tramonto”62 come se un fiume fatto di nebbia fosse “sospeso sul suo
letto”. Benché sempre impegnato a misurare e registrare, Humboldt
scriveva anche di come “arcobaleni colorati risplendono, svaniscono e
riappaiono” sulle grandi rapide e della luna “cinta da anelli colorati”.
Più avanti, lo allietava la superficie scura del fiume che di giorno
rifletteva come uno specchio perfetto le piante cariche di fiori sulle rive
e di notte le costellazioni di stelle dell’emisfero meridionale. Nessuno
scienziato prima di lui aveva mai parlato così della natura. “Ciò che
parla all’anima”, diceva, “sfugge alle nostre misurazioni.”63 Non era la
natura intesa come un sistema meccanicistico, ma un nuovo mondo
eccitante pieno di meraviglie. Vedendo il Sud America con gli occhi di
cui Goethe lo aveva dotato, Humboldt era estasiato.
Meno piacevoli erano le notizie che ricevevano dai missionari che
incontravano per strada: il fatto che il Casiquiare collegasse il Rio delle
Amazzoni e l’Orinoco sembrava essere ben noto da diversi decenni
nella regione. L’unica cosa che a Humboldt restava da fare era
tracciare una mappa precisa del corso del fiume. L’11 maggio 1800
finalmente trovarono l’accesso al Casiquiare64. L’aria era così satura
di umidità che Humboldt non riusciva a vedere né il sole né le stelle –
senza di cui non avrebbe potuto determinare la posizione geografica
del fiume e dunque la sua mappa non sarebbe stata precisa. Ma
quando la guida india preannunciò cieli limpidi si affrettarono a
proseguire verso nord-est. Di notte cercavano di dormire nelle amache
sulle rive, ma riposare era quasi impossibile. Una notte furono cacciati
da colonne di formiche che salivano sulle corde delle amache, in altre
notti erano tormentati dalle zanzare.
A mano a mano che procedevano, la vegetazione diventava più fitta.
Gli argini erano come “dirupi” viventi65, pareti verdi coperte di foglie
e liane – così Humboldt li descrisse. Ben presto non poterono più
trovare uno spazio in cui dormire e neanche scendere dalla canoa per
andare a riva. Ma almeno il tempo migliorava e Humboldt poté fare le
osservazioni necessarie per la sua mappa. Poi, passati dieci giorni da
quando erano entrati nel Casiquiare, raggiunsero di nuovo l’Orinoco: i
missionari avevano ragione66. Non ci fu bisogno di percorrere tutto il
tragitto verso sud fino al Rio delle Amazzoni, perché Humboldt aveva
dimostrato che il Casiquiare era una via d’acqua naturale tra l’Orinoco
e il Rio Negro. Poiché il Rio Negro era un affluente del Rio delle
Amazzoni, era evidente che i bacini dei due grandi fiumi erano
collegati. E benché Humboldt non avesse “scoperto” il Casiquiare,
aveva stilato una mappa dettagliata del complesso sistema di affluenti
di questi fiumi. Questa mappa rappresentava un grande passo avanti
rispetto a quelle che l’avevano preceduta, che, diceva, erano opere di
fantasia, come se “fossero state inventate di sana pianta a Madrid”67.
Il 13 giugno 1800, dopo aver ridisceso la corrente del fiume verso
nord e poi verso est per altre tre settimane, arrivarono ad Angostura68
(oggi Ciudad Bolívar), una piccola, animata città sull’Orinoco, un po’
meno di 400 chilometri a sud di Cumaná. Dopo 2.250 chilometri e
settantacinque giorni di faticoso viaggio su fiumi, Angostura con i suoi
6.000 abitanti a Humboldt e Bonpland sembrò una metropoli. Anche
gli alloggi più umili apparivano bellissimi e la minima comodità era
percepita come un lusso. Lavarono gli abiti, ordinarono le collezioni e
si prepararono per il viaggio di ritorno attraverso gli Llanos.
Erano sopravvissuti a zanzare, giaguari, fame e altri pericoli ma,
proprio quando pensavano che il peggio fosse passato, Bonpland e
Humboldt furono improvvisamente colpiti da una febbre violenta69.
Humboldt si riprese rapidamente, ma Bonpland si trovò presto a
lottare per la vita. Quando, dopo due lunghe settimane, la febbre
cominciò a scendere subentrò la dissenteria. Imbarcarsi nel lungo
viaggio di ritorno attraverso gli Llanos nel pieno della stagione delle
piogge sarebbe stato troppo pericoloso per Bonpland. Aspettarono un
mese ad Angostura, finché Bonpland non riprese forze sufficienti per
affrontare il viaggio fino alla costa, dove intendevano noleggiare
un’imbarcazione per raggiungere Cuba e di lì Acapulco, in Messico. Di
nuovo i bauli furono caricati su muli, con le gabbie delle scimmie e dei
pappagalli che penzolavano ai loro fianchi70. Le nuove collezioni
avevano aggiunto così tanto peso ai bagagli che ora avanzavano
terribilmente a rilento71. Alla fine di luglio del 1800, uscirono dalla
foresta pluviale negli spazi aperti degli Llanos. Dopo settimane nel
fitto della giungla dove le stelle sembrava di vederle come dal fondo di
un pozzo, fu una rivelazione. Humboldt provò un tale senso di libertà
che gli venne voglia di galoppare attraverso le vaste pianure. La
sensazione di “vedere” tutto ciò che lo circondava gli sembrò del tutto
nuova. “L’infinito dello spazio, come hanno detto i poeti in tutte le
lingue”, meditava Humboldt, “si riflette dentro di noi.”72
Nei quattro mesi trascorsi da quando avevano visto per la prima
volta gli Llanos, la stagione delle piogge aveva trasformato le steppe
desolate quasi in un paesaggio marino, in cui grandi laghi e fiumi di
nuovo pieni erano circondati da tappeti di erba fresca73. Ma poiché
“l’aria diventava acqua”74, era ancora più caldo di quanto lo era stato
durante la loro prima traversata. Prati e fiori diffondevano il loro dolce
profumo per tutta la distesa, i giaguari si nascondevano nell’erba alta e
nelle prime ore del mattino migliaia di uccelli cantavano. La piatta
monotonia degli Llanos era interrotta soltanto da qualche isolata
palma Mauritia. Alte e slanciate, queste palme protendevano le loro
fronde dalle lunghe dita come enormi ventagli. Ora erano cariche di
lucenti frutti rossastri commestibili che a Humboldt ricordavano le
pigne degli abeti e che sembravano esercitare una particolare attrattiva
sulle scimmie, che si allungavano attraverso le sbarre delle gabbie per
afferrarle. Humboldt aveva già visto le palme nella foresta pluviale, ma
qui negli Llanos avevano una funzione specifica.
Palme Mauritia (Mauritia flexuosa)

“Abbiamo osservato con stupore la quantità di cose che sono


connesse con l’esistenza di una sola pianta”75, riferiva. I frutti della
Mauritia attiravano gli uccelli, le foglie facevano scudo contro il vento
e la terra che vi era stata sospinta e si era accumulata dietro ai tronchi
tratteneva più umidità che in qualunque altro posto negli Llanos,
dando asilo a insetti e vermi. La sola vista di quelle palme, pensava
Humboldt, suscitava una sensazione di “fresco”76. Quest’unico albero,
diceva, “diffonde vita tutt’intorno nel deserto”77. Humboldt aveva
scoperto il concetto di “specie chiave di volta”, una specie essenziale
per un ecosistema come la chiave di volta lo è per un arco, almeno 200
anni prima che gli venisse attribuito un nome. Per lui la palma
Mauritia era “l’albero della vita”78 – il simbolo perfetto della natura
concepita come un organismo vivente.
1. Se non diversamente indicato, AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, pp. 273 sgg.; AH, 6
marzo-27 marzo 1800, AH Venezuela 2000, pp. 222 sgg.
2. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 263.
3. Ivi, p. 293.
4. Ritratto di AH di Friedrich Georg Weitsch del 1806, oggi alla Alte Nationalgalerie a Berlino.
5. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, pp. 319 sgg.; AH, 6-27 marzo 1800, AH Venezuela
2000, pp. 223-34.
6. AH Views 2014, p. 29; AH Aspects 1849, vol. 1, p. 2; AH Ansichten 1849, vol. 1, p. 4; AH
Ansichten 1808, p. 3.
7. AH Aspects 1849, vol. 1, pp. 22-3; AH Views 2014, pp. 39-40; AH Ansichten 1849, pp. 32-4;
Personal Narrative 1814-29, vol. 4, pp. 347 sgg.
8. AH Views 2014, p. 40; AH Aspects 1849, vol. 1, p. 23; AH Ansichten 1849, vol. 1, p. 34.
9. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, pp. 390 sgg. e vol. 5.
10. AH, 30 marzo 1800, AH Venezuela 2000, p. 239.
11. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 419.
12. AH a WH, 17 ottobre 1800, AH WH Lettere 1880, p. 15.
13. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, p. 310.
14. AH, 30 marzo-23 maggio 1800, AH Venezuela 2000, pp. 241-2.
15. Ivi, p. 255.
16. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, pp. 433, 436, 535, vol. 5, p. 442.
17. Ivi, vol. 5, p. 287.
18. AH, 30 marzo-23 maggio 1800, AH Venezuela 2000, p. 244.
19. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 446; AH, 2 aprile 1800, AH Venezuela 2000, p.
249.
20. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 5, p. 528.
21. AH Aspects 1849, vol. 1, p. 270; AH Views 2014, p. 146; AH Ansichten 1849, vol. 1, p. 333.
22. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 505.
23. AH, 31 marzo 1800, AH Venezuela 2000, p. 240.
24. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, pp. 523-4.
25. Ivi, p. 527.
26. AH, 30 marzo-23 maggio 1800, AH Venezuela 2000, p. 266.
27. AH Views 2014, p. 147; AH Aspects 1849, vol. 1, p. 272; AH Ansichten 1849, vol. 1, p. 337.
28. AH a Baron von Forell, 3 febbraio 1800, Bruhns 1873, vol. 1, p. 274.
29. Personal Narrative 1814-29, vol. 5, p. 290.
30. AH Aspects 1849, vol. 1, pp. 270 sgg.; AH Views 2014, pp. 146-7; AH Ansichten 1849, vol.
1, pp. 333-5; AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, pp. 436 sgg.
31. AH Views 2014, p. 146; AH Aspects 1849, vol. 1, p. 270; AH Ansichten 1849, vol. 1, p. 334.
32. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 437.
33. Ivi, vol. 2, p. 15.
34. AH Views 2014, p. 36; AH Aspects 1849, vol. 1, p. 15; AH Ansichten 1849, vol. 1, p. 23.
35. Worster 1977, p. 35.
36. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 421.
37. AH Aspects 1849, vol. 1, p. 15; AH Views 2014, p. 37; AH Ansichten 1849, vol. 1, p. 23.
38. AH, 30 marzo-23 maggio 1800, AH Venezuela 2000, p. 262
39. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 5, pp. 1 sgg.; AH Aspects 1849, vol. 1, pp. 219 sgg.; AH
Views 2014, pp. 123 sgg.; AH Ansichten 1849, vol. 1, pp. 268 sgg.
40. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 5, p. 139.
41. Ivi, vol. 4, p. 496; AH, 6 aprile 1800, AH Venezuela 2000, p. 258.
42. Bonpland a AH, 6 aprile 1800, AH Venezuela 2000, p. 258.
43. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 496.
44. Ivi, vol. 5, pp. 87, 112; AH, 15 aprile 1800, AH Venezuela 2000, pp. 260-61.
45. AH, 15 aprile 1800, AH Venezuela 2000, p. 261.
46. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 5, pp. 103-4.
47. AH, 15 aprile 1800, AH Venezuela 2000, p. 262.
48. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 510.
49. Ivi, vol. 4, pp. 534-6 e vol. 5, p. 406; AH, 15 aprile 1800, AH Venezuela 2000, p. 260.
50. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 5, p. 441.
51. Ivi, vol. 4, p. 320; vol. 5, pp. 363, 444; AH, 15 aprile 1800, AH Venezuela 2000, p. 260; AH
a WH, 17 ottobre 1800, AH WH Lettere 1880, p. 17.
52. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 5, pp. 365, 541; successivamente Humboldt le
denominò Bertholletia excelsa, dal nome dello scienziato francese Claude Louis Berthollet.
53. Ivi, p. 256.
54. AH, aprile 1800, AH Venezuela 2000, p. 250.
55. AH, aprile-maggio 1800, AH Venezuela 2000, p. 285; vedi anche pp. 255, 286.
56. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 5, p. 309; per l’adorazione della natura vedi vol. 3, p.
213; per i migliori osservatori della natura, vedi AH, “Indios, Sinnesschärfe”, Guayaquil, 4
gennaio-17 febbraio 1803, AH Lateinamerika 1982, pp. 182-3.
57. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, pp. 532 sgg.
58. Ivi, vol. 5, p. 234.
59. Ivi, vol. 4, p. 549, vol. 5, p. 256.
60. AH, marzo 1801, AH Lateinamerika 1982, p. 176.
61. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 5, p. 443.
62. Ivi, pp. 2, 218; AH Aspects 1849, vol. 1, pp. 216, 224, 231; AH Views 2014, pp. 121, 126,
129; AH Ansichten 1849, vol. 1, pp. 263, 276, 285.
63. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 134.
64. Ivi, vol. 5, pp. 399-400, 437, 442.
65. Ivi, p. 441.
66. Ivi, p. 448.
67. AH, maggio 1800, AH Venezuela 2000, p. 297.
68. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 5, pp. 691-2.
69. Ivi, pp. 694 sgg.
70. Ivi, vol. 6, p. 7.
71. Ivi, pp. 2-3.
72. Ivi, p. 69.
73. AH Aspects 1849, vol. 1, pp. 19 sgg.; AH Views 2014, pp. 38 sgg.; AH Ansichten 1849, vol.
1, pp. 29 sgg.
74. AH, marzo 1800, AH Venezuela 2000, p. 231. Benché sia un’annotazione del mese di
marzo, AH qui si riferiva alla successiva esperienza di luglio: l’annotazione fu aggiunta dopo.
75. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 6, p. 7.
76. Ivi, vol. 4, p. 334.
77. Ivi, vol. 6, p. 8.
78. AH Views 2014, p. 36; AH Aspects 1849, vol. 1, pp. 15, 181; AH Ansichten 1849, vol. 1, p.
23.
Capitolo sesto

Attraverso le Ande

Dopo sei mesi di viaggio estenuante nella foresta pluviale e negli


Llanos, alla fine di agosto del 1800 Humboldt e Bonpland tornarono a
Cumaná. Erano esausti, ma non appena si furono ripresi ed ebbero
finito di ordinare le loro collezioni partirono di nuovo. Alla fine di
novembre salparono verso nord per raggiungere Cuba, dove
arrivarono a metà dicembre. Ma all’inizio del 1801 una mattina, a
L’Avana, mentre si preparavano a partire per il Messico, Humboldt
aprì i giornali e lesse un articolo che lo costrinse a cambiare i suoi
programmi. Il giornale riferiva che il capitano Nicolas Baudin, alla cui
spedizione aveva cercato di unirsi tre anni prima in Francia, alla fine
era salpato per fare il giro del mondo. Nel 1798, quando Humboldt
cercava un passaggio per lasciare l’Europa, il governo francese non era
stato in grado di finanziargli il viaggio, ma ora, lesse Humboldt,
Baudin aveva ottenuto due navi – la Géographe e la Naturaliste – e si
stava dirigendo in Sud America, per poi navigare attraverso il Pacifico
meridionale verso l’Australia.
Humboldt ipotizzò che la rotta più ovvia per Baudin prevedesse di
fermarsi a Lima e calcolò che, se tutto andava per il verso giusto, la
Géographe e la Naturaliste vi sarebbero verosimilmente arrivate alla
fine del 1801. I tempi erano stretti, ma Humboldt decise ugualmente di
tentare: voleva raggiungere Baudin in Perù per proseguire insieme
verso l’Australia, anziché andare in Messico1. Ovviamente Humboldt
non aveva modo di far sapere a Baudin dove e quando darsi
appuntamento, né era sicuro che il capitano intendesse navigare via
Lima o se sulla nave c’era posto per altri due scienziati. Ma più erano
gli ostacoli che si frapponevano sul suo cammino e più “acceleravano
l’attuazione dei miei piani”2.
Per mettere in sicurezza le loro collezioni ed evitare di portarsele in
giro per il mondo, Humboldt e Bonpland si misero freneticamente a
fare copie di appunti e manoscritti. Ordinarono e imballarono tutto ciò
che avevano accumulato nell’ultimo anno e mezzo per spedirlo in
Europa. “Non era affatto certo, anzi era piuttosto improbabile”3,
scrisse Humboldt a un amico a Berlino, che lui e Bonpland riuscissero
a sopravvivere a un viaggio attorno al globo, pertanto era sensato che
almeno una parte dei loro tesori andasse in Europa. Con sé tennero
solamente un piccolo erbario – un libro pieno di esemplari di piante
pressati – in modo da poter comparare ogni nuova specie che avessero
trovato. Un erbario più grande sarebbe rimasto a L’Avana fino al loro
ritorno.
Con le nazioni europee tuttora in guerra, i viaggi per mare restavano
pericolosi e Humboldt temeva che i suoi preziosi esemplari potessero
esser catturati da uno dei tanti vascelli nemici. Per distribuire il
rischio, Bonpland suggerì di suddividere la collezione4. Un grosso
lotto fu spedito in Francia e un altro in Germania, via Inghilterra, con
l’indicazione che qualora fosse finito in mani nemiche venisse
inoltrato a Joseph Banks a Londra. Da quando era tornato dal viaggio
di Cook sulla Endeavour, trent’anni prima, Banks aveva messo in
piedi una rete di raccolta di esemplari botanici di livello mondiale e di
così ampio respiro che capitani di marina di tutti i paesi conoscevano il
suo nome. Inoltre, Banks aveva sempre cercato di aiutare gli scienziati
francesi procurando loro passaporti, nonostante le guerre
napoleoniche, nella convinzione che la comunità scientifica
internazionale trascendesse gli interessi bellici e nazionali. “Due
nazioni possono essere in pace sul piano scientifico”, diceva, “anche se
sul piano politico sono in guerra.”5 Gli esemplari di Humboldt con
Banks sarebbero stati al sicuro* 6.
Humboldt inviò lettere a casa, assicurando a familiari e amici di non
essere mai stato così felice e in buona salute7. Descrisse
dettagliatamente le loro avventure, dai rischi corsi a causa di giaguari e
serpenti, ai magnifici paesaggi tropicali, ai fiori straordinari. Non
seppe resistere alla tentazione di concludere una lettera alla moglie di
uno dei suoi più intimi amici con un: “e tu, cara, come va la tua vita
monotona?”8
Imbucate le lettere e spedite le collezioni, a metà marzo del 1801
Humboldt e Bonpland salparono da Cuba per Cartagena sulla costa
settentrionale della Nuova Granada * (oggi Colombia). Arrivarono due
settimane dopo, il 30 marzo. Ancora una volta, tuttavia, Humboldt
aggiunse una deviazione – non solo avrebbe tentato di raggiungere
Lima alla fine di dicembre per congiungersi alla spedizione di Baudin,
ma lo avrebbe fatto via terra, anziché seguendo la più semplice rotta
marittima. Per strada, Humboldt e Bonpland avrebbero attraversato,
scalato ed esplorato le Ande – la catena montuosa che corre da nord a
sud, in numerose dorsali, per tutta la lunghezza del Sud America per
un totale di circa 7.500 chilometri, dal Venezuela e dalla Colombia al
nord fin giù alla Tierra del Fuego. Era la catena montana più lunga del
mondo e Humboldt voleva scalare il Chimborazo, un bel vulcano
incappucciato di neve a sud di Quito, nell’odierno Ecuador. Allora si
riteneva che il Chimborazo, con i suoi 6.300 metri, fosse la montagna
più alta del mondo.
Questo viaggio di circa 4.000 chilometri da Cartagena a Lima
avrebbe portato gli uomini attraverso uno dei paesaggi più ostici che si
possano immaginare, spingendoli ai limiti delle loro capacità fisiche.
Li lusingava l’idea di attraversare regioni in cui nessuno scienziato era
mai stato prima di allora. “Quando uno è giovane e attivo”9, diceva
Humboldt, è facile non pensare troppo alle incertezze e ai pericoli. Se
volevano incontrarsi con Baudin a Lima avevano meno di nove mesi.
Prima si sarebbero mossi da Cartagena lungo il Rio Magdalena verso
Bogotá – oggi capitale della Colombia. Di qui, si sarebbero messi in
marcia attraverso le Ande fino a Quito per poi spingersi ancora più a
sud per tutto il tragitto restante fino a Lima. “Con l’energia”, si diceva
Humboldt, si può “superare ogni difficoltà”10.
Sulla strada verso sud, Humboldt voleva anche incontrare il celebre
botanico spagnolo José Celestino Mutis, che viveva a Bogotá11. Il
sessantanovenne Mutis era arrivato dalla Spagna quarant’anni prima e
aveva guidato diverse spedizioni nella regione. Nessun altro botanico
ne sapeva quanto lui sulla flora sudamericana e a Bogotá Humboldt
sperava di poter confrontare le sue collezioni con quelle che Mutis
aveva accumulato nella sua lunga carriera. “Mutis, è così vicino!”12,
pensava quando arrivarono a Cartagena, da dove inviò al botanico
“una lettera molto falsa”, infarcita di elogi e adulazione. L’unico
motivo per cui aveva scelto di non viaggiare da Lima a Cartagena via
mare, optando per il percorso ben più arduo attraverso le Ande, era
poterlo incontrare, strada facendo, a Bogotá.
Il 6 aprile, lasciarono Cartagena per raggiungere il Rio Magdalena a
un centinaio di chilometri verso est. Camminavano attraverso fitte
foreste illuminate da lucciole – le loro “guide segnaletiche”13 nel buio,
diceva Humboldt – e trascorsero qualche nottataccia dormendo sui
soprabiti sulla dura terra. Dopo due settimane, spinsero una canoa nel
Rio Magdalena, percorrendolo in direzione sud verso Bogotá. Per un
paio di mesi remarono risalendo il fiume contro una forte corrente,
lungo le fitte foreste che lo costeggiavano. Era la stagione delle piogge
e di nuovo s’imbatterono in coccodrilli, zanzare e in una
insopportabile umidità14. Il 15 giugno arrivarono a Honda15, piccolo
porto fluviale con circa 4.000 abitanti, a meno di 150 chilometri a
nord-ovest di Bogotá. Ora dovevano inerpicarsi dalla valle del fiume su
per scoscesi sentieri irregolari fino a un altopiano a 2.700 metri di
altezza, dove si adagiava Bogotá. Bonpland lottava contro l’aria
rarefatta, sentendosi nauseato e febbricitante16. Ciò rese il viaggio
estenuante, ma il loro arrivo a Bogotá l’8 luglio 1801 fu un trionfo17.
Accolti da Mutis e dai luminari cittadini, i due uomini si trovarono
sospinti in un vortice di feste. Da decenni non si vedevano a Bogotá
tanti festeggiamenti. A Humboldt le cerimonie ufficiali non erano mai
piaciute, ma Mutis gli spiegava che bisognava sopportarle, in onore del
viceré e dei maggiorenti cittadini. Poi l’anziano botanico aprì i suoi
armadi. Mutis aveva anche uno studio di disegno botanico dove
trentadue artisti, tra cui alcuni indios, avrebbero alla fine prodotto
6.000 differenti acquerelli di piante indigene18. Non solo: Mutis
possedeva così tanti libri di botanica, come raccontò più tardi
Humboldt al fratello, che solo la biblioteca di Joseph Banks a Londra
superava quella collezione19. Era una risorsa di valore incalcolabile:
erano passati due anni da quando Humboldt aveva lasciato l’Europa
ed era la prima volta che poteva sfogliare un’ampia selezione di libri,
verificando e comparando e facendo rimandi incrociati con le proprie
osservazioni. La visita portò vantaggi a entrambi. Mutis era lusingato,
perché poteva sfoggiare il fatto che uno scienziato europeo aveva
compiuto quella pericolosa deviazione solo per vedere lui; Humboldt,
dal suo canto, usufruiva delle informazioni botaniche che gli
occorrevano.
La traversata delle Ande su muli stracarichi

Poi, mentre si preparavano a lasciare Bogotá, Bonpland fu colpito


da un nuovo episodio delle sue febbri ricorrenti. Gli ci volle qualche
settimana per rimettersi, rendendo ancora più scarso il tempo a
disposizione per attraversare le Ande e raggiungere Lima20. L’8
settembre, esattamente due mesi dopo il loro arrivo, alla fine dissero
addio a Mutis, che li rifornì di tanto di quel cibo da costringere i loro
tre muli a grandi sforzi per trasportarlo tutto21. Il resto del bagaglio fu
suddiviso tra altri otto muli e buoi, ma a portare gli strumenti più
delicati erano cinque portatori, cargueros locali22, oltre a José –
l’inserviente che li aveva accompagnati nei due anni trascorsi dal loro
arrivo a Cumaná23. Erano pronti per le Ande, anche se le condizioni
atmosferiche non avrebbero potuto essere peggiori.
Da Bogotá attraversarono la prima catena montuosa lungo il passo
Quindío, una pista ad almeno 3.700 metri di altezza nota per essere la
più difficile e pericolosa di tutte le Ande. Lottando contro temporali,
pioggia e una tormenta di neve avanzarono lungo un sentiero melmoso
che spesso non era più largo di venti centimetri24. “Questi sono i
sentieri delle Ande a cui uno deve affidare i suoi manoscritti,
strumenti e collezioni”25, scrisse Humboldt nel diario. Era sorpreso da
come i muli riuscivano a mantenere l’equilibrio, anche se, più che
camminando, procedevano cadendo e rialzandosi in uno sdrucciolone
dopo l’altro26. Quando le giare di vetro che li contenevano andarono
tutte quante in frantumi persero i pesci e i rettili che si erano portati
dal Rio Magdalena. Nel giro di pochi giorni le loro scarpe erano state
ridotte a brandelli dalle radici di bambù che crescevano nel fango e
dovettero proseguire a piedi nudi.
Procedevano a rilento in direzione sud verso Quito, attraversando
montagne e vallate. In un continuo saliscendi, passavano da violente
tormente di neve al caldo tropicale delle foreste pluviali. A volte
camminavano in burroni bui, così profondi e stretti che dovevano farsi
strada brancolando alla cieca lungo le pareti rocciose, altre volte
attraversavano assolate praterie nelle vallate. In certe mattine le cime
incappucciate si stagliavano contro una cupola azzurra immacolata, in
altre erano avviluppate in nubi così spesse che non si vedeva niente27.
In alto sopra di loro, giganteschi condor delle Ande dispiegavano ali
lunghe tre metri scivolando solitari contro il cielo – di un nero
solenne, eccetto un collare di penne bianche e le frange bianche delle
ali che luccicavano come specchi28 contro il sole di mezzogiorno. Una
notte, più o meno a metà strada nel loro viaggio tra Bogotá e Quito,
videro lingue di fiamme che fuoriuscivano dal vulcano Pasto e
lambivano l’oscurità del cielo29.
Una veduta di Quito, per alcuni mesi base della spedizione di Humboldt

Humboldt non si era mai sentito così lontano da casa. Se moriva


ora, ci sarebbero voluti mesi o anche anni prima che amici e parenti lo
venissero a sapere. E non aveva alcuna idea di cosa tutti loro stessero
facendo. Per esempio: Wilhelm era ancora a Parigi? O forse lui e
Caroline erano ritornati in Prussia? Quanti bambini avevano ora? Da
quando era partito dalla Spagna due anni e mezzo prima, Humboldt
aveva ricevuto soltanto una lettera dal fratello e due da un vecchio
amico – e ciò risaliva a più di un anno prima. Da qualche parte tra
Bogotá e Quito, il senso di solitudine provato da Humboldt diventò
così forte che scrisse una lunga lettera a Wilhelm, descrivendogli
dettagliatamente le loro avventure a partire dall’arrivo in Sud America.
“Non mi stancherò mai di inviare lettere in Europa”30, cominciava.
Sapeva che ben difficilmente la lettera sarebbe giunta a destinazione,
ma non importava. Scriveva da un remoto villaggio andino; eppure
mai come quella notte aveva dialogato con il fratello così da vicino.
Il giorno dopo si alzarono presto per proseguire il viaggio. A volte,
burroni di centinaia di metri si aprivano a strapiombo sotto sentieri
così stretti che i loro preziosi strumenti e le collezioni oscillavano
pericolosamente sull’abisso dalle groppe dei muli31. Erano momenti
di tensione, soprattutto per José che era responsabile del barometro,
lo strumento più importante della spedizione, senza il quale Humboldt
non avrebbe potuto determinare l’altezza delle montagne. Il barometro
era un lungo bastone di legno in cui era stato inserito un tubo di vetro
che conteneva il mercurio. E benché Humboldt avesse progettato
un’apposita custodia per questo particolare barometro da viaggio, il
vetro poteva pur sempre rompersi con grande facilità. Questo
strumento gli era costato 12 talleri, ma alla fine della quinquennale
spedizione il prezzo era salito a 800 – calcolò Humboldt più tardi,
considerando anche le paghe alle persone assunte per trasportarlo in
sicurezza attraverso l’America Latina32.
Dei suoi vari barometri soltanto questo era rimasto intatto. Qualche
settimana prima, quando il penultimo era andato in frantumi nel
percorso da Cartagena al Rio Magdalena, Humboldt era caduto in tale
stato di depressione che in mezzo alla piazza di una cittadina crollò al
suolo. Mentre giaceva sulla schiena e guardava in su il cielo sopra di
lui, così lontano da casa e dai fabbricanti europei di strumenti, aveva
esclamato: “Beati quelli che viaggiano senza strumenti che si possono
rompere!”33. Senza di loro, si chiedeva, come diavolo avrebbe fatto a
misurare e comparare le montagne del globo?

Quando finalmente arrivarono a Quito ai primi di gennaio del 1802,


2.000 chilometri circa e nove mesi dopo aver lasciato Cartagena,
appresero che quanto era stato loro riferito riguardo al capitano
Baudin non rispondeva al vero. Baudin non stava affatto navigando
verso l’Australia via Sud America, ma si stava dirigendo verso il Capo
di Buona Speranza in Sudafrica, per poi traversare l’Oceano Indiano.
Chiunque si sarebbe disperato. Ma non Humboldt: ora perlomeno non
c’era più nessuna fretta di raggiungere Lima, rifletté, e avrebbe
pertanto avuto tempo per scalare tutti i vulcani che voleva
esplorare34.
Humboldt aveva due ragioni particolari per interessarsi ai vulcani.
In primo luogo voleva accertare se erano eventi “locali” a sé stanti o se
erano collegati l’un l’altro nel sottosuolo. Se non erano dei puri e
semplici fenomeni locali, ma si trattava piuttosto di gruppi o grappoli
che si allungavano su distanze molto estese, c’era la possibilità che vi
fosse un collegamento che passava per il centro della terra. La seconda
ragione era che lo studio dei vulcani poteva offrire una risposta alla
questione della stessa creazione della terra.
Alla fine del diciottesimo secolo alcuni scienziati avevano
cominciato a ipotizzare che la terra fosse più antica della Bibbia, ma su
come si fosse formata non si trovavano d’accordo. I cosiddetti
“nettunisti” ritenevano che la forza determinante fosse stata l’acqua,
che avrebbe creato le rocce attraverso un processo di sedimentazione e
poi avrebbe lentamente determinato la nascita di montagne, minerali
e formazioni geologiche emergenti da un oceano primordiale. Altri, i
“vulcanisti”, sostenevano che tutto avesse avuto origine attraverso
eventi catastrofici come ad esempio le eruzioni vulcaniche. Il pendolo
continuava a oscillare tra queste due scuole di pensiero. Tra i problemi
incontrati dagli scienziati europei vi era il fatto che le loro conoscenze
erano quasi interamente limitate ai due soli vulcani attivi in Europa –
l’Etna e il Vesuvio, entrambi in Italia. Ora Humboldt aveva
l’opportunità di ispezionare più vulcani di chiunque altro prima di lui.
Convinto che questa fosse la chiave che spiegava la creazione della
terra, vi si appassionò a tal punto che più tardi Goethe così scherzava,
in una lettera di presentazione per un’amica: “poiché fai parte della
squadra dei naturalisti convinti che tutto abbia avuto origine dai
vulcani, ti mando un vulcano femmina che infiamma e brucia tutto
quel che resta”35.
Essendosi infranto il progetto di unirsi alla spedizione di Baudin,
Humboldt usò la sua nuova base di Quito per scalare sistematicamente
tutti i vulcani raggiungibili, senza preoccuparsi di quanto fossero
pericolosi. Era così indaffarato da destare costernazione nei salotti
della buona società di Quito. Il suo bell’aspetto aveva attirato
l’attenzione di diverse giovani donne in età da marito, ma lui a una
cena o altri eventi sociali “non si fermava mai più di quanto era
strettamente necessario”36 – ebbe a dire Rosa Montúfar, la figlia del
governatore provinciale, nota per la sua bellezza. A Humboldt sembra
piacere di più starsene all’aria aperta che in compagnia di donne
attraenti, lamentava.
Ironia della sorte, il bel fratello di Rose, Carlos Montúfar, divenne il
compagno di Humboldt – un tipo di amicizia che si ripeté più volte
nella sua vita. Non si sposò mai – una volta disse che un uomo sposato
è “un uomo perso”37 – né sembra aver mai avuto una relazione intima
con una donna. Si infatuava invece regolarmente per i suoi amici, cui
scriveva lettere nelle quali confessava il suo amore “incondizionato” e
“fervente”38. E per quanto vivesse in tempi in cui per gli uomini non
era affatto inusuale dichiarare sentimenti passionali nelle loro
platoniche amicizie, le dichiarazioni di Humboldt tendevano a essere
un po’ sopra le righe. “Ti ero legato come da catene di ferro”39, scrisse
a un amico, e pianse per lunghe ore quando si separò da un altro40.
Negli anni precedenti il viaggio in Sud America, c’erano state un
paio di amicizie particolarmente intense. Per tutta la vita ebbe
relazioni nelle quali non solo dichiarava il suo amore, ma mostrava
una sottomissione insolita per lui. “I miei piani sono subordinati ai
tuoi”, scrisse a un amico, e “puoi darmi ordini come a un bambino e ti
obbedirò sempre senza lamentarmi”41. Assai diversa era invece
l’amicizia con Bonpland. Lui era “una brava persona”, aveva scritto
Humboldt a un amico alla vigilia della sua partenza dalla Spagna, ma
“nei sei mesi passati mi ha lasciato freddo, voglio dire che con lui ho
un rapporto di natura esclusivamente scientifica”42. Questo esplicito
rimarcare che Bonpland era soltanto un collega di scienze potrebbe
indicare che i suoi sentimenti verso altri uomini erano diversi.
I contemporanei notavano “l’assenza di un vero e proprio amore per
le donne”43 e più tardi un quotidiano, in un articolo che parlava del
suo “compagno di letto”, avrebbe insinuato che poteva essere
omosessuale44. Caroline von Humboldt dichiarò una volta che “niente
avrà mai una grande influenza su Alexander se non proviene da un
uomo”45 e ancora venticinque anni dopo la sua morte il poeta tedesco
Theodor Fontane criticava una biografia di Humboldt che aveva
appena letto per non aver fatto cenno alle sue “anomalie sessuali”46.
Il ventiduenne Carlos Montúfar aveva dieci anni meno di Humboldt,
riccioli scuri, occhi neri e un portamento fiero ed eretto. Sarebbe
rimasto al suo fianco per diversi anni. Montúfar non era uno
scienziato, ma apprendeva in fretta e Bonpland sembrava non curarsi
di questo nuovo venuto nella squadra. Ma altri erano gelosi della
nuova amicizia. Il botanico e astronomo sudamericano José de Caldas
aveva conosciuto Humboldt qualche mese prima, lungo il tragitto
verso Quito, e quando aveva chiesto di unirsi alla spedizione si era
sentito opporre un cortese rifiuto. Seccato, scrisse a Mutis, a Bogotá,
che Montúfar era diventato l’“Adone” di Humboldt47.
Humboldt non spiegò mai esplicitamente la natura di queste
amicizie maschili, ma probabilmente rimasero sempre amicizie
platoniche, perché, ammetteva, “non avverto bisogni sessuali”48.
Scappava invece all’aperto, nella natura selvaggia, o si buttava a
capofitto in faticose attività. L’intenso esercizio fisico gli tirava su il
morale e la natura, diceva, calmava “gli impulsi sregolati delle
passioni”49. E, ancora una volta, si stancava fino allo sfinimento.
Scalava vulcani su vulcani – a volte con Bonpland e Montúfar e a volte
senza di loro, ma sempre con José, che con estrema prudenza portava
il barometro50. Nei cinque mesi che seguirono Humboldt scalò tutti i
vulcani raggiungibili dalla base di Quito.
Uno di questi era il Pichincha, un vulcano a ovest di Quito, dove il
povero José all’improvviso sprofondò e quasi scomparve in uno strato
di neve che, creando una sorta di ponte, copriva un profondo
crepaccio. Riuscì fortunatamente a tirarsi fuori portando in salvo
anche il barometro. Humboldt proseguì fino alla cima, dove si sdraiò,
appiattito su una stretta cengia rocciosa che formava un balcone
naturale affacciato sul profondo cratere. Ogni due o tre minuti, violenti
sussulti scuotevano la piccola piattaforma, ma lui restò imperturbabile
e strisciò fino all’orlo per sbirciare nella bocca del Pichincha.
All’interno guizzavano fiamme bluastre e Humboldt fu quasi soffocato
dai vapori sulfurei51. “La fantasia non avrebbe mai saputo evocare
niente di così sinistro e mortifero come la visione che si aprì davanti ai
nostri occhi”52, disse Humboldt.
Tentò di scalare anche il Cotopaxi, un vulcano perfettamente conico
che, con i suoi 5.900 metri di altezza, è la seconda montagna più alta
dell’Ecuador. Ma la neve e le pendici terribilmente scoscese non gli
permisero di salire oltre i 4.400 metri53. Pur non essendo riuscito a
raggiungere la vetta, la vista del Cotopaxi coperto di neve, che si
stagliava solitario contro l’azzurra “volta del cielo”54, restò una delle
immagini più maestose che avesse mai visto. La sagoma del Cotopaxi
era così perfetta e la sua superficie aveva un aspetto così levigato,
scrisse nel diario, che sembrava creato al tornio da un tornitore di
legno55.
In un’altra occasione, Humboldt e la sua piccola squadra seguirono
un’antica colata di lava congelata che riempiva una valle sotto
Antisana, un vulcano che si elevava fino a 5.704 metri. A mano a mano
che salivano, alberi e arbusti diventavano sempre più piccoli, finché
non raggiunsero il limite della vegetazione arborea e cominciarono a
camminare al di sopra, nel cosiddetto páramo. L’erba della steppa che
cresceva in ciuffi nerastri dava al paesaggio un aspetto piuttosto
brullo, ma osservando più da vicino videro che il terreno era ricoperto
di minuscoli fiori colorati racchiusi stretti stretti in piccoli rosoni di
foglioline verdi. Trovarono piccoli lupini e fragili genziane che
formavano morbidi cuscini simili a muschio. Ovunque si girassero,
delicati fiori viola e azzurri punteggiavano l’erba56.
Faceva anche terribilmente freddo e il vento era così forte da far
cadere più volte Humboldt a terra quando si chinava per cogliere fiori.
Violente folate sferzavano i loro volti con “aghi di ghiaccio”57. Prima
della scalata finale alla vetta dell’Antisana dovettero passare una notte
in quello che Humboldt definì “l’alloggio più alto del mondo”58, un
basso capanno dal tetto di stoppie a quasi 4.000 metri di altezza, che
apparteneva a un proprietario terriero locale. L’ambientazione del
capanno, accucciato nelle pieghe di un altopiano dolcemente ondulato,
mentre la vetta dell’Antisana si ergeva alle loro spalle, lasciava attoniti.
Ma gli uomini, afflitti dal mal d’altitudine e dal freddo e senza niente
da mangiare né candele, dovettero sopportare una delle nottate più
orribili della loro vita.
Quella notte Carlos Montúfar stette così male da far davvero
preoccupare Humboldt, che condivideva il giaciglio con lui59. Per
tutta la notte non fece che alzarsi per prendere un po’ d’acqua e
somministrargli pastiglie. La mattina, Montúfar si era ripreso
abbastanza da accompagnare Humboldt e Bonpland nell’ascensione
finale. Arrivarono a circa 5.490 metri – forse qualcosa di più, annotò
Humboldt con esultanza, più in alto dei due scienziati francesi
Charles-Marie de la Condamine e Pierre Bouguer, che negli anni 1730
erano andati da quelle parti per valutare la forma della terra. Ma si
erano fermati a 4.500 metri60.
Le montagne esercitavano un influsso magico su Humboldt. Non
era soltanto questione della sfida fisica o della promessa di nuove
scoperte. C’era qualcosa di più trascendentale. Ogni volta che stava
dritto in piedi su di una vetta o un alto crinale, si sentiva così preso
dallo scenario che l’immaginazione lo faceva volare ancora più in alto.
Questa immaginazione, diceva, leniva le “ferite profonde” provocate
talvolta dalla “ragione” pura61.
1. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 7, p. 285; AH a Nicolas Baudin, 12 aprile 1801, Bruhns
1873, vol. 1, p. 292; AH a Carl Ludwig Willdenow, 21 febbraio 1801, Biermann 1987, p. 173;
AH, ricordi durante il viaggio da Lima a Guayaquil, 24 dicembre 1802-4 gennaio 1803, AH Río
Magdalena 2003, vol. 2, p. 178; National Intelligencer and Washington Advertiser, 12
novembre 1800.
2. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 7, p. 288.
3. AH a Carl Ludwig Willdenow, 21 febbraio 1801, Biermann 1987, p. 171.
4. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 7, p. 286.
5. Joseph Banks a Jacques Julien Houttou de La Billardière, 9 giugno 1796, Banks 2000, p.
171; vedi anche Wulf 2008, pp. 203-4.
6. (nota a piè di pagina) AH a Banks, 15 novembre 1800, Banks a Jean Baptiste Joseph
Delambre, 4 gennaio 1805, Banks 2007, vol. 5, pp. 63-4, 406.
7. AH a Carl Ludwig Willdenow, 21 febbraio 1801, Biermann 1987, p. 175.
8. AH a Christiane Haeften, 18 ottobre 1800, AH Lettere America 1993, p. 109.
9. AH, 24 dicembre 1802-4 gennaio 1803, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, p. 178.
10. AH, ricordi del viaggio da Lima a Guayaquil, 24 dicembre 1802-4 gennaio 1803, AH Río
Magdalena 2003, vol. 2, p. 178.
11. Ibid.; AH, 23 giugno-8 luglio 1801, AH Río Magdalena 2003, vol. 1, pp. 89 sgg.; AH a WH,
21 settembre 1801, AH WH Lettere 1880, p. 32.
12. AH, 23 giugno-8 luglio 1801, AH Río Magdalena 2003, vol. 1, pp. 89-90.
13. AH, 19 aprile-15 giugno 1801, ivi, pp. 65-6.
14. Ivi, pp. 67-78.
15. AH, 18-22 giugno 1801, ivi, p. 78.
16. AH, 23 giugno-8 luglio 1801, ivi, pp. 85-9.
17. AH a WH, 21 settembre 1801, AH WH Lettere 1880, p. 35; AH, novembre-dicembre 1801,
AH Río Magdalena 2003, vol. 1, pp. 90 sgg. (AH scrisse questa annotazione sul suo diario
dopo aver lasciato Bogotá).
18. Holl 2009, p. 161.
19. AH a WH, 21 settembre 1801, AH WH Lettere 1880, p. 35.
20. AH, novembre-dicembre 1801, AH Río Magdalena 2003, vol. 1, p. 91.
21. AH, 8 settembre 1801, ivi, p. 119.
22. AH, 5 ottobre 1801, ivi, p. 135.
23. AH, 23 giugno-8 luglio 1801, ivi, p. 85.
24. AH Cordilleras 1814, vol. 1, pp. 63 sgg.; AH Cordilleren 1810, vol. 1, pp. 17 sgg.; Fiedler e
Leitner 2000, p. 170.
25. AH, 27 novembre 1801, vedi anche AH, 5 ottobre 1801, AH Río Magdalena 2003, vol. 1, pp.
131, 155.
26. AH, 27 novembre 1801, ivi, p. 151.
27. AH, 14 settembre 1801, ivi, p. 124; AH Cordilleras 1814, vol. 1, p. 64; AH Cordilleren 1810,
vol. 1, p. 19.
28. AH, 22 dicembre 1801, AH Río Magdalena 2003, vol. 1, p. 163.
29. AH, 19 dicembre 1801, ivi, vol. 2, p. 45.
30. AH a WH, 21 settembre 1801, AH WH Lettere 1880, p. 27.
31. AH, 27 novembre 1801, AH Río Magdalena 2003, vol. 1, p. 155.
32. Ivi, p. 152; per José e il barometro vedi AH, 28 aprile 1802, AH Río Magdalena 2003, vol.
2, p. 83; per il barometro da viaggio di AH vedi il ritratto di AH di Friedrich Georg Weitsch del
1806 (oggi alla Alte Nationalgalerie di Berlino); Seeberger 1999, pp. 57-61.
33. Wilson 1995, p. 296; AH, 19 aprile-15 giugno 1801, AH Río Magdalena 2003, vol. 1, p. 66.
34. AH, Aus Meinem Leben (1769-1850), in Biermann 1987, p. 101.
35. Goethe a AH, 1824, Goethe Begegnungen 1965-2000, vol. 14, p. 322.
36. Rosa Montúfar, Beck 1959, p. 24.
37. AH a Carl Freiesleben, 21 ottobre 1793, AH Lettere 1973, p. 280.
38. AH a Wilhelm Gabriel Wegener, 27 marzo 1789 e AH a Carl Freiesleben, 10 aprile 1792,
ivi, pp. 46, 180.
39. AH a Reinhard von Haeften, 1 gennaio 1796, ivi, p. 477.
40. AH a Carl Freiesleben, 10 aprile 1792, ivi, p. 180.
41. AH a Reinhard von Haeften, 1 gennaio 1796, ivi, pp. 478-9.
42. AH a Carl Freiesleben, 4 giugno 1799, ivi, p. 680.
43. Adolph Kohut nel 1871 sul periodo trascorso da AH a Berlino nel 1805, Beck 1959, p. 31.
44. Quarterly Review, vol. 14, gennaio 1816, p. 369.
45. CH a WH, 22 gennaio 1791, WH CH Lettere 1910-16, vol. 1, p. 372.
46. Theodor Fontane a Georg Friedländer, 5 dicembre 1884, Fontane 1980, vol. 3, p. 365.
47. José de Caldas a José Celestino Mutis, 21 giugno 1802, Andress 2011, p. 11; Caldas gli
chiese se poteva unirsi a AH, Holl 2009, p. 166.
48. AH a Archibald MacLean, 6 novembre 1791; vedi anche AH a Wilhelm Gabriel Wegener,
27 marzo 1789, AH Lettere 1973, pp. 47, 157.
49. AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 6: “vom wilden Drange der Leidenschaften bewegt ist”. La
traduzione inglese fu alleggerita con la più mite espressione “passioni degli uomini”; vedi
anche AH a Archibald MacLean, 6 novembre 1791, AH Lettere 1973, p. 157.
50. AH, 28 aprile 1802, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, p. 83.
51. AH scalò il Pichincha tre volte; AH, 14 aprile, 26 e 28 maggio 1802, AH Río Magdalena
2003, vol. 2, pp. 72 sgg., 85 sgg., 90 sgg.; AH a WH, 25 novembre 1802, AH WH Lettere 1880,
pp. 45 sgg.
52. AH a WH, 25 novembre 1802, AH WH Lettere 1880, p. 46.
53. AH, 28 aprile 1802, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, pp. 83 sgg.
54. AH Cordilleras 1814, vol. 1, pp. 121, 125; AH Cordilleren 1810, vol. 1, pp. 59, 62.
55. AH, 28 aprile 1802, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, p. 81.
56. AH, 14-18 marzo 1802, ivi, pp. 57 sgg.
57. Ivi, pp. 57, 62.
58. Ivi, p. 61.
69. Ivi, p. 62.
60. Ivi, p. 65.
500. AH, 22 novembre 1799-7 febbraio 1800, AH Venezuela 2000, p. 179.
*. Da Cumaná, nel novembre del 1800, Humboldt aveva già spedito a Banks due pacchi di
semi per i Kew Gardens e alcune delle sue osservazioni astronomiche. Banks non smise mai di
aiutarlo. In seguito, avrebbe recuperato da un capitano inglese che aveva catturato il vascello
francese una delle sue casse piena di esemplari di roccia raccolti sulle Ande.
*. L’Impero spagnolo in America Latina era diviso in quattro vicereami e alcuni distretti
autonomi come il Capitanato Generale del Venezuela. Il Vicereame della Nuova Granada
comprendeva larga parte dei territori settentrionali del Sud America, coprendo grosso modo
gli odierni Panama, Ecuador e Colombia nonché parti del Brasile nord-occidentale, del Perù
settentrionale e del Costa Rica.
Capitolo settimo

Il Chimborazo

Il 9 giugno 1802 Humboldt lasciò Quito, dove era arrivato cinque mesi
prima. Era ancora intenzionato a raggiungere Lima, anche se non vi
avrebbe trovato il capitano Baudin. Da Lima sperava di trovare un
passaggio per il Messico, altro paese che voleva esplorare1. Ma prima
di tutto avrebbe scalato il Chimborazo – la più grande ossessione della
sua vita. Questo maestoso vulcano inattivo – un “colosso mostruoso”2,
come lui lo descriveva – si trovava a circa 150 chilometri a sud di Quito
e si elevava fino a quasi 6.300 metri *.
Cavalcando verso il vulcano, Humboldt, Bonpland, Montúfar e José
attraversarono la fitta vegetazione tropicale. Nelle vallate ebbero modo
di ammirare le dature con i loro grandi fiori arancioni a forma di
tromba e le brillanti fucsie rosse dai petali scultorei, che sembrano
quasi finti. Poi, a mano a mano che lentamente salivano, quei fiori
voluttuosi furono rimpiazzati da vuote praterie dove pascolavano
mandrie di vicuñas, simili a piccoli lama. Infine, all’orizzonte apparve
il Chimborazo, che, come un duomo maestoso, si ergeva solitario su un
elevato altopiano. Per diversi giorni, mentre si avvicinavano, la
montagna si stagliava contro l’azzurro vivido del cielo senza nessuna
nube a sporcarne l’imponente profilo. Ogni volta che si fermavano, un
eccitatissimo Humboldt tirava fuori il telescopio. Vide un manto di
neve che copriva le pendici e il paesaggio che circondava il vulcano
sembrava brullo e desolato. Fin dove riusciva a vedere, massi
tondeggianti e rocce ricoprivano il suolo3. Era uno scenario
ultraterreno. A quell’epoca Humboldt aveva già scalato tanti vulcani
da essere l’alpinista più esperto al mondo, ma il Chimborazo era una
prospettiva minacciosa anche per lui. Eppure, come poi avrebbe
spiegato, tutto ciò che sembra irraggiungibile “esercita una misteriosa
attrazione”4.
Il Chimborazo incappucciato di neve
Il 22 giugno arrivarono ai piedi del vulcano, dove trascorsero una
notte insonne in un piccolo villaggio. La mattina presto, la squadra di
Humboldt iniziò l’ascensione con un gruppo di portatori locali. A
dorso di mulo attraversarono pianure e pendici erbose fino a 4.110
metri di altezza. Quando il terreno roccioso diventò più scosceso, si
lasciarono gli animali alle spalle e proseguirono a piedi. Il tempo gli si
stava rivoltando contro. La notte aveva nevicato e l’aria era fredda.
Diversamente dai giorni precedenti, la cima del Chimborazo era
avvolta nella nebbia5. Ogni tanto la nebbia si alzava, consentendo loro
una fugace e tuttavia allettante occhiata alla vetta. La giornata sarebbe
stata lunga.
A 4.750 metri i portatori si rifiutarono di proseguire. Humboldt,
Bonpland, Montúfar e José si divisero gli strumenti e proseguirono da
soli. La nebbia avvolgeva nel suo abbraccio la cima del Chimborazo.
Ben presto si ritrovarono tutti e quattro ad avanzare strisciando distesi
lungo un’alta cresta che si restringeva pericolosamente a soli cinque
centimetri con ripidi precipizi a destra e a sinistra – gli spagnoli con
un termine appropriato la chiamavano cuchilla, ovvero “filo del
coltello”6. Humboldt guardava avanti con determinazione, incurante
del gelo che gli aveva intorpidito mani e piedi e del piede che si era
ferito durante una precedente scalata e ora si era infettato. A
quell’altezza ogni passo pesava come piombo. Presi dalla nausea e
storditi per il mal d’altitudine, con gli occhi iniettati di sangue e le
gengive sanguinanti, provavano un senso costante di vertigine che,
ammise più tardi Humboldt, “era molto pericoloso data la situazione
in cui ci trovavamo”7. Sul Pichincha il mal d’altitudine aveva colpito
Humboldt così gravemente da farlo svenire. Qui, sulla cuchilla, poteva
essere fatale.
Malgrado tutte queste difficoltà, mentre salivano Humboldt aveva
ancora la forza di allestire i suoi strumenti ogni qualche centinaio di
metri. Il vento freddo aveva ghiacciato quelli di ottone e maneggiarne
viti e leve tanto delicate con le mani semi-congelate era quasi
impossibile. Ficcava il termometro nel terreno, leggeva il barometro e
raccoglieva campioni di aria per analizzarne i componenti chimici.
Misurava l’umidità e verificava il punto di ebollizione dell’acqua a
differenti altitudini8. Scalciavano anche sassi tondeggianti giù per le
pendici scoscese per vedere fino a che distanza continuavano a
rotolare.
Dopo un’ora di insidiosa scalata, la cresta divenne un po’ meno
ripida, ma le rocce affilate fecero a brandelli le loro scarpe e i piedi
cominciarono a sanguinare. Poi, all’improvviso, la nebbia si sollevò
svelando la vetta imbiancata del Chimborazo che luccicava sotto il
sole, a circa 300 metri sopra di loro. Ma proprio allora videro anche
che la stretta cresta era finita: al suo posto, davanti a loro si apriva la
bocca di un enorme crepaccio. Per aggirarlo, avrebbero dovuto
camminare nella neve alta, ma era l’una del pomeriggio e il sole aveva
sciolto la crosta di ghiaccio che la ricopriva. Quando Montúfar provò
con grande circospezione a camminarci sopra, sprofondò fin quasi a
scomparire. Non c’era modo di passare. Mentre sostavano Humboldt
tirò di nuovo fuori il barometro e misurò l’altezza: si trovavano a 5.917
metri9. Anche se non fossero riusciti ad arrivare fino in cima, era come
essere sul tetto del mondo. Nessuno aveva mai raggiunto
quell’altitudine – neanche i pionieristici aeronauti in Europa.
Guardando giù le pendici del Chimborazo e le catene montuose che
si estendevano in lontananza, tutto ciò che Humboldt aveva visto negli
anni precedenti gli si affollò davanti agli occhi. Suo fratello Wilhelm
aveva sempre pensato che Humboldt avesse una mente fatta “per
connettere idee, individuare catene di cose”10. Quel giorno, stando
immobile in piedi sul Chimborazo, Humboldt assorbiva tutto ciò che
aveva di fronte, mentre la sua mente tornava a tutte le piante, le
formazioni rocciose e le misurazioni che aveva visto ed effettuato sulle
pendici delle Alpi, sui Pirenei e a Tenerife. Tutto quello che aveva
osservato nel tempo trovava la sua collocazione; la natura, realizzò, è
una rete vitale e una forza globale. Come più tardi avrebbe detto un
collega, fu il primo a capire che tutto è intrecciato, come un unico
tessuto fatto “di migliaia di fili”11. Questa nuova idea di natura era
destinata a cambiare la visione che il genere umano ha del mondo.
Humboldt era colpito “dalle somiglianze che riscontriamo in climi
che sono quanto più possibile distanti tra di loro”12. Nelle Ande, per
esempio, cresceva un muschio che gli ricordava una specie
proveniente dalle foreste della Germania settentrionale, lontane
migliaia di chilometri. Sulle montagne nei dintorni di Caracas aveva
osservato piante a forma di rododendro – che lui chiamava rosi
alpini13 – che assomigliavano a quelle che si trovano sulle Alpi
svizzere. Più tardi, in Messico, avrebbe trovato pini, cipressi e querce
simili a quelli che crescevano in Canada14. Si potevano trovare piante
alpine sulle montagne della Svizzera e in Lapponia, come qui sulle
Ande. Tutto era connesso15.
Per Humboldt i giorni trascorsi facendo escursioni da Quito e poi
scalando il Chimborazo erano stati come un viaggio botanico che
partiva dall’Equatore in direzione dei poli, con l’intero mondo vegetale
che sembrava disposto in strati sovrapposti a mano a mano che le zone
di vegetazione risalivano la montagna: i gruppi di piante spaziavano
dalle specie tropicali giù nelle valli ai licheni incontrati in prossimità
della linea delle nevi perenni16. Verso la fine della sua vita, spesso
Humboldt parlava dell’esigenza di capire la natura da “un punto di
vista più alto”17, dal quale si potessero vedere le connessioni. Il
momento in cui lo aveva compreso era qui, sul Chimborazo, dove con
“un’unica occhiata”18 vedeva dispiegarsi davanti a sé l’insieme della
natura.

Quando tornarono dal Chimborazo, Humboldt era pronto per


formulare la sua nuova visione della natura. Sulle colline
pedemontane delle Ande, cominciò a tratteggiare la sua cosiddetta
Naturgemälde19 – un termine tedesco intraducibile che può
significare “descrizione della natura”, implicando tuttavia anche un
senso di unità o interezza. “Un microcosmo in una sola pagina”20,
avrebbe spiegato Humboldt in seguito. Diversamente dagli scienziati
che precedentemente avevano classificato il mondo naturale in rigide
unità tassonomiche disposte secondo una severa gerarchia,
riempiendo tavole e tavole di categorie, Humboldt produceva un
disegno.
“La natura è un insieme vivente”, disse in seguito, non un
“aggregato morto”21. Un’unica vita era stata riversata su pietre,
piante, animali e sul genere umano. A impressionarlo più di ogni altra
cosa era questa “profusione universale mediante la quale la vita è
distribuita ovunque”22. Persino l’atmosfera diffonde semi di vita
futura: polline, uova di insetti, sementi. La vita è ovunque e queste
“forze organiche lavorano senza sosta”23, scriveva. Humboldt non era
tanto interessato a scoprire nuovi eventi isolati, quanto a connetterli. I
singoli fenomeni sono importanti soltanto nella “loro relazione con
l’insieme”24.
Con il Chimborazo disegnato in sezione trasversale, la
Naturgemälde25 raffigurava in maniera efficace la natura come una
rete nella quale tutto era connesso. La mano di Humboldt aveva
distribuito le piante secondo le altitudini, dalle specie fungine che si
sviluppano nascoste nel terreno ai licheni che crescono appena sotto la
linea delle nevi permanenti. Ai piedi della montagna c’era la zona
tropicale delle palme e, più in alto, querce e cespugli a forma di felci
che preferivano un clima più temperato. Ogni pianta era collocata
sulla montagna esattamente dove Humboldt l’aveva trovata.
Humboldt realizzò il primo schizzo della Naturgemälde in Sud
America per poi pubblicarlo, più tardi, sotto forma di un bel disegno di
90x60 centimetri. A sinistra e a destra della montagna dispose
colonne contenenti dettagli e informazioni relativi a quanto
raffigurato. Prendendo una particolare altezza della montagna
(indicata nella colonna a sinistra), era possibile tracciare connessioni
attraverso la tavola e la figura della montagna per saperne di più, per
esempio, su temperatura, o umidità, o pressione atmosferica, nonché
sulle specie di animali e piante che si potevano trovare alle diverse
altitudini. Questa massa di informazioni poteva essere poi collegata
alle altre grandi montagne del mondo, elencate in base alla loro altezza
accanto alla sagoma del Chimborazo.
Il primo schizzo della Naturgemälde disegnato da Humboldt

La varietà e la ricchezza, ma anche la semplicità, delle informazioni


scientifiche disegnate nel quadro erano senza precedenti. Nessuno
prima di Humboldt aveva mai presentato visivamente quei dati. La
Naturgemälde mostrava per la prima volta la natura come un’unica
forza globale con zone climatiche che corrispondono tra di loro
attraverso i continenti. Ciò che Humboldt vedeva era “l’unità nella
varietà”26. Invece di disporre le piante secondo le categorie
tassonomiche di appartenenza, guardava la vegetazione attraverso le
lenti del clima e dell’ubicazione: un’idea radicalmente nuova che
tutt’oggi influenza il nostro concetto di ecosistema.

Dal Chimborazo viaggiarono per circa 1.500 chilometri a sud di Lima.


Humboldt s’interessava a tutto, dalle piante agli animali
all’architettura Inca. Nei suoi viaggi attraverso l’America Latina spesso
lo avrebbe colpito il talento delle civiltà antiche. Trascriveva
manoscritti, disegnava schizzi dei monumenti Inca, metteva insieme
veri e propri vocabolari. Le lingue indigene, diceva, erano così
sofisticate che non vi era un solo libro europeo che non si potesse
tradurre in una qualunque di esse27. Possedevano persino parole per
concetti astratti come “futuro, eternità, esistenza”28. Poco più a sud
del Chimborazo visitò una tribù indigena che era in possesso di antichi
manoscritti che descrivevano le eruzioni del vulcano29.
Fortunatamente, c’era anche una traduzione spagnola che Humboldt
copiò nei suoi taccuini.
Andando avanti, Humboldt esplorò anche le foreste di alberi di
china nella regione di Loja (oggi Ecuador) e ancora una volta si rese
conto di come l’uomo possa devastare l’ambiente. La corteccia
dell’albero di china contiene la chinina che si usava per curare la
malaria; ma, una volta rimossa la corteccia, l’albero moriva. Gli
spagnoli avevano scortecciato immense aree di foresta vergine e
ormai, notò Humboldt, gli alberi più vecchi e massicci erano diventati
assai rari30.
La mente indagatrice di Humboldt sembrava non stancarsi mai.
Studiava strati di rocce, modelli climatici, le rovine dei templi Inca e
anche il geomagnetismo – lo studio dei campi magnetici della terra –
lo affascinava. Mentre scalavano catene montuose e discendevano
nelle valli, lui piazzava i suoi strumenti. La sua curiosità nasceva dal
bisogno di capire la natura globalmente, come rete di forze e
interrelazioni – allo stesso modo in cui si era interessato di zone di
vegetazione attraverso i continenti e della frequenza con cui si
succedono i terremoti. Dal diciassettesimo secolo gli scienziati
sapevano che la terra è un gigantesco magnete. Sapevano anche che
l’ago di una bussola non indica il vero nord, perché il Polo Nord
magnetico non corrisponde al Polo Nord geografico. A disorientare
ancora di più c’è il fatto che nord e sud magnetici si spostano, creando
grossi problemi per la navigazione. Quel che gli scienziati non
sapevano era se l’intensità dei campi magnetici nelle diverse aree del
mondo variava da un luogo all’altro in maniera casuale oppure
sistematica.
Spostandosi in direzione sud lungo la catena delle Ande da Bogotá a
Quito, e avvicinandosi all’Equatore, Humboldt aveva avuto modo di
misurare una riduzione del campo magnetico della terra. Con sua
grande sorpresa l’intensità del campo magnetico aveva seguitato a
diminuire, finché non raggiunsero l’arido altopiano di Cajamarca in
Perù, a oltre 7 gradi e circa 800 chilometri a sud dell’Equatore
geografico. Soltanto qui l’ago girò da nord a sud: Humboldt aveva
scoperto l’Equatore magnetico31.
Arrivarono a Lima alla fine di ottobre del 1802, quattro mesi e
mezzo dopo essere partiti da Quito e più di tre anni dopo aver lasciato
l’Europa. Qui trovarono un passaggio per imbarcarsi verso nord fino a
Guayaquil sulla costa occidentale dell’odierno Ecuador, da dove
Humboldt intendeva raggiungere Acapulco in Messico. Non appena
salparono da Lima verso Guayaquil, Humboldt si mise a studiare la
corrente fredda che rasenta la costa occidentale del Sud America dal
Cile meridionale al Perù settentrionale. L’acqua fredda e piena di
sostanze nutrienti della corrente supporta una tale abbondanza di vita
marina da costituire l’ecosistema marino più produttivo della terra.
Anni dopo sarebbe stata chiamata Corrente di Humboldt. Ma per
quanto ne fosse lusingato, lui protestò: diceva che i ragazzi che
pescano lungo la costa sapevano di questa corrente da secoli, lui era
stato soltanto il primo a misurarla e a scoprire che era fredda32.

Il Cotopaxi con il pennacchio di fumo


Humboldt era intento a raccogliere i dati che gli servivano per dare
un senso finito al concetto di natura come un tutto unico. Se la natura
era una rete di vita, non poteva guardare a essa con gli occhi del
botanico, o del geologo, o dello zoologo. Aveva bisogno di informazioni
su qualsiasi cosa e da ogni dove, perché “vanno comparate tra di loro
osservazioni provenienti dalle regioni più disparate del pianeta”33.
Accumulò tanti di quei risultati e fece tante di quelle domande che
qualcuno pensò che fosse stupido, perché chiedeva “ciò che è
evidentemente ovvio”34. Una delle sue guide notò che le tasche del
suo soprabito erano come quelle di un ragazzino – piene di piante,
sassi e ritagli di carta35. Niente era troppo piccolo o insignificante per
non meritare di essere studiato, perché ogni cosa ha il suo posto nel
grande arazzo della natura.
Arrivarono nella città portuale di Guayaquil il 4 gennaio 1803, nello
stesso giorno in cui il Cotopaxi improvvisamente entrò in eruzione a
circa 300 chilometri di distanza a nord-est36. Dopo aver scalato tutti i
vulcani che aveva potuto raggiungere sulle Ande, questo era il
momento che aspettava. Proprio quando si preparava a salpare per il
Messico, gli veniva lanciato un nuovo guanto di sfida. Non sapeva che
fare. Spinto da una gran voglia di esplorare il Messico prima di tornare
in Europa, doveva trovare subito un passaggio prima dell’annuale
stagione degli uragani, in estate; altrimenti sarebbero rimasti bloccati
a Guayaquil fino alla fine dell’anno. Ma ora c’era il richiamo allettante
di un vulcano in eruzione. Se si affrettavano, forse ce la facevano a
raggiungere il Cotopaxi e tornare indietro in tempo per imbarcarsi per
il Messico. Ma il viaggio da Guayaquil al Cotopaxi era pericoloso:
Humboldt avrebbe dovuto attraversare di nuovo le alte Ande, solo che
questa volta si trattava di farlo verso un vulcano attivo.
Pericoloso, sì; ma troppo eccitante per mancare l’occasione. Alla
fine di gennaio Humboldt e Montúfar si misero in moto, lasciando
Bonpland a Guayaquil con l’incarico di cercare una nave diretta verso
il Messico. Mentre viaggiavano in direzione nord-est, li accompagnava
il ruggito del Cotopaxi. Humboldt non riusciva ancora a credere alla
sua fortuna. Nel giro di pochi giorni avrebbe visto di nuovo il vulcano
che aveva scalato otto mesi prima, ma questa volta vivo e illuminato
dal suo stesso fuoco. Poi, dopo cinque soli giorni di viaggio, arrivò un
messaggero da Guayaquil con un biglietto di Bonpland. Aveva trovato
una nave per Acapulco, ma sarebbe salpata due settimane dopo37.
Humboldt e Montúfar non ce la potevano assolutamente fare a
raggiungere il Cotopaxi, dovevano tornare subito indietro. Humboldt
era distrutto.
Mentre la nave usciva dal porto di Guayaquil, il 17 febbraio 1803,
Humboldt poteva sentire il Cotopaxi, come un gigante che
brontolava38. Il coro del vulcano accompagnava la sua partenza come
una serenata, ma era anche un doloroso richiamo a ciò che perdeva.
Né era di aiuto il fatto che ogni notte durante tutto il viaggio in mare il
mutare delle stelle gli ricordasse che stavano lasciando l’emisfero
meridionale. Mentre sbirciava col telescopio le costellazioni del cielo
del sud, esse lentamente sparivano. “Mi impoverisco giorno dopo
giorno”39, scriveva nel diario, mentre si spostava verso l’emisfero
settentrionale allontanandosi da un mondo che lo avrebbe stregato per
il resto della sua vita.
La notte del 26 febbraio 1803 Humboldt attraversò per l’ultima
volta l’Equatore.
Aveva trentatré anni e aveva trascorso più di tre anni in America
Latina, attraversando giungle tropicali e arrampicandosi su montagne
fino alle loro cime ghiacciate. Aveva raccolto migliaia di piante e preso
infinite misure. Pur avendo rischiato più volte la vita, si era goduto la
sua libertà e le tante avventure. E, cosa che contava più di ogni altra,
lasciava Guayaquil avendo nella mente una nuova visione della natura.
Nei bauli c’era lo schizzo del Chimborazo – la sua Naturgemälde.
Questo unico disegno e le idee che lo avevano generato avrebbero
cambiato la percezione del mondo naturale da parte delle generazioni
future.
1. AH a WH, 25 novembre 1802, AH WH Lettere 1880, p. 54.
2. Ivi, p. 48.
3. AH, 9-12 giugno e 12-28 giugno 1802, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, pp. 94-104.
4. AH, “About an Attempt to Climb to the Top of Chimborazo”, Kutzinski 2012, p. 136.
5. AH a WH, 25 novembre 1802, AH WH Lettere 1880, p. 48; AH, “About an Attempt to Climb
to the Top of Chimborazo”, in Kutzinski 2012, pp. 135-55; AH, 23 giugno 1802, AH Río
Magdalena 2003, vol. 2, pp. 100-109.
6. AH, “About an Attempt to Climb to the Top of Chimborazo”, Kutzinski 2012, p. 140.
7. AH, 23 giugno 1802, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, p. 106.
8. AH Geography 2009, p. 120; AH Geographie 1807, pp. 161 sgg.
9. AH, 23 giugno 1802, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, p. 106.
10. Karl Gustav von Brinkmann, 18 marzo 1793, Heinz 2003, p. 19.
11. Georg Gerland, 1869, Jahn 2004, p. 19.
12. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, p. 160; vedi anche p. 495; AH sottolineò
ripeutamente queste connessioni nel suo Saggio sulla geografia delle piante (1807) ma anche
in Personal Narrative 1814-29, vol. 3, pp. 490 sgg.; AH Aspects 1849, vol. 2, pp. 3 sgg.; AH
Views 2014, pp. 155 sgg.; AH Ansichten 1849, vol. 2, pp. 3 sgg.
13. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, p. 453.
14. AH Geography 2009, pp. 65-6; AH Geographie 1807, pp. 5 sgg.
15. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. xviii; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. vi.
16. AH Geography 2009, p. 77; AH Geographie 1807, pp. 35 sgg.; AH Cosmos 1845-52, vol. 1,
p. 11; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 12.
17. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 40; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 39.
18. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 11; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 12.
19. AH Geography 2009, p. 61; AH Geographie 1807, p. iii; Holl 2009, pp. 181-3 e Fiedler e
Leitner 2000, p. 234.
20. AH a Marc-Auguste Pictet, 3 febbraio 1805, Dove 1881, p. 103.
21. AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 39.
22. AH Aspects 1849, vol. 2, p. 3; AH Views 2014, p. 155; AH Ansichten 1849, vol. 2, p. 3.
23. AH Aspects 1849, vol. 2, p. 10; AH Views 2014, p. 158; AH Ansichten 1849, vol. 2, p. 11.
24. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 41; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 40.
25. La Naturgemälde fu pubblicata nel Saggio sulla geografia delle piante di Humboldt
(1807).
26. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 48; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 55, traduzione mia
(“Einheit in der Vielheit”).
27. AH, 12 aprile 1803-20 gennaio 1804, Messico, AH Lateinamerika 1982, p. 187; AH a WH,
25 novembre 1802, AH WH Lettere 1880, pp. 51-2.
28. Ivi, p. 52.
29. Ivi, p. 50.
30. AH Aspects 1849, vol. 2, p. 268; AH Views 2014, p. 268; AH Ansichten 1849, vol. 2, p. 319;
vedi anche AH, 23-28 luglio 1802, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, pp. 126-30.
31. AH, riepilogo della spedizione di Humboldt e Bonpland, fine giugno 1804, AH Lettere USA
2004, p. 507; Helferich 2005, p. 242.
32. Kortum 1999, pp. 98-100; in particolare AH a Heinrich Berghaus, 21 febbraio 1840, p. 98.
33. AH Views 2014, p. 244; AH Aspects 1849, vol. 2, p. 215; AH Ansichten 1849, vol. 2, p. 254.
34. La guida di AH a Città del Messico su AH, 1803, Beck 1959, p. 26.
35. Ivi, p. 27.
36. AH, 31 gennaio-6 febbraio 1803, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, pp. 182 sgg.
37. Ivi, p. 184.
38. AH Cordilleras 1814, vol. 1, p. 119; AH Cordilleren 1810, vol. 1, p. 58.
39. AH, 27 febbraio 1803, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, p. 190.
*. Benché il Chimborazo non sia la montagna più alta del mondo, e neanche delle Ande, in un
certo senso lo è, perché, essendo così vicino all’Equatore, la sua vetta è alla massima distanza
dal centro della terra.
Capitolo ottavo

Politica e natura

Thomas Jefferson e Humboldt

Era come se il mare stesse per inghiottirli. Onde gigantesche si


rovesciavano sul ponte e giù per la scala fino alla pancia della nave. I
quaranta bauli di Humboldt erano in costante pericolo di finire in
acqua. Erano entrati dritti dritti nell’uragano e per sei lunghi giorni i
venti non si sarebbero arrestati, colpendo la nave con tale forza che
non riuscivano a dormire e neanche a pensare. Quando l’acqua entrò a
fiotti, il cuoco perse pentole e tegami e nuotava nella cucina di bordo,
non riuscendo a stare in piedi. Non si poteva cucinare e gli squali
circondavano l’imbarcazione. Nella cabina del capitano, a poppa,
l’acqua era così alta che si doveva attraversarla a nuoto e anche i
marinai più esperti venivano scagliati da una parte all’altra del ponte
come birilli. Temendo per la loro vita, i marinai chiedevano
insistentemente che venissero aumentate le razioni di brandy, perché
– dicevano – volevano affogare ubriachi. Ogni onda che si rovesciava
su di loro sembrava un’enorme parete di roccia. Humboldt pensava di
non essere mai stato così vicino alla morte1.
Humboldt tornò dal Messico con osservazioni dettagliate sulla natura, ma anche con appunti
presi visitando archivi e monumenti. Ne è un esempio questo calendario messicano che
secondo lui era una prova della raffinatezza delle civiltà antiche

Era il mese di maggio del 1804 e Humboldt, Bonpland, Montúfar e


il loro inserviente José stavano navigando da Cuba verso la costa
orientale degli Stati Uniti. Morire ora, dopo essere sopravvissuti a
cinque anni di pericolosi viaggi in America Latina, sarebbe stato il
colmo, pensava Humboldt2. Dopo la partenza da Guayaquil nel
febbraio 1803, avevano passato un anno in Messico dove Humboldt si
era trattenuto prevalentemente a Città del Messico, la capitale
amministrativa del Vicereame della Nuova Spagna – la vasta colonia
che comprendeva il Messico, parti della California e dell’America
centrale e la Florida. Aveva rovistato nei grandi archivi e nelle
biblioteche coloniali, interrompendo le sue ricerche soltanto per
qualche spedizione in miniere, sorgenti di acqua calda e ulteriori
vulcani3.
Era tempo di tornare in Europa. Cinque anni di viaggi nei climi più
estremi e in terre selvagge avevano danneggiato i suoi delicati
strumenti, molti dei quali non funzionavano più a dovere4. Inoltre,
avendo avuto così pochi contatti con la comunità scientifica in patria,
Humboldt temeva anche di essersi perso qualche importante
progresso scientifico. Si sentiva così isolato dal resto del mondo,
scrisse a un amico, che gli sembrava di vivere sulla luna5. Nel marzo
1804 erano salpati dal Messico per una sosta a Cuba, dove dovevano
riprendersi le collezioni depositate a L’Avana tre anni prima.
Come faceva spesso, anche in quell’occasione all’ultimo momento
aveva fatto qualche cambiamento di programma, decidendo di
posticipare di alcune settimane il viaggio di ritorno in patria per
incontrare Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Stati Uniti. Per
cinque lunghi anni aveva visto la natura nella sua forma migliore –
lussureggiante, splendida, solenne al punto di incutere timore – e ora
voleva vedere la civiltà in tutta la sua gloria, una società costruita nella
forma di una repubblica e fondata sui principi di libertà.
Fin da ragazzo Humboldt era stato circondato da pensatori
illuministi che avevano impiantato in lui i semi del suo credo nella
libertà, nell’eguaglianza, nella tolleranza e nell’importanza
dell’istruzione, che non lo avrebbe mai abbandonato. Ma era stata la
Rivoluzione francese del 1789, subito prima del suo ventesimo
compleanno, a determinare i suoi orientamenti politici. Diversamente
dai prussiani, che erano tuttora governati da un monarca assoluto, i
francesi avevano dichiarato l’eguaglianza di tutti gli uomini; da allora,
Humboldt aveva sempre portato “nel cuore le idee del 1789”6. Nel
1790 aveva visitato Parigi, dove aveva assistito ai preparativi per la
celebrazione del primo anniversario della rivoluzione. Era così
elettrizzato che, durante quell’estate, aiutò anche a trasportare la
sabbia necessaria per costruire a Parigi un “tempio della libertà”7. Ora,
dopo quattordici anni, voleva incontrare gli uomini che avevano
fondato una repubblica in America e “che apprezzavano il dono
prezioso della libertà”8.
Dopo una settimana di navigazione, l’uragano cessò e i venti
finalmente si calmarono. Poi, alla fine di maggio del 1804, quattro
settimane dopo la loro partenza da L’Avana, Humboldt e la sua piccola
squadra sbarcarono a Philadelphia, che con i suoi 75.000 abitanti era
la città più grande degli Stati Uniti. Alla vigilia dell’arrivo, Humboldt
scrisse una lunga lettera a Jefferson, esprimendo il suo desiderio di
incontrarlo a Washington, la nuova capitale della nazione. “I vostri
scritti, le vostre azioni e il liberalismo delle vostre idee”, scriveva
Humboldt, “mi hanno ispirato fin dalla mia prima gioventù.”9 Portava
con sé – informava Jefferson – un patrimonio di informazioni
dall’America Latina, dove aveva raccolto piante, fatto osservazioni
astronomiche, trovato geroglifici di antiche civiltà nel profondo della
foresta pluviale e accumulato una massa di dati importanti tratti dagli
archivi coloniali di Città del Messico.
Humboldt scrisse anche a James Madison, segretario di Stato e
principale alleato politico di Jefferson, dichiarando che “dopo aver
visto il grande spettacolo delle maestose Ande e la magnificenza del
mondo fisico vorrei godermi lo spettacolo di un popolo libero”10.
Politica e natura erano strettamente legate – un’idea che Humboldt
avrebbe discusso con gli americani.

A sessantun anni, Jefferson era ancora “dritto come una canna di


fucile”11 – un uomo alto, magro e un po’ allampanato, con il colorito
rubicondo di un coltivatore e una “costituzione di ferro”. Era il
presidente di una nazione giovane, ma anche il proprietario di
Monticello, un’estesa piantagione sulle colline pedemontane delle Blue
Ridge Mountains in Virginia, a poco più di centocinquanta chilometri
a sud-est di Washington. Benché la moglie fosse morta più di vent’anni
prima, Jefferson aveva una vita familiare contraddistinta da una
grande unità e amava molto la compagnia dei suoi sette nipoti12. Agli
amici piaceva raccontare di come gli si aggrappavano per farsi
prendere in collo mentre parlava13. Quando Humboldt arrivò negli
Stati Uniti, Jefferson portava ancora il lutto per la più giovane delle
sue figlie, Maria, morta poche settimane prima, nell’aprile del 1804,
dopo aver dato alla luce una bambina. L’altra figlia, Martha,
trascorreva spesso lunghi periodi alla Casa Bianca e più tardi si trasferì
definitivamente a Monticello con i bambini.
Jefferson detestava l’ozio14. Si alzava prima dell’alba, leggeva più
libri contemporaneamente e scriveva così tante lettere che aveva
comprato una macchina copiatrice per tenere traccia della sua
corrispondenza. Era un uomo irrequieto e ammoniva la figlia
ricordandole che la noia è “il veleno più pericoloso della vita”15. Negli
anni 1780, dopo la guerra d’indipendenza, Jefferson aveva vissuto
cinque anni a Parigi come ministro plenipotenziario americano in
Francia. Aveva sfruttato la destinazione che gli era stata assegnata per
viaggiare attraverso l’Europa, tornando in patria con bauli pieni di
libri, mobili e idee. Soffriva di quello che lui chiamava “il male della
bibliomania”16, che lo spingeva incessantemente a comprare libri e a
studiare. In Europa, tra le sue incombenze, era anche riuscito a
ritagliarsi il tempo per visitare i più bei giardini d’Inghilterra e
osservare e comparare le pratiche agricole in uso in Germania, Olanda,
Italia e Francia17.
Washington ai tempi della visita di Humboldt

Nel 1804 Thomas Jefferson era all’apice della carriera. Aveva scritto
la Dichiarazione d’Indipendenza, era presidente degli Stati Uniti e alla
fine dell’anno avrebbe ottenuto una schiacciante vittoria elettorale
assicurandosi il secondo mandato. E, con il recente acquisto del
Territorio della Louisiana dalla Francia, aveva gettato le basi per
l’espansione della nazione verso ovest *. Con solo 15 milioni di dollari
statunitensi, Jefferson aveva raddoppiato le dimensioni della nazione,
aggiungendovi oltre 1.250.000 chilometri quadrati che si estendevano
a ovest dal Mississippi alle Montagne Rocciose e dal Canada a nord al
Golfo del Messico a sud. Inoltre, Jefferson aveva appena spedito
Meriwether Lewis e William Clark nel loro viaggio via terra attraverso
l’intero continente nordamericano. La spedizione metteva insieme
tutti i temi che più gli stavano a cuore: aveva personalmente dato
istruzioni agli esploratori, che dovevano raccogliere piante, semi e
specie animali; riferire sulle pratiche agricole e di gestione dei terreni
dei nativi americani; ispezionare suolo e fiumi18.
L’arrivo di Humboldt non poteva cadere in un momento migliore. Il
console americano a Cuba, Vincent Gray, aveva già scritto a Madison
sollecitandolo a incontrare Humboldt perché era in possesso di
informazioni utili sul Messico, il loro nuovo paese confinante a sud a
seguito dell’acquisizione della Louisiana.
Appena Humboldt sbarcò a Philadelphia, vi fu uno scambio di
lettere tra lui e il presidente e Jefferson lo invitò a Washington. Era
eccitato, scrisse a Humboldt, perché nutriva “buone speranze nella
capacità di questo nuovo mondo di mostrare miglioramenti nella
condizione umana”19. E così, il 29 maggio, Humboldt, Bonpland e
Montúfar salirono sulla diligenza postale a Philadelphia per recarsi a
Washington20, a circa 250 chilometri in direzione sud-ovest.
Il paesaggio che attraversarono era fatto di campi ben tenuti con
dritti filari di colture e fattorie sparse circondate da frutteti e orti
ordinati. Era l’incarnazione delle idee nutrite da Jefferson riguardo al
futuro economico e politico degli Stati Uniti: una nazione di
proprietari terrieri indipendenti con piccole fattorie autosufficienti21.
Con le Guerre Napoleoniche che dilaniavano l’Europa, l’economia
americana andava a gonfie vele perché, come nazione neutrale –
almeno per il momento – trasportava gran parte delle merci del globo.
Navi americane cariche di spezie, cacao, cotone, caffè e zucchero
solcavano gli oceani dal Nord America ai Caraibi all’Europa fino alle
Indie Orientali. Anche i mercati di esportazione per i prodotti agricoli
interni erano in espansione. Sembrava davvero che Jefferson stesse
portando il paese verso un futuro di prosperità e felicità.
Tuttavia, nei tre decenni trascorsi dalla rivoluzione, l’America era
cambiata. Vecchi amici rivoluzionari si erano litigati sui diversi ideali
di repubblica, dandosi a feroci lotte tra fazioni. Divisioni erano insorte
sulla struttura che le diverse fazioni ritenevano dovesse avere la
società americana: una nazione di coltivatori, o una società
mercantile? C’era chi, come Jefferson, immaginava gli Stati Uniti come
una repubblica rurale i cui principi naturali erano la libertà degli
individui e i diritti dei singoli Stati, ma c’era anche chi prediligeva il
commercio e un governo centrale forte22.
Le differenze si manifestavano forse con la massima evidenza nei
progetti proposti per la nuova capitale, Washington – la città nuova di
zecca che era stata strappata alle terre paludose e selvagge sul fiume
Potomac. Tutti ritenevano che la capitale dovesse rispecchiare il
governo e il suo potere (o la sua assenza di potere). Il primo presidente
degli Stati Uniti, George Washington, paladino di un forte governo
federale, aveva voluto una grande capitale con ampie strade che
attraversavano in lungo e in largo la città, un palazzo presidenziale e
giardini maestosi. Jefferson e i suoi amici repubblicani, viceversa,
sostenevano che il governo centrale doveva avere il minimo potere
possibile. Preferivano una capitale piccola – una cittadina rurale e
repubblicana23.
Benché avessero prevalso le idee di Washington – e, sulla carta, la
capitale sembrasse sontuosa – nella realtà ben poco si era fatto
quando Humboldt vi giunse nell’estate del 1804. Con solo 4.500
abitanti, Washington aveva più o meno le dimensioni di Jena quando
Humboldt vi aveva incontrato per la prima volta Goethe ed era ben
diversa da come i forestieri immaginavano la capitale di un paese
immenso come gli Stati Uniti d’America24. Le strade erano in
condizioni terribili e così ingombre di pietre e tronconi d’albero che le
carrozze regolarmente si rovesciavano25. Mota rossa si appiccicava
come colla alle ruote e agli assi e i pedoni rischiavano di affondare fino
alle ginocchia nelle pozzanghere fangose da cui nessun tratto di strada
era esente.
Quando Jefferson vi si trasferì, subito dopo la sua inaugurazione nel
marzo del 1801, la Casa Bianca26 era ancora un cantiere. Tre anni
dopo, al tempo della visita di Humboldt, ben poco era cambiato. In
quello che avrebbe dovuto essere un giardino presidenziale, c’erano
solo sporcizia e le baracche degli operai. I terreni erano separati dai
campi confinanti soltanto da una staccionata mezza marcia sulla quale
le lavandaie di Jefferson stendevano ad asciugare in bella vista la
biancheria presidenziale27. Né andava molto meglio all’interno della
Casa Bianca, dove la gran parte delle stanze non erano più che semi-
arredate. Jefferson, come osservò un visitatore, abitava soltanto un’ala
della residenza e tutto il resto era ancora in uno “stato di sudicia
desolazione”28.
Jefferson non se ne curava. Appena entrato in carica, fin dal primo
giorno aveva cominciato a demistificare il ruolo del presidente29
liberando l’amministrazione, che muoveva i suoi primi passi, dai rigidi
protocolli sociali e dalla pompa dei cerimoniali e proponendosi come
un semplice coltivatore. Anziché dare eleganti ricevimenti formali,
invitava gli ospiti a cene ristrette, che si svolgevano a un tavolo
rotondo per evitare questioni di gerarchie e ordini di precedenza. Si
vestiva deliberatamente in modo informale e fioccavano commenti sul
suo aspetto disordinato. Aveva pantofole così consunte che le dita dei
piedi sbucavano fuori, il cappotto era “liso” e la biancheria “molto
logora”30. Sembrava un “coltivatore dall’ossatura massiccia”31,
osservò un diplomatico britannico: era proprio l’immagine che
Jefferson voleva trasmettere.
Jefferson si considerava, in primo luogo, un coltivatore e
giardiniere, non un politico. “Non c’è occupazione che mi delizi di più
che coltivare la terra”32, diceva. A Washington, ogni giorno sarebbe
uscito a cavallo nella campagna circostante per sfuggire al tedio della
corrispondenza e degli incontri governativi. La cosa che più di ogni
altra bramava era di tornare a Monticello. Alla fine del suo secondo
mandato avrebbe proclamato che “nessun prigioniero, liberato dalle
sue catene, ha mai provato un tale sollievo come quello che io proverò
scrollandomi di dosso i ceppi del potere”33. Al presidente degli Stati
Uniti piaceva di più sguazzare nelle paludi e scalare rocce, raccogliere
una foglia o un seme, che presenziare alle riunioni di Gabinetto34.
Non c’era pianta – “dall’erbaccia più vile all’albero più nobile”, ebbe a
dire un amico – che sfuggisse al suo esame minuzioso. Il suo amore
per la botanica e il giardinaggio era così noto che i diplomatici
americani spedivano alla Casa Bianca semi da tutto il mondo35.
Gli interessi di Jefferson spaziavano in tutti i campi scientifici,
comprese l’orticoltura, la matematica, la meteorologia e la geografia.
Era affascinato dagli scheletri fossili e in particolare dal mastodonte,
un gigante estinto della famiglia degli elefanti che soltanto 10.000
anni prima aveva vagato nelle regioni interne d’America36. La sua
biblioteca contava migliaia di libri e aveva scritto di sua mano Notes
on the State of Virginia, una descrizione dettagliata dell’economia e
della società, delle risorse naturali e delle piante, ma anche un inno al
paesaggio della Virginia.
Come Humboldt, Jefferson si muoveva a suo perfetto agio tra i
diversi campi scientifici. Aveva la mania delle misurazioni e compilava
un numero infinito di elenchi che spaziavano dalle centinaia di specie
di piante che coltivava a Monticello a tabelle con le temperature
quotidiane. Contava i gradini delle scale, teneva la “contabilità” delle
lettere che riceveva dai nipoti e si portava sempre in tasca un righello.
Sembrava che la sua mente non riposasse mai37. Con un uomo dalla
cultura così eclettica come presidente, la Casa Bianca di Jefferson era
diventata luogo di incontri scientifici. Alle cene si parlava di botanica,
di geografia, di esplorazioni. Era anche presidente della American
Philosophical Society38, fondata con Benjamin Franklin prima della
rivoluzione e da allora il più importante forum scientifico negli Stati
Uniti. Jefferson, disse un contemporaneo, era “il filosofo illuminato,
l’illustre naturalista, il primo statista al mondo, l’amico e gloria della
scienza… il padre del nostro Paese, il fido guardiano delle nostre
libertà”39. Non vedeva l’ora di conoscere Humboldt.

Il viaggio da Philadelphia durò tre giorni e mezzo e finalmente, la sera


del 1 giugno, Humboldt e i suoi compagni arrivarono a Washington. La
mattina dopo Humboldt incontrò Jefferson alla Casa Bianca40. Il
presidente ricevette lo scienziato trentaquattrenne nel suo studio
privato, dove teneva un intero assortimento di strumenti da
falegname. Aveva infatti il dono della meccanica e gli piaceva
armeggiare – dall’invenzione di un leggio girevole a migliorie nel
funzionamento di serrature, orologi e strumenti scientifici. Sui
davanzali delle finestre c’erano vasi con rose e gerani che curava
personalmente con piacere, mappe e carte decoravano le pareti e gli
scaffali erano pieni di libri41. I due uomini si piacquero subito.
Nei giorni successivi si videro spesso. Una sera, quando la luce del
crepuscolo cominciava a calare sulla città e si accendevano le prime
candele, Humboldt entrò nel salotto della Casa Bianca e vi trovò il
presidente attorniato da una mezza dozzina dei suoi nipotini, tutti
intenti a ridere e a rincorrersi. Passò qualche istante prima che
Jefferson si accorgesse della presenza di Humboldt, che osservava in
silenzio l’allegra scenetta familiare. Jefferson sorrise. “Mi hai sorpreso
a fare il buffone”, disse, “ma sono sicuro che con te non ho bisogno di
scusarmi.”42 Trovare il suo eroe che “viveva con la semplicità di un
filosofo”43 divertì molto Humboldt.
Durante la settimana seguente, per Humboldt e Bonpland fu tutto
un susseguirsi di incontri e cene. Erano tutti entusiasti d’incontrare gli
intrepidi esploratori e ascoltare i loro racconti44. Humboldt era
“oggetto dell’attenzione universale”45, disse un americano, al punto
che Charles Willson Peale, un pittore di Philadelphia che aveva
organizzato una gita nel Distretto di Columbia, distribuì una gran
quantità di profili di Humboldt (e Bonpland) fatti di suo pugno, di cui
uno per Jefferson. Humboldt fu presentato al segretario del Tesoro,
Albert Gallatin, che provò “uno squisito piacere intellettuale”46
nell’ascoltare i suoi racconti. Il giorno dopo andarono a Mount
Vernon, la tenuta di George Washington a circa ventiquattro
chilometri a sud della capitale. Benché Washington fosse morto
quattro anni e mezzo prima, Mount Vernon era una popolare meta
turistica e Humboldt volle vedere la casa dell’eroe rivoluzionario. Il
segretario di Stato, James Madison, offrì un ricevimento in suo onore
e sua moglie Dolley dichiarò di esserne rimasta affascinata e che “tutte
le signore dicono di essere innamorate di lui”47.
Nei giorni trascorsi insieme, Jefferson, Madison e Gallatin
tempestarono Humboldt di domande sul Messico. Nessuno dei tre
politici americani era stato nel territorio controllato dalla Spagna, ma
ora, mentre erano circondati da mappe, statistiche e taccuini,
Humboldt li ragguagliava sulle popolazioni dell’America Latina, sui
loro raccolti e sul clima48. Humboldt aveva lavorato con grande
impegno per migliorare le mappe esistenti, calcolando e ricalcolando
le esatte posizioni geografiche. Ne risultarono le mappe migliori che si
potessero avere a quell’epoca in un raggio di circa 220 chilometri, con
alcune località che nelle vecchie mappe erano erroneamente collocate
con margini di errore fino a 2 gradi in latitudine – si vantava
Humboldt con i suoi nuovi amici49. Di fatto Humboldt possedeva più
informazioni sul Messico di quante ne erano disponibili su alcuni paesi
europei, disse Gallatin alla moglie, trattenendo a stento la propria
eccitazione. Ma non era tutto qui: Humboldt permise di trascrivere i
suoi appunti e copiare le mappe. Le sue conoscenze “lasciavano
attoniti”50, convennero gli americani e, in cambio, Gallatin fornì a
Humboldt tutte le informazioni che voleva sugli Stati Uniti.
Per mesi Jefferson aveva cercato di procurarsi qualche brandello
d’informazioni sul nuovo territorio della Louisiana e sul Messico e ora,
all’improvviso, se ne ritrovava tra le mani più di quante non avesse
mai osato sperare51. Con la stretta sorveglianza da sempre esercitata
dagli spagnoli sui propri territori e la riluttanza a concedere permessi
anche di solo viaggio nelle loro colonie, Jefferson non era mai riuscito
a trovare granché fino alla visita di Humboldt. Gli archivi coloniali
spagnoli in Messico e a L’Avana erano rimasti rigorosamente chiusi
agli americani e il ministro plenipotenziario spagnolo a Washington si
era rifiutato di fornire a Jefferson dati di qualsiasi natura: ma ora
Humboldt ne rilasciava a profusione.
Humboldt parlava e parlava, osservò Gallatin, “due volte più in
fretta di qualsiasi persona di mia conoscenza”52. Parlava in inglese
con accento tedesco, ma anche in tedesco, francese e spagnolo,
“mischiandoli nel suo veloce discorrere”53. Era come una “fonte di
conoscenze che sgorga in rivoli copiosi”54. Impararono più da lui in
due ore di quanto non avrebbero fatto leggendo libri per due anni.
Humboldt era “un uomo straordinario”55, diceva Gallatin alla moglie,
e Jefferson era d’accordo: Humboldt era “l’uomo con maggiori
conoscenze scientifiche del suo tempo”56.
La questione più pressante per Jefferson era quella del confine
conteso tra il Messico e gli Stati Uniti57. Gli spagnoli pretendevano
che fosse definito dal fiume Sabine, che corre lungo l’odierno confine
orientale del Texas, mentre gli americani sostenevano che a marcarlo
era il Rio Grande, che costituisce un tratto del suo odierno confine
occidentale. In ballo c’era il possesso di un’immensa fascia di terra,
dato che tra questi due fiumi si stende l’intero Texas dei nostri giorni.
Quando Jefferson chiese informazioni sulla popolazione nativa, i
terreni e le miniere tra “queste due linee di confine”58, Humboldt non
si fece alcuno scrupolo nel passare le osservazioni che aveva fatto sotto
la protezione e con il permesso esclusivo della corona spagnola.
Credeva nella liberalità scientifica e nel libero scambio di
informazioni. Le scienze travalicano gli interessi nazionali, affermava
convinto, mentre passava informazioni economiche d’importanza
vitale. Loro facevano parte di una repubblica delle lettere, diceva
Jefferson, parafrasando le parole di Joseph Banks secondo cui le
scienze sono sempre in pace anche se “le loro nazioni di appartenenza
fossero in guerra”59; un’opinione che in questa circostanza
soddisfaceva pienamente il presidente.
Se gli spagnoli avessero ceduto il territorio che Jefferson reclamava
per gli Stati Uniti, gli disse Humboldt, si sarebbe trattato di un terreno
pari a due terzi della Francia e non era certo il posto più ricco sulla
terra: c’erano soltanto alcune piccole fattorie sparse qua e là, tanta
savana e non si era a conoscenza di porti lungo la costa. C’era qualche
miniera e qualche indigeno60. Era il genere di notizie di cui Jefferson
aveva bisogno. Il giorno dopo il presidente scrisse a un amico
dicendogli di aver appena ricevuto “informazioni preziose”61.
Humboldt consegnò a Jefferson diciannove pagine fitte fitte di
estratti dalle sue annotazioni, ordinate sotto titoli come “dati
statistici”. “popolazione”, “agricoltura, manifattura, commercio”,
“apparato militare” e così via. Aggiunse anche due pagine focalizzate
sulla regione al confine con il Messico e in particolare sull’area contesa
che tanto interessava a Jefferson, tra il fiume Sabine e il Rio
Grande62. Era la visita più eccitante e utile che Jefferson avesse mai
ricevuto nel corso di anni. Meno di un mese dopo, riunì il Gabinetto
per discutere della strategia degli Stati Uniti nei confronti della Spagna
e in particolare di come i dati ricevuti da Humboldt potessero incidere
sui negoziati63.
Humboldt era felice di poter essere di aiuto, perché ammirava gli
Stati Uniti. Il paese si stava evolvendo verso un modello di società
“perfetto”, diceva, mentre l’Europa era ancora avvolta nelle pastoie
della monarchia e del dispotismo. E non si curava neanche
dell’insopportabile umidità dell’estate di Washington, perché “l’aria
migliore che si possa respirare è l’aria della libertà”64. Amava questa
“bella terra”65, diceva in continuazione, promettendo di tornarvi per
esplorarla.

Durante quell’unica settimana a Washington gli uomini parlarono di


natura e di politica – di raccolti e di terre e di modelli di nazione.
Humboldt, come Jefferson, credeva che soltanto una repubblica rurale
potesse portare felicità e indipendenza. Il colonialismo, invece,
portava distruzione. Gli spagnoli erano arrivati in Sud America per
procurarsi oro e legname – “o con la violenza o con il baratto”, diceva
Humboldt, motivati esclusivamente da “un’insaziabile avidità”66.
Avevano annientato civiltà antiche, tribù native e distrutto foreste
monumentali. Il quadro che Humboldt riportava dall’America Latina
era dipinto con i colori vividi della bruta realtà – e tutto ciò
solidamente basato su fatti, dati e statistiche.
Quando aveva visitato le miniere in Messico, Humboldt non si era
limitato a condurre indagini sulla loro geologia e produttività, ma
aveva anche studiato gli effetti rovinosi dell’attività mineraria su
ampie fasce della popolazione. In una miniera era rimasto sconvolto
vedendo lavoratori indigeni costretti a salire qualcosa come 23.000
gradini gravati dal peso di enormi massi, senza mai avere un ricambio.
Venivano usati come fossero “una macchina umana”67, schiavi in
tutto e per tutto salvo che di nome in virtù di un sistema di lavoro – il
cosiddetto repartimiento – che li faceva lavorare per poco o niente per
gli spagnoli. Costretti dagli amministratori delle colonie a comprare
beni a prezzi esagerati, i lavoratori erano risucchiati in una spirale
crescente di debito e dipendenza68. Il re di Spagna godeva persino di
un monopolio sulla neve a Quito, Lima e in altre città coloniali, che
veniva usata per la produzione di sorbetti per le élite dei ricchi: era
assurdo, diceva Humboldt, che qualcosa che “cadeva dal cielo”69
appartenesse alla corona spagnola. A suo avviso, la politica e
l’economia di un governo coloniale erano fondate sull’“immoralità”70.
Durante i suoi viaggi, Humboldt si era sempre sorpreso nel
constatare come gli amministratori delle colonie (ma anche le loro
guide, le persone che lo ospitavano e i missionari) lo incoraggiassero
sempre – in quanto ex ispettore delle miniere – a cercare pietre e
metalli preziosi. Innumerevoli volte aveva spiegato come ciò fosse
sbagliato. Perché sentivano il bisogno di oro e gemme, chiedeva,
quando vivevano su una terra che richiedeva soltanto di essere
“leggermente rastrellata per produrre abbondanti raccolti”?71 Non era
forse quella la loro strada per conseguire libertà e benessere?
Troppo spesso Humboldt aveva visto popolazioni che morivano di
fame e terre un tempo fertili implacabilmente super-sfruttate e
divenute improduttive. Nella valle di Aragua presso il lago di Valencia,
per esempio, aveva potuto osservare come lo smodato desiderio,
diffuso in tutto il mondo, di avere vestiario colorato spingeva la
popolazione locale in uno stato di povertà e dipendenza, perché
l’indaco, pianta facile da coltivare da cui si ricavava la tinta blu, aveva
sostituito il mais e altre colture commestibili. Humboldt aveva anche
notato che l’indaco “impoverisce il terreno”72 più di qualsiasi altra
pianta. La terra sembrava esaurita e nel giro di pochi anni, presagiva
Humboldt, non vi sarebbe cresciuto più niente. Il terreno veniva
sfruttato “come fosse una miniera”73.
Più tardi, a Cuba, Humboldt aveva notato che vaste aree dell’isola
erano state spogliate delle loro foreste per impiantarvi canna da
zucchero74. Ovunque andava, aveva visto come prodotti agricoli
destinati al commercio avessero sostituito “i vegetali che forniscono
nutrimento”75. Cuba produceva ben poco oltre lo zucchero e ciò
significava che senza importazioni da altre colonie l’isola “morirebbe
di fame”76. Era una ricetta che poteva portare solo dipendenza e
ingiustizia.
In maniera analoga, gli abitanti della regione attorno a Cumaná
coltivavano così tanto zucchero e indaco che erano costretti a
comprare all’estero prodotti alimentari che avrebbero potuto
facilmente coltivare in proprio. Monocoltura e produzioni agricole
destinate al commercio non creavano una società felice, diceva
Humboldt. Ciò che occorreva era un’agricoltura di sussistenza77,
basata su colture e varietà commestibili quali banane, quinoa,
granturco e patate.
Humboldt fu il primo a mettere in relazione colonialismo e
devastazione dell’ambiente. I suoi pensieri tornavano sempre alla
natura come rete vitale complessa, ma anche al posto dell’uomo al suo
interno. Al Rio Apure aveva visto la devastazione causata dagli
spagnoli che avevano cercato di mettere sotto controllo le annuali
inondazioni costruendo una diga. Peggiorando ulteriormente le cose,
avevano inoltre abbattuto gli alberi che avevano cementato come “una
solida parete”78 gli argini del fiume, con il risultato che il fiume
impetuoso ogni anno trascinava via crescenti quantitativi di terra.
Sull’altopiano di Città del Messico aveva potuto osservare come un
lago che alimentava il sistema locale di irrigazione si era ristretto fino
a diventare una pozza d’acqua bassa, inaridendo le valli sottostanti79.
Ovunque nel mondo, diceva Humboldt, i tecnici dell’acqua si erano
resi colpevoli di simili miopi assurdità80.
Discuteva di natura, questioni ecologiche, potere imperiale e politica
mettendo tutto in relazione. Criticava l’iniqua distribuzione della terra,
le monocolture, la violenza contro i gruppi tribali e le condizioni di
lavoro degli indigeni – tutti temi oggi di grandissimo rilievo. Da ex
ispettore delle miniere, aveva un intuito straordinario per le
conseguenze ambientali ed economiche dello sfruttamento delle
ricchezze naturali. Contestava, ad esempio, le colture e le estrazioni
minerarie a scopi commerciali del Messico perché questo legava il
paese alle fluttuazioni dei prezzi di mercato internazionali. “L’unico
capitale che cresce nel tempo è costituito dalla produzione agricola”,
diceva81. Era certo che tutti i problemi delle colonie erano il risultato
delle “incaute attività degli europei”82.
Jefferson aveva usato argomentazioni analoghe. “Penso che i nostri
Stati resteranno virtuosi per secoli se si fondano principalmente
sull’agricoltura”83, diceva. Vedeva nell’apertura della frontiera
americana a ovest l’occasione per l’affermarsi di una repubblica in cui
piccoli coltivatori indipendenti sarebbero diventati i soldati di fanteria
della nascente nazione e i guardiani della sua libertà ed era convinto
che l’ovest avrebbe assicurato all’America l’autosufficienza agricola e
dunque un futuro a “milioni di cittadini che devono ancora
nascere”84.
Lo stesso Jefferson era uno dei coltivatori più progressisti degli Stati
Uniti: sperimentava la rotazione delle colture, l’uso di concimi naturali
e nuove varietà di sementi. La sua biblioteca era piena di libri
sull’agricoltura, tutti quelli che riusciva a comprare, e aveva persino
inventato un nuovo versoio per aratro (la parte in legno che solleva e
rivolta la zolla)85. Lo entusiasmavano di più i miglioramenti agricoli
che non gli eventi politici. Quando ordinava a Londra un nuovo
modello di trebbiatrice, per esempio, teneva aggiornato Madison come
un bambino eccitato: “Aspetto ogni giorno di riceverla”, “La
trebbiatrice non mi è ancora arrivata”, e alla fine era “arrivata a New
York”86. A Monticello provava nuovi ortaggi, colture e frutti usando i
suoi campi e il suo giardino come un laboratorio sperimentale. Era
convinto che “il miglior servizio che si possa rendere a un paese è
aggiungere una pianta utile alle sue coltivazioni”87. Aveva
contrabbandato riso di montagna dall’Italia mettendoselo nelle tasche
del soprabito – rischiando la pena di morte – e aveva cercato di
convincere i coltivatori americani a piantare aceri da zucchero per
porre fine alla dipendenza della nazione dalla melassa che arrivava
dalle Indie Occidentali britanniche88. A Monticello arrivò a coltivare
330 varietà di 99 specie di ortaggi e erbe.
Finché un uomo possiede il suo pezzo di terra è un uomo
indipendente, riteneva Jefferson, arrivando persino a sostenere che
soltanto i coltivatori dovessero essere eletti membri del Congresso
essendo loro “i veri rappresentanti del grande interesse americano”89,
diversamente dagli avidi commercianti “che non hanno una patria”90.
Operai delle fabbriche, commercianti e operatori di borsa non si
sarebbero mai sentiti legati al loro paese come i coltivatori che
lavorano la terra. “I piccoli proprietari terrieri sono la parte più
preziosa di uno Stato”91, affermava Jefferson, che nella sua bozza per
la costituzione della Virginia aveva scritto che a ogni persona libera
dovevano essere attribuiti 20 ettari di terra92 (ma non era riuscito a
far passare questa norma). Il suo alleato politico, James Madison,
sosteneva che quanto maggiore è la quota percentuale di contadini
“tanto più libera, più indipendente e più felice è per forza di cose la
stessa società”93. Per entrambi l’agricoltura era un impegno
repubblicano, l’atto fondativo di una nazione. Arare campi, piantare
ortaggi, inventare rotazioni delle colture erano occupazioni che
portavano autosufficienza e dunque libertà politica. Humboldt era
d’accordo, perché i piccoli coltivatori che aveva incontrato in America
Latina avevano sviluppato “il senso della libertà e
dell’indipendenza”94.
Malgrado la loro intesa, c’era un argomento sul quale avevano
posizioni diverse: la schiavitù. Per Humboldt colonialismo e schiavitù
erano sostanzialmente la stessa cosa, strettamente connessa alla
relazione dell’uomo con la natura e allo sfruttamento delle risorse
naturali95. Quando gli spagnoli, ma anche i coloni nordamericani,
avevano introdotto nei loro territori zucchero, cotone, indaco e caffè,
vi avevano introdotto anche la schiavitù. A Cuba, per esempio,
Humboldt aveva visto come “ogni goccia di succo estratto dalla canna
da zucchero costa sangue e gemiti”96. La schiavitù è arrivata sulla scia
di quella che gli europei “chiamano la loro civiltà”97, diceva, e della
loro “sete di ricchezza”98.
Schiavi al lavoro in una piantagione

Il primo ricordo d’infanzia di Jefferson, presumibilmente, era di


starsene sdraiato su un cuscino portato da uno schiavo99 e, da adulto,
la sua sussistenza era basata sul lavoro degli schiavi. Per quanto
proclamasse di aborrire la schiavitù, dei 200 schiavi che sgobbavano
nelle sue piantagioni in Virginia ne avrebbe liberati soltanto una
manciata. In precedenza, Jefferson aveva pensato che coltivazioni su
piccola scala potevano rappresentare la soluzione per porre fine alla
schiavitù a Monticello. Quando era ancora in Europa come ministro
plenipotenziario americano, aveva conosciuto coltivatori tedeschi che
lavoravano sodo e che lui riteneva “assolutamente indisponibili a
lasciarsi corrompere per denaro”100. Aveva preso in considerazione
l’idea di insediarli a Monticello “mischiati” con i suoi schiavi in piccole
fattorie di 20 ettari ciascuna. Questi tedeschi operosi e onesti erano
per Jefferson la personificazione del coltivatore virtuoso. Gli schiavi
sarebbero rimasti nella sua proprietà, ma i loro figli, cresciuti a fianco
dei coltivatori tedeschi, sarebbero diventati uomini liberi e “bravi
cittadini”. Il piano non fu mai attuato e, quando Humboldt lo conobbe,
Jefferson aveva accantonato ogni progetto di liberare i suoi schiavi.
Ma Humboldt non si stancò mai di condannare quello che definiva
“il peggiore di tutti i mali”101. Durante la sua visita a Washington non
osò criticare direttamente il presidente, ma all’amico e architetto di
Jefferson William Thornton disse che la schiavitù era una
“vergogna”102. Ovviamente l’abolizione della schiavitù avrebbe fatto
diminuire la produzione nazionale di cotone, diceva, ma non si poteva
misurare il benessere della popolazione “in base al valore delle
esportazioni”103: giustizia e libertà erano più importanti dei numeri e
della ricchezza di un manipolo di persone.
Che gli inglesi, i francesi o gli spagnoli potessero disquisire, come
facevano, su chi trattava i loro schiavi con più umanità – diceva
Humboldt – era altrettanto sciocco che discutere “se era meglio avere
lo stomaco squarciato o essere scotennato”104. La schiavitù era
tirannia e Humboldt, avendo viaggiato in America Latina, aveva
riempito il suo diario con descrizioni delle miserabili vite degli schiavi:
a Caracas un proprietario di piantagioni costringeva i suoi schiavi a
mangiare i propri escrementi, aveva scritto, mentre un altro li
torturava con aghi. Ovunque si fosse girato aveva visto le cicatrici delle
frustate sulle schiene degli schiavi. E gli indios non erano trattati
meglio105. In una missione lungo l’Orinoco, per esempio, aveva udito
di come i bambini venissero rapiti e venduti come schiavi. Una storia
particolarmente orribile riguardava un missionario che aveva
strappato con un morso i testicoli al suo sguattero come punizione per
averlo visto baciare una ragazza106.
C’era stata qualche eccezione. Attraversando il Venezuela, durante il
suo viaggio per raggiungere l’Orinoco, Humboldt era rimasto colpito
dal suo ospite al lago di Valencia che aveva incoraggiato il progresso
nell’agricoltura e la distribuzione della ricchezza, dividendo la sua
proprietà terriera in piccole fattorie107. Anziché gestire un’unica,
immensa piantagione, aveva dato buona parte della sua terra a
famiglie impoverite – schiavi liberati, o contadini troppo poveri per
possederne. Ora queste famiglie lavoravano come agricoltori
indipendenti; non erano ricchi, ma vivevano della loro terra. In
maniera analoga, tra Honda e Bogotá aveva visto piccole haciendas
dove padri e figli lavoravano insieme senza ricorrere a schiavi,
piantando canna da zucchero, ma anche altri vegetali commestibili per
il proprio autoconsumo. “Mi piace soffermarmi su questi dettagli”108,
diceva Humboldt, perché essi confermavano le sue ragioni.
Secondo Humboldt l’istituto della schiavitù era innaturale perché
“ciò che è contro la natura è iniquo, malvagio e privo di
fondatezza”109. Diversamente da Jefferson, convinto che i neri fossero
una razza “inferiore ai bianchi nelle doti sia fisiche che mentali”110,
Humboldt sosteneva che non c’erano razze superiori o inferiori.
Indipendentemente dalla nazionalità, dal colore o dalla religione, tutti
gli esseri umani vengono da una stessa radice. Esattamente come le
famiglie vegetali, spiegava, che si adattano in maniera diversa alle
rispettive condizioni geografiche e climatiche senza perciò perdere i
tratti di “una stessa specie”111, tutti gli esseri appartenenti alla razza
umana fanno parte di un’unica famiglia. Tutti gli uomini sono uguali e
non c’è una razza superiore a un’altra, perché “tutte sono parimenti
concepite per essere libere”112.
La natura era la maestra di Humboldt e la lezione più grande offerta
dalla natura era quella della libertà. “La natura è il regno della
libertà”113, diceva Humboldt, perché l’equilibrio della natura è creato
dalla diversità, che a sua volta può esser presa a modello di verità
politica e morale. Ogni elemento, dal più umile muschio o insetto
all’elefante o ai grandiosi alberi di quercia, ha il suo ruolo, e, insieme,
compongono il tutto. Il genere umano non ne è che una piccola parte.
È la natura in sé a essere una repubblica fondata sulla libertà.
1. AH, 29 aprile-20 maggio 1804, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, pp. 301 sgg.
2. Ivi, p. 302.
3. AH, Aus Meinem Leben (1769-1850), in Biermann 1987 p. 103.
4. AH, riepilogo della spedizione di Humboldt e Bonpland, fine giugno 1804, AH Lettere USA
2004, p. 508.
5. AH a Carl Ludwig Willdenow, 29 aprile 1803, AH Lettere America 1993, p. 230.
6. AH Lateinamerika 1982, p. 12.
7. AH a Friedrich Heinrich Jacobi, 3 gennaio 1791, AH Lettere 1973, p. 118.
8. AH a Jefferson, 24 maggio 1804, Terra 1959, p. 788.
9. Ivi, p. 787.
10. AH a James Madison, 24 maggio 1804, ivi, p. 796.
11. Edmund Bacon su Jefferson, Bear 1967, p. 71.
12. Nel 1804, Jefferson aveva sette nipoti: sei dalla figlia Martha (Anne Cary, Thomas
Jefferson, Ellen Wayles, Cornelia Jefferson, Virginia Jefferson, Mary Jefferson) e un nipote
sopravvissuto dalla seconda figlia Maria (Francis Wayles Eppes).
13. Margaret Bayard Smith su Jefferson, Hunt 1906, p. 405; vedi anche Edmund Bacon su
Jefferson, Bear 1967, p. 85.
14. Memorie di Edmund Bacon e Jefferson su Jefferson, Bear 1967, pp. 12, 18, 72-8.
15. Jefferson a Martha Jefferson, 21 maggio 1787, TJ Papers, vol. 11, p. 370.
16. Jefferson a Lucy Paradise, 1 giugno 1789, ivi, vol. 15, p. 163.
17. Wulf 2011, pp. 35-57, 70.
18. Istruzioni di Jefferson a Lewis, 1803, Jackson 1978, vol. 1, pp. 61-6.
19. Jefferson a AH, 28 maggio 1804, Terra 1959, p. 788; vedi anche Vincent Gray a James
Madison, 8 maggio 1804, Madison Papers SS, vol. 7, pp. 191-2.
20. Charles Willson Peale Diary, 29 maggio-21 giugno 1804, annotazione del 29 maggio 1804,
Peale 1983-2000, vol. 2, pt. 2, pp. 680 sgg.
21. North 1974, pp. 70 sgg.
22. Wulf 2011, pp. 83 sgg.
23. Ivi, pp. 129 sgg.
24. Friis 1959, p. 171.
25. John Quincy Adams, in Young 1966, p. 44.
26. La Casa Bianca veniva ancora chiamata Casa del Presidente. Il primo utilizzo di cui si ha
traccia del nome “Casa Bianca” risale soltanto al 1811. Wulf 2011, p. 125.
27. William Muir Whitehill nel 1803, Froncek 1977, p. 85.
28. Thomas Moore nel 1804, Norton 1976, p. 211.
29. Wulf 2011, pp. 145 sgg.
30. William Plumer, 10 novembre 1804 e 29 luglio 1805, Plumer 1923, pp. 193, 333.
31. Sir Augustus John Foster nel 1805-1807, Foster 1954, p. 10.
32. Jefferson a Charles Willson Peale, 20 agosto 1811, TJ Papers RS, vol. 4, p. 93.
33. Jefferson a Pierre-Samuel Dupont de Nemours, 2 marzo 1809, Jefferson 1944, p. 394.
34. Margaret Bayard Smith su Jefferson, Hunt 1906, p. 393.
35. Wulf 2011, p. 149.
36. Thomson 2012, pp. 51 sgg.
37. Per dettagli vedi Jefferson 1997 e Jefferson 1944; Jefferson a Ellen Wayles Randolph, 8
dicembre 1807, Jefferson 1986, p. 316; Edmund Bacon su Jefferson, Bear 1967, p. 33.
38. Jefferson alla American Philosophical Society, 28 gennaio 1797, TJ Papers, vol. 29, p. 279.
39. Alexander Wilson a William Bartram, 4 marzo 1805, Wilson 1983, p. 232.
40. Charles Willson Peale Diary, 29 maggio-21 giugno 1804, annotazione, 2 giugno 1804,
Peale 1983-2000, vol. 2, pt. 2, p. 690.
41. Margaret Bayard Smith su Jefferson, Hunt 1906, pp. 385, 396; per le invenzioni, vedi Isaac
Jefferson su Jefferson, Bear 1967, p. 18; Thomson 2012, pp. 166 sgg.
42. Margaret Bayard Smith su Jefferson, Hunt 1906, p. 396.
43. AH a Jefferson, 27 giugno 1804, Terra 1959, p. 789.
44. Charles Willson Peale Diary, 29 maggio-21 giugno 1804, Peale 1983-2000, vol. 2, pt. 2, pp.
690-700.
45. Caspar Wistar jr a James Madison, 29 maggio 1804, Madison Papers SS, vol. 7, p. 265.
46. Albert Gallatin a Hannah Gallatin, 6 giugno 1804, Friis 1959, p. 176.
47. Dolley Madison a Anna Payne Cutts, 5 giugno 1804, ivi, p. 175.
48. Albert Gallatin a Hannah Gallatin, 6 giugno 1804, ivi, p. 176.
49. Charles Willson Peale, Diary, 29 maggio-21 giugno 1804, annotazione del 30 maggio 1804,
Peale 1983-2000, vol. 2, pt. 2, p. 684; Louis Agassiz successivamente disse che le misurazioni
di AH rivelarono che le mappe precedenti erano così imperfette che la posizione del Messico
divergeva di circa 500 chilometri, Agassiz 1869, pp. 14-15.
580. Albert Gallatin a Hannah Gallatin, 6 giugno 1804, Friis 1959, p. 176.
51. Ivi, p. 177; la tavola di Jefferson con la “Louisiana and Texas Description, 1804”, DLC; vedi
anche Terra 1959, p. 786.
52. Albert Gallatin a Hannah Gallatin, 6 giugno 1804, Friis 1959, p. 176.
53. Charles Willson Peale Diary, 29 maggio-21 giugno 1804, annotazione del 29 maggio 1804,
Peale 1983-2000, vol. 2, pt. 2, p. 683.
54. Charles Willson Peale a John DePeyster, 27 giugno 1804, ivi, p. 725.
55. Albert Gallatin a Hannah Gallatin, 6 giugno 1804, Friis 1959, p. 176.
56. Jefferson a William Armistead Burwell, 1804, ivi, p. 181.
57. Jefferson a AH, 9 giugno 1804, Terra 1959, p. 789; vedi anche Rebok 2006, p. 131; Rebok
2014, pp. 48-50.
58. Jefferson a AH, 9 giugno 1804, Terra 1959, p. 789.
59. Jefferson a John Hollins, 19 febbraio 1809, Rebok 2006, p. 126.
60. AH a Jefferson, s.d., AH Lettere America 1993, p. 307.
61. Jefferson a Caspar Wistar, 7 giugno 1804, DLC.
62. Friis 1959, pp. 178-9; rapporti di AH per Jefferson, e AH, riepilogo della spedizione di
Humboldt e Bonpland, fine giugno 1804: AH Lettere USA 2004, pp. 484-94, 497-509.
63. Jefferson a James Madison 4 luglio 1804 e Jefferson a Albert Gallatin, 3 luglio 1804,
Madison Papers SS, vol. 7, p. 421.
64. AH a Albert Gallatin, 20 giugno 1804; vedi anche AH a Jefferson, 27 giugno 1804, Terra
1959, pp. 789, 801.
65. AH a James Madison, 21 giugno 1804, ivi, p. 796.
66. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, p. 2.
67. AH, 7 agosto-10 settembre 1803, Guanajuato, Messico, AH Lateinamerika 1982, p. 211.
68. AH, 9-12 settembre 1802, Hualgayoc, Perù, ivi, p. 208.
69. AH, febbraio 1802, Quito, ivi, p. 106.
70. AH, 23 ottobre-24 dicembre 1802, Lima, Perù, ivi, p. 232.
71. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, p. 79.
72. Ivi, vol. 4, p. 120.
73. AH, 22 febbraio 1800, AH Venezuela 2000, pp. 208-9.
74. AH Cuba 2011, p. 115; AH Personal Narrative 1814-29, vol. 7, p. 201.
75. AH New Spain 1811, vol. 3, p. 105; vedi anche AH Personal Narrative 1814-29, vol. 7, p.
161; AH Cuba 2011, p. 95.
76. AH, 23 giugno-8 luglio 1801, AH Río Magdalena 2003, vol. 1, p. 87.
77. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 7, p. 161; AH Cuba 2011, p. 95; AH New Spain 1811,
vol. 3, p. 105.
78. AH, 30 marzo 1800, AH Venezuela 2000, p. 238.
79. AH, 1-2 agosto 1803, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, pp. 253-7.
80. AH, 30 marzo 1800, AH Venezuela 2000, p. 238.
81. AH New Spain 1811, vol. 3, p. 454.
82. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 7, p. 236.
83. Jefferson a James Madison, 20 dicembre 1787, TJ Papers, vol. 12, p. 442.
84. Jefferson ai Rappresentanti del Territorio dell’Indiana, 28 dicembre 1805, DLC.
85. Wulf 2011, pp. 113-20; vedi anche per la rotazione delle colture: Jefferson a George
Washington, 12 settembre 1795, TJ Papers, vol. 28, pp. 464-5; 19 giugno 1796, TJ Papers, vol.
29, pp. 128-9; per il versoio per aratro: TJ a John Sinclair, 23 marzo 1798, TJ Papers, vol. 30,
p. 202; Thomson 2012, pp. 171-2.
86. Jefferson a James Madison, 19 maggio, 9 giugno, 1 settembre 1793, TJ Papers, vol. 26, pp.
62, 241, vol. 27, p. 7.
87. Jefferson, Summary of Public Service, dopo il 2 settembre 1800, ivi, vol. 32, p. 124.
88. Per il riso contrabbandato, vedi Wulf 2011, p. 70; Jefferson a Edward Rutledge, 14 luglio
1787, TJ Papers, vol. 11, p. 587; per la pena di morte, vedi Jefferson a John Jay, 4 maggio 1787,
TJ Papers, vol. 11, p. 339; per le coltivazioni di aceri da zucchero, vedi Wulf 2011, pp. 94 sgg.;
per 330 varietà di vegetali, vedi Hatch 2012, p. 4.
89. Jefferson a Arthur Campbell, 1 settembre 1797, TJ Papers, vol. 29, p. 522.
90. Jefferson a Horatio Gates Spafford, 17 marzo 1814, TJ RS Papers, vol. 7, p. 248; per
Jefferson sulla proprietà della terra e i principi morali, vedi Jefferson 1982, p. 165.
91. Jefferson a Madison, 28 ottobre 1785, TJ Papers, vol. 8, p. 682.
92. Bozza di Jefferson per la Costituzione della Virginia, antecedente il 13 giugno 1776 (tutte e
tre le bozze contenevano questo provvedimento), TJ Papers, vol. 1, pp. 337 sgg.
93. Madison, “Republican Distribution of Citizens”, National Gazette, 2 marzo 1792.
94. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, p. 15.
95. AH Geography 2009, p. 134; AH Geographie 1807, p. 171; vedi anche AH Cuba 2011, pp.
142 sgg.; AH Personal Narrative 1814-29, vol. 7, pp. 260 sgg.
96. AH, 23 giugno-8 luglio 1801, AH Río Magdalena 2003, vol. 1, p. 87.
97. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 1, p. 127.
98. Ivi, vol. 3, p. 3.
99. Wulf 2011, p. 41.
100. Jefferson a Edward Bancroft, 26 gennaio 1789, TJ Papers, vol. 14, p. 492.
101. AH Cuba 2011, p. 144; AH Personal Narrative 1814-29, vol. 7, p. 263.
102. AH a William Thornton, 20 giugno 1804, AH Lettere America 1993, pp. 199-200.
103. Ibid.
104. AH, 4 gennaio-17 febbraio, “Colonies”, AH Lateinamerika 1982, p. 66.
105. AH, 9-10 giugno 1800, ivi, p. 255.
106. AH, Lima 23 ottobre-24 dicembre 1802, frammento intitolato “Missions”, ivi, p. 145.
107. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, pp. 126-7; per le fattorie tra Honda e Bogotá, vedi
AH, 23 giugno-8 luglio 1801, AH Río Magdalena 2003, vol. 1, p. 87.
108. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 128.
6109. AH, 23 giugno-8 luglio 1801, AH Río Magdalena 2003, vol. 1, p. 87.
110. Jefferson 1982, p. 143.
111. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 474; per la comune appartenenza della razza
umana, vedi anche AH Cosmos 1845-52, vol. 1, pp. 351, 355; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, pp.
381-5; AH Cordilleras 1814, vol. 1, 1814, p. 15.
112. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 355; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 385.
113. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 3; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 4.
*. L’anno prima Napoleone aveva abbandonato l’idea di una colonia francese in Nord America
quando la maggior parte dei 25.000 soldati che aveva spedito ad Haiti per sedare la ribellione
degli schiavi vi erano morti di malaria. Il piano originario di Napoleone prevedeva il
trasferimento del suo esercito da Haiti a New Orleans, ma a seguito della disastrosa campagna
militare e con solo pochi uomini rimasti rinunciò a questa strategia e, invece, vendette il
Territorio della Louisiana agli Stati Uniti.
PARTE III

Ritorno: l’ordinamento delle idee


Capitolo nono

Europa

Verso la fine di giugno del 1804, Humboldt lasciò gli Stati Uniti sulla
fregata francese Favorite1 e nell’agosto, poche settimane prima del suo
trentacinquesimo compleanno, arrivò a Parigi accolto come un eroe.
Era stato via per più di cinque anni e tornava con i bauli pieni di
dozzine di taccuini, centinaia di schizzi e decine di migliaia di
osservazioni astronomiche, geologiche e meteorologiche. Riportava
circa 60.000 esemplari di piante, 6.000 specie, di cui almeno 2.000
erano sconosciute ai botanici europei: un numero sbalorditivo, se si
pensa che alla fine del diciottesimo secolo le specie conosciute erano
all’incirca 6.000. Humboldt si vantava di averne raccolte più di
chiunque altro2.
“Non vedo l’ora di essere di nuovo a Parigi!”3, aveva scritto da Lima
a uno scienziato francese quasi due anni prima. Ma questa Parigi era
diversa dalla città che aveva lasciato nel 1798. Humboldt aveva lasciato
una repubblica e ora trovava una nazione governata da un dittatore.
Dopo il colpo di stato del 1799, Napoleone si era proclamato Primo
console e in tal modo era diventato l’uomo più potente di Francia.
Appena qualche settimana prima dell’arrivo di Humboldt, Napoleone
aveva annunciato che sarebbe stato incoronato Imperatore di Francia.
Le strade risuonavano del rumore degli attrezzi per le opere edilizie
che erano state avviate per realizzare la grande visione che Napoleone
aveva di Parigi. “Sono così spaesato che prima di tutto devo
orientarmi”64, scrisse Humboldt a un vecchio amico. La cattedrale di
Notre-Dame era in corso di restauro in vista dell’incoronazione di
Napoleone a dicembre e le case medievali con la struttura in legno
venivano demolite per fare spazio alle aree pubbliche, alle fontane e ai
boulevard. Si stava scavando un canale, lungo cento chilometri, per
portare acqua fresca a Parigi e si stava costruendo il Quai d’Orsay per
impedire le inondazioni della Senna.

Humboldt al suo ritorno in Europa

Molti dei giornali che Humboldt aveva conosciuto erano stati chiusi
o erano ora gestiti da editori leali nei confronti del nuovo regime,
mentre erano proibite le caricature di Napoleone e del suo regno.
Napoleone aveva istituito una nuova forza di polizia nazionale come
anche la Banque de France che regolava la moneta nazionale. Il suo
governo era centralizzato a Parigi e tutti gli aspetti della vita della
nazione erano sotto il suo stretto controllo. La sola cosa che non
sembrava essere cambiata era che in Europa la guerra continuava a
imperversare.
Il motivo per cui Humboldt aveva scelto Parigi come nuova dimora
era semplice: nessun’altra città era così impregnata di scienza. In
Europa non c’era altro posto in cui al pensiero fosse consentito di
essere altrettanto libero. Con la Rivoluzione francese il ruolo della
Chiesa cattolica si era ridotto e in Francia gli scienziati non erano più
vincolati da canoni religiosi o da credenze ortodosse. Potevano
sperimentare e speculare liberi da pregiudizi, mettendo in questione
qualunque cosa. La ragione era la nuova religione e fiumi di denaro si
riversavano sulle scienze5. Al Jardin des Plantes, come era conosciuto
l’ex Jardin du Roi, erano state costruite nuove serre e il Museo di
storia naturale si stava espandendo con collezioni saccheggiate in tutta
Europa dall’esercito di Napoleone: erbari, fossili, animali impagliati e
anche due elefanti vivi provenienti dall’Olanda6. A Parigi Humboldt
trovò pensatori con le sue stesse idee, insieme con incisori e società
scientifiche, salotti e istituzioni interessati alle scienze. Parigi era
anche il centro dell’editoria europea. In breve, era il posto perfetto per
Humboldt, che desiderava condividere le sue idee con il mondo.
La città brulicava di attività. Era una vera metropoli, con una
popolazione di circa mezzo milione di abitanti, la seconda città più
grande d’Europa dopo Londra. Nel decennio dopo la rivoluzione,
Parigi era caduta in rovina e in preda all’austerità, ma ora erano
tornate a prevalere la frivolezza e l’allegria. Alle donne ci si rivolgeva
con l’appellativo di “Madame” o “Mademoiselle” invece che “cittadina”
e a decine di migliaia di francesi esiliati era stato concesso di rientrare.
C’erano caffè ovunque e dopo la rivoluzione il numero dei ristoranti
era cresciuto rapidamente da un centinaio a cinquecento7. Gli
stranieri erano spesso sorpresi nel constatare quanto la vita parigina si
svolgesse fuori casa. L’intera popolazione sembrava vivere in pubblico,
“come se le case fossero costruite solo per dormirci”, affermò il poeta
romantico inglese Robert Southey8.
Lungo le rive della Senna, accanto al piccolo appartamento che
Humboldt aveva affittato a Saint-Germain, centinaia di lavandaie con
le maniche arrotolate lavavano e strofinavano i panni sotto gli occhi di
coloro che passavano sui molti ponti della città. Le strade erano
fiancheggiate da banchi che offrivano di tutto, dalle ostriche e dai
grappoli d’uva ai mobili. Ciabattini, arrotini e venditori ambulanti
offrivano rumorosamente i loro servizi. Animali che si esibivano,
giocolieri che facevano i loro numeri e “filosofi” che arringavano il
pubblico o effettuavano esperimenti. Qui un vecchio strimpellava
l’armonica a bocca, là un bambino batteva sul tamburello e un cane
faceva suonare con le zampe un organetto. I “grimacier” contorcevano
le facce nelle più orribili forme, mentre l’odore delle caldarroste si
mescolava con altri olezzi meno piacevoli9. Era, disse un visitatore,
come se la città intera fosse “dedita esclusivamente al godimento”10.
Anche a mezzanotte le strade erano ancora affollate, con musicisti,
attori e prestigiatori che intrattenevano la gente. Tutta la città, osservò
un altro turista, sembrava in “perenne agitazione”11.
Ciò che sorprendeva gli stranieri era il fatto che tutte le classi
vivevano sotto lo stesso tetto in grandi edifici: dall’appartamento di un
duca al piano nobile agli alloggi della servitù o delle modiste nelle
soffitte del quinto piano. Anche l’alfabetizzazione sembrava andare al
di là delle classi. Persino le ragazze che vendevano fiori o ciondoli
avevano la testa sprofondata nei libri quando non c’erano clienti che
abbisognassero della loro attenzione12. Una bancarella dopo l’altra
fiancheggiavano le strade e le conversazioni ai tavoli che
ingombravano i marciapiedi davanti ai ristoranti e ai caffè vertevano
spesso sulla bellezza e sull’arte o potevano riguardare un “discorso su
qualche astruso punto di matematica superiore”13.
Vita di strada a Parigi

Humboldt adorava Parigi e la conoscenza che pulsava nelle strade,


nei salotti e nei laboratori. L’Académie des sciences * era il cuore della
ricerca scientifica, ma c’erano anche molti altri posti. L’anfiteatro di
anatomia all’École de Medicine poteva accogliere 1.000 studenti,
l’osservatorio era attrezzato con gli strumenti migliori e il Jardin des
Plantes vantava, oltre al grande giardino botanico, un serraglio,
un’enorme collezione di oggetti di storia naturale e una biblioteca.
C’era tanto da fare e c’erano tante persone da incontrare.
Il venticinquenne chimico Joseph Louis Gay-Lussac affascinava il
mondo scientifico con le audaci ascensioni in mongolfiera, che
utilizzava per studiare il magnetismo terrestre a grandi altezze. Il 16
settembre 1804, appena tre settimane dopo l’arrivo di Humboldt, Gay-
Lussac effettuò rilevazioni magnetiche e misurò le temperature e la
pressione atmosferica a più di 7.000 metri di altezza14, 1.000 metri in
più rispetto a quelli scalati da Humboldt sul Chimborazo. Com’era da
prevedere, Humboldt era impaziente di comparare i risultati di Gay-
Lussac con i suoi sulle Ande. Nel giro di pochi mesi, Gay-Lussac e
Humboldt tenevano conferenze insieme all’Académie. Divennero
amici così stretti da viaggiare insieme e addirittura condividere una
cameretta e studiare nelle soffitte dell’École Polytechnique qualche
anno più tardi15.
Ovunque si volgesse, Humboldt trovava nuove e stimolanti teorie.
Al museo di storia naturale al Jardin des Plantes incontrava i
naturalisti Georges Cuvier e Jean-Baptiste Lamarck. Cuvier aveva
trasformato il controverso concetto delle estinzioni in un fatto
scientifico, esaminando ossa fossili e concludendo che non
appartenevano ad animali esistenti. E Lamarck aveva sviluppato di
recente una teoria della trasmutazione graduale delle specie, aprendo
la strada alle idee evoluzioniste. L’illustre astronomo e matematico
Pierre-Simon Laplace stava lavorando su idee riguardanti la
formazione della terra e dell’universo che aiutarono Humboldt a
foggiare le proprie idee. Gli eruditi di Parigi stavano spostando i
confini del pensiero scientifico.
Tutti erano eccitati per il ritorno di Humboldt sano e salvo. Era
passato tanto tempo, scrisse Goethe a Wilhelm von Humboldt, che si
aveva l’impressione che Alexander “fosse risorto dalla morte”16. Altri
proposero che Humboldt venisse nominato presidente dell’Accademia
delle scienze di Berlino, ma egli non aveva intenzione di tornare a
Berlino17. Neanche la sua famiglia ci stava più. Con entrambi i genitori
defunti e Wilhelm di nuovo a Roma come ministro plenipotenziario
prussiano presso il Vaticano, non c’era nulla che lo inducesse a
tornare.
Con sua grande sorpresa, Humboldt scoprì che la moglie di
Wilhelm, Caroline, viveva a Parigi. Incinta del sesto figlio, aveva
lasciato Roma per la Francia nel giugno del 1804 con due dei suoi figli,
dopo che quello di nove anni era morto, l’estate precedente. Il clima
più mite di Parigi, riteneva la coppia, sarebbe stato meglio per i due
bambini, che soffrivano anche di gravi febbri, rispetto al caldo
soffocante di Roma durante l’estate18. Wilhelm, bloccato a Roma,
sollecitava la moglie per avere anche i minimi dettagli riguardo al
ritorno del fratello. Come stava? Che progetti aveva? Era cambiato?
Dopo questa avventura, le persone lo squadrano come fosse una
“creatura bizzarra”?19
Un aerostato sopra Parigi

Aveva davvero un bell’aspetto, rispondeva Caroline. Le fatiche degli


anni della spedizione non lo avevano indebolito; al contrario,
Alexander non era mai stato più sano. Le tante montagne scalate lo
avevano reso forte e lo avevano lasciato in ottima salute, pensava
Caroline, e il cognato sembrava non essere invecchiato nel corso degli
anni. Era come se “ci avesse lasciato ierlaltro”20. Le sue maniere, i
suoi gesti e l’espressione del volto erano praticamente gli stessi di
prima, scriveva a Wilhelm. L’unica differenza era che aveva messo su
un po’ di peso e che parlava ancora di più e più in fretta, ammesso che
fosse possibile.
Ma né Caroline né Wilhelm approvavano il desiderio di Alexander di
rimanere in Francia. Era un suo dovere patriottico tornare a Berlino e
viverci per un po’, dicevano, ricordandogli la sua “tedeschità”21, la sua
“germanità”. Quando Wilhelm gli scrisse che “si deve onorare la
patria”22, Alexander scelse di ignorare il fratello. Subito prima della
sua partenza per gli Stati Uniti, aveva già scritto a Wilhelm da Cuba
che non aveva alcun desiderio di rivedere Berlino23. Quando sentiva
che Wilhelm desiderava che si trasferisse a Berlino, si limitava a “fare
smorfie”24, gli riferiva Caroline. Si stava divertendo fin troppo a
Parigi. “La fama è più grande che mai”25, si vantava Alexander con il
fratello.
Dopo il loro arrivo, Bonpland era andato prima di tutto a visitare la
famiglia nella città portuale di La Rochelle, sulla costa atlantica della
Francia26, ma Humboldt e Carlos Montúfar, che lo aveva
accompagnato in Francia, si erano messi immediatamente in viaggio
per Parigi. Humboldt si gettò nella sua nuova vita nella capitale.
Desiderava condividere i risultati della sua spedizione. Nel giro di tre
settimane tenne una serie di conferenze sulle sue esplorazioni in sale
gremite presso l’Académie des sciences27. Saltava così agilmente da
un argomento all’altro che nessuno riusciva a stargli dietro. Humboldt
“riunisce intorno a sé l’intera Académie”28, dichiarò un chimico
francese. Quando assistevano alle sue conferenze, leggevano i suoi
manoscritti ed esaminavano le sue collezioni, gli scienziati si stupivano
di quanta familiarità un singolo uomo potesse avere con tante
discipline diverse. Anche quelli che in passato erano stati critici nei
confronti delle sue capacità erano ora entusiasti, scrisse
orgogliosamente Humboldt a Wilhelm29.
Conduceva esperimenti, scriveva sulla sua spedizione e discuteva le
sue teorie con i nuovi amici scienziati. Humboldt lavorava tanto che
sembrava come se “la notte e il giorno fossero un’unica quantità di
tempo”30, in cui egli lavorava, dormiva e mangiava, osservò un
visitatore americano a Parigi. L’unico modo in cui Humboldt poteva
tenere il passo era di dormire pochissimo e solo se doveva. Se in piena
notte si svegliava, si alzava e lavorava. Se non aveva fame, ignorava i
pasti. Se era stanco, beveva più caffè.
Ovunque andasse, Humboldt suscitava un’attività frenetica. Il
Bureau des Longitudes utilizzava le sue precise misurazioni
geografiche, altri copiavano le sue mappe, gli incisori lavoravano sulle
sue illustrazioni e il Jardin des Plantes inaugurava un’esposizione che
metteva in mostra i suoi esemplari botanici. I campioni di roccia del
Chimborazo provocarono un’eccitazione simile a quella provocata
dalle rocce riportate dalla luna nel ventesimo secolo31. Humboldt non
prevedeva di tenersi i suoi esemplari, ma li spediva invece agli
scienziati in tutta Europa, perché riteneva che la condivisione aprisse
la strada a nuove e più grandi scoperte32. Come gesto di gratitudine
nei confronti del fedele amico Aimé Bonpland, Humboldt sfruttò i suoi
contatti per assicurargli un assegno annuo di 3.000 franchi da parte
del governo francese. Bonpland, disse Humboldt, aveva grandemente
contribuito al successo della spedizione e aveva anche descritto la
maggior parte degli esemplari botanici33.

Sebbene avesse piacere di essere celebrato, a Parigi Humboldt si


sentiva uno straniero e temeva il primo inverno europeo. Non è
sorprendente, dunque, che fosse attratto da un gruppo di giovani
sudamericani che all’epoca vivevano a Parigi, incontrati,
probabilmente, tramite Montúfar34. Uno era il ventunenne Simón
Bolívar35, il venezuelano che in seguito sarebbe diventato il capo delle
rivoluzioni in Sudamerica *36. Nato nel 1783, Bolívar era figlio di una
delle più ricche famiglie creole di Caracas. I Bolívar potevano far
risalire la loro discendenza fino a un altro Simón de Bolívar, che era
arrivato in Venezuela alla fine del sedicesimo secolo. Fin da allora, la
famiglia aveva prosperato e ora possedeva diverse piantagioni, miniere
e case eleganti in città. Bolívar aveva lasciato Caracas a seguito della
morte della sua giovane moglie per la febbre gialla appena pochi mesi
dopo il matrimonio. L’aveva amata appassionatamente e, per alleviare
la sua afflizione, si era imbarcato per un Grand Tour in Europa. Era
arrivato a Parigi all’incirca nello stesso periodo di Humboldt e si era
gettato in un circuito di bevute, gioco d’azzardo, sesso e discussioni
notturne sulla filosofia dell’Illuminismo. Scuro, con lunghi capelli neri
e ricci e con una bella dentatura bianca (di cui si prendeva particolare
cura)37, Bolívar vestiva all’ultima moda. Adorava ballare e le donne lo
trovavano estremamente attraente38.
Quando Bolívar andò a trovare Humboldt nel suo appartamento,
pieno di libri, riviste e disegni del Sud America, scoprì un uomo
incantato dal suo paese, un uomo che non si stancava di parlare delle
ricchezze di un continente sconosciuto per la maggior parte degli
europei39. Quando Humboldt parlava delle grandi rapide dell’Orinoco
e delle svettanti cime delle Ande, delle palme torreggianti e delle
anguille elettriche, Bolívar si rendeva conto che nessun europeo prima
aveva mai dipinto il Sud America con colori così vividi40.
Parlavano di politica e anche di rivoluzioni41. Entrambi erano a
Parigi quell’inverno, quando Napoleone si incoronò imperatore.
Bolívar era sconvolto nel vedere come il suo eroe si fosse trasformato
in un despota e in un “tiranno ipocrita”42. Al tempo stesso, però,
vedeva anche come la Spagna si sforzasse di contrastare le ambizioni
militari di Napoleone e cominciava a pensare cosa potesse significare,
per le colonie spagnole, questo spostamento di potere in Europa.
Quando discutevano del futuro del Sud America, Humboldt sosteneva
che, mentre le colonie erano forse mature per una rivoluzione, non
c’era nessuno che le guidasse43. Bolívar, tuttavia, gli diceva che il
popolo sarebbe stato “forte quanto Dio”44 il giorno che avesse deciso
di combattere. Bolívar cominciava a pensare alla possibilità di una
rivoluzione nelle colonie.
Entrambi nutrivano un desiderio profondo di vedere gli spagnoli
cacciati dal Sud America45. Humboldt era rimasto impressionato
dagli ideali della rivoluzione americana e di quella francese e sposava
anche l’idea dell’emancipazione dell’America Latina. L’idea stessa di
colonia, sosteneva Humboldt, era una concezione immorale e un
governo coloniale era un “governo di sfiducia”46. Quando aveva
viaggiato attraverso il Sud America, Humboldt era rimasto sorpreso
sentendo la gente parlare con entusiasmo di George Washington e di
Benjamin Franklin47. I coloni gli avevano detto che la Rivoluzione
americana gli dava una speranza per il loro futuro, ma, nel contempo,
aveva anche visto la diffidenza razziale che affliggeva la società
sudamericana.
Per tre secoli gli spagnoli avevano fomentato i sospetti fra le classi e
le razze delle loro colonie. I ricchi creoli, era la convinzione di
Humboldt, preferivano essere governati dalla Spagna piuttosto che
condividere il potere con i meticci, gli schiavi e gli indigeni48. Se mai,
paventava, si sarebbero limitati a creare una “repubblica bianca”59
basata sulla schiavitù. Nella visione di Humboldt, queste differenze
razziali erano così profondamente radicate nella costituzione sociale
delle colonie spagnole che esse non erano mature per una rivoluzione.
Bonpland, tuttavia, era più convinto e incoraggiava Bolívar nelle idee
che si stava formando50; tanto che Humboldt credeva che Bonpland
fosse un giovane creolo deluso quanto impetuoso. Anni dopo, tuttavia,
Humboldt avrebbe ricordato con affetto il suo incontro con Bolívar
come “un periodo in cui stavamo facendo i voti per l’indipendenza e la
libertà del Nuovo Continente”51.

Sebbene circondato da persone tutto il giorno, Humboldt rimaneva


emotivamente distante. Era rapido nel giudicare le persone, troppo
rapido e avventato, ammetteva52. C’era in lui, certamente, una vena di
Schadenfreude e godeva nel mettere in evidenza i passi falsi delle
persone53. Sempre pronto, di tanto in tanto si faceva trascinare a
inventare soprannomi spregiativi o a pettegolare alle spalle delle
persone. Il re di Sicilia, per esempio, lo ribattezzò “re alla buona”54
mentre un ministro conservatore prussiano fu definito “un ghiacciaio”
così gelato, scherzava Humboldt, che gli aveva procurato un
reumatismo alla spalla sinistra55. Ma, dietro l’ambizione di
Humboldt, dietro la sua attività febbrile e i commenti affilati, pensava
il fratello Wilhelm, c’erano una grande delicatezza e una vulnerabilità
di cui nessuno si accorgeva realmente56. Sebbene Alexander aspirasse
alla fama e al riconoscimento, spiegava Wilhelm a Caroline, queste
cose non lo avrebbero mai reso felice. Durante le sue esplorazioni, la
natura e lo sforzo fisico lo avevano appagato, ma ora che era tornato in
Europa si sentiva di nuovo solo.
Mentre era continuamente impegnato a connettere e mettere in
relazione ogni cosa nel mondo naturale, era stranamente
unidimensionale quando si trattava delle sue relazioni personali.
Quando, per esempio, Humboldt venne a sapere che un amico stretto
era morto mentre lui era via, scrisse alla vedova una lettera di filosofia
più che di condoglianze. In essa Humboldt parlava più del modo in cui
greci ed ebrei concepivano la morte piuttosto che dell’ex marito della
vedova; aveva anche scritto la lettera in francese sapendo che lei non
lo capiva57. Quando, qualche settimana dopo il suo arrivo a Parigi, la
figlia di tre mesi di Caroline e Wilhelm morì a seguito di una
vaccinazione anti-vaiolo – il secondo figlio che perdevano in poco più
di un anno – Caroline piombò in una profonda malinconia. Sola con il
suo dolore e con il marito lontano, a Roma, Caroline sperava in un
qualche sostegno emotivo da parte del suo occupatissimo cognato, ma
avvertì che le sue espressioni di cordoglio non erano altro che
“dimostrazioni formali piuttosto che espressioni di un’emozione
profonda”58.
Ma Caroline, malgrado la sua sofferenza, si preoccupava di
Humboldt. Sebbene fosse sopravvissuto a una spedizione, Alexander
era meno capace quando si trattava degli aspetti più pratici della vita
quotidiana. Ignorava, per esempio, quanto il suo viaggio di cinque
anni avesse eroso il suo patrimonio. Caroline lo riteneva così ingenuo
rispetto alla sua situazione finanziaria che chiese a Wilhelm di
scrivergli da Roma una lettera seria per spiegargli la vera situazione
delle sostanze decrescenti di Alexander759. Allora, nell’autunno del
1804, mentre si preparava a lasciare Parigi per tornare a Roma,
Caroline non se la sentiva di abbandonare Alexander. “Lasciarlo da
solo senza alcun freno”, scrisse a Wilhelm, sarebbe stato disastroso.
“Tremo per la sua pace interiore.”60 Avvertendo il suo livello di
preoccupazione, Wilhelm le suggerì di restare ancora un po’.
Alexander era irrequieto come sempre, riferì Caroline al marito,
costantemente intento ad architettare nuovi progetti di viaggio. La
Grecia, l’Italia, la Spagna, “gli frullano per la testa tutti i paesi
europei”61. Infiammato dalla sua visita a Philadelphia e Washington
all’inizio dell’anno, sperava di esplorare anche il continente
nordamericano. Desiderava andare nella parte occidentale, scrisse a
una delle sue nuove conoscenze americane, un progetto per il quale
Thomas Jefferson “sarebbe proprio l’uomo giusto per aiutarmi”. C’era
tanto da vedere. “La mia mente si è fissata sul Missouri, sul circolo
artico e sull’Asia”, scrisse, e “bisogna sfruttare al massimo la nostra
gioventù”62. Ma, prima di impegnarsi in un’altra avventura, era ora di
accingersi a riordinare i risultati della spedizione precedente; ma da
dove cominciare?
Humboldt non pensava a un unico libro. Aveva in mente, piuttosto,
una serie di grandi volumi con belle illustrazioni, che avrebbero
raffigurato, per esempio, le superbe vette delle Ande, fiori esotici,
manoscritti antichi e le rovine degli Inca. Intendeva anche scrivere
alcuni libri più specializzati: pubblicazioni di botanica e di zoologia,
che descrivessero le piante e gli animali dell’America Latina in
maniera precisa e scientifica, e anche qualcuno di astronomia e
geografia. Progettava un atlante che avrebbe incluso le sue nuove
mappe che mostravano la distribuzione delle piante nel globo,
l’ubicazione dei vulcani e delle catene montuose, dei fiumi e così via.
Ma Humboldt desiderava anche scrivere libri più generali e a buon
mercato che spiegassero la sua nuova visione della natura a un
pubblico più vasto. Affidò a Bonpland l’incarico di occuparsi dei libri
di botanica, ma di tutti gli altri se ne sarebbe occupato lui stesso63.
Con una mente che lavorava in tutte le direzioni, spesso Humboldt
faticava a tenere il passo con i suoi stessi pensieri. Come ebbe a
scrivere, sarebbero saltate fuori nuove idee che erano compresse nella
pagina; alludeva ai piccoli schizzi o agli appunti scarabocchiati sui
margini. Quando esauriva lo spazio, Humboldt utilizzava il suo grande
tavolo su cui incideva e scribacchiava le sue idee. Ben presto l’intera
superficie del tavolo fu ricoperta di numeri, linee e parole, tanto che si
dovette chiamare un falegname a piallarlo64.
La scrittura non gli impediva di viaggiare, finché era in Europa e
vicino ai centri della cultura scientifica. Se costretto, Humboldt poteva
lavorare ovunque, anche sul retro di una carrozza, tenendo in bilico i
suoi taccuini sulle ginocchia e riempiendo le pagine con la sua
scrittura pressoché indecifrabile. Desiderava fare visita a Wilhelm a
Roma e vedere le Alpi e il Vesuvio. Nel marzo del 1805, sette mesi
dopo il suo arrivo in Francia e solo poche settimane dopo che Caroline
aveva lasciato definitivamente Parigi per Roma, Humboldt e il suo
nuovo amico, il chimico Gay-Lussac, si misero anch’essi in viaggio per
l’Italia65. Humboldt passò molto del suo tempo con il ventiseienne
Gay-Lussac, che non era sposato e che sembrava avere sostituito
Carlos Montúfar come amico più stretto di Humboldt quando
Montúfar si era spostato a Madrid all’inizio dell’anno *.
Humboldt e Gay-Lussac si recarono dapprima a Lione e da lì a
Chambéry, una cittadina del sud-est della Francia da cui avrebbero
visto le Alpi levarsi all’orizzonte. Non appena l’aria tiepida risvegliò la
vita nelle campagne francesi, le foglie spuntarono ricoprendo gli alberi
nel fresco verde della nuova stagione. Gli uccelli costruivano i loro nidi
e le strade erano contornate dalla splendente fioritura dei fiori
primaverili. I viaggiatori erano equipaggiati con i migliori strumenti e
si fermavano regolarmente per effettuare misurazioni meteorologiche
che Humboldt desiderava confrontare con quelle eseguite in America
Latina. Da Chambéry, continuarono verso sud-est e attraversarono le
Alpi verso l’Italia66. A Humboldt piaceva molto ritrovarsi di nuovo
sulle montagne.
Arrivarono a Roma l’ultimo giorno di aprile e si stabilirono presso
Wilhelm e Caroline67. Da quando la coppia si era trasferita a Roma,
due anni e mezzo prima, la loro casa era diventata un luogo d’incontro
di artisti e pensatori. Ogni mercoledì e ogni domenica Caroline e
Wilhelm offrivano un pranzo e di sera ricevevano un gran numero di
persone. Arrivavano scultori, archeologi e scienziati da ogni parte
d’Europa, non importa se erano pensatori famosi, viaggiatori
aristocratici o artisti che faticavano ad affermarsi68. Qui Humboldt
trovò un pubblico animato da vivo interesse per i suoi racconti sulle
foreste pluviali e sulle Ande, ma anche artisti che trasformavano i suoi
più rozzi schizzi in magnifiche illustrazioni per le sue pubblicazioni.
Humboldt aveva combinato di incontrare Leopold von Buch, un
vecchio amico dei tempi dell’accademia mineraria di Freiberg, che era
ora uno dei geologi più rispettati d’Europa. Avevano in programma di
fare ricerche insieme sul Vesuvio e sulle Alpi69.
Humboldt trovò a Roma altre conoscenze. In luglio arrivò dalla
Francia Simón Bolívar. Durante l’inverno precedente, allorché le
giornate fredde avevano avvolto Parigi in una coltre di grigio, Bolívar
era piombato in uno stato d’animo cupo. Simón Rodriguez, il suo
vecchio insegnante di Caracas, che era anche lui a Parigi, gli aveva
suggerito un viaggetto. In aprile, si erano recati in diligenza a Lione e
poi avevano cominciato a camminare. Camminarono lungo i campi e
attraverso i boschi godendo dell’ambiente rurale. Parlavano,
cantavano e leggevano. Lentamente Bolívar liberò il proprio fisico e la
propria mente di tutte le dissipatezze dei mesi precedenti. Per tutta la
vita Bolívar aveva adorato stare all’aperto e ora si sentiva ancora una
volta rinvigorito dall’aria fresca, dall’esercizio e dalla natura. Quando
videro le Alpi levarsi all’orizzonte, Bolívar si ricordò dei paesaggi
selvaggi della giovinezza, delle montagne sulle quali si annidava
Caracas. I suoi pensieri erano ora profondamente assorbiti dal suo
paese. In maggio attraversò le Alpi della Savoia e camminò fino a
Roma70.
A Roma Bolívar e Humboldt parlarono nuovamente di Sud America
e di rivoluzioni. Sebbene Humboldt sperasse che le colonie spagnole si
liberassero da sole, in nessun momento del tempo trascorso insieme a
Parigi e poi a Roma ebbe a considerare Bolívar come il loro potenziale
leader. Bolívar discuteva con entusiasmo della liberazione del suo
popolo, ma Humboldt vedeva solo un uomo con un’immaginazione
brillante – “un sognatore”71 – come diceva, e un uomo ancora
immaturo. Humboldt non era convinto, ma, come raccontò in seguito
un amico comune, furono “la grande saggezza e lo spiccato buon
senso”72 di Humboldt ad aiutare Bolívar all’epoca in cui era ancora
giovane e ribelle. L’amico di Humboldt, Leopold von Buch, uomo
famoso per le sue conoscenze geologiche, ma anche per il suo
comportamento scontroso e brusco, era irritato per la deriva politica di
quello che aveva ritenuto dovesse essere un raduno di menti
scientifiche. Buch liquidò subito Bolívar come un “contafrottole”73,
pieno di idee incendiarie. Si senti sollevato, quindi, quando il 16 luglio
lasciò Roma per Napoli e Venezia – insieme con Humboldt e Gay-
Lussac, ma senza Bolívar.

Un’eruzione del Vesuvio

La scelta del momento non poteva essere stata più tempestiva. Un


mese dopo, la sera del 12 agosto, mentre Humboldt stava
intrattenendo un gruppo di tedeschi in visita a Napoli con racconti
dell’Orinoco e delle Ande, il Vesuvio cominciò a eruttare davanti ai
loro occhi74. Humboldt non riusciva a capacitarsi di tanta fortuna.
Come commentò uno scienziato, era “un omaggio che il Vesuvio aveva
deciso di offrire a Humboldt”75. Dal balcone della casa dei suoi ospiti,
Humboldt vide la lava incandescente scendere lungo i fianchi della
montagna, distruggendo vigneti, paesi e boschi. Napoli si trovò
illuminata in maniera strana, innaturale. Nel giro di pochi minuti,
Humboldt fu pronto per correre verso il vulcano eruttante per
osservare l’eruzione il più vicino possibile. Nei giorni successivi, salì
sul Vesuvio per sei volte. Era tutto davvero impressionante, scrisse a
Bonpland, ma nulla rispetto al Sud America. In confronto al Cotopaxi,
il Vesuvio era come “un asteroide accanto a Saturno”76.
A Roma nel frattempo, in un giorno particolarmente caldo di metà
agosto, Bolívar, Rodriguez e un altro amico sudamericano facevano
una passeggiata in cima alla collina di Monte Sacro. Lì, con la città ai
loro piedi, Rodriguez raccontò la storia dei plebei che nell’antica Roma
– su quella stessa collina – avevano minacciato di separarsi dalla
repubblica per protestare contro il governo dei patrizi. Ascoltando
questa storia, Bolívar cadde in ginocchio, afferrò la mano di Rodriguez
e giurò che avrebbe liberato il Venezuela77. Non si sarebbe fermato,
dichiarò Bolívar, finché “non avrò spezzato le catene”78. Per Bolívar
questo fu un punto di svolta e d’ora in poi la libertà del suo paese
divenne il faro che avrebbe guidato la sua vita. Due anni dopo, quando
arrivò a Caracas, non era più il damerino amante delle feste, ma un
uomo guidato dalle idee di rivoluzione e di libertà. I semi della
liberazione del Sud America stavano germinando.
Nel momento in cui Humboldt tornò a Roma, alla fine di agosto,
Bolívar era già partito. Sentendosi irrequieto, anche Humboldt
desiderava rimettersi in movimento e decise di attraversare l’Europa
fino a Berlino. Si affrettò verso nord, con brevi soste a Firenze,
Bologna e Milano. Non poté recarsi a Vienna come programmato
perché con lui viaggiava anche Gay-Lussac e, con la Francia e l’Austria
in guerra fra di loro, sarebbe stato troppo pericoloso per il francese. Le
scienze, lamentò Humboldt, non fornivano più un salvacondotto in
questo clima instabile.
Alla fine dei conti, la decisione di Humboldt di saltare Vienna si
rivelò saggia, perché l’esercito francese aveva attraversato il Reno e
avanzava attraverso la Svevia per prendere Vienna alla metà di
novembre. Tre settimane dopo Napoleone sbaragliava austriaci e russi
nella battaglia di Austerlitz (oggi Slavkov u Brna nella Repubblica
ceca). La decisiva vittoria di Napoleone ad Austerlitz segnò la fine del
Sacro romano impero e dell’Europa quale era esistita fino a quel
momento.
1. AH a James Madison, 21 giugno 1804, Terra 1959, p. 796.
2. AH Geography 2009, p. 86; Wulf 2008, p. 195; AH, Aus Meinem Leben (1769-1850),
Biermann 1987, p. 104.
3. AH a Jean Baptiste Joseph Delambre, 25 novembre 1802, Bruhns 1873, vol. 1, p. 324.
4. AH a Carl Freiesleben, 1 agosto 1804, AH Lettere America 1993, p. 310.
5. AH, Aus Meinem Leben (1769-1850), in Biermann 1987, p. 104.
6. Stott 2012, p. 189.
7. Horne 2004, pp. 162 sgg.; Marrinan 2009, p. 298; John Scott, 1814, Scott 1816; Thomas
Dibdin, 16 giugno 1818, Dibdin 1821, vol. 2, pp. 76-9.
8. Robert Southey a Edith Southey, 17 maggio 1817, Southey 1965, vol. 2, p. 162.
9. John Scott, 1814, Scott 1816, pp. 98-9.
10. Ivi, p. 116.
11. Thomas Dibdin, 16 giugno 1818, Dibdin 1821, vol. 2, p. 76.
12. John Scott, 1814, Scott 1816, pp. 68, 125.
13. Ivi, p. 84.
14. AH Geography 2009, p. 136; AH Geographie 1807, p. 176.
15. Casper Voght, 16 marzo 1808, Voght 1959-65, vol. 3, p. 116; vedi anche Bruhns 1873, vol. 2,
p. 6.
16. Goethe a WH, 30 luglio 1804, Goethe Tag zu Tag 1982-96, vol. 4, p. 511.
17. Christian Gottfried Körner a Friedrich Schiller, 11 settembre 1804, Schiller Lettere 1943-
2003, vol. 40, p. 246.
18. Geier 2010, p. 237; Gersdorff 2013, pp. 108 sgg.
19. WH a CH, 29 agosto 1804, WH CH Lettere 1910-16, vol. 2, p. 232.
20. CH a WH, 28 agosto 1804, ivi, p. 231.
21. CH a WH, 22 agosto 1804, ivi, p. 226.
22. WH a CH, 29 agosto 1804, ivi, p. 232.
23. AH a WH, 28 marzo 1804, citato in WH a CH, 6 giugno 1804, ivi, p. 182.
24. CH a WH, 12 settembre 1804, ivi, p. 249.
25. AH a WH, 14 ottobre 1804, Biermann 1987, p. 178.
26. Beck 1959-61, vol. 2, p. 1.
27. 19, 24 settembre e 15, 29 ottobre 1804, AH Lettere America 1993, p. 15.
28. Claude Louis Berthollet su AH, in AH a WH, 14 ottobre 1804, Biermann 1987, p. 179.
29. AH a WH, 14 ottobre 1804, ivi, p. 178.
30. George Ticknor, aprile 1817, AH Lettere USA 2004, p. 516.
31. AH a WH, 14 ottobre 1804, Biermann 1987, p. 179.
32. AH a Dietrich Ludwig Gustav Karsten, 10 marzo 1805, Bruhns 1873, vol. 1, p. 350.
33. AH a WH, 14 ottobre 1804, Biermann 1987, p. 179; Bruhns 1873, vol. 1, p. 398; AH a
Jardin des Plantes, 1804, Schneppen 2002, p. 10.
34. AH a Carl Freiesleben, 1 agosto 1804, AH Lettere America 1993, p. 310.
35. Arana 2013, p. 57; Heiman 1959, pp. 221-4.
36. (nota a piè di pagina) Arana, 2013, p. 57; AH, gennaio 1800, AH Venezuela 2000, p. 177.
37. O’Leary 1969, p. 30.
38. Lynch 2006, pp. 22 sgg.; Arana 2013, pp. 53 sgg.
39. Arana 2013, p. 58; Heiman 1959, p. 224.
40. Bolívar a AH, 10 novembre 1821, Minguet 1986, p. 743.
41. AH a Bolívar, 29 luglio 1822, ivi, pp. 749-50.
42. Arana 2013, p. 59.
43. AH a Bolívar, 1804, Beck 1959, pp. 30-31.
44. Bolívar a AH a Parigi, 1804, AH Lateinamerika 1982, p. 11.
45. Raccontato da AH a Daniel F. O’Leary, 1853, Beck 1969, p. 266; AH vide O’Leary
nell’aprile 1853 a Berlino, AH a O’Leary, aprile 1853, MSS141, Biblioteca Luis Ángel Arango,
Bogotá (i miei ringraziamenti vanno a Alberto Gómez Gutiérrez della Pontificia Universidad
Javeriana Bogotá per avermi reso edotta di questo manoscritto).
46. AH, 4 gennaio-17 febbraio 1803, “Colonie”, AH Lateinamerika 1982, p. 65.
47. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, p. 196.
48. AH, 4 gennaio-17 febbraio 1803, “Colonie”, AH Lateinamerika 1982, p. 65.
49. AH, 25 febbraio 1800, ivi, p. 255.
50. AH a Daniel F. O’Leary, 1853, Beck 1969, p. 266.
51. AH a Bolívar, 29 luglio 1822, Minguet 1986, p. 749.
52. AH a Johann Leopold Neumann, 23 giugno 1791, AH Lettere 1973, p. 142.
53. Carl Voght, 14 febbraio 1808, Voght 1959-67, vol. 3, p. 95.
54. AH a Varnhagen, 9 novembre 1856, Biermann e Schwarz, 2001b, senza numeri di pagina.
55. AH a Ignaz von Olfers, dopo il 19 dicembre 1850, ivi.
56. WH a CH, 18 settembre 1804, WH CH Lettere 1910-16, vol. 2, p. 252.
57. WH a CH, 6 giugno 1804, ivi, p. 183.
58. CH a WH, 4 novembre 1804, ivi, p. 274.
59. CH a WH, 3 settembre 1804, ivi, p. 238.
60. CH a WH, 16 settembre 1804, vedi anche WH a CH, 18 settembre 1804, ivi, pp. 250, 252.
61. CH a WH, 28 agosto 1804, ivi, p. 231.
62. AH a John Vaughan, 10 giugno 1805, Terra 1958, pp. 562 sgg.
63. AH a Marc-Auguste Pictet, 3 febbraio 1805, Bruhns 1873, vol. 1, pp. 345-7; AH a Carl
Ludwig Willdenow, 21 febbraio 1801, Biermann 1987, p. 171-2.
64. Terra 1955, p. 219; Podach 1959, p. 209.
65. Bruhns 1873, vol. 1, p. 351.
66. Ibid.; AH a Archibald MacLean, 6 novembre 1791, AH Lettere 1973, p. 157.
67. WH CH Lettere 1910-16, vol. 2, p. 298; AH a Aimé Bonpland, 10 giugno 1805, Bruhns
1873, vol. 1, p. 352.
68. Gersdorff 2013, pp. 93 sgg.
69. Werner 2004, pp. 115 sgg.
70. O’Leary 1915, p. 86; Arana 2013, pp. 61 sgg.
71. AH a Daniel F. O’Leary, 1853, Beck 1969, p. 266.
72. Vicente Rocafuerte a AH, 17 dicembre 1824, Rippy e Brann 1947, p. 702.
73. Rodríguez 2011, p. 67; vedi anche Werner 2004, pp. 116-17.
74. Elisa von der Recke, Diary 13 agosto 1805, Recke 1815, vol. 3, pp. 271 sgg.
75. Mr Chenevix su AH, Charles Bladgen a Joseph Banks, 25 settembre 1805, Banks 2007, vol.
5, p. 452.
76. AH a Aimé Bonpland, 1 agosto 1805, Heiman 1959, p. 229.
77. Arana 2013, pp. 65 sgg.
78. Il giuramento di Bolívar, Rippy e Brann 1947, p. 703.
*. Dopo la rivoluzione, l’Académie des sciences era stata incorporata nell’Institut national des
sciences et des arts. Qualche anno dopo, nel 1816, ridiventò l’Académie des sciences entrando
a far parte dell’Institut de France. Per ragioni di coerenza, sarà l’Académie des sciences in
tutto il libro.
*. Era stato probabilmente Carlos Montúfar a presentare Humboldt ai sudamericani a Parigi,
ma Humboldt e Bolívar avevano anche molte conoscenze in comune. C’era l’amico d’infanzia
di Bolívar Fernando del Toro, figlio del marchese del Toro, con il quale Humboldt aveva
trascorso del tempo in Venezuela. A Caracas Humboldt aveva incontrato anche le sorelle di
Bolívar e il suo ex precettore Andrés Bello.
*. Montúfar tornò in Sud America nel 1810, dove si unì ai rivoluzionari. Fu imprigionato e
giustiziato nel 1816.
Capitolo decimo

Berlino

In un tentativo disperato di evitare i campi di battaglia, Humboldt


modificò il percorso per Berlino. Passò per il lago di Como, nell’Italia
settentrionale, dove incontrò Alessandro Volta, uno scienziato italiano
che aveva appena inventato la batteria elettrica. Humboldt attraversò
poi le Alpi mentre imperversavano furiose tempeste invernali.
Venivano giù pioggia, grandine e neve: Humboldt era nel suo
elemento. Durante il viaggio verso nord e attraverso gli Stati tedeschi,
Humboldt fece visita a vecchi amici nonché al suo ex professore
Johann Friedrich Blumenbach, a Gottinga. Il 16 novembre 1805, più di
un anno dopo il suo rientro in Europa, Alexander von Humboldt
giungeva a Berlino insieme con Gay-Lussac1.
Dopo Parigi e Roma, Berlino era provinciale e la campagna piatta
tutto intorno appariva brutta e noiosa2. Per uno che amava il caldo e
l’umidità della foresta pluviale, come Humboldt, quello era il
momento peggiore dell’anno per arrivare. A Berlino c’era un freddo
glaciale in quei primi, rigidi, mesi invernali. Nel giro di qualche
settimana Humboldt si ammalò e si trovò coperto di bollicine del
morbillo e indebolito dalla febbre alta. Il clima, scrisse a Goethe
all’inizio di febbraio del 1806, era insopportabile. Lui era di “natura
più tropicale”3, disse Humboldt, e non più adatto al freddo e
all’umidità del clima germanico.
Non appena arrivato, era già pronto a partire. Come avrebbe potuto
lavorare qui e trovare abbastanza scienziati che la pensassero come
lui? In città non c’era nemmeno un’università e, come ebbe a dire, il
terreno “mi bruciava sotto i piedi”4. Il re Federico Guglielmo III,
invece, era felicissimo che il prussiano più famoso fosse tornato.
Celebrato in tutta Europa per le sue audaci esplorazioni, Humboldt
sarebbe stato di grande decoro a corte e il re gli concesse un generoso
assegno annuale di 2.500 talleri esente da qualsiasi obbligo5. Era una
bella somma in un periodo in cui artigiani specializzati come
falegnami e carpentieri guadagnavano meno di 200 talleri l’anno, ma
forse non tanto se comparata ai 13.400 talleri che il fratello Wilhelm
guadagnava come ambasciatore prussiano6. Il re allora nominò
Humboldt suo ciambellano, di nuovi senza obblighi evidenti. Avendo
speso molta della sua eredità, Humboldt aveva bisogno di soldi, ma nel
contempo trovava l’attenzione del re “piuttosto oppressiva”7.
Uomo austero e frugale, Federico Guglielmo III non era un
governante che ispirava. Non era né uno in cerca di svaghi né un
amante dell’arte come il padre, Federico Guglielmo II, e non
possedeva neppure il talento militare e scientifico del prozio, Federico
il Grande. Era affascinato dagli orologi e dalle uniformi – tanto che
Napoleone, a quel che si dice, affermò una volta che Federico
Guglielmo avrebbe dovuto essere un sarto perché “sa sempre quanti
metri di stoffa occorrono per l’uniforme di un soldato”8.
Imbarazzato per gli impegni che ora lo avrebbero legato alla corte,
Humboldt chiese agli amici di tenere riservata la nomina reale9. E,
forse, con buone ragioni, perché alcuni erano turbati di vedere fin
troppo ossequioso nei confronti del re uno che appariva fieramente
indipendente e filo-rivoluzionario come Humboldt. L’amico Leopold
von Buch lamentava che Humboldt passava ora più tempo nei palazzi
del re degli stessi cortigiani. Invece di concentrarsi sugli studi
scientifici, diceva Buch, Humboldt era immerso nei pettegolezzi di
corte10. L’accusa era un po’ ingiusta perché Humboldt era molto più
assorbito dalle questioni scientifiche che dagli affari del sovrano.
Sebbene dovesse essere a corte regolarmente, trovò anche il tempo di
tenere conferenze all’Accademia berlinese delle scienze, di scrivere e di
continuare le osservazioni magnetiche comparative che aveva iniziato
in Sud America.
Un vecchio amico di famiglia, ricco proprietario di una distilleria,
offrì a Humboldt la possibilità di vivere nella sua casa estiva. La
proprietà aveva come confine il fiume Sprea e si trovava poche
centinaia di metri a nord del famoso viale Unter den Linden. La
piccola casa di campagna era semplice, ma perfetta: faceva
risparmiare soldi a Humboldt e gli consentiva di concentrarsi sulla sue
osservazioni magnetiche11. A questo scopo costruì nel giardino una
piccola capanna e, allo scopo di non influenzare le misurazioni, l’aveva
costruita senza un chiodo o un qualsiasi pezzo di metallo12. Su di una
piattaforma lui e un suo collega passarono molti giorni a raccogliere
dati dagli strumenti ogni mezz’ora – giorno e notte – con solo qualche
dormitina in mezzo. L’esperimento produsse 6.000 misurazioni, ma li
lasciò anche esausti.
Poi, nell’aprile del 1806, dopo un intero anno in compagnia di
Humboldt, Joseph Gay-Lussac fece ritorno a Parigi13. Humboldt era
triste e solo a Berlino e pochi giorni dopo scrisse a un amico che viveva
“isolato e come un estraneo”14. Berlino gli appariva come un paese
straniero. Humboldt era anche preoccupato per le pubblicazioni di
botanica, di cui si era assunto la responsabilità Bonpland. Si trattava
di libri specialistici per scienziati e basati sulle collezioni di piante che
si erano procurati in America Latina. Da botanico esperto, Bonpland
era più adatto al compito di lui. Bonpland, tuttavia, faceva del suo
meglio per ignorare tale lavoro. Non aveva mai gradito molto il lavoro
noioso di descrivere esemplari di piante e di scrivere, preferendo
infinitamente di più la ricchezza della foresta pluviale rispetto alla noia
della scrivania15. Deluso per i lenti progressi, Humboldt lo esortò
ripetutamente a lavorare più alacremente. Quando alla fine Bonpland
inviò a Berlino alcune pagine di prova, il meticoloso Humboldt si irritò
per i tanti errori. Bonpland era un po’ troppo leggero in fatto di
accuratezza, pensò Humboldt, “in particolare riguardo alle descrizioni
in latino e ai numeri”16.
Bonpland rifiutò di farsi mettere fretta e quando poi annunciò
l’intenzione di lasciare Parigi per un’altra spedizione, Humboldt fu
preso dalla disperazione. Avendo donato i suoi esemplari di piante a
collezionisti di tutta Europa ed essendo occupato con i tanti progetti di
altri libri, aveva bisogno che Bonpland si concentrasse sull’opera
botanica. Humboldt stava a poco a poco perdendo la pazienza. Ma non
c’era molto che potesse fare se non continuare a tempestare di lettere
il suo vecchio amico – un misto di blandizie, di lamentele e di
perorazioni.
Humboldt era stato più diligente e aveva completato il primo
volume di quella che alla fine sarebbe diventata un’opera in 34 volumi,
il Voyage to the Equinoctial Regions of the New Continent. Il libro fu
intitolato Saggio sulla geografia delle piante e fu pubblicato in
francese e in tedesco. Comprendeva lo splendido disegno della
cosiddetta Naturgemälde – la visualizzazione dell’idea, che gli era
venuta in Sud America, di una natura fatta di connessioni e di unità. Il
testo principale del libro era, in larga misura, una spiegazione del
disegno, come un commentario dell’immagine o una lunghissima
didascalia. “Ho scritto la maggior parte di questo libro davanti agli
oggetti che mi accingevo a descrivere, ai piedi del Chimborazo, sulle
coste del Mare del Sud”, scrisse nella prefazione al libro17.
L’incisione 90×60 cm, colorata a mano, era un grande pieghevole e
mostrava la correlazione fra le zone climatiche e le piante in base alla
latitudine e all’altezza. Si basava sugli schizzi che Humboldt aveva
fatto dopo la scalata del Chimborazo. Humboldt era ora pronto a
presentare al mondo una maniera del tutto nuova di osservare le
piante e aveva deciso di farlo con un disegno. La Naturgemälde
raffigurava il Chimborazo in spaccato e la distribuzione delle piante
dalla valle al limite delle nevi perenni. Scritte nel cielo, accanto alla
montagna, c’erano le altezze di altre montagne quale termine di
paragone visivo: il Monte Bianco, il Vesuvio, il Cotopaxi nonché
l’altezza che Gay-Lussac aveva raggiunto con l’aerostato su Parigi.
Humboldt segnò anche l’altezza a cui lui, Bonpland e Montúfar si
erano arrampicati sul Chimborazo – e non poté fare a meno di
elencare, al di sotto del suo record, l’altezza inferiore che La
Condamine e Bouguer avevano raggiunto negli anni trenta del
diciottesimo secolo. A sinistra e a destra della montagna c’erano
diverse colonne con, fra le altre cose, dati comparati sulla gravità, la
temperatura, la composizione chimica dell’aria e il punto di ebollizione
dell’acqua – tutti organizzati in base all’altezza. Ogni cosa era messa in
prospettiva e comparata.
Humboldt utilizzava questo nuovo approccio visivo in modo da fare
appello all’immaginazione dei lettori, disse a un amico, perché “al
mondo piace vedere”18. Il Saggio sulla geografia delle piante
considerava le piante in un contesto più ampio, vedendo la natura
come un’interazione olistica tra i fenomeni – tutto ciò, diceva, era
dipinto con un “pennello largo”19. Era il primo libro ecologico al
mondo.
Nei secoli precedenti, la botanica era stata dominata dal concetto
della classificazione. Le piante erano state spesso ordinate sulla base
della loro relazione con il genere umano – talvolta secondo i loro
diversi usi, come quello medicinale o quello ornamentale, o secondo il
loro odore, il loro sapore e la loro commestibilità. Nel diciassettesimo
secolo, durante la rivoluzione scientifica, i botanici avevano tentato di
raggruppare le piante in maniera più razionale, basandosi sulle loro
differenze e somiglianze strutturali, come i semi, le foglie, i fiori e così
via. Stavano imponendo un ordine alla natura. Nella prima metà del
diciottesimo secolo, il botanico svedese Carl Linnaeus aveva
rivoluzionato questa concezione con il suo cosiddetto sistema sessuale,
classificando il mondo delle piante che producono fiori basandosi sul
numero degli organi riproduttivi delle piante – i pistilli e gli stami. Alla
fine del diciottesimo secolo, erano diventati popolari altri sistemi di
classificazione, ma i botanici erano rimasti attaccati all’idea che la
tassonomia era il principio supremo della loro disciplina.
Il Saggio sulla geografia delle piante di Humboldt promosse una
visione della natura del tutto diversa. I viaggi gli avevano fornito una
prospettiva unica – in nessun altro posto che in Sud America, diceva,
la natura suggeriva in maniera più potente la sua “connessione
naturale”20. Fondandosi sulle idee che aveva sviluppato nel corso
degli anni precedenti, le traduceva ora in una concezione più ampia.
Riprese, per esempio, la teoria delle forze vitali del suo ex professore
Johann Friedrich Blumenbach – che aveva concepito ogni oggetto
vivente come un organismo fatto di forze interconnesse – e la applicò
alla natura nel suo insieme. Invece di considerare solo un organismo,
come aveva fatto Blumenbach, Humboldt presentava ora le relazioni
fra piante, clima e geografia. Le piante erano raggruppate per zone e
per regioni invece che per unità tassonomiche. Nel Saggio Humboldt
spiegava l’idea delle zone di vegetazione – “fasce lunghe”21 le
chiamava – che si stendevano intorno al globo *22. Regalò alla scienza
occidentale una nuova lente attraverso cui guardare il mondo naturale.
Nel Saggio Humboldt puntellò la sua Naturgemälde con più
dettagli e spiegazioni, aggiungendo pagine e pagine di tabelle,
statistiche e fonti, intrecciando il mondo fisico, quello biologico e
quello culturale e dipingendo un quadro di modelli globali.
Per migliaia di anni, le colture, i cereali, le verdure e i frutti avevano
seguito le orme dell’umanità. Quando avevano attraversato i
continenti e gli oceani, gli esseri umani avevano portato con sé le
piante e avevano così cambiato la faccia della terra23. L’agricoltura
collegava le piante alla politica e all’economia. Per le piante erano state
combattute guerre e imperi erano stati foggiati dal tè, dallo zucchero e
dal tabacco24. Alcune piante gli parlavano dell’umanità quanto della
natura, mentre altre piante fornivano a Humboldt un’idea della
geologia così come gli rivelavano le derive dei continenti25. Le
somiglianze fra le piante dei loro litorali, scrisse Humboldt,
mostravano un’“antica” connessione26 fra l’Africa e il Sud America e
indicavano come isole un tempo collegate erano ora separate – una
conclusione incredibile più di un secolo prima che gli scienziati
cominciassero a discutere la deriva dei continenti e la teoria della
dislocazione delle placche tettoniche27. Humboldt “leggeva” le piante
come altri leggono i libri, ed esse gli rivelavano una forza globale
dietro la natura, i movimenti delle civiltà come anche quelli dei
continenti. Nessuno si era mai accostato alla botanica in questo modo.
Mostrando analogie inaspettate con la sua incisione della
Naturgemälde il Saggio portava alla luce una rete della vita fino ad
allora invisibile28. La connessione era la base del pensiero di
Humboldt. La natura, scriveva, era un “riflesso del tutto”29, e gli
scienziati dovevano considerare la flora, la fauna e gli strati rocciosi
nella loro globalità. Se non lo facevano, continuava, sarebbero stati
come quei geologi che costruivano il mondo intero “in base alla forma
delle colline che li circondavano più da vicino”30. Gli scienziati
dovevano lasciare le loro soffitte e viaggiare per il mondo.
Altrettanto rivoluzionario era il desiderio di Humboldt di parlare
“alla nostra immaginazione e al nostro spirito”31, un aspetto illustrato
nell’introduzione all’edizione tedesca, in cui faceva riferimento alla
filosofia della natura di Friedrich Schelling, la Naturphilosophie32.
Nel 1798, all’età di ventitré anni, Schelling era stato professore di
filosofia all’università di Jena ed era entrato ben presto a far parte
della cerchia ristretta di Goethe. La sua cosiddetta “filosofia della
natura” divenne il nerbo dell’idealismo e del romanticismo tedeschi33.
Schelling propugnava “la necessità di comprendere la natura nella sua
unità”34. Respingeva l’idea di una spaccatura inconciliabile fra
l’interno e l’esterno, fra il mondo soggettivo dell’Io e il mondo
oggettivo della natura. Schelling sottolineava, invece, la forza vitale
che collega la natura e l’uomo, insistendo che c’era un legame organico
fra l’Io e la natura. “Io sono identico alla natura”35, affermava, una
dichiarazione che apriva la strada al credo dei romantici di poter
trovare se stessi nella natura selvaggia. Per Humboldt, che credeva di
essere diventato veramente se stesso solo in Sud America, era una
concezione assai attraente.
Il riferimento di Humboldt a Schelling mostrava anche quanto fosse
cambiato nel decennio precedente. Sottolineando la rilevanza delle
idee di Schelling, Humboldt introduceva un nuovo punto di vista sulla
scienza. Senza allontanarsi interamente dal metodo razionale che era
stato il mantra dei pensatori illuministi, Humboldt, l’ex “Principe
dell’empirismo”36, come scrisse un amico a Schelling, era
definitivamente cambiato. Mentre molti scienziati liquidavano la
Naturphilosophie di Schelling in quanto incompatibile con la ricerca
empirica e con i metodi scientifici, Humboldt sostenne che il pensiero
dell’Illuminismo e Schelling non erano due “poli in contrasto”37. Al
contrario, l’enfasi di Schelling sull’unità costituiva il modo in cui anche
Humboldt intendeva la natura.
Schelling suggeriva che il concetto di “organismo” doveva costituire
il fondamento del modo di intendere la natura. Invece di considerare
la natura come un sistema meccanico, questa andava vista come un
organismo vivente. La differenza era la stessa che intercorre fra un
orologio e un animale. Mentre un orologio consisteva di parti che si
potevano smontare e rimontare, un animale no, la natura era un tutto
unificato, un organismo in cui le parti funzionano solo l’una in
relazione a ciascun’altra38. In una lettera a Schelling, Humboldt
scrisse di ritenere che questa era una vera e propria “rivoluzione” nella
scienza39, un abbandono dell’“arida compilazione di fatti” e del “rozzo
empirismo”40.
L’uomo che per primo gli aveva instillato queste idee era Goethe.
Humboldt non aveva dimenticato quanto lo avesse influenzato il
periodo trascorso a Jena e come le opinioni di Goethe sulla natura
avessero plasmato il suo pensiero. Il fatto che nei suoi libri la natura e
l’immaginazione fossero strettamente intrecciate era “l’influenza su di
me della vostra opera”41, disse a Goethe più tardi. In segno di
gratitudine, Humboldt dedicò il Saggio sulla geografia delle piante al
vecchio amico. Il frontespizio del Saggio mostrava Apollo, il dio della
poesia, che sollevava il velo che copriva la dea della natura. La poesia
era necessaria per comprendere i misteri del mondo naturale.
Ricambiando la cortesia, Goethe fece dire a Ottilia, una delle principali
protagoniste del suo romanzo Le affinità elettive, “Quanto mi
piacerebbe ascoltare una volta la parola di Humboldt”42.
Quando lo ricevette, nel marzo del 1807, Goethe “divorò”43 il
Saggio e rilesse il libro parecchie volte nel corso dei giorni
successivi44. La nuova concezione di Humboldt era così rivelatrice che
Goethe non vedeva l’ora di parlarne *45. Ne era così ispirato che due
settimane dopo tenne a Jena una conferenza di botanica basandosi sul
Saggio46. “Con un soffio estetico”47, scrisse Goethe, Humboldt ha
illuminato la scienza con una “fiamma lucente”.
Frontespizio del Saggio sulla geografia delle piante di Humboldt con la dedica a Goethe

Nel momento in cui il Saggio fu pubblicato in Germania, agli inizi


del 1807, i programmi di Humboldt di tornare a Parigi erano andati in
malora48. Ancora una volta c’era stata l’interferenza della politica e
della guerra. Per più di un decennio, dopo la Pace di Basilea nell’aprile
1795, la Prussia si era tenuta lontana dalle guerre napoleoniche in
quanto il re Federico Guglielmo III era rimasto fermamente neutrale
nel braccio di ferro che stava mandando in pezzi l’Europa. Molti
avevano considerato questa decisione come una debolezza e ciò non
aveva reso popolare il re presso le nazioni europee che combattevano
contro la Francia. Dopo la battaglia di Austerlitz nel dicembre del
1805, che aveva determinato il collasso del Sacro Romano Impero,
Napoleone, nell’estate 1806, aveva creato la cosiddetta Confederazione
del Reno, un’alleanza di sedici Stati tedeschi con Napoleone quale loro
“protettore”, che faceva più o meno da cuscinetto fra la Francia e
l’Europa centrale. Ma la Prussia – che non faceva parte della
Confederazione – era sempre più preoccupata per le invasioni francesi
del suo territorio. Nell’ottobre 1806, dopo alcune scaramucce ai
confini e altre provocazioni francesi, i prussiani entrarono in guerra
contro la Francia, ma senza alleati che li sostenessero. Fu un passo
disastroso.

La Porta di Brandeburgo attraverso cui Napoleone entrò a Berlino in trionfo nel 1806, dopo la
battaglia di Jena e Auerstädt

Il 14 ottobre, le truppe di Napoleone annientarono l’esercito


prussiano in due battaglie, a Jena e ad Auerstädt. In un solo giorno, la
Prussia si trovò dimezzata. Con la disfatta della Prussia, Napoleone
raggiunse Berlino due settimane dopo. Nel luglio 1807, i prussiani
firmarono con la Francia il Trattato di Tilsit, con il quale la Francia
otteneva il territorio prussiano a ovest del fiume Elba e parti dei
territori orientali. Alcuni di questi territori furono assorbiti nella
Francia, ma Napoleone creò anche diversi nuovi Stati che erano
indipendenti solo di nome, come il Regno di Westfalia, governato dal
fratello e legato alla Francia.
La Prussia non era più una grande potenza europea. Le enormi
riparazioni imposte dai francesi con il Trattato di Tilsit portarono
l’economia prussiana al ristagno. Con il suo territorio
considerevolmente ridotto, la Prussia perse anche la maggior parte dei
suoi centri culturali, compresa l’università più grande e famosa a
Halle, ora parte del Regno di Westfalia. In Prussia erano rimaste solo
due università: una a Königsberg che, dopo la morte di Immanuel
Kant nel 1804, aveva perso l’unico professore di fama, e l’istituzione
provinciale di Vradina a Francoforte sull’Oder nel Brandeburgo, dove
per un semestre aveva studiato Humboldt quando aveva diciotto
anni49.
Humboldt si sentiva “sprofondato nelle rovine di una patria
infelice”, scrisse a un amico50. “Perché non me ne sono restato nelle
foreste dell’Orinoco o sulle creste delle Ande?”51. In questo stato di
sofferenza, si mise a scrivere. Nella sua casetta estiva a Berlino e
circondato da mucchi di appunti, dalle riviste dell’America Latina e da
libri, Humboldt lavorava su diversi manoscritti nello stesso tempo. Ma
quello che lo aiutò di più a superare questo momento difficile fu
Ansichten der Natur (Quadri della natura).
Sarebbe stato uno dei libri più letti di Humboldt, un bestseller che
alla fine fu pubblicato in undici lingue52. Con Quadri della natura,
Humboldt creò un genere completamente nuovo, un libro che
combinava una prosa vivace e ricche descrizioni di paesaggi con
l’osservazione scientifica in quello che è ancora un modello per molta
della letteratura naturalistica. Di tutti i libri che avrebbe scritto, questo
rimase il suo favorito53.
In Quadri della natura, Humboldt evocava la placida solitudine
delle cime andine e la fertilità della foresta pluviale, ma anche la magia
di una pioggia di meteoriti o il raccapricciante spettacolo della cattura
delle anguille elettriche negli Llanos. Scriveva del “ventre ardente della
terra”54 e delle rive “ingioiellate” dei fiumi. Un deserto diventava un
“mare di sabbia”, le foglie si dischiudevano “per salutare il sole che
sorge” e le scimmie riempivano la giungla di “malinconici strepiti”.
Nelle nebbie delle rapide dell’Orinoco, gli arcobaleni giocavano a
nascondino, una “magia ottica”, la definiva. Humboldt creava
descrizioni poetiche, come quando scriveva degli strani insetti che
“gettavano una luce rossa fosforescente sull’erba che brillava di fuoco
vivo, come se il baldacchino stellato del cielo fosse sceso sul terreno
erboso”55.
Era un libro scientifico che non rifuggiva dal lirismo. Per Humboldt,
la prosa era altrettanto importante del contenuto e insisteva che
all’editore non era concesso di cambiare una sola sillaba per timore
che andasse distrutta la “melodia” delle sue frasi56. Le spiegazioni
scientifiche più dettagliate – che occupavano larga parte del libro –
potevano essere ignorate dal lettore generico perché Humboldt le
nascondeva nelle note alla fine di ogni capitolo *57.
In Quadri della natura, Humboldt mostrava come la natura potesse
avere un’influenza sull’immaginazione delle persone. La natura, così
scriveva, era misteriosamente in comunicazione con i nostri
“sentimenti intimi”58. Un cielo azzurro limpido, per esempio, suscita
emozioni diverse rispetto a una cappa opprimente di nuvole scure. Lo
scenario tropicale, fitto di banani e di palme, fa un effetto diverso
rispetto a un bosco di pallide ed esili betulle. Quello che oggi diamo
per scontato – che ci sia una correlazione fra il mondo esterno e il
nostro umore – era una rivelazione per i lettori di Humboldt. I poeti
avevano avuto a che fare con queste idee, ma gli scienziati mai.
Quadri della natura, inoltre, descriveva la natura come una rete
della vita59, con le piante e gli animali che dipendono le une dagli
altri, un mondo che brulicava di vita. Humboldt evidenziava “le
connessioni interne tra le forze naturali”60. Comparava i deserti
africani con gli Llanos in Venezuela e le brughiere del nord Europa:
paesaggi molto lontani gli uni dagli altri, ma combinati ora in
“un’unica raffigurazione della natura”61. Le lezioni che aveva iniziato
con il suo schizzo dopo la scalata del Chimborazo, la Naturgemälde,
ora si ampliavano. L’idea di una Naturgemälde, divenne l’approccio
attraverso cui spiegare la sua nuova visione. La Naturgemälde non era
solo un disegno accanto ad altri, poteva essere anche un testo in prosa
come Quadri della natura, una lettura scientifica o una concezione
filosofica.
Quadri della natura era un libro scritto sullo sfondo della disperata
situazione politica della Prussia e in un periodo in cui Humboldt a
Berlino si sentiva depresso e abbandonato da tutti62. Humboldt
invitava i suoi lettori a “seguirmi di buon grado nel folto della foresta,
nelle steppe sconfinate e sulla dorsale della cordigliera delle Ande...
Sulle montagne c’è la libertà!”63, trasportandoli in un mondo magico
ben lontano dalla guerra e dalle “ondate tempestose della vita”64.
Questo nuovo modo di raccontare la natura era così seducente, disse
Goethe a Humboldt, “che mi sono immerso con voi nelle regioni più
selvagge”65. Analogamente, un’altra conoscenza, lo scrittore francese
René de Chateaubriand, riteneva che lo scritto fosse così straordinario
che “vi credete di navigare sulle onde insieme con lui, di perdervi con
lui nelle profondità delle foreste”66. Quadri della natura avrebbe
ispirato varie generazioni di scienziati e di poeti nei decenni successivi.
Henry David Thoreau lo lesse67, così come Ralph Waldo Emerson, il
quale dichiarò che Humboldt aveva ripulito “questo cielo pieno di
ragnatele”68. E Charles Darwin avrebbe chiesto al fratello di
inviargliene una copia in Uruguay dove sperava di poterlo ricevere
quando il Beagle vi avrebbe fatto sosta69. In seguito, nella seconda
metà del diciannovesimo secolo, lo scrittore di fantascienza Jules
Verne attinse alle descrizioni di Humboldt del Sud America per le sue
serie di Voyages extraordinaires, spesso citandole alla lettera nei suoi
dialoghi70. Il superbo Orinoco di Verne era un omaggio a Humboldt e
nel suo I figli del capitano Grant un esploratore francese sosteneva
che non c’era alcun motivo di scalare il Pico del Teide a Tenerife dopo
che già c’era stato Humboldt. “Cosa potrei fare”, dice Monsieur
Paganel, “dopo quel grande uomo?”71. Non c’era da stupirsi se, nel suo
famoso Ventimila leghe sotto i mari, Verne descriveva il capitano
Nemo come possessore delle opere complete di Humboldt72.
Bloccato a Berlino, Humboldt continuava a desiderare
ardentemente avventure. Bramava fuggire da Berlino, una città che
secondo lui si ornava non della conoscenza, ma solo di “rigogliosi
campi di patate”73. Nell’inverno del 1807, per una volta, la politica gli
offrì una buona mano di carte. Federico Guglielmo III chiese a
Humboldt di accompagnare una missione di pace prussiana a Parigi. Il
re stava inviando il fratello minore, il principe Guglielmo, a
rinegoziare il carico finanziario imposto alla Prussia dalla Francia con
il Trattato di Tilsit. Il principe Guglielmo avrebbe avuto bisogno di
qualcuno che conoscesse persone in posizioni influenti per aprire le
porte ai colloqui diplomatici e Humboldt, con i suoi contatti parigini,
era ritenuto il candidato perfetto.
Humboldt accettò di buon grado e lasciò Berlino a metà novembre
del 1807. Una volta a Parigi, fece quanto poteva, ma Napoleone non
era disposto a compromessi. Quando il principe Guglielmo tornò in
Prussia dopo parecchi mesi di negoziati infruttuosi, arrivò senza
Humboldt, che aveva deciso di restare a Parigi. Humboldt era giunto
preparato e aveva portato con sé in Francia tutti i suoi appunti e i suoi
manoscritti. Nel mezzo di una guerra che vedeva la Prussia e la
Francia duramente contrapposte, Humboldt ignorò la politica e il
patriottismo e fece di Parigi la sua residenza. Gli amici prussiani erano
scandalizzati, così come lo era Wilhelm von Humboldt, che non
riusciva a capire la decisione del fratello. “Non approvo che Alexander
si sia stabilito a Parigi”74, disse a Caroline, ritenendolo antipatriottico
ed egoista.
Humboldt non sembrava preoccuparsene. Scrisse a Federico
Guglielmo III, spiegandogli che la mancanza di scienziati, di artisti e di
editori a Berlino gli rendeva impossibile lavorare e pubblicare i
risultati dei suoi viaggi75. Sorprendentemente, a Humboldt fu
concesso di restare a Parigi, intascando tranquillamente il suo
stipendio in qualità di ciambellano del re di Prussia. Per quindici anni
non sarebbe più tornato a Berlino.
1. AH a Spener o Sander, 28 ottobre 1805, Bruhns 1873, vol. 1, p. 354.
2. AH a Fürst Pückler-Muskau, Biermann e Schwarz 1999a, p. 183.
3. AH a Johann Georg von Cotta, 9 marzo 1844, AH Cotta Lettere 2009, p. 259; vedi anche AH
a Goethe, 6 febbraio 1806, Goethe Humboldt Lettere 1909, p. 298.
4. AH a de Beer, 22 aprile 1806, Bruhns 1873, vol. 1, p. 358.
5. Ivi, p. 355.
6. Merseburger 2009, p. 76; WH a CH, 19 giugno 1810, WH CH Lettere 1910-16, vol. 3, p. 418.
7. AH a Marc-Auguste Pictet, novembre o dicembre 1805, Bruhns 1873, vol. 1, p. 354.
8. Terra 1955, p. 244.
9. AH a Marc-Auguste Pictet, 1805, Bruhns 1873, vol. 1, p. 355.
10. Leopold von Buch, 23 gennaio 1806, Werner 2004, p. 117.
11. Bruhns 1873, vol. 1, p. 356.
12. Ibid.; Biermann e Schwarz 1999a, p. 187.
13. Werner 2004, p. 79.
14. AH a de Beer, 22 aprile 1806, Bruhn 1873, vol. 1, p. 358.
15. AH a Carl Ludwig Willdenow, 17 maggio 1810, Fiedler e Leitner 2000, p. 251.
16. AH a Bonpland, 21 dicembre 1805; per le pubblicazioni di AH e Bonpland, vedi AH a
Bonpland, 1 agosto 1805, 4 gennaio 1806, 8 marzo 1806, 27 giugno 1806, Biermann 1990, pp.
179-80.
17. AH Geography 2009, p. 61.
18. AH a Marc-Auguste Pictet, 3 febbraio 1805, Bruhns 1873, vol. 1, p. 347.
19. AH Geography 2009, p. 64.
20. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 1, p. xlv.
21. AH Geography 2009, p. 66; AH Geographie 1807, p. 7.
22. AH Geography 2009, pp. 68, 75, 96; AH Geographie 1807, pp. 11, 31, 82-3.
23. AH Geography 2009, pp. 71-2; AH Geographie 1807, pp. 16-21.
24. AH Geography 2009, pp. 72-3; AH Geographie 1807, pp. 23-4.
25. Ibid.
26756. AH Geography 2009, p. 67; AH Geographie 1807, p. 9.
27. Il geologo tedesco Alfred Wegener l’ha formulata nel 1912, ma ha trovato conferma solo
negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso.
28. AH Geography 2009, p. 79; AH Geographie 1807, p. 40.
29. AH Cosmos 1845-52, vol. 2, p. 86; AH Kosmos 1845-50, vol. 2, p. 89 (nell’originale:
“Abglanz des Ganzen”).
30. AH Geography 2009, p. 69; AH Geographie 1807, p. 13.
31. AH Geography 2009, p. 79; AH Geographie 1807, p. 41.
32. Ivi, p. V; Humboldt scrisse introduzioni diverse per le edizioni tedesca e francese.
33. Richards 2002, pp. 114-203.
34. Henrik Steffens, 1798, in ivi, p. 151.
35. Schelling, in Richards 2002, p. 134.
36. K.J.H. Windischmann a Schelling, 24 marzo 1806, Werner 2000, p. 8.
37. AH Geographie 1807, p. v.
38. Richards 2002, pp. 138, 129 sgg.
39. AH a F.W.J. Schelling, 1 febbraio 1805, Werner 2000, p. 6.
40. AH a Christian Carl Josias Bunsen, 22 marzo 1835, AH Bunsen Lettere 2006, p. 29.
41. AH a Goethe, 3 gennaio 1810, Goethe Humboldt Lettere 1909, p. 304; vedi anche AH a
Caroline von Wolzogen, 14 maggio 1806, Goethe AH WH Lettere 1876, p. 407.
42. Goethe 2002, p. 222.
43. Goethe a Johann Friedrich von Cotta, 8 aprile 1813, Goethe Naturlehre 1989, p. 524.
44. Goethe, 17, 18, 19, 20, 28 marzo 1807, Goethe Tagebücher 1998-2007, vol. 3, pt. 1, pp.
298-9, 301; Goethe a AH, 3 aprile 1807, Goethe Briefe 1968-76, vol. 3, p. 41.
45. (nota a piè di pagina) Goethe a AH, 3 aprile 1807, Goethe Briefe 1968-76, vol. 3, p. 41;
Goethe, 5 maggio e 3 giugno 1807, Goethe Tagebücher 1998-2007, vol. 3, pt. 1, pp. 308, 322.
46. Goethe, 1 aprile 1807, Goethe Tagebücher 1998-2007, vol. 3, pt. 1, p. 302; Charlotte von
Schiller, 1 aprile 1807, Goethe Begegnungen 1965-2000, vol. 6, p. 241; Goethe, Geognostische
Vorlesungen, 1 aprile 1807, Goethe Naturlehre 1989, p. 540.
47. Recensione di Goethe di Ideen zu einer Physiognomik der Gewächse di Humboldt, 31
gennaio 1806, Jenaer Allgemeine Zeitung, Goethe Morphologie 1987, p. 379.
48. Johann Friedrich von Cotta a Goethe, 12 gennaio 1807, Goethe Lettere 1980-2000, vol. 5,
p. 215.
49. Geier 2010, p. 266.
50. AH a Christian Gottlieb Heyne, 13 novembre 1807, ivi, p. 254.
51. AH a Johann Friedrich von Cotta, 14 febbraio 1807, AH Cotta Lettere 2009, p. 78.
52. Fiedler e Leitner 2000, pp. 38-69.
53. Bruhns 1873, vol. 1, p. 357.
54. AH Views 2014, pp. 30, 38, 108, 121, 126; AH Aspects 1849, vol. 1, pp. 3, 20, 189, 216, 224;
AH Ansichten 1808, pp. 4, 5, 33-4, 140, 298, 316 (le citazioni sono dalle diverse edizioni).
55. AH Aspects 1849, vol. 1, p. 231; AH Views 2014, p. 129; AH Ansichten 1808, pp. 329-30.
56. AH a Johann Friedrich von Cotta, 21 febbraio 1807, AH Cotta Lettere 2009, p. 80.
57. (nota a piè di pagina) AH Aspects 1849, vol. 2, pp. 112 sgg.; AH Views 2014, pp. 201 sgg.;
AH Ansichten 1849, vol. 2, p. 135 (non c’è nell’edizione tedesca del 1808 ma vedi a p. 185).
58. AH Aspects 1849, vol. 1, p. 208; AH Views 2014, p. 117; AH Ansichten 1808, p. 284.
59. AH Aspects 1849, vol. 2, pp. 7-8; AH Views 2014, pp. 157-8; AH Ansichten 1808, pp. 163
sgg.
60. AH Ansichten 1808, p. vii (nell’originale: “in den inneren Zusammenhang der
Naturkräfte”); AH Aspects 1849, vol. 1, p. viii; AH Views 2014, p. 25.
61. AH Aspects 1849, vol. 1, p. 207; AH Views 2014, p. 117; AH Ansichten 1808, p. 282.
62. Beck 1959-61, vol. 2, p. 16.
63. AH Views 2014, pp. 25-6; AH Aspects 1849, vol. 1, p. ix; AH Ansichten 1808, p. viii.
64. AH Aspects 1849, vol. 1, p. ix; AH Views 2014, p. 25; AH Ansichten 1808, p. viii.
65. Goethe a AH, 16 maggio 1821, Goethe Briefe 1968-76, vol. 3, p. 505.
66. François-René de Chateaubriand, in Clark e Lubrich 2012b, p. 29.
67. Sattelmeyer 1988, p. 207; Thoreau a Spencer Fullerton Baird, 19 dicembre 1853, Thoreau
Correspondence 1958, p. 310; Thoreau vi si riferì in The Maine Woods and Excursions fra le
altre opere.
68. Emerson 1959-72, vol. 3, p. 213; per Emerson, Views of Nature e AH vedi anche Emerson
1849, in Emerson 1960-1992, vol. 11, pp. 91, 157; Harding 1967, p. 143; Walls 2009, pp. 251
sgg.
69. Darwin a Catherine Darwin, 5 luglio 1832, Darwin Correspondence, vol. 1, p. 247.
70. Schifko 2010; Clark e Lubrich 2012, pp. 24-5, 170-75, 191, 204-5, 214-23.
71. I figli del Capitano Grant di Jules Verne (1865-7).
72. Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne, 1869-70, Clark e Lubrich 2012, pp. 174, 191-2.
73. AH a C.G.J. Jacobi, 21 novembre 1841, Biermann e Schwarz 2001b, mancano i numeri di
pagina.
74. WH a CH, WH CH Lettere 1910-16, vol. 4, p. 188.
75. AH, Aus meinem Leben (1769-1850), in Biermann 1987, p. 113.
*. Nel Saggio Humboldt spiegava la distribuzione delle piante in maniera molto dettagliata.
Paragonava le conifere delle grandi altitudini del Messico a quelle del Canada, confrontava le
querce, i pini e i cespugli fioriti delle Ande con quelli dei “paesi nordici”. Scrisse anche di un
muschio sulle sponde del Rio Magdalena che era simile a uno in Norvegia.
*. L’unico problema di Goethe era che la sua copia del libro non conteneva il disegno cruciale,
la Naturgemälde. Decise allora di dipingerselo da solo e inviò poi a Humboldt il suo schizzo
“un po’ per scherzo e un po’ sul serio”. Goethe era così entusiasta quando finalmente arrivò il
disegno mancante della Naturgemälde, sette settimane più tardi, che quando partì per le
vacanze lo impacchettò per appenderlo alla parete e poterselo ammirare tutto il tempo.
*. Queste annotazioni, peraltro, erano gemme di per sé: alcune erano piccoli saggi, altre erano
frammenti di pensiero o indicazioni per future scoperte. Qui, per esempio, Humboldt parlava
delle idee evoluzioniste molto prima che Darwin pubblicasse la sua Origin of Species.
Capitolo undicesimo

Parigi

A Parigi, riprese rapidamente le sue abitudini di dormire poco e


lavorare a ritmo forsennato. Era tormentato dalla sensazione di non
essere abbastanza veloce, scrisse a Goethe1. Stava scrivendo tanti libri
diversi nello stesso tempo e spesso non riusciva a rispettare le
scadenze. Humboldt cominciò a fornire agli editori scuse disperate,
che andavano dall’essere rimasto senza soldi per pagare gli incisori a
cui aveva commissionato le illustrazioni dei libri, alla “malinconia” e
anche agli “spiacevoli episodi emorroidali”2. Le pubblicazioni di
botanica erano in ritardo anche perché Bonpland era ora il capo
giardiniere della moglie di Napoleone, Josephine, a Malmaison, la sua
proprietà di campagna, subito fuori Parigi. Bonpland era così lento che
gli ci vollero otto mesi per scrivere non più di dieci descrizioni di
piante e Humboldt lamentava che “qualunque botanico in Europa ci
avrebbe messo una quindicina di giorni”3.
Nel gennaio 1810, poco più di due anni dopo il ritorno a Parigi,
Humboldt completò finalmente la prima parte delle Vues des
Cordillières et monuments des peuples indigènes de l’Amérique4. Era
la più ricca delle sue pubblicazioni, una grande edizione in-folio con
sessantanove magnifiche incisioni del Chimborazo, dei vulcani, dei
manoscritti aztechi e dei calendari messicani insieme a molte altre.
Ogni tavola era accompagnata da diverse pagine di testo che
spiegavano il contesto, ma le splendide incisioni erano la cosa che
principalmente richiamava l’attenzione. Era una celebrazione del
mondo naturale dell’America Latina, delle sue antiche civiltà e
popolazioni. “Nella mia opera, la natura e l’arte sono strettamente
unite”5, scrisse Humboldt in un biglietto quando spedì il libro a
Goethe a Weimar, tramite un corriere prussiano, il 3 gennaio 18106.
Quando Goethe lo ricevette, una settimana dopo, non riusciva più a
posarlo. Nelle sere successive, anche se arrivava tardi a casa, Goethe si
metteva a sfogliare le Vues per entrare nel nuovo mondo di
Humboldt7.
Quando non scriveva, Humboldt conduceva esperimenti e
comparava le osservazioni con quelle di altri scienziati. La sua
corrispondenza aveva del prodigioso. Tempestava i colleghi, gli amici e
gli estranei con quesiti sulle materie più disparate, come l’introduzione
in Europa della patata, statistiche dettagliate sul commercio di schiavi
o la latitudine del villaggio più a nord della Siberia8. Humboldt era in
corrispondenza con colleghi di tutta Europa, ma riceveva lettere anche
dal Sud America riguardo al crescente risentimento nei confronti del
governo coloniale spagnolo. Jefferson inviava relazioni sui progressi
nei trasporti degli Stati Uniti e aggiungeva che Humboldt era
considerato come una delle “più grandi personalità del mondo”9 e, a
sua volta, Humboldt inviava a Jefferson le sue pubblicazioni più
recenti10. Joseph Banks, presidente della Royal Society di Londra, che
Humboldt aveva incontrato a Londra vent’anni prima, restava un altro
fedele corrispondente. Humboldt gli inviava esemplari essiccati di
piante del Sud America e le sue pubblicazioni, mentre Banks utilizzava
la sua rete internazionale ogni volta che Humboldt aveva bisogno di
qualche informazione11.
A Parigi Humboldt correva da una parte all’altra. Viveva, come
osservò uno scienziato tedesco in visita, in “tre case diverse”12,
cosicché poteva lavorare e alloggiare quando e dove ne aveva bisogno.
Una notte dormiva all’Osservatorio di Parigi, prendendosi qualche ora
di sonno fra la contemplazione delle stelle e la stesura di appunti,
mentre quella dopo si fermava dall’amico Joseph Louis Gay-Lussac
all’École Polytechnique o da Bonpland*13. La mattina, fra le 8 e le 11,
Humboldt faceva i suoi giri, visitando giovani eruditi per tutta Parigi.
Queste erano le cosiddette “ore delle soffitte”14, come le definiva
scherzosamente un collega, perché questi scienziati senza mezzi
abitavano di solito nelle stanze a buon mercato dei sottotetti.
Uno di questi nuovi amici era François Arago, un giovane
matematico e astronomo di talento che lavorava all’osservatorio e
all’École Polytechnique. Come Humboldt, Arago aveva il gusto
dell’avventura. Nel 1806, a vent’anni, l’autodidatta Arago era stato
mandato dal governo francese in una missione scientifica alle isole
Baleari nel Mediterraneo, ma era stato arrestato dal governo spagnolo
che lo sospettava di spionaggio15. Per un anno Arago era stato
incarcerato in Spagna e ad Algeri, ma alla fine, nell’estate 1809, era
riuscito a scappare, con i suoi preziosi appunti scientifici nascosti sotto
la camicia. Quando Humboldt seppe dell’audace fuga di Arago, gli
scrisse immediatamente per combinare un incontro. Arago divenne
presto l’amico più stretto di Humboldt, forse non a caso, nello stesso
momento in cui Gay-Lussac si sposava.
Arago e Humboldt si vedevano praticamente tutti giorni. Lavorando
insieme e condividendo i risultati, avevano discussioni accese che
talvolta finivano in rissa. Humboldt era generoso, diceva Arago, ma di
tanto in tanto era anche “una lingua maligna”16. La loro amicizia
poteva essere tempestosa. Uno di loro dava in escandescenze “tenendo
il broncio come un bambino”17, osservò un collega, ma non
rimanevano mai arrabbiati a lungo. Arago era una delle poche persone
di cui Humboldt si fidasse ciecamente: poteva rivelargli le sue ansie e
le sue insicurezze. Erano come “fratelli siamesi”18, scrisse Humboldt
in seguito, e la loro amicizia era la “gioia della mia vita”19. Erano così
intimi fra di loro che Wilhelm von Humboldt cominciò a preoccuparsi
della loro relazione. “Sapete che la sua passione è solo per una
persona”, disse Wilhelm alla moglie Caroline, e ora Alexander aveva
Arago, “dal quale non vuole separarsi”20.
Questo non fu l’unico problema che Wilhelm ebbe con il fratello.
Continuava a disapprovare la decisione di Alexander di vivere a Parigi,
nel cuore del territorio nemico. Wilhelm stesso era tornato a Berlino
da Roma, agli inizi del 1809, quando era stato nominato ministro
dell’Istruzione. Alexander si era già trasferito a Parigi e Wilhelm si era
infuriato quando aveva visto che la proprietà di famiglia a Tegel era
stata saccheggiata dai soldati francesi dopo la battaglia di Jena e che il
fratello non si era neppure preso la briga di imballare le cose per
proteggerne il contenuto. “Alexander avrebbe potuto salvare tutto”21,
si lamentò con Caroline.
Wilhelm era arrabbiato con il fratello. Diversamente da Alexander,
Wilhelm era al servizio del suo paese. In primo luogo, aveva lasciato
l’amata Roma per riorganizzare il sistema educativo prussiano e
istituire la prima università di Berlino, e poi, nel settembre 1810,
Wilhelm si era trasferito in Austria in qualità di ambasciatore a
Vienna. Wilhelm stava compiendo il suo dovere patriottico. Stava
contribuendo ad avvicinare l’Austria quale alleata della Prussia e della
Russia per riprendere la lotta contro la Francia22.
Secondo l’opinione di Wilhelm, Alexander “aveva smesso di essere
tedesco”23. La maggior parte dei suoi libri erano scritti in francese e
pubblicati dapprima in Francia. Wilhelm tentò ripetutamente di
convincere il fratello a tornare in patria. Quando era stato mandato a
Vienna per la sua missione diplomatica, Wilhelm aveva suggerito
Alexander come suo successore al ministero dell’Istruzione a Berlino.
Ma la risposta di Alexander era stata chiara: non aveva intenzione di
farsi seppellire a Berlino mentre Wilhelm se la spassava a Vienna.
Dopo tutto, scherzava, lo stesso Wilhelm sembrava preferisse stare
all’estero24.
Non solo Wilhelm e i suoi colleghi prussiani nutrivano dubbi sul
domicilio scelto da Humboldt, anche Napoleone se ne preoccupava.
Napoleone aveva già espresso il suo disappunto sminuendo Humboldt
nel corso del loro primo incontro subito dopo il ritorno dal Sud
America. “Vi interessate di botanica?”, aveva sogghignato Napoleone.
“Lo so, se ne occupa anche mia moglie.”25 Napoleone detestava
Humboldt, disse in seguito un amico, perché la sua “opinione non può
essere manipolata”16. Agli inizi, Humboldt aveva tentato di rabbonire
Napoleone con copie dei suoi libri, ma era stato ignorato27.
Napoleone, disse Humboldt, “mi odia”28.
Per la maggior parte degli altri scienziati era un buon momento per
stare a Parigi, perché Napoleone era un grande sostenitore delle
scienze. Con la ragione che all’epoca era considerata la forza
intellettuale predominante, la scienza era entrata in relazione con la
politica. La conoscenza era potere e mai prima di allora le scienze
erano state così vicine al centro del governo. Molti scienziati avevano
occupato cariche ministeriali e politiche dai tempi della Rivoluzione
francese, compresi i colleghi di Humboldt dell’Académie des sciences,
come il naturalista Georges Cuvier e i matematici Gaspard Monge e
Pierre-Simon Laplace29.
Per uno che amava le scienze quasi quanto le imprese militari,
Napoleone fu ben poco disponibile nei confronti di Humboldt. Una
ragione potrebbe essere stata la gelosia, perché i molti volumi del
Voyage to the Equinoctial Regions of the New Continent di Humboldt
erano direttamente in competizione con quello che era l’orgoglio e la
di soddisfazione di Napoleone: la Description de l’Égypte. Quasi
duecento scienziati avevano accompagnato le truppe di Napoleone in
Egitto nel 1798 allo scopo di raccogliervi tutte le conoscenze
disponibili. Description de l’Égypte era il risultato scientifico
dell’invasione e, come le pubblicazioni di Humboldt, era un progetto
ambizioso, costituito, alla fine, da ventitré volumi con circa 1.000
tavole30. Humboldt, tuttavia, che non aveva dietro di sé né la potenza
di un esercito né i forzieri apparentemente senza fondo di un impero,
aveva ottenuto di più: il suo Voyage avrebbe avuto più volumi e tavole.
Napoleone, comunque, lesse l’opera di Humboldt, presumibilmente
subito prima della battaglia di Waterloo31.
Pubblicamente, tuttavia, Humboldt non ricevette mai alcun
sostegno da parte di Napoleone, che rimase sospettoso. Napoleone
accusava Humboldt di essere una spia e dette istruzione alla polizia
segreta di aprire le sue lettere, corrompendo il cameriere personale per
ottenere informazioni e, in più di un’occasione, anche facendo
perquisire le sue stanze32. Quando Humboldt, poco dopo il suo arrivo
da Berlino, accennò a una possibile spedizione in Asia, Napoleone
incaricò un collega dell’Accademia di scrivere un rapporto segreto
sull’ambizioso scienziato prussiano33. Nel 1810, infine, Napoleone
ordinò a Humboldt di lasciare il paese nel giro di ventiquattro ore. Per
ragioni tutt’altro che ovvie e solo perché poteva, Napoleone informò
Humboldt che non gli era consentito di prolungare il suo soggiorno.
Fu solo dopo l’intervento del chimico Jean-Antoine Chaptal (allora
tesoriere del Senato) che a Humboldt fu concesso di rimanere a Parigi.
Era un onore per la Francia, disse Chaptal a Napoleone, che una
persona famosa come Humboldt vivesse a Parigi. Se Humboldt fosse
stato espulso, il paese avrebbe perso un grande scienziato34.
Malgrado la diffidenza di Napoleone, Parigi adorava Humboldt.
Scienziati e pensatori erano colpiti dalle sue pubblicazioni e dalle sue
conferenze, i colleghi scrittori adoravano le sue storie avventurose,
mentre il mondo alla moda della società parigina ne ammirava il
fascino e lo spirito. Humboldt correva da un incontro all’altro e da una
cena a quella successiva. Ormai, la sua fama si era diffusa così
rapidamente che quando faceva colazione al Café Procope, vicino
all’Odéon, si ritrovava circondato da una folla di spettatori35. I
vetturini non avevano bisogno dell’indirizzo, bastava l’indicazione
“chez Monsieur von Humboldt”36 perché sapessero dove condurre i
visitatori. Humboldt, come osservò un visitatore americano, era
l’“idolo della società parigina”36: compariva in cinque diverse sale di
ricevimento, dando spettacolo per una mezz’ora in ciascuna di esse,
parlando brevemente e scomparendo subito dopo. Era ovunque38,
commentò un diplomatico prussiano, e, come osservò il presidente
della Harvard University nel corso di una visita a Parigi, “a suo agio
con qualsiasi argomento”39. Humboldt era “ebbro del suo amore per
le scienze”40, osservò un conoscente.
Nelle sale di ricevimento e alle feste incontrava scienziati, ma anche
artisti e pensatori del suo tempo41. Scapolo e bell’uomo, Humboldt
non mancava di attirare l’attenzione delle donne. Una, perdutamente
innamorata di lui, parlò di una “lastra di ghiaccio”42 dietro il suo
immancabile sorriso. Quando gli chiese se fosse mai stato innamorato,
rispose che lo era “ardentemente”, ma ardeva per le scienze, “il mio
primo e unico amore”.
Mentre passava da una persona all’altra, Humboldt parlava più
velocemente di chiunque altro, ma con voce garbata43. Non si
attardava mai, era inafferrabile44, come raccontò una padrona di casa,
un minuto c’era e il minuto dopo non c’era più. Era “snello, elegante e
intelligente come un francese”45, con i capelli ribelli e gli occhi vivaci.
Aveva poco più di quarant’anni, ma sembrava più giovane di almeno
dieci anni. Quando a una festa arrivava Humboldt, era come se si
aprisse una “cateratta” di parole46. Wilhelm, che talvolta doveva
sopportare un po’ troppe delle storie del fratello, disse a Caroline,
dopo una sessione particolarmente lunga, che gli “stancava le orecchie
quando il suo flusso di parole scorreva senza sosta”47. Un altro
conoscente lo paragonò a uno “strumento sovraccarico”48 che
suonava in continuazione. Il modo di parlare di Humboldt era
“davvero un pensare a voce alta”49.
Altri temevano la sua lingua tagliente al punto che non volevano
lasciare una festa prima che Humboldt se ne fosse andato, temendo
che una volta che si fossero allontanati sarebbero diventati l’oggetto di
commenti maligni50. Alcuni pensavano che Humboldt fosse come una
meteora che sfrecciava nella sala51. Alle cene teneva banco, saltando
da un argomento all’altro. In un momento parlava delle teste
rinsecchite, osservò un conoscente, ma nel tempo in cui un ospite
aveva tranquillamente chiesto al vicino un po’ di sale ritornando poi
alla conversazione, Humboldt stava già dissertando sulla scrittura
cuneiforme degli assiri52. Humboldt era elettrizzante, diceva
qualcuno, la sua mente era acuta e i suoi pensieri liberi da
pregiudizi53.

Per tutti questi anni, i parigini ricchi non si sentirono particolarmente


toccati dalle guerre europee in corso54. Con l’esercito di Napoleone in
marcia attraverso il continente fin nella lontana Russia, la vita di
Humboldt e quella dei suoi amici e colleghi rimasero le stesse. Parigi
fioriva e cresceva di pari passo con le vittorie di Napoleone. La città
era diventata un gigantesco aggregato edilizio. Venivano
commissionati nuovi palazzi e poste le fondamenta dell’Arco di
Trionfo, che però fu completato vent’anni dopo. La popolazione era
cresciuta da più di 500.000 abitanti all’epoca in cui Humboldt era
tornato dall’America Latina nel 1804 fino a circa 700.000 un decennio
più tardi55.
Una volta che Napoleone ebbe portato sotto il suo controllo
l’Europa, il suo esercito tornò dai paesi conquistati con carrettate di
opere d’arte, che andarono a riempire i musei di Parigi. Il bottino
comprendeva di tutto: dalle statue greche, dai tesori romani e dai
dipinti del rinascimento alla stele di Rosetta dall’Egitto. Fu eretta una
colonna di quarantadue metri, la Colonna Vendôme, a imitazione della
colonna di Traiano a Roma, come monumento alle vittorie di
Napoleone. Dodicimila pezzi di artiglieria sottratti al nemico furono
fusi per creare il bassorilievo che si snodava fino alla cima, dove una
statua di Napoleone in abiti da imperatore romano vegliava sulla città.
Nel 1812 i francesi persero quasi mezzo milione di uomini in Russia.
L’esercito di Napoleone fu decimato dalla tattica russa della terra
bruciata, per cui venivano bruciati villaggi e raccolti in modo che i
francesi rimanessero senza cibo. Con l’inizio dell’inverno russo, quello
che era rimasto della Grande Armée si ridusse a meno di 30.000
soldati. Fu il punto di svolta delle guerre napoleoniche. Quando le
strade di Parigi si riempirono di invalidi – tornati feriti e malconci dai
campi di battaglia – i parigini capirono che la Francia poteva perdere.
Era, come disse l’ex ministro degli Esteri di Napoleone, Talleyrand,
“l’inizio della fine”56.
Alla fine del 1813, l’esercito britannico, sotto il comando del duca di
Wellington, aveva cacciato i francesi dalla Spagna e una coalizione
formata da Austria, Russia, Svezia e Prussia aveva inflitto a Napoleone
una sconfitta decisiva in terra tedesca. Circa 600.000 soldati si
affrontarono, nell’ottobre 1813, nella battaglia di Lipsia, la cosiddetta
“battaglia delle nazioni”, lo scontro più sanguinoso in Europa fino alla
prima guerra mondiale. I cosacchi russi, i soldati di cavalleria mongoli,
i soldati della riserva svedese, le truppe di confine austriache e i militi
della Slesia furono fra i tanti che combatterono e distrussero l’esercito
francese.
Cinque mesi e mezzo dopo, verso la fine di marzo del 1814, quando
gli alleati marciarono lungo gli Champs-Élysées, neanche i parigini più
frivoli poterono continuare a ignorare la nuova realtà. Circa 170.000
austriaci, russi e prussiani arrivarono a Parigi e rovesciarono la statua
di Napoleone sulla Colonna Vendôme, sostituendola con una bandiera
bianca57. Il pittore britannico Benjamin Robert Haydon, che visitò
Parigi in quel periodo, descrisse il folle carnevale che seguì: cosacchi a
cavallo seminudi, con le cinture piene di pistole, accanto agli
imponenti soldati della Guardia imperiale russa “strizzati in vita come
vespe”58. Le strade erano stracolme di ufficiali inglesi, con le facce
tirate a lucido, di austriaci in carne e di soldati prussiani in splendenti
uniformi nonché di tartari in armature di maglia metallica con archi e
frecce. Trasudavano una tale aria di vittoria che fece “imprecare fra i
denti”59 ogni parigino.
Il 6 aprile 1814, Napoleone fu esiliato all’Elba, una piccola isola del
Mediterraneo. Nel giro di un anno, tuttavia, era riuscito a sfuggire e a
tornare a Parigi, raccogliendo un esercito di 200.000 soldati. Fu un
ultimo e disperato tentativo di riportare l’Europa sotto il suo controllo,
ma poche settimane dopo, nel giugno 1815, Napoleone fu battuto dagli
inglesi e dai prussiani nella battaglia di Waterloo. Esiliato nell’isola
remota di Sant’Elena, una macchiolina di terra nell’Atlantico
meridionale, a 1.950 chilometri dall’Africa e 2.900 dall’America
settentrionale, Napoleone non fece mai più ritorno in Europa.
Humboldt aveva osservato come Napoleone aveva distrutto la
Prussia nel 1806 e ora, otto anni dopo, assisteva all’ingresso trionfale
degli alleati in Francia, il paese che definiva come la sua seconda
patria60. Era doloroso vedere come gli ideali della Rivoluzione
francese – la libertà in generale, la libertà politica – sembravano
dileguarsi, scrisse a James Madison a Washington61, che era allora
succeduto a Jefferson come presidente degli Stati Uniti. La posizione
di Humboldt era delicata. Wilhelm, che era ancora ambasciatore a
Vienna ed era arrivato a Parigi con gli alleati, pensava che suo fratello
assomigliava più a un francese che a un tedesco62. Alexander,
certamente, si sentiva a disagio, lamentando “accessi di
malinconia”863 e ricorrenti dolori di stomaco. Ma continuava a stare a
Parigi.

Il Jardin des Plantes a Parigi, comprendente un grande giardino botanico, un serraglio e un


museo di storia naturale

Ci furono attacchi pubblici. Un articolo sul giornale tedesco


Rheinischer Merkur, per esempio, accusava Humboldt di preferire
l’amicizia con i francesi all’“onore”64 del suo popolo. Profondamente
offeso, Humboldt scrisse una lettera furente all’autore dell’articolo, ma
rimase in Francia. Per quanto questo esercizio di diplomazia potesse
essere d’imbarazzo per Humboldt, ebbe tuttavia effetti positivi per le
scienze. Quando gli alleati arrivarono a Parigi, ci furono saccheggi e
razzie. In parte erano giustificati, visto che gli alleati recuperavano dai
musei di Napoleone i tesori rubati per riconsegnarli ai legittimi
proprietari, ma il più delle volte si trattava di una forza di occupazione
indisciplinata.
Fu a Humboldt che si rivolse il naturalista francese Georges Cuvier,
quando l’esercito prussiano progettava di trasformare il Jardin des
Plantes in un campo militare. Humboldt sfruttò i suoi contatti e
convinse il generale prussiano responsabile a dislocare le truppe
altrove. Un anno dopo, quando i prussiani tornarono a Parigi dopo la
vittoria su Napoleone a Waterloo, Humboldt, ancora una volta, salvò
la preziosa collezione del giardino botanico. Quando 2.000 soldati si
accamparono nelle vicinanze del giardino, Cuvier cominciò a temere
per i suoi tesori. I soldati disturbavano gli animali del serraglio, disse a
Humboldt, e toccavano ogni specie dei rari esemplari. Dopo una visita
al comandante prussiano, Humboldt ricevette assicurazioni che le
piante e gli animali non erano in pericolo65.
A Parigi non arrivarono solo soldati. Subito dopo vennero i turisti –
specialmente inglesi, che non era riusciti ad andare a Parigi durante i
lunghi anni delle guerre napoleoniche. Molti venivano per vedere i
tesori del Louvre, perché nessun’altra istituzione europea conteneva
tanta arte. Gli studenti facevano schizzi delle sculture e dei dipinti più
famosi, prima che arrivassero gli operai con carriole, scale e corde per
rimuoverli e imballarli, in modo che potessero tornare ai loro
proprietari66.
Anche gli scienziati inglesi vennero a Parigi e, in qualunque
momento arrivassero, andavano a bussare alla porta di Humboldt. Lo
visitò un ex segretario della Royal Society, Charles Bladgen67, così
come un futuro presidente, Humphry Davy68. Forse più di chiunque
altro, Davy viveva quello che Humboldt andava predicando, perché era
un poeta e un chimico. Nei suoi taccuini, per esempio, Davy riempiva
una pagina con i resoconti oggettivi dei suoi esperimenti, mentre
nell’altra pagina scriveva le sue reazioni personali e le sue risposte
emotive. Le sue conferenze scientifiche alla Royal Institution di
Londra erano così famose che nei giorni in cui le teneva le strade
intorno all’edificio si riempivano di gente69. Il poeta Samuel Taylor
Coleridge – un altro grande ammiratore dell’opera di Humboldt –
assisteva alle conferenze di Davy, come ebbe scrivere, per “ampliare la
mia scorta di metafore”70. Come Humboldt, Davy credeva che
l’immaginazione e la ragione fossero entrambe necessarie per
migliorare la mente filosofica – erano “la fonte creativa della
scoperta”71.
Humboldt era felice di incontrare altri scienziati per scambiare idee
e condividere informazioni, ma la vita in Europa gli appariva sempre
più frustrante. Per tutti questi anni di sconvolgimenti politici era
rimasto irrequieto e, con l’Europa così profondamente lacerata,
sentiva che c’era poco che lo trattenesse. “La mia visione del mondo è
cupa”, disse a Goethe. Gli mancavano i tropici e si sentiva meglio solo
“quando vivo in una zona calda.”72
1. AH a Goethe, 3 gennaio 1810, Goethe Humboldt Lettere 1909, p. 305; vedi anche AH a
Franz Xaver von Zach, 14 maggio 1806, Bruhns 1873, vol. 1, p. 360.
2. AH a Johann Friedrich von Cotta, 6 giugno 1807, 13 novembre 1808, 11 dicembre 1812, AH
Cotta Lettere 2009, pp. 81, 94, 115.
3. AH a Bonpland, 7 settembre 1810, AH Bonpland Lettere 2004, p. 57; vedi anche Fiedler e
Leitner 2000, p. 251.
4. Vues des Cordillères fu pubblicato in in sette dispense dal 1810 al 1813.
5. AH a Goethe, 3 gennaio 1810, Goethe Humboldt Lettere 1909, p. 304; vedi anche Goethe, 18
gennaio 1810, Goethe Tagebücher 1998-2007, vol. 4, pt. 1, p. 111.
6. Goethe, 18 gennaio 1810, Goethe Tagebücher 1998-2007, vol. 4, pt. 1, p. 111.
7. Goethe, 18, 19, 20 e 21 gennaio 1810, Goethe Tagebücher 1998-2007, vol. 4, pt. 2, pp. 111-12.
8. Per esempio David Warden a AH, 9 maggio 1809, AH Lettere USA 2004, p. 111; AH a
Alexander von Rennenkampff, 7 gennaio 1812, Biermann 1987, p. 196.
9. Jefferson a AH, 13 giugno 1817, Terra 1959, p. 795.
10. Jefferson a AH, 6 marzo 1809, 14 aprile 1811, 6 dicembre 1813; AH a Jefferson, 12 giugno
1809, 23 settembre 1810, 20 dicembre 1811; William Gray a Jefferson, 18 maggio 1811, TJ RS
Papers, vol. 1, pp. 24, 266, vol. 3, pp. 108, 553, 623, vol. 4, pp. 353-4, vol. 7, p. 29; AH a
Jefferson, 30 maggio 1808, Terra 1959, p. 789.
11. AH a Banks, 15 novembre 1800; Bonpland a Banks, 20 febbraio 1810; Banks a James
Edward Smith, 2 febbraio 1815 (con la richiesta di un esemplare della palma Mauritia per
AH); Banks a Charles Bladgen, 28 febbraio 1815, Banks 2007, vol. 5, pp. 63 sgg.; vol. 6, pp. 27-
8; 164-5; 171; AH a Banks, 23 febbraio 1805, BL Add Ms 8099 ff.391-2; AH a Banks, 10 luglio
1809, BL Add Ms 8100 ff.43-4.
12. Adelbert von Chamisso a Eduard Hitzig, 16 febbraio 1810, Beck 1959, p. 37; AH a Marc-
Auguste Pictet, marzo 1808, Bruhns 1873, vol. 2, p. 6; Caspar Voght, 16 marzo 1808, Voght
1959-65, vol. 3, p. 95.
13. (nota a piè di pagina) AH a Johann Georg von Cotta, 14 aprile 1850, AH Cotta Lettere
2009, p. 430; vedi anche Biermann 1990, p. 183.
14. Carl Vogt, gennaio 1845, Beck 1959, p. 206.
15. “An Autobiography of Francis Arago”, Arago 1857 pp. 12 sgg.
16. Arago su AH, Biermann e Schwarz 2001b, senza numeri di pagina.
17. Adolphe Quetelet, 1822, Bruhns 1873, vol. 2, p. 58.
18. AH ad Arago, 31 dicembre 1841, AH Arago Lettere 1907, p. 224.
19. AH ad Arago, 31 luglio 1848, ivi, p. 290.
20. WH a CH, 1 novembre 1817, WH CH Lettere 1910-16, vol. 6, p. 30.
21. WH a CH, 14 gennaio 1809, ivi, vol. 3, p. 70.
22. Geier 2010, p. 272.
23. WH a CH, 3 dicembre 1817, WH CH Lettere 1910-16, vol. 6, p. 64; vedi anche WH a CH, 6
dicembre 1813 e 8 novembre 1817, ivi, vol. 4, p. 188 e vol. 6, pp. 43-4.
24. WH a CH, 10 luglio 1810, ivi, vol. 3, p. 433.
25. Napoleone a AH, Friedrich von Müller, 28 maggio 1825, riportato in Goethe AH WH
Lettere 1876, p. 353.
26. Humboldt Commemorations, 2 giugno 1859, Journal of American Geological and
Statistical Society, 1859, vol. 1, p. 235.
27. Podach 1959, pp. 198, 201-2.
28. AH dopo un’udienza con Napoleone, 1804, Beck 1959-61, vol. 2, p. 2.
29. Serres 1995, p. 431.
30. Krätz 1999a, p. 113.
31. Beck 1959-61, vol. 2, p. 16.
32. Daudet 1912, pp. 295-365; Krätz 1999a, p. 113.
33. Rapporto di George Monge, 4 marzo 1808: Podach 1959, p. 200.
34. Podach 1959, pp. 200 sgg.
35. Carl Vogt, gennaio 1845, Beck 1959, p. 207.
36. Bruhns 1873, vol. 2, p. 89.
37. George Ticknor, aprile 1817, AH Lettere USA 2004, p. 516.
38. Konrad Engelbert Oelsner a Friedrich August von Stägemann, 28 agosto 1819, Päßler
2009, p. 12.
39. John Thornton Kirkland, 28 maggio 1821, Beck 1959, p. 69.
40. Caspar Voght, 16 marzo 1808, Voght 1959-65, vol. 3, p. 95.
41. Krätz 1999a, pp. 116-17; Clark e Lubrich 2012, pp. 10-14.
42. Fräulein von R., ottobre-novembre 1812, Beck 1959, p. 42.
43. Roderick Murchison, maggio 1859, ivi, p. 3.
44. Karoline Bauer, My Life on Stage, 1876, Clark e Lubrich 2012, p. 199.
45. Ibid.
46. Carl Vogt, gennaio 1845, Beck 1959, p. 208.
47. WH a CH, 30 novembre 1815, WH CH Lettere 1910-16, vol. 5, p. 135.
48. Heinrich Laube, Laube 1875, p. 334.
49. Wilhelm Foerster, Berlino 1855, Beck 1959, p. 268.
50. Adolphe Quetelet, 1822, Bruhns 1873, vol. 2, p. 58.
51. Karl August Varnhagen von Ense, 1810, Varnhagen 1987, vol. 2, p. 139.
52. Karl Gutzkow, Beck 1969, pp. 250-51.
53. Johann Friedrich Benzenberg, 1815, ivi, p. 259.
54. Horne 2004, p. 195.
55. Marrinan 2009, p. 284.
56. Talleyrand, in Horne 2004, p. 202.
57. Horne 2004, p. 202; John Scott, 1814, Scott 1816, p. 71.
58. Benjamin Robert Haydon, maggio 1814, Haydon 1950, p. 212.
59. Ibid.
60. AH a Jean Marie Gerando, 2 dicembre 1804, Geier 2010, p. 248; AH a François Guizot,
ottobre 1840, Päßler 2009, p. 25.
61. AH a James Madison, 26 agosto 1813, Terra 1959, p. 798.
62. WH a CH, 9 settembre 1814, WH CH Lettere, vol. 4, p. 384.
63. AH a CH, 24 agosto 1813, Bruhns 1873, vol. 2, p. 52.
64. AH a Johann Friedrich Benzenberg, 22 novembre 1815, Podach 1959, p. 206.
65. Podach 1959, pp. 201-2; Winfield Scott a James Monroe, 18 novembre 1815. Monroe
trasmise questa lettera a Jefferson, James Monroe a Jefferson, 22 gennaio 1816, TJ RS Papers,
vol. 9, p. 392.
66. John Scott, 1815, Scott 1816, pp. 328 sgg.
67. Charles Bladgen , 5 febbraio 1815, Ewing 2007, p. 275.
68. Ayrton 1831, pp. 9-32.
69. Holmes 1998, p. 71.
70. Coleridge in 1802, Holmes 2008, p. 288.
71. Humphry Davy in 1807, ivi, p. 276.
72. “La mia visione del mondo”: AH a Goethe, 1 gennaio 1810, Goethe Humboldt Lettere 1909,
p. 305.
*. Nel 1810 Humboldt traslocò in un appartamento che condivideva con Karl Sigmund Kunth,
nipote del suo ex tutore e botanico tedesco, al quale aveva affidato il compito di lavorare sulle
pubblicazioni di botanica, esonerando – dopo qualche discussione e qualche litigio –
Bonpland.
Capitolo dodicesimo

Rivoluzioni e natura

Simón Bolívar e Humboldt

Procedevo, coperto del mantello di Iride, dal luogo in cui l’impetuoso Orinoco paga il suo
tributo al dio delle acque. Avevo visitato le meravigliose sorgenti dell’Amazzonia,
arrampicandomi faticosamente sulla torre di guardia dell’universo. Ero alla ricerca delle
tracce di La Condamine e di Humboldt, seguendole con determinazione. Nulla poteva
fermarmi. Raggiunsi le cime ghiacciate e l’atmosfera mi tolse il respiro. Nessun piede
umano aveva mai macchiato la corona di diamanti posta dalle mani dell’Eternità sui
templi sublimi di questo superbo picco andino. Dissi a me stesso: il mantello arcobaleno
di Iride mi è servito da stendardo. L’ho portato attraverso regioni infernali. Ha solcato
fiumi e mari ed è salito sulle spalle gigantesche delle Ande. La terra si è spianata ai piedi
della Colombia e neanche il tempo ha potuto trattenere la marcia della libertà. La dea
della guerra, Bellona, è stata umiliata dallo splendore di Iride. Perché dovrei esitare a
calpestare la chioma bianca di ghiaccio di questo gigante sulla terra? Lo farò! E preso da
un tremore spirituale che non avevo mai sperimentato prima e che mi sembrava una sorta
di frenesia divina, mi lasciai alle spalle le tracce di Humboldt e cominciai a lasciare le mie
impronte sui cristalli eterni che cingono il Chimborazo.
Simón Bolívar, Il mio delirio sul Chimborazo, 18221

Non fu Humboldt a tornare in Sud America, ma il suo amico Simón


Bolívar. Tre anni dopo che si erano incontrati per la prima volta a
Parigi nel 1804, Bolívar aveva lasciato l’Europa, ardendo delle idee
illuministe di libertà, di separazione dei poteri e di un contratto sociale
fra un popolo e i suoi governanti. Appena messo piede sul suolo
sudamericano, Bolívar si era sentito sospinto dal voto di liberare il suo
paese fatto sul Monte Mario a Roma. Ma la lotta contro gli spagnoli
sarebbe stata una battaglia lunga, alimentata dal sangue dei patrioti.
Sarebbe stata una ribellione che avrebbe visto amici stretti tradirsi l’un
l’altro. Brutale, disordinata e spesso distruttiva, avrebbe richiesto un
paio di decenni per cacciare gli spagnoli dal continente – e alla fine
avrebbe visto Bolívar governare come un dittatore2.

Il Chimborazo e il Carquairazo nell’odierno Ecuador – una delle tante straordinarie


illustrazioni delle Vues des Cordillères di Humboldt

Era anche una battaglia corroborata dagli scritti di Humboldt, come


se le sue descrizioni della natura e della gente facessero apprezzare ai
coloni quanto fosse unico e magnifico il loro continente. I libri e le idee
di Humboldt sarebbero entrati nella liberazione dell’America Latina –
dalle sue critiche del colonialismo e della schiavitù alle sue vivide
descrizioni dei maestosi paesaggi. Nel 1809, due anni dopo la sua
prima pubblicazione in Germania, il Saggio sulla geografia delle
piante di Humboldt era stato tradotto in spagnolo e pubblicato su una
rivista scientifica3 fondata a Bogotá da Francisco José de Caldas, uno
degli scienziati che Humboldt aveva incontrato nel corso della sua
spedizione sulle Ande. “Con la sua penna”4 Humboldt aveva
risvegliato il Sud America, scrisse più tardi Bolívar, e aveva spiegato
perché i sudamericani avevano tante ragioni per essere orgogliosi del
loro continente. Ancora oggi, il nome di Humboldt è molto più
conosciuto in America Latina che nella maggior parte dell’Europa o
degli Stati Uniti.
Durante tutta la rivoluzione, per spiegare i suoi convincimenti
Bolívar avrebbe usato immagini tratte dal mondo naturale – come se
scrivesse con la penna di Humboldt. Parlava di un “mare in
tempesta”5 e descriveva coloro che lottavano per la rivoluzione come
persone che “solcavano il mare”6. Quando radunava i suoi
compatrioti, nei lunghi anni delle rivolte e delle battaglie, evocava i
paesaggi del Sud America. Parlava di splendide vedute e sosteneva che
il loro continente era “il cuore dell’universo”7, in un tentativo di
ricordare ai compagni rivoluzionari per cosa stavano combattendo.
Talora, quando sembrava che imperasse solo il caos, Bolívar si volgeva
ai territori selvaggi in cerca di senso. Nella natura incontaminata
trovava analogie con la brutalità degli uomini – e sebbene ciò non
mutasse in nulla le condizioni della guerra riusciva ancora a essere
singolarmente confortante. Combattendo per liberare le colonie dalle
catene spagnole, queste immagini, metafore e allegorie della natura,
diventarono il suo modo di parlare della libertà.
Le foreste, le montagne e i fiumi accendevano l’immaginazione di
Bolívar. Era un “vero amante della natura”8, come disse in seguito uno
dei suoi generali. “La mia anima è abbagliata dalla presenza della
natura primitiva”9, dichiarava Bolívar. Aveva sempre adorato stare
all’aperto e da giovane aveva goduto il piacere della vita di campagna e
del lavoro agricolo. Il paesaggio che circondava la vecchia hacienda di
famiglia a San Mateo nei pressi di Caracas, dove aveva passato il
tempo cavalcando attraverso i campi e le foreste, era stato la culla di
questo legame forte con la natura. Erano le montagne, in particolare,
ad affascinare Bolívar, perché gli ricordavano la casa natia. Quando
aveva camminato dalla Francia all’Italia, nella primavera del 1805, era
stata la vista delle Alpi a indirizzare i suoi pensieri verso il suo paese,
lontano dal gioco d’azzardo e dalle bevute di Parigi10. All’epoca in cui
Bolívar incontrò Humboldt a Roma quell’estate, aveva cominciato a
pensare seriamente alla rivolta. Quando tornò in Venezuela nel 1807,
disse, c’era “un fuoco che bruciava dentro di me per liberare il mio
paese”11.

Le colonie spagnole in America Latina erano divise in quattro


vicereami e ospitavano circa 17 milioni di persone. C’era la Nuova
Spagna, che comprendeva il Messico, parti della California e
dell’America centrale, mentre il Vicereame di Nuova Granada si
estendeva nella parte settentrionale del Sud America, coprendo
all’incirca gli attuali Panama, Ecuador e Colombia nonché parti del
nord-est del Brasile e del Costa Rica. Più a sud c’era il vicereame del
Perù nonché il vicereame di Rio de La Plata con capitale Buenos Aires,
che comprendeva parti di quelli che sono oggi l’Argentina, il Paraguay
e l’Uruguay. C’erano anche le cosiddette Capitanerie generali, come
quelle del Venezuela, del Cile e di Cuba. Le Capitanerie generali erano
divisioni amministrative che attribuivano autonomia a quelle regioni,
rendendole simili ai vicereami tranne che nel nome. Era un impero
vasto, che per tre secoli aveva fornito alimento all’economia spagnola,
ma il primo colpo era arrivato con la perdita dell’enorme territorio
della Louisiana, che era stato parte del Vicereame della Nuova Spagna.
Gli spagnoli l’avevano perso a favore dei francesi, che l’avevano poi
venduto agli Stati Uniti nel 1803.
Le guerre napoleoniche avevano colpito duramente le colonie
spagnole. I blocchi navali inglesi e francesi avevano ridotto il
commercio e avevano prodotto enormi perdite di reddito. Al tempo
stesso, i criollos ricchi come Bolívar avevano capito che potevano
usare a loro vantaggio l’indebolimento della posizione della Spagna in
Europa. Gli inglesi avevano distrutto molte navi da guerra spagnole
nella battaglia di Trafalgar nel 1805, la battaglia navale decisiva per gli
esiti della guerra, e due anni dopo Napoleone aveva invaso la penisola
iberica. Aveva poi costretto il re spagnolo, Ferdinando VII, ad abdicare
in favore del fratello di Napoleone. La Spagna non era più stata una
grande potenza imperiale, ma uno strumento nelle mani della Francia.
Con la deposizione del re spagnolo e la madre patria occupata da una
forza straniera, alcuni sudamericani avevano cominciato a credere in
un futuro diverso12.
Nel 1809, un anno dopo l’abdicazione di Ferdinando VII, a Quito
era stato formulato il primo appello all’indipendenza, allorché i creoli
avevano tolto il potere dalle mani degli amministratori spagnoli. Un
anno dopo, nel maggio 1810, i coloni di Buenos Aires fecero lo stesso.
Pochi mesi dopo, a settembre, nella cittadina di Dolores, 320
chilometri a nord-est di Città del Messico, un prete di nome Miguel
Hidalgo y Costilla riunì creoli, meticci, indiani e schiavi liberi sotto il
grido di battaglia della lotta contro il governo spagnolo; nel giro di un
mese aveva un esercito di 60.000 persone13. Quando la rivolta e i
disordini si diffusero in tutti i vicereami spagnoli, l’élite creola del
Venezuela dichiarò l’indipendenza, il 5 luglio 1811.
Nove mesi più tardi, sembrò che la natura si schierasse con gli
spagnoli. Il pomeriggio del 26 marzo 1812, mentre gli abitanti della
città natale di Bolívar, Caracas, si affollavano nelle chiese per i riti
pasquali, un violento terremoto distrusse la città, facendo migliaia di
morti. La cattedrale e le chiese si sbriciolarono e l’aria si fece densa di
polvere, mentre i fedeli rimanevano schiacciati sotto le macerie.
Mentre le scosse scuotevano il terreno, Bolívar, in preda alla
disperazione, osservava le devastazioni. Molti videro nel terremoto il
segno dell’ira divina contro la loro sommossa. I preti inveivano contro
i “peccatori” e dicevano che la “giustizia divina” aveva punito la loro
rivoluzione14. In piedi in mezzo alle macerie, in maniche di camicia,
Bolívar manteneva il suo atteggiamento di sfida. “Se la natura stessa
decide di opporsi a noi”, disse, “la combatteremo e la costringeremo a
obbedire.”15
Otto giorni dopo ci fu un altro terremoto, che portò la perdita di vite
umane alla cifra sconvolgente di 20.000 persone, circa la metà della
popolazione di Caracas16. Quando gli schiavi delle piantagioni a est
del lago di Valencia si ribellarono, saccheggiando le haciendas e
uccidendo i proprietari, da un capo all’altro del Venezuela si diffuse
l’anarchia. Bolívar, cui era stata affidata la città portuale di Puerto
Cabello sulla costa settentrionale del Venezuela, d’importanza
strategica, più o meno 150 chilometri a ovest di Caracas, aveva cinque
ufficiali e tre soldati e, quando arrivarono le truppe fedeli alla
monarchia, non ebbe scampo. Nel giro di qualche settimana, i
combattenti repubblicani si erano arresi alle forze spagnole e poco più
di un anno dopo che i creoli avevano dichiarato per la prima volta la
loro indipendenza, la cosiddetta Prima Repubblica era giunta al
termine. La bandiera spagnola era stata di nuovo issata e Bolívar
abbandonò il paese alla fine di agosto del 1812 e si rifugiò nell’isola
caraibica di Curaçao17.
Mentre la rivoluzione era in corso, l’ex presidente americano
Thomas Jefferson tempestò Humboldt di domande. Se i rivoluzionari
avessero avuto successo, quale tipo di governo avrebbero istituito,
chiedeva, e quanto egualitaria sarebbe stata la loro società? Avrebbe
prevalso il dispotismo? “Voi potete rispondere a queste domande
meglio di chiunque altro”18, sosteneva Jefferson in una lettera. Quale
uno dei padri fondatori della rivoluzione nordamericana, Jefferson era
profondamente interessato alle colonie spagnole e temeva veramente
che il Sud America non avrebbe istituito governi repubblicani. Al
tempo stesso, Jefferson era preoccupato anche per le implicazioni
economiche che un continente indipendente al sud avrebbe avuto per
il suo paese19. Finché le colonie erano sotto il controllo degli spagnoli,
gli Stati Uniti esportavano enormi quantità di grano e di cereali verso
il Sud America. Ma, una volta che avessero abbandonato le colture da
reddito coloniali, i loro “prodotti agricoli e il loro commercio
avrebbero rivaleggiato con i nostri”20, disse Jefferson al ministro
spagnolo a Washington.
Nel frattempo Bolívar stava progettando le prossime mosse e
nell’ottobre 1812, due mesi dopo aver abbandonato il Venezuela,
giunse a Cartagena, una città portuale sulla costa settentrionale del
vicereame di Granada nell’attuale Colombia21. Bolívar era pieno di
idee per un Sud America forte, in cui tutte le colonie avrebbero
combattuto insieme invece che separatamente come prima. Al
comando di un piccolo esercito, ma, a quanto si sa, provvisto delle
ottime mappe di Humboldt22, Bolívar iniziò ora un’audace offensiva
di guerriglia a centinaia di chilometri da casa. Aveva un’esperienza
militare limitata, ma quando si spostò da Cartagena verso il Venezuela
riuscì a sorprendere le forze fedeli al re in ambienti inospitali – sulle
vette delle montagne, nel profondo della foresta e lungo fiumi infestati
da serpenti e coccodrilli. A poco a poco, Bolívar conquistò il controllo
del Rio Magdalena, il fiume lungo il quale Humboldt si era mosso in
canoa da Cartagena a Bogotá più di un decennio prima.
Sul sentiero di guerra, Bolívar rivolse commoventi discorsi alla
popolazione di Nuova Granada. “Ovunque domini l’impero spagnolo”,
disse, “dominano la morte e la desolazione!”23 E mentre marciava,
guadagnava nuove reclute. Bolívar credeva che le colonie del Sud
America si dovessero riunire. Se una veniva ridotta in schiavitù, lo era
anche l’altra, scrisse. Il governo spagnolo era una “cancrena” che
avrebbe colpito tutte le parti, a meno che non venisse “amputata come
un arto infetto”24. Era la disunione delle colonie, disse, a determinare
la loro rovina, non le armi degli spagnoli25. Gli spagnoli erano
“cavallette” che distruggevano “i semi e le radici dell’albero della
libertà”26, disse, una peste che poteva essere distrutta solo se le
colonie si univano contro di essa. Incantava, intimoriva, minacciava,
per convincere i cittadini di Nuova Granada a unirsi a lui nella marcia
verso il Venezuela per liberare Caracas.
Se non raggiungeva il suo scopo, Bolívar poteva essere arrogante e
ingiurioso. “Avanti! O mi sparate oppure, per Dio, di certo sarò io a
spararvi”27, urlò Bolívar quando un ufficiale si rifiutò di entrare nel
territorio venezuelano. “Devo avere 10.000 fucili”, pretese in un’altra
occasione, “o divento pazzo.”28 La sua determinazione era contagiosa.
Simón Bolívar

Era un uomo pieno di contraddizioni, altrettanto felice di stare in


un’amaca sospesa ai rami in mezzo alla foresta più fitta come in una
sala da ballo gremita. Avrebbe stilato impaziente la prima costituzione
della nazione su di una canoa che scivolava lungo l’Orinoco, ma
avrebbe anche ritardato un’azione militare solo per il suo tornaconto,
per attendere un’amante29. Diceva che danzare era la “poesia del
movimento”30, ma poteva anche ordinare freddamente l’esecuzione di
centinaia di prigionieri. Poteva essere affascinante quando era di buon
umore, ma “feroce” quando era irritato, con mutamenti di umore così
repentini che “il cambiamento era incredibile”31, come disse uno dei
suoi generali.
Bolívar era un uomo d’azione, ma credeva anche che la parola
scritta avesse il potere di cambiare il mondo. Nelle campagne
successive, avrebbe viaggiato sempre con una macchina tipografica,
portandola su e giù per le Ande e attraverso le vaste pianure degli
Llanos32. La sua mente era acuta e veloce33, spesso dettava più lettere
nello stesso tempo ed era conosciuto per prendere decisioni a tamburo
battente. C’erano uomini, disse, che per pensare avevano bisogno della
solitudine, ma “io riflettevo, valutavo e rimuginavo al meglio quando
ero in mezzo alla baldoria – fra i piaceri e il clamore di un ballo”34.
Dal Rio Magdalena, Bolívar e i suoi uomini marciarono attraverso le
montagne verso il Venezuela, combattendo e sconfiggendo le truppe
fedeli al re. Nella primavera 1813, sei mesi dopo essere approdato a
Cartagena, Bolívar aveva liberato Nuova Granada, ma il Venezuela era
ancora in mani spagnole. Nel maggio 1813, il suo esercito discese dalle
montagne verso l’altopiano in cui si trovava la città venezuelana di
Mérida. Quando seppero che Bolívar stava arrivando, gli spagnoli
abbandonarono Mérida in mezzo al panico. Bolívar e le sue truppe
arrivarono con le uniformi stracciate, affamati e con la febbre, ma
furono accolti da eroi. I cittadini di Mérida proclamarono Bolívar “El
Libertador” e 600 nuove reclute si aggiunsero al suo esercito935.
Tre settimane dopo, il 15 giugno 1813, Bolívar emise un duro decreto
che dichiarava “guerra all’ultimo sangue”36. Condannava a morte tutti
gli spagnoli delle colonie, a meno che non accettassero di combattere a
fianco dell’esercito di Bolívar. Era spietato quanto efficace. Quando gli
spagnoli cominciarono a essere giustiziati, i fedeli al re disertarono e si
unirono ai repubblicani – e quando l’esercito di Bolívar si mosse verso
Caracas il loro numero si accrebbe. Nel momento in cui arrivarono
nella capitale, il 6 agosto, gli spagnoli avevano abbandonato la città.
Bolívar s’impadronì di Caracas senza colpo ferire. “Sono arrivati i
vostri liberatori”, disse agli abitanti, “dalle rive del Magdalena gonfio
di piogge alle valli fiorite di Aragua.”37 Parlò dei vasti altopiani che
avevano attraversato e delle enormi montagne che avevano scalato –
paragonando le loro vittorie ai rudi paesaggi della natura
sudamericana.
Mentre i soldati di Bolívar marciavano attraverso il Venezuela lungo
il percorso cruento della guerra all’ultimo sangue, uccidendo
pressoché ogni spagnolo che incontrassero, un altro esercito si
sollevava: le cosiddette “Legioni dell’inferno”38. Composte dai duri
abitanti delle pianure degli Llanos, insieme con schiavi e meticci, le
Legioni dell’inferno erano sotto il comando del feroce e sadico José
Tomás Boves, uno spagnolo che aveva vissuto negli Llanos come
commerciante di bestiame e il cui esercito alla fine avrebbe ucciso
80.000 repubblicani39. Gli uomini di Boves lottavano contro la classe
privilegiata di creoli che stavano con Bolívar, i quali, secondo loro,
erano da temere più del governo spagnolo. La rivoluzione di Bolívar si
trasformò in una spietata guerra civile. Un ufficiale spagnolo descrisse
il Venezuela come una regione di morte: “Città che avevano migliaia di
abitanti sono ora ridotte a poche centinaia o addirittura a poche decine
di abitanti”40, i villaggi venivano dati alle fiamme e corpi insepolti
erano in decomposizione per le strade e nei campi.
Humboldt aveva predetto che la lotta del Sud America per
l’indipendenza sarebbe stata sanguinosa, perché la società coloniale
era profondamente lacerata. Per tre secoli, gli europei avevano fatto di
tutto per consolidare “l’odio di una casta per l’altra”41, disse
Humboldt a Jefferson. I creoli, i meticci, gli schiavi e gli indigeni non
erano un popolo unito, ma erano divisi e diffidenti gli uni nei confronti
degli altri. Era un avvertimento che infastidiva Bolívar.
Nel frattempo, in Europa, la Spagna era stata finalmente liberata dal
giogo militare di Napoleone ed era in condizione di concentrarsi sulle
colonie senza governo. Rientrato in possesso del trono, il re spagnolo
Ferdinando VII allestì una enorme flotta di circa sessanta navi e spedì
più di 14.000 soldati in Sud America – la flotta più grande che la
Spagna avesse mai inviato nel Nuovo Mondo42. Quando gli spagnoli
arrivarono in Venezuela, nell’aprile 1815, l’esercito di Bolívar –
indebolito dalla lotta contro Boves – non aveva speranze. In maggio,
gli uomini del re s’impadronirono di Caracas e la rivoluzione sembrò
finita per sempre.
Ancora una volta, Bolívar lasciò il suo paese – questa volta per la
Giamaica da dove tentò di trovare un sostegno internazionale alla sua
rivoluzione. Scrisse a Lord Wellesley, ex segretario di Stato britannico,
spiegando che i coloni avevano bisogno dell’aiuto della Gran Bretagna.
“La metà più bella della terra”, ammoniva Bolívar, stava per essere
“ridotta in uno stato di desolazione”43. Era disposto ad andare fino al
Polo Nord se era necessario, aggiunse – ma per il momento né
l’Inghilterra né gli Stati Uniti erano disposti a farsi coinvolgere negli
instabili affari delle colonie spagnole44.
James Madison, quarto presidente americano, dichiarò che a
nessun cittadino americano era consentito di arruolarsi in una qualche
spedizione militare contro i “domini della Spagna”. L’ex presidente
John Adams pensava che la prospettiva di una democrazia
sudamericana fosse un’idea ridicola – tanto assurda quanto quella di
stabilire la democrazia “fra gli uccelli, gli animali e i pesci”45. Thomas
Jefferson ripropose i suoi timori riguardo al dispotismo. Come poteva,
chiese a Humboldt, una “società piena di preti”46 istituire un governo
libero e repubblicano? Tre secoli di governo cattolico, sosteneva
Jefferson, avevano trasformato i coloni in bambini ignoranti e ne
avevano “incatenato le menti”47.
Da Parigi Humboldt seguiva con ansia la situazione, spedendo
lettere ai membri del governo statunitense in cui chiedeva di sostenere
i fratelli del sud e lamentandosi con impazienza quando non riceveva
risposte abbastanza sollecite. Le sue richieste avrebbero dovuto essere
trattate con la massima sollecitudine, scriveva a Jefferson un generale
americano da Parigi, perché l’influenza di Humboldt “è superiore a
quella di chiunque altro in Europa”48.
Nessuno, in Europa e nel Nord America, conosceva il Sud America
meglio di Humboldt – era diventato un’autorità in materia. I suoi libri
erano una miniera di informazioni su di un continente che fino ad
allora era rimasto “tanto vergognosamente sconosciuto”49, diceva
Jefferson. Era una pubblicazione, in particolare, ad attrarre
l’attenzione: il Saggio politico sul regno della Nuova Spagna50 di
Humboldt. Pubblicato in quattro volumi fra il 1808 e il 1811, era uscito
dalla tipografia proprio nel momento in cui il mondo rivolgeva la
propria attenzione ai movimenti d’indipendenza del Sud America.
Appena usciti, Humboldt inviò i volumi a Jefferson con spedizione
regolare e l’ex presidente li studiò accuratamente per apprendere
quanto poteva sulle colonie ribelli51. “Ne sappiamo poco”, disse
Jefferson a Humboldt, “se non attraverso di voi.”52 Jefferson e molti
dei suoi amici politici erano combattuti fra il desiderio di vedere
espandersi le repubbliche libere, il rischio di appoggiare ufficialmente
in Sud America un regime potenzialmente instabile e lo spettro di un
grande concorrente economico nell’emisfero meridionale. Non era
tanto quello che gli Stati Uniti desideravano per sé, ma “ciò che è
praticabile”53, riteneva Jefferson. Sperava che le colonie non si
sarebbero unite in una nazione unica e che rimanessero paesi separati,
perché “come una massa unica sarebbero state un vicino molto
temibile”54.
Jefferson non era il solo a spigolare informazioni dai libri di
Humboldt. Anche Bolívar studiò i volumi, perché la maggior parte del
continente che intendeva liberare gli era sconosciuta55. Nel Saggio
politico sul regno della Nuova Spagna, Humboldt aveva intrecciato
con caparbietà le sue rilevazioni sulla geografia, le piante, i conflitti
razziali e le imprese spagnole con le conseguenze ambientali del
governo coloniale e le condizioni di lavoro nelle manifatture, nelle
miniere e nell’agricoltura. Forniva informazioni sui redditi e sulla
difesa militare, sulle strade e sui porti e metteva in fila tavole su tavole
di dati che andavano dalla produzione mineraria a quella agricola,
nonché all’ammontare totale delle importazioni e delle esportazioni da
e verso le diverse colonie.
I volumi chiarivano perfettamente una serie di punti: il colonialismo
era disastroso per la gente e per l’ambiente; la società coloniale era
basata sulla disuguaglianza, la popolazione indigena non era né
barbara né selvaggia e i coloni erano altrettanto bravi degli europei
nelle scoperte scientifiche, nell’arte e nell’artigianato; e il futuro del
Sud America era basato su di un’agricoltura di sussistenza e non sulla
monocoltura o sulle miniere. Per quanto concentrato sul Vicereame
della Nuova Spagna, Humboldt comparava sempre i suoi dati con
quelli dell’Europa, degli Stati Uniti e delle altre colonie spagnole del
Sud America. Così come aveva considerato le piante nel contesto di un
mondo più ampio e con l’attenzione rivolta a mettere in luce modelli
globali, ora collegava il colonialismo, la schiavitù e l’economia. Il
Saggio politico sul regno della Nuova Spagna non era né un
resoconto di viaggio né un’evocazione di paesaggi fantastici, ma un
manuale di fatti, di nudi dati e di cifre. Era così dettagliato e così
straordinariamente meticoloso che il traduttore inglese scrisse nella
prefazione all’edizione inglese che il libro tendeva a “sfibrare
l’attenzione del lettore”56. Non è forse un caso che per le sue
successive pubblicazioni Humboldt scelse un altro traduttore.
L’uomo cui era stato accordato da Carlo IV il raro permesso di
esplorare i territori dell’America Latina spagnola si mise a pubblicare
critiche severe nei confronti del governo coloniale. Il libro, disse
Humboldt a Jefferson, era pieno di espressioni dei suoi “sentimenti
indipendentisti”57. Gli spagnoli avevano fomentato l’odio fra i diversi
gruppi razziali, era l’accusa di Humboldt58. I missionari, per esempio,
trattavano con brutalità gli indiani indigeni ed erano guidati da un
“colpevole fanatismo”59. Il governo imperiale sfruttava le colonie per
le materie prime e distruggeva di conseguenza l’ambiente60. Le
politiche coloniali europee erano spietate e diffidenti61, diceva, e il
Sud America era stato distrutto dai conquistatori. La loro sete di
ricchezze aveva portato in America Latina l’“abuso di potere”62.
Le critiche di Humboldt erano basate sulle sue osservazioni, cui si
erano aggiunte le informazioni ricevute dagli scienziati coloniali che
aveva incontrato nel corso della sua spedizione. Tutto ciò era poi
corroborato dai dati statistici e demografici tratti dagli archivi
governativi, principalmente a Città del Messico e a L’Avana. Negli anni
successivi al suo ritorno, Humboldt valutò e pubblicò questi risultati,
dapprima nel Saggio politico sul regno della Nuova Spagna e, in
seguito, nel Saggio politico sull’isola di Cuba. Queste aspre accuse
contro il colonialismo e la schiavitù mostravano come tutte le cose
fossero interconnesse: il clima, i terreni e l’agricoltura con la schiavitù,
la demografia e l’economia. Humboldt affermava che le colonie
avrebbero potuto essere liberate e diventare autosufficienti solo
quando fossero state “liberate dalle catene dell’odioso monopolio”63.
Era la “barbarie europea”64, sosteneva Humboldt, che aveva creato
questo mondo ingiusto.
La conoscenza che Humboldt aveva del continente era
enciclopedica65, scrisse Bolívar nel settembre 1815 nella sua
cosiddetta “Lettera dalla Giamaica”, in cui si riferiva al suo vecchio
amico come la massima autorità in Sud America. Scritta in Giamaica,
dove si era rifugiato quattro mesi prima quando era arrivata l’armata
spagnola, la lettera era un distillato del pensiero politico di Bolívar e
della sua visione del futuro. In essa riecheggiavano anche le critiche di
Humboldt sull’impatto distruttivo del colonialismo. Il suo popolo era
ridotto in schiavitù e costretto a praticare colture da reddito e a
lavorare in miniera per soddisfare l’insaziabile appetito della Spagna,
scrisse Bolívar, ma neanche i campi più rigogliosi o le miniere più
ricche avrebbero “mai soddisfatto l’ingordigia di quella nazione
avida”66. Gli spagnoli hanno distrutto vaste regioni, ammoniva
Bolívar, e “intere province sono trasformate in deserti”67.
Humboldt aveva scritto di terreni che erano così fertili che avevano
solo bisogno di essere rastrellati per produrre ricchi raccolti68.
Analogamente, Bolívar chiedeva ora come una terra così
“abbondantemente dotata”69 dalla natura potesse essere tenuta così
terribilmente oppressa e sottomessa. E, proprio come Humboldt aveva
affermato, nel Saggio politico sul regno della Nuova Spagna, che i vizi
del governo feudale si erano trasferiti dall’emisfero settentrionale a
quello meridionale70, Bolívar paragonava ora il dominio spagnolo
sulle sue colonie a una “sorta di possesso feudale”71. Ma i rivoluzionari
avrebbero continuato a combattere, affermava Bolívar, perché “le
catene sono state spezzate”72.
Bolívar si rendeva anche conto che al centro del conflitto c’era la
schiavitù. Se la popolazione ridotta in schiavitù non era al suo fianco,
come aveva spiacevolmente sperimentato durante la brutale guerra
civile con José Tomás Boves e le sue Legioni dell’inferno, gli schiavi
erano contro di lui e contro i proprietari di piantagioni creoli che
facevano affidamento sul lavoro schiavistico. Senza l’aiuto degli
schiavi, però, non ci sarebbe stata rivoluzione. Di questo argomento
discusse con Alexandre Pétion, il primo presidente della Repubblica di
Haiti – l’isola in cui Bolívar si era rifugiato dopo aver subito un
tentativo di assassinio in Giamaica.
Haiti era stata una colonia francese, ma dopo una ribellione riuscita
degli schiavi nei primi anni 1790, nel 1804 i rivoluzionari aveva
dichiarato l’indipendenza. Pétion, che era di razza mista – figlio di un
ricco francese e di una madre di origini africane – era uno dei padri
fondatori della repubblica. Era anche l’unico governante e politico che
aveva promesso di aiutare Bolívar. Quando Pétion impegnò armi e
navi in cambio della promessa di liberare gli schiavi73, Bolívar accettò.
“La schiavitù”, disse, “era la figlia delle tenebre.”74
Dopo tre mesi ad Haiti, Bolívar salpò per il Venezuela con una
piccola flotta di navi di Pétion, stracolme di polvere da sparo, di armi e
di uomini. Quando arrivò, nell’estate 1816, Bolívar proclamò la libertà
per tutti gli schiavi75. Questo fu un primo e importante passo, ma lui
lottava per convincere l’élite creola. Tre anni dopo disse che la
schiavitù ancora avvolgeva il paese in un “velo nero” e – invocando
ancora una volta la natura come metafora – ammonì che “nubi di
tempesta oscuravano il cielo, minacciando una pioggia di fuoco”76.
Liberò i suoi schiavi e promise la libertà in cambio del servizio
militare, ma fu solo un decennio più tardi, nel 1826, quando scrisse la
costituzione boliviana, che l’abolizione completa della schiavitù
divenne legge77. Era una mossa audace in un momento in cui statisti
americani, manifestamente illuminati, come Thomas Jefferson e
James Madison, possedevano ancora centinaia di schiavi che
lavoravano nelle loro piantagioni. Humboldt, che era stato un convinto
abolizionista da quando aveva visto il mercato degli schiavi a Cumaná
poco dopo il suo arrivo in Sud America, rimase impressionato dalla
decisione di Bolívar. Pochi anni dopo, in uno dei suoi libri, Humboldt
elogiò Bolívar per aver dato un esempio al mondo, in particolare
rispetto agli Stati Uniti78.

Negli anni seguenti, Humboldt seguì gli eventi in Sud America da


Parigi. C’era una grande incertezza – con Bolívar che lentamente
riuniva i signori della guerra regionali che stavano combattendo gli
spagnoli nei loro territori. I rivoluzionari avevano il controllo di alcune
regioni, ma queste erano spesso molto distanti e gli uomini non
agivano di certo come una forza unita. Negli Llanos, per esempio, José
Antonio Páez, dopo la morte di Boves alla fine del 1814, conquistò il
sostegno degli abitanti della pianura – gli llaneros – alla causa
repubblicana. Agli inizi del 1818, i suoi 1.100 llaneros a cavallo e gli
indiani a piedi scalzi, armati solo di archi e frecce, sconfissero quasi
4.000 soldati spagnoli esperti nelle steppe aperte degli Llanos79.
Questi uomini dalle maniere rudi e sbrigative erano cavalieri
abilissimi. In quanto creolo e uomo di città, Bolívar non era quello che
avrebbero scelto come capo, ma lui conquistò il loro rispetto. Per
quanto magrissimo – alto poco più di un metro e settanta, Bolívar
pesava solo sessanta chili – mostrava una forza e una resistenza in
sella che gli conquistarono il soprannome di “culo di ferro”. Nuotando
per sfida con le mani legate dietro la schiena o scendendo da cavallo
passando sulla sua testa (come si era esercitato a fare dopo aver visto
gli llaneros), Bolívar impressionò gli uomini di Páez con le sue
prodezze fisiche80.
Probabilmente, Humboldt non avrebbe riconosciuto Bolívar. Il
giovane elegante che passeggiava per Parigi vestito all’ultima moda
indossava ora semplicemente sandali di juta e una giubba alla buona.
Sebbene avesse solo trentacinque anni, il volto di Bolívar era già pieno
di rughe e la pelle giallastra, ma i suoi occhi irradiavano una
penetrante intensità e la voce aveva il potere di chiamare a raccolta i
soldati. Negli anni precedenti, Bolívar aveva perso le sue piantagioni
ed era stato esiliato più volte dal suo paese. Era inflessibile con i suoi
uomini, ma anche con se stesso. Spesso dormiva sulla nuda terra,
avvolto solo in un mantello, o passava tutto il giorno a cavallo su
terreni accidentati, ma conservava abbastanza energia alla sera per
leggere i filosofi francesi81.
Gli spagnoli controllavano ancora la parte settentrionale del
Venezuela, che comprendeva Caracas nonché gran parte del
Vicereame della Nuova Granada, ma Bolívar aveva conquistato
territori nelle provincie orientali del Venezuela e lungo l’Orinoco. La
rivoluzione non faceva progressi con quella celerità che aveva sperato,
ma riteneva che nelle regioni liberate fosse arrivato il momento di
promuovere le elezioni e di avere una costituzione. Fu convocato un
congresso ad Angostura (l’attuale Ciudad Bolívar in Venezuela) sulle
rive dell’Orinoco, la città in cui Bolívar e Bonpland erano stati colpiti
dalla febbre quasi vent’anni prima, dopo le faticose settimane
trascorse alla ricerca del fiume Casiquiare. Con Caracas nelle mani
degli spagnoli, Angostura era la capitale provvisoria della nuova
repubblica. Il 15 febbraio 1819, ventisei delegati presero posto in un
modesto edificio di mattoni, che era la sede del governo, per ascoltare
la visione del futuro di Bolívar82. Egli sottopose loro la bozza di
costituzione che aveva scritto durante il viaggio lungo l’Orinoco e,
ancora una volta, parlò dell’importanza dell’unità fra razze e classi
nonché fra le diverse colonie83.
Nel suo discorso ad Angostura, Bolívar descrisse “lo splendore e la
vitalità”84 del Sud America per ricordare ai suoi concittadini il motivo
per cui stavano combattendo. Nessun altro posto al mondo era stato
“provvisto così generosamente dalla natura”85, disse Bolívar. Parlò
della sua anima salita a grandi altezze per poter percepire il futuro del
suo paese dalla prospettiva necessaria – un futuro che univa questo
grande continente che si estendeva da costa a costa. Lui stesso, disse
Bolívar, era solo un “giocattolo del ciclone rivoluzionario”86, ma era
pronto a inseguire il sogno di un Sud America libero.
Alla fine di maggio del 1819, tre mesi dopo il discorso al congresso,
Bolívar condusse l’intero suo esercito, con risoluta determinazione, da
Angostura attraverso il continente verso le Ande per liberare Nuova
Granada87. Le sue truppe erano composte dagli uomini a cavallo di
Páez, da indiani, schiavi liberati, meticci, creoli, donne e bambini.
C’erano anche molti veterani inglesi che si erano uniti a Bolívar alla
fine delle guerre napoleoniche, quando centinaia di migliaia di soldati
erano tornati a casa dai campi di battaglia, senza lavoro e senza un
reddito. L’ambasciatore ufficioso di Bolívar a Londra non solo aveva
tentato di ottenere il sostegno internazionale per la rivoluzione, ma era
anche impegnato a reclutare veterani disoccupati. Nel giro di cinque
anni, arrivarono in Sud America, provenienti dalla Gran Bretagna e
dall’Irlanda, più di 5.000 soldati – le cosiddette Legioni britanniche –
insieme con 50.000 tra fucili e moschetti nonché centinaia di
tonnellate di munizioni. Alcuni erano motivati da idee politiche, altri
dai soldi, ma qualunque fossero i loro motivi, le sorti di Bolívar
stavano cambiando88.
Nelle settimane successive, la strana accozzaglia delle truppe di
Bolívar fece l’impossibile, quando si trascinarono ad ovest sotto piogge
torrenziali, attraverso le pianure inondate degli Llanos verso le
Ande89. Al momento in cui si inerpicarono sulla splendida catena
montuosa, nella piccola città di Pisba, circa 160 chilometri a nord-est
di Bogotá, le loro scarpe erano ormai del tutto lacere e molti
indossavano coperte al posto dei pantaloni. Scalzi, affamati e
infreddoliti, continuavano a tenere duro contro il ghiaccio e l’aria
rarefatta, arrampicandosi fino a quasi 4.000 metri per poi discendere
nel cuore del territorio nemico. Pochi giorni dopo, alla fine di luglio,
sorpresero l’esercito fedele al re con il coraggio degli llaneros che
brandivano lance, la calma determinazione dei soldati inglesi e la
quasi divina capacità di Bolívar di essere presente dappertutto.
Se fossero sopravvissuti alla marcia attraverso le Ande, pensavano
che sarebbero stati capaci anche di sgominare i realisti. E lo fecero. Il 7
agosto 1819, infiammate dalla vittoria di qualche giorno prima, le
truppe di Bolívar sconfissero gli spagnoli nella battaglia di Boyacá.
Quando gli uomini di Bolívar attaccarono giù lungo le pendici, i realisti
atterriti si dettero precipitosamente alla fuga90. La strada per Bogotá
era aperta e Bolívar cavalcò verso la capitale come un “fulmine”91,
disse uno dei suoi ufficiali, la giubba aperta sul petto nudo e i lunghi
capelli che si agitavano nel vento. Bolívar prese Bogotá e così strappò
Nuova Granada agli spagnoli. A dicembre, Quito, il Venezuela e Nuova
Granada si unirono per formare la nuova Repubblica della Grande
Colombia con Bolívar come presidente.
Negli anni seguenti, Bolívar continuò la sua battaglia. Riconquistò
Caracas nell’estate del 1821 e un anno dopo, nel giugno 1822, arrivò a
Quito in trionfo92. Cavalcò attraverso lo stesso panorama accidentato
che aveva così profondamente impressionato Humboldt vent’anni
prima. Bolívar non aveva mai visto prima questa parte del Sud
America. Nelle vallate il terreno fertile produceva piante lussureggianti
piene di fiori e banani carichi di frutti. Sugli altopiani pascolavano
greggi di piccole vicuñas e sopra di esse si libravano agili nel vento gli
avvoltoi. A sud di Quito un vulcano dopo l’altro fiancheggiavano le
vallate quasi fossero viali. In nessun altro posto del Sud America,
pensava Bolívar, la natura era stata così “generosa di doni”93. Ma, con
tutta la sua bellezza, il panorama lo faceva anche riflettere sulle cose
cui aveva rinunciato. Dopo tutto, avrebbe potuto vivere
tranquillamente, lavorando i suoi campi circondati da una natura
splendida. Bolívar era profondamente toccato da questo paesaggio
monumentale – emozioni che tradusse in parole quando scrisse
un’entusiastica poesia in prosa intitolata “Il mio delirio sul
Chimborazo”94. Era l’allegoria della liberazione dell’America Latina.
Nella poesia, Bolívar segue le orme di Humboldt. Nel mentre sale
sul maestoso Chimborazo, Bolívar usa il vulcano come un’immagine
della sua lotta per liberare le colonie spagnole. Arrampicandosi ancora
più su, abbandona le tracce di Humboldt e imprime nella neve le sue.
Poi, nel momento in cui combatte a ogni piè sospinto con l’aria scarsa
di ossigeno, Bolívar ha una visione del Tempo. Sopraffatto da un
delirio febbrile vede emergere davanti a lui il passato e il futuro. In
alto, sopra di lui, contro la volta celeste, giace l’infinito: “Afferro con le
mani l’eterno”, grida e “sento le prigioni infernali ribollire sotto i miei
passi”95. Con la terra che si stende sotto di lui, Bolívar usa il
Chimborazo per porre la sua vita entro il contesto del Sud America.
Lui era la Grande Colombia, la nuova nazione che aveva foggiato, e la
Grande Colombia era in lui. Era El Libertador, il liberatore delle
colonie e l’uomo che ne reggeva il destino nelle sue mani. Qui, sui
pendii ghiacciati del Chimborazo, “la voce poderosa della Colombia mi
chiama”96, chiudeva la poesia di Bolívar.
Non c’è da sorprendersi che il Chimborazo sia diventato per Bolívar
la metafora della sua rivoluzione e del suo destino – anche oggi la
montagna è raffigurata sulla bandiera ecuadoregna. Come tante altre
volte, Bolívar fece ricorso al mondo naturale per illustrare i suoi
pensieri e le sue convinzioni. Tre anni prima, Bolívar aveva detto al
congresso di Angostura che la natura aveva concesso al Sud America
grandi ricchezze. Esse avrebbero mostrato al Vecchio mondo “la
maestà”97 del Nuovo Mondo. Più di ogni altra cosa, il Chimborazo –
che era diventato famoso in tutto il mondo attraverso i libri di
Humboldt – divenne l’espressione perfetta della rivoluzione. “Venga
sul Chimborazo”98, scrisse Bolívar al suo ex insegnante Simón
Rodriguez, a vedere la sommità della terra, questa scala verso gli dèi e
questa fortezza inespugnabile del Nuovo Mondo. Dal Chimborazo,
affermava Bolívar, si aveva una vista senza ostacoli del passato e del
futuro. Era il “trono della natura”99 – invincibile, eterno e paziente.
Quando scrisse “Il mio delirio sul Chimborazo”, nel 1822, Bolívar
era al vertice della sua fama100. Un milione e seicento chilometri
quadrati del Sud America erano sotto il suo controllo – un’area molto
più estesa di quella che aveva mai coperto l’impero di Napoleone. Le
colonie settentrionali del Sud America – gran parte dell’area che oggi
copre la Colombia, il Panama, il Venezuela e l’Ecuador – era stata
liberata e solo il Peru rimaneva sotto il controllo degli spagnoli. Ma
Bolívar voleva di più. Sognava una federazione pan-americana che si
sarebbe dovuta estendere dallo stretto di Panama fino all’estremità
meridionale del Vicereame peruviano e da Guayaquil sulle costa del
Pacifico a occidente al Mar dei Caraibi sulla costa venezuelana a est.
Questa unione sarebbe stata un “colosso”, diceva, e “avrebbe fatto
tremare il mondo con uno sguardo”101 – il vicino potente che tanto
preoccupava Jefferson.
L’anno precedente, Bolívar aveva scritto a Humboldt una lettera che
sottolineava quanto fosse stata importante la sua descrizione della
natura sudamericana. Era stata la sua scrittura suggestiva a
“strappare”102 all’ignoranza lui e i suoi compagni rivoluzionari,
scriveva Bolívar; li aveva resi orgogliosi del loro continente. Humboldt
era lo “scopritore del Nuovo Mondo”103, affermava Bolívar. Ed era
stato proprio l’interesse ossessivo di Humboldt per i vulcani del Sud
America che aveva ispirato l’appello di Bolívar a unire il paese nella
lotta: “un grande vulcano è ai nostri piedi... e spezzerà il giogo della
schiavitù”104.
Bolívar continuò a utilizzare metafore tratte dal mondo naturale. La
libertà era una “pianta preziosa”105, per esempio, oppure, quando il
caos e la disunione calarono sulle nuove nazioni, Bolívar ammonì che i
rivoluzionari stavano “vacillando sull’orlo di un abisso”106 ed erano
sul punto di “annegare nell’oceano dell’anarchia”107. Una delle
metafore più utilizzata rimase quella del vulcano. Il pericolo di una
rivoluzione, diceva Bolívar, era come stare su di un vulcano “pronto a
esplodere”108. Affermava che i sudamericani avanzavano su di un
“terreno vulcanico”109, evocando al tempo stesso la magnificenza e i
pericoli delle Ande.
Humboldt si era sbagliato su Bolívar. Quando si erano incontrati per
la prima volta a Parigi, nell’estate del 1804, e poi, un anno dopo, a
Roma, aveva liquidato il creolo come un sognatore110 – ma quando
ebbe visto i successi del vecchio amico, cambiò idea. Nel luglio 1822,
Humboldt scrisse a Bolívar una lettera, elogiandolo come il “fondatore
della libertà e dell’indipendenza della vostra bella patria”111.
Humboldt gli ricordò anche come il Sud America fosse la sua seconda
patria. “Rinnovo il mio impegno solenne per la gloria del popolo
americano”112, disse a Bolívar.
La natura, la politica e la società formavano un triangolo di
connessioni. L’una influenzava l’altra. Le società erano plasmate dal
loro ambiente – le risorse naturali potevano portare la ricchezza a una
nazione, o, come aveva sperimentato Bolívar, una natura
incontaminata come le Ande poteva ispirare forza e convinzione.
Questa idea, tuttavia, la si poteva applicare in maniera del tutto
diversa, come avevano fatto molti scienziati europei. Dalla metà del
diciottesimo secolo in poi, alcuni pensatori avevano insistito sulla
“degenerazione dell’America”113. Uno di questi era il naturalista
francese Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, che negli anni
sessanta e settanta aveva scritto che in America tutte le cose “si
rimpiccioliscono e si assottigliano sotto un cielo avaro e su di un
terreno arido”114. Il Nuovo Mondo era inferiore al Vecchio Mondo,
affermava Buffon nell’opera di storia naturale più letta della seconda
metà del secolo. Secondo Buffon, nel Nuovo Mondo le piante, gli
animali e persino le persone erano più piccoli e più deboli. Non c’erano
grandi mammiferi o un popolo civilizzato e anche i selvaggi lì erano
“deboli”115.
Mentre le teorie e le argomentazioni di Buffon si erano diffuse nei
decenni precedenti, il mondo naturale dell’America era diventato una
metafora della sua rilevanza o irrilevanza politica e culturale –
secondo il punto di vista. Oltre alla forza economica, le conquiste
militari o i successi scientifici, la natura era diventata anche un
indicatore dell’importanza di un paese. Durante la rivoluzione
americana, Jefferson si era infuriato per le asserzioni di Buffon e aveva
passato anni a tentare di confutarle. Se Buffon usava la taglia come
misura della forza e della superiorità, per promuovere il suo paese a
fronte di quelli europei gli bastava mostrare che, in realtà, ogni cosa
nel Nuovo Mondo era più grande. Nel 1782, nel bel mezzo della guerra
d’indipendenza americana, Jefferson aveva pubblicato Notes on the
State of Virginia, in cui la flora e la fauna degli Stati Uniti diventavano
i fanti di una battaglia patriottica. Sotto l’insegna del “più grande è più
bello” Jefferson elencava i pesi di orsi, bufali e pantere per dimostrare
il suo argomento. Anche le donnole, scriveva, erano più grandi in
America che in Europa116.
Quando si recò in Francia, quattro anni dopo, come ministro
plenipotenziario degli Stati Uniti, Jefferson si vantò con Buffon che la
renna scandinava era così piccola che “poteva passare sotto la pancia
del nostro alce”117. Jefferson aveva poi importato dal Vermont a
Parigi, a sue spese, un alce impagliato, un’impresa che alla fine non
riuscì a impressionare i francesi perché l’alce era arrivato a Parigi in
un deprecabile stato di decomposizione, senza pelliccia ed emanando
un odore disgustoso118. Ma Jefferson non si era dato per vinto e aveva
chiesto agli amici e conoscenti di inviargli dettagli riguardo alla
“maggiore stazza dei nostri animali... dall’alce al mammut”119. In
seguito, durante la sua presidenza, Jefferson aveva inviato
all’Académie des sciences di Parigi enormi ossa e zanne fossili del
mastodonte nordamericano, per mostrare ai francesi quanto fossero
enormi gli animali americani120. Al tempo stesso, Jefferson sperava
che un giorno avrebbero trovato da qualche parte mastodonti vivi nelle
parti ancora inesplorate del continente. Le montagne, i fiumi, le piante
e gli animali erano diventati armi nell’arena politica*121.
Humboldt fece la stessa cosa per il Sud America. Non solo presentò
il continente come caratterizzato da una bellezza, una fertilità e una
magnificenza senza rivali, ma attaccò direttamente Buffon. “Buffon era
assolutamente in errore”122, scrisse, e poi chiese come i naturalisti
francesi avessero potuto osare di descrivere il continente americano
quando non l’avevano mai visto. Gli indigeni erano tutt’altro che
deboli, disse Humboldt; bastava un’occhiata alla popolazione caraibica
del Venezuela per confutare le imprudenti affermazioni degli scienziati
europei. Aveva incontrato la tribù durante il viaggio dall’Orinoco a
Cumaná e riteneva che fossero gli individui più alti, forti e belli che
aveva mai visto – come le statue bronzee di Giove123.
Humboldt demolì anche l’idea di Buffon che il Sud America fosse un
“mondo nuovo” – un continente che era appena emerso dall’oceano
senza storia o senza una civiltà. I monumenti antichi che aveva visto e
poi illustrato nelle sue pubblicazioni erano la testimonianza di società
colte e raffinate – palazzi, acquedotti, statue e templi. A Bogotá,
Humboldt aveva trovato alcuni manoscritti antichi pre-inca (e ne
aveva letto la traduzione) che rivelavano una conoscenza complessa
dell’astronomia e della matematica. Ugualmente, la lingua caraibica
era così sofisticata da includere concetti astratti come quelli di futuro e
di eternità. Non c’erano prove della povertà di linguaggio che gli
esploratori precedenti avevano osservato, diceva Humboldt, perché
queste lingue erano un misto di ricchezza, grazia, potenza e
dolcezza124.
Questi non erano selvaggi come li avevano ritratti gli europei nei tre
secoli precedenti. Bolivár, che possedeva molti dei libri di Humboldt,
deve essere stato ben contento di leggere nel Saggio politico sul regno
della Nuova Spagna che le teorie di Buffon sulla degenerazione erano
diventate popolari solo perché “lusingavano la vanità degli
europei”125.

Humboldt continuava a informare il mondo sull’America Latina. Le


sue opinioni erano riprese in tutto il globo attraverso articoli e riviste
costellati di commenti come “Il signor Humboldt osserva” o “ci
informa”126. All’America Humboldt aveva “fatto più bene di tutti i
conquistatori”127, diceva Bolivár. Humboldt aveva presentato il
mondo naturale come una riflessione sull’identità del Sud America – il
ritratto di un continente forte, vigoroso e bello. E questo era
esattamente ciò che Bolivár faceva quando usava la natura per
galvanizzare i suoi compatrioti o per spiegare le sue idee politiche.
Invece di ispirarsi a una qualche teoria o filosofia astratta, Bolivár
ricordava ai suoi concittadini che dovevano imparare dalle foreste, dai
fiumi e dalle montagne. “Scoprirete una guida importante per l’azione
proprio nella natura del nostro paese, che comprende le regioni
eccelse delle Ande e le rive ardenti dell’Orinoco”, disse al congresso di
Bogotá. “Studiatele con attenzione e lì imparerete”, esortava, “qual è il
Congresso che dovrebbe decidere della felicità del popolo della
Colombia.” La natura, disse Bolivár, era la “maestra infallibile degli
uomini”128.
1. Clark e Lubrich 2012, pp. 67-8.
2. AH a Bolívar, 29 luglio 1822, Minguet 1986, pp. 749-50; AH a Bolívar, 1804, Beck 1959, pp.
30-31; AH a Daniel F. O’Leary, 1853, Beck 1969, p. 266; Vicente Rocafuerte a AH, 17 dicembre
1824, Rippy e Brann 1947, p. 702; Bolívar e l’illuminismo: Lynch 2006, pp. 28-32.
3. La rivista scientifica era Semanario. AH “Geografía de las plantas, o cuadro físico de los
Andes equinocciales y de los países vecinos”, Caldas 1942, vol. 2, pp. 21-162.
4. Bolívar a AH, 10 novembre 1821, Minguet 1986, p. 749.
5. Bolívar, Messaggio alla Convenzione di Ocaña, 29 febbraio 1828, Bolívar 2003, p. 87.
6. Bolívar al Generale Juan José Flores, 9 novembre 1830, ivi, p. 146.
7. Bolívar, Discorso al Congresso di Angostura, 15 febbraio 1819, ivi, p. 53.
8. O’Leary 1879-88, vol. 2, p. 146, per l’amore della vita in campagna vedi anche p. 71; e Arana
2013, p. 292.
9. Bolívar a José Joaquín Olmedo, 27 giugno 1825, Bolívar 2003, p. 210.
10. O’Leary 1915, p. 86; Arana 2013, p. 61.
11. Bolívar, Manifesto alle nazioni del mondo, 20 settembre 1813, Bolívar 2003, p. 121; Bolívar
tornò per un breve periodo in Europa nel 1810 per recarsi a Londra in missione diplomatica
per sollecitare il sostegno internazionale alla rivoluzione.
12. Langley 1996, pp. 166 sgg.
13. Ivi, pp. 179 sgg.
14. Arana 2013, p. 109; vedi anche Lynch 2006, pp. 59 sgg.
15. José Domingo Díaz, 26 marzo 1812, Arana 2013, p. 108.
16. Royal Military Chronicle, vol. 4, giugno 1812, p. 181.
17. Arana 2013, p. 126.
18. Jefferson a AH, 14 aprile 1811, TJ RS Papers, vol. 3, p. 554.
19. Jefferson a Pierre Samuel du Pont de Nemours, 15 aprile 1811; Jefferson a Tadeusz
Kosciuszko, 16 aprile 1811; Jefferson a Lafayette, 30 novembre 1813, TJ RS Papers, vol. 3, pp.
560, 566; vol. 7, pp. 14-15; Jefferson a Lafayette, 14 maggio 1817, DLC.
20. Jefferson a Luis de Onís, 28 aprile 1814, TJ RS Papers, vol. 7, p. 327.
21. Arana 2013, pp. 128 sgg.
22. Slatta e De Grummond 2003, p. 22. Le mappe di Humboldt del Río Magdalena furono
ricopiate da molte persone, tra cui il botanico José Mutis, i cartografi Carlos Francisco de
Cabrer e José Ignacio Pombo. AH, marzo 1804, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, pp. 42 sgg.
23. Bolívar, Discorso al popolo di Tenerife, 24 dicembre 1812, Arana 2013, p. 132.
24. Bolívar a Camilo Torres, 4 marzo 1813, ivi, p. 138.
25. Lynch 2006, p. 67.
26. Bolívar, Manifesto di Cartagena, 15 dicembre 1812, Bolívar 2003, p. 10.
27. Bolívar a Francisco Santander, maggio 1813, Arana 2013, p. 139.
28. Bolívar a Francisco Santander, 22 dicembre 1819, Lecuna 1951, vol. 1, p. 215.
29. Arana 2013, pp. 184, 222.
30. Bolívar, Metodo da impiegare nell’educazione del nipote Fernando Bolívar, c.1822, Bolívar
2003, p. 206.
31. O’Leary 1969, p. 30.
32. Arana 2013, p. 243.
33. O’Leary 1969, p. 30.
34. Arana 2013, p. 244.
35. Ivi, pp. 140 sgg.
36. Bolívar, Decreto “Guerra fino alla morte”, 15 giugno 1813, Bolívar 2003, p. 114; Langley
1996, pp. 187 sgg.; Lynch 2006, p. 73.
37. Bolívar, Proclama del Comandante dell’Esercito di liberazione, 8 agosto 1813, Lynch 2006,
p. 76.
38. Arana 2013, p. 151.
39. Ivi, p. 165; vedi anche Lynch 2006, pp. 82 sgg.; Langley 1996, pp. 188 sgg.
40. Arana 2013, p. 165.
41. AH a Jefferson, 20 dicembre 1811, TJ RS Papers, vol. 4, p. 354.
42. Arana 2013, pp. 170-71; Langley 1996, p. 191.
43. Bolívar a Lord Wellesley, 27 maggio 1815, Bolívar 2003, p. 154.
44. James Madison, Proclamation Number 21, 1 settembre 1815, “Warning Against
Unauthorized Military Expedition Against the Dominions of Spain”.
45. John Adams a James Lloyd, 27 marzo 1815, Adams 1856, vol. 10, p. 14.
46. Jefferson a AH, 6 dicembre 1813, TJ RS Papers, vol. 7, p. 29.
47. Jefferson a Tadeusz Kosciuszko, 16 aprile 1811; vedi anche Jefferson a Pierre Samuel du
Pont de Nemours, 15 aprile 1811, TJ RS Papers vol. 3, pp. 560, 566; Jefferson a Lafayette, 30
novembre 1813, ivi, vol. 7, p. 14.
48. Winfield Scott a James Monroe, 18 novembre 1815. Monroe trasmise questa lettera a
Jefferson. James Monroe a Jefferson, 22 gennaio 1816, ivi, vol. 9, p. 392.
49. Jefferson a AH, 13 giugno 1817; vedi anche 6 giugno 1809, Terra 1959, pp. 789, 794.
50. Prima edizione in francese (dal 1808), seguita immediatamente da quella tedesca (dal
1809) e da quella inglese (dal 1811).
51. Jefferson a AH, 6 marzo 1809, 14 aprile 1811, 6 dicembre 1813; AH a Jefferson, 12 giugno
1809, 23 settembre 1810, 20 dicembre 1811; William Gray a Jefferson, 18 maggio 1811, TJ RS
Papers, vol. 1, pp. 24, 266, vol. 3, pp. 108, 553, 623, vol. 4, pp. 353-4, vol. 7, p. 29.
52. Jefferson a AH, 6 dicembre 1813, ivi, vol. 7, p. 30; vedi anche Jefferson a AH, 13 giugno
1817, Terra 1959, p. 794.
53. Jefferson a Lafayette, 14 maggio 1817, DLC.
54. Jefferson a James Monroe, 4 febbraio 1816, TJ RS Papers, vol. 9, p. 444.
55. Bolívar, Lettera dalla Giamaica, 6 settembre 1815, Bolívar 2003, p. 12; per la biblioteca di
Bolívar, vedi Bolívar 1929, vol. 7, p. 156.
56. John Black, Prefazione del traduttore, AH New Spain 1811, vol. 1, p. v.
57. AH a Jefferson, 23 settembre 1810, TJ RS Papers, vol. 3, p. 108.
58. AH New Spain 1811, vol. 1, p. 196.
59. Ivi, p. 178.
60. Ivi, vol. 3, p. 456.
61. Ivi, p. 455.
62. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, p. 3.
63. AH New Spain 1811, vol. 3, p. 390.
64. AH, 30 marzo 1801, AH Río Magdalena 2003, vol. 1, p. 55.
65. Bolívar, Lettera dalla Giamaica, 6 settembre 1815, Bolívar 2003, p. 12.
66. Ivi, p. 20.
67. Bolívar a Lord Wellesley, 27 maggio 1815, Bolívar 2003, p. 154.
68. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, p. 79.
69. Bolívar, Lettera dalla Giamaica, 6 settembre 1815, Bolívar 2003, p. 20.
70. AH New Spain 1811, vol. 3, p. 101.
71. Bolívar, Lettera dalla Giamaica, 6 settembre 1815, Bolívar 2003, p. 20.
72. Ivi, p. 13.
73. Langley 1996, pp. 194-7.
74. Bolívar, Discorso al Congresso di Angostura, 15 febbraio 1819, Bolívar 2003, p. 34.
75. Bolívar, Decreto per la liberazione degli schiavi, 2 giugno 1816, Bolívar 2003, p. 177.
76. Bolívar, Discorso al Congresso di Angostura, 15 febbraio 1819, Bolívar 2003, p. 51.
77. Langley 1996, p. 195; Lynch 2006, pp. 151-3.
78. AH a Bolívar, 28 novembre 1825, Minguet 1986, p. 751. AH fece riferimento a Bolívar in
AH Personal Narrative 1814-29, vol. 6, p. 839; AH Cuba 2011, p. 147.
79. Langley 1996, pp. 196-200; Arana 2013, pp. 194 sgg.
80. Arana 2013, pp. 208-10.
81. Ivi, pp. 3, 227.
82. Lynch 2006, pp. 119 sgg.
83. Bolívar, Discorso al Congresso di Angostura, 15 febbraio 1819, Bolívar 2003, pp. 38-9, 53.
84. Ivi, p. 53.
85. Ibid.
86. Ivi, p. 31.
87. Arana 2013, pp. 230-32; Lynch 2006, pp. 127-9.
88. Arana 2013, p. 220; Lynch 2006, pp. 122-4.
89. Arana 2013, pp. 230-32; Lynch 2006, pp. 127-8.
90. Arana 2013, pp. 233-5; Lynch 2006, pp. 129-30.
91. Arana 2013, p. 235.
92. Arana 2013, pp. 284-8; Lynch 2006, pp. 170-71.
93. O’Leary 1879-88, vol. 2, p. 146.
94. Clark e Lubrich 2012, pp. 67-8; la prima copia conosciuta della poesia era datata 13
ottobre 1822 e fu pubblicata per la prima volta nel 1833, Lynch 2006, p. 320, note 14.
95. Bolívar, “Il mio delirio sul Chimborazo”, Clark e Lubrich 2012, p. 68.
96. Ibid.
97. Bolívar, Discorso al Congresso di Angostura, 15 febbraio 1819, Bolívar 2003, p. 53.
98. Bolívar a Simón Rodríguez, 19 gennaio 1824, Arana 2013, p. 293.
99. Ibid.
100. Arana 2013, p. 288.
101. Bolívar al Generale Bernardo O’Higgins, 8 gennaio 1822, Lecuna 1951, vol. 1, p. 289.
102. Bolívar a AH, 10 novembre 1821, Minguet 1986, p. 749.
103. Bolívar a Madame Bonpland, 23 ottobre 1823, Rippy e Brann 1947, p. 701.
104. Bolívar a José Antonio Páez, 8 agosto 1826, Pratt 1992, p. 141.
105. Bolívar a Pedro Olañeta, 21 maggio 1824.
106. Bolívar, A Glance at Spanish America, 1829, Bolívar 2003, p. 101.
107. Bolívar, Manifesto a Bogotá, 20 gennaio 1830, ivi, p. 144.
108. Bolívar a P. Gual, 24 maggio 1821, Arana 2013, p. 268.
109. Bolívar al Generale Juan José Flores, 9 novembre 1830, Bolívar 2003, p. 147.
110. AH a Daniel F. O’Leary, 1853, Beck 1969, p. 266.
111. AH a Bolívar, 29 luglio 1822, Minguet 1986, p. 750.
112. Ibid.
113. Jefferson 1982; Cohen 1995, pp. 72-9; Thomson 2008, pp. 54-72; gli scienziati francesi
erano il conte de Buffon, l’abate Raynal e Cornélius de Pauw.
114. Buffon, in Martin 1952, p. 157.
115. Buffon, in Thomson 2012, p. 12.
116. Jefferson 1982, pp. 50-52, 53.
117. Thomas Jefferson in conversazione con Daniel Webster, dicembre 1824, Webster 1903,
vol. 1, p. 371.
118. Thomson 2012, pp. 10-11.
119. Jefferson a Thomas Walker, 25 settembre 1783, TJ Papers, vol. 6, p. 340; vedi anche Wulf
2011, pp. 67-70.
120. Thomas Jefferson a Bernard Germain de Lacépède, 14 luglio 1808, DLC.
121. (nota a piè di pagina) Thomas Jefferson a Robert Walsh, 4 dicembre 1818, con aneddoti
su Benjamin Franklin, DLC.
122. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, pp. 70-71; e AH Kosmos 1845-52, vol. 2, p. 64; AH
Kosmos 1845-50, vol. 2, p. 66.
123. AH a WH, 21 settembre 1801, AH WH Lettere 1880, p. 30; vedi anche AH, 1800, Notes
on Caribs, AH Venezuela 2000, p. 341.
124. AH a WH, 25 novembre 1802, AH WH Lettere 1880, pp. 50-53.
125. AH New Spain 1811, vol. 3, p. 48; per la copia di Bolívar di AH New Spain 1811, vedi
Bolívar 1929, vol. 7, p. 156.
126. Morning Chronicle, 4 settembre 1818 e 14 novembre 1817.
127. Bolívar a Gaspar Rodríguez de Francia, 22 ottobre 1823, Rippy e Brann 1947, p. 701.
128. Bolívar, Messaggio al Congresso Costituente della Repubblica di Colombia, 20 gennaio
1830, Bolívar, 2003, p. 103.
*. Jefferson non era il primo americano a prendere parte alla disputa. Negli anni ottanta del
diciottesimo secolo, Benjamin Franklin, durante la sua permanenza a Parigi in qualità di
Ministro plenipotenziario americano, aveva partecipato a un pranzo con l’abate Reynal, uno
degli scienziati incriminati. Franklin osservò che tutti gli ospiti americani sedevano a un lato
della tavola con i francesi di fronte. Cogliendo l’occasione, lanciò la sua sfida: “facciamo alzare
tutt’e due le parti e vedremo da quale parte la natura è degenerata”. Quando tutti furono in
piedi, tutti gli americani erano di “statura più alta”, disse poi Franklin a Jefferson, mentre i
francesi erano tutti più bassi – in particolare Reynal, che era un “nanerottolo”.
Capitolo tredicesimo

Londra

Mentre Simón Bolivár combatteva battaglie sanguinose per spezzare le


catene coloniali, Humboldt tentava di convincere gli inglesi a lasciarlo
partire per l’India. Allo scopo di completare la sua Naturgemälde del
mondo, Humboldt voleva fare indagini sull’Himalaya per raccogliere i
dati di cui aveva bisogno per confrontare le due maestose catene
montuose. Nessuno scienziato aveva mai scalato l’Himalaya. Da
quando gli inglesi erano arrivati nel subcontinente, non gli era mai
venuto in mente di effettuare misurazioni riguardo a queste
magnifiche montagne, diceva Humboldt. Gli avevano solo “dato
un’occhiata sbadata, senza nemmeno chiedersi quanto fosse alto il
colosso himalayano”1. Humboldt intendeva determinare le altezze,
capire le caratteristiche geologiche e analizzare la distribuzione delle
piante – proprio come aveva fatto sulle Ande.
Dal giorno in cui aveva messo piede in Francia dopo la spedizione
del 1804, Humboldt non vedeva l’ora di lasciare di nuovo l’Europa. Il
vivo desiderio di viaggiare era il suo compagno più fedele2. Non si
poteva acquisire la conoscenza solo dai libri, riteneva Humboldt. Per
comprendere il mondo, uno scienziato doveva stare in mezzo alla
natura – sentirla e sperimentarla – un’idea che Goethe aveva esplorato
nel Faust quando aveva dipinto l’assistente di Faust, Wagner, come un
personaggio con una sola idea e un’unica dimensione, che non vedeva
ragione di imparare dalla natura stessa, ma solo dai libri.

Campi e boschi vengono presto a noia.


Non le invidierò mai, le ali degli uccelli.
Quanto meglio ci portano le gioie dello spirito
di libro in libro, di pagina in pagina!3
Il Wagner di Goethe è l’incarnazione dello studioso di mente ristretta,
chiuso nel suo laboratorio e sepolto in una prigione di libri. Humboldt
era l’opposto. Era uno scienziato che non voleva semplicemente farsi
un’idea del mondo naturale sul piano intellettuale, ma desiderava
sperimentare la natura in maniera emotiva.

Una veduta dell’Himalaya

L’unico problema era che Humboldt aveva bisogno del permesso


della Compagnia britannica delle indie orientali che controllava gran
parte dell’India. Fondata nel 1600 come un cartello di mercanti che
mettevano in comune le loro risorse allo scopo di creare un monopolio
commerciale, la compagnia aveva esteso il suo raggio d’azione da un
capo all’altro del subcontinente con i suoi eserciti privati. Nel secolo
precedente, la Compagnia delle Indie Orientali si era trasformata da
impresa commerciale che importava ed esportava beni in
un’impressionante potenza militare. Nel primo decennio del
diciannovesimo secolo, quando Humboldt cominciò a pensare a una
spedizione sull’Himalaya, la Compagnia delle Indie Orientali era
diventata così potente che funzionava come uno Stato nello Stato.
Proprio come aveva avuto bisogno del permesso del re di Spagna per
viaggiare attraverso il Sud America, ora Humboldt aveva bisogno
dell’approvazione dei direttori della Compagnia delle Indie Orientali.
Il primo volume del Saggio politico sul regno della Nuova Spagna
era stato pubblicato in inglese nel 1811 e a Londra il feroce attacco di
Humboldt al colonialismo spagnolo non era passato sotto silenzio.
Cosa si poteva pensare di un uomo che parlava della “crudeltà degli
europei”4? E non poteva certo aiutare il fatto che, nel suo sforzo
costante di trovare connessioni, avesse più volte paragonato il governo
spagnolo in America Latina con quello degli inglesi in India. La storia
della conquista del Sud America e dell’India, scrisse Humboldt nel
Saggio politico sul regno della Nuova Spagna, era una “lotta impari”
o – alludendo ancora alla Gran Bretagna – i sudamericani e gli
“Hindu”, accusava, “hanno a lungo sofferto sotto un dispotismo civile
e militare”5. La lettura di queste osservazioni non suscitò certo
l’entusiasmo dei direttori della Compagnia delle Indie Orientali per i
progetti di viaggio di Humboldt.
Humboldt aveva già tentato di ottenere la loro approvazione
nell’estate del 1814, quando aveva accompagnato il re prussiano,
Federico Guglielmo III a Londra, dove gli alleati avevano celebrato la
vittoria su Napoleone. Nel corso di due brevi settimane, Humboldt
aveva incontrato politici, duchi, lord e lady, scienziati e pensatori – in
breve chiunque potesse risultare utile – ma non aveva ottenuto nulla.
Incontrò speranza ed entusiasmo, qualche promessa e offerta di aiuto,
ma alla fine nessuna traccia del cruciale passaporto6.
Tre anni dopo, l’11 ottobre 1817, Humboldt tornò a Londra7 per
tentare, ancora una volta, di rivolgere una petizione alla Compagnia
delle Indie Orientali. Il fratello Wilhelm, che si era appena trasferito a
Londra nella nuova veste di ministro plenipotenziario prussiano in
Gran Bretagna, lo attendeva nella sua casa di Portland Place. A
Wilhelm non piaceva la nuova destinazione – Londra era troppo
grande e il clima deprimente. Le strade erano ingombre di carrozze, di
carretti e di persone. I turisti si lamentavano regolarmente dei pericoli
di passeggiare nel centro, specialmente il lunedì e il venerdì, quando
mandrie di bovini venivano fatte passare per gli stretti vicoli. Il fumo
del carbone e la nebbia conferivano spesso a Londra un’atmosfera
claustrofobica8. Come avevano fatto gli inglesi a diventare “grandi con
così poca luce del giorno”9, si chiedeva Richard Rush, ministro
plenipotenziario americano a Londra.
L’area intorno a Portland Place, dove Wilhelm viveva, era una delle
più eleganti di Londra. In quell’inverno, comunque, era un grande
cantiere, perché l’architetto John Nash stava realizzando il grande
piano urbanistico che alla fine avrebbe collegato la dimora londinese
del principe reggente, Carlton House, a St James’s Park, con il nuovo
Regent’s Park. Ne faceva parte Regent Street che attraversava il
labirinto di stradine di Soho e poi si ricollegava a Portland Place. I
lavori erano cominciati nel 1814 e c’era fracasso dappertutto quando i
vecchi edifici venivano demoliti per fare spazio alle nuove, grandi
strade.
La stanza di Alexander era pronta e Wilhelm attendeva con
impazienza l’arrivo del fratello. Ma, come tante altre volte, Alexander
era in viaggio con una compagnia maschile, stavolta François Arago.
Wilhelm detestava gli amici intimi del fratello – probabilmente un
misto di gelosia e di preoccupazione per quella che poteva sembrare la
natura inappropriata di questi legami. Quando Wilhelm si rifiutò di
ospitare Arago, Alexander si trasferì con l’amico in una locanda nei
pressi. Non fu un grande inizio per la visita10.
Wilhelm lamentava di non riuscire a vedere il fratello se non in
compagnia di altri11. Non una volta pranzavano a casa, loro due da
soli, protestava, ma doveva ammettere che Alexander portava sempre
un piacevole turbinio di attività. Wilhelm continuava a considerarlo
troppo francese ed era spesso irritato per il suo inarrestabile “flusso di
parole”12. Per la maggior parte del tempo lasciava parlare il fratello
senza interromperlo13. Ma anche se erano diversi, Wilhelm era felice
di vederlo.
Malgrado la confusione intorno a Portland Place, l’area faceva al
caso di Alexander. Nel giro di pochi minuti, poteva ritrovarsi a
passeggiare in mezzo ai campi e lungo vicoli tortuosi che andavano
verso nord e c’era solo una breve corsa in carrozza per arrivare alla
sede centrale della Royal Society e una passeggiatina di venti minuti
per arrivare al British Museum, una della più amate attrazioni
dell’anno. Migliaia di persone vi si affollavano per ammirare i famosi
marmi che il conte di Elgin, in mezzo alle controversie, aveva rimosso
dalle acropoli della Grecia e che soli pochi mesi prima avevano trovato
una nuova sistemazione al British Museum14. I marmi di Elgin erano
splendidi, disse Wilhelm alla moglie Caroline, ma “nessuno ha fatto
rapine come queste! Era come vedere tutta Atene”15.
A Londra c’era anche una vivacità commerciale diversa da Parigi.
Londra era la più grande città del mondo e l’abilità economica degli
inglesi faceva mostra di sé nei negozi che fiancheggiavano il West End
– un’esibizione scintillante della ricchezza imperiale del paese16. Con
l’esilio di Napoleone a Sant’Elena e la fine della minaccia francese, la
Gran Bretagna iniziava un lungo periodo di dominio incontrastato nel
mondo. L’“accumulazione di cose”, osservavano i visitatori, era
“stupefacente”17. Era rumorosa, sporca e affollata.
Come i negozi testimoniavano il potere commerciale della Gran
Bretagna, anche l’imponente sede centrale della Compagnia delle
Indie Orientali in Leadenhall Street, nella City, ne era una
testimonianza. All’ingresso, sei enormi colonne scanalate
sorreggevano un imponente portico dove Britannia porgeva la mano a
un’India genuflessa che gli offriva i suoi tesori. All’interno, le sale
opulente trasudavano ricchezza e potere. Il rilievo in marmo al di
sopra della struttura portante del caminetto nella Director’s Court
Room non avrebbe potuto essere più chiaro – era intitolato “Britannia
che riceve le ricchezze dell’oriente”. Riproduceva le offerte dell’oriente
– perle, tè, porcellane e cotone – nonché la figura femminile di
Britannia e, quale simbolo di Londra, il “Padre Tamigi”. C’erano anche
grandi tele con le immagini degli insediamenti della Compagnia in
India, come Calcutta, Madras e Bombay. Era qui, nella Casa delle
Indie Orientali, che i direttori discutevano di imprese militari, navi,
navi da carico, dipendenti, ricavi e, naturalmente, permessi di viaggio
per il loro territorio.
Oltre a ricercare il permesso per esplorare l’India, Alexander aveva a
Londra un’agenda stracolma. Andò con Arago all’Osservatorio reale di
Greenwich, si fermò presso l’abitazione di Joseph Banks in Soho
Square e andò per due giorni ad assistere il famoso astronomo di
origine tedesca William Herschel nella sua casa di Slough, subito fuori
Londra. Herschel aveva allora ottant’anni ed era una leggenda – aveva
scoperto Urano nel 1781 e, con i suoi enormi telescopi, aveva portato il
cielo in terra18. Come chiunque altro, Humboldt desiderava vedere il
gigantesco telescopio da quaranta piedi che Herschel aveva costruito,
una delle “meraviglie del mondo”19, come era stato definito.
Ciò che interessava di più Humboldt era l’idea di Herschel di un
universo in evoluzione – un universo non basato unicamente sulla
matematica, ma una cosa viva che mutava, cresceva e fluttuava.
Herschel aveva utilizzato l’analogia con il giardino quando scriveva di
“germinazione, fioritura, fogliame, fertilità, appassimento,
inaridimento e corruzione”20 delle stelle e dei pianeti per spiegarne la
formazione. Anni dopo, Humboldt avrebbe utilizzato esattamente la
stessa immagine quando scrisse del “grande giardino dell’universo”, in
cui le stelle apparivano in fasi diverse, proprio come “una pianta in
tutte le fasi della crescita”21.
Arago e Humboldt parteciparono anche a incontri presso la Royal
Society22. Fin dalla fondazione negli anni sessanta del diciassettesimo
secolo “per il progresso della conoscenza naturale tramite gli
esperimenti”23, la Royal Society era diventata il centro della ricerca
scientifica in Gran Bretagna. Tutti i giovedì, i membri si riunivano per
discutere gli ultimi sviluppi nelle scienze. Conducevano esperimenti,
“elettrificavano” le persone, apprendevano nozioni su nuovi telescopi,
sulle comete, sulla botanica e sui fossili. Dibattevano, si scambiavano
risultati e leggevano le lettere ricevute da amici e anche da stranieri
dotati di mente scientifica.

La sala delle riunioni della Royal Society


Non c’era posto migliore per stabilire contatti personali in campo
scientifico. “Tutti gli studiosi sono fratelli”24, disse Humboldt dopo un
incontro. I membri avevano onorato Humboldt due anni prima,
eleggendolo membro straniero e lui non riuscì a dissimulare l’orgoglio
quando il vecchio amico e presidente della Royal society, Joseph
Banks, elogiò la sua ultima pubblicazione botanica davanti all’illustre
assemblea come “una delle più belle e mirabili”25 mai realizzate.
Banks, inoltre, invitò Humboldt all’ancora più esclusivo Royal Society
Dining Club, dove lo mise in relazione, fra gli altri, con il chimico
Humphrey Davy26. Abituato alla cucina parigina, Humboldt non era
tanto entusiasta del cibo e ebbe a lamentarsi: “ho pranzato alla Royal
Society, dove si viene avvelenati”27. Anche se il cibo era sgradevole, il
numero degli scienziati che prendeva parte ai pranzi aumentava
considerevolmente quando Humboldt era in città28.
Mentre Humboldt passava da un incontro all’altro, Arago lo seguiva
passo passo, ma rinunciava agli eventi in tarda serata. Di notte,
mentre Arago dormiva, l’infaticabile Humboldt si imbarcava in un
altro giro di visite1034. A quarantotto anni non aveva perso nulla del
suo entusiasmo giovanile. La sola cosa che non amava di Londra era la
rigida formalità della moda. Era “detestabile”, si lagnò con un amico,
che “alle nove in punto devi indossare la cravatta in questo stile, alle
dieci in quell’altro e alle undici in un altro ancora”29. Malgrado le
rigidità della moda, tuttavia, sembrava ne valesse la pena, perché tutti
desideravano incontrarlo. Ovunque andasse, Humboldt veniva
salutato con il massimo rispetto. Tutti gli “uomini potenti”, disse,
erano a favore dei suoi progetti e dei suoi piani per l’India30. Ma tutto
questo successo non aveva l’effetto desiderato sui direttori della
Compagnia delle Indie Orientali.
Dopo un mese a Londra, Humboldt rientrò a Parigi con la testa che
gli ronzava, ma ancora senza il permesso di recarsi in India. Poiché
non esistono riscontri ufficiali della domanda di Humboldt, non è
chiaro quali argomenti abbia utilizzato la Compagnia delle Indie
Orientali per opporgli un rifiuto, ma qualche anno dopo un articolo
della Edinburgh Review spiegava che era stato a causa di un’“indegna
gelosia politica”31. La cosa più probabile è che la Compagnia delle
Indie Orientali non volesse rischiare che un sobillatore prussiano
liberale indagasse sulle ingiustizie coloniali. Per il momento,
Humboldt non sarebbe andato in nessun posto nelle vicinanze
dell’India.

Nel frattempo, in Inghilterra i suoi libri vendevano bene. La prima


traduzione inglese era stata quella del Saggio politico sul regno della
Nuova Spagna nel 1811, ma un successo ancora maggiore ebbe la
Personal Narrative (il primo di sette volumi era stato tradotto nel
1814). Era un libro di viaggi – anche se con ampie annotazioni
scientifiche – che si rivolgeva al lettore comune. La Personal
Narrative seguiva cronologicamente il viaggio di Humboldt e
Bonpland, dalla partenza in Spagna nel 1799*. Era il libro che in
seguito avrebbe indotto Charles Darwin a imbarcarsi sul Beagle – un
libro “che conosco quasi a memoria”32, disse Darwin.
Personal Narrative, spiegò Humboldt, era diverso da qualsiasi altro
libro di viaggi. Molti viaggiatori effettuavano misurazioni, diceva –
alcuni si limitavano a raccogliere piante mentre altri erano interessati
solo ai dati economici dei centri mercantili – ma nessuno combinava
l’osservazione esatta con una “descrizione pittorica del paesaggio”33.
Humboldt, al contrario, trasportava i suoi lettori nelle strade affollate
di Caracas, attraverso le piante impolverate degli Llanos e nel cuore
della foresta pluviale lungo l’Orinoco. Descrivendo un continente che
pochi inglesi avevano visto, Humboldt ne catturava l’immaginazione.
Le sue parole erano così evocative, scrisse l’Edinburgh Review, che
“prendete parte ai suoi pericoli, condividete le sue paure, i suoi
successi e le sue delusioni”34.
Ci furono alcune recensioni negative, ma solo su riviste che
criticavano le opinioni politiche liberali di Humboldt. La conservatrice
Quarterly Review non approvava l’ampio approccio di Humboldt alla
natura e lo criticava perché non seguiva una particolare teoria.
“Indulge a tutto”, diceva l’articolo, “navigando con ogni vento e
nuotando con ogni corrente.”35 Ma qualche anno dopo anche la
Quarterly Review elogiava il talento unico di Humboldt nel combinare
la ricerca scientifica con “l’ardore del sentimento e la forza
dell’immaginazione”36. Scriveva come “un poeta”, ammise il
recensore.
Negli anni seguenti, le descrizioni dell’America Latina di Humboldt
e la sua nuova visione della natura penetrarono nella letteratura e
nella poesia inglesi. Nel romanzo di Mary Shelley, Frankenstein,
pubblicato nel 1818 – solo quattro anni dopo il primo volume della
Personal Narrative – il mostro di Frankenstein dichiarava di voler
fuggire “nelle vaste regioni selvagge del Sud America”37. Poco dopo,
Lord Byron immortalò Humboldt nel Don Juan, mettendo in ridicolo
il suo cianometro, lo strumento con cui Humboldt aveva misurato
l’azzurrità del cielo:

Humboldt, “the first of travellers”, but not


The last, if late accounts be accurate,
Invented, by some name I have forgot,
As well as the sublime discovery’s date,
An airy instrument, with which he sought
To ascertain the atmospheric state,
By measuring “the intensity of blue”:
O, Lady Daphne! let me measure you!38

Nello stesso periodo, anche i poeti romantici inglesi Samuel Taylor


Coleridge, William Wordsworth e Robert Southey cominciarono a
leggere i libri di Humboldt. Southey ne rimase così colpito che andò
persino a trovare Humboldt a Parigi nel 181739. Humboldt univa la
sua vasta conoscenza con “l’occhio del pittore e il sentimento del
poeta”40, affermò Southey. Era “fra i viaggiatori quello che
Wordsworth è fra i poeti”41. Sentito questo elogio, Wordsworth chiese
a Southey di prestargli la sua copia della Personal Narrative appena
pubblicata42. All’epoca Wordsworth stava componendo una serie di
sonetti sul fiume Duddon nel Cumberland e alcuni dei lavori che
produsse dopo aver letto Humboldt possono essere visti in questo
contesto.
Wordsworth, ad esempio, utilizzò il resoconto del viaggio di
Humboldt come materiale originale per i suoi sonetti. Nella Personal
Narrative, Humboldt raccontava di aver fatto domande a una tribù
indigena dell’alto Orinoco su alcuni oggetti raffiguranti animali e stelle
incisi sulla sommità delle rocce in riva al fiume. “Rispondono con un
sorriso”, scriveva Humboldt, “come si trattasse di una cosa di cui solo
uno straniero, un uomo bianco, potesse ignorare che ‘nel periodo delle
grandi acque i loro padri erano arrivati a quell’altezza in canoa.”43
Nella poesia di Wordsworth, il testo originale di Humboldt divenne:

There would the Indian answer with a smile


Aimed at the White Man’s ignorance the while
Of the GREAT WATERS telling how they rose

O’er wich his Fathers urged, to ridge and steep
Else unapprochable, their buoyant way:
And carved, on mural cliff’s undreaded side
Sun, moon, and stars, and beast of chase and prey44.

Anche l’amico di Wordsworth, lui stesso poeta, Coleridge trovò


stimolante l’opera di Humboldt. Coleridge era stato probabilmente il
primo a essere iniziato alle idee di Humboldt a casa di Wilhelm e
Caroline von Humboldt a Roma, dove aveva trascorso un po’ di tempo
verso la fine del 1805. Aveva conosciuto Wilhelm – fratello del “grande
viaggiatore”45, come lo definiva Coleridge – poco dopo il suo arrivo. Il
salotto degli Humboldt era vivacizzato dai racconti di Alexander sul
Sud America, ma anche dalle discussioni sulla sua nuova concezione
della natura. Di ritorno in Inghilterra, Coleridge cominciò a leggere i
libri di Humboldt e a ricopiarne intere sezioni nei suoi taccuini,
tornandovi ogni volta che rifletteva sulla scienza e sulla filosofia
perché era alle prese con idee analoghe46.
Sia Wordsworth che Coleridge erano “poeti camminatori”47, che
non solo sentivano il bisogno di stare all’aperto nella natura, ma anche
scrivevano all’aperto. Come Humboldt, il quale sosteneva che gli
scienziati, per comprendere davvero la natura, dovevano uscire dai
laboratori, Wordsworth e Coleridge ritenevano che i poeti dovessero
aprire le porte dei loro studi e passeggiare per i prati, sulle colline e
lungo i fiumi. Un sentiero accidentato o una selva intricata, affermava
Coleridge, errano i suoi luoghi preferiti per poetare. Un amico stimava
che Wordsworth, a sessant’anni, avesse percorso circa 300.000
chilometri. Erano parte della natura, alla ricerca dell’unità al suo
interno, ma anche fra uomo e ambiente.
Come Humboldt, Coleridge ammirava la filosofia kantiana – “un
uomo davvero grande”48 lo definiva – e si dichiarò inizialmente
entusiasta della Naturphilosophie di Schelling per la sua ricerca
dell’unità fra io e natura – il mondo interno e quello esterno. La fede
di Schelling nel ruolo dell’“Io” nella comprensione della natura ebbe
un forte impatto su Coleridge. La scienza aveva bisogno di essere
permeata dall’immaginazione o, come diceva Schelling, doveva
“ancora una volta mettere le ali alla fisica”49.
Ottimo conoscitore del tedesco, che parlava fluentemente, Coleridge
si era a lungo sprofondato nella letteratura e nella scienza tedesche*.
Aveva anche suggerito all’editore di Humboldt, John Murray, di
tradurre il capolavoro di Goethe, il Faust. Più di ogni altra opera
contemporanea, il Faust affrontava temi che interessavano
profondamente Coleridge50. Heinrich Faust vedeva come tutte le cose
si tenessero insieme: “Come tutto vive e si muove e si intreccia / In un
tutto! Ogni parte dà e riceve”51, esclama Faust nella prima scena, una
frase che avrebbe potuto essere scritta sia da Humboldt che da
Coleridge.
Coleridge lamentava la perdita di quelli che chiamava “i poteri
connettivi della conoscenza”53. Vivevano in “un’epoca di divisione e di
separazione”52, di frammentazione e di perdita dell’unità. Il
problema, sosteneva, stava in filosofi come René Descartes o Carl
Linnaeus, che avevano trasformato la conoscenza della natura in una
pratica angusta di raccolta, classificazione e astrazione matematica.
Questa “filosofia della meccanica”, scriveva a Wordsworth, “colpisce a
morte”54. Il naturalista con il suo impulso a classificare, concordava
Wordsworth, non assomigliava forse a uno “schiavo che tasta, / Uno
che sbircerebbe e raccoglierebbe piante sulla tomba della madre?”55.
Coleridge e Wordsworth si rivoltavano contro l’idea di strappare la
conoscenza alla natura con “viti o leve”56 – secondo le parole di Faust
– e contro l’idea di un universo newtoniano, composto di atomi inerti,
che seguivano le leggi naturali come automi. Loro, invece, vedevano la
natura come Humboldt: dinamica, organica e pulsante di vita.
Coleridge invocava un nuovo approccio alle scienze come reazione
alla perdita dello “spirito della Natura”57. Né Coleridge né
Wordsworth si rivoltavano contro la scienza in sé, ma contro il
prevalere della “visione microscopica”58. Come Humboldt, erano in
disaccordo con la suddivisione della scienza in approcci sempre più
specializzati. Coleridige definiva questi filosofi come “Little-ists”59
(“piccolisti”), mentre Wordsworth scriveva in The Excursion (1814):

For was it meant


That we should pore, and dwindle as we pore,
For ever dimly pore on things minute,
On solitary objects, still beheld
In disconnection dead and spiritless,
And still dividing and dividing still
Break down all grandeur...60

In Inghilterra l’idea di Humboldt di una natura intesa quale


organismo vivente, animato da forze dinamiche, cadeva su di un
terreno fertile. Per i romantici era il principio guida e la metafora
principale. Le opere di Humboldt, scriveva la Edinburgh Review,
erano la prova migliore del “legame segreto”61 che univa ogni
conoscenza, ogni sentimento e ogni moralità. Ogni cosa era
interconnessa e “fatta per riflettersi in ogni altra”62.
Ma indipendentemente dal successo dei suoi libri e
dall’ammirazione di cui la sua opera godeva presso i poeti, i pensatori
e gli scienziati inglesi, Humboldt non aveva ancora ricevuto
dall’amministrazione coloniale il permesso di recarsi in India. La
Compagnia delle Indie Orientali rimaneva caparbiamente non
collaborativa. Humboldt, comunque, continuava a fare piani
dettagliati. Il suo proposito era di restare in India quattro o cinque
anni, disse a Wilhelm, e al suo ritorno in Europa avrebbe finalmente
lasciato Parigi. Intendeva scrivere i suoi libri sui viaggi in India in
inglese e per questo si sarebbe stabilito a Londra63.
1. AH to Heinrich Berghaus, 24 novembre 1828, AH Berghaus Lettere 1863, vol.1, p. 208.
12. AH all’Académie des Sciences, 21 giugno 1803 e AH a Karsten, 1 febbraio 1805, Bruhns
1873, vol. 1, pp. 327, 350; AH a Johann Friedrich von Cotta, 24 gennaio 1805, AH Cotta
Lettere 2009, p. 63.
3. Goethe, Faust I, Fuori porta, Atto 1, Scena 5, versi 1102 sgg. (trad. Fortini 1970, p. 85).
4. AH New Spain 1811, vol. 1, p. 98.
5. Ivi, pp. 104, 123.
6. WH a CH, 5 giugno 1814; 14 giugno 1814; 18 giugno 1814, WH CH Lettere 1910-16, vol. 4,
pp. 345, 351 sgg., 354-5; AH a Helen Maria Williams, 22 giugno 1814, Koninklijk Huisarchief,
Den Haag (copia presso Alexander-von-Humboldt-Forschungstelle, Berlino).
7. WH a CH, 22 ottobre 1817, WH CH Lettere 1910-16, vol. 6, p. 22.
8. WH a CH, 14 giugno 1814 e 18 ottobre 1817, ivi, vol. 4, p. 350; vol. 6, p. 20.
9. Richard Rush, 31 dicembre 1817, Rush 1833, p. 55.
10. WH a CH, 1 novembre 1817, WH CH Lettere 1910-16, vol. 6, p. 30.
11. WH a CH, 3 dicembre 1817, ivi, p. 64.
12. WH a CH, 30 novembre 1815, ivi, vol. 5, p. 135.
13. WH a CH, 12 novembre 1817, ivi, vol. 6, p. 46.
14. Hughes-Hallet 2001, p. 136.
15. WH a CH, 11 giugno 1814, WH CH Lettere 1910-16, vol. 4, p. 348.
16. Richard Rush, 7 gennaio 1818, Rush 1833, p. 81; Carl Philip Moritz, giugno 1782, Moritz
1965, p. 33.
17. Richard Rush, 7 gennaio 1818, Rush 1833, p. 77.
18. AH a Robert Brown, novembre 1817, BL; AH a Karl Sigismund Kunth, 11 novembre 1817,
Universitätsbibliothek Gießen; AH a Madame Arago, novembre 1817, Bibliothèque de
l’Institut de France, MS 2115, f. 213-14 (copie presso l’Alexander-von-Humboldt-
Forschungstelle, Berlino).
19. Holmes 2008, p. 190.
20. Catalogue of a Second Thousand Nebulae (1789) di William Herschel, Holmes 2008, p.
192.
21. AH Cosmos 1845-52, vol. 2, p. 74; AH Kosmos 1845-50, vol. 2, p. 87.
22. AH fu fatto Foreign Member of the RS il 6 aprile 1815; vedi anche RS Journal Book, vol.
xli, 1811-15, p. 520; alla fine dei suoi giorni AH era membro di diciotto società scientifiche
britanniche.
23. Jardine 1999, p. 83.
24. AH a Madame Arago, novembre 1817, Bibliothèque de l’Institut de France, MS 2115, f. 213-
14 (copia presso l’Alexander-von-Humboldt-Forschungstelle, Berlino).
25. AH a Karl Sigismund Kunth, 11 novembre 1817, Universitätsbibliothek Gießen (copia
presso l’Alexander-von-Humboldt-Forschungstelle, Berlino).
26. 6 novembre 1817, Elenco dei partecipanti, RS Dining Club, vol. 20 (senza numeri di
pagina).
27. AH a Achilles Valenciennes, 4 maggio 1827, Théodoridès 1966, p. 46.
28. 6 novembre 1817, Elenco dei partecipanti, RS Dining Club, vol. 20, senza numeri di
pagina.
29. AH a Madame Arago, novembre 1817, Bibliothèque de l’Institut de France, MS 2115, f. 213-
14 (copia presso l’Alexander-von-Humboldt-Forschungstelle, Berlino).
30. Bruhns 1873, vol. 2, p. 198.
31. AH a Karl Sigismund Kunth, 11 novembre 1817, Universitätsbibliothek Gießen (copia
presso l’Alexander-von-Humboldt-Forschungstelle, Berlino).
32. Edinburgh Review, vol. 103, gennaio 1856, p. 57.
33. Darwin a D.T. Gardner, agosto 1874, pubblicato sul New York Times, 15 settembre 1874.
34. AH a Helen Maria Williams, 1810, AH Río Magdalena 2003, vol. 1, p. 11.
35. Edinburgh Review, vol. 25, giugno 1815, p. 87.
36. Quarterly Review, vol. 15, luglio 1816, p. 442; vedi anche vol. 14, gennaio 1816, pp. 368
sgg.
37. Quarterly Review, vol. 18, ottobre 1817, p. 136.
38. Shelley 1998, p. 146. Frankenstein compariva anche in altre idee che Humboldt discusse
nei suoi libri come l’elettricità animale e l’impulso formativo e le forze vitali di Blumenbach.
39. Lord Byron, Don Juan, canto IV, CXII.
40. Robert Southey a Edith Southey, 17 maggio 1817, Southey 1965, vol. 2, p. 149.
41. Robert Southey a Walter Savage Landor, 19 dicembre 1821, ivi, p. 230.
42. Ibid.
43. William Wordsworth a Robert Southey, marzo 1815, Wordsworth 1967-93, vol. 2, p. 216;
per Wordsworth e la geologia, vedi Wyatt 1995.
44. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 473.
45. William Wordsworth, “The River Duddon” (1820).
46. Coleridge, Table Talk, 28 agosto 1833, Coleridge 1990, vol. 2, p. 259; AH aveva lasciato
Roma il 18 settembre 1805 e Coleridge arrivò in dicembre; Holmes 1998, pp. 52-3.
47. Wiegand 2002, p. 107; nei suoi taccuini Coleridge fece riferimento all’Essay on the
Geography of Plants e a Personal Narrative, vedi Coleridge 1958-2002, vol. 4, notes 4857,
4863, 4864, 5247; Notebook of S.T. Coleridge N. 21 ½, BL Add 47519 f. 57; Egerton MS 2800
ff. 190.
48. Bate 1991, p. 49.
49. Samuel Taylor Coleridge’s Lectures, Coleridge 2000, vol. 2, p. 536; per Coleridge,
Schelling e Kant, vedi Harman, pp. 312 sgg.; Kipperman 1998, pp. 409 sgg.; Robinson 1869,
vol. 1, pp. 305, 381, 388.
50. Richards 2002, p. 125.
51. Coleridge non completò mai la traduzione del Faust per John Murray ma ne pubblicò una
nel 1821 – per quanto anonima. Lettere fra Coleridge e John Murray, 23, 29 e 31 agosto 1814,
Burwick e McKusick 2007, p. XVI; Robinson 1869, vol. 1, p. 395.
52. Goethe, Faust I, Scena 1, Notte, versi 447-8 (trad. Fortini 1970, p. 39); per Coleridge e
l’interconnessione, vedi Levere 1990, p. 297.
53. Coleridge, “Science and System of Logic”, trascrizione delle conferenze di Coleridge del
1822, Wiegand 2002, p. 106; Coleridge 1958-2002, vol. 4, notes 4857, 4863, 4864, 5247;
Taccuino di S.T. Coleridge N. 21 ½, BL Add 47519 f. 57; Egerton MS 2800 ff. 190.
54. Coleridge, “Essay on the Principle of Method”, 1818, Kipperman 1998, p. 424; vedi anche
Levere 1981, p. 62.
55. Coleridge a Wordsworth, Cunningham e Jardine 1990, p. 4.
1061. William Wordsworth, “A Poet’s Epitaph” (1798).
56. Goethe, Faust I, scena 1, Notte, verso 674 (trad. Fortini 1970, p. 55).
57. Conferenze di Coleridge 1818-19, Coleridge 1949, p. 493.
58. William Wordsworth, “The Prelude”, Book XII.
59. Coleridge in 1801, Levere 1981, p. 61.
60. William Wordsworth, “The Excursion” (1814).
61. Edinburgh Review, vol. 36, ottobre 1821, p. 264.
62. Ivi, p. 265.
63. WH a CH, 6 ottobre 1818, WH CH Lettere 1910-16, vol. 6, p. 334.
*. Il primo volume della Personal Narrative fu pubblicato nel 1814, lo stesso anno della
traduzione francese delle Vues des Cordillères di Humboldt. In Gran Bretagna i suoi libri
furono pubblicati da un consorzio di cui faceva parte John Murray, all’epoca l’editore più alla
moda di Londra – con Lord Byron come suo autore di maggiore successo commerciale.
*. Coleridge aveva probabilmente letto alcuni dei libri di Humboldt in tedesco prima che
venissero tradotti, perché aveva viaggiato e studiato in Germania. Dieci anni esatti dopo che
Humboldt aveva studiato all’università di Gottinga, Coleridge vi si era iscritto, nel 1799, sotto
la guida di Johann Friedrich Blumenbach, la stessa persona che aveva erudito Humboldt sulle
forze vitali.
Capitolo quattordicesimo

Girando a vuoto

Maladie centrifuge

Il 14 settembre 1818, giorno del suo quarantanovesimo compleanno,


Humboldt salì sulla diligenza a Parigi per recarsi di nuovo a Londra –
la sua terza visita in soli quattro anni. Cinque giorni dopo, arrivò in
piena notte alla dimora di Wilhelm in Portland Place. Ormai era così
famoso che i giornali londinesi annunciarono il suo arrivo nella
rubrica “Arrivi eleganti”1. Stava ancora cercando di organizzare la
spedizione in India e lo status diplomatico di Wilhelm a Londra lo
aiutò ad aprire alcune porte importanti. Wilhelm, per esempio,
agevolò un’udienza privata con il principe reggente, il quale assicurò
ad Alexander il suo sostegno nell’impresa2. Humboldt incontrò anche
il funzionario del governo britannico che sovrintendeva alle attività
della Compagnia delle Indie Orientali – George Canning, presidente
del Comitato di controllo, che si impegnò a prestare aiuto. Dopo questi
incontri, Humboldt era sicuro che qualunque ostacolo la Compagnia
delle Indie Orientali avesse “frapposto”3 sarebbe stato rimosso. Dopo
più di un decennio di blandizie e di suppliche, sembrava che l’India
fosse finalmente a portata di mano. Convinto che i direttori avrebbero
concesso il loro permesso, Humboldt rivolse allora la sua attenzione al
re Federico Guglielmo III, che in passato aveva accennato che forse
sarebbe stato disposto a finanziare il viaggio.
All’epoca della visita di Humboldt a Londra, il re prussiano si
trovava al Congresso di Aix-la-Chapelle, l’attuale Aquisgrana in
Germania. Il 1° ottobre 1818, le quattro potenze alleate – Prussia,
Austria, Gran Bretagna e Russia – si erano riunite ad Aquisgrana per
discutere del ritiro delle loro truppe dalla Francia nonché di una futura
alleanza europea. Con Aquisgrana a soli 300 chilometri a est di Calais,
recarvisi direttamente da Londra avrebbe risparmiato a Humboldt una
temuta visita a Berlino – una città in cui non era più stato da undici
anni – e un viaggio superfluo di almeno 1.600 chilometri.
L’8 ottobre, a meno di tre settimane dal suo arrivo a Londra,
Humboldt era di nuovo in viaggio4, ma inseguito da dicerie. I giornali
inglesi riferivano che Humboldt stava correndo al congresso di
Aquisgrana per “essere consultato sugli affari del Sud America”5. La
polizia segreta francese nutriva sospetti analoghi, ritenendo che
Humboldt portasse con sé un rapporto dettagliato sulle colonie
ribelli6. Un ministro spagnolo era stato spedito ad Aquisgrana nella
speranza di assicurare alla Spagna il sostegno europeo nella battaglia
contro l’esercito di Simón Bolivár7. Ma nel momento in cui Humboldt
arrivò, era diventato chiaro che gli alleati non erano interessati a
immischiarsi nelle ambizioni coloniali spagnole – l’equilibrio fra le
potenze nell’Europa post-napoleonica era una preoccupazione molto
più urgente8. Humboldt, invece, avrebbe potuto concentrarsi su quello
che The Times definiva il “suo affare”9 – strappare soldi ai prussiani
per la sua spedizione in India.
Ad Aquisgrana, Humboldt informò il cancelliere prussiano, Karl
August von Hardenberg, che le difficoltà riguardo alla spedizione
erano state pressoché interamente superate. L’unico ostacolo per la
“piena garanzia della mia impresa”10, affermò Humboldt, era di
natura finanziaria. Nel giro di ventiquattr’ore, Federico Guglielmo III
aveva accolto la richiesta di denaro. Humboldt era in estasi11. Dopo
quattordici anni in Europa, sarebbe stato finalmente in condizione di
ripartire. Avrebbe potuto scalare il poderoso Himalaya ed estendere la
sua Naturgemälde a tutto il globo.
Tornato a Parigi da Aquisgrana, Humboldt iniziò sul serio i
preparativi. Comprò libri e strumenti, si mise in contatto con persone
che avevano viaggiato in Asia e lavorò sul suo percorso esatto. Avrebbe
visitato per prima Costantinopoli e poi il vulcano dormiente del Monte
Ararat incappucciato di neve, vicino all’attuale confine fra l’Iran e la
Turchia. Da lì si sarebbe diretto a sud, attraversando via terra tutta la
Persia fino a Bandar Abbas nel Golfo persico, da dove sarebbe salpato
per l’India. Prendeva lezioni di arabo e di persiano e una parete della
camera da letto del suo piccolo appartamento parigino era ricoperta di
un’enorme carta dell’Asia. Ma, come sempre, per ogni cosa ci voleva
più tempo di quello che Humboldt aveva originariamente pensato12.
Non aveva ancora pubblicato tutti i risultati della sua esplorazione
dell’America Latina. Nel loro insieme, i libri sarebbero alla fine
diventati il Voyage to the Equinoctial Regions of the New Continent,
in 34 volumi – che comprendevano anche il resoconto di viaggio
Personal Narrative, in più volumi, ma anche libri più specialistici di
botanica, zoologia e astronomia. Alcuni, come il Saggio politico sul
regno della Nuova Spagna, contenevano poche illustrazioni ed erano
adatti a un pubblico più vasto, mentre altri, come Vues des Cordillères,
con magnifiche illustrazioni dei paesaggi e dei monumenti
dell’America Latina, erano grossi volumi che costavano una fortuna.
Nel complesso, il Voyage to the Equinoctial Regions of the New
Continent sarebbe diventata l’opera più costosa mai pubblicata
privatamente da uno scienziato. Humboldt aveva impiegato
disegnatori di carte, artisti, incisori e botanici per anni e le spese erano
state così elevate da mandarlo in rovina dal punto di vista finanziario.
Aveva ancora la sua rendita dal re di Prussia e dalle vendite dei suoi
libri, ma era costretto a vivere frugalmente. L’eredità era stata
completamente utilizzata. Aveva speso 50.000 talleri per la spedizione
e circa il doppio per le pubblicazioni e per vivere a Parigi.
Nessuna di queste cose fermò Humboldt. Ricevette prestiti da amici
e da banche e, soprattutto, scelse di ignorare la sua situazione
finanziaria, con l’indebitamento in costante crescita13.
Mentre lavorava ai suoi libri, Humboldt continuava i preparativi per
l’India. Spedì in Svizzera Karl Sigismund Kunth, nipote del suo
vecchio insegnante dell’infanzia Gottlob Johann Christian Kunth e il
botanico che si era fatto carico delle pubblicazioni botaniche quando
Bonpland se l’era presa troppo comoda. Il piano era che Kunth
avrebbe accompagnato Humboldt in India, ma doveva prima
esaminare le piante alpine in modo da poterle confrontare con quelle
del Monte Ararat e dell’Himalaya14. Il vecchio compagno di viaggi di
Humboldt, Aimé Bonpland, non era più disponibile. Quando
Joséphine Bonaparte era morta, nel maggio 1814, Bonpland aveva
smesso di lavorare nel suo giardino di Malmaison. Stufo di vivere a
Parigi – “tutta la mia esistenza è troppo prevedibile”15, aveva scritto
Bonpland alla sorella – sarebbe stato felicissimo di imbarcarsi in
nuove avventure, ma era diventato impaziente per la posticipazione
dei piani di viaggio di Humboldt.
Bonpland aveva sempre avuto il desiderio di tornare in Sud
America. Era arrivato a Londra per incontrare gli uomini di Simón
Bolivár e altri rivoluzionari che erano giunti in Gran Bretagna allo
scopo di cercare sostegno per la loro lotta contro la Spagna16.
Bonpland li aveva anche riforniti di libri e gli aveva procurato una
macchina tipografica nonché armi di contrabbando. Presto i
sudamericani entrarono in competizione per i servizi di Bonpland.
Francisco Antonio Zea, il botanico che sarebbe diventato vice-
presidente della Colombia sotto Bolivár, aveva chiesto a Bonpland di
proseguire il lavoro del botanico José Celestino Mutis deceduto a
Bogotá17. Al tempo stesso, i rappresentanti di Buenos Aires speravano
che Bonpland avrebbe istituito là un giardino botanico. La conoscenza
che Bonpland aveva delle piante potenzialmente utili dischiudeva
possibilità economiche per i nuovi paesi. Proprio come la Gran
Bretagna aveva fondato un giardino botanico a Calcutta come
magazzino per l’impero e per colture utili, anche gli argentini
progettavano la stessa cosa. Bonpland doveva aiutarli a introdurre
dall’Europa “nuovi metodi di pratiche agricole”18.
I rivoluzionari stavano tentando di attrarre in America Latina gli
scienziati europei. La scienza era come una nazione senza confini,
univa i popoli e – così speravano – avrebbe posto un’America Latina
indipendente sullo stesso piano dell’Europa. Quando Zea fu nominato
ministro plenipotenziario della Colombia in Gran Bretagna, ricevette
istruzioni perché non solo ottenesse un sostegno alla lotta politica, ma
promuovesse anche l’immigrazione di scienziati, artigiani e agricoltori.
“L’illustre Franklin ha ottenuto in Francia più vantaggi per il suo paese
attraverso le scienze naturali che attraverso tutti gli sforzi
diplomatici”19, ricordavano a Zea i suoi superiori.
La prospettiva che Bonpland emigrasse era stata particolarmente
esaltante per i rivoluzionari, data la sua ampia conoscenza
dell’America Latina. Tutti “vi aspettano impazientemente”20 aveva
detto uno di loro a Bonpland. Nella primavera 1815, mentre le truppe
realiste stavano riconquistando gran parte del territorio lungo il Rio
Magdalena nella Nuova Granada e l’esercito rivoluzionario era
decimato dalle diserzioni e dalle malattie, Bolivár stesso aveva trovato
il tempo per scrivere a Bonpland per offrirgli il posto di Mutis a
Bogotá. Ma alla fine Bonpland era rimasto troppo impressionato dalla
brutale guerra civile che infuriava nella Nuova Granada e in
Venezuela. Avrebbe lasciato la Francia alla fine del 1816, ma per
trasferirsi a Buenos Aires21.
Dodici anni dopo aver lasciato il Sud America con Humboldt,
Bonpland era sulla via del ritorno – questa volta carico di arboscelli di
piante da frutto, semi di ortaggi, viti e piante medicinali, per iniziare
una nuova vita. Dopo un paio d’anni a Buenos Aires, tuttavia,
Bonpland ne aveva abbastanza della vita di città. Non gli era mai
piaciuto il lavoro ordinato dello studioso. Era un botanico sul campo, a
cui piaceva trovare piante rare, ma era incapace quando si trattava di
classificarle. Nel corso degli anni, mise insieme 20.000 piante
essiccate, ma il suo erbario era un guazzabuglio, con esemplari
ammucchiati in casse, tenuti insieme alla meglio e mai montati su
carta22. Nel 1820, Bonpland si stabilì nei pressi del confine con il
Paraguay, dove raccoglieva piante e coltivava l’erba mate – foglie che
venivano preparate come il tè, bevanda molto diffusa in Sud America.
Il 25 novembre 1821, cinque anni esatti dopo aver lasciato la Francia
per l’Argentina, Humboldt gli scrisse, inviandogli soldi, ma anche
lamentandosi di non avere più saputo nulla del suo “vecchio
compagno di ventura”23. Bonpland non ricevette mai la lettera. L’8
dicembre 1821, due settimane dopo che Humboldt l’aveva spedita, 400
soldati paraguayani attraversarono il confine con l’Argentina e presero
d’assalto la fattoria di Bonpland a Santa Ana. Per ordine di José
Gaspar Rodríguez de Francia, il dittatore del Paraguay, gli uomini
uccisero i lavoratori di Bonpland e lo misero in catene24. La Francia
accusava Bonpland di spionaggio agricolo e temeva che la sua florida
piantagione entrasse in competizione con il commercio paraguayano
dell’erba mate. Bonpland fu tradotto in Paraguay e imprigionato.
I vecchi amici tentarono di aiutarlo. Bolívar, che all’epoca era a
Lima nel tentativo di cacciare gli spagnoli dal Perù, scrisse a Francia
chiedendo la liberazione di Bonpland e minacciando anche di marciare
sul Paraguay per soccorrerlo. La Francia poteva contare su di lui come
alleato, disse Bolívar, ma solo se “l’innocente che ho caro non
diventerà vittima di un’ingiustizia”25. Anche Humboldt fece quello che
poteva, attraverso i suoi contatti europei. Spedì in Paraguay lettere
firmate da famosi scienziati e chiese alla sua vecchia conoscenza
londinese, George Canning (che era ora ministro degli Esteri), di
coinvolgere il console britannico a Buenos Aires – ma Francia rifiutò
di rilasciare Bonpland26.
Nel frattempo, i piani di viaggio di Humboldt erano a un punto
morto. Malgrado il sostegno del principe reggente e di George
Canning, la Compagnia delle Indie Orientali continuava a rifiutare a
Humboldt l’ingresso in India. Era come se negli anni precedenti non
avesse fatto altro che girare a vuoto. Mentre gli anni trascorsi in
America Latina e quelli successivi erano stati segnati da un’attività
senza respiro e da una traiettoria costantemente proiettata in avanti,
Humboldt si sentiva ora soffocato dalla stagnazione. Non era più il
giovane esploratore eroico e affascinante celebrato per le sue
avventure, ma uno scienziato cinquantenne eminente e rispettato. La
maggior parte dei suoi coetanei di mezza età sarebbero stati ben felici
di essere ammirati e corteggiati per il loro sapere, ma Humboldt non
era pronto a fermarsi. C’era ancora tanto da fare. Era così irritabile che
un amico definiva la sua irrequietezza una “maladie centrifuge”27 – la
malattia centrifuga di Humboldt.
Frustrato, annoiato e agitato, Humboldt si sentiva ingannato e
incompreso. Annunciò allora che avrebbe voltato le spalle all’Europa.
Sarebbe andato in Messico, dove progettava di fondare un istituto per
le scienze. In Messico si sarebbe circondato di studiosi, disse a suo
fratello nell’ottobre 1822, e avrebbe goduto della “libertà di
pensiero”28. Almeno lì era “assai rispettato”29. Era assolutamente
certo che avrebbe passato il resto dei suoi giorni fuori dall’Europa.
Pochi anni dopo, Humboldt disse a Bolívar che ancora progettava di
trasferirsi in America Latina30. Nessuno sapeva davvero che cosa
Humboldt volesse o dove intendesse andare. Wilhelm trasse le somme
affermando: “Alexander immagina sempre cose grandiose, ma poi
neanche la metà di esse si realizza”31.
La Compagnia delle Indie Orientali, forse, fu poco collaborativa, ma
tutti gli altri in Gran Bretagna erano entusiasti di Humboldt. Molti
degli scienziati inglesi che aveva incontrato a Londra andavano ora a
trovarlo a Parigi. Il famoso chimico Humphry Davy venne di nuovo e
così fecero John Herschel, figlio dell’astronomo William Herschel, e
Charles Babbage, il matematico salutato oggi come il padre del
computer32. Humboldt “traeva piacere dalle visite”33, disse Babbage,
indipendentemente dal fatto che il visitatore fosse famoso o
sconosciuto. Il geologo oxfordiano William Buckland era altrettanto
entusiasta di incontrare Humboldt a Parigi. Non aveva mai sentito
nessuno parlare più veloce o con maggiore abilità, scrisse Buckland a
un amico34. Come sempre, Humboldt era generoso con le sue
conoscenze e le sue collezioni e dischiuse a Buckland le sue vetrine e i
suoi taccuini.

Carta che mostra le isoterme

Uno degli incontri scientifici più importanti fu quello con Charles


Lyell35, il geologo britannico la cui opera avrebbe aiutato Charles
Darwin a formulare le proprie idee sull’evoluzione. Affascinato dalla
formazione della terra, Lyell aveva viaggiato attraverso tutta l’Europa
all’inizio degli anni venti dell’Ottocento per indagare le montagne, i
vulcani e altre formazioni geologiche per il suo lavoro rivoluzionario,
Principles of Geology. Nell’estate del 1823, più o meno nello stesso
periodo in cui la notizia dell’imprigionamento di Bonpland aveva
raggiunto Bolívar, il venticinquenne Lyell, pieno di entusiasmo, si recò
a Parigi con la valigia piena di lettere di presentazione a Humboldt.
Da quando era tornato dall’America Latina, uno dei progetti di
Humboldt era stato quello di raccogliere e confrontare dati sugli strati
rocciosi di tutto il globo. Dopo quasi due decenni, aveva finalmente
pubblicato i risultati nel suo Saggio geognostico sulla giacitura delle
rocce pochi mesi prima che Lyell giungesse a Parigi. Era esattamente il
tipo di informazioni di cui Lyell aveva bisogno per le sue ricerche. Il
Saggio geognostico, scrisse Lyell, fu “per me una lezione
straordinaria”36. Esso avrebbe collocato Humboldt ai massimi livelli
del mondo scientifico, riteneva, anche se non avesse pubblicato
nient’altro. Nel corso dei successivi due mesi, i due uomini trascorsero
insieme diversi pomeriggi a parlare di geologia, delle osservazioni di
Humboldt sul Vesuvio e dei comuni amici in Gran Bretagna. L’inglese
di Humboldt era eccellente, osservò Lyell37. “Hoombowl”38, scrisse
Lyell al padre – ovvero il modo in cui il servitore domestico francese di
Humboldt pronunciava il suo nome – gli aveva fornito una quantità di
materiale e di dati utili.
Discussero anche dell’invenzione humboldtiana delle isoterme, le
linee che vediamo oggi sulle carte meteorologiche e che collegano i
diversi punti geografici del globo che registrano le stesse
temperature*. Humboldt aveva tirato fuori l’abbozzo di un saggio Des
Lignes isothermes et de la distribution de la chaleur sur le globe
(1817) allo scopo di visualizzare le strutture climatiche globali. Il
saggio avrebbe aiutato Lyell a costruire le sue teorie e segnò anche
l’inizio di una nuova interpretazione del clima39 – su cui si basarono
tutti gli studi successivi sulla distribuzione del calore.
Fino alle isoterme di Humboldt, i dati meteorologici erano stati
raccolti in lunghe tavole delle temperature – liste infinite di siti
geografici diversi e delle loro condizioni climatiche, che fornivano le
temperature esatte, ma erano difficili da confrontare. La
visualizzazione grafica degli stessi dati da parte di Humboldt era tanto
innovativa quanto semplice. Invece di tavole che confondevano, uno
sguardo alla carta delle isoterme rivelava un mondo nuovo di
configurazioni climatiche che gravavano intorno alla terra in fasce
ondulate. Humboldt riteneva che questo fosse il fondamento della
“vergleichende Klimatologie”40 – climatologia comparata. Aveva
ragione, perché gli scienziati odierni ancora la usano per comprendere
e descrivere il cambiamento climatico e il riscaldamento globale. Le
isoterme consentirono a Humboldt e ai successori di considerare
modelli a livello globale. Lyell utilizzò il concetto per indagare i
cambiamenti geologici in relazione ai cambiamenti climatici41.
L’argomentazione fondamentale dei Principles of Geology di Lyell
era che la terra è stata plasmata gradualmente da piccoli cambiamenti
piuttosto che da eventi catastrofici improvvisi, quali terremoti o
inondazioni, come ritenevano altri scienziati. Lyell giunse a credere
che queste forze lente fossero ancora attive, il che significava che per
comprendere il passato doveva prendere in considerazione le
condizioni attuali. Per argomentare la sua tesi sull’influenza delle forze
graduali e distanziare il pensiero scientifico dalle teorie più
apocalittiche sull’origine della terra, Lyell doveva spiegare come la
superficie del pianeta si fosse raffreddata gradualmente. Come disse in
seguito a un amico, Lyell mentre lavorava alla sua teoria “si
documentò” su Humboldt42.
L’analisi dettagliata di Humboldt giungeva alla sorprendente
conclusione che le temperature non erano le stesse lungo la stessa
latitudine, come si era supposto in precedenza. Anche l’altitudine, le
terre emerse, la prossimità all’oceano e i venti influenzavano la
distribuzione del calore43. Le temperature erano più elevate sulla
terra che sul mare, ma anche più basse a quote più elevate. Ciò
significava, concluse Lyell, che laddove le forze geologiche avevano
sollevato la terra le temperature si erano abbassate di conseguenza44.
Nel lungo periodo, sosteneva, questo spostamento verso l’alto
produceva un effetto raffreddante sul clima mondiale – la terra
cambiava geologicamente e lo stesso faceva il clima. Anni dopo,
sollecitato da un recensore di Principles of Geology a indicare il
momento della “nascita” delle sue teorie, Lyell disse che era stato
leggendo il saggio di Humboldt sulle isoterme – “date a Humboldt il
dovuto riconoscimento per il suo bel saggio”45. Nel suo lavoro, disse
Lyell, aveva semplicemente fornito un’“applicazione geologica” alle
teorie di Humboldt sul clima46.

Appena poteva, Humboldt aiutava i giovani scienziati,


intellettualmente ma anche finanziariamente, per quanto difficile fosse
la sua situazione, tanto che la cognata Caroline temeva che i suoi
presunti amici ne sfruttassero la bontà – “lui mangia pane raffermo
perché loro possano mangiare carne”47. Ma Humboldt sembrava non
darsene cura. Era il mozzo di un filatoio che perennemente girava e
creava connessioni.
Scrisse a Simón Bolívar per raccomandargli un giovane scienziato
francese che progettava di fare un viaggio in Sud America e lo
equipaggiò con i suoi strumenti48. Allo stesso modo, presentò a
Thomas Jefferson un botanico portoghese che intendeva emigrare
negli Stati Uniti49. Il chimico tedesco Justus von Liebig, che in seguito
sarebbe diventato famoso per la scoperta dell’importanza dell’azoto
come nutriente delle piante, raccontò come l’incontro con Humboldt a
Parigi avesse “posto le basi della mia futura carriera”50. Anche Albert
Gallatin, l’ex segretario al Tesoro americano, che aveva incontrato
Humboldt per la prima volta a Washington e poi di nuovo a Londra e a
Parigi, si sentì così ispirato dall’entusiasmo di Humboldt per il popolo
indigeno che si buttò nello studio dei nativi americani degli Stati Uniti.
Oggi Gallatin è considerato come il fondatore dell’etnologia
americana; la ragione del suo interesse, scrisse Gallatin, era “la
richiesta di un amico insigne, il barone Alexander von Humboldt”51.
Mentre aiutava gli amici e colleghi a promuovere le loro carriere e i
loro viaggi, le speranze di Humboldt di ottenere il permesso di entrare
in India si erano ridotte al lumicino. Alimentava la sua passione per i
viaggi con viaggetti attraverso l’Europa – in Svizzera, in Francia, in
Italia e in Austria – ma non era la stessa cosa. Era infelice. Diventava,
inoltre, sempre più difficile giustificare agli occhi del re prussiano la
sua decisione di vivere a Parigi. Dopo il ritorno di Humboldt
dall’America Latina due decenni prima, Federico Guglielmo III lo
aveva sollecitato ripetutamente perché tornasse a Berlino. Per
vent’anni il re gli aveva pagato uno stipendio annuale senza clausole
restrittive. Humboldt aveva sempre argomentato che aveva bisogno
dell’ambiente scientifico parigino per scrivere i suoi libri, ma il clima,
in città e in Francia, era cambiato.
Dopo che Napoleone era stato sconfitto e relegato nella remota isola
di Sant’Elena, nel 1815, la monarchia borbonica era stata reintegrata
con l’incoronazione di Luigi XVIII* – fratello di Luigi XVI che era
stato ghigliottinato durante la rivoluzione francese. Sebbene la Francia
non fosse tornata all’assolutismo, il paese che aveva sollevato la
fiaccola della libertà e dell’uguaglianza era diventato una monarchia
costituzionale. Solo l’1% della popolazione francese aveva il diritto di
eleggere la camera bassa del parlamento. Sebbene Luigi XVIII
rispettasse alcune concezioni liberali, era arrivato in Francia dall’esilio
con un seguito di emigrati ultra-realisti che volevano tornare alle
vecchie maniere dell’Ancien Régime pre-rivoluzionario. Humboldt li
aveva visti tornare e aveva visto come ardessero di odio e di desiderio
di rivincita. “La loro tendenza alla monarchia assoluta è
incontenibile”52, aveva scritto da Parigi Charles Lyell al padre.
Poi, nel 1820, il nipote del re, il Duca de Berry – terzo nella linea di
accesso al trono – era stato assassinato da un bonapartista. Con ciò
veniva meno ogni argine al montare della marea realista. La censura fu
inasprita, le persone potevano essere trattenute senza un processo e i
più ricchi godevano di un doppio voto. Nel 1823, gli ultra-realisti
ottennero la maggioranza alla camera bassa del parlamento.
Humboldt era profondamente turbato. Come disse a un visitatore
americano, bastava dare un’occhiata al Journal des débats – un
giornale fondato nel 1789, durante la Rivoluzione francese – per
vedere che la libertà di stampa era stata limitata. Humboldt, inoltre,
cominciava a sentirsi a disagio di fronte al modo in cui la religione, con
tutti i suoi vincoli sul pensiero scientifico, stesse riaffermando la sua
presa sulla società francese53. Con il ritorno degli ultra-realisti, il
potere della Chiesa cattolica aumentava. Intorno alla metà degli venti
nuove guglie di chiese spuntavano nel cielo parigino.
Parigi era “meno incline che mai”54 a essere il centro delle scienze,
scrisse Humboldt a un amico di Ginevra, perché i fondi per i
laboratori, per la ricerca e l’insegnamento venivano tagliati. Lo spirito
di ricerca veniva soffocato poiché gli scienziati erano costretti a cercare
d’ingraziarsi il nuovo re. Gli eruditi erano diventati “strumenti
flessibili”55 nelle mani di politici e principi, disse Humboldt a Charles
Lyell nel 1823, e anche il grande Georges Cuvier aveva sacrificato il suo
genio di naturalista alla richiesta di “nastrini, croci, titoli e favori della
Corte”. A Parigi c’erano tanti conflitti politici che le posizioni del
governo sembravano cambiare così rapidamente come nel gioco delle
sedie musicali. Tutte le persone che ora incontrava, disse Humboldt,
erano ministri o ex ministri. “Sono sparpagliati dappertutto come le
foglie in autunno”, disse a Lyell, “e prima che uno strato abbia il tempo
di putrefarsi, è coperto da un altro e un altro ancora.”56
Gli scienziati francesi temevano che Parigi si avviasse a perdere il
suo ruolo di centro del pensiero scientifico innovativo. All’Académie
des sciences, disse Humboldt, gli eruditi facevano poco e quel poco che
facevano spesso finiva in dispute. Peggio ancora, gli studiosi avevano
costituito un comitato segreto per epurare la biblioteca – facendo
sparire i libri che propugnavano idee liberali, come quelli scritti da
pensatori dell’Illuminismo quali Jean-Jacques Rousseau e Voltaire.
Quando Luigi XVIII morì, senza eredi, nel settembre 1824, divenne re
il fratello Carlo X, capo degli ultra-realisti. Tutti coloro che credevano
nella libertà e nei valori della rivoluzione capirono che il clima
intellettuale non poteva che diventare sempre più repressivo.
Anche Humboldt era cambiato. A cinquantacinque anni, i capelli
castano scuri si erano fatti grigio argento e il braccio destro era quasi
paralizzato dai reumatismi – l’effetto a scoppio ritardato, spiegò agli
amici, del dormire sul terreno umido nella foresta pluviale
dell’Orinoco. I suoi abiti erano fuori moda, tagliati nello stile degli
anni subito dopo la Rivoluzione francese: calzoni rigati attillati, gilet
giallo, frac blu, foulard bianco, scarpe alte e un logoro cappello nero.
Nessuno a Parigi, osservò un amico, vestiva più in quel modo. Le
ragioni di Humboldt erano sia politiche che patrimoniali. Con l’eredità
da tempo sparita, viveva in un piccolo appartamento molto semplice
che dava sulla Senna e consisteva solo di una camera da letto
scarsamente arredata e di uno studio. Humboldt non aveva né i soldi
né il gusto per il lusso, i vestiti eleganti o gli arredi opulenti57.
Alla fine, nell’autunno del 1826, dopo più di due decenni, Federico
Guglielmo III perse la pazienza. Scrisse a Humboldt: “dovete avere già
completato le pubblicazioni che ritenevate di poter realizzare in
maniera soddisfacente solo a Parigi”. Il re non poteva più rinnovargli il
permesso di stare in Francia – un paese che, in ogni caso, “dovrebbe
essere oggetto di odio per ogni vero prussiano”. Quando Humboldt
lesse che il re si aspettava ora un suo “rapido rientro”, non ebbe
dubbio che si trattava di un ordine58.
Humboldt aveva un disperato bisogno dei soldi del suo stipendio
annuale, perché il costo delle pubblicazioni l’aveva lasciato, ammise,
“povero in canna”59. Doveva vivere di quello che guadagnava, ma
quando si trattava delle sue finanze era un inetto. “La sola cosa in cielo
e in terra che M. Humboldt non comprende”, aveva osservato la sua
traduttrice inglese, “sono gli affari”60.
Parigi era stata la sua dimora per più di vent’anni e lì vivevano i suoi
amici più stretti. Era una decisione dolorosa, ma alla fine Humboldt
accettò di trasferirsi a Berlino – ma solo a condizione che gli fosse
consentito di recarsi a Parigi regolarmente per qualche mese alla volta
per continuare le sue ricerche. Non era facile, scrisse al matematico
tedesco Carl Friedrich Gauss nel febbraio 1827, rinunciare alla libertà
e alla vita scientifica61. Dopo aver accusato, di recente, Georges Cuvier
di aver tradito lo spirito rivoluzionario, Humboldt divenne ora lui
stesso un cortigiano, entrando in un mondo in cui avrebbe dovuto
trovare un equilibrio accettabile fra le sue idee politiche liberali e i
doveri reali. Sarebbe stato quasi impossibile, temeva, trovare “un
punto intermedio fra le oscillanti opinioni”62.

Il 14 aprile 1827, Humboldt lasciò Parigi per Berlino, non senza una
delle sue solite deviazioni. Passò per Londra, forse in un ultimo
disperato tentativo di convincere la Compagnia delle Indie Orientali a
concedergli il permesso di esplorare l’India. Erano passati nove anni
dalla sua ultima visita, nel 1818, quando era stato ospite del fratello
Wilhelm. Da allora Wilhelm era stato richiamato dalla sua
destinazione diplomatica in Gran Bretagna e viveva ora a Berlino*, ma
Humboldt riprese velocemente i contatti con le vecchie conoscenze
britanniche. Cercò di ottenere il massimo dalla sua visita di tre
settimane.
Humboldt passava da una persona all’altra – politici, scienziati e un
“gruppo di aristocratici”63. Alla Royal Society Humboldt incontrò i
vecchi amici John Herschel e Charles Babbage e partecipò a una
riunione nella quale uno dei colleghi presentava dieci carte che
facevano parte di un nuovo atlante dell’India commissionato dalla
Compagnia delle Indie Orientali – un doloroso richiamo a ciò che
Humboldt non era riuscito a fare64. Pranzò con Mary Somerville*65,
una delle poche scienziate in Europa e andò a trovare il botanico
Robert Brown al giardino botanico di Kew, a ovest di Londra. Brown
aveva esplorato l’Australia quale uno dei collezionisti di piante di
Joseph Bank e Humboldt era impaziente di apprendere qualcosa sulla
flora degli antipodi.
Humboldt fu anche invitato a un party elegante presso la Royal
Academy e cenò con la sua vecchia conoscenza George Canning, che
era diventato primo ministro britannico da appena due settimane66.
Alla cena con Canning Humboldt ebbe il graditissimo piacere di
incontrare il vecchio amico di Washington, Albert Gallatin, che era ora
ministro plenipotenziario americano a Londra. Era solo l’attenzione
dell’aristocrazia britannica ad annoiare Humboldt. Parigi era una città
addormentata in confronto ai “miei tormenti qui”, scrisse a un amico,
perché ognuno sembrava aspirare a un pezzo di lui. A Londra, “ogni
frase comincia”, si lamentò, con “non vorrete partire senza aver visto
la mia residenza di campagna: è solo a poco più di cinquanta
chilometri da Londra”67.
Il giorno più eccitante per Humboldt, tuttavia, fu quello passato non
con scienziati o politici, ma con un giovane ingegnere, Isambard
Kingdom Brunel, che aveva invitato Humboldt a osservare la
costruzione del primo tunnel sotto il Tamigi. L’idea di costruire un
tunnel sotto un fiume era tanto audace quanto rischiosa, e nessuno era
mai riuscito in questa impresa.
Le condizioni del Tamigi non potevano essere peggiori, perché il
letto del fiume e il terreno sottostante erano fatti di sabbia e di argilla
morbida. Il padre di Brunel, Marc, aveva inventato un metodo
ingegnoso per costruire un tunnel: uno scudo di ferro dell’altezza e
larghezza del canale del tunnel. Ispirato alla teredo navalis che perfora
le tavole di legno più dure proteggendosi la testa con uno scudo, Marc
Brunel aveva progettato un enorme congegno che consentiva di
scavare il tunnel puntellando al tempo stesso il soffitto e tenendo
ferma l’argilla morbida. Mentre gli operai spostavano lo scudo
metallico davanti a loro sotto il letto del fiume, costruivano il guscio di
mattoni del tunnel dietro di loro. Centimetro dopo centimetro e passo
dopo passo, lentamente la lunghezza del tunnel cresceva. I lavori
erano iniziati due anni prima e nel momento in cui Humboldt giunse a
Londra gli uomini di Brunel erano giunti quasi alla metà del tunnel
lungo 400 metri68.
Il lavoro era insidioso e il diario di Marc Brunel era pieno di pensieri
di timore e preoccupazione: “l’ansietà cresce di giorno in giorno”, “le
cose stanno peggiorando ogni giorno” oppure “ogni mattina mi dico:
un altro giorno di pericolo è passato”69. Il figlio Isambard, che era
stato nominato “ingegnere interno” nel gennaio 1827 a vent’anni,
apportava al progetto la sua sconfinata energia e fiducia. Ma l’opera
era impegnativa. Agli inizi di aprile, poco prima che Humboldt
arrivasse, sempre più acqua filtrava nel tunnel e Isambard impiegava
quaranta uomini per pomparla e tenere sotto controllo l’infiltrazione.
“Sulle loro teste” c’era solo “limo argilloso”70, era la preoccupazione di
Marc Brunel, il quale temeva che il tunnel potesse collassare in
qualsiasi momento. Isambard voleva ispezionare la costruzione
dall’esterno e chiese a Humboldt di accompagnarlo. Era pericoloso,
ma Humboldt non se ne preoccupava – era troppo eccitante per
rinunciarvi. Sperava anche di misurare la pressione atmosferica sul
fondo del fiume per confrontarla con le sue misurazioni sulle Ande.

La campana d’immersione in cui Humboldt discese con Brunel sul fondo del Tamigi per
vedere la costruzione del tunnel

Il 26 aprile un’enorme campana d’immersione di metallo, che pesava


quasi due tonnellate, fu calata con una gru da una nave. Battelli pieni
di spettatori curiosi si affollavano sulla superficie del fiume mentre la
campana, con Brunel e Humboldt dentro, veniva calata a una
profondità di circa 11 metri. L’aria era fornita attraverso un tubo di
cuoio inserito alla sommità e due spesse finestre di vetro consentivano
di guardare nell’acqua torbida del fiume. Mentre scendevano,
Humboldt trovò quasi intollerabile la pressione alle orecchie, ma ci si
abituò dopo qualche minuto71. Indossavano pesanti cappotti e
assomigliavano a degli “esquimesi”72, scrisse Humboldt a François
Arago a Parigi. Giù sul fondo del fiume, con il tunnel sotto di loro e
solo acqua di sopra, era paurosamente buio, salvo il debole barlume
delle loro lanterne. Trascorsero sott’acqua quaranta minuti, ma
quando risalirono la variazione nella pressione dell’acqua provocò la
rottura dei vasi sanguigni nel naso e nella gola di Humboldt. Nelle
successive ventiquattro ore sputò sangue, proprio come quando aveva
scalato il Chimborazo. Brunel non sanguinava, osservò Humboldt, e
disse scherzando che questo era evidentemente “un privilegio dei
prussiani”73.
Due giorni dopo, alcune parti del tunnel cedettero e poi, a metà
maggio, il fondo del fiume sopra il tunnel sprofondò completamente,
creando un enorme buco attraverso cui l’acqua penetrò dentro74.
Incredibilmente, non ci furono perdite di vite umane e, dopo che
furono fatte le riparazioni, i lavori ripresero. A quel punto Humboldt
aveva lasciato Londra ed era giunto a Berlino.
Era ora lo scienziato più famoso d’Europa, ammirato in egual
misura da colleghi, poeti e pensatori. Un uomo, tuttavia, doveva
ancora leggere i suoi lavori. L’uomo era il diciottenne Charles Darwin
che, proprio nel momento in cui Humboldt veniva festeggiato a
Londra, aveva rinunciato agli studi di medicina all’università di
Edimburgo. Robert Darwin, il padre, era furioso. “Non pensi ad altro
che ad andare a caccia, ai cani e ad acchiappare topi”, scrisse al figlio,
“e sarai una sciagura per te e per tutta la famiglia.”75

1. In giugno 1814, novembre 1817 e settembre 1818; vedi anche WH a CH, 22 e 25 settembre
1818, WH CH Lettere 1910-16, vol. 6, pp. 320, 323; “Fashionable Arrivals”, Morning Post, 25
settembre 1818; Théodoridès 1966, pp. 43-4.
2. AH a Karl August von Hardenberg, 18 ottobre 1818, Beck 1959-61, vol. 2, p. 47.
3. Ibid.
4. WH a CH, 9 ottobre 1818, WH CH Lettere 1910-16, vol. 6, p. 336.
5. Morning Chronicle, 28 settembre 1818.
6. Daudet 1912, p. 329.
7. The Times, 20 ottobre 1818.
8. Ibid.; vedi anche Biermann e Schwarz 2001a, senza numeri di pagina.
9. The Times, 20 ottobre 1818.
10. AH a Karl August von Hardenberg, 18 ottobre 1818, Beck 1959-61, vol. 2, p. 47.
11. Federico Guglielmo III a AH, 19 ottobre 1818, ivi, p. 48; The Times, 31 ottobre 1818.
12. AH a Karl August von Hardenberg, 30 luglio 1819; AH a WH, 22 gennaio 1820, Daudet
1912, pp. 346, 355; Gustav Parthey, febbraio 1821, Beck 1959-61, vol. 2, p. 51.
13. Eichhorn 1959, pp. 186, 205 sgg.
14. AH a Marc-Auguste Pictet, 11 luglio 1819, Beck 1959-61, vol. 2, p. 50.
15. Bonpland a Olive Gallacheau, 6 luglio 1814, Bell 2010, p. 239.
16. Ivi, pp. 22, 239; Schulz 1960, p. 595.
17. Francisco Antonio Zea a Bonpland, 4 marzo 1815, Bell 2010, p. 22.
18. Schneppen 2002, p. 12.
19. José Rafael Revenga a Francisco Antonio Zea, “Instrucciones a que de orden del
excelentísimo señor presidente habrá de arreglar su conducta el E.S. Francisco Zea en la
misión que se le ha conferido por el gobierno de Colombia para ante los del continente de
Europa y de los Estados unidos de America,” Bogotá, 24 dicembre 1819, Archivo General de la
Nación, Colombia, Ministerio de Relaciones Exteriores, Delegaciones – Transferencia 2, 242,
315r-320v. Vorrei ringraziare Ernesto Bassi per questo riferimento.
20. Manuel Palacio a Bonpland, 31 agosto 1815, Bell 2010, p. 22.
21. Bolívar a Bonpland, 25 febbraio 1815, Schulz 1960, pp. 589, 595; Schneppen 2002, p. 12;
Bell 2010, p. 25.
22. William Baldwin, marzo 1818, Bell 2010, p. 33.
23. AH a Bonpland, 25 novembre 1821, AH Bonpland Lettere 2004, p. 79.
24. Schneppen 2002, p. 12.
25. Bolívar a José Gaspar Rodríguez de Francia, 22 ottobre 1823, ivi, p. 17.
26. Ivi, pp. 18-21; AH a Bolívar, 21 marzo 1826, O’Leary 1879-88, vol. 12, p. 237.
27. AH a Jean Baptiste Joseph Delambre, 29 luglio 1803, Bruhns 1873, vol. 1, p. 333.
28. AH a WH, 17 ottobre 1822, Biermann 1987, p. 198.
29. Ibid.
30. AH a Bolívar, 21 marzo 1826, O’Leary 1879-88, vol. 12, p. 237; WH a CH, 2 settembre
1824, WH CH Lettere 1910-16, vol. 7, p. 218.
31. WH a CH, 2 settembre 1824, ivi.
32. Davy pranzò con AH il 19 aprile 1817, AH Lettere USA 2004, p. 146; Charles Babbage e
John Herschel in 1819, Babbage 1994, p. 145.
33. Charles Babbage, 1819, Babbage 1994, p. 147.
34. William Buckland a John Nicholl, 1820, Buckland 1894, p. 37.
35. Charles Lyell a Charles Lyell sen., 21 e 28 giugno 1823, Lyell 1881, vol. 1, pp. 122-4.
36. Charles Lyell a Charles Lyell sen., 28 agosto 1823, ivi, p. 146.
37. Charles Lyell a Charles Lyell sen., 3 luglio 1823, ivi, p. 126.
38. Charles Lyell a Charles Lyell sen., 28 giugno 1823, ivi, p. 124.
39. Körber 1959, p. 301.
40. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 312; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 340.
41. Charles Lyell a Poulett Scrope, 14 giugno 1830, Lyell 1881, vol. 1, p. 270; vedi anche Lyell
1830, vol. 1, p. 122.
42. Charles Lyell a Gideon Mantell, 15 febbraio 1830, Lyell 1881, vol. 1, p. 262.
43. Körber 1959, pp. 299 sgg.
44. Lyell 1830, vol. 1, p. 122; vedi anche Wilson 1972, pp. 284 sgg.
45. Charles Lyell a Poulett Scrope, 14 giugno 1830, Lyell 1881, vol. 1, p. 269.
46. Ivi, p. 270.
47. CH a WH, 14 aprile 1809, WH CH Lettere 1910-16, vol. 3, p. 131; vedi anche Carl Vogt,
gennaio 1845, Beck 1959, p. 201.
48. AH a Simón Bolívar, 29 luglio 1822, Minguet 1986, p. 749; era Jean-Baptiste Boussingault,
Podach 1959, pp. 208-9.
49. AH a Jefferson, 20 dicembre 1811, TJ Papers RS, vol. 4, p. 352; era José Corrêa da Serra;
AH presentò anche l’italiano Carlo de Vidua a Jefferson nel 1825, AH a Jefferson, 22 febbraio
1825, Terra 1959, p. 795 e AH Lettere USA 2004, pp. 122-3.
50. Justus von Liebig su AH, Terra 1955, p. 265.
51. Gallatin 1836, p. 1.
52. Charles Lyell a Charles Lyell sen., 28 agosto 1823, Lyell 1881 vol. 1, p. 142.
53. AH lo disse a George Bancroft, 1820, Terra 1955, p. 266; AH a Charles Lyell in 1823,
raccontato da Charles Lyell a Charles Lyell sen., 8 luglio 1823, Lyell 1881, vol. 1, p. 128.
54. AH ad Auguste-Pyrame Decandolle, 1818, Bruhns 1873, vol. 2, p. 38; per la scienza a
Parigi, vedi Päßler 2009, p. 30 e Terra 1955, p. 251.
55. AH a Charles Lyell in 1823, raccontato da Charles Lyell a Charles Lyell sen., 8 luglio 1823,
Lyell 1881, vol. 1, p. 127.
56. Ibid.
57. Jean Baptiste Boussingault, 1822, Podach 1959, pp. 208-9.
58. Re Federico Guglielmo III a AH, autunno 1826, Bruhns 1873, vol. 2, p. 95.
59. AH a WH, 17 dicembre 1822, AH WH Lettere 1880, p. 112; per le finanze di AH, vedi
Eichorn 1959, p. 206.
60. Helen Maria Williams a Henry Crabb Robinson, 25 marzo 1818, Leask 2001, p. 225.
61. AH a Carl Friedrich Gauß, 16 febbraio 1827, AH Gauß Lettere 1977, p. 30.
62. AH a Georg von Cotta, 28 marzo 1833, AH Cotta Lettere 2009, p. 178.
63. AH a Arago, 30 aprile 1827, AH Arago Lettere 1907, p. 23.
64. 3 maggio 1827, RS Journal Book, vol. XLV, pp. 73 sgg. e 3 maggio 1827, Elenco dei
partecipanti, RS Dining Club, vol. 21, senza numeri di pagina; AH a Arago, 30 aprile 1827, AH
Arago Lettere 1907, pp. 22-4.
65. (nota a piè di pagina) Patterson 1969, p. 311; Patterson 1974, p. 272.
66. AH a Arago, 30 aprile 1827, AH Arago Lettere 1907, p. 28; Canning divenne Primo
Ministro il 10 aprile e il pranzo si tenne il 23 aprile 1827.
67. AH a Achille Valenciennes, 4 maggio 1827, Théodoridès 1966, p. 46.
68. Buchanan 2002, pp. 22 sgg.; Pudney 1974, pp. 16 sgg.; Brunel 1870, pp. 24 sgg.
69. Marc Brunel, 4 gennaio, 21 marzo, 29 marzo 1827, Brunel 1870, pp. 25-26.
70. Marc Brunel, 29 marzo 1827, ivi, p. 26.
71. AH a Arago, 30 aprile 1827, AH Arago Lettere 1907, pp. 24 sgg.; Pudney 1974, pp. 16-17;
AH a William Buckland, 26 aprile 1827, American Philosophical Society (copia presso
l’Alexander-von-Humboldt-Forschungstelle, Berlino); Fürst Pückler Muskau, 20 agosto 1827,
Pückler Muskau 1833, p. 177.
72. AH a Arago, 30 aprile 1827, AH Arago Lettere 1907, p. 25.
73. Ibid.
74. Marc Brunel, 29 aprile e 18 maggio 1827, Brunel 1870, p. 27; Buchanan 2002, p. 25.
75. Robert Darwin a Charles Darwin, Darwin 1958, p. 28.
*. O, nel caso delle isobare, le linee rappresentano la pressione atmosferica.
*. Durante il regno di Napoleone, Luigi XVIII aveva vissuto in esilio in Prussia, in Russia e in
Gran Bretagna.
*. Wilhelm aveva lasciato Londra nel 1818. Aveva poi occupato per breve tempo una posizione
ministeriale a Berlino, ma era rimasto deluso dalla politica reazionaria della Prussia. Alla fine
del 1819, Wilhelm si era ritirato dalla carriera politica e si era trasferito nella tenuta di famiglia
a Tegel, che aveva ereditato.
*. WLa quarantaseienne Mary Somerville era una famosa matematica e un’intellettuale
poliedrica. Nel 1827 stava lavorando alla traduzione in inglese del libro di Laplace Mécanique
céleste. La sua scrittura era così chiara che il libro divenne un bestseller in Gran Bretagna. Era
la sola donna, diceva Laplace, “che poteva comprendere e correggere le sue opere”. Altri la
definivano la “regina della scienza”. In seguito avrebbe pubblicato un libro intitolato Physical
Geography, che presentava molte somiglianze con l’approccio di Humboldt alla scienza e al
mondo naturale.
PARTE IV

Influenza: la diffusione delle idee


Capitolo quindicesimo

Ritorno a Berlino

Alexander von Humboldt arrivò a Berlino il 12 maggio 1827. Aveva


cinquantasette anni e la città non gli piaceva, come non gli piaceva
vent’anni prima. Sapeva che la sua vita non sarebbe più stata la stessa.
D’ora in poi, gran parte della sua giornata sarebbe stata occupata dalla
“tediosa, agitata vita di Corte”1. Federico Guglielmo III aveva 250
ciambellani, per la maggior parte dei quali il titolo era solamente
onorario. Si pensava che Humboldt sarebbe entrato a far parte della
cerchia ristretta della corte, ma senza un ruolo politico. Ci si aspettava
che sarebbe stato l’intrattenitore intellettuale del re e il lettore del
dopo cena2. Humboldt sopravviveva dietro una facciata di sorrisi e di
chiacchiere. L’uomo che trent’anni prima aveva scritto che “la vita di
corte priva del suo genio e della sua libertà anche il più intellettuale
degli uomini”3, si trovava ora vincolato alla routine reale. Era l’inizio
di quella che Humboldt chiamava “l’oscillazione del pendolo”4 – una
vita in cui correre dietro ai movimenti del re da un castello alla
successiva residenza estiva e poi di nuovo a Berlino, sempre in viaggio
e sempre carico di manoscritti e scatoloni pieni di libri e di taccuini.
Gli unici momenti che aveva per se stesso e per scrivere i suoi libri
erano fra la mezzanotte e le tre del mattino.
Humboldt tornava in un paese che era diventato uno Stato di
polizia, in cui la censura faceva parte della vita quotidiana. Gli incontri
pubblici – anche le riunioni scientifiche – erano guardate con grande
sospetto e gli organismi studenteschi erano stati sciolti coattivamente.
La Prussia non aveva una costituzione né un parlamento nazionale,
ma solo alcune assemblee provinciali che avevano funzioni consultive
e non potevano fare leggi o imporre tasse. Ogni decisione era
sottoposta alla stretta supervisione reale. L’intera città mostrava un
carattere decisamente militare. C’erano soldati di guardia in pressoché
tutti gli edifici pubblici e i visitatori riferivano di perenni rullar di
tamburi e parate militari. Sembrava che in città ci fossero più soldati
che civili. Un turista osservò le continue marce militari e “la continua
esibizione di uniformi di ogni tipo, in tutte le aree pubbliche”5.

Il castello di Berlino

Senza alcuna influenza a corte, Humboldt era deciso a infondere a


Berlino almeno lo spirito della curiosità intellettuale. Ce n’era urgente
bisogno. Già da giovane, quando aveva lavorato come ispettore
minerario, Humboldt aveva fondato e finanziato privatamente una
scuola per minatori. Come il fratello Wilhelm, che pressoché da solo,
due decenni prima, aveva istituito in Prussia un nuovo sistema
scolastico, Alexander credeva che l’istruzione fosse il fondamento di
una società libera e felice. Per molti questo era un pensiero pericoloso.
In Gran Bretagna, per esempio, si pubblicavano pamphlet in cui si
ammoniva che la conoscenza innalzava il povero “al di sopra dei suoi
doveri di umiltà e laboriosità”6.
Humboldt credeva nel potere dell’apprendimento e libri come il suo
Quadri della natura erano scritti per un pubblico generico e non per
gli scienziati che se ne stavano nelle loro torri d’avorio. Non appena
arrivò a Berlino, Humboldt tentò di istituire una scuola di chimica e
matematica presso l’università7. Era in corrispondenza epistolare con
alcuni colleghi riguardo alla opportunità di istituire laboratori e ai
vantaggi di un politecnico. Convinse inoltre il re che Berlino aveva
bisogno di un nuovo osservatorio attrezzato con gli strumenti più
recenti. Sebbene alcuni ritenessero che Humboldt fosse diventato un
“cortigiano servile”8, in realtà era la sua posizione a corte che gli
consentiva di sostenere gli scienziati, gli esploratori e gli artisti.
Bisognava cogliere il sovrano “nei momenti di ozio”9, spiegava
Humboldt a un amico, e non lasciarlo andare. Nel giro di poche
settimane dal suo arrivo, si trovò impegnato nella realizzazione delle
sue idee. Come disse un collega, aveva “l’invidiabile talento di porsi al
centro del dibattito intellettuale e scientifico”10.
Per decenni, Humboldt aveva criticato i governi, dando voce al suo
dissenso e alle sue opinioni, ma all’epoca in cui si trasferì a Berlino,
era diventato disilluso nei confronti della politica. Da giovane, si era
entusiasmato per la Rivoluzione francese, ma negli anni più recenti
aveva osservato come in Francia gli ultra-realisti dell’Ancien Régime
avessero riportato indietro l’orologio. Ovunque in Europa prevaleva
un’atmosfera reazionaria. Ovunque guardasse, Humboldt vedeva che
le speranze di cambiamento erano state schiacciate.
In Inghilterra, durante la sua recente visita, aveva incontrato una
vecchia conoscenza, George Canning, il nuovo primo ministro
britannico11. Humboldt aveva visto come Canning avesse lottato per
formare un governo perché il suo partito, i Tories, era diviso sulle
riforme economiche e sociali. Alla fine di maggio del 1827, dieci giorni
dopo l’arrivo di Humboldt a Berlino, Canning si era trovato a dover
chiedere l’appoggio del partito all’opposizione, i Whigs. Sulla base di
quello che Humboldt riusciva a desumere dai giornali berlinesi, la
situazione in Gran Bretagna peggiorava a ogni piè sospinto. Nel giro di
una settimana, la Camera dei Lord aveva insabbiato un emendamento
sulle contestate Corn Laws, che erano state un punto chiave nei
dibattiti sulla riforma. Le Corn Laws erano così controverse perché
consentivano al governo di imporre dazi elevati sui cereali esteri. I
cereali a buon mercato provenienti dagli Stati Uniti, per esempio,
erano tassati così pesantemente che diventavano estremamente
costosi, consentendo ai ricchi proprietari terrieri inglesi di eliminare di
fatto qualsiasi concorrenza e, al tempo stesso, mantenere il monopolio
sul controllo dei prezzi. Quelli che ne risentivano di più erano i poveri,
perché il prezzo del pane rimaneva esorbitante. I ricchi restavano
ricchi e i poveri restavano poveri. “Siamo sull’orlo di un grande
scontro fra la proprietà e la popolazione”12, prediceva Canning.
La situazione era ugualmente reazionaria sul continente. Dopo la
fine delle guerre napoleoniche e il Congresso di Vienna nel 1815, gli
Stati tedeschi erano entrati in una fase di relativa pace, ma di poche
riforme. Sotto la guida del ministro degli Esteri austriaco, il principe
Klemens von Metternich, gli Stati tedeschi avevano istituito il
Deutscher Bund durante il Congresso di Vienna – la Confederazione
tedesca. Era una federazione di quaranta Stati, poco compatta, che
sostituiva quello che una volta era stato il Sacro romano impero e poi,
sotto Napoleone, la Confederazione del Reno. Metternich aveva
concepito questa forma di federazione allo scopo di riequilibrare il
potere in Europa e contrastare l’affermazione di un singolo, potente
Stato. Non c’era un capo di Stato e l’Assemblea federale di Francoforte,
più che un governo parlamentare, era un congresso di ambasciatori
che continuavano a rappresentare ciascuno gli interessi dei loro Stati.
Con la fine delle guerre napoleoniche, la Prussia aveva riconquistato
un certo potere economico con il suo territorio che riprendeva a
espandersi, comprendendo ora lo Stato vassallo di Napoleone, il
Regno di Westfalia, che aveva goduto di breve vita, nonché la Renania
e parti della Sassonia. La Prussia si estendeva ora dai confini con
l’Olanda a ovest alla Russia a est.
Negli Stati tedeschi, le riforme erano guardate con sospetto, come il
primo passo verso la rivoluzione. La democrazia, diceva Metternich,
era “il vulcano che bisogna estinguere”13. Humboldt, che aveva
incontrato Metternich diverse volte a Parigi e a Vienna, era deluso da
questi sviluppi. Sebbene i due uomini fossero stati in corrispondenza
fra di loro riguardo ai progressi delle scienze, si conoscevano
abbastanza bene l’un l’altro per evitare le discussioni politiche. In
privato, il cancelliere austriaco descriveva Humboldt come “una testa
politicamente deviata”14, mentre Humboldt definiva Metternich “il
sarcofago di una mummia”15, perché le sue politiche erano del tutto
antiquate.
Il paese in cui Humboldt era tornato era decisamente anti-liberale.
Con pochi diritti politici e una generale soppressione delle idee
liberali, le classi medie prussiane si erano ripiegate su se stesse e
rinchiuse nella sfera privata. La musica, la letteratura e l’arte erano
dominate dall’espressione di sentimenti piuttosto che da un
sentimento rivoluzionario. Lo spirito del 1789, come lo aveva chiamato
Humboldt, aveva cessato di esistere16.
Da nessun’altra parte andava meglio. Simón Bolívar si era reso
conto che costruire una nazione era di gran lunga più difficile che
combattere una guerra. All’epoca in cui Humboldt si era trasferito a
Berlino, diverse colonie erano riuscite a rovesciare il governo
spagnolo. Erano state proclamate repubbliche in Messico, nella
Repubblica federale dell’America centrale, in Argentina e in Cile
insieme con quelle sotto la guida di Bolívar: la Grande Colombia (che
comprendeva il Venezuela, Panama, l’Ecuador e la Nuova Granada), la
Bolivia e il Perù. Ma l’idea di Bolívar di una lega di nazioni libere
nell’America Latina cominciò a sgretolarsi quando i vecchi alleati si
volsero contro di lui.
Al suo congresso pan-americano nell’estate del 1826 avevano
partecipato solo quattro delle repubbliche latino-americane17. Invece
di segnare l’inizio di una Federazione delle Ande, che andasse da
Panama al nord alla Bolivia al sud, era stato un fallimento completo.
Le ex colonie non mostravano interesse per l’unificazione. Il peggio
doveva venire, quando Bolívar, nella primavera del 1827, fu raggiunto
dalla notizia che le sue truppe in Perù si erano ribellate. E invece di
appoggiare El Libertador, il vecchio amico e presidente della
Colombia, Francisco de Paula Santander, elogiava la rivolta e chiedeva
la rimozione di Bolívar dalla presidenza. Per dirla con uno degli amici
intimi di Bolívar, erano entrati in “un’era di abbagli”18. Anche
Humboldt pensava che Bolívar si fosse attribuito troppi poteri
dittatoriali. Naturalmente, il Sud America doveva moltissimo a
Bolívar, ma i suoi “modi autoritari” erano “illeciti, incostituzionali, un
po’ come quelli di Napoleone”19, come disse Humboldt a uno
scienziato e diplomatico colombiano.
Humboldt non nutriva maggiore ottimismo nei confronti del Nord
America. Gli ultimi della vecchia guardia dei padri fondatori se ne
erano andati quando erano morti, in perfetta sincronia, Thomas
Jefferson e John Adam, lo stesso giorno, il 4 luglio del 1826,
cinquantesimo anniversario della Dichiarazione d’Indipendenza.
Humboldt aveva sempre ammirato Jefferson per il paese che aveva
contribuito a forgiare, ma temeva che non si fosse fatto abbastanza per
quanto concerneva l’abolizione della schiavitù. Quando il Congresso
statunitense aveva approvato il Compromesso del Missouri nel 1820,
un’altra porta si era aperta per i proprietari di schiavi. Mentre la
repubblica si estendeva e venivano fondati e ammessi nuovi Stati,
c’erano stati accesi dibattiti sul problema della schiavitù. Humboldt
era deluso che il Compromesso del Missouri permettesse ai nuovi Stati
che si trovavano a sud del 36°30’ di latitudine (approssimativamente
la stessa latitudine del confine fra il Tennessee e il Kentucky) di
estendere la schiavitù nei loro territori. Fino alla fine dei suoi giorni,
Humboldt avrebbe detto ai visitatori, ai corrispondenti e ai giornali
nordamericani quanto fosse indignato per il “credito crescente di cui
gode la schiavitù”20.
Stanco della politica e della rivoluzione, Humboldt si ritirò nel
mondo della scienza. E quando ricevette una lettera da un
rappresentante del governo messicano che gli chiedeva assistenza per
alcuni negoziati commerciali fra l’Europa e il Messico, la sua risposa fu
schietta. La sua “disaffezione per la politica”21 non gli consentiva di
lasciarsi coinvolgere. Da questo momento in poi si sarebbe
concentrato sulla natura e sulla scienza, e sull’istruzione. Voleva
aiutare il popolo a sprigionare il potere dell’intelligenza. “Con la
conoscenza viene il pensiero”, diceva, e con il pensiero viene il
“potere”22.

Il 3 novembre 1827, meno di un mese dopo il suo arrivo a Berlino,


Humboldt iniziò una serie di 61 conferenze all’università. Ebbero tanto
successo che ne aggiunse altre sedici al palazzo della musica di Berlino
– la Singakademie – a partire dal 6 dicembre. Per sei mesi tenne
conferenze diversi giorni alla settimana. Centinaia di persone
andavano ad ascoltare i suoi discorsi, che pronunciava senza
consultare gli appunti. Erano vivaci, stimolanti ed estremamente
nuovi. Non facendo pagare l’ingresso, Humboldt democratizzava la
scienza: il foltissimo pubblico andava dalla famiglia reale ai vetturini,
dagli studenti ai domestici, dagli studiosi ai muratori – e per la metà
erano donne23.
Berlino non aveva mai visto nulla di simile, disse Wilhelm von
Humboldt24. Appena i giornali annunciavano una conferenza, le
persone correvano ad accaparrarsi un posto a sedere. Nei giorni delle
conferenze, c’erano ingorghi nel traffico, con le guardie a cavallo che
tentavano di controllare il caos25. Un’ora prima che Humboldt salisse
sul podio, l’auditorio era già gremito. Gli “spintoni sono tremendi”26,
diceva Fanny Mendelssohn Bartholdy, sorella del compositore Felix
Mendelssohn Bartholdy. Ma ne valeva la pena. Alle donne, che non
potevano studiare all’università o partecipare agli incontri delle società
scientifiche, era finalmente consentito di “ascoltare una parola
intelligente”27. “I gentiluomini possono prendere in giro quanto
vogliono”28, disse a un amico, ma l’esperienza era fantastica. Altri non
erano altrettanto contenti di questa nuova partecipazione femminile e
schernivano l’entusiasmo delle donne per le scienze. Una donna
rimase così incantata dalle osservazioni di Humboldt su Sirio, la stella
più brillante del cielo notturno, scrisse il direttore della Singakademie
a Goethe, che la sua nuova venerazione per l’astronomia trovò
immediato riscontro nel suo guardaroba. Chiese al suo sarto di fare le
maniche dei suoi abiti “due volte la larghezza di Sirio”29.
Con la sua voce garbata30, Humboldt conduceva il pubblico in un
viaggio attraverso i cieli e le profondità marine, dall’altra parte della
terra, fino alle montagne più alte e poi indietro fino a una minuscola
macchia su di una roccia. Parlava di poesia e di astronomia, ma anche
di geologia e di pittura paesaggistica. La meteorologia, la storia della
terra, i vulcani e la distribuzione delle piante, erano tutti argomenti
delle sue conferenze. Vagava dai fossili alle luci del nord, e dal
magnetismo alla flora, alla fauna e alle migrazioni della razza umana.
Le conferenze erano la descrizione di un vivido caleidoscopio di
correlazioni che abbracciavano l’universo intero. Ovvero, secondo la
descrizione della cognata Caroline von Humboldt, nel loro insieme
componevano “l’intera grande Naturgemälde” di Alexander31.
Note di lettura di Humboldt sulla geografia delle piante32

Le note preparatorie di Humboldt rivelano come lavorava la sua


mente, allargandosi da un’idea a quella successiva. Iniziava in maniera
piuttosto convenzionale, con un pezzo di carta su cui annotava in fretta
i suoi pensieri in maniera abbastanza lineare. Ma andando avanti,
nuove idee gli venivano in mente, che annotava sulla carta – di fianco
o fra i margini con linee e ghirigori che separavano i diversi punti. Più
rimuginava sulla conferenza e più erano le informazioni che
aggiungeva.
Quando la pagina era piena, riempiva un’infinità di altri pezzettini
di carta con la sua minuscola calligrafia e poi li incollava tutti sui suoi
appunti. Humboldt non aveva remore nel fare a pezzi i libri,
strappando le pagine da spessi volumi che poi attaccava al suo foglio
con piccole puntine rosse e blu – una versione ottocentesca del blu-
tack. Andando avanti, appiccicava pezzetti di carta l’uno sull’altro,
alcuni completamente sepolti sotto i nuovi strati, mentre altri
potevano essere recuperati da sotto. Gli appunti erano pieni di
domande rivolte a se stesso, insieme con piccoli schizzi, statistiche,
citazioni e richiami. Alla fine il foglio originale era un bricolage a più
strati di pensieri, numeri, citazioni e appunti, apparentemente senza
un ordine per chi non fosse Humboldt.
Erano tutti affascinati. I giornali riportavano come “il nuovo
metodo” di pensare e tenere conferenze di Humboldt sorprendesse il
pubblico per il modo in cui metteva in collegamento discipline e fatti
apparentemente disparati33. “L’ascoltatore”, scrisse un giornale, “è
afferrato da un potere irresistibile.”34 Era il punto culminante del
lavoro che Humboldt aveva condotto nei tre decenni precedenti. “Non
ho mai sentito nessuno dare espressione a tante idee nuove in un’ora e
mezza”35, scrisse alla moglie uno studioso. Le persone commentavano
la straordinaria chiarezza con cui Humboldt spiegava la complessa
rete della natura36. Caroline von Humboldt era profondamente
impressionata. Solo Alexander, diceva, sapeva presentare con tocco
leggero una tale “meravigliosa profondità”37. Le conferenze
annunciavano una “nuova epoca”38, dichiarò un giornale. Quando
l’editore tedesco di Humboldt, Johann Georg von Cotta, seppe del
successo delle prime lezioni, suggerì immediatamente di pagare
qualcuno perché prendesse degli appunti che potessero poi essere
pubblicati. Offrì la cifra colossale di 5.000 talleri, ma Humboldt
rifiutò. Aveva altri progetti e non voleva che gli si mettesse fretta39.
Humboldt stava rivoluzionando le scienze. Nel settembre del 1828,
invitò centinaia di scienziati da tutta la Germania e l’Europa per
partecipare a una conferenza a Berlino*. Diversamente dagli incontri
precedenti di questo tipo, ai quali gli scienziati avevano presentato
un’infinità di saggi sul loro lavoro, Humboldt compose un programma
del tutto diverso. Desiderava che gli scienziati, invece di parlare a,
parlassero fra di loro. Ci furono pranzi conviviali e momenti di
socialità, come concerti ed escursioni al serraglio reale sulla
Pfauerinsel a Postdam. Si tennero incontri in mezzo alle collezioni
botaniche, zoologiche e fossili sia all’università che nel giardino
botanico40. Humboldt incoraggiava gli studiosi a riunirsi in piccoli
gruppi e in maniera interdisciplinare. Metteva in contatto gli scienziati
ospiti a un livello più personale, assicurandosi che stringessero
amicizie capaci di promuovere reti ristrette. Immaginava una
fratellanza interdisciplinare fra gli scienziati, che avrebbero scambiato
e condiviso la conoscenza. “Senza una diversità di opinioni, la scoperta
della verità è impossibile”41, ricordò loro nel discorso di apertura.
Presero parte alla conferenza circa 500 scienziati. Fu “un’eruzione
di naturalisti nomadi”42, scrisse Humboldt all’amico Arago a Parigi.
Arrivarono ospiti da Cambridge, Zurigo, Firenze e da molto più
lontano come la Russia. Dalla Svezia, per esempio, venne Jöns Jacob
Berzelius, uno dei fondatori della chimica moderna, e dall’Inghilterra
arrivarono diversi scienziati, compresa la vecchia conoscenza di
Humboldt Charles Babbage. Il brillante matematico Carl Friedrich
Gauss, che veniva da Gottinga e soggiornò per tre settimane
nell’appartamento di Humboldt, pensava che il congresso fosse
“ossigeno” puro43.

Malgrado il ritmo frenetico della sua vita, Humboldt recuperò il tempo


perduto nel rinnovare l’amicizia con Goethe. Quasi ottantenne e
lontano quasi 300 chilometri da Berlino, Goethe era troppo debole per
recarvisi, ma fu Humboldt ad andare a visitarlo. Goethe era invidioso
dei suoi amici di Berlino che avevano il piacere di vedere Humboldt
regolarmente. L’anziano poeta aveva a lungo seguito ogni sua mossa,
spesso assillando gli amici comuni per avere informazioni44. Con il
pensiero, diceva Goethe, aveva “sempre accompagnato”45 il suo
vecchio amico e incontrare Humboldt era uno dei “momenti più
luminosi” nella sua vita. Durante i due decenni precedenti, si erano
scritti regolarmente e Goethe pensava che le lettere di Humboldt
avessero un effetto corroborante46. Ogni volta che Humboldt gli
mandava le sue ultime pubblicazioni, Goethe le leggeva
immediatamente, ma gli mancavano le loro animate discussioni.
Goethe si sentiva sempre più estraneo rispetto al progresso
scientifico. Diversamente da Parigi, lamentava, dove i pensatori
francesi era riuniti in una grande città, il problema della Germania era
che ognuno viveva a grande distanza dall’altro47. Con uno scienziato a
Berlino, un altro a Königsberg e un altro ancora a Bonn, lo scambio di
idee era soffocato dalla distanza. Come sarebbe stata diversa la vita,
pensava Goethe dopo aver visto Humboldt, se fossero vissuti l’uno
vicino all’altro. Un solo giorno con Humboldt, diceva Goethe, lo
portava più lontano di quanto facessero anni “nel mio cammino
solitario”48.
Nonostante la gioia che gli procurava il fatto di ritrovare il suo
contraddittore scientifico, c’era un tema – immenso, del resto – su cui
i due erano in disaccordo: la creazione della terra. Quando Humboldt
aveva studiato all’accademia delle miniere a Freiberg, aveva seguito le
idee del suo insegnante Abraham Gottlieb Werner, che era stato il
principale sostenitore della teoria nettunista – secondo cui le
montagne e la crosta terrestre erano state plasmate dalla
sedimentazione depositata dall’oceano primordiale. Ma, seguendo le
sue rilevazioni in America Latina, Humboldt era diventato un
“vulcanista”49. Riteneva ora che la terra si fosse formata attraverso
eventi catastrofici come le eruzioni vulcaniche e i terremoti.
Sotto la superficie, diceva Humboldt, ogni cosa era collegata. I
vulcani che aveva scalato sulle Ande erano tutti collegati sottoterra –
erano come “un’unica fornace vulcanica”50. Gruppi e catene di vulcani
a grandi distanze, diceva, stavano a testimoniare il fatto che non erano
singoli fenomeni locali, ma facevano parte di una forza globale. I suoi
esempi erano vividi quanto terrificanti: in un unico movimento a largo
raggio, egli ricollegava la comparsa improvvisa di una nuova isola alle
Azzorre, il 30 gennaio 1811, con una serie di terremoti che
successivamente colpirono il pianeta per un periodo di più di un anno,
dalle Indie Occidentali, le pianure dell’Ohio e del Mississippi al
devastante terremoto che aveva distrutto Caracas nel marzo 1812.
Questo fu seguito da un’eruzione vulcanica sull’isola di San Vincenzo
nelle Indie Occidentali il 30 aprile 1812 – lo stesso giorno in cui la
popolazione che viveva sul Rio Apure (da dove Humboldt aveva
lanciato la spedizione sull’Orinoco) affermavano di aver sentito un
sordo brontolio sotto i loro piedi. Tutti questi eventi erano stati parte
di una gigantesca reazione a catena, diceva Humboldt51.
Le teorie delle placche tettoniche mobili avrebbero trovato conferma
solo alla metà del ventesimo secolo, ma Humboldt aveva già affermato
nel 1807, nel Saggio sulla geografia delle piante, che il continente
africano e quello sudamericano una volta erano stati congiunti. In
seguito, scrisse che a provocare questa deriva dei continenti era “una
forza sotterranea”52. Goethe, da convinto nettunista, era inorridito.
Tutti davano ascolto a queste folli teorie, lamentava, proprio come “i
selvaggi ai discorsi dei missionari”53. Era “assurdo”54, diceva,
ritenere che l’Himalaya e le Ande – gigantesche catene montuose che
si ergevano “rigide e superbe”55 – avessero mai potuto sollevarsi dal
ventre della terra. Avrebbe dovuto risistemare il suo intero “sistema
cerebrale”56, scherzava Goethe, se avesse dovuto concordare con
Humboldt su questo argomento. Ma, malgrado questi disaccordi
scientifici, Goethe e Humboldt rimasero buoni amici. Forse stava
invecchiando, scrisse Goethe a Wilhelm von Humboldt, perché
“appaio sempre più a me stesso come appartenente al passato”57.
Humboldt era felice di vedere di nuovo Goethe, ma era ancora più
felice di trascorrere del tempo con Wilhelm. I due fratelli avevano
avuto le loro divergenze in passato, ma Wilhelm era la sua famiglia.
“So dove sta la mia felicità”, scrisse Alexander, “è vicino a te!”58
Wilhelm si era ritirato dalla vita pubblica e si era trasferito con la
famiglia a Tegel, appena fuori Berlino. Per la prima volta dai tempi
della giovinezza, i fratelli vivevano vicino e si vedevano regolarmente.
Era a Berlino e a Tegel che finalmente riuscivano a “fare lavoro
scientifico insieme”59.
La passione di Wilhelm era lo studio delle lingue. Da ragazzo si era
smarrito nella mitologia greca e romana. Durante tutta la sua carriera,
Wilhelm aveva utilizzato ogni destinazione diplomatica per imparare
nuove lingue, e Alexander gli aveva procurato anche appunti sul
vocabolario degli indigeni dell’America Latina – compreso copie di
manoscritti inca e pre-incaici. Subito dopo il ritorno di Alexander dalla
sua spedizione, Wilhelm aveva parlato delle “stupefacenti e misteriose
connessioni interne fra tutte le lingue”60. Per decenni, Wilhelm aveva
profondamente sofferto la mancanza di tempo per indagare questa
materia, ma ora aveva agio di farlo. Entro sei mesi dal suo
pensionamento, aveva tenuto una conferenza all’Accademia delle
scienze di Berlino sugli studi comparati del linguaggio.
Allo stesso modo in cui Alexander guardava alla natura come un
insieme interconnesso, Wilhelm analizzava la lingua come un
organismo vivente. La lingua, come la natura, pensava Wilhelm,
andava collocata nel più ampio contesto del paesaggio, della cultura e
del popolo. Come Alexander andava in cerca dei gruppi di piante in
tutti i continenti, Wilhelm indagava i gruppi linguistici e le radici
comuni in tutti i paesi. Non solo stava imparando il sanscrito, ma
studiava anche il giapponese e il cinese così come le lingue polinesiane
e malesi. Per Wilhelm questi erano i dati grezzi di cui aveva bisogno
per le sue teorie, proprio come gli esemplari botanici e le rilevazioni
meteorologiche di Alexander.
Sebbene i due fratelli lavorassero in discipline diverse, le loro
premesse e il loro approccio erano simili. Spesso usavano anche la
stessa terminologia. Mentre Alexander era andato alla ricerca del
fattore formativo nella natura, Wilhelm scriveva ora che “la lingua era
l’organo formativo del pensiero”61. Proprio come la natura era molto
di più che un cumulo di piante, rocce e animali, la lingua era molto di
più che semplici parole, grammatica e suoni. Secondo la teoria
radicalmente nuova di Wilhelm, le diverse lingue riflettevano diverse
visioni del mondo. La lingua non era solo uno strumento per
esprimere pensieri, ma li plasmava – attraverso la grammatica, il
vocabolario, i tempi dei verbi e così via. Non era una costruzione
meccanica fatta di singoli elementi, ma un organismo, una rete che
intrecciava azione, pensiero e discorso. Wilhelm voleva riunire tutto,
diceva, nell’“immagine di un insieme organico”62, esattamente come
la Naturgemälde di Alexander. Entrambi i fratelli lavoravano a livello
globale.
Per Alexander questo significava che doveva ancora realizzare i suoi
sogni di viaggi. Dopo il viaggio in America Latina, quasi tre decenni
prima, più volte gli era capitato di non riuscire a organizzare altre
spedizioni, che gli avrebbero potuto consentire di completare i suoi
studi. Humboldt avvertiva che, se voleva davvero presentare una
visione della natura come una forza globale, aveva bisogno di vedere di
più. L’idea della natura come una rete della vita, che si era
concretizzata durante la spedizione in America Latina, richiedeva
ulteriori dati da tutto il mondo. Lui, più di altri, aveva bisogno di
esaminare quanti più continenti poteva. Lo studio delle configurazioni
climatiche, delle zone della vegetazione e delle formazioni geologiche
richiedeva questi dati comparativi.
Per anni lo avevano attratto le vette dell’Asia centrale. La sua
ambizione era di scalare l’Himalaya in modo da poter trovare una
correlazione per le sue rilevazioni sulle Ande. Per anni aveva assillato
gli inglesi perché gli dessero il permesso di entrare nel subcontinente
indiano. E quasi due decenni prima aveva anche chiesto a un
diplomatico russo a Parigi se non c’era modo di entrare in India o in
Tibet dall’Impero russo senza rimanere impelagato in scaramucce di
frontiera63.
Nulla era successo finché all’improvviso Humboldt ricevette una
lettera dal ministro delle Finanze russo, il conte Georg von Cancrin, di
origini tedesche. Nell’autunno del 1827, mentre Humboldt stava
preparando le sue conferenze a Berlino, Cancrin scrisse per richiedere
informazioni sul platino come possibile valuta russa. Il platino era
stato scoperto negli Urali cinque anni prima e Cancrin sperava che
Humboldt sarebbe stato in grado di fornirgli informazioni sulla
moneta di platino utilizzata in Colombia. Sapeva che Humboldt aveva
ancora stretti collegamenti con il Sud America64. Humboldt ci vide
immediatamente una nuova opportunità. Rispose dettagliatamente
alla richiesta di Cancrin con una lettera di parecchie pagine e poi
aggiunse un breve poscritto in cui spiegava che una visita in Russia era
“il suo più ardente desiderio”65. Gli Urali, il Monte Ararat e il lago
Baikal erano nella sua mente “le immagini più belle”66, spiegò.
Sebbene non fosse l’India, se avesse avuto il permesso di vedere la
parte asiatica dell’Impero russo, ne avrebbe ricavato probabilmente i
dati sufficienti per completare la sua Naturgemälde. Humboldt
assicurò a Cancrin che, sebbene avesse i capelli bianchi, poteva
sopportare le privazioni di una lunga spedizione e poteva camminare
per nove o dieci ore senza fare sosta67.
Meno di un mese dopo la risposta di Humboldt, Cancrin aveva
parlato allo zar Nicola I che invitò Humboldt in Russia per una
spedizione con tutte le spese pagate68. Forse avevano aiutato anche gli
stretti rapporti fra la corte prussiana e quella russa, perché la moglie
dello zar Nicola I, Aleksandra, era la sorella di Federico Guglielmo III.
Finalmente, Humboldt poteva partire per l’Asia.
1. AH a Varnhagen, 13 dicembre 1833, AH Varnhagen Lettere 1860, p. 15.
2. AH Federico Guglielmo IV Lettere 2013, pp. 18-19.
3. AH, 1795, Bruhns 1873, vol. 1, p. 212; per AH alla corte prussiana , Friedrich Wilhelm
Bruhns, vol. 2, pp. 104-5.
4. AH a Johann Georg von Cotta, 22 giugno 1833, AH Cotta Lettere 2009, p. 181.
5. A.B. Granville, ottobre 1827, Granville 1829, vol. 1, p. 332.
6. Briggs 2000, p. 195.
7. Bruhns 1873, vol. 2, p. 126; AH a Samuel Heinrich Spiker, 12 aprile 1829, AH Spiker Lettere
2007, p. 63; AH a Federico Guglielmo III, 9 ottobre 1828, Hamel et al. 2003, pp. 49-57.
8. Lea Mendelssohn Bartholdy a Henriette von Pereira-Arnstein, 12 settembre 1827, AH
Mendelssohn Lettere 2011, p. 20.
9. Karl Gutzkow su AH, dopo il 1828, Beck 1969, p. 252.
10. Carl Ritter a Samuel Thomas von Sömmerring, inverno 1827-8, Bruhns 1873, vol. 2, p. 107.
11. AH a Arago, 30 aprile 1827, AH Arago Lettere 1907, p. 28; vedi anche F. Cathcart a Bagot,
24 aprile 1827, Canning 1909, vol. 2, pp. 392-4.
12. George Canning, 3 giugno 1827, Memorandum di Mr Stapelton, Canning 1887, vol. 2, p.
321.
13. Klemens von Metternich, Davies 1997, p. 762.
14. Biermann 2004, p. 8.
15. Ibid.
16. AH a Bonpland, 1843, AH Bonpland Lettere 2004, p. 110.
17. Lynch 2006, pp. 213-15; Arana 2013, pp. 353-5.
18. Pedro Briceño Méndez a Bolívar, 26 luglio 1826, Arana 2013, p. 374.
19. Joaquín Acosta, 24 marzo 1827, Acosta de Samper 1901, p. 211.
20. Rossiter Raymond, 14 maggio 1859; vedi anche AH a Benjamin Silliman, 5 agosto 1851,
AH a George Ticknor, 9 maggio 1858, AH Lettere USA 2004, pp. 291, 445, 572; e George
Bancroft a Elizabeth Davis Bliss Bancroft, 31 dicembre 1847, Beck 1959, p. 235.
21. AH a Thomas Murphy, 20 dicembre 1825, Bruhns 1873, vol. 2, p. 49.
22. AH a Friedrich Ludwig Georg von Raumer, 1851, Bruhns 1873, vol. 2, p. 125;
analogamente AH scrisse in vedi anche che “la conoscenza è potere”, AH Cosmos 1845-52, vol.
1, p. 37; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 36.
23. AH a Johann Friedrich von Cotta, 1 marzo 1828, AH Cotta Lettere 2009, pp. 159-60; CH a
Alexander von Rennenkampff, dicembre 1827, Karl von Holtei a Goethe, 17 dicembre 1827,
Carl Friedrich Zelter a Goethe, 28 gennaio 1828, AH Kosmos Vorträge 2004, pp. 21-3; vedi
anche p. 12; Ludwig Börne 22 febbraio 1828, Clark e Lubrich 2012, p. 80; WH ad August von
Hedemann, 10 gennaio 1828, WH CH Lettere 1910-16, vol. 7, p. 326.
24. WH ad August von Hedemann, 10 gennaio 1828, WH CH Lettere 1910-16, vol. 7, p. 325.
25. Ludwig Börne, 22 febbraio 1828, Clark e Lubrich 2012, p. 80.
26. Fanny Mendelssohn Bartholdy a Karl Klingemann, 23 dicembre 1827, AH Mendelssohn
Lettere 2011, p. 20.
27. Ibid.
28. Ibid.
29. Carl Friedrich Zelter a Goethe, 7 febbraio 1828; Felix Mendelssohn Bartholdy a Karl
Klingemann, 5 febbraio 1828, AH Mendelssohn Lettere 2011, pp. 20-21.
30. Roderick Murchison, maggio 1859, Beck 1959, p. 3.
31. CH a Rennenkampff, 28 gennaio 1828, AH Kosmos Vorträge 2004, p. 23.
32. Vedi per esempio, Stabi Berlin NL AH, gr. Kasten 12, n. 16 e gr. Kasten 13, n. 29.
33. Spenersche Zeitung, 8 dicembre 1827, Bruhns 1873, vol. 2, p. 116.
34. Vossische Zeitung, 7 dicembre 1827, ivi, p. 119.
35. Christian Carl Josias Bunsen a Fanny Bunsen, ivi, p. 120.
36. Gabriele von Bülow a Heinrich von Bülow, 1 febbraio 1828, AH Kosmos Vorträge 2004, p.
24.
37. CH a Adelheid Hedemann, 7 dicembre 1827, WH CH Lettere 1910-16, vol. 7, p. 325.
38. Spenersche Zeitung, 8 dicembre 1827, AH Kosmos Vorträge 2004, p. 16.
39. AH a Heinrich Berghaus, 20 dicembre 1827, AH Berghaus Lettere 1863, vol. 1, pp. 117-18.
40. Engelmann 1969, pp. 16-18; AH, Discorso inaugurale all’Associazione tedesca dei
naturalisti e dei fisici, 18 settembre 1828, Bruhns 1873, vol. 2, p. 135.
41. Ivi, p. 134.
42. AH a Arago, 29 giugno 1828, AH Arago Lettere 1907, p. 40.
43. Carl Friedrich Gauß a Christian Ludwig Gerling, 18 dicembre 1828; vedi anche AH a Carl
Friedrich Gauß, 14 agosto 1828, AH Gauß Lettere 1977, pp. 34, 40.
44. Goethe a Varnhagen, 8 novembre 1827, Goethe Briefe 1968-76, vol. 4, p. 257; Carl
Friedrich Zelter a Goethe, 7 febbraio 1828, AH Mendelssohn Lettere 2011, p. 21; Karl von
Holtei a Goethe, 17 dicembre 1827, AH Kosmos Vorträge 2004, p. 21.
45. Goethe a AH, 16 maggio 1821, Goethe Briefe 1968-76, vol. 3, p. 505.
46. Goethe a AH, 24 gennaio 1824, Bratranek 1876, p. 317; AH a Goethe, 6 febbraio 1806,
Goethe Briefe 1968-76, vol. 2, p. 559; Goethe, 16 marzo 1807, 30 dicembre 1809, 18 gennaio
1810, 20 giugno 1816, Goethe Tagebücher 1998-2007, vol. 3, pt. 1, p. 298; vol. 4, pt. 1, pp. 100,
111; vol. 5, pt. 1, p. 381; AH a Goethe, 16 aprile 1821, Goethe AH WH Lettere 1876, p. 315;
Goethe, 16 marzo 1823, 3 maggio 1823, 20 agosto 1825, Goethe Tag zu Tag 1982-96, vol. 7, pp.
235, 250, 526.
47. Goethe a Johann Peter Eckermann, 3 maggio 1827, Goethe Eckermann 1999, p. 608.
48. Ivi, p. 609.
49. Pieper 2006, pp. 76-81; Hölder 1994, pp. 63-73.
50. AH Aspects 1849, vol. 2, p. 222; AH Views 2014, p. 247; AH Ansichten 1849, vol. 2, p. 263;
vedi anche AH, “Über den Bau und die Wirkungsart der Vulcane in den verschiedenen
Erdstrichen”, 24 gennaio 1823, e Pieper 2006, pp. 77 sgg.
51. AH Aspects 1849, vol. 2, pp. 222-3; AH Views 2014, p. 248; AH Ansichten 1849, vol. 2, pp.
263-4.
52. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 285; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 311; vedi anche AH
Geography 2009, p. 67; AH Geographie 1807, p. 9.
53. Goethe a Carl Friedrich Zelter, 7 novembre 1829, Goethe Briefe 1968-76, vol. 4, p. 350.
54. Goethe, 6 marzo 1828, Goethe Tag zu Tag 1982-96, vol. 8, p. 38.
55. Goethe a Carl Friedrich Zelter, 5 ottobre 1831, Goethe Briefe 1968-76, vol. 4, p. 454.
56. Ibid.
57. Goethe a WH, 1 dicembre 1831, Goethe Briefe 1968-76, vol. 4, p. 462.
58. AH a WH, 5 novembre 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 207.
59. AH, Aus Meinem Leben (1769-1850), in Biermann 1987, p. 116.
60. WH a Karl Gustav von Brinkmann, Geier 2010, p. 282.
61. WH 1903-36, vol. 7, pt. 1, p. 53; vedi anche vol. 4, p. 27.
62. Ivi, vol. 7, pt. 1, p. 45.
63. AH a Alexander von Rennenkampff, 7 gennaio 1812, AH Lettere Russia 2009, p. 62.
64. Cancrin a AH, 27 agosto 1827, ivi, pp. 67 sgg.; Beck 1983, pp. 21 sgg.
65. AH a Cancrin, 19 novembre 1827, AH Lettere Russia 2009, p. 76.
66. AH a Cancrin, 19 novembre 1827, ivi.
67. AH a Cancrin, 10 gennaio 1829, ivi, p. 88.
68. Cancrin a AH, 17 dicembre 827, ivi, pp. 78-9.
*. Humboldt organizzò questa conferenza per l’Associazione tedesca dei naturalisti e dei fisici.
Capitolo sedicesimo

Russia

Il cielo era chiaro e l’aria calda. Pianure vuote si stendevano lontano


fino alla linea dell’orizzonte, ardenti nel sole estivo. Un convoglio di tre
carrozze avanzava sulla cosiddetta Strada siberiana, una via che
correva diverse migliaia di chilometri a est di Mosca.
Era la metà di giugno del 1829 e Alexander von Humboldt aveva
lasciato Berlino due mesi prima1. Aveva cinquantanove anni. Mentre il
paesaggio siberiano gli si apriva davanti, teneva lo sguardo fisso fuori
dal finestrino della carrozza, osservando come le basse erbe della
steppa si alternavano con distese di foreste, composte principalmente
di pioppi, betulle, tigli e larici. Di tanto in tanto, un ginepro verde
scuro si stagliava sulla scorza bianca delle betulle. Le rose selvatiche
erano in fiore come anche le piccole pianelle della Madonna con i loro
fiori rigonfi come una borsa. Per quanto piacevole, non era la Russia
immaginata da Humboldt. Il paesaggio era un po’ troppo simile alla
campagna intorno alla tenuta estiva degli Humboldt a Tegel2.
Era stata la stessa cosa per settimane – tutto vagamente familiare.
Le strade erano in terra battuta e ghiaia come quelle dell’Inghilterra,
mentre la vegetazione e gli animali erano più o meno “comuni”3,
pensava. C’erano pochi animali: talora un piccolo coniglio o uno
scoiattolo e mai più di due o tre uccelli. Era un paesaggio silente, con
pochi canti di uccelli. Era tutto un po’ deludente. Una spedizione
siberiana, certamente, “non era così piacevole”4, diceva Humboldt,
come una in Sud America, ma almeno era all’aperto e non rinchiuso
nella corte di Berlino. Era quanto di più prossimo a ciò che potesse
desiderare – che era, come amava dire, una “vita nella natura
selvaggia”5.
Il paese scorreva veloce mentre procedevano. Ogni quindici o trenta
chilometri venivano cambiati i cavalli in piccole stazioni nei villaggi
sparsi che fiancheggiavano la strada verso est. La strada era ampia e
ben mantenuta – tanto buona che le carrozze correvano a una velocità
preoccupante6. Con poche osterie o locande lungo la strada,
viaggiavano per lo più anche di notte e Humboldt dormiva nella sua
carrozza7 mentre i chilometri venivano divorati.

La carrozza di Humboldt che corre attraverso la Russia

Diversamente da quando era stato in America Latina, Humboldt


viaggiava attraverso la Russia con un seguito numeroso. Era
accompagnato da Gustav Rose, un professore di mineralogia
ventinovenne di Berlino, e dal trentaquattrenne Christian Gottfried
Ehrenberg, un esperto naturalista che aveva già compiuto una
spedizione in Medio Oriente. C’erano poi Johann Seifert, il loro
cacciatore di esemplari zoologici che sarebbe rimasto un fidato
aiutante domestico di Humboldt a Berlino per molti anni, un ufficiale
russo delle miniere che si era unito alla spedizione a Mosca, un cuoco,
una scorta di cosacchi per la loro protezione nonché il conte Adolphe
Polier – una vecchia conoscenza francese di Parigi, che aveva sposato
una ricca contessa russa con una tenuta sul versante occidentale degli
Urali, non lontano da Ekaterinburg. Polier, in viaggio verso la
proprietà della moglie8, aveva raggiunto Humboldt a Nižnij Novgorod,
circa 1.000 chilometri a sud-est di San Pietroburgo. Avevano tre
carrozze, piene zeppe di persone, strumenti, bauli e delle loro crescenti
collezioni. Humboldt era attrezzato per tutte le eventualità con ogni
cosa, da un cappotto pesantemente imbottito ai barometri, alle risme
di carta, alle boccette, alle medicine e anche una tenda priva di parti in
metallo in cui compiere le sue rilevazioni magnetiche9.

Humboldt aveva atteso questo momento per decenni. Quando lo zar


Nicola I aveva dato il permesso, alla fine del 1827, Humboldt si era
preso tempo per pianificare le cose meticolosamente. Dopo qualche
esitazione, lui e Cancrin avevano convenuto che la spedizione sarebbe
partita da Berlino all’inizio della primavera del 1829. Humboldt aveva
poi rinviato di qualche settimana la partenza perché la moglie di
Wilhelm, Caroline, malata di cancro, si stava rapidamente
consumando. Aveva sempre amato la cognata, ma desiderava anche
essere vicino a Wilhelm in questo momento difficile. Alexander era
“tenero e affettuoso”10, scrisse Caroline nella sua ultima lettera.
Quando morì, il 26 marzo, dopo quasi quarant’anni di matrimonio,
Wilhelm ne rimase devastato. Alexander restò per altre due settimane
e mezzo, ma alla fine lasciò Berlino per imbarcarsi nell’avventura
russa. Promise al fratello che gli avrebbe scritto regolarmente.
Il piano di Humboldt era di andare da San Pietroburgo a Mosca e da
lì verso est fino a Ekaterinburg e Tobolsk in Siberia e di fare poi
ritorno con un unico grande giro. Humboldt avrebbe evitato l’area
intorno al Mar Nero, dove la Russia era impegnata in una guerra con
l’Impero Ottomano. Questa guerra russo-turca era iniziata nella
primavera del 1828 e per quanto Humboldt desiderasse vedere il Mar
Caspio e il vulcano inattivo del Monte Ararat coperto di neve,
all’attuale confine turco-iraniano, i russi gli avevano detto che era
impossibile. Il suo desiderio di gettare uno “sguardo indiscreto sulle
montagne del Caucaso e sul Monte Ararat” avrebbe dovuto attendere
“tempi più pacifici”11.
Pressoché nulla era come Humboldt avrebbe voluto. L’intera
spedizione era un compromesso. Era un viaggio pagato dallo zar
Nicola I, che sperava di riuscire a sapere quanto oro, platino e altri
metalli pregiati potessero essere estratti in maniera più efficiente nel
suo vasto impero. Per quanto etichettata come spedizione per il
“progresso delle scienze”12, lo zar era più interessato al progresso del
commercio. Nel settecento, la Russia era stata uno dei più grandi
esportatori di minerali e il primo produttore di ferro, ma l’Inghilterra
industriale l’aveva di gran lunga superata. Ne erano responsabili i
sistemi lavorativi feudali e i metodi di produzione antiquati nonché un
certo esaurimento delle miniere13. Quale ex ispettore delle miniere
con un’immensa conoscenza geologica, Humboldt rappresentava la
scelta perfetta per lo zar. Non era ideale per la scienza, ma Humboldt
non vedeva altro modo per raggiungere i suoi obiettivi. Aveva quasi
sessant’anni e il tempo si stava esaurendo.
Lungo la strada attraverso la Siberia fece accurate indagini sulle
miniere, come concordato con Cancrin, ma in questo compito faticoso
riuscì a introdurre anche qualcosa di eccitante. Ebbe un’idea che si
sarebbe rivelata altrettanto brillante della sua visione comparativa del
mondo. Nel corso degli anni, Humboldt aveva notato che diversi
minerali sembravano trovarsi insieme. Sulle montagne del Brasile, per
esempio, nei giacimenti di oro e di platino spesso erano stati rinvenuti
diamanti. Armato di dettagliate informazioni geologiche su Sud
America, Humboldt applicava ora le sue conoscenze alla Russia.
Poiché negli Urali c’erano giacimenti d’oro e di platino simili a quelli
del Sud America, Humboldt era sicuro che anche in Russia ci fossero
diamanti14. Ne era così convinto che, quando aveva incontrato
l’imperatrice Aleksandra a San Pietroburgo, trascinato
dall’entusiasmo, aveva spavaldamente promesso che gliene avrebbe
procurato qualcuno.
Ogni volta che facevano sosta in una miniera, Humboldt andava in
cerca dei diamanti. Con il braccio sprofondato nella sabbia, setacciava
i fini granelli. Con in mano una lente d’ingrandimento, studiava
attentamente la sabbia, convinto che avrebbe trovato i suoi sfavillanti
tesori15. Era solo questione di tempo, ne era sicuro. La maggior parte
delle persone che lo osservavano pensavano che fosse completamente
matto, perché nessuno aveva mai trovato diamanti al di fuori dei
tropici. Uno dei cosacchi che lo accompagnava lo aveva definito “il
pazzo principe prussiano Humplot”16.
Alcuni componenti della squadra avevano abbandonato, compreso
la vecchia conoscenza parigina di Humboldt, il conte Polier. Dopo aver
accompagnato la spedizione per varie settimane e aver osservato la
ricerca dei diamanti, Polier si era separato da Humboldt il 1° luglio per
andare a ispezionare la tenuta della moglie presso Ekaterinburg, dove
estraevano oro e platino. Infiammato dalla determinazione di
Humboldt, Polier dette immediatamente istruzioni ai suoi uomini su
dove cercare le gemme. Poche ore dopo il suo arrivo, trovò il primo
diamante negli Urali17. Quando Polier pubblicò un articolo sulla
scoperta, la notizia si diffuse rapidamente in tutto il paese e in Europa.
Nel giro di un mese, in Russia furono trovati trentasette diamanti18.
Le previsioni di Humboldt si erano rivelate corrette. Sebbene lui
sapesse che le sue supposizioni erano fondate sul solidi dati scientifici,
a molti la cosa appariva così misteriosa da far pensare che ci fosse di
mezzo la magia19.
Gli Urali, scrisse eccitato Humboldt a Cancrin, erano un vero “el
Dorado”20. Per lui la sua previsione, rivelatasi esatta, poteva
rappresentare un episodio di splendida analogia scientifica, ma per i
russi conteneva la promessa di un vantaggio commerciale. Humboldt
scelse di ignorarlo – e non fu l’unico dettaglio che mise da parte
durante la spedizione. In America Latina, Humboldt aveva criticato
tutti gli aspetti del governo coloniale spagnolo, dallo sfruttamento
ambientale delle risorse naturali e dalla distruzione delle foreste ai
maltrattamenti inflitti agli indigeni e agli orrori della schiavitù. A
quell’epoca aveva insistito che toccava ai viaggiatori, testimoni di torti
e oppressioni, di “portare i lamenti degli sventurati alle orecchie di
coloro che hanno il potere di alleviarli”21. Appena qualche mese prima
di partire per la Russia, Humboldt aveva detto con entusiasmo a
Cancrin che era impaziente di vedere i contadini delle “province più
povere” a est22. Ma certamente non era ciò che avevano in mente i
russi. Cancrin aveva seccamente replicato che gli unici obiettivi della
spedizione erano scientifici e commerciali. Humboldt non doveva fare
commenti sulla società russa o sulla servitù della gleba.
La Russia dello zar Nicola I era basata sull’assolutismo e sulle
disuguaglianze; non era un paese che incoraggiava le idee liberali e le
critiche aperte. Quando, il primo giorno del suo regno, nel dicembre
1825, aveva assistito a una rivolta, aveva giurato di controllare la
Russia con il pugno di ferro. Una rete di spie e di informatori si era
infiltrata in ogni angolo del paese. Il governo era centralizzato e
fermamente nelle mani dello zar. Una stretta censura controllava ogni
parola scritta, dalle poesie agli articoli di giornale e una rete di
sorveglianza assicurava che venisse repressa qualsiasi idea liberale.
Quelli che si pronunciavano apertamente contro lo zar o il governo
venivano prontamente deportati in Siberia. Nicola I si considerava il
guardiano contro la rivoluzione.
Era un governante che amava l’ordine meticoloso, le formalità e la
disciplina. Appena pochi anni dopo la spedizione di Humboldt in
Russia, lo zar avrebbe proclamato la triade “Ortodossia, Autocrazia e
Nazionalità” come la dottrina ideologica della Russia: la Cristianità
ortodossa, il governo della casata dei Romanov e l’attenzione
concentrata sulle tradizioni russe in quanto opposte alla cultura
occidentalizzata.
Humboldt sapeva cosa ci si aspettava da lui e aveva promesso a
Cancrin di concentrarsi solo sulla natura. Avrebbe evitato qualunque
cosa riguardasse il governo e “le condizioni delle classi inferiori”23,
diceva, e non avrebbe criticato pubblicamente il sistema feudale russo
– qualunque fosse il trattamento riservato ai contadini. Con una
qualche falsità, aveva anche detto a Cancrin che gli stranieri che non
parlavano la lingua erano destinati a fraintendere le condizioni di un
paese e avrebbero solo diffuso voci scorrette.
Humboldt scoprì rapidamente quanto fosse esteso il controllo di
Cancrin. Sembrava che lungo tutto il viaggio fossero stati schierati
ufficiali per incontrarlo e riferire a San Pietroburgo. Per quanto
lontana da Mosca e da San Pietroburgo, questa non era una landa
selvaggia e incontaminata. Ekaterinburg, per esempio, 1.600
chilometri a est di Mosca e porta di accesso alla parte asiatica della
Russia, era un grande centro industriale – una città di circa 15.000
abitanti, molti dei quali occupati nelle miniere e nelle manifatture24.
La regione aveva miniere d’oro, stabilimenti siderurgici, fornaci,
officine di molatura, fonderie e fucine. Oro, platino, rame, gemme e
pietre semi-preziose erano fra le tante risorse naturali. La Grande
strada siberiana era la prima via commerciale che collegava le città
industriali e minerarie in tutto il vasto paese. Ovunque Humboldt e la
sua squadra si fermassero, erano accolti da governatori, membri del
consiglio cittadino, ufficiali e altri funzionari coperti di medaglie.
C’erano lunghi pranzi, discorsi e balli – non un momento per stare
soli. Humboldt disprezzava queste formalità, perché ogni suo passo
era osservato e veniva tenuto per il braccio “come un invalido”25,
scrisse a Wilhelm.
Alla fine di luglio, più di tre mesi dopo aver lasciato Berlino,
Humboldt raggiunse Tobolsk – a 3.000 chilometri da San Pietroburgo
e il punto più a est del percorso consentito – ma per i suoi gusti non
era ancora una regione abbastanza selvaggia26. Humboldt non era
giunto così lontano solo per girare e tornare indietro. Aveva altri
progetti. Invece di tornare a San Pietroburgo, come concordato
precedentemente, Humboldt ignorò le istruzioni ricevute da Cancrin e
aggiunse una deviazione di 3.200 chilometri. Voleva vedere le
montagne dell’Altai a est, dove Russia, Cina e Mongolia si incontrano,
per un confronto con le rilevazioni fatte sulle Ande.
Dal momento che non era riuscito a vedere l’Himalaya, l’Altai era
quanto di più simile poteva ottenere per raccogliere dati in una catena
montuosa dell’Asia centrale. I risultati della spedizione russa, scrisse
in seguito, erano basati su queste “analogie e contrasti”27. L’Altai era il
motivo per cui aveva resistito a tanti scomodi spostamenti notturni
sulla carrozza sferragliante. Erano riusciti a recuperare così tanto
tempo che riteneva di poter estendere l’itinerario senza incorrere in
troppi impicci. Aveva già scritto a Wilhelm delle sue intenzioni da
Ekaterinburg, ma non ne aveva parlato a nessun altro. Si limitò a
informare Cancrin del “piccolo allungamento”28 del percorso il giorno
prima di lasciare Tobolsk – ben consapevole che Cancrin, nella
lontana San Pietroburgo, non poteva farci niente.
Humboldt cercò di placare Cancrin promettendogli di visitare più
miniere, accennandogli anche che sperava di trovare alcuni animali e
piante rare. Era la sua ultima occasione prima di “morire”29, aggiunse
in tono melodrammatico. Invece di tornare indietro, Humboldt
continuò verso est attraverso le steppe di Baraba in direzione di
Barnaul e delle pendici occidentali delle montagne dell’Altai. Allorché
Cancrin ricevette la lettera, quasi un mese dopo, Humboldt aveva da
tempo raggiunto la sua destinazione30.
Una volta lasciata Tobolsk e abbandonato l’itinerario prescritto,
cominciò finalmente a godersela. L’età non lo aveva calmato. I membri
della spedizione erano stupiti di come questo uomo di cinquantanove
anni fosse in grado di camminare per ore “senza alcun segno di
affaticamento”31, indossando sempre una redingote scura, con un
foulard bianco e un cappello a tese. Aveva una camminata prudente,
ma decisa e costante. Quanto più duro era il percorso, tanto più gli
piaceva. A prima vista, questa spedizione poteva non essere altrettanto
eccitante delle avventure in Sud America, ma ora stavano entrando in
un paesaggio molto più selvaggio. A migliaia di chilometri dai centri
scientifici dell’Europa, Humboldt si trovava ora a viaggiare attraverso
una regione aspra. Le steppe si estendevano a est per circa 2.500
chilometri fra Tobolsk e Barnaul ai piedi della catena dell’Altai.
Continuando sulla Grande strada siberiana, i villaggi si facevano più
radi e distanziati – abbastanza frequenti da consentire di cambiare i
cavalli – ma in mezzo il territorio era spesso deserto32.
C’era della bellezza in questo vuoto. La fioritura estiva aveva
trasformato le piante in un mare di rossi e di azzurri. Humboldt
vedeva le alte punte rossastre, a forma di candela, dei salici
(Epilobium angustifolia) e i blu brillanti dei delfinii (Delphinium
elatum). Altrove il colore era quello dei vividi rossi della Croce Maltese
(Lychnis chalcedonica) che sembravano dare fuoco alla steppa, ma
ancora c’erano pochi animali e uccelli.
Il termometro passava da 6 °C la notte ai 30 °C durante il giorno.
Humboldt e i suoi compagni erano tormentati dalle zanzare, proprio
come era stato, insieme con Bonpland, durante la spedizione
sull’Orinoco quasi trent’anni prima. Per proteggersi, indossavano
ingombranti maschere di pelle33. Queste maschere avevano una
piccola apertura per gli occhi, coperta da una retina fatta di crine di
cavallo per poter vedere – proteggevano contro gli insetti nocivi, ma
bloccavano anche l’aria. Facevano un caldo insopportabile. Ma nulla
importava. Humboldt era di ottimo umore, perché si era liberato dei
controlli dell’amministrazione russa. Viaggiavano giorno e notte,
dormendo nelle carrozze sobbalzanti. Era come “un viaggio per mare
sulla terra”34, scrisse Humboldt, scivolavano sulle pianure monotone
come sull’oceano. Facevano in media più di 150 chilometri al giorno e
talvolta percorrevano quasi 300 chilometri in ventiquattro ore. La
transiberiana era una delle migliori strade d’Europa. Andavano più
veloci, osservò con orgoglio Humboldt, di qualsiasi corriere espresso
europeo.
Poi, il 29 luglio 1829, cinque giorni dopo aver lasciato Tobolsk, tutto
improvvisamente si bloccò. Le persone del luogo li informarono che
nella steppa di Baraba si stava diffondendo un’epidemia di antrace – la
“Sibirische Pest”, come la chiamavano i tedeschi35. L’antrace si
contrae, generalmente, attraverso gli animali erbivori come i bovini e
le capre quando ingeriscono le spore estremamente resistenti del
batterio che genera la malattia. Si può allora trasmettere agli esseri
umani – una malattia mortale senza rimedi. Non c’era altra strada per
le montagne dell’Altai se non quella che passava attraverso la regione
infetta. Humboldt decise rapidamente. Antrace o non, sarebbero
andati avanti. “Alla mia età”, disse, “non si può rimandare nulla.”36
Tutti i servitori furono fatti salire sulle carrozze, invece di restare fuori,
e raccolsero acqua e provviste per ridurre al minimo i contatti con
persone e cibi contaminati. Avrebbero ancora dovuto cambiare
regolarmente i cavalli, comunque, con il rischio di prendersi un cavallo
infetto.

Humboldt a cavallo attraverso la steppa di Baraba


Seduti in silenzio e al caldo, rattrappiti dietro i portelli serrati delle
loro piccole carrozze, passarono attraverso un paesaggio di morte. Le
“tracce della peste”37 erano ovunque, annotò nel suo diario il
compagno di Humboldt Gustav Rose. Fuochi ardevano all’ingresso e
all’uscita dei villaggi come atto rituale per “purificare l’aria”38. Videro
piccoli ospedali di fortuna e animali morti che giacevano nei campi.
Solo in un piccolo villaggio erano morti 500 cavalli.
Dopo alcuni giorni di viaggio disagevole, raggiunsero il fiume Obi,
che segnava la fine della steppa. Poiché questa era anche la linea di
demarcazione dell’epidemia di antrace, dovevano solo attraversare il
fiume per sfuggirgli. Mentre si stavano preparando, però, si alzò il
vento e nel giro di breve tempo si trasformò in una violenta
tempesta39. Le onde erano troppo alte per il battello che traghettava le
carrozze e le persone. Una volta tanto, Humboldt non si infastidì per il
rinvio. I giorni precedenti erano stati agitati, ma ora il peggio era quasi
passato. Arrostirono un po’ di pesce fresco e si godettero la pioggia,
perché le zanzare erano scomparse. Finalmente si potevano togliere le
soffocanti maschere. Dall’altra parte, le montagne attendevano
Humboldt. Quando la tempesta si calmò, attraversarono il fiume e il 2
agosto arrivarono alla fiorente città mineraria di Barnaul – Humboldt
aveva quasi raggiunto la sua destinazione. Da Tobolsk avevano fatto
oltre 1.500 chilometri in appena nove giorni40. Erano ora a 5.500
chilometri a est di Berlino, quanto distava Caracas da Berlino, calcolò
Humboldt41.
Tre giorni dopo, il 5 agosto, Humboldt scorse per la prima volta le
montagne dell’Altai levarsi in lontananza42. Sulle pendici, c’erano
diverse miniere e fonderie che ispezionarono quando presero la
direzione di Ust-Kamenogorsk, una fortezza nei pressi del confine con
la Mongolia – Oskemen, nell’attuale Kazakistan. Da qui il percorso
verso le montagne divenne così ripido che lasciarono le carrozze e la
maggior parte del bagaglio presso la fortezza, continuando su piccoli
carri dal pianale piatto, usati dagli abitanti del luogo43. Spesso,
quando salivano più in alto, andavano a piedi, oltrepassando
gigantesche pareti e caverne di granito, dove Humboldt analizzava gli
strati rocciosi scarabocchiando appunti e disegnando schizzi. Talvolta,
mentre gli scienziati suoi compagni di viaggio, Gustav Rose e Christian
Gottfried Ehrenberg, raccoglievano piante e rocce, Humboldt si faceva
impaziente e correva avanti per salire più in alto o raggiungere una
caverna44. Ehrenberg si lasciava talmente distrarre dalle piante che i
cosacchi che lo accompagnavano dovevano regolarmente andare a
cercarlo. Una volta lo trovarono bagnato fradicio, in mezzo a un
pantano con alcune erbe in una mano e nell’altra alcuni esemplari
somiglianti a muschio che egli dichiarò, con gli occhi annebbiati,
essere lo stesso che “ricopriva il fondo del Mar Rosso”45.
Humboldt era di nuovo nel suo elemento. Strisciando in pozzi
profondi, scalpellando le rocce per ricavare frammenti, pressando le
piante e arrampicandosi sulle montagne, confrontava le vene dei
minerali che trovava con quelle di Nuova Granada in Sud America, le
montagne stesse con quelle delle Ande e le steppe siberiane con gli
llanos del Venezuela. Gli Urali potevano essere importanti in termini
di industria mineraria, diceva Humboldt, ma il “vero godimento”46
della spedizione era cominciato solo sulle montagne dell’Altai.
Nelle vallate le erbe e i cespugli erano così alti che non riuscivano a
vedersi fra di loro neanche a distanza di due passi; più in alto le piante
scomparivano del tutto47. Le gigantesche montagne si ergevano come
“duomi poderosi”48, annotò Rose nel suo diario. Potevano vedere la
sommità del Belucha che, con i suoi 4.506 metri, era di 2.000 metri
più basso del Chimborazo, ma era il monte più alto dell’Altai, con le
due cime interamente coperte di neve. A metà agosto, erano penetrati
in profondità nella catena montuosa tanto che i picchi più alti
apparivano vicini e allettanti. Il problema era che erano troppo avanti
nella stagione – c’era troppa neve per salire più in alto. Un po’ di neve
si era sciolta in maggio, ma ad agosto le montagne erano di nuovo
ricoperte. Humboldt dovette ammettere la sconfitta, sebbene la vista
del Belucha lo inducesse ad andare avanti49. Non era possibile che in
queste condizioni riuscissero a salire – in effetti, si è dovuta attendere
la seconda decade del ventesimo secolo prima che il Belucha venisse
conquistato. Le alte vette dell’Asia centrale erano fuori portata.
Humboldt poteva vederle, ma non ne avrebbe mai scalato la sommità.
La stagione, come l’età, erano contro di lui.
Malgrado questa delusione, Humboldt sentiva di aver visto
abbastanza. I suoi bauli erano pieni di piante pressate e di lunghe
tabelle di rilevazioni nonché di rocce e di campioni di minerali.
Quando incontrava qualche sorgente termale, ne deduceva che era
collegata ai leggeri terremoti della zona50. Per quanto camminassero e
si arrampicassero nel corso della giornata, la sera aveva ancora
abbastanza energia per sistemare gli strumenti per le sue osservazioni
astronomiche. Si sentiva forte e in forma. “La mia salute”, scrisse a
Wilhelm, “è eccellente.”51
Mentre erano in marcia, Humboldt decise che gli sarebbe piaciuto
attraversare il confine con la Cina-Mongolia. Fu inviato un cosacco per
preparare e annunciare il loro arrivo ai funzionari che pattugliavano la
regione. Il 17 agosto Humboldt e i suoi compagni arrivarono a Baty,
dove trovarono il posto di confine mongolo sulla riva sinistra del fiume
Irtyš e quello cinese sulla riva destra52. C’erano alcune yurte, qualche
cammello, greggi di capre e un’ottantina di soldatacci vestiti di
“stracci”53, come li descrisse Humboldt.
Humboldt cominciò dalla postazione cinese, andando a visitare il
comandante nella sua yurta. Qui, seduti su cuscini e tappeti,
Humboldt presentò i suoi doni: tessuti, zucchero, matite e vino.
Espressioni di amicizia furono scambiate attraverso una catena di
interpreti, prima dal tedesco al russo, poi dal russo al mongolo e infine
dal mongolo al cinese. Diversamente dai suoi soldati trasandati, il
comandante, che era arrivato da Pechino solo pochi giorni prima,
faceva decisamente colpo, con la sua lunga casacca di seta blu e un
cappello adorno di splendide piume di pavone.
Dopo un paio d’ore, Humboldt fu trasportato in barca attraverso il
fiume per incontrare il capo mongolo nell’altra yurta. Per tutto il
tempo il pubblico andò ingrossando. I mongoli erano affascinati dai
loro ospiti stranieri; toccavano Humboldt e i suoi compagni, li
punzecchiavano. Davano colpetti alle pance, sollevavano i cappotti, gli
davano delle gomitatine – una volta tanto era Humboldt l’esemplare
esotico, ma gli piaceva ogni attimo di quello strano incontro. Era stato
in Cina, nel “Celeste Impero”54, scrisse a casa.
Era tempo di tornare indietro. Poiché Cancrin gli aveva
assolutamente proibito di procedere più a est di Tobolsk, Humboldt
voleva assicurarsi di arrivare a San Pietroburgo almeno in tempo per
rispettare la data concordata. Dovevano andare a prendere le loro
carrozze alla fortezza di Ust-Kamenorogorsk e poi puntare a ovest
lungo il confine meridionale dell’Impero russo, passando per Omsk,
Miass e Orenburg, un viaggio di circa 5.000 chilometri, seguendo il
confine che separava la Russia dalla Cina. Il confine, una linea lunga
3.500 chilometri punteggiata di stazioni, torri di guardia e piccole
fortezze tenute dai cosacchi lungo la steppa kazaka, era la patria dei
nomadi kirghisi*55.
A Miass, il 14 settembre, Humboldt festeggiò il sessantesimo
compleanno con il farmacista locale, un uomo che la storia avrebbe
ricordato come nonno di Vladimir Lenin56. Il giorno successivo,
Humboldt inviò una lettera a Cancrin per raccontargli che aveva
raggiunto un punto di svolta nella sua vita. Sebbene non avesse
ottenuto tutto quello che desiderava prima che l’età affievolisse le sue
energie, aveva visto l’Altai e le steppe, che gli avevano dato la massima
soddisfazione e anche i dati di cui aveva bisogno. “Trent’anni fa”,
scrisse a Cancrin, “sono stato nelle foreste dell’Orinoco e sulla
Cordigliera.” Ora era riuscito finalmente a mettere insieme “la grande
massa di idee” che ancora gli mancava. L’anno 1829 era “il più
importante della sua vita irrequieta”57.
Da Miass continuarono a ovest verso Orenburg, dove Humboldt
decise ancora una volta di deviare dal loro percorso58. Invece di
dirigersi a nord-ovest, verso Mosca e poi San Pietroburgo, piegò invece
a sud verso il Mar Caspio – un’altra lunga deviazione non autorizzata.
Da ragazzo aveva sognato di viaggiare fino al Mar Caspio, scrisse a
Cancrin la mattina della partenza. Doveva vedere questo enorme mare
interno prima che per lui fosse troppo tardi.
Fu, probabilmente, la notizia della vittoria della Russia contro gli
ottomani a incoraggiare Humboldt a cambiare i suoi piani. Cancrin
aveva tenuto informato Humboldt tramite corriere espresso59. Nei
mesi precedenti, soldati russi avevano marciato verso Costantinopoli
da entrambi i lati del Mar Nero, sconfiggendo ripetutamente l’esercito
ottomano. Poiché varie fortezze turche erano cadute, il sultano
Maometto II aveva capito che la vittoria era dalla parte russa. Il 14
settembre fu firmato il Trattato di Adrianopoli e la guerra finì – si
spalancava una regione enorme che era stata inaccessibile e troppo
pericolosa per Humboldt. Solo dieci giorni dopo Humboldt avvertì il
fratello che erano in viaggio verso Astrakhan sulle sponde del Volga,
dove il grande fiume si getta nell’estremità settentrionale del Mar
Caspio60. La “pace davanti alle porte di Costantinopoli”61, scrisse
Humboldt a Cancrin, era una notizia “magnifica”.
A metà ottobre, raggiunsero Astrakhan e si imbarcarono su di un
piroscafo per esplorare il Mar Caspio e il Volga62. Il Mar Caspio era
conosciuto per il livello fluttuante delle sue acque – un fatto che
affascinava Humboldt quanto era stato incuriosito, trent’anni prima,
dal lago di Valencia in Venezuela. Era convinto, disse poi a degli
scienziati di San Pietroburgo, che si sarebbero dovute disporre stazioni
di misurazione tutto intorno al lago per registrare sistematicamente
l’aumento e la diminuzione del livello dell’acqua, ma anche per fare
indagini su di un eventuale movimento del terreno; la causa delle
variazioni, suggerì, potevano essere vulcani e forze sotterranee63. In
seguito, avanzò l’ipotesi che la Depressione caspica – la regione
intorno alla parte settentrionale del Mar Caspio, che si trova a quasi
30 metri sotto il livello del mare, potesse essersi prodotta a seguito del
sollevamento degli altopiani dell’Asia centrale e dell’Himalaya64.
Oggi sappiamo che ci sono molteplici ragioni che spiegano le
variazioni del livello dell’acqua. Un fattore è la quantità d’acqua che
proviene dal Volga, che è legata alle piogge di un enorme bacino
pluviale – tutte cose che, a loro volta, sono collegate alle condizioni
atmosferiche dell’Atlantico settentrionale. Molti scienziati credono ora
che queste fluttuazioni riflettano variazioni climatiche nell’emisfero
settentrionale, facendo del Mar Caspio un importante campo di studio
per le ricerche sul cambiamento climatico. Altre teorie sostengono che
i livelli dell’acqua sono influenzati da forze tettoniche. Sono
esattamente quel genere di connessioni globali che interessavano
Humboldt. Vedere il Mar Caspio, scrisse a Wilhelm, era uno dei
“momenti più importanti della mia vita.”65
Era ora la fine di ottobre e l’inverno russo incombeva su di loro.
Humboldt era atteso prima a Mosca e poi a San Pietroburgo per
riferire sulla sua spedizione. Era felice. Aveva visto miniere profonde e
montagne incappucciate di neve nonché la steppa asciutta più vasta
del mondo e il Mar Caspio. Aveva bevuto il tè con i comandanti cinesi
al confine mongolo nonché latte d’asina fermentato con i kirghisi. Fra
Astrakhan e Volgograd, il dotto khan del popolo calmucco aveva
organizzato un concerto in onore di Humboldt con un coro calmucco
che cantava ouverture di Mozart. Humboldt aveva osservato le antilopi
Saiga che correvano nella steppa kazaka, serpenti che se ne stavano al
sole in un’isola del Volga e un fachiro indiano nudo ad Astrakhan.
Aveva correttamente predetto la presenza di diamanti in Siberia,
contro le istruzioni ricevute aveva parlato con gli esuli politici e aveva
anche incontrato un polacco che era stato deportato a Orenburg e che
mostrò orgoglioso a Humboldt la sua copia del Saggio politico sul
regno della Nuova Spagna. Nei mesi precedenti, Humboldt era
sopravvissuto a un’epidemia di antrace e aveva perso peso perché
trovava indigeribile il cibo siberiano. Aveva calato il suo termometro in
pozzi profondi, portato i suoi strumenti per tutto l’Impero russo e fatto
migliaia di misurazioni. Lui e i suoi compagni ritornavano con rocce,
piante pressate, pesci nelle ampolle e animali impagliati nonché
manoscritti e libri antichi per Wilhelm66.
Come sempre, Humboldt non era interessato solo alla botanica, alla
zoologia o alla geologia, ma anche all’agricoltura e alla silvicoltura.
Avendo notato la rapida scomparsa dei boschi intorno ai centri
minerari, aveva scritto a Cancrin sulla “mancanza di alberi da
legname”67 e lo aveva messo in guardia contro l’uso di macchine a
vapore per prosciugare le miniere inondate perché questo significava
consumare troppi alberi. Nella steppa del Baraba, dove era
imperversata l’epidemia di antrace, Humboldt aveva osservato
l’impatto ambientale dell’agricoltura intensiva. La regione era (ed è)
un importante centro agricolo della Siberia e gli agricoltori avevano
prosciugato paludi e laghi per trasformare il terreno in campi e
pascoli. Questo aveva provocato un considerevole inaridimento delle
pianure acquitrinose che sarebbe continuato ad aumentare, era la
conclusione di Humboldt68.
Humboldt era alla ricerca delle “connessioni che collegavano tutti i
fenomeni e tutte le forze della natura”69. La Russia era il capitolo
finale nella sua conoscenza della natura – unificava, confermava e
metteva in relazione tutti i dati che aveva raccolto nei decenni passati.
La comparazione, non la scoperta, era il suo motivo conduttore. In
seguito, quando pubblicò in due libri* i risultati della spedizione russa,
Humboldt scrisse della distruzione delle foreste e dei cambiamenti a
lungo termine indotti nell’ambiente dal genere umano70. Quando
descrisse i tre modi in cui la specie umana influenzava il clima, elencò
la deforestazione, l’irrigazione sconsiderata e, forse più
profeticamente, le “grandi masse di vapore e di gas”71 prodotte dai
centri industriali. Nessuno prima aveva considerato la relazione fra
genere umano e natura in questo modo*72.
Il 13 novembre 1829, infine, Humboldt giunse a San Pietroburgo. La
sua resistenza era stata stupefacente. Dal momento della partenza da
San Pietroburgo, il 20 maggio, il suo gruppo aveva viaggiato per
15.000 chilometri in meno di sei mesi, toccando 658 stazioni di posta e
usando 12.244 cavalli73. Humboldt si sentiva più in salute che mai,
rinvigorito dal fatto di stare all’aperto così a lungo e dall’eccitazione
delle avventure vissute74. Tutti volevano sapere della spedizione.
Aveva già sperimentato un simile spettacolo a Mosca pochi giorni
prima, quando mezza città sembrava essersi raccolta per incontrarlo,
tutti con l’uniforme di gala e decorati di nastri75. In entrambe le città,
si tennero ricevimenti in suo onore e si pronunciarono discorsi,
acclamandolo come il “Prometeo dei nostri giorni”76. Nessuno
sembrava prestare attenzione al fatto che aveva deviato dal percorso
originario.
Questi ricevimenti formali irritavano Humboldt. Invece che parlare
delle sue rilevazioni climatiche e delle indagini geologiche, si trovò
costretto ad ammirare una treccia fatta con i capelli di Pietro il
Grande. Mentre la famiglia reale desiderava sapere di più della
spettacolare scoperta dei diamanti, gli scienziati russi erano impazienti
di vedere le sue collezioni. E continuò di questo passo, con Humboldt
che passava da una persona all’altra. Per quanto potesse detestare
questi momenti, restava affascinante e paziente. Il poeta russo
Aleksandr Puškin si era innamorato di Humboldt. “Dalla sua bocca
sgorgavano discorsi seducenti”77, disse Puškin, proprio come l’acqua
che scendeva dal leone di marmo nella fontana della Grande Cascata
nel palazzo reale di San Pietroburgo. In privato, Humboldt si
lamentava dei cerimoniali sfarzosi. “Sto quasi per crollare sotto il peso
dei doveri”78, scrisse a Wilhelm, ma cercò anche di sfruttare un po’
della fama e dell’influenza raggiunte. Sebbene si fosse astenuto dal
criticare pubblicamente le condizioni di contadini e operai, chiese ora
allo zar di concedere la grazia ad alcune delle persone deportate che
aveva incontrato durante il viaggio79.
Humboldt tenne anche una conferenza all’Accademia imperiale
delle scienze di San Pietroburgo, che avrebbe dato origine a una vasta
collaborazione scientifica internazionale. Per decenni, Humboldt si era
interessato di geomagnetismo – così come di clima – perché era una
forza globale. Deciso ad approfondire la conoscenza di ciò che
chiamava il “movimento misterioso dell’ago magnetico”80, Humboldt
suggerì ora di creare una catena di stazioni di osservazione in tutto
l’Impero russo. L’obiettivo era di scoprire se le variazioni magnetiche
erano di origine terrestre – generate, per esempio, dai cambiamenti
climatici – o erano causate dal sole. Il geomagnetismo era un
fenomeno fondamentale se si voleva comprendere la correlazione fra il
cielo e la terra, perché poteva “rivelarci”, diceva Humboldt, “cosa
succede a grande profondità all’interno del nostro pianeta o nelle
regioni più alte della nostra atmosfera”81.
Humboldt aveva a lungo indagato il fenomeno. Sulle Ande aveva
scoperto l’equatore magnetico e durante il soggiorno forzato a Berlino
nel 1806, quando l’esercito francese in Prussia gli aveva impedito di
tornare a Parigi, lui e un collega avevano compiuto rilevazioni
magnetiche a ogni ora del giorno – giorno e notte – un esperimento
che poi aveva ripetuto al suo ritorno nel 182782. Dopo la spedizione in
Russia, Humboldt aveva anche raccomandato che i colleghi tedeschi,
insieme con le autorità britanniche, francesi e americane, lavorassero
tutti insieme per raccogliere il maggior numero di dati globali. Si
appellava a loro in quanto membri di una “grande confederazione”83.

L’Accademia imperiale delle scienze a San Pietroburgo


Nel giro di pochi anni, una rete di stazioni magnetiche circondava il
globo: a San Pietroburgo, a Pechino e in Alaska, in Canada e nella
Giamaica, in Austria e in Nuova Zelanda, nello Sri Lanka e anche
nell’isola remota di Sant’Elena nell’Atlantico meridionale, dove era
stato confinato Napoleone. In tre anni, sarebbero stati effettuati quasi
due milioni di rilevazioni84. Come gli scienziati odierni del
cambiamento climatico, coloro che lavoravano in queste nuove
stazioni raccoglievano dati globali, prendendo parte a quello che oggi
chiameremmo un “grande progetto scientifico”. Era una
collaborazione internazionale su vasta scala – la cosiddetta “Crociata
magnetica”.
Humboldt usò la conferenza a San Pietroburgo anche per
incoraggiare gli studi sul clima in tutto il vasto Impero russo. Aveva
bisogno di dati riguardanti gli effetti sul clima della distruzione delle
foreste – il primo studio su vasta scala per indagare l’impatto
dell’uomo sulle condizioni climatiche. Era dovere degli scienziati,
diceva Humboldt, esaminare gli elementi variabili nell’“economia della
natura”85.
Due settimane dopo, il 15 dicembre, Humboldt lasciò San
Pietroburgo. Prima di partire, restituì un terzo dei soldi che aveva
ricevuto per le spese, chiedendo a Cancrin di utilizzarli per finanziare
un altro esploratore – l’acquisizione di conoscenze era più importante
del suo personale guadagno finanziario86. Le sue carrozze furono
riempite delle collezioni che aveva raccolto per il re prussiano – così
ricolme di esemplari che erano un “gabinetto di storia naturale”87 su
ruote, disse Humboldt. Stipati in mezzo alle collezioni, c’erano gli
strumenti di Humboldt, i suoi taccuini e un magnifico vaso alto più di
due metri insieme con una preziosa pelliccia di zibellino*.
Quando si misero in viaggio per Mosca, faceva un freddo polare.
Presso Riga, su di una strada ricoperta di ghiaccio infido, il cocchiere
di Humboldt perse il controllo e la carrozza andò a schiantarsi a tutta
velocità contro un ponte. L’impatto infranse il parapetto e uno dei
cavalli cadde nel fiume, due metri sotto, insieme con il suo carico. Un
fianco della carrozza era completamente distrutto. Humboldt e altri
passeggeri furono catapultati fuori, finendo ad appena dieci centimetri
dal bordo del ponte. Sorprendentemente, solo il cavallo si fece male,
ma la carrozza era danneggiata a tal punto che le riparazioni richiesero
alcuni giorni. Humboldt era ancora eccitato. In bilico sul bordo del
ponte, dovevano aver avuto un aspetto piuttosto “pittoresco”88, fu la
sua riflessione. Disse anche, scherzando, che con tre eruditi nella
carrozza, ovviamente, se ne erano usciti con una quantità di “teorie
contraddittorie”89 sulle cause dello schianto. Passarono il Natale a
Königsberg (oggi Kaliningrad) e il 28 dicembre 1829 Humboldt arrivò
a Berlino, spumeggiando di tante idee che “fumava come una pentola
piena d’acqua bollente”90, riferì a Goethe un amico.
Questa fu l’ultima spedizione di Humboldt. Non avrebbe più
viaggiato per il mondo, ma le sue idee sulla natura si stavano già
diffondendo nelle teste dei pensatori d’Europa e d’America con un
impeto pressoché inarrestabile.
1. Beck 1983, p. 35.
2. AH a WH, 21 giugno 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 138; Rose 1837-42, vol. 1, pp. 386
sgg.
3. AH a WH, 21 giugno 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 138.
4. Ibid.
5. AH a Cancrin, 10 gennaio 1829, ivi, p. 86.
6. Beck 1983, p. 76.
7. AH a WH, 8 giugno e 21 giugno 1829, AH Lettere Russia 2009, pp. 132, 138.
8. AH a WH, 8 giugno 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 132; Beck 1983, p. 55.
9. Cancrin a AH, 30 gennaio 1829; AH a Ehrenberg, marzo 1829, AH Lettere Russia 2009, pp.
91, 100; Beck 1983, p. 27.
10. CH a August von Hedemann, 17 marzo 1829, WH CH Lettere 1910-16, vol. 7, p. 342; per la
morte di CH, vedi Gall 2011, pp. 379-80.
11. AH a Michail Semënovic Voroncov, 19 maggio 1829 e AH a Cancrin, 10 gennaio 1829, AH
Lettere Russia 2009, pp. 86, 119.
12. Cancrin a AH, 30 gennaio 1829, ivi, p. 93.
13. Suckow 1999, p. 162.
14. AH a Cancrin, 15 settembre 1829 e 5 novembre 1829; AH a WH, 21 novembre 1829, AH
Lettere Russia 2009, pp. 185, 204-5, 220. Era l’arenaria itacolumite che indicava i diamanti.
AH in seguito preannunciò correttamente anche l’oro, il platino e i diamanti nella Carolina del
Sud e in California.
15. AH Fragmente Asien 1832, p. 5.
16. Cossack in Perm, giugno 1829, Beck 1959, p. 103.
17. Polier a Cancrin, Report about diamonds, Rose 1837-42, vol. 1, pp. 356 sgg.; Beck 1983, pp.
81 sgg.; AH a WH, 21 novembre 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 220.
18. Beck 1959-61, vol. 2, p. 117.
19. Beck 1983, p. 82.
20. AH a Cancrin, 15 settembre 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 185.
21. AH Cuba, 2011, pp. 142-3.
22. AH a Cancrin, 10 gennaio 1829; per la risposta di Cancrin, vedi Cancrin a AH, 10 luglio
1829, AH Lettere Russia 2009, pp. 86, 93.
23. AH a Cancrin, 17 luglio 1829, ivi, p. 148.
24. Beck 1983, pp. 71 sgg.
25. AH a WH, 21 giugno 1829, vedi anche 8 giugno e 14 luglio 1829, ivi, pp. 132, 138, 146.
26. Rose 1837-42, vol. 1, p. 487.
27. AH Central-Asien 1844, vol. 1, p. 2.
28. AH a Cancrin, 23 luglio 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 153.
29. Ivi, p. 154.
30. Cancrin a AH, 18 agosto 1829, ivi, p. 175.
31. Gregor von Helmersen, settembre 1828, Beck 1959, p. 108.
32. Rose 1837-42, vol. 1, pp. 494-6.
33. AH a Cancrin, 23 luglio 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 154; Rose 1837-42, pp. 494-8;
Beck 1983, pp. 96 sgg.
34. AH a WH, 4 agosto 1829, AH Lettere Russia 2009, pp. 161, 163, e Suckow 1999, p. 163.
35. Rose 1837-42, vol. 1, p. 499; AH a WH, 4 agosto 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 161.
36. AH a Cancrin, 27 agosto 1829, ivi, p. 177.
37. Rose 1837-42, vol. 1, p. 500.
38. Ibid.
39. Ivi, p. 502; AH a WH, 4 agosto 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 162.
40. Rose 1837-42, vol. 1, p. 502.
41. AH a WH, 4 agosto 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 162.
42. Rose 1837-42, vol. 1, p. 523.
43. Ivi, p. 580.
44. Ivi, p. 589.
45. Jermoloff su Ehrenberg, Beck 1983, p. 122.
46. AH a Cancrin, 27 agosto 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 178.
47. Rose 1837-42, vol. 1, pp. 575, 590.
48. Ivi, p. 577; per il Belucha pp. 559, 595.
49. Ivi, p. 594.
50. Ivi, p. 597.
51. AH a WH, 10 settembre 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 181.
52. Rose 1837-42, vol. 1, pp. 600-606; AH a Arago, 20 agosto 1829, AH Lettere Russia 2009,
p. 170.
53. AH a Arago, 20 agosto 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 170.
54. AH a WH, 13 agosto 1829, ivi, p. 172.
55. (nota a piè di pagina) Beck 1983, p. 120ff; AH a WH, 10 e 25 settembre 1829, pp. 181, 188.
56. Ivi, p. 128.
57. AH a Cancrin, 15 settembre 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 184.
58. AH a Cancrin, 26 settembre 1829, ivi, p. 191; vedi anche AH, Aspects, vol. 2, p. 300; AH
Views 2014, p. 283; AH Ansichten 1849, vol. 2, p. 363.
59. Cancrin a AH, 31 luglio 1829 e 18 agosto 1829, AH Lettere Russia 2009, pp. 158, 175.
60. AH a WH, 25 settembre 1829, ivi, p. 188.
61. AH a Cancrin, 21 ottobre 1829, ivi, p. 200.
62. Rose 1837-42, vol. 2, pp. 306 sgg.; Beck 1983, pp. 147 sgg.
63. AH, Discorso all’Accademia imperiale delle scienze di San Pietroburgo, 28 novembre 1829,
AH Lettere Russia 2009, pp. 283-4.
64. AH Fragmente Asien 1832, p. 50.
65. AH a WH, 14 ottobre 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 196.
66. Per il latte d’asina, vedi AH a WH, 25 settembre 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 188; per
il coro calmucco, vedi Rose 1837-42, vol. 2, p. 344; per le antilopi, i serpenti e il fachiro, vedi
AH a WH, 10 settembre e 21 ottobre 1829, AH Lettere Russia 2009, pp. 181, 199; Rose 1837-
42, vol. 2, p. 312; per il termometro e la copia del Saggio, vedi Beck 1983, pp. 113, 133; per il
cibo siberiano, vedi AH a Friedrich von Schöler, 13 ottobre 1829, AH Lettere Russia 2009, p.
193.
67. AH a Cancrin, 21 giugno 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 136.
68. AH Fragmente Asien 1832, p. 27.
69. AH Central-Asien 1844, vol. 1, p. 27.
70. Ivi, p. 26; vedi anche vol. 1, p. 337 e vol. 2, p. 214; AH Fragmente Asien 1832, p. 27.
71. Ivi, vol. 2, p. 214.
72. (nota a piè di pagina) AH Central-Asien 1844, vol. 1, p. 337.
73. Bruhns 1873, vol. 1, p. 380; Suckow 1999, p. 163.
74. AH a Cancrin, 5 novembre 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 204.
75. Aleksandr Herzen, novembre 1829, Bruhns 1873, vol. 1, pp. 384-6; AH a WH, 21 novembre
1829, AH Lettere Russia 2009, pp. 219-20.
76. Sergej Glinka, Bruhns 1873, vol. 1, p. 385.
77. Puškin nel 1829, riferito da Georg Schmid nel 1830, AH Lettere Russia 2009, p. 251.
78. AH a WH, 21 novembre 1829, ivi, p. 219.
79. AH a Tsar Nicholas I, 7 dicembre 1829, ivi, p. 233.
80. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 167; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 185.
81. Relazione per lettera da AH alla Royal Society, 9 giugno 1836, Abstracts of the Papers
Printed in the Philosophical Transactions of the Royal Society of London, vol. 3, 1830-37, p.
420 (Humboldt aveva scritto la lettera nell’aprile 1836).
82. Biermann e Schwarz 1999a, p. 187.
83. Relazione per lettera da AH alla Royal Society, 9 giugno 1836, Abstracts of the Papers
Printed in the Philosophical Transactions of the Royal Society of London, vol. 3, 1830-37, p.
423; vedi anche O’Hara 1983, pp. 49-50.
84. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 178; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 197.
85. AH, Discorso all’Accademia imperiale delle scienze di San Pietroburgo, 28 novembre 1829,
AH Lettere Russia 2009, p. 277; per l’appello di AH per gli studi sul clima globale vedi p. 281.
86. AH a Cancrin, 17 novembre 1829, ivi, p. 215; Beck 1983, p. 159.
87. AH a Theodor von Schön, 9 dicembre 1829; per il vaso e la pelliccia di zibellino, vedi AH a
WH, 9 dicembre 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 237.
88. AH a Cancrin, 24 dicembre 1829, ivi, p. 257.
89. Ibid.
90. Carl Friedrich Zelter a Goethe, 2 febbraio 1830, Bratranek 1876, p. 384.
*. La steppa kazaka è la più vasta steppa asciutta al mondo e si estende dalla catena montuosa
dell’Altai a est al Mar Caspio a ovest.
*.I due libri erano Fragments de géologie et de climatologie asiatiques (1831) e Asie centrale,
recherches sur les chaînes de montagnes et la climatologie comparée (1843).
*. Le opinioni di Humboldt erano così nuove e diverse da quanto generalmente si riteneva
all’epoca che anche il traduttore mise in dubbio gli argomenti. Nell’edizione tedesca, il
traduttore aggiunse una nota a piè di pagina per spiegare che l’influenza della deforestazione
presentata da Humboldt era “discutibile”.
*. Humboldt regalò il vaso all’Altes Museum di Berlino. Oggi è alla Alte Nationalgalerie.
Capitolo diciassettesimo

Evoluzione e natura

Charles Darwin e Humboldt

HMS (Her Majesty Ship) Beagle andava su e giù sulle onde con
implacabile regolarità, mentre il vento scompigliava le tele rigonfie
delle vele. La nave aveva lasciato Portsmouth, sulla costa meridionale
dell’Inghilterra quattro giorni prima, il 27 dicembre 1831, per un
viaggio intorno al globo con lo scopo di studiare le linee costiere e
misurare la posizione geografica esatta dei porti. A bordo c’era il
ventiduenne Charles Darwin, che si sentiva “maledettamente giù di
morale”1. Non era questo il modo in cui aveva immaginato la sua
avventura. Invece di stare in coperta a guardare il mare in tempesta,
mentre attraversavano il Golfo di Biscaglia in direzione di Madeira,
Darwin si sentiva più infelice di quanto si fosse mai sentito prima.
Soffriva un tale mal di mare che l’unica maniera di sopportarlo era di
rifugiarsi nella sua cabina, mangiare gallette e starsene disteso2.
La piccola cabina a poppa, che divideva con due membri
dell’equipaggio, era così stipata che la sua amaca era appesa sopra il
tavolo su cui gli ufficiali lavoravano con le carte nautiche. La cabina
era all’incirca tre metri per tre, contornata di scaffali, armadietti e una
cassapanca a cassetti lungo le pareti e il grande tavolo da lavoro al
centro3. Alto più di un metro e ottanta, Darwin non aveva lo spazio
per stare in piedi. Al centro del piccolo ambiente passava l’albero di
mezzana, come una grande colonna a lato del tavolo. Per muoversi
nella cabina, gli uomini dovevano arrampicarsi sulle grosse travi
dell’agghiaccio che attraversavano il pavimento. Non c’erano finestre,
tranne un lucernario attraverso il quale Darwin guardava la luna e le
stelle quando giaceva sull’amaca.
Sul piccolo scaffale accanto all’amaca c’erano le cose più preziose di
Darwin: i libri che aveva scelto con cura per tenergli compagnia4.
Aveva parecchi libri di botanica e di zoologia, un nuovissimo
dizionario spagnolo-inglese, diversi resoconti di viaggi scritti da
esploratori e il primo volume dei rivoluzionari Principles of Geology,
pubblicati l’anno precedente5. Accanto c’era la Personal Narrative di
Alexander von Humboldt, il resoconto in sette volumi della spedizione
in Sud America e il motivo per cui Darwin era sul Beagle*6. “La mia
ammirazione per il famoso resoconto personale di Humboldt (di cui
conoscevo quasi a memoria alcune parti)”, diceva Darwin, “mi ha
indotto a viaggiare in paesi lontani e mi ha spinto a offrirmi
volontariamente come naturalista sul Beagle di Sua Maestà.”7

Planimetria del Beagle con la cabina di Darwin (ponte di poppa) verso la parte posteriore

Indebolito dalla nausea, Darwin cominciò a ripensare alla sua


decisione. Quando superarono Madeira, il 4 gennaio 1832, stava così
male che non riuscì nemmeno a trascinarsi sul ponte per vedere
l’isola8. Se ne stette dentro, a leggere le descrizioni dei tropici di
Humboldt, perché non c’era nulla di meglio “per rincuorare un uomo
con il mal di mare”9, disse. Due giorni dopo raggiunsero Tenerife –
l’isola che Darwin aveva sognato per tanti mesi. Desiderava
passeggiare sotto le palme slanciate e vedere il Pico del Teide, il
vulcano alto più di 3.500 metri su cui Humboldt era salito più di
trent’anni prima. Quando il Beagle si accostò all’isola, furono fermati
da una barca e gli fu annunciato che non potevano scendere a terra. Le
autorità di Tenerife avevano saputo di recenti epidemie di colera in
Inghilterra e temevano che i marinai potessero portare l’infezione
sull’isola. Quando il console impose una quarantena di dodici giorni, il
capitano del Beagle decise di continuare il viaggio piuttosto che
aspettare. Darwin era distrutto. “Oh, che strazio, che strazio”10,
scrisse sul suo diario.
Quella notte, quando il Beagle salpò da Tenerife, il mare si calmò.
Quando la parte posteriore della nave cominciò a essere lambita da
onde leggere e una leggera brezza ad agitare le vele, la nausea di
Darwin si attenuò. Il cielo era completamente sgombro e lo scintillio di
innumerevoli stelle si rispecchiava nell’acqua scura. Era un momento
magico. ”Posso già capire l’entusiasmo di Humboldt per le notti
tropicali”11, scrisse Darwin. Poi, il mattino dopo, quando vide il Pico
del Teide a forma di cono che scompariva in lontananza, tinto
leggermente di arancio dalla luce del sole e con la cima che spuntava
sopra le nuvole, si sentì ripagato delle sofferenze. Avendo letto tanto
sul vulcano nella Personal Narrative, disse, era “come lasciare un
amico”12.

Solo pochi mesi prima, la prospettiva di vedere i tropici e di essere il


naturalista in una spedizione sarebbe stato per Darwin “il più
azzardato dei castelli in aria”13. Secondo i desideri del padre, era
destinato a una professione più convenzionale e aveva studiato a
Cambridge per diventare un prete di campagna. La scelta era stata un
compromesso per placare il padre dopo che Darwin aveva
abbandonato gli studi di medicina all’università di Edimburgo.
Convinto che un giorno avrebbe ereditato abbastanza soldi per
“sostentarsi con qualche agio”14, Darwin non era stato troppo
ambizioso riguardo alla carriera prescritta. A Edimburgo aveva
preferito studiare gli invertebrati marini piuttosto che concentrarsi sul
lavoro medico e a Cambridge aveva frequentato le lezioni di botanica
invece di quelle richieste per studiare teologia15. Era rimasto
affascinato dai coleotteri e si era fatto lunghe passeggiate, sollevando
pietre e ciocchi d’albero e riempiendo la borsa dei suoi tesori
entomologici. Per non perdere nessuno dei suoi ritrovamenti, un
giorno – con le mani già piene di coleotteri – se ne era messo uno in
bocca per custodirlo. Il coleottero ebbe da ridire su questo inconsueto
trattamento e gli iniettò il suo fluido acido inducendo Darwin a
risputarlo16.
Fu nell’ultimo anno a Cambridge che Darwin lesse per la prima
volta la Personal Narrative di Humboldt, un libro che “suscitò in me
un forte ardore”17, scrisse. Darwin rimase così colpito dallo scritto di
Humboldt che ne ricopiò interi passi e li lesse ad alta voce
all’insegnante di botanica, John Steven Henslow, e ad altri amici
durante le escursioni botaniche18. A primavera del 1831, Darwin aveva
studiato Humboldt così intensamente che “parlo, penso e sogno di un
progetto, che ho quasi concepito, di andare alle isole Canarie”19, disse
al cugino.
Charles Darwin

Il suo progetto era di andare a Tenerife con Henslow e alcuni


compagni di università. Darwin era così entusiasta, disse, che “non
riesco a stare fermo”20. In preparazione, la mattina correva alle serre
del giardino botanico di Cambridge per “contemplare gli alberi di
palma”21 e poi si precipitava a casa per studiare botanica, geologia e
spagnolo. Sognando foreste fitte, pianure e cime di montagne
abbaglianti, “leggeva e rileggeva Humboldt”22 e parlava così
insistentemente del viaggio che gli amici di Cambridge cominciarono a
desiderare che se ne andasse. “Li tormento”, scherzava con il cugino,
“parlando dei paesaggi tropicali.”23
A metà luglio del 1831, Darwin ricordò a Henslow di leggere di più
Humboldt per “ravvivare il vostro ardore per le Canarie”24. Le sue
lettere rigurgitavano di entusiasmo ed erano costellate di espressioni
spagnole appena imparate. “Mi sono inserito nel calore tropicale”25,
scrisse alla sorella. Ma, proprio quando si stavano preparando per
partire, Henslow rinunciò per impegni di lavoro e per la gravidanza
della moglie36. Darwin si rese anche conto che erano poche le navi
inglesi che passavano dalle Isole Canarie – e quelle poche solo nei
primi mesi dell’estate. Si era troppo avanti nella stagione e avrebbe
dovuto rimandare il viaggio all’anno successivo.
Poi, un mese dopo, il 29 agosto 1831, tutto cambiò quando Darwin
ricevette una lettera da Henslow. Un certo capitano Robert FitzRoy,
scriveva Henslow, stava cercando un naturalista che lo accompagnasse
in un viaggio sul Beagle27 – una nave che sarebbe salpata quattro
settimane dopo per la circumnavigazione del globo. Era una
prospettiva molto più entusiasmante di Tenerife. Ma l’entusiasmo di
Darwin si raffreddò immediatamente quando il padre gli rifiutò il
permesso e l’aiuto finanziario necessario per pagargli il viaggio. Era
“un progetto sconsiderato”, scrisse Robert Darwin al figlio, e
“un’impresa inutile”28. Un viaggio intorno al globo non appariva un
prerequisito necessario per un prete di campagna.
Darwin si sentiva annichilito. Certo, il viaggio non sarebbe costato
poco, ma la sua famiglia poteva permetterselo. Il padre era un medico
di successo che aveva fatto la maggior parte dei soldi da avveduto
investitore29, e il nonno di Darwin aveva reso la famiglia prospera e
famosa. Il rinomato vasaio Josiah Wedgwood era il nonno materno –
un uomo che aveva applicato la scienza alla manifattura e
industrializzato la produzione di oggetti di porcellana. Wedgwood era
morto da uomo ricco e rispettato. Il nonno paterno di Charles Darwin,
il fisico, scienziato e inventore Erasmus Darwin, era anche lui illustre.
Nel 1794 aveva pubblicato le prime idee radicalmente evoluzionistiche
nel libro Zoonomia, nel quale aveva affermato che uomini e animali
discendevano da sottili filamenti viventi nel mare primordiale. Aveva
anche messo in versi il sistema di classificazione botanica di Carl
Linnaeus nel popolarissimo poema Loves of the Plants – che
Humboldt e Goethe avevano letto negli anni novanta del diciottesimo
secolo. Nella famiglia c’era l’orgoglio dei successi conquistati e, forse,
anche un senso di grandezza, al quale certamente anche Darwin
aspirava.
Alla fine fu uno zio che aiutò a convincere il padre del valore del
viaggio. “Se ora vedessi Charles assorbito dagli studi professionali”,
scrisse Josiah Wedgwood II a Robert Darwin, “non sarebbe opportuno
interromperli, ma non è così e non credo che lo sarà.”30 Dal momento
che Charles era interessato solo alla storia naturale, concludeva lo zio,
la spedizione sarebbe stata una grande opportunità per lasciare la sua
impronta nel mondo della scienza. Il giorno dopo, finalmente, il padre
di Darwin accettò di finanziare le spese del figlio. Darwin avrebbe fatto
il giro del mondo.

Le prime tre settimane di viaggio, con il Beagle diretto a sud, furono


piuttosto tranquille. Dopo aver oltrepassato Tenerife, Darwin si
sentiva meglio. Mano a mano che i giorni si facevano più caldi, si
vestiva più leggero31. Catturò delle meduse e altri piccoli invertebrati
marini, dedicandosi a dissezionarli. Fu anche il momento buono per
conoscere il resto dell’equipaggio. Darwin divideva la cabina con il
diciannovenne assistente ispettore e con uno dei guardiamarina allora
quattordicenne. A bordo c’erano settantaquattro uomini, compresi i
marinai, i carpentieri e gli ispettori nonché un costruttore di
strumenti, un artista e un chirurgo*32.
Il ventiseienne capitano FitzRoy aveva solo quattro anni più di
Darwin. Veniva da una famiglia aristocratica e aveva passato tutta la
sua vita da adulto sul mare. Questo era il secondo viaggio con il
Beagle. Come l’equipaggio scoprì alla svelta, il capitano poteva essere
irascibile e scontroso – specialmente al mattino presto33. Con uno zio
che si era suicidato, FitzRoy veniva spesso preso dall’ansia, temendo di
poter essere vittima di analoghe predisposizioni. Talora, il capitano
cadeva in depressioni profonde, che “rasentavano la follia”34, pensava
Darwin. FitzRoy alternava un’energia apparentemente illimitata a una
malinconia taciturna. Ma era intelligente, affascinato dalla storia
naturale, e lavorava in continuazione.
FitzRoy era a capo di una spedizione finanziata dal governo con
l’obiettivo di circumnavigare il globo e fare un giro completo di
misurazioni longitudinali – usando gli stessi strumenti in un tentativo
di standardizzare le carte e la navigazione. Aveva anche ricevuto
l’incarico di completare l’ispezione della costa meridionale del Sud
America, dove la Gran Bretagna sperava di conquistare il dominio
economico fra le nazioni sudamericane che avevano appena ottenuto
l’indipendenza.
Lungo circa ventisette metri, il Beagle era una piccola nave, ma
stipata fino all’orlo – dalle migliaia di scatolette di carne conservata ai
più aggiornati strumenti di rilevamento topografico. FitzRoy aveva
insistito per prendere niente meno che ventidue cronometri per
misurare il tempo e la longitudine nonché parafulmini per proteggere
la nave. Il Beagle portava zucchero, rum e piselli secchi nonché i soliti
rimedi contro lo scorbuto come i sottaceti e il succo di limone.
“Difficilmente la stiva avrebbe potuto contenere un altro sacco di
pane”35, annotò Darwin ammirato del perfetto imballaggio.
Il primo approdo del Beagle era Santiago, la più grande delle isole
di Capo Verde, nell’Oceano Atlantico, a 800 chilometri circa dalle
coste dell’Africa36. Sbarcando sull’isola tropicale, nuove impressioni si
affollarono nella mente di Darwin. Era una cosa esotica, che
confondeva ed eccitava. Gli alberi di palma, di tamarindo e di banane
facevano a gara nell’attrarre la sua attenzione così come i bulbosi
baobab. Sentiva le melodie di uccelli sconosciuti e vedeva strani insetti
posati sui fiori di piante ancora più insolite. Come Humboldt e
Bonpland al loro arrivo in Venezuela, nel 1799, la mente di Darwin era
un “vero e proprio uragano di gioia e di meraviglia”37 quando prese in
esame le rocce vulcaniche, le piante pressate, gli animali dissezionati e
le falene infilzate. Come Darwin staccava rocce, scrostava via cortecce
e cercava insetti e vermi sotto le pietre, raccoglieva ogni cosa, dalle
conchiglie e dalle enormi foglie delle palme ai vermi piatti e agli insetti
più piccoli. Di sera, quando tornava, “stracarico del mio prezioso
raccolto”38, non poteva essere più felice. Darwin era come un
bambino con un giocattolo nuovo39, sorrideva il capitano FitzRoy.
Era “come donare gli occhi a un cieco”40, scrisse Darwin nel suo
diario. Descrivere i tropici era impossibile, spiegò in una lettera a casa,
perché era tutto così diverso e stupefacente che non sapeva come
cominciare o terminare una frase. Consigliò al cugino William Darwin
Fox di leggere la Personal Narrative di Humboldt per capire cosa
stava vivendo e disse al padre: “Se volete davvero farvi un’idea dei
paesi tropicali studiate Humboldt”41. Darwin guardava questo nuovo
mondo attraverso le lenti dell’opera di Humboldt. Il suo diario era
pieno di commenti come “molto colpito dalla giustezza di una delle
osservazioni di Humboldt” o “come osserva Humboldt”42.
Solo un’altra pubblicazione lasciò nella mente di Darwin
un’impronta simile ed è i Principles of Geology di Charles Lyell43, un
libro anch’esso imbevuto di idee di Humboldt. Lyell vi citava
Humboldt decine di volte, dall’idea del clima globale e delle zone
vegetazionali alle informazioni sulle Ande. In Principles of Geology,
Lyell spiegava che la terra è stata plasmata dall’erosione e dai depositi
in una serie di lentissimi movimenti di innalzamento e di
abbassamento in un periodo di tempo incredibilmente lungo,
costellato di eruzioni vulcaniche e terremoti. Quando Darwin
osservava gli strati rocciosi lungo le scogliere di Santiago, tutto ciò che
Lyell aveva scritto per lui acquistava un senso. Qui Darwin poteva
“leggere” la creazione dell’isola, osservando gli strati delle scogliere: i
resti di un vecchio vulcano, poi più su una fascia bianca di conchiglie e
coralli e sopra uno strato di lava44. La lava aveva coperto le conchiglie
e da allora l’isola era stata spinta lentamente verso l’alto da qualche
forza sotterranea. La linea ondulata e le irregolarità della fascia bianca
erano anche la testimonianza di movimenti più recenti – le forze di
Lyell ancora attive. Quando attraversava Santiago, Darwin guardava le
piante e gli animali con gli occhi di Humboldt e le rocce con quelli di
Lyell. Quando ritornò sul Beagle, Darwin scrisse una lettera al padre,
annunciando che, ispirato da quanto aveva visto sull’isola, “sarò in
grado di fare qualcosa di originale nel campo della storia naturale”45.
Qualche settimana dopo, alla fine di febbraio, quando il Beagle
raggiunse Bahia (l’attuale San Salvador) in Brasile, lo stupore di
Darwin continuò. Ogni cosa era così simile a un sogno che avrebbe
potuto essere una scena magica delle Mille e una notte46, spiegò. Più e
più volte scrisse che solo Humboldt era riuscito in qualche modo a
descrivere i tropici. “più lo leggo e più i miei sentimenti sono di
ammirazione”47, dichiarò in una lettera a casa e “Prima ammiravo
Humboldt, ora quasi lo adoro”48, in un’altra. Le descrizioni di
Humboldt erano senza paragoni, il giorno che vide il Brasile per la
prima volta, per la “rara congiunzione della poesia con la scienza”49.
Stava camminando in un mondo nuovo50, scrisse Darwin al padre.
“Attualmente sono presissimo dai ragni”51, gioiva, e i fiori “farebbero
impazzire un fioraio”52. C’erano tante di quelle cose che non sapeva
quali guardare o raccogliere per prime – la farfalla dai colori
sgargianti, l’insetto che strisciava dentro un fiore esotico o un fiore
sconosciuto. “Attualmente riesco solo a leggere Humboldt”, scrisse nel
suo diario, perché “illumina tutto ciò che vedo come un secondo
sole”53. Era come se Humboldt gli offrisse una cima cui tenersi
aggrappato per non annegare in queste nuove impressioni.
Il Beagle si diresse a sud verso Rio de Janeiro e Montevideo e poi
verso le isole Falkland, la Terra del Fuoco e il Cile – nel corso dei
successivi tre anni e mezzo, spesso rifacendo il percorso per garantire
l’accuratezza delle loro indagini. Darwin si allontanava regolarmente
dalla nave per qualche settimana alla volta per compiere lunghe
escursioni all’interno (dopo essersi accordato con FitzRoy su dove
raggiungere il Beagle). Viaggiò attraverso la foresta pluviale del Brasile
e si unì ai gauchos delle Pampas. Vide gli orizzonti sopra le pianure
polverose della Patagonia e trovò enormi ossa fossili sulla costa
dell’Argentina. Era diventato un “grande girovago”54, scrisse al cugino
Fox.
Quando era a bordo del Beagle, Darwin seguiva una routine che non
cambiava mai di molto55. La mattina, si univa a FitzRoy per la
colazione e poi tutti e due si dedicavano ai loro rispettivi compiti, il
capitano ispezionando e trafficando con le sue scartoffie mentre
Darwin analizzava i suoi esemplari e aggiornava i suoi appunti.
Darwin lavorava nella cabina di poppa, sul grande tavolo nautico, dove
anche l’assistente ispettore aveva le sue mappe. In un angolo Darwin
aveva sistemato il microscopio e i taccuini. Qui dissezionava,
etichettava, preparava per la conservazione ed essiccava i suoi
esemplari. Lo spazio era ristretto, ma lui pensava che fosse lo studio
perfetto per un naturalista, perché “ogni cosa è a portata di mano”56.
Fuori, sul ponte, c’erano da ripulire le ossa fossili e da raccogliere le
meduse. La sera Darwin condivideva la cena con FitzRoy, ma una volta
ogni tanto veniva invitato a unirsi al resto dell’equipaggio nella più
chiassosa sala mensa, che gradiva sempre molto57. Con il Beagle che
navigava su è giù lungo la costa per fare i rilievi, c’era sempre una
quantità di pesce fresco da mangiare. Mangiavano tonno, tartarughe e
squali, nonché struzzi e armadilli, che, scriveva Darwin a casa, senza il
loro guscio corazzato assomigliavano in tutto e per tutto all’anatra.
Darwin adorava la sua nuova vita. Era amato dall’equipaggio, che lo
chiamava “Philos” e “acchiappamosche”58. La sua passione per la
natura era contagiosa e presto molti altri divennero raccoglitori,
aiutandolo ad accrescere la sua collezione59. Un ufficiale lo prendeva
in giro per “il tremendo ammasso” di sacchi, gabbie e ossa sul ponte,
affermando che “se fossi il capitano, avrei fatto scomparire voi e tutti i
vostri impicci”60. Ogni volta che arrivavano in un porto commerciale
da cui partivano bastimenti per l’Inghilterra, Darwin spediva i suoi
bauli pieni di fossili, pelli di uccelli e piante pressate a Henslow a
Cambridge, nonché lettere a casa61.
Durante la navigazione, Darwin avvertiva ancora più urgente il
bisogno di leggere qualunque cosa Humboldt avesse scritto. Quando
raggiunsero Rio de Janeiro, nell’aprile 1832, aveva scritto a casa
chiedendo al fratello di inviargli Quadri della natura a Montevideo in
Uruguay, dove avrebbe potuto ritirarlo in un momento successivo62. I
fratello inviò puntualmente i libri – non Quadri della natura, ma
l’ultima pubblicazione di Humboldt, i Fragments de géologie et de
climatologie asiatique che erano il risultato della spedizione in Russia,
nonché il Saggio sul regno della Nuova Spagna.
Durante tutto il viaggio sul Beagle, Darwin fu impegnato in un
dialogo intimo con Humboldt – matita in mano, evidenziava i
paragrafi della Personal Narrative. Le sue descrizioni erano quasi
come un modello per le esperienze di Darwin. Quando, per la prima
volta, Darwin vide le costellazioni dell’emisfero meridionale, si ricordò
delle descrizioni di Humboldt63. Oppure, in seguito, quando vide le
pianure del Cile, dopo aver esplorato per giorni la foresta
incontaminata, la reazione di Darwin ripeté esattamente quella di
Humboldt quando era entrato negli Llanos del Venezuela dopo la
spedizione sull’Orinoco. Humboldt aveva scritto di “nuove
sensazioni”64 e del piacere di riuscire a “vedere” di nuovo dopo lunghe
settimane nella fitta foresta pluviale e ora Darwin descriveva come il
panorama fosse “davvero tonificante, dopo essere stato stretto e
sprofondato nella natura incontaminata della foresta”65.
Allo stesso modo, l’annotazione nel diario di Darwin sul terremoto
che sperimentò il 20 febbraio 1835 a Valdivia nel Cile meridionale era
quasi un riassunto di quello che Humboldt aveva scritto sul suo primo
terremoto a Cumaná nel 1799. Humboldt aveva osservato che il
terremoto “è sufficiente a distruggere in un istante lunghe illusioni”66
– nel diario di Darwin questa frase divenne “un terremoto come
questo distrugge di colpo le società più antiche”*67.
C’erano innumerevoli esempi di questo tipo – anche l’analisi che
Darwin compie delle alghe sulla costa della Tierra del Fuego come la
pianta più importante nella catena alimentare suonava
sorprendentemente simile alla descrizione di Humboldt delle palme
Mauritia come una specie chiave che “diffonde la vita”68 negli Llanos.
Le grandi praterie di alghe, scrisse Darwin, sostentavano una grande
varietà di forme di vita, dai polipi simili a idre ai molluschi, ai piccoli
pesci e ai granchi – i quali a loro volta nutrivano cormorani, lontre,
foche e infine, naturalmente, le tribù indigene. Humboldt permeò
l’interpretazione darwiniana della natura come sistema ecologico.
Come la distruzione di una foresta tropicale, diceva Darwin,
l’estirpazione delle alghe avrebbe causato la perdita di innumerevoli
specie69 nonché, probabilmente, la scomparsa della popolazione
indigena della Terra del Fuoco.
Darwin modellò i suoi scritti su quelli di Humboldt, fondendo il
lavoro scientifico con la descrizione poetica fino a tal punto che il
diario del suo viaggio sul Beagle divenne notevolmente affine, per lo
stile e per il contenuto, alla Personal Narrative. Tanto che la sorella,
dopo aver ricevuto una prima parte del diario nell’ottobre del 1832,
lamentava che “avendo probabilmente letto tanto di Humboldt, ne hai
adottato la fraseologia” e “il genere di fiorite espressioni francesi che
lui usa”70. Altri furono più elogiativi e dissero in seguito a Darwin
quanto avessero apprezzato le sue “vivide immagini humboldtiane”71.
Humboldt mostrò a Darwin come indagare il mondo naturale non
dalla visuale claustrofobica del geologo o dello zoologo, ma
dall’interno e dall’esterno. Sia Humboldt che Darwin possedevano la
rara capacità di concentrarsi sul più piccolo dettaglio – da una chiazza
di lichene a un minuscolo coleottero – e poi di indietreggiare e
distaccarsi per analizzare modelli globali e comparati. La flessibilità
della prospettiva consentiva a entrambi di comprendere il mondo in
maniera completamente nuova. Era telescopica e microscopica,
andando dall’ampia panoramica fino ai livelli cellulari e muovendosi
nel tempo dal lontano passato geologico all’economia futura delle
popolazioni indigene.

Nel settembre 1835, poco meno di quattro anni dopo aver lasciato
l’Inghilterra, il Beagle finalmente lasciò il Sud America per continuare
la circumnavigazione del globo. Da Lima fecero vela verso le Isole
Galapagos, che si trovano a 1.000 chilometri a ovest della costa
ecuadoregna. Erano isole molto strane, aride, vi vivevano uccelli e
rettili così docili e non avvezzi agli esseri umani che si lasciavano
prendere con facilità72. Qui Darwin analizzò le rocce e le formazioni
geologiche, raccolse fringuelli e tordi americani e misurò le dimensioni
delle testuggini giganti che vagavano per l’isola. Ma fu solo quando alla
fine tornò in Inghilterra e analizzò le sue collezioni che divenne chiaro
quanto le Isole Galapagos fossero divenute importanti per la teoria
evoluzionistica di Darwin. Per Darwin le isole rappresentarono un
punto di svolta, sebbene all’epoca non se ne fosse reso conto.
Dopo cinque settimane alle Galapagos, il Beagle riprese il viaggio
nel vuoto del Pacifico meridionale verso Tahiti e da lì verso la Nuova
Zelanda e l’Australia. Dalla costa occidentale dell’Australia
attraversarono l’Oceano Indiano e doppiarono l’estremità del
Sudafrica prima di riattraversare l’Oceano Atlantico verso il Sud
America. Gli ultimi mesi di viaggio furono gravosi per tutti. “Non c’era
mai stata una nave”, scrisse Darwin, “così piena di eroi che soffrivano
di nostalgia.”73 Ogni volta che, durante quelle settimane,
incontravano navi mercantili, avvertiva la “più pericolosa inclinazione
a scappare”74 e a saltare sulla nave, ammise. Erano stati lontani da
casa per quasi cinque anni – così a lungo che si ritrovavano a sognare
le terre verdi e piacevoli dell’Inghilterra.
Il 1° agosto 1836, dopo aver attraversato l’Oceano Indiano e poi
l’Atlantico, fecero una breve sosta a Bahia in Brasile, che era stata il
loro primo approdo in Sud America alla fine di febbraio del 1832,
prima di dirigersi a nord per l’ultima tappa del viaggio. Visitare Bahia
fu per Darwin un’esperienza deludente. Invece di ammirare i fiori
tropicali della foresta pluviale brasiliana, come aveva fatto durante la
prima visita, questa volta desiderava ardentemente vedere i maestosi
ippocastani di un parco inglese75. Aveva una voglia disperata di
tornare a casa. Ne aveva abbastanza di questa navigazione “a zig-zag”,
scrisse alla sorella. “Ho nausea del mare, lo aborro, insieme con tutte
le navi che ci viaggiano sopra”76.
Alla fine di settembre, oltrepassarono le Azzorre nell’Atlantico
settentrionale e si diressero verso l’Inghilterra. Darwin era nella sua
cabina, con lo stesso mal di mare che aveva provato il primo giorno.
Anche dopo tutti questi anni, non si era ancora abituato al ritmo del
mare e lamentava: “Odio ogni onda dell’oceano”77. Sdraiato
sull’amaca, riempiva il suo diario rigonfio con le ultime osservazioni,
riassumendo i pensieri sui cinque anni trascorsi. Le prime
impressioni, osservò in una delle ultime osservazioni, erano spesso
influenzate da idee preconcette. “Tutte le mie erano prese dalle vivide
descrizioni che ci sono nella Personal Narrative”78.
Il 2 ottobre 1836, quasi cinque anni dopo aver lasciato l’Inghilterra,
il Beagle entrava nel porto di Falmouth sulla costa meridionale della
Cornovaglia79. Al fine di completare la sua ricognizione, il capitano
FitzRoy doveva ancora effettuare una misurazione longitudinale a
Plymouth, esattamente nello stesso posto in cui aveva effettuato la
prima. Darwin, tuttavia, sbarcò a Falmouth. Non vedeva l’ora di
prendere la carrozza postale per Shrewsbury, per rivedere la sua
famiglia.
Mentre la carrozza procedeva sferragliando verso nord, si mise a
guardare fuori dal finestrino il mosaico ondulato di campi e cespugli
che gli si stendeva davanti. I campi sembravano molto più verdi del
solito, pensava, ma quando interrogò gli altri passeggeri per avere
conferma della sua osservazione, lo guardarono senza espressione80.
Dopo più di quarantott’ore in carrozza, Darwin arrivò a notte fonda a
Shrewsbury e si infilò silenziosamente in casa, perché non voleva
svegliare il padre e le sorelle. Quando, il mattino successivo, entrò
nella sala della prima colazione, essi non potevano credere ai loro
occhi. Era tornato e tutto intero – ma “molto magro d’aspetto”81, disse
la sorella. C’era tanto da dire, ma Darwin si fermò solo per qualche
giorno, perché doveva andare a Londra per scaricare i bauli dal
Beagle82.
Darwin tornava in un paese che era ancora governato dallo stesso
re, Guglielmo IV, ma durante la sua lunga assenza erano state
approvate due leggi parlamentari importanti. Nel giugno 1832, dopo
feroci battaglie politiche, era diventato legge il controverso Reform Bill
– un primo, grande passo verso la democrazia, in quanto per la prima
volta assegnava alle città che erano cresciute durante la rivoluzione
industriale dei seggi alla Camera dei Comuni ed estendeva il voto dai
ricchi proprietari terrieri all’alta borghesia. La famiglia di Darwin, che
appoggiava la legge, lo aveva tenuto informato meglio che poteva sui
dibattiti parlamentari attraverso le lettere che gli inviava durante il
viaggio sul Beagle. L’altra novità esaltante era l’approvazione dello
Slavery Abolition Act nell’agosto 1834, mentre Darwin era in Cile.
Sebbene il commercio degli schiavi fosse già stato proibito nel 1807, la
nuova legge proibiva ora lo schiavismo nella maggior parte
dell’Impero britannico. Le famiglie Darwin e Wedgwood, che avevano
fatto parte a lungo del movimento antischiavista, erano felicissime,
come lo era Humboldt, che aveva sempre combattuto energicamente
contro l’asservimento degli esseri umani fin dalla spedizione in
America Latina.
La cosa più importante per Darwin, tuttavia, erano le novità del
mondo scientifico. Aveva materiale sufficiente per pubblicare più libri
e l’idea di diventare un prete si era dissolta da tempo. I suoi bauli
erano pieni di esemplari – uccelli, animali, insetti, piante, rocce e ossa
fossili giganti – e i suoi taccuini zeppi di osservazioni e di idee. Darwin
desiderava ora farsi un nome nella comunità scientifica. In
preparazione, aveva già scritto al suo vecchio amico, il botanico John
Stevens Henslow, pochi mesi prima dall’isola remota di Sant’Elena
nell’Atlantico meridionale, chiedendogli di agevolare il suo ingresso
nella Geological Society83. Era impaziente di mostrare i suoi tesori e
gli scienziati inglesi, che avevano seguito le avventure del Beagle
tramite le lettere e i resoconti diffusi dai giornali, erano desiderosi di
incontrarlo. “Il viaggio del Beagle, scrisse in seguito, è stato di gran
lunga l’evento più importante della mia vita e ha determinato tutta la
mia carriera”84.
A Londra, Darwin correva da una parte all’altra per partecipare agli
incontri della Royal Society, della Geological Society e della Zoological
Society mentre lavorava ai suoi saggi. Fece esaminare le sue collezioni
dai migliori scienziati – anatomisti e ornitologi nonché quelli che
classificavano i fossili, i pesci, i rettili e i mammiferi*85. Un progetto
immediato era quello di rivedere il suo diario per la pubblicazione86.
Quando il Voyage of the Beagle fu pubblicato, nel 1839, rese Darwin
famoso87. Parlava delle piante, degli animali e della geologia, ma
anche del colore del cielo, del senso della luce, dell’immobilità dell’aria
e della foschia dell’atmosfera – con le vivide pennellate di un pittore.
Come Humboldt, Darwin registrava le sue risposte emotive di fronte
alla natura, mentre forniva dati scientifici e informazioni sulle
popolazioni indigene.
Quando le prime copie uscirono dalla tipografia, a metà maggio del
1839, Darwin ne spedì una a Humboldt a Berlino. Non sapendo dove
indirizzare la corrispondenza, Darwin chiese a un amico, “perché non
so se dovevo scrivere al re di Prussia e all’Imperatore di tutte le
Russie”88. Agitato per la spedizione del libro al suo idolo, Darwin fece
ricorso all’adulazione e nella lettera d’accompagnamento scrisse che
erano stati i resoconti di Humboldt sul Sud America a fargli venire il
desiderio di viaggiare. Aveva ricopiato lunghi passi della Personal
Narrative, disse Darwin a Humboldt, in modo che “potessero essere
sempre presenti nella mia mente”89.
Darwin non avrebbe dovuto preoccuparsi. Quando ricevette la
copia, Humboldt rispose con una lunga lettera, elogiandolo come un
“libro eccellente e degno di ammirazione”90. Se il suo lavoro aveva
ispirato un libro come il Voyage of the Beagle, questo era il suo più
grande successo. “Avete davanti a voi un futuro eccellente”, scrisse. Lo
scienziato più famoso dell’epoca diceva garbatamente al trentenne
Darwin che reggeva la fiaccola della scienza. Sebbene fosse più vecchio
di Darwin di quarant’anni, Humboldt aveva riconosciuto
immediatamente uno spirito affine.
La lettera di Humboldt non era fatta di complimenti superficiali –
commentava le osservazioni di Darwin riga per riga, citando il numero
di pagina, elencando gli esempi e discutendo gli argomenti. Humboldt
aveva letto ogni pagina del resoconto di Darwin. Ma non solo: scrisse
anche una lettera alla Geographical Society di Londra – che fu
pubblicata sulla rivista dell’istituto perché tutti la leggessero –
affermando che il libro di Darwin era “uno dei lavori più ragguardevoli
che, nel corso della mia lunga vita, ho avuto il piacere di vedere
pubblicati”91. Darwin era in estasi. “Poche cose nella mia vita mi
hanno appagato di più”, disse, “neanche un giovane autore può
ingoiare una tale dose di adulazione”92. Era onorato di ricevere un
tale apprezzamento pubblico93, disse a Humboldt. Quando questi, in
seguito, sollecitò una traduzione tedesca del Voyage of the Beagle,
Darwin scrisse a un amico: “devo vantarmi con te con imperdonabile
vanità”94.
Darwin era in uno stato di eccitazione frenetica. Lavorava su una
vasta gamma di temi, dalla barriera corallina e i vulcani ai terremoti.
“Non sopporto di interrompere il mio lavoro anche solo per mezza
giornata”95, ammetteva con il suo vecchio insegnante e amico, John
Stevens Henslow. Lavorava talmente tanto che aveva palpitazioni di
cuore, che sembravano verificarsi, diceva, tutte le volte che qualcosa
“mi agita”96. Una ragione era, probabilmente, la scoperta eccitante
riguardo agli esemplari di uccelli che aveva riportato dalle Isole
Galapagos. Analizzando i suoi reperti, Darwin cominciò a riflettere
sull’idea che le specie possano evolvere – la trasmutazione delle
specie, come fu poi chiamata97.
I diversi cardellini e tordi beffeggiatori che aveva raccolto sulle varie
isole non erano solo varianti degli uccelli noti sul continente, come
Darwin aveva pensato inizialmente98. Quando l’ornitologo britannico
John Gould – che identificò gli uccelli dopo il ritorno del Beagle –
dichiarò che erano invece specie diverse, Darwin comprese che ogni
isola aveva le sue specie tipiche. Dal momento che le isole stesse erano
di origine vulcanica relativamente recente, c’erano solo due
spiegazioni possibili: o Dio aveva creato queste specie specificamente
per le Galapagos o nel loro isolamento geografico erano tutte evolute
da un antenato comune che era migrato nelle isole.
I fringuelli delle Isole Galapagos di Darwin

Le implicazioni erano rivoluzionarie. Se Dio aveva creato piante e


animali prima di tutto, il concetto dell’evoluzione delle specie
implicava che aveva fatto inizialmente degli errori? Analogamente, se
le specie si estinguevano e Dio ne faceva continuamente di nuove,
questo significava che cambiava continuamente idea? Per molti
scienziati era un pensiero terribile. La discussione sulla possibile
trasmutazione delle specie era in corso da tempo. Il nonno di Darwin,
Erasmus, ne aveva già scritto nel suo libro Zoonomia, così come Jean-
Baptiste Lamarck, vecchia conoscenza di Humboldt al museo di storia
naturale del Jardin des Plantes di Parigi.
Nel primo decennio del diciannovesimo secolo, Lamarck aveva
dichiarato che gli organismi, influenzati dall’ambiente, possono
cambiare lungo una traiettoria progressiva99. Nel 1830, l’anno prima
che Darwin s’imbarcasse sul Beagle, lo scontro fra le idee di specie
mutevoli e quelle della fissità delle specie si era trasformata in una
terribile disputa all’Académie des sciences di Parigi*100. Humboldt
aveva preso parte agli accaniti dibattiti all’Académie durante una visita
a Parigi da Berlino, sussurrando agli scienziati che sedevano accanto a
lui commenti continui fatti di osservazioni sprezzanti sulle specie fisse.
Già in Quadri della natura, più di vent’anni prima, Humboldt aveva
scritto della “trasformazione graduale delle specie”101.
Anche Darwin era convinto che l’idea delle specie fisse fosse
sbagliata. Tutte le cose sono in continuo mutamento o, come diceva
Humboldt, se la terra cambiava, se la terraferma e il mare si
muovevano, se le temperature aumentavano o diminuivano – allora
anche tutti gli organismi “devono essere stati soggetti a varie
alterazioni”102. Se l’ambiente influenzava lo sviluppo degli organismi,
allora gli scienziati dovevano indagare più da vicino i climi e gli
habitat. Perciò, il nuovo pensiero di Darwin si concentrò sulla
distribuzione degli organismi sul globo, che era la specialità di
Humboldt – almeno per il mondo delle piante. La geografia delle
piante, diceva Darwin era la “chiave di volta delle leggi della
creazione”103.
Quando Humboldt aveva confrontato le famiglie di piante in
continenti diversi e in climi diversi, aveva scoperto le zone di
vegetazione. Aveva visto come ambienti simili contenessero spesso
piante strettamente imparentate, anche se divise da oceani o catene
montuose104. Ciò, tuttavia, era anche ingannevole, perché, malgrado
queste analogie da un continente all’altro, un clima simile non sempre,
o anche non necessariamente, produceva piante o animali simili105.
Quando Darwin lesse la Personal Narrative, sottolineò molti di
questi esempi*106. Com’era, si era chiesto Humboldt, che in India gli
uccelli erano meno colorati che in Sud America o perché la tigre si
trovava solo in Asia? Perché i grandi coccodrilli erano così abbondanti
nel Basso Orinoco e assenti nell’Alto Orinoco?107 Darwin era rimasto
affascinato da questi esempi e spesso aggiungeva i suoi commenti ai
margini della sua copia della Personal Narrative: “come in
Patagonia”, “in Paraguay”, “come i guanaco” o, talvolta,
semplicemente un affermativo “sì” o “!”108.
Scienziati come Charles Lyell spiegavano che queste piante
imparentate che si trovavano a grandi distanze le une dalle altre erano
state prodotte in diversi centri di creazione. Dio aveva fatto queste
specie simili una dietro l’altra nello stesso momento e in regioni
diverse, in una serie di cosiddette “creazioni multiple”. Darwin non era
d’accordo e cominciò a puntellare le sue idee con argomentazioni sulla
migrazione e sulla distribuzione, utilizzando la Personal Narrative di
Humboldt come una delle sue fonti. Sottolineava, commentava ed
escogitò anche indici particolari dei libri di Humboldt, scrivendo
promemoria personali su fogli che incollava sui risguardi – “quando
studi geografia botanica caraibica considera questa parte”109 – o
scribacchiando nel suo taccuino “Studia Humboldt” e “consulta il VI
vol. della Pers. Narra”. Oppure commentava “Nulla in confronto alla
Teoria delle specie”110, quando il sesto volume non produceva gli
esempi necessari.
La migrazione delle specie divenne il pilastro principale della teoria
evoluzionistica di Darwin. Come si muovevano queste specie
imparentate in tutto il globo? Per trovare una risposta Darwin
condusse molti esperimenti, per esempio testando il tasso di
sopravvivenza dei semi in acqua salata per indagare la possibilità che
le piante avessero attraversato l’oceano111. Se Humboldt osservava che
una quercia cresciuta sulle pendici del Pico del Teide a Tenerife era
simile a quella del Tibet, Darwin si chiedeva “come la ghianda fosse
stata trasportata... I piccioni portano il grano a Norfolk – il granturco
nell’Artico”112. Quando leggeva il racconto di Humboldt sui roditori
che aprono il guscio duro delle nocciole del Brasile e come le scimmie,
i pappagalli, gli scoiattoli e le are si azzuffano per i semi, Darwin
scribacchiava al margine “sparpagliati così”113.
Dove Humboldt propendeva a ritenere che l’enigma del movimento
delle piante non potesse essere spiegato, Darwin raccoglieva la sfida.
La scienza della geografia delle piante e degli animali, scriveva
Humboldt, non riguardava “l’indagine sull’origine degli esseri
viventi”114. Cosa pensasse esattamente Darwin quando sottolineava
questa affermazione nella sua copia della Personal Narrative non lo
sappiamo, ma chiaramente era proprio ciò che si era messo a fare – si
accingeva a scoprire l’origine delle specie.
Darwin cominciò a pensare agli antenati comuni, altro tema su cui
Humboldt forniva una quantità di esempi. I coccodrilli dell’Orinoco
erano versioni giganti delle lucertole europee, diceva Humboldt,
mentre “le fattezze dei nostri piccoli animali domestici si ritrovano su
vasta scala”115 nella tigre e nel giaguaro. Ma perché le specie
cambiavano? Che cosa scatenava la loro mutevolezza? Uno dei
principali fautori della teoria della trasmutazione, lo scienziato
francese Lamarck, aveva sostenuto che l’ambiente ha cambiato, per
esempio, un arto in un’ala, ma Darwin riteneva che questa fosse una
“vera sciocchezza”116.
Darwin trovò la risposta nel concetto di selezione naturale.
Nell’autunno del 1838, studiò un libro che lo aiutò a formulare queste
idee: l’Essay on the Principle of Population dell’economista inglese
Thomas Malthus117. Darwin lesse la fosca previsione di Malthus
secondo cui la popolazione umana sarebbe aumentata più
rapidamente dell’offerta di cibo, a meno che “ostacoli” come una
guerra, la fame e le epidemie non controllassero i numeri. La
sopravvivenza della specie, aveva scritto Malthus, era basata sulla
sovrapproduzione di prole – qualcosa che anche Humboldt aveva
descritto nella Personal Narrative discutendo dell’enorme quantità di
uova che le tartarughe depongono allo scopo di sopravvivere118. I
semi e le uova erano prodotti in enormi quantità, ma solo una frazione
minuscola arrivava a maturazione. Non c’è dubbio che Malthus avesse
fornito quella che Darwin definiva “una teoria con cui lavorare”119, ma
i semi di questa teoria erano stati gettati molto prima, quando aveva
letto l’opera di Humboldt.
Humboldt discuteva come le piante e gli animali “limitino
reciprocamente i loro numeri”120, osservando anche la loro “diuturna
lotta”121 per lo spazio e il nutrimento. Era una battaglia incessante.
Gli animali che aveva incontrato nella giungla “si temono
reciprocamente”, osservava Humboldt, “la benevolenza si trova
raramente alleata con la forza”122 – un’idea che sarebbe diventata
essenziale per la concezione darwiniana della selezione naturale.
Sull’Orinoco, Humboldt aveva fatto osservazioni sulle dinamiche
della popolazione dei capibara, i roditori più grandi del mondo.
Navigando sul fiume, aveva notato con quanta rapidità si
riproducessero i capibara, ma anche come i giaguari li cacciassero
sulla terra e i coccodrilli li divorassero nell’acqua. Senza questi “due
poderosi nemici”123, aveva osservato Humboldt, il numero dei
capibara sarebbe esploso. Aveva anche registrato come i giaguari
dessero la caccia ai tapiri e che le scimmie strillavano “spaventate da
questa lotta”124.
“Che terribile carneficina sullo sfondo splendido e tranquillo delle
foreste tropicali”125, scribacchiò Darwin sui margini. “Mostrare come
gli animali siano gli uni prede degli altri”, osservò, che “controllo”
positivo. Qui, scritto a matita sui margini del quinto volume della
Personal Narrative di Humboldt, verbalizzò per la prima volta la sua
“teoria con cui lavorare”.
Nel settembre 1838, Darwin scrisse nel suo taccuino che tutte le
piante e gli animali “sono uniti fra di loro da una rete di relazioni
complesse”126. Era la rete della vita di Humboldt – ma Darwin
avrebbe fatto un passo in più e l’avrebbe trasformata in un albero della
vita da cui provengono tutti gli organismi, con i rami che portano a
specie estinte e a nuove specie127. Nel 1839, Darwin aveva formulato
la gran parte delle idee che costituivano il fondamento della teoria
dell’evoluzione, ma continuò a lavorarci per altri vent’anni prima di
pubblicare l’Origin of Species nel novembre 1859.
Anche l’ultimo paragrafo dell’Origin of Species era ispirato da una
sezione simile della Personal Narrative, sottolineata da Darwin nella
sua copia128. Darwin riprese la suggestiva descrizione di Humboldt
dei cespugli pullulanti di uccelli, di insetti e di altri animali*129 e la
trasformò nella famosa metafora della plaga lussureggiante:
“È interessante contemplare una plaga lussureggiante, rivestita da
molte piante di molti tipi, con uccelli che cantano nei cespugli, con vari
insetti che ronzano intorno, e con vermi che strisciano attraverso il
terreno umido, e pensare che tutte queste forme così elaboratamente
costruite, così differenti l’una dall’altra, e dipendenti l’una dall’altra in
maniera così complessa, sono state prodotte da leggi che agiscono
intorno a noi.”130
Darwin si reggeva sulle spalle di Humboldt.
1. Darwin, 30 dicembre 1831, Darwin Beagle Diary 2001, p. 18.
2. Darwin, 29 dicembre 1831, ivi, pp. 17-18; Darwin a Robert Darwin, 8 febbraio-1 marzo 1832,
Darwin Correspondence, vol. 1, p. 201.
3. Thomson 1995, pp. 124 sgg.; HMS Beagle schizzo della cabina di poppa di B.J. Sulivan, CUL
DAR.107.
4. Darwin Correspondence, vol. 1, Appendix IV, pp. 558-66.
5. Darwin 1958, p. 77.
6. (nota a piè di pagina) Robert FitzRoy a Darwin, 23 settembre 1831, Darwin
Correspondence, vol. 1, p. 167.
7. Darwin a D.T. Gardner, agosto 1874, pubblicato sul New York Times, 15 settembre 1874.
8. Darwin, 4 gennaio 1832, Darwin Beagle Diary 2001, p. 19; Darwin a Robert Darwin, 8
febbraio-1 marzo 1832, Darwin Correspondence, vol. 1, p. 201.
9. Darwin, 31 dicembre 1831, Darwin Beagle Diary 2001, p. 18.
10. Darwin, 6 gennaio 1832, ivi, p. 19; si veda anche Darwin a Robert Darwin, 8 febbraio-1
marzo 1832, Darwin Correspondence, vol. 1, p. 201.
11. Darwin, 6 gennaio 1832, Darwin Beagle Diary 2001, p. 20; vedi anche Darwin a Robert
Darwin, 8 febbraio-1 marzo 1832, Darwin Correspondence, a.1, pp. 201-2.
12. Darwin, 7 gennaio 1832, Darwin Beagle Diary 2001, p. 20.
13. Darwin, 17 dicembre 1831, ivi, p. 14.
14. Darwin 1958, p. 46.
15. Ivi, pp. 56 sgg.
16. Ivi, pp. 50, 62.
17. Darwin scrisse di aver letto la Personal Narrative di AH “durante il mio ultimo anno a
Cambridge”, Darwin 1958, p. 67-8.
18. Ivi, pp. 64 sgg., 68; Browne 2003a, pp. 123, 131; Thomson 2009, pp. 94, 102; Darwin a
Fox, 5 novembre 1830, Darwin Correspondence, vol. 1, p. 110.
19. Darwin a William Darwin Fox, 7 aprile 1831, Darwin Correspondence, vol. 1, p. 120.
20. Darwin a Caroline Darwin, 28 aprile 1831; vedi anche Darwin a William Darwin Fox, 11
maggio 1831 e 9 luglio 1831, Darwin Correspondence, vol. 1, pp. 122, 123, 124; Darwin 1958,
pp. 68-70.
21. Darwin a Caroline Darwin, 28 aprile 1831; vedi anche Darwin a William Darwin Fox, 11
maggio 1831 e 9 luglio 1831, Darwin Correspondence, vol. 1, pp. 122, 123, 124; Darwin 1958,
pp. 68-70.
22. Darwin a John Stevens Henslow, 11 luglio 1831, Darwin Correspondence, vol. 1, pp. 125-6.
23. Darwin a William Darwin Fox, 11 maggio 1831, ivi, p. 123.
24. Darwin a John Stevens Henslow, 11 luglio 1831, ivi,p. 125.
25. Darwin a Caroline Darwin, 28 aprile 1831, ivi, p. 122; per le espressioni spagnole, vedi
Darwin a William Darwin Fox, 9 luglio 1831, ivi, p. 124.
26. Darwin a William Darwin Fox, 1 agosto 1831, ivi, p. 127; vedi anche Browne 2003a, p. 135;
Thomson 2009, p. 131.
27. John Stevens Henslow a Darwin, 24 agosto 1831, Darwin Correspondence, vol. 1, pp. 128-
9.
28. Darwin a Robert Darwin, 31 agosto 1831, ivi, p. 133; vedi anche Darwin a John Stevens
Henslow, 30 agosto 1831; Robert Darwin a Josiah Wedgwood, 30-31 agosto 1831; Josiah
Wedgwood II a Robert Darwin, 31 agosto 1831, ivi, pp. 131-4; Darwin 1958, pp. 71-2; Darwin
31 agosto-1 settembre 1831, Darwin Beagle Diary 2001, p. 3; Browne 2003a, pp. 152 sgg.
29. Browne 2003a, p. 7.
30. Josiah Wedgwood II a Robert Darwin, 31 agosto 1831; il padre di Darwin acconsente alla
spedizione, Robert Darwin a Josiah Wedgwood II, 1 settembre 1831, Darwin Correspondence,
vol. 1, pp. 134-5.
31. Darwin, 10 gennaio 1832, Darwin Beagle Diary 2001, p. 21; vedi anche Darwin a Robert
Darwin, 8 febbraio-1 marzo 1832, Darwin Correspondence, vol. 1, p. 202.
32. (nota a piè di pagina) Darwin Correspondence, vol. 1, Appendix III, p. 549.
33. Browne 2003a, pp. 144-9; Thomson 2009, pp. 139 sgg.
34. Darwin 1958, pp. 73 sgg.; Darwin a Robert Darwin, 8 febbraio-1 marzo 1832, Darwin
Correspondence, vol. 1, p. 203; vedi anche Thomson 1995, p. 155.
35. Darwin, 23 ottobre 1831, Darwin Beagle Diary 2001, p. 8; per il Beagle e le provviste, vedi
anche Browne 2003a, p. 169; Darwin a Susan Darwin, 6 settembre 1831, Darwin
Correspondence, vol. 1, p. 144; Thomson 1995, pp. 115, 123, 128.
36. Darwin, 16 gennaio 1832 e le annotazioni successive, Darwin Beagle Diary 2001, pp. 23
sgg.
37. Darwin a William Darwin Fox, maggio 1832, Darwin Correspondence, vol. 1, p. 232.
38. Darwin, 17 gennaio 1832, Darwin Beagle Diary 2001, p. 24.
39. Robert FitzRoy a Francis Beaufort, 5 marzo 1832, Darwin Correspondence, vol. 1, p. 205,
nota 1.
40. Darwin, 16 gennaio 1832, Darwin Beagle Diary 2001, p. 23.
41. Darwin a Robert Darwin, 8 febbraio-1 marzo 1832; vedi anche Darwin a William Darwin
Fox, maggio 1832, ivi, pp. 204, 233.
42. Darwin, 26 maggio 1832; vedi anche 6 febbraio, 9 aprile e 2 giugno 1832, Darwin Beagle
Diary 2001, pp. 34, 55, 67, 70.
43. Darwin 1958, p. 77.
44. Thomson 2009, p. 148; Browne 2003a, p. 185; vedi anche Darwin 1958, pp. 77, 81, 101.
45. Darwin a Robert Darwin, 10 febbraio 1832, Darwin Correspondence, vol. 1, p. 206; vedi
anche Darwin 1958, p. 81.
46. Darwin a Frederick Watson, 18 agosto 1832, Darwin Correspondence, vol. 1, p. 260.
47. Darwin a Robert Darwin, 8 febbraio-1 marzo 1832, ivi, p. 204.
48. Darwin a John Stevens Henslow, 18 maggio-16 giugno 1832 ivi, p. 237.
49. Darwin, 28 febbraio 1832, Darwin Beagle Diary 2001, p. 42.
50. Darwin a Robert Darwin, 8 febbraio-1 marzo 1832, Darwin Correspondence, vol. 1, pp. 202
sgg.
51. Darwin a John Stevens Henslow, 18 maggio-16 giugno 1832, ivi, p. 238.
52. Darwin, 1 marzo 1832, Darwin Beagle Diary 2001, p. 43.
53. Darwin, 28 febbraio 1832, ivi, p. 42.
54. Darwin a William Darwin Fox, 25 ottobre 1833, Darwin Correspondence, vol. 1, p. 344.
55. Browne 2003a, pp. 191 sgg.
56. Darwin a Robert Darwin, 8 febbraio-1 marzo 1832, Darwin Correspondence, vol. 1, p. 202.
57. Browne 2003a, pp. 193, 222.
58. Thomson 2009, pp. 142-3.
59., Browne 2003a, p. 225.
60. Thomson 1995, p. 156.
61. Browne 2003a, p. 230.
62. Darwin a Catherine Darwin, 5 luglio 1832; vedi anche Erasmus Darwin a Darwin, 18
agosto 1832, Darwin Correspondence, vol. 1, pp. 247, 258.
63. Darwin, 24, 25, 26 marzo 1832, Darwin Beagle Diary 2001, p. 48.
64. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 6, p. 69.
65. Darwin, 12 febbraio 1835, Darwin Beagle Diary 2001, p. 288.
66. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, p. 321.
67. (nota a piè di pagina) Darwin, 20 febbraio 1835, Darwin Beagle Diary 2001, p. 292.
68. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 6, p. 8.
69. Darwin, 1 giugno 1834, Darwin 1997, pp. 228-9.
70. Caroline Darwin a Darwin, 28 ottobre 1833, Darwin Correspondence, vol. 1, p. 345.
71. Herman Kindt a Darwin, 16 settembre 1864, ivi, vol. 12, p. 328.
72. Darwin, 17 settembre 1835, Darwin Beagle Diary 2001, p. 353.
73. Darwin a William Darwin Fox, 15 febbraio 1836, Darwin Correspondence, vol. 1. p. 491.
74. Darwin a Catherine Darwin, 14 febbraio 1836; per il sogno dell’Inghilterra, Darwin a John
Stevens Henslow, 9 luglio 1836 e Darwin a Caroline Darwin, 18 luglio 1836, ivi, pp. 490, 501,
503.
75. Darwin a Susan Darwin, 4 aprile 1836, 1, p. 503.
76. Ibid.
77. Darwin a William Darwin Fox, 15 febbraio 1836, ivi, p. 491.
78. Darwin, dopo il 25 settembre 1836, Darwin Beagle Diary 2001, p. 443.
79. Darwin, 2 ottobre 1836, ivi, p. 447.
80. Darwin a Robert FitzRoy, 6 ottobre 1836, Darwin Correspondence, vol. 1, p. 506.
81. Caroline Darwin a Sarah Elizabeth Wedgwood, 5 ottobre 1836, ivi, p. 504.
82. Darwin a John Stevens Henslow, 6 ottobre 1836, ivi, p. 507.
83. Darwin a John Stevens Henslow, 9 luglio 1838, ivi, p. 499.
84. Darwin 1958, p. 76.
85. (nota a piè di pagina) Darwin a Leonard Jenyns, 10 aprile 1837, Darwin Correspondence,
vol. 2, p. 16.
86. Darwin a John Stevens Henslow, 28 marzo e 18 maggio 1837; Darwin a Leonard Jenyns,
10 aprile 1837, ivi, pp. 14, 16, 18; Browne 2003a, p. 417.
87. Il resoconto di Darwin era il terzo volume della Narrative of the Surveying Voyages of His
Majesty’s Ships Adventure and Beagle, che era un resoconto in quattro volumi dei viaggi del
Beagle scritto da FitzRoy. Il volume di Darwin ebbe tale successo che fu ripubblicato
nell’agosto 1839 come pubblicazione separata, intitolata Journal of Researches. Divenne noto
come il Voyage of the Beagle.
88. Darwin a John Washington, 1 novembre 1839, Darwin Correspondence, vol. 2, p. 241.
89. Darwin a AH, 1 novembre 1839, ivi, p. 240.
90. AH a Darwin, 18 settembre 1839, ivi, pp. 425-6.
91. AH, 6 settembre 1839, Journal Geographical Society, 1839, vol. 9, p. 505.
92. Darwin a John Washington, 14 ottobre 1839, Darwin Correspondence, vol. 2, p. 230.
93. Darwin a AH, 1 novembre 1839, ivi, p. 239.
94. Darwin a Joseph Hooker, 3-17 febbraio 1844, ivi, vol. 3, p. 9.
95. Darwin a John Stevens Henslow, 21 gennaio 1838, ivi, vol. 2, p. 69.
96. Darwin a John Stevens Henslow, 14 ottobre 1837; per le palpitazioni al cuore, vedi anche
20 settembre 1837, ivi, pp. 47, 51-2; Thomson 2009, p. 205.
97. Darwin cominciò a pensare seriamente alla trasmutazione nella tarda primavera del 1837.
Nel luglio del 1837 iniziò un nuovo taccuino dedicato alla trasmutazione delle specie (Taccuino
B), Thomson 2009, pp. 182 sgg.; vedi anche Darwin, Notebook B, Transmutation of species
1837-38, CUL MS.DAR.121.
98. Thomson 2009, pp. 180 sgg.
99. Lamarck, Système des animaux sans vertèbres (1801) e Philosophie zoologique (1809).
100. (nota a piè di pagina) Fra Georges Cuvier ed Étienne Geoffroy Saint-Hilaire, vedi Päßler
2009, pp. 139 sgg.; per AH che sussurrava commenti, vedi Louis Agassiz su AH, ottobre-
dicembre 1830, Beck 1959, p. 123.
101. AH Aspects 1849, vol. 2, p. 112; AH Views 2014, p. 201; AH Ansichten 1849, vol. 2, p. 135
(non c’è nell’edizione tedesca del 1808 di Quadri della natura, ma vedi a p. 185); già nel suo
Saggio sulla geografia delle piante, Humboldt aveva discusso il modo in cui varietà
accidentali di piante possono trasformarsi in “permanenti”, AH Geography 2009, p. 68.
102. AH Aspects 1849, vol. 2, p. 20; AH Views 2014, p. 163.; AH Ansichten 1849, vol. 2, p. 25;
vedi anche AH Ansichten 1808, p. 185.
103. Darwin a Joseph Dalton Hooker, 10 febbraio 1845, Darwin Correspondence, vol. 3, p.
140.
104. AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, pp. 491-5; Darwin lo sottolineò nella sua copia.
105. AH Aspects 1849, vol. 2, p. 112; AH Views 2014, p. 201; AH Ansichten 1849, vol. 2, p. 136.
106. (nota a piè di pagina) Darwin, Notebook B, Transmutation of species 1837-38, pp. 92,
156, CUL MS.DAR.121.
107. Copia di Darwin della AH Personal Narrative 1814-29, vol. 5, pp. 180, 183, 221 sgg. CUL,
DAR.LIB:T.301.
108. Ivi, vol. 4, pp. 336, 384 e vol. 5, pp. 24, 79, 110.
109. Ivi, vol. 1, risguardi; Darwin, Notebook A, Geology 1837-1839, p. 15, CUL DAR127;
Darwin, Santiago Notebook, EH1.18, p. 123, English Heritage, Darwin Online.
110. Copia di Darwin della AH Personal Narrative 1814-29, vol. 6, endpapers, CUL,
DAR.LIB:T.301.
111. Ivi, vol. 1, risguardi; vedi anche Werner 2009, pp. 77 sgg.
112. Copia di Darwin della AH Personal Narrative 1814-29, vol. 1, elenco sul retro, CUL,
DAR.LIB:T.301.
113. Ivi, vol. 5, p. 543.
114. Ivi, p. 180; vedi anche vol. 3, p. 496 (Darwin le sottolineò entrambe).
115. AH Views 2014, pp. 162-3; AH Aspects 1849, vol. 2, p. 19; AH Ansichten 1849, vol. 2, p.
24.
116. Darwin a Joseph Hooker, 10-11 novembre 1844, Darwin Correspondence, vol. 3, p. 79.
117. Darwin 1958, p. 120; Thomson 2009, p. 214.
118. Copia di Darwin della AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 489, CUL,
DAR.LIB:T.301.
119. Darwin 1958, p. 120.
120. AH Aspects 1849, vol. 2, p. 114; AH Views 2014, p. 202; AH Ansichten 1849, p. 138.
121. AH Aspects 1849, vol. 2, p. 114; AH Views 2014, p. 202; AH Ansichten 1849, p. 138; vedi
anche AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, p. 437.
122. AH Personal Narrative 1814-1829, vol. 4, pp. 421-2.
123. Ivi, p. 426.
124. Copia di Darwin della AH Personal Narrative 1814-1829, vol. 4, p. 437; vedi anche vol. 5,
p. 590, CUL, DAR.LIB:T.301.
125. Ivi, vol. 5, p. 590.
126. Darwin, 1838, Harman 2009, p. 226.
127. Darwin, Notebook B, p. 36f, CUL MS.DAR.121.
128. Copia di Darwin di AH Personal Narrative 1814-29, vol. 4, pp. 505-6, CUL,
DAR.LIB:T.301.
129. (nota a piè di pagina) Ibid.
130. Darwin 1859, p. 489.
*. Preoccupato per il poco spazio nella cabina di poppa, Darwin aveva chiesto al capitano
prima della partenza se gli era consentito di portarsi dietro la sua copia della Personal
Narrative. “Siete libero di portare con voi il vostro Humboldt, naturalmente”, lo rassicurò il
capitano.
*. Il Beagle trasportava anche un missionario e tre fuegini che FitzRoy aveva preso in ostaggio
durante il viaggio precedente e portati in Inghilterra. Erano ora di ritorno a casa, nella Tierra
del Fuego, dove FitzRoy sperava che avrebbero convertito gli altri fuegini al cristianesimo una
volta che vi avesse creato una missione.
*. L’intera descrizione è molto simile. La frase di Humboldt “viene scossa dalle fondamenta
quella terra che ritenevamo così stabile” diventa, nel diario di Darwin, “il mondo, emblema di
tutto ciò che è solido, si muove sotto i nostri piedi”. Humboldt aveva scritto: “per la prima
volta non ci fidiamo più del suolo su cui così a lungo avevamo posato i nostri piedi con
fiducia”; e Darwin lo tradusse così: “un secondo di tempo trasmette alla mente una idea
inusitata di insicurezza”.
*. Darwin si assicurò anche il finanziamento del governo per pubblicare Zoology of the
Voyage of H.M.S. Beagle – per “imitare su scala più modesta” le splendide pubblicazioni
zoologiche di Humboldt, disse.
*. Dalla parte dell’argomento delle specie fisse c’erano quelli che ritenevano che gli animali e le
piante si estinguessero e che Dio ne creasse regolarmente di nuovi. I loro avversari
sostenevano che c’era un’unità sottostante o un modello da cui si sono sviluppate specie
diverse adattandosi al loro particolare ambiente – varianti di quella che Goethe aveva
chiamato la “Urform”. Essi sostenevano che le ali di un pipistrello o la pinna di un delfino, per
esempio, sono tutte variazioni dell’arto anteriore.
*. Nei manoscritti di Darwin c’erano centinaia di riferimenti a Humboldt – che andavano dai
segni a matita sui libri di Humboldt alle annotazioni su Humboldt nei taccuini di Darwin del
tipo “Nella grande opera di Humboldt” o “Humboldt ha scritto sulla geografia delle piante”.
*. Nella Personal Narrative, Humboldt scrisse: “Gli animali della foresta si ritirano nei
cespugli: gli uccelli si nascondono sotto le foglie degli alberi o nelle fessure delle rocce.
Tuttavia, in mezzo a un apparente silenzio, se prestiamo un orecchio attento ai suoni più
deboli trasmessi dall’aria, sentiamo una vibrazione sorda, un mormorio continuo, un ronzio di
insetti, che riempie, se possiamo usare questa espressione, tutti gli strati più bassi dell’aria.
Nulla è più adatto a far sentire all’uomo l’estensione e il potere della vita organica. Miriadi di
insetti si muovono strisciando sul terreno e svolazzano intorno alle piante bruciate dall’ardore
del sole. Da ogni cespuglio, dai tronchi marciti degli alberi, dalle fenditure delle rocce e dal
terreno scavato dalle lucertole, dai millepiedi e dalle cecilie esce un rumore confuso.
Un’infinità di voci ci proclamano che tutta la natura respira; e che, sotto mille forme diverse,
la vita è diffusa su tutto il terreno screpolato e polveroso come nel profondo delle acque e
nell’aria che circola intorno a noi”.
Capitolo diciottesimo

Il Cosmos di Humboldt

“Mi ha preso la pazza frenesia di rappresentare in un unico lavoro


l’intero mondo materiale”1, dichiarò Humboldt nell’ottobre del 1834.
Desiderava scrivere un libro che mettesse insieme ogni cosa che sta in
cielo e sulla terra, dalle lontane nebulose alla geografia dei muschi, dal
paesaggismo alla migrazione delle razze umane e alla poesia. Questo
“libro sulla natura”, scrisse, “dovrebbe produrre un’impressione simile
alla natura stessa”2.
All’età di sessantacinque anni, Humboldt iniziò quello che sarebbe
diventato il suo libro più autorevole: Cosmos. A Sketch of the Physical
Description of the Universe. Era liberamente basato sulle serie di
conferenze berlinesi, ma la spedizione in Russia gli aveva fornito i dati
comparativi finali di cui aveva bisogno. Impegno colossale, Cosmos era
come “una spada piantata nel petto che ora si tratta di estrarre”3,
disse, e “l’opera della mia vita”4. Il titolo, spiegò Humboldt, veniva
dalla parola greca κόσμος – Kosmos – che significava “bellezza” e
“ordine” ed era stata applicata anche all’universo come sistema
ordinato. Humboldt ora la utilizzava, disse, come uno slogan per
esprimere e racchiudere “sia il cielo che la terra”5.
E così, nel 1834, l’anno preciso in cui fu coniato il termine
“scienziato”*, annunciando l’inizio della professionalizzazione delle
scienze e del consolidamento delle linee di confine fra le diverse
discipline scientifiche, Humboldt iniziò un libro che faceva
esattamente l’opposto. Mentre la scienza si allontanava dalla natura
per entrare nei laboratori e nelle università, separandosi in discipline
distinte, Humboldt creava un’opera che riuniva tutto ciò che la scienza
professionale stava cercando di separare.
Poiché Cosmos copriva una vasta gamma di argomenti, la ricerca di
Humboldt si espandeva in tutte le aree possibili. Consapevole del fatto
che non conosceva e non poteva conoscere tutto, Humboldt reclutò un
esercito di aiutanti – scienziati, classicisti e storici – che erano tutti
esperti nei rispettivi campi6. Botanici inglesi che avevano molto
viaggiato furono felici di inviargli lunghi elenchi di piante dai paesi che
avevano visitato. Astronomi passarono i loro dati, geologi fornirono
mappe e classicisti consultarono i testi antichi per Humboldt. Si
dimostrarono utili anche i suoi vecchi contatti in Francia. Un
esploratore francese, per esempio, si prestò gentilmente a inviare a
Humboldt un lungo manoscritto sulle piante polinesiane, mentre
amici stretti di Parigi come François Arago erano regolarmente a
disposizione di Humboldt. Certe volte, Humboldt poneva domande
specifiche o chiedeva quali pagine dovesse consultare e in quale libro,
altre volte faceva circolare lunghi questionari. Quando i capitoli erano
completati, ne distribuiva le bozze con vuoti che chiedeva ai suoi
corrispondenti di riempire con numeri e fatti pertinenti o di
correggere.
Humboldt aveva la responsabilità della visione generale, mentre i
suoi aiutanti fornivano i dati e le informazioni specifiche di cui aveva
bisogno. Lui aveva la prospettiva cosmica ed essi erano gli strumenti
del suo grande modello. Estremamente meticoloso per quanto
concerne la precisione, Humboldt consultava sempre diversi esperti
per ogni argomento. La sua sete di fatti era insaziabile –
dall’interrogare un missionario in Cina sull’avversione dei cinesi per i
latticini a chiedere a un altro corrispondente il numero delle specie di
palma nel Nepal7. “Indagare il medesimo oggetto finché non riusciva a
spiegarlo”8, ammetteva, era la sua ossessione. Spediva migliaia di
lettere e poneva domande ai visitatori. Un giovane romanziere appena
rientrato da Algeri, per esempio, rimase atterrito quando Humboldt lo
bombardò di domande su rocce, piante e falde di cui non sapeva
assolutamente nulla. Humboldt poteva essere implacabile. “Questa
volta non riuscirete a sfuggire”, disse a un altro visitatore, perché “vi
devo saccheggiare”9.
Mano a mano che i suoi contatti rispondevano, ondate di
conoscenze e di dati si muovevano verso Berlino. Ogni mese
arrivavano nuovi materiali che andavano letti, compresi, ordinati e
integrati. Mano a mano che Humboldt andava avanti, il lavoro si
ampliava. Con il crescente afflusso di conoscenze, spiegò al suo
editore, “il materiale mi cresce fra le mani”10. Cosmos era “una specie
di impresa impossibile”11, ammetteva Humboldt.
Per poter gestire tutti questi dati, bisogna organizzarsi alla
perfezione. Humboldt raccoglieva il materiale in scatole che erano
suddivise in buste secondo i diversi temi. Ogni volta che riceveva una
lettera, ritagliava l’informazione rilevante e la riponeva nella busta
pertinente insieme ad altri frammenti che potevano risultare utili –
ritagli di giornale, pagine di libri, pezzetti di carta su cui aveva
scarabocchiato qualche numero, una citazione o un disegnino. In una
di queste scatole, per esempio, piena di materiali riguardanti la
geologia, Humboldt teneva tavole con le altitudini delle montagne,
carte, note di lettura, osservazioni della sua vecchia conoscenza
Charles Lyell, una carta della Russia di un altro geologo britannico,
nonché stampe di fossili e informazioni dei classicisti sulla geologia
dell’antica Grecia12. Il vantaggio di questo sistema era che poteva
raccogliere materiali per anni e, quando si metteva a scrivere, tutto ciò
che doveva fare era di prendere la scatola o la busta pertinente.
Quanto era disordinato nel suo studio o caotico con le sue finanze,
tanto era caparbiamente preciso quando si trattava delle sue
ricerche13.
Talvolta, su di una particolare annotazione scribacchiava “molto
importante”14 o “importante, da tenere presente per Cosmos”15. Altre
volte incollava pezzi di carta con i suoi pensieri su di una lettera o
strappava una pagina da un libro sul tema. Una scatola poteva
contenere articoli di giornale, un frammento di muschio essiccato16 e
un elenco di piante dell’Himalaya17. Altre scatole comprendevano una
busta intitolata suggestivamente “Luftmeer”18 – aria di mare, che era
il bel termine con cui Humboldt intendeva l’atmosfera – nonché
materiali sull’antichità19, lunghe tavole con le temperature20 e una
pagina di citazioni sui coccodrilli e gli elefanti trovata in una poesia
ebraica21. Fra molte altre cose, c’erano scatole sullo schiavismo, sulla
meteorologia, sull’astronomia e sulla botanica. Solo Humboldt,
dichiarò un collega scienziato, poteva, con tanta abilità, legare insieme
in un unico grande nodo tanti “fili disgiunti”22 della ricerca
scientifica.
Di solito, Humboldt era benevolo con chi lo aiutava, ma di tanto in
tanto lasciava che la sua lingua, notoriamente maliziosa, prendesse il
sopravvento. Johann Franz Encke, direttore dell’osservatorio di
Berlino, per esempio, fu trattato piuttosto male. Encke aveva lavorato
duro, dedicando diverse settimane a raccogliere dati astronomici per
Cosmos. In cambio, però, Humboldt disse a un collega che Encke “era
diventato gelido come un ghiacciaio già nel ventre di sua madre”23.
Neanche al fratello risparmiò qualche sporadica frecciata. Quando
Wilhelm tentò di intervenire a favore della precaria situazione
finanziaria del fratello, suggerendolo come direttore di un nuovo
museo a Berlino, Alexander si indignò. La posizione era al di sotto
della sua reputazione, disse Alexander al fratello, e non aveva
certamente lasciato Parigi per diventare direttore di una semplice
“pinacoteca”24.

L’università di Berlino che Wilhelm von Humboldt aveva fondato nel 1810 e dove Alexander
von Humboldt frequentava le lezioni

Humboldt si era abituato all’ammirazione e all’adulazione. I tanti


giovani che si raccoglievano intorno a lui formavano un po’ la sua
personale “corte reale”25, osservò uno dei professori dell’università di
Berlino. Quando Humboldt faceva il suo ingresso in una stanza, era
come se ogni cosa venisse ricalibrata e il centro cambiasse – “tutti si
giravano verso di lui”26. In silenziosa riverenza, questi giovani stavano
ad ascoltare ogni sua sillaba27. Era la più grande attrazione che
Berlino potesse offrire e lui dava per scontato di essere al centro
dell’attenzione. Nessuno riusciva mai a interloquire quando Humboldt
parlava, lamentava uno scrittore tedesco28. La sua inclinazione a
parlare senza interruzioni era diventata così leggendaria che lo
scrittore francese Honoré de Balzac immortalò Humboldt in una
scenetta comica che rappresentava un cervello conservato in un vaso,
da cui le persone estraevano idee e “un certo erudito prussiano
conosciuto per l’inesauribile flusso delle sue parole”29.
Un giovane pianista, che aveva considerato come un grande onore
di essere stato invitato a suonare per Humboldt, scoprì rapidamente
che il vecchio signore poteva essere molto scortese (e che non aveva
alcun interesse per la musica). Quando il pianista cominciò a suonare,
ci fu un momento di silenzio ma poi Humboldt continuò a parlare a
voce così alta che nessuno riusciva ad ascoltare la musica. Parlava al
pubblico come sempre e quando il pianista suonò i suoi crescendo e
forte Humboldt, a sua volta, alzò la voce superando la musica. “Era un
duetto”, disse il pianista, che “non ressi a lungo.”30
Per molti Humboldt restava un enigma. Da un lato, poteva essere
arrogante, ma al tempo stesso ammetteva umilmente che aveva ancora
da imparare. Gli studenti dell’università di Berlino erano sbalorditi nel
vedere il vecchio trascinarsi a stento nell’auditorio con la cartella
infilata sotto il braccio – non per tenere una lezione, ma per ascoltare
uno dei professori più giovani31. Humboldt frequentava le lezioni sulla
letteratura greca per recuperare quello che si era perso a scuola,
diceva. Mentre scriveva Cosmos, seguiva gli ultimi sviluppi scientifici
assistendo agli esperimenti condotti da un professore di chimica e
seguendo le lezioni del geologo Carl Ritter. In silenzio, seduto sempre
nella terza o quarta fila dell’auditorio, accanto alla finestra, Humboldt
prendeva appunti proprio come i giovani studenti accanto a lui. Per
quanto il tempo fosse cattivo, il vecchio Humboldt arrivava sempre.
Era assente solo quando il re richiedeva la sua presenza, con gli
studenti che dicevano per scherzo che “Alexander oggi salta la lezione
perché va a prendere il tè con il re”32.
Humboldt non cambiò mai idea su Berlino, sostenendo che era “una
piccola città ignorante e particolarmente astiosa”33. Una delle
principali consolazioni della sua vita era Wilhelm. Negli ultimi anni, i
due fratelli si erano avvicinati, passando insieme tutto il tempo che
potevano. Dopo la morte di Caroline nella primavera 1829, Wilhelm si
era ritirato a Tegel, ma Alexander andava a trovarlo tutte le volte che
poteva. Solo di due anni più anziano di Alexander, Wilhelm stava
rapidamente invecchiando. Appariva più vecchio dei suoi sessantasette
anni e si era sempre più indebolito34. Era cieco da un occhio, le sue
mani tremavano così forte che non riusciva più a scrivere e il suo corpo
penosamente esile si incurvava. Verso la fine di marzo del 1835,
Wilhelm si era preso la febbre dopo aver visitato la tomba di Caroline
nel parco di Tegel. Alexander passò i giorni successivi al capezzale del
fratello. Parlavano della morte e del desiderio di Wilhelm di essere
seppellito accanto a Caroline. Il 3 aprile lesse al fratello una poesia di
Friedrich Schiller. Cinque giorni dopo, Wilhelm morì con Alexander
accanto.
Solo, Humboldt si sentiva triste e abbandonato. “Non avevo mai
pensato che questi vecchi occhi avessero ancora tante lacrime”35,
scrisse a un vecchio amico. Con la morte di Wilhelm, aveva perso la
famiglia e, come disse, “metà di me stesso”36. Una riga in una lettera
al suo editore francese riassumeva i suoi sentimenti: “Abbiate
compassione di me, sono il più infelice degli uomini”37.
Humboldt si sentiva triste a Berlino. “Intorno a me ogni cosa è
deprimente, così deprimente”38, scrisse un anno dopo la morte di
Wilhelm. Per fortuna, una delle condizioni di impiego che aveva
trattato con il re consentiva a Humboldt di recarsi ogni anno a Parigi
per qualche mese allo scopo di raccogliere gli ultimi dati per
Cosmos39. Il pensiero di Parigi era l’unica cosa che lo rincuorava,
ammetteva.
A Parigi, non faticava a ritrovare il ritmo di intenso lavoro, di
relazioni e di intrattenimenti serali. Dopo una colazione di buon’ora
con il caffè nero – “un concentrato di felicità”40, come lo chiamava
Humboldt – lavorava tutto il giorno e la sera faceva il consueto giro dei
salotti fino alle 2 di notte. Visitava scienziati in tutta la città –
spronandoli e pungolandoli per conoscere le loro ultime scoperte41.
Quanto Parigi lo stimolava, altrettanto lo spaventava il ritorno a
Berlino, questa “danzante necropoli carnevalesca”42. Ogni visita a
Parigi allargava la rete internazionale di Humboldt e ogni ritorno a
Berlino era accompagnato da bauli pieni di nuovi materiali che
andavano incorporati in Cosmos. Ma a ogni scoperta, ogni nuova
misura o nuovi dati, la pubblicazione di Cosmos veniva ulteriormente
rinviata.
Non aiutava il fatto che a Berlino Humboldt doveva destreggiarsi fra
la vita scientifica e i doveri di corte. La sua situazione finanziaria
rimaneva difficile; aveva bisogno, dunque, del suo stipendio da
ciambellano. Gli era richiesto di seguire ogni spostamento del re, da
un castello all’altro. Il palazzo preferito del re era Sanssouci a
Potsdam, a circa trenta chilometri dall’appartamento di Humboldt a
Berlino. Per lui questo significava spostarsi con le venti-trenta scatole
di materiale di cui aveva bisogno per scrivere Cosmos – le sue “risorse
mobili”43, come le chiamava. Certi giorni gli sembrava di passare più
tempo per strada che in qualsiasi altro posto: “ieri Pfaueninsel, tè a
Charlottenburg, commedia e cena a Sanssouci, oggi Berlino, domani
Potsdam”44 era una routine non infrequente. Humboldt si sentiva
come un pianeta che si muove lungo la sua orbita, sempre in moto,
senza mai fermarsi45.
Gli obblighi di corte prendevano troppo del suo tempo46. Doveva
raggiungere il re per i pasti e doveva leggergli, mentre le serate erano
piene della corrispondenza privata del sovrano. Quando Federico
Guglielmo III morì, nel giugno 1840, il figlio e successore Federico
Guglielmo IV pretese ancora più tempo dal suo ciambellano. Il nuovo
re lo chiamava affettuosamente “il mio miglior Alexander”47 e lo
usava come un “dizionario”48, osservò un visitatore a corte, perché
Humboldt era sempre a portata di mano per rispondere a domande su
temi così disparati come le diverse altezze delle montagne, la storia
dell’Egitto o la geografia dell’Africa49. Forniva al re appunti sulle
dimensioni del diamante più grande mai rinvenuto, la differenza di
orario fra Parigi e Berlino (44 minuti), le date dei regni importanti e la
paga dei soldati turchi. Lo consigliava anche su cosa comprare per le
collezioni e la biblioteca reali o sulle spedizioni da finanziare – facendo
spesso appello allo spirito competitivo del suo datore di lavoro,
ricordandogli che non doveva farsi superare da altri paesi.
Abilmente, Humboldt cercò anche di esercitare una certa influenza
– “per quanto posso, ma in modo lieve”50 – sebbene il re non fosse
interessato né a riforme sociali né alla politica europea. La Prussia
stava andando a ritroso, diceva Humboldt, proprio come William
Parry, l’esploratore britannico che aveva creduto di marciare verso il
Polo Nord quando in realtà se ne stava allontanando sul ghiaccio
mobile51.
La maggior parte delle serate, Humboldt non arrivava prima di
mezzanotte nel suo piccolo appartamento nella Oranienburger Strasse,
che si trovava a poco più di un chilometro a nord del palazzo cittadino
del re, lo Stadtschloss52. Anche qui, tuttavia, non riusciva ad avere la
pace di cui aveva bisogno. I visitatori gli suonavano continuamente il
campanello, lamentava Humboldt, quasi come se il suo appartamento
fosse una “bottega di liquori”53. Per riuscire a scrivere qualcosa,
doveva lavorare metà della notte. “Non vado a letto prima delle
due”54, assicurava al suo editore che aveva cominciato a dubitare che
Cosmos sarebbe mai stato completato. Più volte Humboldt rinviò la
pubblicazione perché trovava continuamente nuovi materiali che
desiderava includere55.
Nel marzo 1841, più di sei anni dopo che, per la prima volta, aveva
dichiarato l’intenzione di pubblicare Cosmos, Humboldt promise di
inviare il manoscritto del primo volume – ancora una volta senza
successo. Per scherzo, avvertì l’editore del pericolo di “legarsi a
persone che sono mezzo fossilizzate”56, ma non si sarebbe affrettato.
Cosmos era troppo importante, affermava, la sua “opera più
meticolosa”57.
Ogni tanto, quando era troppo frustrato, lasciava libri e manoscritti
chiusi sul tavolo e percorreva i due chilometri che lo separavano dal
nuovo osservatorio58 che aveva contribuito a fondare dopo il ritorno a
Berlino. Quando, attraverso il grande telescopio, scrutava il cielo
notturno, l’universo dispiegato – ecco, questo era il suo cosmo in tutto
il suo splendore. Vedeva i crateri scuri sulla luna, le stelle doppie
colorate che sembravano proiettare la loro luce su di lui e le lontane
nebulose sparse nella volta del cielo. Questo nuovo telescopio rendeva
Saturno più vicino di quanto lo avesse mai visto, con gli anelli che
apparivano come se qualcuno li avesse dipinti. Questi brevi momenti
di intensa bellezza, diceva all’editore, lo spingevano a continuare.

Nel corso degli anni in cui attese alla scrittura di Cosmos, Humboldt si
recò a Parigi diverse volte, ma nel 1842 accompagnò Federico
Guglielmo IV in Inghilterra per il battesimo del Principe di Galles (il
futuro re Edoardo VII) al Castello di Windsor. La visita fu frettolosa,
meno di due settimane59, lamentò Humboldt, con poco spazio per le
questioni scientifiche. Non riuscì nemmeno a ritagliarsi un po’ di
tempo per visitare l’osservatorio di Greenwich né il giardino botanico
di Kew, ma riuscì a incontrare Charles Darwin.
Humboldt aveva chiesto al geologo Roderick Murchison, una
vecchia conoscenza di Parigi, di organizzare una riunione60.
Murchison fu felice di fare questa cortesia, anche se era la stagione
della caccia e avrebbe “perso le migliori battute dell’anno”61. La data
fu fissata per il 26 gennaio. Nervoso ed eccitato per l’incontro con
Humboldt, Darwin uscì di casa la mattina presto, affrettandosi verso la
casa di Murchison a Belgrave Square, poche centinaia di metri al di là
di Buckingham Palace a Londra62. Aveva tante cose da chiedere e da
discutere. Stava lavorando alla sua rivoluzionaria teoria
dell’evoluzione e stava ancora riflettendo sulla distribuzione delle
piante e la migrazione delle specie.
In passato, Humboldt aveva utilizzato le sue idee sulla distribuzione
delle piante per discutere la connessione possibile fra l’Africa e il Sud
America, ma aveva parlato anche di barriere come i deserti o le catene
montuose, che bloccavano il movimento delle piante. Aveva scritto del
bamboo tropicale che era stato trovato “sepolto nelle terre coperte di
ghiaccio del nord”63, sostenendo che il pianeta era cambiato e lo
stesso aveva fatto la distribuzione delle piante.
Quando il trentaduenne Darwin giunse alla casa di Murchison, vide
un vecchio signore con una massa di capelli argentati, vestito come
durante la spedizione in Russia, con una marsina scura e un foulard
bianco. Questa era la sua “tenuta cosmopolita”64, come la chiamava
Humboldt, perché era adatta a tutte le occasioni sia che incontrasse re
che studenti. A settantadue anni, la camminata di Humboldt si era
fatta più lenta e prudente, ma sapeva ancora come affrontare il
pubblico. Quando arrivava a un ricevimento o a una riunione, di solito
attraversava la sala trascinandosi a stento, con la testa leggermente
piegata e facendo cenni a destra e sinistra mentre superava le
persone65. Durante tutta questa sequenza inaugurale, il flusso di
parole di Humboldt non si arrestava un istante. Dal momento in cui
entrava in una sala, tutti gli altri facevano silenzio. Qualsiasi
commento fatto da qualcun altro, induceva Humboldt a fare un’altra
lunga divagazione filosofica.
Darwin era affascinato. Più volte tentò di aprire bocca, ma alla fine
vi rinunciò. Humboldt fu abbastanza cordiale e gli fece “qualche
fantastico complimento”66, ma il vecchio parlava troppo. Humboldt si
effuse smodatamente per tre lunghe ore, ciarlando “al di là di ogni
ragione”67, disse Darwin. Non era così che aveva immaginato il primo
incontro. Dopo tutti quegli anni di adorazione nei confronti di
Humboldt e di ammirazione per i suoi libri, Darwin si sentiva un po’
abbacchiato. “Ma le mie aspettative, probabilmente, erano troppo
elevate”68, ammise in seguito.
Il monologo infinito di Humboldt rese impossibile a Darwin avere
con lui una conversazione significativa. Mentre la lezione di Humboldt
proseguiva, i suoi pensieri andavano e venivano. Poi, all’improvviso,
sentì Humboldt parlare di un fiume in Siberia in cui la vegetazione
sulle due sponde era “molto diversa”69, malgrado il suolo e il clima
fossero gli stessi. L’interesse di Darwin ne fu stimolato. Le piante su di
una sponda del fiume erano prevalentemente asiatiche e sull’altra
europee, raccontava Humboldt. Darwin aveva afferrato quanto
bastava per stuzzicare la sua curiosità, ma si era perso molti dei
dettagli del fuoco di fila di Humboldt – inoltre, non osava
interrompere. Ma a casa, Darwin scribacchiò subito tutto quello che
riusciva a ricordare nel suo taccuino. Non era però sicuro di aver
compreso correttamente il vecchio scienziato: “due flore sono avanzate
da lati opposti e si sono incontrate qui? – strano caso”70, scrisse
Darwin.
Darwin stava pensando e raccogliendo materiale per la sua “teoria
delle specie”. Vista dall’esterno, la sua vita funzionava come un
“meccanismo a orologeria”71, disse, costruita intorno a una routine
fatta di lavoro, pasti e tempo in famiglia. Aveva sposato la cugina
Emma Wedgwood nel 1839, poco più di due anni dopo il ritorno dal
viaggio sul Beagle e vivevano ora con i due bambini a Londra*. Nella
sua mente, tuttavia, Darwin era impegnato con i pensieri più
rivoluzionari. Spesso era malato; soffriva di mal di testa, di dolori
addominali, di stanchezza e di infiammazione al viso72, ma ancora
produceva saggi e libri, riflettendo al contempo sull’evoluzione.
La maggior parte degli argomenti che avrebbe presentato anni dopo
in Origin of Species aveva già assunto una forma ben definita, ma il
meticoloso Darwin non si affrettava a pubblicare nulla che non fosse
argomentato solidamente e sorretto da fatti. Proprio come aveva
stilato un elenco dei pro e dei contro per il matrimonio prima di
proporlo a Emma73, avrebbe messo insieme tutto ciò che concerneva
la sua teoria dell’evoluzione prima di presentarla al mondo.
Se quel giorno i due uomini si fossero davvero parlati, forse
Humboldt avrebbe discusso le sue idee di un mondo governato non
dall’equilibrio e dalla stabilità, ma dal cambiamento dinamico –
pensieri che avrebbe presto introdotto nel primo volume di Cosmos.
Una specie era una parte del tutto, legata sia al passato che al futuro,
avrebbe scritto Humboldt, più mutevole che “fissa”74. In Cosmos
avrebbe discusso anche i legami mancanti e i “passaggi intermedi”75
che si potevano rinvenire nei reperti fossili. Avrebbe scritto sul
“cambiamento ciclico”76, sulle transizioni e sul rinnovamento
costante. In breve, la natura di Humboldt era in continuo mutamento.
Tutte queste idee precorrevano la teoria evoluzionistica di Darwin.
Humboldt, come disse uno scienziato in seguito, era un “darwinista
pre-darwiniano”77*78.
Darwin, dunque, non parlò mai di queste idee con Humboldt, ma la
storia del fiume siberiano continuava a occupargli la mente. Nel
gennaio 1845, tre anni dopo la visita di Humboldt a Londra, un amico
stretto di Darwin, il botanico Joseph Dalton Hooker, si recò a Parigi.
Sapendo che anche Humboldt era a Parigi per uno dei suoi viaggi di
studio, Darwin sfruttò l’occasione per chiedere a Hooker di indagare
ulteriormente sull’enigma della flora sul fiume siberiano. Insistette
perché Hooker ricordasse in primo luogo a Humboldt che tutta la sua
vita era stata forgiata dalla Personal Narrative. Messa da parte
l’adulazione, Darwin istruì Hooker perché chiedesse a Humboldt “del
fiume nel nord-est Europa, con la flora completamente diversa sulle
due sponde”79.
Hooker prenotò nello stesso hotel di Humboldt, l’Hôtel de Londres
a Saint-Germain80. Come sempre, Humboldt era felice di rendersi
utile, ma fu di aiuto anche il fatto che Hooker gli fornisse informazioni
sull’Antartide. Poco più di un anno prima, Hooker era tornato da un
viaggio di quattro anni che faceva parte della cosiddetta “Crociata
magnetica”. Si era unito alla ricerca del Polo sud magnetico in cui era
impegnato il capitano James Clark Ross – una spedizione che era la
risposta britannica all’appello di Humboldt per una rete globale di
punti di osservazione.
Come Darwin, nel suo pensiero il ventisettenne Hooker aveva
trasformato Humboldt in un eroe di proporzioni quasi mitiche.
Quando a Parigi incontrò il settantacinquenne Humboldt, in un primo
momento Hooker rimase deluso. “Con grande stupore”, disse Hooker,
vide “un piccolo tedesco frastornato”81 invece dell’esploratore
prestante, alto più di un metro e ottanta, che si era immaginato. La
reazione di Hooker fu tipica. Molti altri supponevano che il
leggendario tedesco fosse più imponente e “simile a Giove”82.
Humboldt non era mai stato particolarmente alto e massiccio, ma
invecchiando si era incurvato ed era diventato ancora più esile. A
Hooker sembrava impossibile che quest’uomo piccolo e avvizzito fosse
mai salito sul Chimborazo, ma si riprese rapidamente e fu presto
affascinato dal vecchio scienziato.
Parlarono degli amici comuni in Gran Bretagna e di Darwin. Hooker
era divertito dall’abitudine di Humboldt di citare se stesso e i suoi
libri, ma era impressionato da quanto fosse ancora acuto. La sua
memoria e la sua “capacità di generalizzare”, disse, erano “davvero
straordinarie”83. Hooker avrebbe solo voluto che ci fosse anche
Darwin, perché insieme sarebbero stati in grado di rispondere alle
domande di Humboldt. Naturalmente, Humboldt parlava senza
interruzione, come sempre, riferì Hooker a Darwin, ma “la sua mente
era ancora vigorosa”84. La miglior prova fu la sua risposta alla
domanda di Darwin sul fiume della Siberia. Era l’Obi, riferì Hooker, il
fiume che Humboldt aveva attraversato per raggiungere Barnaul dopo
aver corso per la steppa russa infestata dall’antrace. Humboldt disse a
Hooker tutto quello che sapeva sulla distribuzione delle piante
siberiane, anche se erano trascorsi più di quindici anni dalla
spedizione in Russia. “Penso che non abbia ripreso fiato per 20
minuti”85, scrisse Hooker a Darwin.
Poi, con grande stupore di Hooker, Humboldt gli mostrò le bozze
del primo volume di Cosmos. Hooker quasi non credeva ai suoi occhi.
Come chiunque altro nel mondo scientifico, Hooker aveva “dato per
perso Cosmos”86, perché Humboldt ci aveva messo più di un decennio
a completare il primo volume. Sapendo che anche Darwin sarebbe
stato entusiasta della notizia, si affrettò a informare l’amico.

Due mesi dopo, alla fine di aprile del 1845, il primo volume fu
finalmente pubblicato in Germania87. L’attesa era valsa la pena.
Cosmos divenne immediatamente un bestseller, con più di 20.000
copie dell’edizione tedesca vendute in un paio di mesi. Nel giro di
poche settimane, l’editore di Humboldt fece una ristampa e negli anni
immediatamente successivi furono pubblicate traduzioni – “i figli non
tedeschi di Cosmos”88, come li chiamò Humboldt – in inglese,
olandese, italiano, francese, danese, polacco, svedese, spagnolo, russo
e ungherese.
Cosmos era diverso da ogni altro libro precedente sulla natura.
Humboldt conduceva i lettori in un viaggio dallo spazio esterno alla
terra e poi dalla superficie del pianeta nel suo nucleo più riposto.
Trattava delle comete, della via lattea e del sistema solare nonché del
magnetismo terrestre, dei vulcani e del limite delle nevi perenni.
Scriveva della migrazione della specie umana, delle piante e degli
animali e degli organismi microscopici che vivono nelle acque
stagnanti o sulla superficie delle rocce esposte alle intemperie. Mentre
altri sostenevano che la natura veniva spogliata del suo fascino mano a
mano che l’umanità ne penetrava i segreti più profondi, Humboldt
pensava esattamente il contrario. Come poteva essere, chiedeva
Humboldt, in un mondo in cui i raggi variopinti di un’aurora “si
uniscono in una fiamma tremolante sul mare”89, creando una veduta
così oltremondana, di cui “nessuna descrizione può uguagliare lo
splendore”? La conoscenza, diceva, non può mai “uccidere la forza
creativa dell’immaginazione”90 – perché genera emozione, meraviglia
e ammirazione. La parte più importante di Cosmos era l’introduzione,
lunga quasi un centinaio di pagine. Qui Humboldt esponeva per filo e
per segno la sua visione – di un mondo che pulsava di vita. Ogni cosa
era parte di questa “attività infinita delle forze animate”91, scriveva
Humboldt. La natura era un “tutto vivente”92, in cui gli organismi
erano uniti insieme in un “intricato tessuto reticolare”93.
Il resto del libro era composto di tre parti: la prima sui fenomeni
celesti; la seconda sulla terra, compreso il geomagnetismo, gli oceani, i
terremoti, la meteorologia e la geografia; e la terza sulla vita organica,
che comprendeva le piante, gli animali e gli esseri umani. Cosmos era
un’esplorazione del “vasto campo della natura”94, che riuniva una
gamma di argomenti di gran lunga più estesa di ogni altro libro
precedente. Ma era di più di una mera raccolta di fatti e di conoscenze,
come la famosa Encyclopédie di Diderot, ad esempio, perché
Humboldt era interessato più di ogni altra cosa alle connessioni. La
trattazione del clima da parte di Humboldt era solo un esempio che
rivelava quanto fosse diverso il suo approccio. Mentre altri scienziati si
concentravano solo sui dati meteorologici, come la temperatura e il
tempo, Humboldt era il primo a considerare il clima come un sistema
di correlazioni complesse fra l’atmosfera, gli oceani e i continenti. In
Cosmos scriveva della “interrelazione perpetua”95 fra l’aria, i venti, le
correnti oceaniche, l’altezza e la densità della copertura vegetale sul
terreno.
Il respiro era incomparabile con quello di qualsiasi altra
pubblicazione. E, sorprendentemente, Humboldt aveva scritto un libro
sull’universo che neppure una volta menzionava la parola “Dio”. Sì, la
natura di Humboldt era “animata da un respiro – da un polo all’altro
una vita scorre liberamente dentro le rocce, le piante, gli animali, e
anche nel petto rigonfio dell’uomo”96, ma quel respiro veniva dalla
terra stessa e non era infuso da un ente divino. Per quelli che lo
conoscevano non era una sorpresa, perché Humboldt non era mai
stato devoto, anzi l’opposto97. In tutta la sua vita, aveva messo in
evidenza le conseguenze nefaste del fanatismo religioso. Aveva
criticato i missionari in Sud America come la Chiesa in Prussia. Invece
che di Dio, Humboldt parlava di una “meravigliosa rete della vita
organica”98*99.

Il mondo era elettrizzato. “Se la repubblica delle lettere dovesse


modificare la sua costituzione”, scrisse un recensore di Cosmos, “e
scegliere un sovrano, lo scettro intellettuale sarebbe offerto ad
Alexander von Humboldt.”100 Nella storia dell’editoria, la popolarità
del libro era “epocale”101, annunciò l’editore tedesco di Humboldt.
Non aveva mai visto tanti ordini – neanche quando Goethe aveva
pubblicato il suo capolavoro, il Faust.
Gli studenti leggevano Cosmos, così come lo leggevano artisti,
scienziati e politici. Il principe von Metternich, cancelliere di Stato
austriaco, che aveva dissentito così apertamente da Humboldt
riguardo alle riforme e alle rivoluzioni, ora mise da parte la politica e
dichiarò entusiasticamente che solo Humboldt era capace di un’opera
così grande102. I poeti l’ammiravano, così come i musicisti, con il
compositore romantico francese, Hector Berlioz, che dichiarava
Humboldt uno scrittore “straordinario”103. Il libro era così popolare
fra i musicisti, disse Berlioz, che conosceva uno che aveva “letto,
riletto, ponderato e compreso”104 Cosmos durante le sue pause nelle
opere, mentre i colleghi continuavano a suonare.
In Inghilterra, il marito della regina Victoria, il principe Albert, ne
richiese una copia105, mentre Darwin si mostrava impaziente per la
traduzione inglese. A qualche settimana dalla pubblicazione del libro
in Germania e Francia, aveva cominciato a girare un’edizione pirata in
lingua inglese – tradotta in maniera così orribile che Humboldt
temeva potesse “danneggiare gravemente”106 la sua reputazione in
Gran Bretagna. Il suo “povero Cosmos”107 era stato massacrato ed era
illeggibile in quella versione.
Quando Hooker riuscì a procurarsi una copia del libro, la offerse a
Darwin. “Siete davvero sicuro di poter fare a meno di Cosmos?”,
scrisse Darwin a Hooker nel settembre 1845, “sono veramente
impaziente di leggerlo.”108 Meno di due settimane dopo l’aveva già
studiato, ma era la copia pirata. Darwin si disperava per il “pessimo
inglese”, ma ne fu tuttavia colpito, perché era “un’espressione esatta
dei suoi stessi pensieri”109 ed era desideroso di discutere Cosmos con
Hooker. Disse a Charles Lyell che era stupefatto del “vigore e
dell’informazione”110. Alcune parti erano un po’ deludenti, pensava
Darwin, perché sembravano ripetizioni della Personal Narrative, ma
altre erano “mirabili”111. Era anche lusingato del fatto che Humboldt
avesse menzionato il suo Voyage of the Beagle. Un anno dopo, quando
una traduzione autorizzata di Cosmos fu pubblicata da John Murray,
Darwin si precipitò a comprarla112.
Malgrado l’enorme successo, Humboldt rimaneva insicuro. Non
dimenticò mai una recensione negativa – e come un tempo, quando
era stata pubblicata la Personal Narrative, fu la conservatrice
Quarterly Review britannica a essere critica. Hooker disse a Darwin
che Humboldt era “furente per l’articolo della Quarterly Review”113
su Cosmos. Quando, due anni dopo, nel 1847, fu pubblicato il secondo
volume, Humboldt era così preoccupato per la sua accoglienza che
pregò l’editore di essere schietto con lui114. Non c’era motivo di
temere. La gente combatteva “vere e proprie battaglie”115 per
assicurarsi una copia, scrisse a Humboldt l’editore, e i suoi uffici erano
“totalmente saccheggiati”. Venivano offerte mazzette e furono
intercettate partite di libri destinate ai librai di San Pietroburgo e
Londra e dirottate dagli agenti nel deliberato tentativo di rifornire i
loro clienti disperati ad Amburgo e a Vienna.
Nel secondo volume, Humboldt conduceva i suoi lettori in un
viaggio della mente attraverso la storia umana, dalle civiltà antiche ai
tempi moderni. Nessuna pubblicazione scientifica aveva mai tentato
qualcosa di simile. Nessun scienziato aveva scritto sulla poesia, l’arte e
i giardini, sull’agricoltura e la politica, ma anche sui sentimenti e le
emozioni. Il secondo volume di Cosmos era una storia delle
“descrizioni poetiche della natura”116 e dei paesaggi dipinti attraverso
le epoche, dai greci e i persiani alla letteratura e all’arte moderne. Era
anche una storia della scienza, delle scoperte e delle esplorazioni, che
trattava ogni cosa da Alessandro il Grande al mondo arabo, da
Cristoforo Colombo a Isaac Newton.
Mentre il primo volume aveva preso in considerazione il mondo
esterno, il secondo si concentrava sul mondo interiore – sulle
impressioni che il mondo esteriore “produce sui sensi”117, come
spiegava Humboldt. In omaggio al vecchio amico Goethe, che era
morto nel 1832, e alla loro antica amicizia a Jena, quando il vecchio
poeta lo aveva attrezzato con “nuovi organi”118 tramite i quali
guardare il mondo naturale, in Cosmos Humboldt sottolineava
l’importanza dei sensi. L’occhio, scriveva Humboldt, era l’organo della
“Weltanschauung”, l’organo attraverso il quale vediamo il mondo, ma
attraverso il quale anche lo interpretiamo, lo comprendiamo e lo
definiamo119. In un’epoca in cui l’immaginazione era stata
decisamente esclusa dalle scienze, Humboldt sosteneva che non si
poteva comprendere la natura in nessun altro modo. Uno sguardo al
cielo, diceva Humboldt, era tutto quello che serviva: le stelle luminose
“allietano i sensi e ispirano il pensiero”120 e nel contempo si muovono
lungo un percorso di matematica precisione.
I primi due volumi di Cosmos si dimostrarono così popolari che nel
giro di quattro anni ne erano state pubblicate quattro edizioni inglesi
concorrenti. “In Inghilterra c’era un entusiasmo folle per Cosmos”121,
riferì Humboldt al suo editore tedesco, e si era scatenata una “guerra”
fra i diversi traduttori. Nel 1849, erano state vendute circa 40.000
copie in lingua inglese122, senza comprendere le altre migliaia che
erano state distribuite negli Stati Uniti*123.
Fino a questo momento, pochi americani avevano letto le opere
precedenti di Humboldt, ma Cosmos cambiò le cose, facendone un
nome familiare in tutto il continente nordamericano. Ralph Waldo
Emerson fu uno dei primi ad averne una copia. “Il meraviglioso
Humboldt”124, scrisse nel suo diario, “con il suo grande centro e le ali
dispiegate, avanza come un esercito, raccogliendo tutte le cose che
incontra al suo passaggio”. Nessuno, disse Emerson, ne sapeva più di
Humboldt sulla natura. Un altro scrittore americano che amava
l’opera di Humboldt era Edgar Allan Poe, la cui ultima grande opera –
il poema in prosa Eureka, lungo 130 pagine, pubblicato nel 1848 – era
dedicata a Humboldt ed era una risposta diretta a Cosmos125. Eureka
era il tentativo di Poe di indagare l’universo – comprese tutte le cose
“spirituali e materiali”126 – riecheggiando l’impostazione di
Humboldt di includere il mondo esterno e quello interiore. L’universo,
scrisse Poe, era “il più sublime dei poemi”127. Con la stessa
ispirazione, Walt Whitman scrisse la sua celebre raccolta di poesie,
Leaves of Grass, con una copia di Cosmos sul tavolo128. Whitman
compose anche una poesia intitolata “Kosmos” e nella sua famosa
“Song of Myself” proclamò se stesso “un cosmo”129.
Il Cosmos di Humboldt foggiò due generazioni di scienziati, artisti,
scrittori e poeti americani – e, forse la cosa più importante di tutte, fu
anche responsabile della maturazione di uno dei più influenti scrittori
della natura in America, Henry David Thoreau.
1. AH a Varnhagen, 27 ottobre 1834, AH Varnhagen Lettere 1860, p. 15.
2. AH a Varnhagen, 24 ottobre 1834, ivi, p. 19.
3. AH a Johann Georg von Cotta, 28 febbraio 1838, AH Cotta Lettere 2009, p. 204.
4. AH a Friedrich Wilhelm Bessel, 14 luglio 1833, AH Bessel Lettere 1994, p. 82.
5. AH a Varnhagen, 24 ottobre 1834, AH Varnhagen Lettere 1860, p. 18; greco antico: AH
Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 56; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, pp. 61-2.
6. per esempio Hooker a AH, 4 dicembre 1847 e Robert Brown a AH, 12 agosto 1834, AH, gr.
Kasten 12, busta “Geographie der Pflanzen”; elenco della piante polinesiane di Jules Dumont
d’Urville: AH, gr. Kasten 13, n. 27, Stabi Berlin NL AH; AH a Friedrich Wilhelm Bessel, 20
dicembre 1828 e 14 luglio 1833, AH Bessel Lettere 1994, pp. 50-54, 84; AH a P. G. Lejeune
Dirichlet, dopo maggio 1851, AH Dirichlet Lettere 1982, p. 93; AH a August Böckh, 14 maggio
1849, AH Böckh Lettere 2011, p. 189; Werner 2004, p. 159.
7. Kark Gützlaff a AH, n.d., AH, kl. Kasten 3b, n. 112; per le specie di palme in Nepal, Robert
Brown a AH, 12 agosto 1834, AH, gr. Kasten 12, n. 103, Stabi Berlin NL AH.
8. AH a Karl Zell, 21 maggio 1836, Schwarz 2000, senza numeri di pagina.
9. Herman Abich su Humboldt, 1853, Beck 1959, p. 346; per il romanziere di Algeri, vedi
Laube 1875, p. 334.
10. AH a Johann Georg von Cotta, 28 febbraio 1838; vedi anche 18 settembre 1843, AH Cotta
Lettere 2009, pp. 204, 249.
11. AH a Gauß, 23 marzo 1847, AH Gauß Lettere 1977, p. 98.
12. AH, gr. Kasten 11, Stabi Berlin NL AH.
13. AH a Johann Georg von Cotta, 16 aprile 1852, AH Cotta Lettere 2009, p. 482; AH a
Alexander Mendelssohn, 24 dicembre 1853, AH Mendelssohn Lettere 2011, p. 253.
14. AH, gr. Kasten 12, n. 96, Stabi Berlin NL AH.
15. AH, gr. Kasten 8, busta comprendente n. 6-11a, Stabi Berlin NL AH.
16. AH, gr. Kasten 12, n. 124, Stabi Berlin NL AH.
17. AH, gr. Kasten 12, n. 112, Stabi Berlin NL AH.
18. AH, gr. Kasten 12, busta comprendente n. 32-47 Stabi Berlin NL AH.
19. AH, gr. Kasten 8, n. 124-168, Stabi Berlin NL AH.
20. AH, kl. Kasten 3b, n. 121, Stabi Berlin NL AH.
21. AH, kl. Kasten 3b, n. 125, Stabi Berlin NL AH.
22. Friedrich Adolf Trendelenburg, Frankfurt, maggio 1832, Beck 1959, p. 128.
23. AH a Heinrich Christian Schumacher, 10 novembre 1846, AH Schumacher Lettere 1979, p.
85.
24. AH a WH, 14 luglio 1829, AH Lettere Russia 2009, p. 146.
25. Adolf Bernhard Marx su Humboldt, Beck 1969, p. 253.
26. Ibid.
27. Sir Charles Hallé, anni 1840, Hallé 1896, p. 100.
28. Ludwig Börne, 12 ottobre 1830, Clark e Lubrich 2012, p. 82.
29. Honoré Balzac, Administrative Adventures of a Wonderful Idea, 1834, Clark e Lubrich
2012, p. 89.
30. Sir Charles Hallé, 1840s, Hallé 1896, p. 100.
31. Robert Avé-Lallemant, 1833; Ernst Kossak su AH, dicembre 1834, Beck 1959, pp. 134, 141;
Emil du Bois-Reymond, 3 agosto 1883, AH du Bois-Reymond Lettere 1997, p. 201; Franz
Lieber, 14 settembre 1869, AH Lettere USA 2004, p. 581.
32. Biermann e Schwarz 1999a, p. 188.
33. AH a Varnhagen, 24 aprile 1837, AH Varnhagen Lettere 1860, p. 27.
34. Geier 2010, pp. 298 sgg.
35. AH a Varnhagen, 5 aprile 1835, AH Varnhagen Lettere 1860, p. 21.
36. AH a Jean Antoine Letronne, 18 aprile 1835, Bruhns 1873, vol. 2, p. 183.
37. AH a Gide, 10 aprile 1835, ivi.
38. AH a Bunsen, 24 maggio 1836, AH Bunsen Lettere 2006, pp. 35-6.
39. AH a Johann Georg von Cotta, 25 dicembre 1844, AH Cotta Lettere 2009, p. 269; AH a
Bunsen, 3 ottobre 1847, AH Bunsen Lettere 2006, p. 103 e AH a Caroline von Wolzogen, 12
giugno 1835, Biermann 1987, p. 206.
40. AH a Heinrich Christian Schumacher, 2 marzo 1836, AH Schumacher Lettere 1979, p. 52.
41. Carl Vogt, gennaio 1845, Beck 1959, p. 206.
42. AH a Heinrich Christian Schumacher, 2 marzo 1836, AH Schumacher Lettere 1979, p. 52.
43. AH a Johann Georg von Cotta, 22 giugno 1833, AH Cotta Lettere 2009, p. 180.
44. Engelmann 1969, p. 11.
45. AH a Johann Georg von Cotta, 11 gennaio 1835, AH Cotta Lettere 2009, p. 186.
46. AH a P. G. Lejeune Dirichlet, 28 febbraio 1844, AH Dirichlet Lettere 1982, p. 67.
47. Federico Guglielmo IV a AH, 1 dicembre 1840, AH Federico Guglielmo IV Lettere 2013, p.
181.
48. Friedrich Daniel Bassermann su AH, 14 novembre 1848, Beck 1969, p. 265.
49. AH a Federico Guglielmo IV, 9 novembre 1839, 29 settembre 1840, 5 ottobre 1840,
dicembre 1840, 23 marzo 1841, 15 giugno 1842, maggio 1844, 1849, anche le note 4, 5, 12, AH
Federico Guglielmo IV Lettere 2013, pp. 145, 147, 174, 175, 182, 202, 231, 277, 405, 532, 533,
536.
50. AH a Gauß, 3 luglio 1842, AH Gauß Lettere 1977, p. 85.
51. AH a Varnhagen, 6 settembre 1844; vedi anche Varnhagen Diary, 18 marzo 1843 e 1 aprile
1844, AH Varnhagen Letters 1860, pp. 97, 106-7, 130.
52. AH a Johann Georg von Cotta, 9 marzo 1844, AH Cotta Lettere 2009, p. 256.
53. AH a Johann Georg von Cotta, 5 febbraio 1849, ivi, p. 349.
54. AH a Johann Georg von Cotta, 28 febbraio 1838, ivi, p. 204.
55. AH a Johann Georg von Cotta, 15 marzo 1841, ivi, p. 238.
56. AH a Johann Georg von Cotta, 28 febbraio 1838, ivi, p. 204.
57. Ibid.
58. AH a Johann Georg von Cotta, 18 settembre 1843, ivi, p. 248; l’osservatorio era stato
costruito da Karl Friedrich Schinkel nel 1835.
59. AH a John Herschel, 1842, Théodoridès 1966, p. 50.
60. Darwin 1958, p. 107.
61. Roderick Murchison a Francis Egerton, 25 gennaio 1842, Murchison 1875, vol. 1, p. 360.
62. Emma Darwin a Jessie de Sismondi, 8 febbraio 1842, Litchfield 1915, vol. 2, p. 67.
63. AH Geography 2009, p. 69; AH Geographie 1807, p. 15; vedi anche pp. 9, 91.
64. I fratelli Schlagintweit a proposito di AH, maggio 1849, Beck 1959, p. 262.
65. Descrizione basata sul resoconto di Heinrich Laube, Laube 1875, pp. 330-33.
66. Emma Darwin a Jessie de Sismondi, 8 febbraio 1842, Litchfield 1915, vol. 2, p. 67.
67. Darwin a Joseph Hooker, 10 febbraio 1845, Darwin Correspondence, vol. 3, p. 140.
68. Darwin 1958, p. 107.
69. Darwin a Joseph Hooker, 10-11 novembre 1844, Darwin Correspondence, vol. 3, p. 79.
70. Darwin, Note, 29 gennaio 1842, CUL DAR 100.167.
71. Darwin a Robert FitzRoy, 1 ottobre 1846, Darwin Correspondence, vol. 3, p. 345.
72. Thomson 2009, pp. 219-20.
73. Darwin’s Notes on Marriage, second note, luglio 1838, Darwin Correspondence, vol. 2, pp.
444-5.
74. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 23; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 23 (traduzione mia:
l’“abgeschlossene Art” di Humboldt è diventato “isolated species” nell’edizione inglese ma si
dovrebbe tradurre “fixed” – in quanto opposto a “mutable”).
75. AH Cosmos 1845-52, vol. 3, Notes, p. 14, iii; vedi anche vol. 1, p. 34; AH Kosmos 1845-50,
vol. 3, pp. 14, 28, vol. 1, p. 33.
76. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 22; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 22 (traduzione mia: il
“periodischen Wechsel” di Humboldt è diventato “transformations” nell’edizione inglese ma
“cyclical change” è una traduzione migliore). Sulle transizioni e sul rinnovamento costante,
vedi AH Cosmos 1845-52, vol. 1, pp. 22, 34; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, pp. 22, 33.
77. Discorso di Emil du Bois-Reymond all’Università di Berlino, 3 agosto 1883, AH du Bois-
Reymond Lettere 1997, p. 195; vedi anche Wilhelm Bölsche a Ernst Haeckel, 4 luglio 1913,
Haeckel Bölsche Lettere 2002, p. 253.
78. (nota a piè di pagina) Alfred Russel Wallace a Henry Walter Bates, 28 dicembre 1845,
Wallace Lettere online.
79. Darwin a Joseph Hooker, 10 febbraio 1845, Darwin Correspondence, vol. 3, p. 140.
80. Hooker 1918, vol. 1, p. 179.
81. Joseph Hooker a Maria Sarah Hooker, 2 febbraio 1845, ivi, p. 180.
82. AH a Friedrich Althaus, 4 settembre 1848, AH Althaus Briefwechsel 1861, p. 8; per i
cambiamenti di AH con l’età, vedi anche “A Visit to Humboldt by a correspondent of the
Commercial Advertiser”, 30 dicembre 1849, AH Lettere USA 2004, pp. 539-40.
83. Joseph Hooker a W.H. Harvey, 27 febbraio 1845, Hooker 1918, vol. 1, p. 185.
84. Joseph Hooker a Darwin, fine febbraio 1845, Darwin Correspondence, vol. 3, p. 148.
85. Ibid.
86. Joseph Hooker a Darwin, fine febbraio 1845, ivi, p. 149.
87. Fiedler e Leitner 2000, p. 390; Biermann e Schwarz 1999b, p. 205; Johann Georg von
Cotta a AH, 14 giugno 1845, AH Cotta Lettere 2009, p. 283.
88. AH a Federico Guglielmo IV, 16 settembre 1847, AH Federico Guglielmo IV Lettere 2013,
p. 366; per le traduzioni vedi Fiedler e Leitner 2000, pp. 382 sgg.
89. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 182; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 200.
90. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 21; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 21 (traduzione mia: “das
Gefühl erkälten, die schaffende Bildkraft der Phantasie ertödten”; la traduzione inglese del
1845 English traduce: “to chill the feelings, and to diminish the nobler enjoyment attendant
on the contemplation of nature”).
91. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 21; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 21 (traduzione mia: “in
dem ewigen Treiben und Wirken der lebendigen Kräfte”; l’edizione inglese traduce: “in the
midst of universal fluctuation of forces”).
92. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 5; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 5 (traduzione mia: “ein
lebendiges Ganzes”; l’edizione inglese traduce: “one fair harmonious whole” ma dovrebbe
essere “living whole” o “animated whole”).
93. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 34; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 33 (traduzione mia;
questa frase cruciale, “Eine allgemeine Verkettung nicht in einfacher linearer Richtung,
sondern in netzartig verschlungenem Gewebe”, non c’è nell’edizione inglese).
94. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 34; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 32.
95. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 279; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 304 (traduzione mia:
“perpetuierlichen Zusammenwirken”; l’edizione inglese traduce: “double influence”).
96. AH a Caroline von Wolzogen, 14 maggio 1806, Goethe AH WH Lettere 1876, p. 407.
97. WH a CH, 23 maggio 1817, WH CH Lettere 1910-16, vol. 5, p. 315; per la critica dei
missionari, vedi AH Lateinamerika 1982, pp. 329 sgg.; e della Chiesa prussiana, vedi Werner
2000, p. 34.
98. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 21; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 21 (traduzione mia: “in
dem wundervollen Gewebe des Organismus”; l’edizione inglese traduce: “the vedimingly
inextricable network of organic life”).
99. (nota a piè di pagina) Werner 2000, p. 34.
100. North British Review, 1845, AH Cotta Lettere 2009, p. 290.
101. Johann Georg von Cotta a AH, 3 dicembre 1847; vedi anche 5 febbraio 1846, ivi, pp. 292,
329.
102. Klemens von Metternich a AH, 21 giugno 1845, AH Varnhagen Lettere 1860, p. 138.
103. Berlioz 1878, p. 126.
104. Berlioz 1854, p. 1.
105. Principe Albert a AH, 7 febbraio 1847, AH Varnhagen Letters 1860, p. 181; Darwin a
Hooker, 11 e 12 luglio 1845, Darwin Correspondence, vol. 3, p. 217.
106. AH a Bunsen, 18 luglio 1845, AH Bunsen Lettere 2006, pp. 76-7.
107. Ibid.
108. Darwin a Hooker, 3 settembre 1845, Darwin Correspondence, vol. 3, p. 249.
109. Darwin a Hooker, 18 settembre 1845; Darwin a Hooker, 8 ottobre 1845, ivi, pp. 255, 257.
110. Darwin a Charles Lyell, 8 ottobre 1845, ivi, p. 259.
111. Darwin a Hooker, 28 ottobre 1845, ivi, p. 261.
112. Darwin a Hooker, 2 ottobre 1846, ivi, p. 346.
113. Hooker a Darwin, 25 marzo 1854, ivi, vol. 5, p. 184; vedi anche AH a Johann Georg von
Cotta, 20 marzo 1848, AH Cotta Lettere 2009, p. 292.
114. AH a Johann Georg von Cotta, 28 novembre 1847, AH Cotta Lettere 2009, p. 327.
115. Johann Georg von Cotta a AH, 3 dicembre 1847, ivi, p. 329.
116. AH Cosmos 1845-52, vol. 2, p. 3; AH Kosmos 1845-50, vol. 2, p. 3.
117. AH Cosmos 1845-52, vol. 2, p. 3; AH Kosmos 1845-50, vol. 2, p. 3.
118. AH a Caroline von Wolzogen, 14 maggio 1806, Goethe AH WH Lettere 1876, p. 407.
119. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 73; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 86.
120. AH a Varnhagen, 28 aprile 1841, AH Varnhagen Lettere 1860, p. 70.
121. AH a Johann Georg von Cotta, 16 marzo 1849, AH Cotta Lettere 2009, p. 359.
122. AH a Johann Georg von Cotta, 7 aprile 1849, ivi, p. 368.
123. AH a Johann Georg von Cotta, 13 aprile 1849, ivi, p. 371.
124. Ralph Waldo Emerson, Journal, 1845, Emerson 1960-92, vol. 9, p. 270; vedi anche Ralph
Waldo Emerson a John F. Heath, 4 agosto 1842, Emerson 1939, vol. 3, p. 77; Walls 2009, pp.
251-6.
125. lls 2009, pp. 256-60; Sachs 2006, pp. 109-11; Clark e Lubrich 2012, pp. 19-20
126. Eureka di Edgar Allan Poe, Poe 1848, p. 8.
127. Ivi, p. 130.
128. Whitman 1860, pp. 414-15; per Whitman e Cosmos, vedi AH Lettere USA 2004, p. 61;
Walls 2009, pp. 279-83; Clark e Lubrich 2012, p. 20.
129. La parola “kosmos” è l’unica che non è cambiata nelle diverse versioni della famosa auto-
presentazione di Whitman. Cominciò con “Walt Whitman, un americano, uno scontroso, un
kosmos” nella prima edizione e divenne “Walt Whitman, un kosmos, figlio di Manhattan”
nell’ultima.
*. L’inglese William Whewell, uomo dalla cultura poliedrica, coniò il termine “scienziato” nella
sua recensione del libro di Mary Somerville, On the Connexion of the Physical Sciences,
pubblicato sulla “Quarterly Review” nel 1834.
*. Nel settembre del 1842, Charles ed Emma Darwin si trasferirono a Down House nel Kent.
*. Humboldt non ebbe mai la possibilità di leggere l’Origin of Species perché morì prima della
sua pubblicazione nel novembre del 1859. Ma ebbe modo di commentare un altro libro – le
Vestiges of the Natural History of Creation (1844) di Robert Chambers – pubblicato
anonimo. Non sostenuto da prove scientifiche come l’Origin of Species di Darwin, nondimeno
le Vestiges contenevano affermazioni altrettanto incendiarie sull’evoluzione e la
trasmutazione delle specie. Humboldt, si diceva nei circoli scientifici della Gran Bretagna alla
fine del 1845, “ne difende le teorie fin quasi nei particolari”.
*. Scandalizzata da quello che riteneva essere un libro blasfemo, in seguito alla pubblicazione
di Cosmos, una Chiesa tedesca denunciò Humboldt sul proprio giornale per aver fatto “un
patto con il diavolo”.
*. Humboldt non ricavò alcun guadagno da queste traduzioni, perché non c’era una
legislazione sul diritto d’autore. Solo dopo il 1849, quando furono introdotte nuove leggi,
Humboldt poté ricavare un po’ di soldi dai volumi pubblicati dopo quella data.
Capitolo diciannovesimo

Poesia, scienza e natura

Henry David Thoreau e Humboldt

Nel settembre 1847, Henry David Thoreau lasciò la sua capanna a


Walden Pond per tornare a casa nella vicina città di Concord,
Massachusetts. Thoreau aveva trent’anni e nei precedenti due anni,
due mesi e due giorni aveva vissuto in una piccola capanna nei boschi.
Lo aveva fatto, diceva, perché “desiderava vivere in maniera
deliberata, affrontando solo i fatti essenziali della vita”1.
Thoreau aveva costruito con le sue mani la capanna di assicelle2.
Poco più di tre metri per quattro e mezzo, la piccola costruzione aveva
una finestra su ogni lato e un camino con una piccola stufa per
riscaldare l’ambiente. Aveva un letto, un tavolino di legno e tre sedie.
Quando se ne stava seduto sul gradino davanti alla porta, poteva
vedere la superficie leggermente increspata del lago luccicare al sole.
Lo specchio d’acqua era l’“occhio della terra”, diceva Thoreau, che
quando ghiacciava, d’inverno, “chiude le palpebre”3. Tutto intorno
correva un sentiero lungo circa tre chilometri. L’argine scosceso era
coronato da grandi pini bianchi con i loro verdeggianti ciuffi di aghi,
nonché da noci americani e querce – simili a “ciglia sottili che lo
contornano”4. In primavera, fiori delicati tappezzavano il terreno della
foresta e a maggio i mirtilli mettevano in mostra i loro fiori penzolanti
a forma di campana. Le asteracee portavano all’estate i loro gialli
brillanti e i sommacchi aggiungevano i loro rossi all’autunno5.
D’inverno, quando la neve attutiva i rumori, Thoreau seguiva le orme
dei conigli e degli uccelli. In autunno, calpestava i mucchi di foglie
cadute per fare quanto più rumore possibile mentre cantava a gola
spiegata nella foresta6. Osservava, ascoltava e camminava. Vagava per
la dolce campagna intorno a Walden Pond e diventava uno scopritore,
dando un nome ai luoghi come fa un esploratore: Monte della Miseria,
Viale dei Tordi, Roccia dell’Airone azzurro e così via7.

La capanna di Thoreau a Walden Pond

Thoreau avrebbe trasformato questi due anni nella sua capanna in


uno dei più famosi pezzi della letteratura americana sulla natura:
Walden, pubblicato nel 1854, circa sette anni dopo il ritorno a
Concord. Thoreau trovò difficoltà a scrivere il libro e questo divenne
Walden quale oggi lo conosciamo solo quando scoprì un nuovo mondo
nel Cosmos di Humboldt. La visione della natura di Humboldt dette a
Thoreau la fiducia per intrecciare scienza e poesia. “I fatti raccolti da
un poeta sono infine considerati come i germi alati della verità”8,
scrisse Thoreau in seguito. Walden era la risposta di Thoreau a
Cosmos.
Thoreau era nato nel luglio 1817. Il padre era un commerciante e
fabbricante di matite, ma faticava a campare. La casa era a Concord,
una cittadina molto animata di circa 2.000 abitanti, a ventiquattro
chilometri a est di Boston. Thoreau era stato un ragazzo schivo, che
preferiva stare solo. Quando i compagni facevano giochi chiassosi, se
ne stava da parte con gli occhi al suolo, sempre alla ricerca di una
foglia o di un insetto9. Non era amato, perché non partecipava mai e
loro lo chiamavano il “bravo scolaro con il nasone”10. Arrampicandosi
sugli alberi come uno scoiattolo11, si sentiva più a suo agio all’aperto.
A sedici anni, Thoreau si iscrisse all’università di Harvard, poco più
di sedici chilometri a sud-est di Concord12. Qui studiò greco, latino e
lingue moderne, compreso il tedesco, e frequentò corsi di matematica,
storia e filosofia. Utilizzava intensamente la biblioteca e apprezzava in
particolare i resoconti di viaggio, sognando di recarsi in paesi lontani.
Dopo la laurea, nel 1837, Thoreau tornò a Concord, dove lavorò per
breve tempo come insegnante nonché aiutando occasionalmente il
padre nell’attività familiare di fabbricazione di matite. Fu a Concord
che Thoreau incontrò lo scrittore e poeta Ralph Waldo Emerson, che vi
si era trasferito tre anni prima. Più vecchio di quattordici anni,
Emerson incoraggiò Thoreau a scrivere, anche aprendogli la sua ben
fornita biblioteca*13. Fu sul terreno di Emerson a Walden Pond che
Thoreau costruì la sua piccola capanna. A quel tempo, Thoreau era
addolorato per l’unico fratello, John, che era morto fra le sue braccia
in seguito a un’infezione di tetano. Thoreau era rimasto così
traumatizzato dalla morte improvvisa di John che era arrivato a
sviluppare una forma “simpatetica” della malattia, avvertendo sintomi
simili come trisma e crampi muscolari14. Si sentiva come “una foglia
appassita”15 – infelice, inutile e così triste e solo che un amico gli
aveva consigliato: “costruisciti una capanna e lì comincia il grande
processo di divorarti vivo. Non vedo altra alternativa, né un’altra
speranza per te”16.
La natura aiutò Thoreau. Un fiore che sbiadisce non era un motivo
per rattristarsi, disse a Emerson, come non lo erano gli spessi strati di
foglie autunnali che marciscono ai piedi della foresta, perché l’anno
successivo ogni cosa sarebbe rinata alla vita. La morte era parte del
ciclo della natura e quindi un segno della sua salute e del suo vigore17.
“Non ci può essere una melanconia veramente nera per chi vive in
mezzo alla natura”18, disse Thoreau quando tentò di dare un senso al
mondo intorno a lui e dentro di lui stando nella natura.
L’America che Thoreau riconosceva come la sua patria era cambiata
molto da quando Humboldt aveva incontrato Thomas Jefferson a
Washington, nell’estate del 1804. Negli anni trascorsi, Meriwether
Lewis e William Clark avevano attraversato il continente da St. Louis
alla costa del Pacifico ed erano tornati dalla loro spedizione
raccontando di terre vaste e ricche che facevano intravvedere
prospettive allettanti per la nazione che si stava espandendo. Quattro
decenni dopo, nel 1846, gli Stati Uniti ottennero la gran parte del
Territorio dell’Oregon dagli inglesi, compresi gli attuali Stati di
Washington, Oregon e Idaho nonché parti del Montana e del
Wyoming. All’epoca, il paese era impegolato in una guerra con il
Messico dopo l’annessione del Texas schiavista. Quando la guerra si
concluse con una schiacciante vittoria degli Stati Uniti, proprio nel
momento in cui Thoreau aveva abbandonato la sua capanna, il
Messico cedette un vasto territorio che comprendeva i futuri Stati della
California, del Nevada, del Nuovo Messico, dell’Utah e della maggior
parte dell’Arizona nonché parti del Wyoming, dell’Oklahoma, del
Kansas e del Colorado. Sotto il presidente James K. Polk, fra il 1845 e
il 1848 il paese si era esteso per oltre un milione e seicento chilometri
quadrati, aumentando di un terzo ed estendendosi per la prima volta
attraverso tutto il continente. L’oro fu trovato per la prima volta in
California nel gennaio 1848 e l’anno seguente 40.000 persone si
misero in moto per fare fortuna a ovest.
Concord, Massachusetts

Nel frattempo, l’America era progredita tecnologicamente. Nel 1825


era stato completato il Canale dell’Erie e cinque anni dopo era stata
aperta la prima tratta della Baltimore and Ohio Railroad. Nell’aprile
del 1838, il Great Western, la prima nave a vapore transatlantica
arrivò a New York dall’Inghilterra e durante l’inverno 1847, quando
Thoreau tornò a Concord, per la prima volta il Campidoglio a
Washington fu illuminato a gas.
Boston era ancora un porto importante e la città natale di Thoreau,
Concord, appena a est, cresceva di pari passo. Concord aveva un
cotonificio, una manifattura di scarpe e una di tubature in piombo
nonché varie banche e magazzini all’ingrosso19. Ogni settimana
quaranta diligenze attraversavano la città, che era anche la sede del
governo della contea. Vagoni carichi di merci provenienti da Boston
andavano lungo Main Street verso i mercati del New Hampshire e del
Vermont.
Da tempo l’agricoltura aveva trasformato i terreni incolti in campi
aperti, pascoli e prati. Era impossibile camminare nei boschi di
Concord, osservò Thoreau nel suo diario, senza sentire rumori
d’ascia20. Il paesaggio del New England era cambiato così
radicalmente nei due secoli precedenti che pochi dei vecchi alberi
erano sopravvissuti. La foresta era stata cancellata, in primo luogo, per
far posto all’agricoltura e produrre combustibile e poi era stata
divorata dalle locomotive con l’avvento delle ferrovie. A Concord la
ferrovia era arrivata nel 184421, con i binari che rasentavano il bordo
orientale del Walden Pond, dove Thoreau aveva spesso camminato
costeggiandoli. La natura selvaggia stava indietreggiando e gli esseri
umani ne erano sempre più lontani.

La vita a Walden Pond si addiceva a Thoreau, perché qui poteva


perdersi nella lettura di un libro o stare a guardare un fiore per ore
senza accorgersi di quanto accadeva intorno a lui. Aveva lungamente
decantato i piaceri di una vita semplice. “Semplificare,
semplificare”22, avrebbe scritto più tardi in Walden. Essere un
filosofo, diceva, è vivere “una vita di semplicità”23. Era contento della
sua vita e non si curava di piacevolezze, di donne o di soldi. Il suo
aspetto rispecchiava questo atteggiamento. I vestiti non erano della
misura giusta, i calzoni troppo corti e le scarpe non lucidate. Thoreau
aveva una carnagione rossastra, un grande naso, una barba
disordinata e occhi azzurri espressivi24. Un amico disse che “imita con
successo i porcospini”25 e altri lo descrivevano come irascibile e
“combattivo”26. Alcuni dicevano che Thoreau aveva “modi cortesi”27
– sebbene un po’ “rozzi e talora rustici” – mentre molti lo
consideravano ospitale e divertente28. Ma anche il suo amico e vicino
a Concord, lo scrittore Nathaniel Hawthorne descriveva Thoreau come
“una persona insopportabilmente noiosa”29, che gli faceva provare
vergogna perché aveva i soldi o una casa o scriveva un libro che le
persone avrebbero letto. Certamente, Thoreau era un eccentrico30, ma
anche rinfrescante, “come l’acqua ghiacciata sotto la canicola per i
cittadini assetati”31, disse un altro amico.
Henry David Thoreau

Tutti convenivano che Thoreau era uno che si trovava più a suo agio
con la natura e con le parole che con le persone. Faceva eccezione la
sua gioia per la compagnia dei bambini. Il figlio di Emerson, Edward,
ricordava con affetto come Thoreau avesse sempre tempo per loro,
raccontando storie su di un “duello” fra due tartarughe del fango nel
fiume32 o facendo scomparire e ricomparire magicamente le matite.
Quando i bambini del villaggio andavano a trovarlo nella sua capanna
di Walden Pond, Thoreau li portava a fare lunghe passeggiate nei
boschi. Quando faceva strani fischi, uno ad uno comparivano gli
animali – la marmotta faceva capolino dal sottobosco, gli scoiattoli
correvano verso di lui e gli uccelli si posano sulle sue spalle.
La natura, diceva Hawthorne, “sembra adottarlo come un figlio
speciale”33, perché gli animali e le piante comunicavano con lui. C’era
un legame che nessuno sapeva spiegare. I topi gli correvano sulle
braccia, le cornacchie si appollaiavano su di lui, i serpenti gli si
attorcigliavano intorno alle gambe e trovava sempre i primi fiori,
anche i più nascosti, che spuntavano a primavera. La natura gli
parlava, e Thoreau parlava alla natura. Quando piantava un campo di
fagioli, chiedeva, “Cosa imparerò dei fagioli o i fagioli impareranno di
me?”. La gioia della sua vita quotidiana era “come aver afferrato un po’
di polvere di stelle”34, diceva, o il “segmento di un arcobaleno”.
Nel periodo trascorso a Walden Pond, Thoreau osservò la natura da
vicino. La mattina faceva il bagno e poi si sedeva al sole. Faceva
passeggiate nei boschi o si accucciava tranquillo in una radura,
aspettando che gli animali sfilassero davanti a lui35. Osservava il
tempo e si definiva un “ispettore autonominato delle tempeste di neve
e degli acquazzoni”36. D’estate tirava fuori la barca e suonava il flauto
mentre andava alla deriva sull’acqua e d’inverno si stendeva sulla
superficie gelata del lago, premendo la faccia contro il ghiaccio per
studiare il fondo “come un’immagine dietro un vetro”37. Di notte
ascoltava i rami degli alberi che sfregavano contro il tetto di assi della
capanna e, al mattino, gli uccelli che gli facevano la serenata. Era una
“ninfa del bosco”, come disse un amico, “uno spirito silvano”38.
Per quanto gli piacesse la solitudine, Thoreau non viveva nella
capanna come un eremita. Spesso andava al villaggio per pranzare con
la famiglia nella casa dei genitori o con gli Emerson39. Dava lezioni al
liceo di Concord e riceveva visite a Walden Pond. Nell’agosto 1846, la
società antischiavista di Concord tenne la sua assemblea annuale sui
gradini davanti alla porta della capanna di Thoreau e lui partì per
un’escursione nel Maine. Inoltre, scriveva. Nei due anni trascorsi a
Walden Pond, Thoreau riempì due spessi taccuini40, uno con i suoi
esperimenti nel bosco (gli appunti che sarebbero diventati la prima
versione di Walden) e un altro contenente un abbozzo di A Week on
the Concord and Merrimack River, un libro sul viaggio in battello che
aveva fatto con il tanto compianto fratello qualche anno prima.
Quando lasciò la capanna e tornò a Concord, tentò più volte, senza
successo, di trovare un editore per A Week. Nessuno era interessato a
un manoscritto che in parte era una descrizione della natura e in parte
un’autobiografia. Alla fine, un editore accettò di pubblicarlo e
distribuirlo a spese di Thoreau. Fu un sonoro fallimento commerciale.
Nessuno voleva comprare il libro e molte delle recensioni erano feroci,
con una, per esempio, che accusava Thoreau di aver copiato
malamente Emerson. Solo in pochi espressero ammirazione,
definendolo come un libro “prettamente americano”41.
L’impresa lasciò Thoreau con diverse centinaia di dollari di debito e
con molte copie invendute di A Week. Possedeva ora una biblioteca di
900 libri, scherzava, “dei quali più di settecento li ho scritti io
stesso”42. Il fallimento della pubblicazione provocò anche frizioni fra
Thoreau ed Emerson. Thoreau si sentiva tradito dal suo vecchio
mentore, che aveva elogiato A Week per quanto non gli piacesse.
“Finché il mio amico era mio amico, mi lusingava e da lui non ho mai
ascoltato la verità, ma quando è diventato mio nemico me l’ha lanciata
addosso con una freccia avvelenata”43, Thoreau scrisse nel suo diario.
Non giovò alla loro amicizia, probabilmente, anche il fatto che
Thoreau si era preso una cotta per la moglie di Emerson, Lydian44.
Oggi Thoreau è uno degli scrittori americani più letti e amati –
finché era vivo, tuttavia, gli amici e la famiglia si preoccupavano per la
sua mancanza di ambizione. Emerson lo definiva “l’unico uomo che
faceva la bella vita”45 a Concord e che era “fuori luogo qui in città”46,
mentre la zia di Thoreau riteneva che il nipote avrebbe dovuto fare
qualcosa di meglio che “andare di tanto in tanto a passeggiare”47.
Thoreau non si curò mai granché di ciò che gli altri pensavano.
Lottava, invece, con il manoscritto di Walden, incontrando difficoltà a
finirlo. “Di che cosa parlano questi pini e questi uccelli? Che fa questo
piccolo lago?”, scrisse nel suo diario, concludendo “devo saperne un
po’ di più.”48
Thoreau stava ancora tentando di dare un senso alla natura.
Continuava a camminare per le campagne, dritto come un pino, come
dicevano gli amici, e a grandi passi. Cominciò anche a lavorare come
agrimensore, ricavandone una piccola entrata, potendo passare ancora
più tempo all’aria aperta. Contando i passi, diceva Emerson, Thoreau
riusciva a misurare le distanze meglio di qualunque altro
agrimensore49 con i suoi strumenti, la pertica e la chain*. Raccoglieva
esemplari per i botanici e gli zoologi dell’università di Harvard.
Misurava la profondità dei corsi d’acqua e dei laghi, prendeva le
temperature e pressava le piante. A primavera, Thoreau registrava
l’arrivo degli uccelli e d’inverno contava le bolle ghiacciate che
venivano imprigionate nella crosta gelata del lago50. Invece di
“rivolgersi a qualche studioso”51, spesso percorreva a piedi parecchi
chilometri nel bosco per i suoi “appuntamenti” con le piante. Thoreau
cercava a tentoni di capire ciò che questi pini e questi uccelli
veramente significavano.
Thoreau, come Emerson, era alla ricerca dell’unità della natura, ma
alla fine avrebbero scelto strade diverse. Thoreau avrebbe seguito
Humboldt nella sua convinzione che l’“insieme” potesse essere
compreso solo intendendo le connessioni, le correlazioni e i dettagli.
Emerson, all’opposto, riteneva che non si potesse scoprire questa unità
soltanto attraverso il pensiero razionale, ma anche con l’intuizione o
attraverso una qualche rivelazione da parte di Dio. Come i romantici in
Inghilterra, quale Samuel Taylor Coleridge, e gli idealisti tedeschi,
quale Friedrich Schelling, Emerson e i suoi compagni trascendentalisti
in America reagivano contro i metodi scientifici che erano associati
con il ragionamento deduttivo e la ricerca empirica52. Analizzare la
natura in tal modo, diceva Emerson, tendeva a “offuscare la vista”53.
L’uomo, invece, doveva trovare nella natura la verità spirituale. Gli
scienziati erano solo materialisti, il cui “spirito è materia ridotta a
un’estrema rarefazione”54, scrisse.
I trascendentalisti erano stati ispirati dal filosofo tedesco Immanuel
Kant e dalla sua spiegazione della comprensione umana del mondo.
Kant aveva parlato di una categoria di idee o conoscenza, spiegava
Emerson, “che non provengono dall’esperienza”55. Con ciò Kant si era
opposto agli empiristi, come il filosofo britannico John Locke, che alla
fine del diciassettesimo secolo aveva detto che ogni conoscenza era
basata sull’esperienza dei sensi. Emerson e i suoi compagni
trascendentalisti sostenevano ora che l’uomo ha la capacità “di
conoscere la verità tramite l’intuizione”56. Per loro i fatti e le
apparenze della natura erano come una tenda che andava tirata per
scoprire la legge divina dietro di essa. Thoreau, invece, trovava sempre
più difficile inserire in questa visione del mondo il suo interesse e il
suo affascinamento per i fatti, perché per lui ogni cosa nella natura
aveva un significato di per sé. Era un trascendentalista che cercava
quelle meravigliose idee di unità nei petali di un fiore o negli anelli di
un tronco d’albero caduto.
Thoreau aveva cominciato a osservare la natura da scienziato.
Misurava e registrava e il suo interesse per questo genere di dettagli
divenne sempre più pressante. Poi, nell’autunno 1849, due anni dopo
che aveva lasciato la capanna e nel momento in cui divenne ovvio, in
tutta la sua dimensione, il fallimento di A Week, Thoreau prese una
decisione che gli avrebbe cambiato la vita e dato origine a Walden
come oggi lo conosciamo. Riorientò completamente la sua vita con un
nuovo tran-tran quotidiano, che prevedeva ogni mattina o ogni sera
uno studio serio, con l’interruzione di una lunga passeggiata nel
pomeriggio57. Fu in quel momento che fece il primo passo che lo
avrebbe portato a diventare il più importante scrittore naturalista
americano, smettendo di essere solo un poeta affascinato dalla natura.
Forse, fu l’esperienza spiacevole della pubblicazione di A Week o la
rottura con Emerson. O, forse, Thoreau aveva trovato la fiducia in sé
per concentrarsi su ciò che adorava. Qualunque fosse il motivo, tutto
cambiò.
Il nuovo regime segnò l’inizio dei suoi studi scientifici, che
comprendevano la scrittura quotidiana di un denso diario. Ogni
giorno, Thoreau avrebbe annotato ciò che aveva visto nelle sue
passeggiate. Queste annotazioni, che prima erano state il frammento
occasionale di un’osservazione, ma erano state principalmente abbozzi
di brani per i suoi saggi e libri, divennero ora regolari e cronologiche,
documentando le stagioni a Concord in tutta la loro complessità.
Invece di spezzettare i suoi diari per incollarne i frammenti nei
manoscritti letterari, come aveva fatto prima, Thoreau lasciò intatti i
suoi nuovi tomi. Quelle che erano state raccolte casuali divennero ora
le “Field Notes” (Annotazioni sul campo)58.
Armato del suo cappello come una “scatola di botanica”59, in cui
manteneva al fresco gli esemplari di piante durante le lunghe
passeggiate, di un pesante libro di musica come pressa per le piante, di
un cannocchiale e di un bastone da passeggio come metro per
misurare, Thoreau esplorava ora la natura in tutti i suoi dettagli.
Durante le sue passeggiate, scriveva appunti su pezzettini di carta, che
poi la sera ampliava nelle più lunghe annotazioni dei diari. Le sue
osservazioni botaniche divennero così meticolose che gli scienziati
ancora le utilizzano per analizzare l’impatto dei cambiamenti climatici
– confrontando le date della prima fioritura dei fiori selvatici o le date
di “perdita delle foglie” degli alberi contenute nei diari di Thoreau con
quelle di oggi60.
“Ometto le cose eccezionali – gli uragani e i terremoti – e descrivo
quelle comuni”, scrisse Thoreau nel diario: “questo è il vero tema della
poesia.”61 Mentre girovagava, misurava e osservava, Thoreau si
allontanava dalle grandiose idee spirituali di Emerson sulla natura e
osservava invece la dettagliata varietà che gli si schiudeva davanti nelle
sue passeggiate. Questo fu anche il primo momento in cui Thoreau si
immerse per la prima volta nelle opere di Humboldt – nello stesso
periodo in cui si sottraeva all’influenza di Emerson. “Mi sento maturo
per qualcosa”, scrisse Thoreau nel diario. “È tempo di semina per me –
sono stato a riposo fin troppo a lungo.”62

Thoreau lesse i libri più popolari di Humboldt: Cosmos, Quadri della


natura e Personal Narrative63. I libri sulla natura, diceva Thoreau,
erano “una sorta di elisir”64. Mentre leggeva, prendeva appunti e
scribacchiava. “Leggeva sempre con una penna in mano”65, osservò
un amico. In questi anni, il nome di Humboldt appariva regolarmente
nei diari e nei taccuini di Thoreau, ma anche nelle sue opere
pubblicate66. “Humboldt dice”67, annotava Thoreau, oppure
“Humboldt ha scritto”. Un giorno, per esempio, in cui il cielo ardeva di
una gradazione di azzurro particolarmente brillante, avvertì la
necessità di misurarla con precisione. “Dov’è il mio cianometro?”,
esclamò Thoreau. “Humboldt lo usava nei suoi viaggi”68 – riferendosi
allo strumento con cui Humboldt aveva misurato l’azzurrità del cielo
sopra il Chimborazo. Quando Thoreau lesse nella Personal Narrative
che il rombo delle rapide dell’Orinoco era più forte di notte che di
giorno, annotò lo stesso fenomeno nel suo diario – solo che a Concord
il fragoroso Orinoco era un ruscello gorgogliante69. Nella mente di
Thoreau, le colline su cui aveva fatto escursioni a Peterborough nel
vicino New Hampshire erano comparabili con le Ande70, mentre
l’Atlantico diventava un “grande Walden Pond”71. “In piedi sulle rupi
di Concord”, scrisse Thoreau, era “con Humboldt”72.
Quello che Humboldt aveva osservato in tutto il globo, Thoreau lo
faceva a casa. Ogni cosa era intrecciata. Quando, d’inverno, i tagliatori
di ghiaccio arrivavano al lago per preparare e trasportare il ghiaccio a
destinazioni distanti, Thoreau pensava a quelli che lo avrebbero
consumato in posti lontani, nel caldo soffocante di Charleston oppure
a Bombay o a Calcutta. “Berranno alla mia fonte”, scrisse, e l’acqua
pura di Walden si sarebbe “mescolata con le acque sacre del Gange”73.
Non c’era bisogno di fare una spedizione in questi paesi lontani.
Perché non viaggiare a casa?74 Osservò Thoreau nel suo diario – non
importava quanto lontano uno andasse, “ma quanto siete vivi”75. Siate
“esploratori dei vostri corsi d’acqua e dei vostri oceani”76, suggeriva,
un Cristoforo Colombo del pensiero, e non del commercio e delle
ambizioni imperiali.
Thoreau manteneva con i libri lo stesso dialogo costante che aveva
con se stesso – facendo sempre domande, stimolando, infastidendo e
contestando. Quando vedeva una nuvola color cremisi sospesa sopra
l’orizzonte nel freddo secco di un giorno d’inverno, rimproverava a una
parte di se stesso: “Mi dici che è una massa di vapore che assorbe tutti
i raggi” e poi che questa spiegazione non è sufficiente, “perché questa
rossa visione mi eccita, mi rimescola il sangue”77. Era uno scienziato
che desiderava comprendere la formazione delle nuvole, ma anche un
poeta rapito dal quelle rosse montagne fluttuanti nel cielo.
Che genere di scienza era, si chiedeva Thoreau, quella “che
arricchisce la conoscenza, ma defrauda l’immaginazione”?78 Era ciò di
cui aveva scritto Humboldt in Cosmos. La natura, spiegava Humboldt,
andava descritta con accuratezza scientifica, ma senza “privarsi in tal
modo del respiro vivificante dell’immaginazione”79. La conoscenza
non “raffredda i sentimenti”80 perché i sensi e l’intelletto sono
connessi. Più di chiunque altro, Thoreau seguiva la fede di Humboldt
nel “legame profondamente radicato”81 che univa la conoscenza e la
poesia. Humboldt consentiva a Thoreau di intrecciare scienza e
immaginazione, il particolare e il tutto, il reale con il meraviglioso.
Thoreau continuò a ricercare questo equilibrio. Nel corso degli anni,
la lotta si fece meno intensa, ma la sua preoccupazione rimase. Una
sera, per esempio, dopo aver passato una giornata sul fiume,
riempiendo di note una pagina dopo l’altra sulla botanica e sulle
piante e gli animali selvatici, finì l’annotazione con la frase: “Ogni
poeta ha trepidato sul limitare della scienza”82. Ma quando si
immerse nell’opera di Humboldt, a poco a poco Thoreau perse il
timore. Cosmos gli insegnò che la raccolta delle singole osservazioni
creava il ritratto della natura come un tutto, in cui ogni dettaglio era
come un filo nell’arazzo del mondo naturale. Come Humboldt aveva
trovato l’armonia nella diversità, così fu per Thoreau. Il dettaglio
portava a un insieme unificato o, secondo l’espressione di Thoreau,
“una descrizione vera del reale è la poesia più rara”83.
La prova più vivida di questo cambiamento la si ebbe quando
Thoreau smise di usare un diario per la “poesia” e un altro per i
“fatti”84. Non sapeva più cosa era cosa. Tutte le cose erano diventate
una sola e medesima cosa, perché “i fatti più belli e interessanti sono
tanto più poesia”85, come disse Thoreau. Walden fu il libro che
rappresentava l’espressione di tutto ciò.
Quando aveva lasciato la capanna a Walden Pond, nel settembre
1847, Thoreau era tornato con un primo abbozzo di Walden, e aveva
poi lavorato a diverse versioni. A metà del 1849, lo aveva messo da
parte e gli ci vollero tre anni per rimettere mano al manoscritto – tre
anni durante i quali divenne un vero naturalista, un meticoloso
conservatore di documentazione e un ammiratore dei libri di
Humboldt. Nel gennaio 1852, Thoreau tirò fuori di nuovo il
manoscritto e cominciò a riscrivere completamente Walden*86.
Negli anni successivi, raddoppiò la lunghezza originaria del libro,
riempiendolo delle osservazioni scientifiche che aveva effettuato87.
Walden divenne così un libro completamente diverso da quello che
aveva cominciato a scrivere. Era pronto, disse, “Mi sento
straordinariamente preparato per un’opera letteraria”88. Osservando
ogni dettaglio degli andamenti e dei cambiamenti delle stagioni,
Thoreau sviluppò una percezione profonda dei cicli naturali e delle
interdipendenze. Una volta compreso che le farfalle, i fiori e gli uccelli
ricomparivano a ogni primavera, ogni altra cosa acquista un senso.
“L’anno è un cerchio”89, scrisse nell’aprile 1852. Cominciò a
compilare lunghi elenchi stagionali dei periodi di fioritura e di caduta
delle foglie90. Nessun altro, sosteneva Thoreau, aveva osservato
queste complesse differenze come lui. Il suo diario sarebbe diventato
“un libro delle stagioni”91, scrisse, citando Humboldt nella stessa
annotazione.
Nelle prime versioni di Walden, Thoreau si era concentrato sulla
critica della cultura e dell’avidità degli americani e su quella che
vedeva come una crescente focalizzazione sui soldi e sulla vita urbana
– usando come termine di paragone la sua vita nella capanna. Ora,
nella nuova versione, il faro guida divenne il trascorrere della
primavera, dell’estate, dell’autunno e dell’inverno. “Mi piace l’amicizia
delle stagioni”92, scrisse in Walden. Thoreau, come diceva, cominciò a
“considerare la natura con occhi nuovi”93 – gli occhi che gli aveva
donato Humboldt. Esplorava, raccoglieva, misurava e stabiliva
connessioni, proprio come Humboldt. I suoi metodi e le sue
osservazioni, disse Thoreau all’American Association for the
Advancement of Sciences nel 1853, erano basati sulla sua ammirazione
per le Views of Nature94, il libro in cui Humboldt aveva combinato
una prosa elegante e vivide descrizioni con l’analisi scientifica.
Tutti i passaggi più importanti di Walden hanno origine nei diari di
Thoreau. Qui Thoreau saltava da un argomento all’altro, impegnato
fino all’ultimo respiro con la natura, con la terra come “poesia
vivente”95, con le “rane che russano nel fiume”96 e con il piacere del
canto degli uccelli a primavera. Il diario era “la testimonianza del mio
amore” e della sua “estasi”97 – sia poesia che scienza. Anche Thoreau
si chiedeva se, qualunque cosa avesse scritto, questa sarebbe stata
migliore del suo diario, paragonando le sue parole a fiori e chiedendosi
se sarebbero stati meglio raccolti in un vaso (la sua metafora per il
libro) o nel prato in cui li aveva trovati (il diario)98. Ormai era così
orgoglioso della conoscenza precisa della natura di Concord che si
crucciava se qualcun altro era capace di identificare una pianta che lui
non riconosceva. “Henry Thoreau riusciva a malapena a reprimere la
sua indignazione”, scrisse un giorno Emerson al fratello, non senza
esultanza, “quando gli porgevo una bacca che gli era sfuggita.”99
Il nuovo approccio di Thoreau non significava che i suoi dubbi
fossero scomparsi del tutto. Continuava a interrogarsi. “Sono confuso
da tante osservazioni”100, scrisse nel 1853. Temeva che la sua
conoscenza stesse diventando troppo “dettagliata e scientifica”101 e
che, magari, aveva scambiato prospettive ampie come i cieli con le
visioni ristrette del microscopio. “Con tutta la vostra scienza, potete
dirmi com’è”, chiedeva disperato, “che la luce penetra nell’anima”102,
ma poi terminava questa annotazione sul diario con descrizioni
dettagliate di fiori, canti di uccelli, farfalle e della maturazione delle
bacche.
Invece di comporre poesie, indagava la natura – e queste
osservazioni divennero il materiale grezzo di Walden103. “La natura
sarà il mio linguaggio pieno di poesia”104, diceva. Nel diario, l’acqua
trasparente come il cristallo di un torrente che precipita era “il sangue
puro della natura” e poi, poche righe sotto, s’interroga sul dialogo fra
se stesso e la natura, ma conclude che “questa scrupolosa abitudine
all’osservazione – in Humboldt-Darwin e altri – questa scienza – deve
essere mantenuta”105. Thoreau intrecciava scienza e poesia con un filo
sottile.
Per dare un senso a tutto ciò, Thoreau era alla ricerca di una
prospettiva unificante. Quando saliva su di una montagna, vedeva i
licheni sui massi ai suoi piedi, ma anche gli alberi in lontananza. Come
Humboldt sul Chimborazo, li percepiva in relazione reciproca e “così
ricondotti a un unico quadro”106 – riprendendo l’idea della
Naturgemälde. Oppure, durante una tempesta invernale, una fredda
mattina di gennaio, mentre i fiocchi di neve turbinavano intorno a lui,
Thoreau osservava le delicate strutture cristalline e le confrontava con
i petali perfettamente simmetrici dei fiori. La stessa legge, diceva, che
dava forma alla terra dava forma anche ai fiocchi di neve,
proclamando enfaticamente “Ordine. Cosmos”107.
Humboldt aveva ripreso la parola Cosmos dal greco antico, dove
significava ordine e bellezza – quali erano stati creati dall’occhio
umano. Con ciò Humboldt metteva insieme il mondo fisico esterno e il
mondo interiore della mente. Il Cosmos di Humboldt riguardava la
relazione fra umanità e natura, e Thoreau si piazzava saldamente in
questo Cosmos. A Walden Pond, scrisse, “Ho un mondo piccolo tutto
per me”108 – il suo sole, le sue stelle, la sua luna. “Perché mi dovrei
sentire solo”, chiedeva. “Il nostro pianeta non è nella Via Lattea?”109
Non era più solo di un fiore o di un bombo in mezzo a un prato,
perché, come loro, era parte della natura. “Non sono io stesso,
parzialmente, una foglia e una forma vegetale?”110, chiedeva in
Walden.
Uno dei passi più famosi di Walden esprime esattamente quanto
Thoreau fosse cambiato da quando aveva letto Humboldt. Per anni, a
ogni primavera, aveva osservato il disgelo del terrapieno sabbioso
della ferrovia che rasentava Walden Pond111. Quando il sole riscaldava
il terreno gelato e il ghiaccio si scioglieva, ne uscivano fiotti violacei di
sabbia che poi scomparivano, ornando il terrapieno con le sagome
delle foglie: un fogliame color sabbia che precedeva il momento in cui
gli alberi e i cespugli mettevano le foglie in primavera. Nel manoscritto
originale, scritto nella capanna sul lago, Thoreau aveva descritto
questa “fioritura” delle sabbie in una digressione di meno di 100
parole112. Ora essa si ampliò a più di 1500 parole e divenne uno dei
passi fondamentali di Walden. La sabbia, scrisse, presentavano
“l’anticipazione della foglia vegetale”113. Era il “prototipo”114, proprio
come l’Urform di Goethe. Un fenomeno che nel manoscritto originale
era stato solo “inesplicabilmente interessante e bello”115 veniva ora a
spiegare nientemeno che quello che Thoreau chiamava “il principio di
tutte le operazioni della Natura”116.
Queste poche pagine mostrano come Thoreau fosse maturato.
Quando descrisse il fenomeno, nell’ultimo giorno di dicembre del
1851, proprio mentre stava leggendo Humboldt, esso divenne una
metafora del cosmo. Il sole che riscaldava le scarpate era come i
pensieri che riscaldano il sangue, disse. La terra non era morta, ma
“vive e cresce”117. E poi, quando l’osservò di nuovo nella primavera
del 1854, proprio nel momento in cui stava finendo la versione
definitiva di Walden, scrisse nel diario che la terra era “poesia
vivente... non una terra fossile – ma un esemplare vivente”118, parole
che incluse quasi esattamente nella versione finale di Walden. “La
terra è completamente viva”119, scrisse, e la natura è “pienamente in
funzione”120. Questa era la natura di Humboldt, che pulsa di vita.
L’arrivo della primavera, concludeva Thoreau, era “come la creazione
del cosmo dal caos121. Era vita, natura e poesia al tempo stesso.
Walden era il mini Cosmos di Thoreau riferito a un posto
particolare, un’evocazione della natura in cui tutte le cose erano
connesse, piene zeppe di dettagli sulle abitudini degli animali, sui fiori
e sullo spessore del ghiaccio sopra il piccolo lago122. L’oggettività o la
ricerca scientifica pura non esistevano, scrisse Thoreau dopo aver
finito Walden, perché si accoppiavano sempre alla soggettività e ai
sensi. “I fatti cadono dall’osservatore-poeta come semi maturi”123,
osservò. Il fondamento di tutto era l’osservazione.
“Io succhio dal cielo e dalla terra”124, disse Thoreau.
1. Thoreau Walden 1910, p. 118.
2. Ivi, pp. 52 sgg., 84.
3. Ivi, p. 247, 375.
4. Ivi, p. 247.
5. Ivi, pp. 149-50.
6. Channing 1873, p. 250.
7. Ivi, p. 17.
8. Thoreau, 16 giugno 1852, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 5, p. 112.
9. John Weiss, Christian Examiner, 1865, Harding 1989, p. 33.
10. Alfred Munroe, “Concord Authors Considered”, Richard County Gazette, 15 agosto 1877,
Harding 1989, p. 49.
11. Horace R. Homer, ivi, p. 77.
12. Richardson 1986, pp. 12-13.
13. (nota a piè di pagina) Sims 2014, p. 90.
14. Thoreau a Isaiah Williams, 14 marzo 1842, Thoreau Correspondence 1958, p. 66.
15. Thoreau, 16 gennaio 1843, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 1, p. 447.
16. Ellery Channing a Thoreau, 5 marzo 1845, Thoreau Correspondence 1958, p. 161.
17. Thoreau a Emerson, 11 marzo 1842, ivi, p. 65.
18. Thoreau, 14 luglio 1845, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 2, p. 159.
19. Richardson 1986, pp. 15-16; Sims 2014, pp. 33, 47-50.
20. Richardson 1986, p. 16.
21. Ivi, p. 138.
22. Thoreau Walden 1910, p. 119.
23. Thoreau, primavera 1846, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 2, p. 145.
24. Channing 1873, p. 25; Celia P. R. Fraser, Harding 1989, p. 208.
25. Caroline Sturgis Tappan su Thoreau, American National Biography; vedi anche Channing
1873, p. 311.
26. Channing 1873, p. 312.
27. Nathaniel Hawthorne, settembre 1842, Harding 1989, p. 154.
28. E. Harlow Russell, “Reminiscences of Thoreau”, Concord Enterprise, 15 aprile 1893,
Harding 1989, p. 98.
29. Nathaniel Hawthorne a Richard Monckton Milnes, 18 novembre 1854, Hawthorne 1987,
vol. 17, p. 279.
30. Vedi Priscilla Rice Edes, Harding 1989, p. 181.
31. Diario di Amos Bronson Alcott, 5 novembre 1851, Borst 1992, p. 199.
32. Edward Emerson, 1917, Harding 1989, p. 136.
33. Nathaniel Hawthorne, settembre 1842, Harding 1989, p. 155; per Thoreau e gli animali,
Mary Hosmer Brown, Memories of Concord, 1926, Harding 1989, pp. 150-51 e Thoreau
Walden 1910, pp. 170, 173.
34. Thoreau Walden 1910, p. 287.
35. Ivi, pp. 147, 303.
36. Ivi, p. 21.
37. Ivi, p. 327; suonare il flauto, p. 232.
38. Diario di Alcott, marzo 1847, Harbert Petrulionis 2012, pp. 6-7.
39. John Shephard Keyes, Harding 1989, p. 174; Channing 1873, p. 18.
40. Shanley 1957, p. 27.
41. Alcott’s Journal, marzo 1847, Harbert Petrulionis 2012, p. 7; per le recensioni negative di A
Week, Theodore Parker a Emerson, 11 giugno 1849 e Athenaeum, 27 ottobre 1849, Borst 1992,
pp. 151, 159.
42. Thoreau Correspondence 1958, ottobre 1853, p. 305.
43. Thoreau, dopo l’11 settembre 1849, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 3, p. 26; vedi anche
Walls 1995, pp. 116-17.
44. Walls 1995, p. 116.
45. Myerson 1979, p. 43.
46. Emerson nel 1849, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 3, p. 485.
47. Maria Thoreau, 7 settembre 1849, Borst 1992, p. 138.
48. Thoreau Journal, dopo il 18 aprile 1846, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 2, p. 242.
49. Myerson 1979, p. 41.
50. Thoreau Walden 1910, pp. 328 sgg.
51. Ivi, p. 268, 352.
52. Thoreau e il trascendentalismo: Walls 1995, pp. 61 sgg.
53. Emerson 1971-2013, vol. 1, 1971, p. 39.
54. Ivi, vol. 3, 1983, p. 31.
55. Emerson, 1842, Richardson 1986, p. 73.
56. J.A. Saxon, “Prophecy – Transcendentalism – Progress”, The Dial, vol. 2, 1841, p. 90.
57. Dean 2007, pp. 82 sgg.; Walls 1995, pp. 116-17; Thoreau a Harrison Gray Otis Blake, 20
novembre 1849, Thoreau Correspondence 1958, p. 250; Thoreau, 8 ottobre 1851, Thoreau
Journal 1981-2002, vol. 4, p. 133.
58. Thoreau, 21 marzo 1853, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 6, p. 20.
59. Thoreau, 23 giugno 1852, ivi, vol. 5, p. 126; vedi anche Channing 1873, p. 247.
60. Richard Primack, professore di biologia alla Boston University, ha collaborato con dei
colleghi a Harvard per utilizzare i diari di Thoreau per studi sul cambiamento climatico.
Utilizzando i dati meticolosi di Thoreau hanno scoperto che il cambiamento climatico è
arrivato a Walden Pond in quanto molti fiori primaverili fioriscono ora più di dieci giorni
prima di una volta; vedi Andrea Wulf, “A Man for all Seasons”, New York Times, 19 aprile
2013.
61. Thoreau, 28 agosto 1851, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 4, p. 17.
62. Thoreau, 16 novembre 1850, ivi, vol. 3, pp. 144-5.
63. Sattelmeyer 1988, pp. 206-7, 216; Walls 1995, pp. 120-21; Walls 2009, pp. 262-8; per
Thoreau e i libri di AH, 6 gennaio 1851, riunione dello Standing Committee della Concord
Social Library, nelle mani di Ralph Waldo Emerson: “Il Committee nell’ultimo anno ha
ampliato la biblioteca con gli Aspects of Nature di Humboldt”; Box 1, Folder 4, Concord Social
Library Records (Vault A60, Unit B1), William Munroe Special Collections, Concord Free
Public Library.
64. Thoreau, “Natural History of Massachusetts”, Thoreau Excursion and Poems 1906, p. 105.
65. Channing 1873, p. 40.
66. Thoreau’s Fact Book in the Harry Elkins Widener Collection in the Harvard College
Library. The Facsimile of Thoreau’s Manuscript, ed. Kenneth Walter Cameron, Hartford:
Transcendental Books, 1966, vol. 3, 1987, pp. 193, 589; Thoreau’s Literary Notebook in the
Library of Congress, ed. Kenneth Walter Cameron, Hartford, Transcendental Books, 1964, p.
362; Sattelmeyer 1988, pp. 206-7, 216; AH citato nelle pubblicazioni di Thoreau: per esempio
Cape Cod, A Yankee in Canada, e The Maine Woods.
67. Thoreau, 1 aprile 1850, 12 maggio 1850, 27 ottobre 1853, Thoreau Journal 1981-2002, vol.
3, pp. 52, 67-8 e vol. 7, p. 119.
68. Thoreau, 1 maggio 1853, ivi, vol. 6, p. 90.
69. Thoreau, 1 aprile 1850, ivi, vol. 3, p. 52.
70. Thoreau, 13 novembre 1851, ivi, vol. 4, p. 182.
71. Myerson 1979, p. 52.
72. Thoreau, “A Walk to Wachusett”, Thoreau Excursion and Poems 1906, p. 133.
73. Thoreau Walden 1910, pp. 393-4.
74. Thoreau, 6 agosto 1851, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 3, p. 356.
75. Thoreau, 6 maggio 1853, ivi, vol. 8, p. 98.
76. Thoreau Walden 1910, p. 423.
77. Thoreau, 25 dicembre 1851, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 4, p. 222.
78. Ibid.
79. AH Cosmos 1845-52, vol. 2, p. 72; AH Kosmos 1845-50, vol. 2, p. 74.
80. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 21; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 21.
81. AH Cosmos 1845-52, vol. 2, p. 87; AH Kosmos 1845-50, vol. 2, p. 90.
82. Thoreau, 18 luglio 1852; vedi anche 23 luglio 1851, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 3, p.
331 e vol. 5, p. 233.
83. Henry David Thoreau, The Writings of Henry David Thoreau: A Week on the Concord
and Merrimack Rivers, Boston, Houghton Mifflin, 1906, vol. 1, p. 347.
84. Sattelmeyer 1988, p. 63; Walls 2009, p. 264.
85. Thoreau, 18 febbraio 1852, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 4, p. 356.
86. (nota a piè di pagina) Sattelmeyer 1992, pp. 429 sgg.; Shanley 1957, pp. 24-33.
87. Sattelmeyer 1992, pp. 429 sgg.; Shanley 1957, pp. 30 sgg.
88. Thoreau, 7 settembre 1851, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 4, p. 50.
89. Thoreau, 18 aprile 1852, ivi, p. 468.
90. Thoreau Journal 1981-2002, vol. 2, p. 494; vedi anche le mappe stagionali tratte dai suoi
diari, Howarth 1974, pp. 308 sgg.
91. Thoreau, 6 novembre 1851, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 3, pp. 253, 255.
92. Thoreau Walden 1910, p. 173.
93. Thoreau, 4 dicembre 1856, Thoreau Journal 1906, vol. 9, p. 157; vedi anche Walls 1995, p.
130; Walls 2009, p. 264.
94. Thoreau a Spencer Fullerton Baird, 19 dicembre 1853, Thoreau Correspondence 1958, p.
310.
95. Thoreau, 5 febbraio 1854, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 7, p. 268.
96. Thoreau, 14 maggio 1852, ivi, vol. 5, p. 56.
97. Thoreau, 16 novembre 1850 e 13 luglio 1852, ivi, vol. 3, p. 143 e vol. 5, p. 219.
98. Thoreau, 27 gennaio 1852, ivi, vol. 4, p. 296.
99. Emerson a William Emerson, 28 settembre 1853, Emerson 1939, vol. 4, p. 389.
100. Thoreau, 23 marzo 1853, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 6, p. 30.
101. Thoreau, 19 agosto 1851, ivi, vol. 3, p. 377.
102. Thoreau, 16 luglio 1851, ivi, pp. 306 sgg.
103. Thoreau quasi non scrisse più poesie dopo il 1850, Howarth 1974, p. 23.
104. Thoreau, 10 maggio 1853, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 6, p. 105.
105. Thoreau, 23 luglio 1851, ivi, vol. 3, pp. 330-31.
106. Thoreau, 20 ottobre 1852, ivi, vol. 5, p. 378.
107. Thoreau scrisse “Kosmos” in greco, “κόσμος”, Thoreau, 6 gennaio 1856, Thoreau Journal
1906, vol. 8, p. 88.
108. Thoreau Walden 1910, p. 172.
109. Ivi, p. 175.
110. Ivi, p. 182.
111. u, primavera 1848, 31 dicembre 1851, 5 febbraio e 2 marzo 1854, Thoreau Journal 1981-
2002, vol. 2, pp. 382 sgg., vol. 4, p. 230, vol. 7, p. 268, vol. 8, pp. 25 sgg.
112. La prima versione di Walden, Shanley 1957, p. 204; nel Walden pubblicato, vedi Thoreau
Walden 1910, pp. 402-9.
113. Thoreau Walden 1910, pp. 404-5.
114. Thoreau Walden 1910, pp. 404-5; per Thoreau e la Urform di Goethe, vedi Richardson
1986, pp. 8.
115. Prima versione di Walden, Shanley 1957, p. 204.
116. Thoreau Walden 1910, p. 407.
117. Thoreau, 31 dicembre 1851, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 4. p. 230.
118. Thoreau, 5 febbraio 1854, ivi, vol. 7. p. 266; vedi anche Thoreau Walden 1910, p. 408.
119. Thoreau Walden 1910, p. 399.
120. Ivi, p. 408.
121. Ivi, p. 414.
122. Walls 2011-12, pp. 2 sgg.
123. Thoreau, 19 giugno 1852, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 5, p. 112; per l’osservazione
oggettiva e soggettiva, Thoreau, 6 maggio 1854, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 8, p. 98;
Walls 2009, p. 266.
124. Thoreau, 3 novembre 1853, Thoreau Journal 1981-2002, vol. 7, p. 140.
*. Thoreau visse con gli Emerson per due anni, guadagnandosi il vitto come uomo tuttofare
che aiutava nei lavori intorno alla casa e in giardino mentre Emerson era via per i suoi
frequenti cicli di conferenze.
*. Unità di misura pari a circa 20 metri (NdT).
*. Thoreau scrisse sette stesure di Walden. La prima l’aveva terminata durante il periodo di
Walden Pond. Lavorò alla stesura 2 e 3 dalla primavera del 1848 alla metà del 1849. Ritornò
sul manoscritto nel gennaio 1852 e lavorò alle successive quattro versioni fino alla primavera
del 1854.
PARTE V

Nuovi mondi: l’evoluzione delle idee


Capitolo ventesimo

Il più grande di tutti gli uomini dal Diluvio universale

A Berlino, l’anno dopo la pubblicazione del secondo volume di


Cosmos, il precario equilibrio di Humboldt tra le sue idee politiche
liberali e i doveri presso la corte prussiana si faceva sempre più
difficile. E divenne quasi impossibile quando, nella primavera del
1848, l’Europa esplose in una serie di disordini. Dopo decenni di
politiche reazionarie, un’ondata di rivoluzioni spazzò il continente.
Quando il declino economico e il divieto di assembramenti politici
suscitarono a Parigi violente proteste, re Luigi Filippo, in preda al
terrore, il 26 febbraio abdicò al trono e scappò in Gran Bretagna. Due
giorni dopo, i francesi proclamavano la Seconda Repubblica e, nel giro
di qualche settimana, nuove rivoluzioni si propagarono in altri paesi
tra cui l’Italia, la Danimarca, l’Ungheria e il Belgio. A Vienna, il
cancelliere di Stato conservatore, principe von Metternich, tentò
invano di dominare rivolte in cui studenti e operai avevano unito le
forze. Il 13 marzo Metternich rassegnò le dimissioni e fuggì a sua volta
a Londra. Due giorni dopo l’imperatore austriaco, Ferdinando I,
promise al popolo una costituzione. In tutta Europa i governanti
furono presi dal panico.
A mano a mano che la stampa riferiva delle rivolte di quella
primavera in tutti i paesi europei, i prussiani nei caffè leggevano gli
articoli a voce alta1. A Monaco, Colonia, Lipsia, Weimar e in tante altre
città e Stati della Germania il popolo si sollevava contro i propri
governanti. Chiedeva una Germania unita, un parlamento nazionale e
una costituzione. Nel mese di marzo, il re di Baviera abdicò e il
Granduca di Baden si piegò alle richieste della sua gente promettendo
libertà di stampa e un parlamento. Anche a Berlino si svolgevano
raduni di protesta invocando le riforme, ma il re prussiano, Federico
Guglielmo IV, non era disposto a cedere facilmente e approntò le
truppe. Quando 20.000 persone si radunarono per ascoltare i discorsi
che incitavano alla rivolta, il re ordinò ai soldati di marciare per le vie
di Berlino e difendere il castello.

In Prussia da tempo i liberali erano delusi dal nuovo sovrano.


Humboldt, come tanti altri, aveva sperato che l’ascesa al trono di
Federico Guglielmo IV avrebbe annunciato la fine dell’assolutismo.
All’inizio del 1841, nei primi mesi di regno del nuovo sovrano,
Humboldt lo aveva descritto a un amico come un governante
illuminato che “doveva soltanto liberarsi di alcune credenze
medievali”2, ma si era sbagliato. Soltanto due anni dopo, confessava
allo stesso amico che Federico Guglielmo IV “fa soltanto quello che gli
piace”3. Amava l’architettura e sembrava non gli importasse altro che i
progetti di nuovi sfarzosi edifici, grandi parchi e grandiose collezioni
d’arte. Ma se si trattava di affrontare “questioni terrene” come la
politica estera, i bisogni del popolo di Prussia o l’economia, “a stento
concedeva un attimo di attenzione”4 – lamentava Humboldt.
Quando, nell’aprile del 1847, il re aveva inaugurato a Berlino il
primo parlamento prussiano della storia, le speranze riformatrici si
erano ben presto infrante: il popolo chiedeva una costituzione, ma
Federico Guglielmo IV non aveva lasciato dubbi sulla sua
indisponibilità ad acconsentire. Nel discorso inaugurale aveva
dichiarato ai delegati che un re governa per diritto divino e non per
volontà popolare5: la Prussia pertanto non sarebbe mai diventata una
monarchia costituzionale. Dopo due mesi il parlamento fu sciolto,
senza che si fosse conseguito alcun risultato.
Nella primavera del 1848, sospinto anche dalle rivoluzioni che
attraversavano l’Europa, alla fine anche il popolo tedesco ne ebbe
abbastanza. Il 18 marzo i rivoluzionari fecero ruzzolare barili nelle
strade e accatastarono casse, tavole e mattoni per costruire barricate.
Estirparono ciottoli dalle vie lastricate e li portarono sui tetti,
preparandosi a combattere. All’imbrunire la battaglia ebbe inizio. Dai
tetti si lanciavano sassi e tegole e i primi colpi di fucile riecheggiarono
attraverso le strade. Humboldt era a casa nel suo appartamento in
Oranienburger Straße, ma come tanti altri non dormiva, perché i
tamburi del soldati rimbombavano per tutta la città. Mentre la
battaglia si protrasse durante la notte, le donne portavano cibo, vino e
caffè ai rivoluzionari. Morirono centinaia di uomini, ma le truppe reali
non riuscirono a prendere il controllo6. A una certa ora della notte
Federico Guglielmo IV crollò su una sedia e gemette, “Oh Dio, oh Dio,
davvero mi hai abbandonato?”7
Humboldt era convinto che le riforme fossero assolutamente
necessarie, ma non gli piacevano le folle tumultuanti e il brutale
intervento della polizia: aveva immaginato un cambiamento più
tempestivo, più lento e dunque più pacifico8 – senza aspettare che si
arrivasse a questi estremi. Come tanti altri liberali, desiderava
ardentemente vedere una Germania unita, ma sperava che fosse
governata con il consenso e dal parlamento, non con il sangue e il
terrore. Ora, con centinaia di morti nelle strade di Berlino, il
settantottenne Humboldt si trovava preso tra due fuochi.
Quando a Berlino i rivoluzionari presero il controllo della città, un
impaurito Federico Guglielmo IV cedette e promise una costituzione e
un parlamento nazionale9. Il 19 marzo accettò di ritirare le truppe.
Quella sera le strade di Berlino furono illuminate a festa e la gente
celebrava la vittoria; giubilo e canti sostituirono i colpi di fucile. Il 21
marzo, dopo solo tre giorni da quando era iniziata la battaglia, il re
esibì simbolicamente la sconfitta cavalcando per le vie della città
avvolto in un drappo nero, rosso e oro: i colori dei rivoluzionari10*. Di
ritorno al palazzo, dove masse di persone si erano adunate, il re si
mostrò sul balcone. Humboldt stava in piedi in silenzio dietro di lui e
s’inchinò verso la folla sottostante11. Il giorno dopo ignorò i suoi
obblighi verso il sovrano e marciò alla testa del corteo funebre per i
rivoluzionari caduti.
Federico Guglielmo IV non si era mai curato delle inclinazioni
politiche del suo ciambellano. Apprezzava le grandi conoscenze di
Humboldt ed eludeva le loro “differenze di idee politiche”12. Altri
erano meno teneri. Un pensatore prussiano lo definiva un
“ultraliberale”13 e un ministro “un rivoluzionario nelle grazie della
corte”, mentre il fratello del re, principe Guglielmo (poi imperatore
Guglielmo I) riteneva Humboldt una minaccia all’ordine costituito.
Humboldt era abituato a destreggiarsi tra le diverse opinioni
politiche. Venticinque anni prima, a Parigi, si era mosso abilmente tra
le fila dei reazionari e dei rivoluzionari francesi riuscendo a non
mettere mai a repentaglio la sua posizione. “Sa benissimo che anche se
diventa un liberale spinto non corre alcun pericolo di perdere la
posizione sociale e i vantaggi che i suoi natali gli garantiscono”14,
aveva scritto Charles Lyell.
In privato, Humboldt criticava i governanti europei con il suo
abituale sarcasmo. Quando la regina Vittoria lo aveva invitato durante
una delle sue visite alla Germania, osservò beffardo che per colazione
gli aveva servito “braciole di maiale dure e pollo freddo”, oltre a
manifestare una totale “astinenza filosofica”15. Dopo aver conosciuto
al palazzo di Sanssouci, residenza di Federico Guglielmo IV, il Principe
ereditario del Württemberg e i futuri re di Danimarca, Inghilterra e
Baviera, Humboldt li descrisse a un amico come un gruppo di eredi
legittimi composto da “uno scialbo smidollato, un islandese
alcolizzato, un politico accecato dal fanatismo e un deficiente
testardo”. Questo, scherzava Humboldt, era “il futuro del mondo
monarchico”16.
C’era chi ammirava l’abilità di Humboldt nel servire un padrone di
lignaggio regale conservando al tempo stesso “il coraggio delle proprie
opinioni”17. Il re di Hannover, Ernesto Augusto I, commentava,
tuttavia, che Humboldt era “sempre lo stesso: sempre repubblicano e
sempre nell’anticamera del palazzo”18. Ma era probabilmente la
capacità di Humboldt di appartenere a entrambi questi mondi a
consentirgli tanta libertà. Altrimenti, come lui stesso ammetteva, lo
avrebbero esiliato dal paese in quanto “rivoluzionario e autore di quel
Cosmos privo di ogni timore di Dio”19.
Mentre Humboldt assisteva al dispiegarsi delle rivoluzioni negli
Stati tedeschi, vi fu un breve momento in cui sembrò possibile
introdurre qualche riforma; ma quel momento si esaurì con la stessa
rapidità con cui era iniziato. Gli Stati tedeschi decisero di designare
un’Assemblea nazionale per discutere il futuro di una Germania unita;
ma alla fine di maggio del 1848, poco più di due mesi dopo che a
Berlino si era sparato il primo colpo di fucile, Humboldt non sapeva se
era più deluso dal re, dai ministri prussiani o dai delegati
all’Assemblea nazionale che si erano riuniti a Francoforte20.
Neanche quanti ammettevano che le riforme erano necessarie
riuscivano a condividere l’assetto che avrebbe dovuto caratterizzare la
nuova Germania. Humboldt riteneva che una Germania unita dovesse
basarsi sui principi del federalismo. I diversi Stati, spiegava, dovevano
conservare un certo potere, ma senza trascurare “l’organismo e l’unità
dell’insieme”21 – rafforzando la sua argomentazione mediante l’uso
della stessa terminologia utilizzata quando parlava della natura.
C’era chi era favorevole a una unione per ragioni esclusivamente
economiche – sognando una Germania senza dazi e barriere doganali
– ma c’erano anche i nazionalisti, che esaltavano un passato condiviso
e idealizzato. E anche se si fossero trovati d’accordo, restavano poi
opinioni differenti su dove stabilire i confini e quali Stati includere.
Alcuni proponevano una grande Germania (Grossdeutschland) che
comprendesse l’Austria, mentre altri preferivano una nazione più
piccola (Kleindeutschland) guidata dalla Prussia. Queste divergenze,
che sembravano senza fine, ingarbugliarono i negoziati: si sostenevano
posizioni che poi venivano ribaltate e la discussione s’impantanava.
Nel frattempo le forze più conservatrici avevano tutto il tempo per
ricompattarsi.
Nella primavera del 1849, un anno dopo le rivolte, tutte le conquiste
dei rivoluzionari vennero ripudiate. Le prospettive erano fosche,
pensava Humboldt22. Quando l’Assemblea nazionale, dopo molti
tentennamenti, da Francoforte decise infine di offrire la corona
imperiale a Federico Guglielmo IV affinché potesse guidare una
monarchia costituzionale in una Germania unita, si trovò di fronte un
secco rifiuto. Il sovrano, che solo un anno prima aveva indossato il
tricolore rivoluzionario tedesco per paura della folla tumultuante, ora
si sentiva abbastanza sicuro da poter declinare l’offerta. I delegati non
avevano nessuna vera corona da offrire, dichiarò Federico Guglielmo
IV, perché soltanto Dio poteva fare una cosa del genere. Quella corona
era di “terra e argilla”, disse a un delegato, e non un “diadema del
diritto divino dei re”23. Era un “collare per cani”24, disse furioso, con
il quale il popolo voleva incatenarlo alla rivoluzione. La Germania era
ben lungi dall’essere una nazione unita e nel mese di maggio del 1849 i
delegati dell’Assemblea nazionale tornarono a casa con ben poco da
mostrare come risultato dei loro sforzi.
Humboldt era profondamente deluso dalle rivoluzioni e dai
rivoluzionari25. Nel corso della sua vita gli americani avevano
dichiarato l’indipendenza, tuttavia continuavano a diffondere quella
che lui chiamava la “peste della schiavitù”26. Nei mesi che avevano
preceduto gli eventi in Europa, Humboldt aveva seguito le notizie sulla
guerra che gli Stati Uniti avevano ingaggiato con il Messico –
scioccato, come diceva, dal comportamento imperialista degli
americani che gli ricordava la “vecchia conquista spagnola”27. Da
giovane aveva assistito alla Rivoluzione francese, ma aveva anche visto
Napoleone incoronarsi imperatore. Successivamente aveva osservato
Simón Bolívar liberare le colonie sudamericane dalla tirannia
spagnola, per poi vedere “El Libertador” autodefinirsi dittatore. E ora
il suo stesso paese aveva miseramente fallito. All’età di ottant’anni,
scriveva nel novembre 1849, si era ridotto a nutrire “un sottile filo di
speranza”28 che il desiderio di riforme del popolo non fosse sparito
per sempre. Benché periodicamente possa sembrare “che dorma”,
seguitava a sperare che la sua voglia di cambiamento fosse di fatto
“eterna come la tempesta elettromagnetica che sfavilla nel sole”.
Magari la generazione successiva ci sarebbe riuscita.
Come tante volte prima di allora, per sfuggire a queste “oscillazioni
senza fine”29 si sprofondava nel lavoro. Quando un delegato
dell’Assemblea nazionale di Francoforte chiese a Humboldt come
diavolo facesse a lavorare in tempi così turbolenti, lui stoicamente
rispose che nella sua lunga vita aveva visto tante di quelle rivoluzioni
che ogni sensazione di novità ed eccitazione si era esaurita30. Dunque
poteva concentrarsi sul completamento di Cosmos.

Quando Humboldt nel 1874 aveva pubblicato il secondo volume di


Cosmos – che in origine intendeva fosse l’ultimo volume – si era
subito reso conto di avere ancora molte cose da dire. Diversamente dai
primi due, tuttavia, il terzo volume sarebbe stato un tomo più
specialistico, dedicato ai “fenomeni cosmici”31, dalle stelle e i pianeti
alla velocità della luce e delle comete. A mano a mano che le scienze
facevano progressi, Humboldt lottava per essere “padrone della
materia”32, senza mai avere tuttavia alcun problema ad ammettere di
non aver capito una nuova teoria. Ben determinato a includere nel suo
lavoro le più recenti scoperte, molto semplicemente chiedeva agli altri
di spiegargliele, esortandoli a farlo velocemente perché, alla sua età, il
tempo stava per scadere – “chi è vicino alla morte corre”33, diceva.
Cosmos era come uno “spiritello maligno posato sulla mia spalla”34.
Sull’onda del successo dei primi due volumi di Cosmos, Humboldt
aveva pubblicato anche una nuova edizione ampliata nel suo libro
preferito, Quadri della natura – prima in tedesco (Ansichten der
Natur) e poi, in rapida successione, in due edizioni inglesi in
concorrenza tra loro. Ci fu anche una traduzione inglese di Personal
Narrative, per quanto non autorizzata. E per guadagnare qualche
soldo in più provò anche, senza successo, a vendere al suo editore
tedesco l’idea di un compendio in un solo volume, più breve e
accessibile, di Cosmos35.
Nel dicembre 1850 Humboldt pubblicò la prima metà del terzo
volume di Cosmos e, un anno dopo, l’altra metà. Nell’introduzione
scrisse che “al terzo e ultimo volume della mia opera rimane il compito
di sopperire ad alcune carenze dei primi due”36. Ma non aveva ancora
finito di scriverlo che iniziò a lavorare al quarto volume,
concentrandosi questa volta sulla terra, per occuparsi di
geomagnetismo, vulcani e terremoti. Sembrava che non riuscisse a
fermarsi.
L’età non aveva rallentato le sue attività. Oltre alla scrittura e agli
impegni a corte, Humboldt riceveva una serie infinita di visitatori. Uno
era l’ex aiutante in campo di Simón Bolívar, generale Daniel O’Leary,
che si trattenne nel suo appartamento a Berlino nell’aprile 185337. I
due uomini trascorsero un pomeriggio a evocare ricordi della
rivoluzione e di Bolívar, che era morto di tubercolosi nel 1830. Ma ora
Humboldt era così famoso che anche per gli americani far visita
all’anziano signore era diventato un rito. Uno scrittore americano che
si trovava in viaggio affermò di essersi recato a Berlino non per visitare
musei e gallerie, ma “per il gusto d’incontrare e parlare con il più
grande al mondo di tutti gli uomini viventi”38*39.
Humboldt continuava anche ad assistere giovani scienziati, artisti
ed esploratori e spesso li aiutava anche economicamente, malgrado i
suoi debiti. Il geologo e paleontologo svizzero Louis Agassiz, che era
emigrato negli Stati Uniti, per esempio, approfittò più volte della sua
“abituale benevolenza”40. In un’altra occasione Humboldt elargì cento
talleri a un giovane matematico e organizzò pasti gratuiti all’università
per il figlio dell’addetto al servizio caffè alla corte reale. Presentò artisti
al sovrano, richiamando su di loro la sua attenzione e sollecitò il
direttore del Neues Museum di Berlino ad acquistarne dipinti e
disegni. A un amico disse che, non avendo una famiglia sua, questi
giovani per lui erano come dei figli41.
Come ebbe a dire il matematico Friedrich Gauss, lo zelo con cui
aiutava e incoraggiava gli altri era “uno dei gioielli più meravigliosi
della corona che cingeva la testa di Humboldt”42. Ciò significava
anche che Humboldt influenzava i destini degli scienziati in tutto il
mondo. Diventare un suo protetto poteva assicurare una carriera.
Correva anche voce che controllasse l’esito delle elezioni all’Académie
des sciences a Parigi, con i candidati che si sottoponevano a
un’audizione nell’appartamento di Humboldt prima di andare
all’Accademia43. Una sua lettera di raccomandazione poteva
determinare il loro futuro e coloro che lo contrastavano arrivavano a
temere la sua lingua tagliente. Humboldt aveva studiato i serpenti
velenosi in Sud America e “da loro aveva imparato molto”44, affermò
un giovane scienziato.
Malgrado il suo abituale gusto per il dileggio, Humboldt era
sostanzialmente un uomo generoso e gli esploratori, in particolare, ne
approfittavano. Fu lui a incoraggiare la sua vecchia conoscenza e
amico di Darwin, il botanico Joseph Dalton Hooker, a intraprendere il
viaggio per l’Himalaya e fece ricorso ai suoi contatti londinesi per
convincere il governo britannico a finanziare la spedizione – oltre a
fornire a Hooker una gran quantità di istruzioni su cosa misurare,
osservare e raccogliere45. Pochi anni dopo, nel 1854, Humboldt aiutò
tre fratelli tedeschi, Hermann, Rudolph e Adolf Schlagintweit – il
“trifoglio”46, come li soprannominò – a viaggiare in India e
sull’Himalaya per studiare i campi magnetici della terra. Questi
esploratori divennero il suo piccolo esercito di ricercatori, che gli fornì
i dati di cui aveva bisogno per completare Cosmos. Pur avendo
ammesso di essere troppo vecchio per vedere di persona l’Himalaya, il
fatto di non aver scalato quelle grandi montagne rimase il maggior
cruccio della sua vita – “niente in vita mia mi ha mai procurato un
rimpianto più intenso”47.
Incoraggiò anche gli artisti a viaggiare verso gli angoli più remoti del
pianeta, aiutandoli a procurarsi finanziamenti, suggerendo percorsi e
talvolta lamentandosi se non seguivano le sue raccomandazioni48. Le
sue istruzioni erano precise e dettagliate. A un artista tedesco diede
una lunga lista di piante, chiedendogli di dipingerle49. Doveva
raffigurare “paesaggi veri”50, gli scrisse, e non scene idealizzate come
gli artisti avevano fatto nei secoli precedenti. Gli descrisse anche dove
il pittore doveva esattamente posizionarsi su una data montagna per
cogliere la vista migliore.
Scrisse centinaia di lettere di raccomandazione e ogniqualvolta una
lettera di appoggio da parte di Humboldt arrivava a destinazione
cominciava “il gioco della sua decifrazione”51. La sua calligrafia –
“tratti microscopici a forma di geroglifici”52, come lui stesso
ammetteva – era sempre stata spaventosa, ma con l’avanzare dell’età
era ulteriormente peggiorata. Le lettere passavano tra le mani degli
amici e ognuno di loro decifrava una parola, una frase o un periodo.
Anche guardando i suoi minuscoli sgorbi con una lente
d’ingrandimento, a volte ci volevano giorni per decifrare quel che
Humboldt aveva scritto.
Ancora più numerose erano le lettere di risposta che Humboldt
riceveva. A metà degli anni 1850, stimò che gli arrivassero dalle 2.500
alle 3.000 lettere l’anno53. Il suo appartamento in Oranienburger
Straße, lamentava, era diventato una sorta di mercato degli indirizzi.
Non gli dispiaceva ricevere lettere scientifiche, ma lo infastidiva quella
che chiamava “corrispondenza ridicola”54 – ad esempio levatrici o
maestri di scuola a caccia di medaglie della casa reale, o cacciatori di
autografi e persino un gruppo di donne che perseguiva la sua
“conversione” alla loro particolare confessione religiosa. Riceveva
richieste d’informazioni sui palloni aerostatici, richieste di aiuto agli
emigrati e “offerte di prendersi cura di me”.
Ma c’erano anche lettere che lo riempivano di gioia, in particolare
quelle che gli inviava il suo vecchio compagno di viaggio Aimé
Bonpland che non aveva mai fatto ritorno in Europa dalla sua partenza
per il Sud America nel 1816. Dopo quasi dieci anni di prigione in
Paraguay, Bonpland era stato improvvisamente rilasciato nel 1831, ma
aveva deciso di restare nella sua patria di adozione. Ora, all’inizio dei
suoi anni ottanta, coltivava un po’ di terra in Argentina, vicino al
confine con il Paraguay. Viveva con semplicità contadina, coltivando
alberi da frutto e partecipando ogni tanto a qualche escursione in cerca
di nuove piante55.
Nella loro corrispondenza i due anziani uomini parlavano di piante,
di politica e di amici. Humboldt gli mandava i suoi ultimi libri e
informava Bonpland sugli eventi politici in Europa56. La vita alla corte
prussiana non aveva infranto i suoi ideali liberali, assicurava a
Bonpland, credeva ancora nella libertà e nell’eguaglianza. A mano a
mano che entrambi invecchiavano, le lettere diventavano sempre più
tenere e si scambiavano l’un l’altro ricordi della loro lunga amicizia e
delle avventure condivise. Non passava settimana senza che pensasse
a Bonpland, scriveva Humboldt. Più il tempo passava, e con gli amici
comuni che uno dopo l’altro morivano, si sentivano sempre più vicini.
“Siamo sempre vivi”, scrisse Humboldt dopo che tre colleghi di scienze
– compreso il suo amico intimo Arago – erano morti nel giro di tre
mesi, “ma, ahimè, ci separa l’immensità dell’oceano”57. Anche
Bonpland aveva un grande desiderio di vederlo. Quanto si ha bisogno
di un amico intimo con cui condividere “i sentimenti segreti del nostro
cuore”58, scriveva. Nel 1854, all’età di ottantuno anni, Bonpland
ancora parlava di un viaggio in Europa per abbracciare Humboldt. Poi,
nel maggio 1858, morì in Argentina, con la natia Francia che aveva
pressoché dimenticato il suo nome.
Aimé Bonpland

Intanto Humboldt era diventato lo scienziato più famoso del suo


tempo, non solo in Europa ma nel mondo. Il suo ritratto era esposto
alla Grande Esposizione di Londra e appeso in palazzi lontani come
quello del re del Siam a Bangkok. Il suo compleanno veniva festeggiato
persino in posti remoti come Hong Kong59 e un giornalista americano
esclamò: “Chiedi a uno scolaro qualunque chi è Humboldt e lui darà la
risposta giusta”60.
Il ministro della Guerra degli Stati Uniti, John B. Floyd, mandò a
Humboldt nove mappe dell’America del Nord su cui erano indicate
tutte le città, contee, montagne e fiumi a lui intitolati. Il suo nome,
scriveva Floyd, è in tutto il paese un “nome familiare”61. In passato si
era anche proposto di rinominare “Ande di Humboldt”62 le Montagne
Rocciose e al momento diverse contee e città, un fiume, baie, laghi e
montagne negli Stati Uniti portavano il suo nome, come anche un
hotel a San Francisco e il quotidiano Humboldt Times a Eureka,
California63. Lusingato e insieme imbarazzato, Humboldt si lanciò in
arguzie quando apprese che un altro fiume gli era stato intitolato, un
fiume lungo 550 chilometri e con pochi affluenti – ma “sono pieno di
pesci”64, disse. Ed erano così tante le navi che avevano il suo nome da
indurlo a proclamarle la sua personale “potenza navale”65.
I giornali di tutto il mondo monitoravano la salute e le attività
dell’anziano scienziato. Quando corse voce che era malato e che un
anatomista di Dresda aveva chiesto di poter disporre del suo cranio,
Humboldt scherzosamente rispose: “la testa mi serve ancora per un
po’, ma poi sarei ben lieto di esserle di aiuto”66. Un’ammiratrice gli
chiese se poteva mandarle un telegramma quando era prossimo a
morire, in modo da potersi precipitare al suo letto di morte a
chiudergli gli occhi67. Con la fama arrivarono anche i pettegolezzi e
Humboldt non fu affatto contento quando giornali francesi
raccontarono che aveva avuto una storia d’amore con “l’orribile
baronessa Berzelius”68, la vedova del chimico svedese Jöns Jacob
Berzelius. Non era del tutto chiaro se a offenderlo era stata più l’idea di
aver avuto una relazione amorosa o la supposizione che avesse scelto
una persona così poco attraente.
A metà dei suoi ottant’anni, e pur sentendo che la sua “curiosità” si
era “un po’ pietrificata”69, Humboldt continuava tuttavia a
interessarsi di ogni novità. Malgrado il suo grande amore per la
natura, lo affascinavano le enormi possibilità della tecnologia.
Interrogava i visitatori sui loro viaggi sulle navi a vapore e lo stupiva
che ci volessero soltanto dieci giorni per andare dall’Europa a Boston o
a Philadelphia. Ferrovie, navi a vapore e telegrafo “restringevano lo
spazio”70, esclamava. Da qualche decennio tentava anche di
convincere i suoi amici nord e sudamericani che l’apertura di un
canale attraverso lo stretto istmo di Panama avrebbe assicurato un
importante corridoio commerciale e che era un progetto di ingegneria
fattibile71. Già nel 1804, durante la sua visita negli Stati Uniti, aveva
inviato suggerimenti a James Madison e più tardi aveva convinto
Bolívar a far perlustrare l’area da due ingegneri. Continuò a scrivere
del canale per il resto della sua vita.
L’ammirazione di Humboldt per il telegrafo, ad esempio, era così
nota che un conoscente gli mandò dall’America una piccola sezione di
cavo – “un pezzo di telegrafo transatlantico”72. Per vent’anni, dopo
aver visto negli anni 1830 il suo apparato telegrafico a Parigi, fu in
corrispondenza con l’inventore Samuel Morse. Nel 1856 Morse, che
aveva sviluppato anche l’omonimo alfabeto, scrisse a Humboldt
riferendogli dei suoi esperimenti riguardo a una linea sotterranea tra
l’Irlanda e Terranova73. L’interesse di Humboldt era prevedibile: una
linea di comunicazione tra l’Europa e l’America gli avrebbe consentito
di ricevere risposte immediate dagli scienziati sull’altra sponda
dell’Atlantico riguardo a un elemento che gli mancava per il suo
Cosmos*.
Malgrado tutta l’attenzione che gli era riservata, spesso Humboldt si
sentiva distante dai suoi contemporanei. La solitudine era stata la
fedele compagna di una vita. I vicini riferivano di vedere l’anziano
signore per strada mentre dava da mangiare ai passerotti nelle prime
ore del mattino e che una luce solitaria baluginava a notte fonda dalla
finestra del suo studio, quando lavorava al quarto volume di
Cosmos74. A Humboldt piaceva ancora camminare ogni giorno e si
poteva vederlo passeggiare lentamente con la testa china all’ombra
degli imponenti tigli nel grande viale Unter den Linden a Berlino. E
quando stava con il sovrano nel palazzo reale a Potsdam amava vagare
su per la piccola collina – “il nostro Chimborazo di Potsdam”75, come
lui la chiamava – fino all’osservatorio.
Il famoso boulevard Unter den Linden – con a destra l’università e l’Accademia delle scienze

Quando Charles Lyell visitò Berlino nel 1856, poco prima


dell’ottantasettesimo compleanno di Humboldt, il geologo britannico
riferì di averlo trovato “come lo avevo conosciuto più di trent’anni fa,
aggiornatissimo su tutti i progressi in molti campi”76. Era ancora
svelto e acuto, aveva poche rughe e una bella chioma di capelli
bianchi77. Sul suo volto non c’era “niente di flaccido”78, osservò un
altro visitatore. Benché invecchiando “si fosse smagrito”79, quando
parlava tutto il corpo si animava e gli interlocutori dimenticavano la
sua età. In lui c’era ancora “tutto il fuoco e lo spirito di un
trentenne”80, disse un americano. Era irrequieto come lo era stato da
giovane. Molti notavano che per lui era praticamente impossibile
restare seduto. Stava in piedi davanti agli scaffali a cercare un libro e
subito dopo era chino sul tavolo a srotolare disegni. Si vantava di
essere capace di restare in piedi per otto ore, se necessario. L’unica
concessione all’età era ammettere di non essere più sufficientemente
agile da salire su una scala per arrivare a prendere un libro sul ripiano
più alto dello scaffale nel suo studio.
Humboldt viveva ancora nell’appartamento in affitto in
Oranienburger Straße e le sue finanze restavano precarie81. Non
possedeva neanche una collezione completa dei suoi stessi libri, perché
costava troppo82. Viveva al di sopra delle sue possibilità e continuava
ad aiutare giovani scienziati. Il 10 del mese era abitualmente senza
soldi e a volte doveva chiedere un prestito al fedele servitore, Johann
Seifert, al servizio di Humboldt da trent’anni. Seifert lo aveva
accompagnato nel viaggio in Russia e ora accudiva con la moglie la
casa in Oranienburger Straße.
Tanti visitatori restavano sorpresi dalla semplicità della sua
sistemazione: un appartamento in un comune edificio non distante
dall’università fondata dal fratello Wilhelm. Quando i visitatori
arrivavano venivano accolti da Seifert, che li avrebbe accompagnati
nell’appartamento al secondo piano dove avrebbero percorso una
stanza piena di uccelli imbalsamati, collezioni di minerali e altri
oggetti riguardanti la storia naturale, poi avanti attraverso la biblioteca
fino allo studio, alle cui pareti erano allineati vari scaffali83. Le stanze
erano stracolme di manoscritti e disegni, strumenti scientifici e altri
animali imbalsamati, in-folio pieni di piante pressate, mappe
arrotolate, busti, ritratti e persino un adorato camaleonte. Sul
pavimento di legno era stesa una “magnifica” pelle di leopardo84 e un
pappagallo interrompeva le conversazioni quando si metteva a strillare
i più comuni ordini di Humboldt al servitore: “Altro zucchero, altro
caffè, signor Seifert!”85 Il pavimento era ingombro di casse e la
scrivania circondata da pile di libri. Su uno dei tavolini di lato nella
biblioteca c’era un mappamondo e ogniqualvolta Humboldt parlava di
una certa montagna, fiume o città si alzava e lo faceva ruotare.
Humboldt odiava il freddo e nell’appartamento teneva un caldo
tropicale a un grado pressoché intollerabile, che i visitatori
sopportavano in silenzio. Quando conversava con stranieri parlava in
diverse lingue contemporaneamente, saltando nella stessa frase dal
tedesco al francese, allo spagnolo e all’inglese. Benché stesse perdendo
l’udito non aveva perso lo spirito: prima viene la sordità, scherzava, e
poi “l’imbecillità”86. L’unica ragione della sua “celebrità”87, disse a un
conoscente, era aver vissuto fino a diventare così vecchio. Tanti
visitatori commentavano il suo umorismo fanciullesco, come la battuta
che ripeteva spesso sul camaleonte che, con la sua capacità di guardare
con un occhio verso il cielo e con l’altro in terra, era come “tanti
ecclesiastici”88.
Ai viaggiatori consigliava dove andare, quali libri leggere e chi
incontrare. Conversava di scienza, natura, arte e politica, senza
stancarsi mai di chiedere a chi veniva dagli Stati Uniti notizie sulla
schiavitù e sulla oppressione dei nativi americani. Sulla nazione
americana c’era “una macchia”89, diceva*. S’infuriò moltissimo
quando un sudista filo-schiavista nel 1856 pubblicò l’edizione inglese
di un suo libro, Political Essay on the Island of Cuba, tagliando tutte
le critiche alla schiavitù. Oltraggiato, Humboldt emise un comunicato
stampa che fu ripreso dai giornali in tutti gli Stati Uniti in cui
denunciava l’edizione e dichiarava che le parti tagliate erano le più
importanti del suo lavoro90.
Molti visitatori restavano impressionati da quanto si fosse
mantenuto sveglio l’anziano signore e uno di loro ebbe a rievocare il
“flusso ininterrotto e straordinario di conoscenze”91 che sgorgava da
Humboldt. Ma la grande attenzione di cui era oggetto drenava le sue
forze e non era di aiuto il fatto che ora riceveva fino a 4.000 lettere
l’anno e ne scriveva 2.000, sentendosi “implacabilmente perseguitato
dalla mia stessa corrispondenza”92. Per fortuna, nei decenni
precedenti aveva goduto di una costituzione particolarmente robusta,
soffrendo soltanto di occasionali disturbi di stomaco, raffreddori e
fastidiose eruzioni cutanee pruriginose93.
All’inizio di settembre del 1856, pochi giorni prima del suo
ottantasettesimo compleanno, disse a un amico che si stava
indebolendo94. Due mesi dopo, durante una visita a una mostra a
Potsdam, rischiò di restare gravemente ferito quando un quadro si
staccò dalla parete e gli si schiantò addosso – ma fortunatamente la
tuba rigida assorbì gran parte del colpo95. Poi, la notte del 25 febbraio
1857, il suo servitore, Johann Seifert, sentì un rumore, si alzò e trovò
Humboldt steso a terra. Chiamò il medico che accorse
immediatamente: Humboldt aveva avuto un leggero colpo apoplettico
e il dottore dichiarò che non c’erano molte speranze di ripresa. Nel
frattempo il paziente registrava tutti i sintomi con l’abituale
meticolosità: una temporanea paralisi, polso regolare, nessun
offuscamento della vista e così via. Per qualche settimana rimase
confinato a letto – una cosa che detestava. Ed essendo “tanto
disoccupato nel mio letto”, scrisse in marzo, crescevano la “malinconia
e la scontentezza verso il mondo”96.
Con grande sorpresa di tutti, Humboldt migliorò, anche se non
recuperò mai a pieno tutte le sue energie. La “macchina”, disse, era
“arrugginita, alla mia età”97. Gli amici osservavano che il passo si era
fatto più incerto, ma per orgoglio e vanità si rifiutava di usare un
bastone98. Nel luglio 1857 Federico Guglielmo IV ebbe un colpo che lo
lasciò parzialmente paralizzato e incapace di governare – il fratello
Wilhelm divenne reggente – e con ciò Humboldt poté finalmente
ritirarsi dalla posizione ufficiale che lo impegnava a corte. Continuò ad
andare a trovare Federico Guglielmo IV, ma senza che da lui ci si
aspettasse che trascorresse lì tutto il suo tempo.
Humboldt nel 1857
In dicembre, il quarto volume di Cosmos, incentrato sul tema della
terra e sottotitolato, in maniera alquanto arzigogolata, “Risultati
particolari delle osservazioni nel campo dei fenomeni tellurici”99, uscì
finalmente dal torchio. Era un denso libro scientifico che poco
somigliava alle precedenti pubblicazioni di Humboldt. Come al solito
fu stampato in 15.000 copie, ma le vendite non furono quelle dei primi
due volumi, rivolti a un pubblico di lettori più generico100.
Ciononostante, Humboldt si sentì in obbligo di aggiungere un altro
volume – un seguito, come spiegò, con ulteriori spiegazioni sulla terra
e la distribuzione delle piante101. La scrittura del quinto volume era
una corsa contro la morte, come lui stesso ammetteva, mentre
tempestava i bibliotecari della biblioteca reale con continue richieste
di libri. Ma era un po’ troppo. Con la memoria a breve che andava
declinando, si accorse di essere costantemente alla ricerca di qualcosa
nei suoi appunti o di non ricordarsi dove aveva messo certi libri.
In quello stesso anno, quando due dei tre fratelli Schlagintweit
tornarono dalla spedizione sull’Himalaya, rimasero fortemente colpiti
vedendo quanto Humboldt fosse invecchiato102. Non vedevano l’ora
di raccontargli che avevano verificato la sua controversa ipotesi sulle
differenti altitudini della linea delle nevi perenni tra i versanti
settentrionale e meridionale dell’Himalaya, ma, con loro grande
sorpresa, Humboldt affermò di non aver mai sostenuto una cosa del
genere. Per dimostrare che lui aveva effettivamente formulato quella
teoria, i fratelli andarono nel suo studio e tirarono fuori dagli scaffali il
saggio che Humboldt aveva scritto su quella materia nel 1820103. Con
le lacrime agli occhi constatarono che, molto semplicemente, non se lo
ricordava.
Al tempo stesso, Humboldt continuava a essere “tormentato in
maniera spietata”104 dalla quantità di lettere che riceveva, ora arrivate
a quasi 5.000 l’anno105; ma rifiutava ogni aiuto. Non gli piaceva
ricorrere a segretari privati, perché le lettere dettate, affermava, erano
troppo “formali” e sembravano “lettere d’affari”106. Nel dicembre
1858 fu di nuovo costretto a letto – questa volta con l’influenza e si
sentiva malato e sventurato.
Nel febbraio 1859 si era ripreso abbastanza da unirsi a un gruppo di
settanta americani a Berlino per celebrare la nascita di George
Washington107. Era ancora debole, ma era determinato a portare a
termine il quinto volume di Cosmos. Alla fine, il 15 marzo 1859, sei
mesi prima del suo novantesimo compleanno, pubblicò un annuncio
sui giornali: “Lavorando in condizioni di estrema depressione d’animo
a causa di una mole di corrispondenza che aumenta ogni giorno”,
chiedeva al mondo “di provare a non occuparsi troppo di me e di ciò
convincere le persone in entrambi i continenti”108. Supplicava che gli
si consentisse di “godere di un po’ di tranquillità e avere tempo per
lavorare”. Un mese dopo, il 19 aprile, spedì all’editore il quinto volume
di Cosmos109. Dopo due giorni ebbe un collasso.
Quando fu chiaro che le sue condizioni non miglioravano, i giornali
a Berlino cominciarono a pubblicare bollettini medici quotidiani110: il
2 maggio riferivano che Humboldt era “molto debole”, il giorno
successivo che le sue condizioni erano “molto precarie”, poi “critiche”
con violenti accessi di tosse e difficoltà respiratorie e il 5 maggio che
era “sempre più debole”. La mattina del 6 maggio 1859 fu annunciato
che le forze del paziente si facevano sempre più flebili “di ora in ora”.
Quel pomeriggio, alle 14.30, Humboldt aprì ancora una volta gli occhi,
mentre il sole accarezzava le pareti della sua camera da letto e
pronunciò le ultime parole: “Come sono belli questi raggi di sole!
Sembra che chiamino la Terra a volare in Cielo!”111 Quando morì
aveva ottantanove anni.
Una violenta emozione si propagò in tutto il mondo, dalle capitali
europee agli Stati Uniti, da Panama City e Lima a piccole città in
Sudafrica112. “Il grande, buono e venerato Humboldt non è più!”113,
scrisse l’ambasciatore degli Stati Uniti in Prussia in un dispaccio al
Dipartimento di Stato a Washington, che impiegò oltre dieci giorni ad
arrivare in America. Un telegramma da Berlino raggiunse le redazioni
dei giornali dopo poche ore dalla morte, annunciando che “Berlino è
sprofondata nel dolore”114. Lo stesso giorno, ma ignaro degli eventi in
Germania, Charles Darwin scriveva dalla sua abitazione nel Kent al
suo editore londinese informandolo che si accingeva a spedirgli entro
breve tempo i primi sei capitoli di Origin of Species115. In una perfetta
sincronizzazione in ordine inverso, mentre Humboldt andava
lentamente declinando Darwin lavorava con crescente alacrità,
ultimando il manoscritto del libro che avrebbe scosso il mondo
scientifico.
Due giorni dopo la sua morte, i giornali inglesi pubblicarono lunghi
necrologi e servizi su Humboldt. A Londra, un lungo articolo su The
Times apriva con un semplice “Alexander von Humboldt è morto”116.
Lo stesso giorno, mentre gli inglesi prendevano in mano i giornali e
leggevano della morte di Humboldt, centinaia di persone a New York
facevano la coda per vedere il magnifico dipinto del giovane pittore
americano Frederic Edwin Church da lui ispirato: The Heart of the
Andes117.
Il dipinto era così sensazionale che lunghe file di visitatori
impazienti si snodavano attorno all’isolato aspettando ore per pagare
il biglietto d’ingresso di 25 cent e vedere la tela di un metro e mezzo
per tre, che raffigurava le Ande in tutto il loro splendore. Al centro del
dipinto le rapide del fiume erano così realistiche che gli spettatori
potevano quasi sentire gli spruzzi dell’acqua. Alberi, foglie e fiori erano
resi con tale accuratezza che i botanici riuscivano a identificarli con
precisione, mentre sullo sfondo si ergevano maestose le montagne
incappucciate di neve. Più di ogni altro pittore, Church aveva risposto
all’appello di Humboldt a unire arte e scienza e lo ammirava fino al
punto di aver seguito a piedi e a dorso di mulo la strada percorsa da
Humboldt attraverso il Sud America118.
The Heart of the Andes combinava la bellezza con i più meticolosi
dettagli geologici, botanici e scientifici: sulla tela era scritto a grandi
lettere il concetto humboldtiano di interconnessione. Il dipinto
trasportava l’osservatore nella natura selvaggia del Sud America.
Church, come affermò il New York Times, era “l’Humboldt del nuovo
mondo in veste di artista”119. Il 9 maggio Church, ignaro della morte
avvenuta tre giorni prima, scrisse a un amico di aver pianificato di
spedire il dipinto a Berlino affinché l’anziano scienziato potesse vedere
“lo scenario che aveva deliziato la sua vista sessant’anni prima”120.
La tomba della famiglia Humboldt a Schloss Tegel

La mattina dopo in Germania decine di migliaia di persone vestite a


lutto seguirono il funerale di Stato di Humboldt, sfilando nel corteo
funebre che dal suo appartamento raggiunse la Cattedrale di Berlino
percorrendo la Unter den Linden121. Bandiere nere fluttuavano nel
vento e la gente faceva ala ai lati delle strade. I cavalli del re trainavano
il carro funebre con la semplice bara in legno di quercia adornata con
due corone e scortata da studenti che portavano foglie di palma. Era il
più grandioso funerale privato che i cittadini di Berlino avessero mai
visto. C’erano professori dell’università e membri dell’Accademia delle
scienze, soldati, diplomatici e politici. C’erano artigiani, commercianti,
negozianti, artisti, poeti, attori e scrittori. Il carro funebre avanzava
lentamente, seguito dai parenti di Humboldt con le loro famiglie e dal
fedele servitore Johann Seifert. Il corteo si allungava per un
chilometro e mezzo. Per le strade risuonavano le campane e la famiglia
reale aspettava nella Cattedrale per l’estremo saluto. La notte stessa la
bara fu portata a Tegel, dove Humboldt fu seppellito nel cimitero di
famiglia.
Quando il piroscafo che portava le notizie sulla morte di Humboldt
raggiunse gli Stati Uniti a metà maggio122, pensatori, artisti e
scienziati ne furono molto addolorati. Era come “aver perso un
amico”123, disse Frederic Edwin Church. Uno dei primi protetti di
Humboldt, lo scienziato Louis Agassiz, tenne una commemorazione
all’Accademia delle Arti e delle Scienze di Boston, nella quale affermò
che la mente di ogni bambino in tutte le scuole d’America era “nutrita
dal faticoso lavoro del cervello di Humboldt”124. Il 19 maggio 1859 in
tutta l’America i giornali riferivano della morte dell’uomo che molti
definirono come “il più grande che fosse mai nato”125. Erano stati
fortunati ad aver vissuto in quella che ora veniva chiamata “l’età di
Humboldt”126.

Per qualche decennio, la fama di Humboldt continuò a crescere. Il 14


settembre 1869 decine di migliaia di persone celebrarono il centenario
della sua nascita con festeggiamenti in tutto il globo – a New York e a
Berlino, a Città del Messico e ad Adelaide e in infinite altre città. Più di
vent’anni dopo la sua morte, Darwin lo chiamava ancora “il più grande
viaggiatore-scienziato mai esistito”127. Non cessò mai di consultarne i
libri e, nel 1881, all’età di settantadue anni, prese ancora una volta in
mano il terzo volume di Personal Narrative. Quando finì di leggerlo,
scrisse sulla quarta di copertina “terminato il 3 aprile 1882”128. Sedici
giorni dopo, il 19 aprile, anch’egli morì.
Darwin non era il solo ad ammirare le opere di Humboldt.
Humboldt aveva sparso i semi129 dai quali nacquero nuovi scienziati,
affermò uno scienziato tedesco. La sua concezione della natura
penetrò le diverse discipline – le arti come la letteratura130. Le sue
idee filtrarono nelle poesie di Walt Whitman e nei romanzi di Jules
Verne. Nel suo libro di viaggio Beyond the Mexique Bay, del 1934,
Aldous Huxley si rifaceva a Political Essay on the Kingdom of New
Spain di Humboldt e, a metà del ventesimo secolo, il suo nome
apparve nelle poesie di Ezra Pound e di Erich Fried. Centotrenta anni
dopo la morte di Humboldt, il narratore colombiano Gabriel García
Márquez lo fece rivivere ne Il generale nel suo labirinto, racconto
romanzato sugli ultimi giorni di vita di Simón Bolívar.
Per tanti Humboldt fu semplicemente, come aveva detto il re di
Prussia Federico Guglielmo IV, “il più grande di tutti gli uomini dal
Diluvio universale”131.
1. Varnhagen Tagebücher, 3 marzo 1848, Varnhagen 1862, vol. 4, p. 259.
2. Varnhagen, 5 aprile 1841, Beck 1959, p. 177.
3. Varnhagen, 18 marzo 1843, AH Varnhagen Lettere 1860, p. 97.
4. Varnhagen, 1 aprile 1844, ivi, p. 106; vedi anche AH a Gauß, 14 giugno 1844, AH Gauß
Lettere 1977, p. 87; AH a Bunsen, 16 dicembre 1846, AH Bunsen Lettere 2006, p. 90.
5. Re Federico Guglielmo IV, discorso al Vereinigte Landtag, 11 aprile 1847, Mommsen 2000,
pp. 82 sgg.; per AH che riferisce sul discorso del re, AH a Bunsen, 26 aprile 1847, AH Bunsen
Lettere 2006, p. 96.
6. Varnhagen Tagebücher, 18 marzo 1848, ivi, pp. 276 sgg.
7. Varnhagen Tagebücher, 19 marzo 1848, ivi, p. 313.
8. AH a Friedrich Althaus, 4 settembre 1848, AH Althaus Briefwechsel 1861, p. 13; AH a
Bunsen, 22 settembre 1848, AH Bunsen Lettere 2006, p. 113.
9. Varnhagen Tagebücher, 19 marzo 1848, Varnhagen 1862, vol. 4, pp. 315-31.
10. Varnhagen Tagebücher, 21 marzo 1848, ivi, p. 334.
11. Ivi, p. 336; per AH al corteo funebre, Friedrich Wilhelm Bruhns 1873, vol. 2, p. 341 e AH
Federico Guglielmo IV Lettere 2013, p. 23.
12. AH a Johann Georg von Cotta, 20 settembre 1847, AH Cotta Lettere 2009, p. 318.
13. Friedrich Schleiermacher, 5 settembre 1832, Beck 1959, p. 129; Bruhns 1873, vol. 2, p. 102;
Guglielmo di Prussia alla sorella Charlotte, 10 febbraio 1831, Leitner 2008, p. 227.
14. Charles Lyell a Charles Lyell sen., 8 luglio 1823, Lyell 1881, vol. 1, p. 128.
15. AH a Hedemann, 17 agosto 1857, Biermann e Schwarz 2001b, senza numeri di pagina.
16. AH a Varnhagen, 24 giugno 1842, Assing 1860, p. 66.
17. Max Ring, 1841 or 1853, Beck 1959, p. 183.
18. Krätz 1999b, p. 33; vedi anche AH a Friedrich Althaus, 23 dicembre 1849, AH Althaus
Briefwechsel 1861, p. 29.
19. AH a Friedrich Althaus, 5 agosto 1852, AH Althaus Briefwechsel 1861, p. 96; vedi anche
AH a Varnhagen, 26 dicembre 1845, Beck 1959, p. 215.
20. AH a Varnhagen, 29 maggio 1848, Beck 1959, p. 238.
21. AH a Maximillian II, 3 novembre 1848, AH Federico Guglielmo IV Lettere 2013, p. 403.
22. AH a Johann Georg von Cotta, 16 settembre 1848, AH Cotta Lettere 2009, p. 337.
23. Re Federico Guglielmo IV a Joseph von Radowitz, 23 dicembre 1848, Lautemann e
Schlenke 1980, pp. 221 sgg.
24. Re Federico Guglielmo IV a re Ernst August von Hannover, aprile 1849, Jessen 1968, pp.
310 sgg.
25. AH a Johann Georg Cotta, 7 aprile 1849 e 21 aprile 1849, AH Cotta Lettere 2009, p. 367;
Leitner 2008, p. 232; AH a Friedrich Althaus, 23 dicembre 1849, AH Althaus Briefwechsel
1861, p. 28; AH a Gauß, 22 febbraio 1851, AH Gauß Lettere 1977, p. 100; AH a Bunsen, 27
marzo 1852, AH Bunsen Lettere 2006, p. 146.
26. AH a Oscar Lieber, 1849, AH Lettere USA 2004, p. 265.
27. AH a Johann Flügel, 19 giugno 1850; per AH e la guerra messicana, vedi John Lloyd
Stephens, 2 luglio 1847 e AH a Robert Walsh, 8 dicembre 1847, ivi, pp. 252, 268, 529-30.
28. AH a Arago, 9 novembre 1849, citato in AH Geography 2009, p. xi.
29. AH a Heinrich Berghaus, agosto 1848, AH Spiker Lettere 2007, p. 25.
30. Friedrich Daniel Bassermann su AH, 14 novembre 1848, Beck 1969, p. 264.
31. AH Cosmos 1845-52, vol. 3, p. i; AH Kosmos 1845-50, vol. 3, p. 3.
32. AH a Bunsen, 27 marzo 1852, AH Bunsen Lettere 2006, p. 146.
33. AH a du Bois-Reymond, 21 marzo 1852, AH du Bois-Reymond Lettere 1997, p. 124; vedi
anche AH a Johann Georg von Cotta, 3 febbraio 1853, AH Cotta Lettere 2009, p. 497.
34. AH a a Johann Georg von Cotta, 4 settembre 1852, AH Cotta Lettere 2009, p. 484.
35. AH a Johann Georg von Cotta, 16 settembre e 2 novembre 1848; e Johann Georg von Cotta
a AH, 21 febbraio 1849, ivi, pp. 338, 345, 355.
36. AH Cosmos 1845-52, vol. 3, p. 8; AH Kosmos 1845-50, vol. 3, p. 9; vedi anche Fiedler e
Leitner 2000, p. 391.
37. Daniel O’Leary, 1853, Beck 1969, p. 265; AH a O’Leary, aprile 1853, MSS141, Biblioteca
Luis Ángel Arango, Bogotá.
38. Bayard Taylor, 1856, Taylor 1860, p. 455.
39. (nota a piè di pagina) Ivi, p. 445; Rossiter W. Raymond, A Visit to Humboldt, gennaio
1859, AH Lettere USA 2004, p. 572.
40. Carl Vogt, gennaio 1845, Beck 1959, p. 201; vedi anche AH a Dirichlet, 27 luglio 1852, AH
Dirichlet Lettere 1982, p. 104; Biermann e Schwarz 1999a, pp. 189, 196.
41. AH a Dirichlet, 24 luglio 1845, AH Dirichlet Lettere 1982, p. 67.
42. Carl Friedrich Gauß, Terra 1955, p. 336.
43. Carl Vogt, gennaio 1845, Beck 1959, pp. 202 sgg.
44. Ivi, p. 205.
45. AH a Joseph Dalton Hooker, 30 settembre 1847, ristampato in London Journal for
Botany, vol. 6, 1847, pp. 604-7; Hooker 1918, vol. 1, p. 218.
46. AH Federico Guglielmo IV Lettere 2013, p. 72; vedi anche AH a Bunsen, 20 febbraio 1854,
AH Bunsen Lettere 2006, p. 175; Finkelstein 2000, pp. 187 sgg.; AH Federico Guglielmo IV
Lettere 2013, pp. 72-3.
47. AH Central-Asien 1844, vol. 1, p. 611.
48. Per Johann Moritz Rugendas, Eduard Hildebrandt e Ferdinand Bellermann, Werner 2013,
pp. 101 sgg., 121, 250 sgg.
49. Le istruzioni di AH a Johann Moritz Rugendas, 1830, in una lettera a Karl Schinkel, ivi, p.
102.
50. Ibid.
51. Carl Vogt, gennaio 1845, Beck 1959, p. 201.
52. AH a Heinrich Christian Schumacher, 2 marzo 1836, AH Schumacher Lettere 1979, p. 52.
53. AH a Edward Young, 3 giugno 1855, AH Lettere USA 2004, p. 347; AH a Johann Georg
von Cotta, 5 febbraio 1849 e 2 maggio 1855, AH Cotta Lettere 2009, pp. 349, 558.
54. AH a du Bois-Reymond, 18 gennaio 1850, AH du Bois-Reymond Lettere 1997, p. 101;
Bayard Taylor, 1856, Taylor 1860, p. 471; Varnhagen Tagebücher, 24 aprile 1858, AH
Varnhagen Lettere 1860, p. 311.
55. Schneppen 2002, pp. 21 sgg.; Bonpland a AH, 7 giugno 1857, AH Bonpland Lettere 2004,
p. 136.
56. AH a Bonpland, 1843; Bonpland a AH, 25 dicembre 1853 e 27 ottobre 1854, ivi, pp. , 114-
15, 120.
57. AH a Bonpland, 4 ottobre 1853; vedi anche AH a Bonpland, 1843, ivi, pp. 108-10, 113.
58. Bonpland a AH, 2 settembre 1855; vedi anche Bonpland a AH, 2 ottobre 1854, ivi, pp. 131,
133.
59. Friedrich Droege a William Henry Fox Talbot, 6 maggio 1853, BL Add MS 88942/2/27;
Bruhns 1873, vol. 2, p. 391.
60. New Englander, maggio 1860, citato in Sachs 2006, p. 96.
61. John B. Floyd, 1858, Terra 1955, p. 355.
62. Francis Lieber alla famiglia, 1 novembre 1829, Lieber 1882, p. 87.
63. Oppitz 1969, pp. 277-429; AH a Heinrich Spiker, 27 giugno 1855, AH Spiker Lettere 2007,
p. 236; AH a Varnhagen, 13 gennaio 1856, AH Varnhagen Lettere 1860, p. 243.
64. Theodore S. Fay a R.C. Waterston, 26 agosto 1869, Beck 1959, p. 194.
65. AH a Ludwig von Jacobs, 21 ottobre 1852, Werner 2004, p. 219.
66. AH a Christian Daniel Rauch, Terra 1955, p. 333.
67. AH a Hermann, Adolph e Robert Schlagintweit, Berlino, maggio 1849, Beck 1959, p. 265.
68. Era Elizabeth Berzelius, vedova del chimico svedese Jöns Jakob Berzelius, AH a Dirchlet, 7
dicembre 1851, AH Dirichlet Lettere 1982, p. 99.
69. AH a Henriette Mendelssohn, 1850, AH Mendelssohn Lettere 2011, p. 193.
70. AH a Friedrich Althaus, 4 settembre 1848, AH Althaus Briefwechsel 1861, p. 12; vedi anche
John Lloyd Stephens, 2 luglio 1847, AH Lettere USA 2004, p. 528.
71. AH a James Madison, 27 giugno 1804, JM SS Papers, vol. 7, p. 378; AH a Frederick Kelley,
27 gennaio 1856 e “Baron Humboldt’s last opinion on the Passage of the Isthmus of Panama”,
2 settembre 1850, AH Lettere USA 2004, pp. 544-6; 372-3; AH Aspects 1849 vol. 2, pp. 320
sgg.; AH Views 2014, p. 292; AH Ansichten 1849, vol. 2, pp. 390 sgg.
72. Francis Lieber, 7 aprile 1857, Lieber 1882, p. 294.
73. Samuel Morse a AH, 7 ottobre 1856, AH Lettere USA 2004, pp. 406-7.
74. Engelmann 1969, p. 8; Bayard Taylor, 1856, Taylor 1860, p. 470.
75. Heinrich Berghaus, 1850, Beck 1959, p. 296.
76. Charles Lyell alla sorella Caroline, 28 agosto 1856, Lyell 1881, vol. 2, pp. 224-5.
77. Bayard Taylor, 1856, Taylor 1860, p. 458; AH a Friedrich Althaus, 5 agosto 1852, AH
Althaus Briefwechsel 1861, p. 96; AH a Arago, 11 febbraio 1850, AH Arago Lettere 1907, p.
310.
78. “A Visit to Humboldt by a correspondent of the Commercial Advertiser”, 1 gennaio 1850,
AH Lettere USA 2004, p. 540.
79. Ivi, p. 539.
80. Ivi, p. 540.
81. Eichhorn 1959, pp. 186-207; Biermann e Schwarz 2000, pp. 9-12; AH a Johann Georg von
Cotta, 10 agosto 1848, AH Cotta Lettere 2009, p. 334.
82. AH a Federico Guglielmo IV, 22 marzo 1841, AH Federico Guglielmo IV Lettere 2013, p.
200.
83. Bayard Taylor, 1856, Taylor 1860, pp. 456 sgg.; “A Visit to Humboldt by journalist of
Commercial Advertiser”, 1 gennaio 1850 e Rossiter W. Raymond, A Visit to Humboldt,
gennaio 1859, AH Lettere USA 2004, pp. 539 sgg., 572 sgg.; Robert Avé-Lallement, 1856, Beck
1959, p. 377; Varnhagen Tagebücher, 22 novembre 1856, AH Varnhagen Lettere 1860, p. 264;
vedi anche gli acquerelli di Eduard Hildebrandt dello studio e della biblioteca di Humboldt,
1856.
84. Rossiter W. Raymond, A Visit to Humboldt, gennaio 1859, AH Lettere USA 2004, p. 572.
85. Biermann 1990, p. 57.
86. Wilhelm Förster su di una visita a AH, 1855, Beck 1969, p. 267.
87. AH a George Ticknor, 9 maggio 1858, AH Lettere USA 2004, p. 444.
88. Varnhagen Tagebücher, 22 novembre 1856, AH Varnhagen Lettere 1860, p. 264; Theodore
S. Fay a R.C. Waterston, 26 agosto 1869, Beck 1959, p. 194.
89. AH a Johann Flügel, 22 dicembre 1849; vedi anche 16 giugno 1850, 20 giugno 1854; e AH
a Benjamin Silliman, 5 agosto 1851; Cornelius Felton, luglio 1853; AH a Johann Flügel, 22
dicembre 1849, 16 giugno 1850, 20 giugno 1854, AH Lettere USA 2004, pp. 262, 268, 291,
333, 552.
90. Berlinische Nachrichten von Staats- und gelehrten Sachen, 25 luglio 1856; vedi anche
Friedrich von Gerolt a AH, 25 agosto 1856, AH Lettere USA 2004, p. 388; Walls 2009, pp.
201-9.
91. Bayard Taylor, 1856, Taylor 1860, p. 461.
92. AH a George Ticknor, 9 maggio 1858; per il numero delle lettere vedi AH a Agassiz, 1
settembre 1856, AH Lettere USA 2004, pp. 393, 444.
93. AH a Johann Georg von Cotta, 25 agosto e 25 settembre 1849, AH Cotta Lettere 2009, pp.
398, 416; AH a Bunsen, 12 dicembre 1856, AH Bunsen Lettere 2006, p. 199.
84. AH a Agassiz, 1 settembre 1856, AH Lettere USA 2004, p. 393.
95. Biermann e Schwarz 1997, p. 80.
96. AH a Varnhagen, 19 marzo 1857, Varnhagen Tagebücher, 27 febbraio 1857, AH Varnhagen
Lettere 1860, pp. 279, 281.
97. Bayard Taylor, ottobre 1857, Taylor 1860, p. 467.
98. Eduard Buschmann a Johann Georg von Cotta, 29 dicembre 1857, AH Cotta Lettere 2009,
p. 601.
99. AH Kosmos 1858, vol. 4; AH scrisse il quarto volume in due parti – le prime 244 pagine
erano state stampate nel 1854 ma la pubblicazione ufficiale del volume completo avvenne solo
nel 1857, Fiedler e Leitner 2000, p. 391.
100. Nel 1850 la traduzione autorizzata del primo e secondo volume di Cosmos era arrivata
alla settima e all’ottava edizione, mentre i volumi seguenti non andarono mai oltre la prima
edizione, Fiedler e Leitner 2000, pp. 409-10.
101. AH Kosmos 1862, vol. 5; Werner 2004, pp. 182 sgg.
102. Hermann e Robert Schlagintweit, Berlino, giugno 1857, Beck 1959, pp. 267-68.
103. Era il saggio del 1820 Sur la inférieure des neiges perpétuelles dans les montagnes de
l’Himalaya et les régions équatoriales.
104. AH a Julius Fröbel, 11 gennaio 1858, AH Lettere USA 2004, p. 435.
105. Varnhagen, 18 febbraio 1858, AH Varnhagen Lettere 1860, p. 307.
106. AH a Friedrich Althaus, 30 luglio 1856, AH Althaus Briefwechsel 1861, p. 137; AH a
Edward Young, 3 giugno 1855, AH Lettere USA 2004, p. 347.
107. Joseph Albert Wright allo State Department, 7 maggio 1859, Hamel et al. 2003, p. 249;
Bayard Taylor, 1859, Taylor 1860, p. 473.
108. L’annuncio di Humboldt, 15 marzo 1859, Irving 1864, vol. 4, p. 256.
109. AH a Johann Georg von Cotta, 19 aprile 1859, AH Cotta Lettere 2009, p. 41; Fiedler e
Leitner 2000, p. 391.
110. Bayard Taylor, maggio 1859, Taylor 1860, pp. 477-8.
111. AH a Hedemann e Gabriele von Bülow, 6 maggio 1859; Anna von Sydow, maggio 1859,
Beck 1959, pp. 424, 426; Bayard Taylor, maggio 1859, Taylor 1860, p. 479.
112. Per l’Europa e gli Stati Uniti vedi le note successive; per il resto del mondo, per esempio:
Estrella de Panama, 15 giugno 1859; El Comercio, Lima, 28 giugno 1859; Graham Town
Journal, South Africa, 23 luglio 1859.
113. Joseph Albert Wright allo US State Department, 7 maggio 1859, Hamel et al. 2003, p.
248.
114. Morning Post, 9 maggio 1859.
115. Darwin a John Murray, 6 maggio 1859, Darwin Correspondence, vol. 7, p. 295.
116. The Times, 9 maggio 1859; vedi anche Morning Post, 9 maggio 1859; Daily News, 9
maggio 1859; Standard, 9 maggio 1859.
117. Kelly 1989, pp. 48 sgg.; Avery 1993, pp. 12 sgg., 17, 26, 33-6; Sachs 2006, pp. 99 sgg.;
Baron 2005, pp. 11 sgg.
118. Baron 2005, pp. 11 sgg.; Avery 1993, pp. 17, 26.
119. New York Times, 17 marzo 1863; era riferito al dipinto di Church Cotopaxi.
120. Frederic Edwin Church a Bayard Taylor, 9 maggio 1859, Gould 1989, p. 95.
121. Biermann e Schwarz 1999a, p. 196; Biermann e Schwarz 1999b, p. 471; Bayard Taylor,
maggio 1859, Taylor 1860, p. 479.
122. North American and United States Gazette, Daily Cleveland Herald, Boston Daily
Advertiser, Milwaukee Daily Sentinel, New York Times, tutti il 19 maggio 1859.
123. Church a Bayard Taylor, 13 giugno 1859, in Avery 1993, p. 39.
124. Louis Agassiz, Boston Daily Advertiser, 26 maggio 1859.
125. Daily Cleveland Herald, 19 maggio 1859; vedi anche Boston Daily Advertiser, 19 maggio
1859; Milwaukee Daily Sentinel, 19 maggio 1859; North American and United States Gazette,
19 maggio 1859.
126. Boston Daily Advertiser, 19 maggio 1859.
127. Darwin a Joseph Hooker, 6 agosto 1881, Darwin 1911, vol. 2, p. 403.
128. La copia di Darwin della AH Personal Narrative 1814-29, vol. 3, risguardi, CUL.
129. Du Bois, 3 agosto 1883, AH du Bois-Reymond Lettere 1997, p. 201.
130. Per Walt Whitman e AH, vedi Walls 2009, pp. 279-83 e Clark e Lubrich 2012, p. 20; per
Verne e AH, vedi Schifko 2010; per altri vedi Clark e Lubrich 2012, pp. 4-5, 246, 264-5, 282-3.
131. Federico Guglielmo IV citato in Bayard Taylor 1860, p. xi.
*. L’origine dei colori della Germania – nero, rosso e oro – non è del tutto chiara, ma un
gruppo di soldati prussiani dotati di animo particolarmente indipendente, che avevano
combattuto contro l’esercito di Napoleone tra il 1813 e il 1815, aveva indossato uniformi nere
con risvolti rossi e bottoni dorati di ottone. Più tardi, quando le confraternite studentesche
radicali furono messe al bando in molti Stati tedeschi, quei colori divennero simbolo della
lotta per l’unità e la libertà. Nel 1848 i rivoluzionari ne fecero ampio uso e, in seguito, i colori
sarebbero stati adottati per la bandiera della Germania.
*. A Humboldt gli americani piacevano e li accoglieva sempre calorosamente. “Essere
americano era un passaporto pressoché sicuro per accedere alla sua presenza”, ricordò un
visitatore. A Berlino girava una battuta secondo cui Humboldt avrebbe preferito ricevere un
americano piuttosto che un principe.
*. Soltanto due anni dopo, nell’agosto 1858, veniva scambiato il primo messaggio telegrafico
tra l’Inghilterra e gli Stati Uniti attraverso il primo cavo transatlantico. Ma il cavo nel giro di
un mese smise di funzionare e si dovette aspettare fino al 1866 per posare una nuova linea
operativa.
*. Humboldt non poteva fare niente riguardo agli Stati Uniti, ma riuscì a far passare una legge
che liberava gli schiavi nel momento in cui mettevano piede in terra prussiana. Fu una delle
sue poche conquiste politiche. Il disegno di legge fu completato nel novembre 1856 e divenne
legge nel marzo 1857.
Capitolo ventunesimo

Uomo e natura

George Perkins Marsh e Humboldt

Proprio mentre arrivavano negli Stati Uniti le notizie che riferivano


della morte di Humboldt, George Perkins Marsh lasciava New York
per fare ritorno nella sua casa a Burlington, nel Vermont1817. Aveva
ottantotto anni. Perse così le commemorazioni in onore di Humboldt
che si tennero due settimane dopo, il 2 giugno 1859, alla American
Geographical and Statistical Society a Manhattan, di cui era
membro1818. Seppellito nel lavoro a Burlington, Marsh era diventato
il “gufo più noioso dell’intera cristianità”1819, come scrisse a un
amico. Era completamente al verde. Nel tentativo di rimpinguare le
sue finanze, lavorava a più progetti contemporaneamente1820. Stava
scrivendo i testi di una serie di conferenze sulla lingua inglese che
aveva tenuto nei mesi precedenti al Columbia College a New York,
compilando un rapporto sulle compagnie ferroviarie nel Vermont e
componendo un paio di poesie per un’antologia, oltre a scrivere
articoli per un quotidiano1821.
Era tornato a Burlington da New York, diceva, “come un detenuto
evaso torna nella sua cella”1822. Curvo su pile di carte, libri e
manoscritti, raramente usciva dal suo studio e non parlava quasi mai
con nessuno. Scriveva e scriveva, disse a un amico, “con tutte le mie
forze”1823 e avendo la sola compagnia dei suoi libri. La sua biblioteca
conteneva 5.000 volumi provenienti da tutto il mondo, con un’intera
sezione dedicata a Humboldt1824. Era convinto che “per allargare i
confini della conoscenza” i tedeschi avessero “fatto più di tutti i
lavoratori del restante mondo cristiano messi insieme”1825. Riteneva i
libri tedeschi “infinitamente superiori a tutti gli altri”1826 e il
massimo della gloria spettava alle pubblicazioni di Humboldt.
L’entusiasmo che provava nei suoi confronti era tale da renderlo felice
quando una cognata sposò un tedesco, il medico e botanico Frederick
Wislizenus1827; tutto ciò per il semplice motivo che Wislizenus era
stato citato nell’ultima edizione dell’opera di Humboldt Quadri della
natura – le sue qualità di marito erano verosimilmente assai meno
interessanti.
George Perkins Marsh

Marsh leggeva e parlava venti lingue tra cui tedesco, spagnolo e


islandese1828. Imparava le lingue con la stessa facilità con cui altri
leggerebbero un libro. “Un danese o tedesco che si metta a studiarlo
può imparare l’olandese in un mese”1829, affermava. La sua lingua
preferita era il tedesco e amava infiorettare le lettere con parole
tedesche, usando per esempio “Blätter” invece di “giornali” o
“Klapperschlangen” invece di “serpenti a sonagli”. Se capitava che un
amico lottasse disperatamente per riuscire a vedere un’eclissi solare in
Perù a causa delle nuvole che vi stazionano permanentemente, Marsh
ricordava “quello che diceva Humboldt a proposito del
unastronomischer Himmel Perus”1830 – il cielo non-astronomico del
Perù.
Humboldt è stato “il più grande sacerdote della natura”1831, diceva
Marsh, perché aveva interpretato il mondo come interazione tra uomo
e natura – una connessione che sarebbe stata alla base del suo stesso
lavoro, dato che stava raccogliendo materiali per un libro con cui
intendeva spiegare come il genere umano stesse distruggendo
l’ambiente.
Marsh era un autodidatta assetato di conoscenza. Nato nel 1801 a
Woodstock, nel Vermont, e figlio di un avvocato metodista, era stato
un bambino precoce che, a cinque anni, imparava a memoria i
dizionari del padre. Leggeva con tale rapidità, e così tanti libri
simultaneamente, che amici e familiari si stupivano di come riuscisse
ad afferrare con un’occhiata il contenuto di una pagina intera. Nel
corso di tutta la sua vita tutti ne avrebbero notato la memoria
straordinaria. Era “un’enciclopedia ambulante”1832, ebbe a dire un
amico. Ma lui non imparava soltanto dai libri: amava anche stare
all’aria aperta. Era un “figlio della foresta”, diceva, e “un ruscello che
gorgoglia, gli alberi, i fiori, gli animali selvaggi per me non erano cose,
erano persone”1833. Da ragazzo aveva amato le lunghe passeggiate
con il padre che non mancava mai di indicargli i nomi dei diversi
alberi. “Ho trascorso i primi anni della mia vita pressoché
letteralmente nei boschi”1834, disse a un amico, e questo profondo
apprezzamento per la natura lo avrebbe accompagnato per tutta la
vita.
Nonostante la sfrenata brama di conoscenza, Marsh era
sorprendentemente insicuro riguardo alla sua carriera. Aveva studiato
legge, ma non riuscì a fare l’avvocato perché trovava rozzi tutti i suoi
clienti1835. Era un grande studioso, ma l’insegnamento non gli
piaceva1836. Era un imprenditore con un fiuto infallibile per le scelte
più disastrose e gli poteva capitare di passare più tempo in tribunale a
occuparsi dei propri affari che non di quelli dei suoi clienti1837.
Quando si cimentò nell’allevamento delle pecore, perse tutto quando il
prezzo della lana crollò. Possedeva un lanificio che prima fu distrutto
da un incendio e poi da banchi di ghiaccio alla deriva. Speculò in
terreni, commerciò in legname e marmo di cava – sempre perdendo
soldi.

Campi e terrazzamenti lungo il Nilo in Nubia

Marsh era sicuramente più portato agli studi che all’imprenditoria.


Negli anni 1840, aveva contribuito a fondare la Smithsonian
Institution a Washington – primo museo nazionale degli Stati Uniti.
Aveva pubblicato un dizionario di lingue nordiche ed era un esperto di
etimologia inglese. Era stato anche eletto al Congresso a Washington
come rappresentante del Vermont, ma persino la devota moglie
ammetteva che il marito non era il politico più stimolante. “Come
oratore era del tutto privo di fascino”1838, diceva Caroline Marsh. Si
era cimentato in tante delle professioni più disparate che un amico
osservò con spirito faceto: “Se vivi ancora per parecchio tempo sarai
costretto a inventare nuovi mestieri”1839.
Di una cosa Marsh era sicuro: voleva viaggiare e vedere il mondo.
L’unico problema era che non aveva mai abbastanza soldi. Una
soluzione, aveva deciso nella primavera del 1849, era quella di cercare
un posto come diplomatico1840. L’assegnazione ideale sarebbe stata
la città di origine di Humboldt, Berlino, ma le sue speranze andarono
infrante quando un senatore dell’Indiana, che aveva a sua volta messo
gli occhi su Berlino, spedì a Washington diverse casse di champagne
per corrompere i politici che avrebbero scelto il candidato. Nel giro di
qualche ora erano in un tale “stato di tremenda ebbrezza”1841, seppe
Marsh da amici, che tutti cantavano e ballavano. Alla fine della serata i
politici, ubriachi, annunciarono che il senatore dell’Indiana sarebbe
andato a Berlino.
Marsh era deciso a vivere all’estero. Essendo stato per diversi anni
membro del Congresso, era convinto che con tutti i suoi contatti nel
Distretto della Colombia avrebbe trovato un posto. Se non a Berlino,
sarebbe andato altrove. E fu fortunato, perché qualche settimana
dopo, alla fine di maggio del 1849, fu mandato a Costantinopoli come
ministro plenipotenziario americano in Turchia1842 con il compito di
sviluppare gli scambi tra i due paesi. Anche se non era Berlino, il
richiamo dell’Impero Ottomano, crocevia tra Europa, Africa e Asia, era
forte. I compiti amministrativi, disse Marsh a un amico, sarebbero
stati presumibilmente “molto leggeri”: “Sarò libero di assentarmi da
Costantinopoli per buona parte dell’anno”1843.
E così fu. Nei successivi quattro anni Marsh e la moglie Caroline
viaggiarono molto, in Europa e in Medio Oriente. Erano una coppia
felice. Sul piano intellettuale Caroline era assai simile al marito:
leggeva con voracità, pubblicava raccolte di poesie e preparava per la
stampa ogni articolo, saggio o libro scritto dal marito1844. Era attiva
nel campo dei diritti delle donne – come lo era lo stesso Marsh,
sostenitore del suffragio e dell’istruzione femminile1845. Caroline era
socievole, vivace, una “conversatrice brillante”1846 e spesso prendeva
in giro Marsh, propenso alla malinconia, per il suo essere “un vecchio
gufo” sempre pronto a “mugugnare”1847.
Tuttavia, per tutta la sua vita adulta Caroline dovette combattere
con la cattiva salute – un atroce mal di schiena che spesso le impediva
di fare più di pochi passi1848. Negli anni, i medici le prescrissero
terapie di ogni genere, dai bagni di mare a sedativi e assunzioni di
ferro, finché quando erano in procinto di partire per la Turchia un
medico di New York dichiarò la misteriosa malattia “incurabile”1849.
Ma, sorprendentemente, Caroline riuscì ad accompagnare ancora il
marito nella maggior parte dei suoi viaggi1850. A volte la
trasportavano guide locali e altre volte giaceva su un marchingegno
fissato sul dorso di un mulo o di un cammello, ma era sempre di buon
umore e ben decisa a unirsi a Marsh.
Quando partirono per la prima volta dagli Stati Uniti per
Costantinopoli, fecero una deviazione di qualche mese in Italia, ma la
loro prima spedizione vera e propria fu quella che li portò in Egitto.
Nel gennaio 1851, un anno dopo essere arrivati a Costantinopoli,
raggiunsero il Cairo per poi imbarcarsi e ridiscendere il Nilo1851. Dal
ponte del battello vedevano dispiegarsi davanti ai loro occhi un mondo
esotico. Palme da dattero fiancheggiavano il fiume e i coccodrilli si
crogiolavano al sole sulle rive sabbiose. Pellicani e stormi di cormorani
li seguivano e Marsh guardava ammirato gli aironi contemplare la loro
immagine riflessa nell’acqua. Comprarono un giovane struzzo
“arrivato fresco fresco dal deserto”1852, che spesso riposava con la
testa appoggiata sulle ginocchia di Caroline. Un mosaico di campi
costeggiava il fiume, coltivati a riso, cotone, fagioli, grano e canna da
zucchero. Dalla prima alba fino a tarda notte sentivano il cigolio delle
ruote dei sistemi d’irrigazione – lunghe catene di orci e secchi trainate
da buoi che distribuivano l’acqua del Nilo nei campi circostanti. Lungo
il percorso si fermarono alle rovine dell’antica Tebe, dove Marsh portò
Caroline a visitare i grandi templi, e più a sud visitarono le piramidi
della Nubia.
Era un mondo che trasudava storia. I monumenti raccontavano una
storia di ricchezze passate e regni esistiti tanto tempo prima, mentre i
paesaggi mostravano le tracce di vomeri e vanghe. Aride terrazze
modellavano la campagna in un mosaico geometrico e ogni zolla
rivoltata o albero abbattuto aveva lasciato tracce indelebili sul suolo.
Marsh vedeva un mondo plasmato dal genere umano e segnato da
migliaia di anni di lavoro agricolo. La “terra stessa”1853, diceva, le
rocce nude e le colline rasate testimoniavano il duro lavoro dell’uomo.
Marsh vedeva il retaggio di civiltà antiche non solo nei templi e nelle
piramidi, ma profondamente inciso nel suolo.
Come sembrava vecchia e consunta questa parte del mondo! Ma
anche: com’era giovane il suo paese in confronto a questo paesaggio!
“Vorrei sapere”, scrisse a un amico inglese, “se un europeo resta
colpito dalla giovane età di tutto quello che c’è in America con la stessa
forza con cui noi restiamo colpiti dall’antichità del continente
orientale.”1854 Marsh si rendeva conto che l’aspetto del paesaggio
naturale era strettamente interconnesso con l’azione dell’uomo.
Navigando sul Nilo, ebbe modo di vedere come gli estesi sistemi
d’irrigazione avevano trasformato il deserto in campi rigogliosi, ma
notò anche la totale assenza di piante selvatiche, perché la natura era
stata “soggiogata dalle coltivazioni che si protraevano da così lungo
tempo”1855.
All’improvviso tutto quello che Marsh aveva letto nei libri di
Humboldt acquistava senso. Humboldt aveva scritto che “l’incessante
attività di grandi comunità di uomini un po’ alla volta depreda la faccia
della terra”1856: proprio quello che Marsh stava ora vedendo.
Humboldt aveva detto che il mondo naturale era legato “alla storia
politica e morale dell’umanità”1857, dalle ambizioni imperiali che
sfruttavano le coltivazioni nelle colonie alla migrazione di piante lungo
i sentieri tracciati dalle antiche civiltà. Aveva descritto come le
piantagioni di canna da zucchero a Cuba e la fusione dell’argento in
Messico avevano provocato terribili deforestazioni. L’avidità ha
foggiato le società e la natura. L’uomo, diceva Humboldt, ha lasciato
tracce di distruzione “ovunque abbia messo piede”1858.
Viaggiando attraverso l’Egitto Marsh si appassionava sempre di più
alla flora e alla fauna. “Come invidio la tua conoscenza delle tante
lingue in cui la natura parla!”1859, scriveva ora a un amico. Pur non
avendo una formazione scientifica, cominciò a misurare e registrare.
Era diventato “uno studioso della natura”1860, annunciava fiero
mentre raccoglieva piante per amici botanici, insetti per un
entomologo in Pennsylvania e centinaia di esemplari per lo
Smithsonian Institute di Washington da poco fondato. “Per gli
scorpioni non è ancora la stagione”1861, scrisse al curatore
dell’istituto, il suo amico Spencer Fullerton Baird, ma aveva già
lumache e venti diverse specie di pesciolini conservati nell’alcool.
Baird chiedeva teschi di cammelli, sciacalli e iene, ma anche pesci,
rettili e insetti e altro ancora, “un po’ di tutto”1862 e in seguito gli
spedì quasi sessanta litri di alcool, perché Marsh era rimasto senza
spirito in cui conservare gli animali.
Marsh era molto meticoloso nel prendere appunti, ovunque andava
scriveva – con la carta sulle ginocchia, tenendola stretta quando il
vento scompigliava le pagine e scribacchiando nel pieno di tempeste di
sabbia. “Non affidare niente alla memoria”1863, scriveva l’uomo che
era famoso per la sua capacità di ricordare tutto quello che leggeva.
Per otto mesi Marsh e Caroline viaggiarono in Egitto e poi
attraversarono il deserto del Sinai a dorso di cammello fino a
Gerusalemme, per spingersi poi fino a Beirut. A Petra ammirarono gli
splendidi palazzi scavati nelle rosate rocce marmoree, anche se Marsh
doveva chiudere gli occhi quando vedeva il cammello che trasportava
Caroline destreggiarsi per varcare stretti passaggi e lungo profondi
precipizi. Tra Hebron e Gerusalemme notò che le antiche colline
terrazzate, che erano state coltivate per migliaia di anni, ora
sembravano “in massima parte brulle e desolate”1864. Verso la fine
della spedizione, Marsh si era convinto che “l’assiduo lavoro nei campi
di centinaia di generazioni” aveva trasformato questa parte della terra
in un “pianeta sterile e logorato”1865. Nella sua vita, questo fu un
punto di svolta.

Quando fu richiamato da Costantinopoli, alla fine del 1853, Marsh


aveva viaggiato in Turchia, Egitto, Asia Minore e in parti del Medio
Oriente, ma anche in Grecia, Italia e Austria. Tornato a casa nel
Vermont, vide la campagna che aveva conosciuto per tutta la sua vita
attraverso il prisma di ciò che aveva osservato nel Vecchio Mondo e si
rese conto che l’America stava marciando dritta dritta verso la stessa
devastazione ambientale. Ora applicava al Nuovo Mondo le lezioni del
Vecchio Mondo. Il paesaggio del Vermont, per esempio, era cambiato
così radicalmente da quando erano arrivati i primi colonizzatori
bianchi che quello che restava era “la natura nello stato di
deprivazione e spoliazione in cui il progresso umano l’ha ridotta”1866,
diceva Marsh.
In America l’ambiente aveva cominciato a soffrire. I rifiuti
industriali inquinavano i fiumi e intere foreste sparivano, a mano a
mano che il legname veniva usato come combustibile nella
manifattura e nelle ferrovie. “L’uomo è ovunque un elemento di
disturbo”1867, diceva Marsh e, da ex proprietario di una fabbrica e
allevatore di pecore, era consapevole di avere anche lui contribuito al
danno. Il Vermont aveva già perso tre quarti dei suoi alberi, ma con lo
spostamento costante di coloni attraverso il continente anche il
Midwest stava cambiando. Chicago era diventata uno dei più grandi
depositi di legname e cereali degli Stati Uniti. Era impressionante
vedere come le acque del lago Michigan fossero in buona parte
ricoperte da zattere galleggianti piene di tronchi e legname provenienti
da “tutte le foreste degli Stati Uniti”1868, diceva ancora Marsh.
Intanto, l’efficienza dei macchinari agricoli americani superava per
la prima volta quella europea1869. Nel 1855 i visitatori
dell’Esposizione Universale di Parigi rimasero sbalorditi vedendo che
una mietitrice americana poteva tagliare un acro di avena in ventuno
minuti – un terzo del tempo impiegato da modelli europei comparabili
con quelli americani. Gli agricoltori americani furono inoltre i primi a
dotare i loro macchinari di motori a vapore e, con l’industrializzazione
dell’agricoltura, il prezzo dei cereali crollò. Al tempo stesso, la
produzione manifatturiera era in costante aumento e nel 1860 gli Stati
Uniti divennero il quarto maggior paese manifatturiero del mondo. In
quello stesso anno, nella primavera del 1860, Marsh tirò fuori i suoi
taccuini e cominciò a scrivere Man and Nature1870, libro con cui
avrebbe portato a piena conclusione i precoci ammonimenti di
Humboldt riguardo alla deforestazione. Man and Nature raccontava
una storia di distruzione e cupidigia, estinzione e sfruttamento, suolo
impoverito e inondazioni torrenziali.
Alla maggior parte della gente sembrava che l’uomo avesse il pieno
controllo della natura. Niente lo confermava in maniera più evidente
del caso di Chicago, innalzata per tirarla fuori dal fango1871. Costruita
allo stesso livello del lago Michigan, Chicago era una città fortemente
svantaggiata dal terreno fradicio su cui poggiava e dalle conseguenti
epidemie. L’audace soluzione degli urbanisti consisté nell’innalzare di
diversi metri interi isolati e edifici a più piani per creare al di sotto
nuovi sistemi di drenaggio. Mentre Marsh scriveva Man and Nature,
gli ingegneri di Chicago sfidavano la gravità sollevando case, negozi e
alberghi con centinaia di martinelli idraulici, mentre la gente
continuava a vivere e lavorare in quegli stessi edifici.
Sembrava che non vi fossero limiti né all’abilità, né all’avidità del
genere umano. Laghi, stagni e fiumi, un tempo ricchi di pesci, erano
diventati misteriosamente privi di ogni traccia di vita1872. Marsh fu il
primo a darne una spiegazione. In parte era da biasimare il
depauperamento delle risorse ittiche causato da una pesca eccessiva,
ma ancora di più lo era l’inquinamento industriale e manifatturiero.
Sostanze chimiche avvelenavano i pesci – ammoniva Marsh – mentre
le chiuse impedivano loro di risalire i fiumi e la segatura dei tronchi gli
ostruiva le branchie. Attento ai dettagli fino alla pedanteria, Marsh
sosteneva le sue argomentazioni con i fatti. Non si limitava ad
affermare che i pesci stavano scomparendo e che le ferrovie si stavano
mangiando le foreste, ma vi aggiungeva statistiche dettagliate sulle
esportazioni di prodotti ittici in tutto il mondo e calcoli precisi sulla
quantità di legname necessaria per ogni chilometro di strada
ferrata1873.
Come Humboldt, Marsh biasimava l’eccessivo affidarsi a colture
destinate alla vendita, quali quella del tabacco e del cotone1874. Ma
c’erano anche altre ragioni. A mano a mano che il reddito della classe
media aumentava, cresceva anche il consumo di carne – che a sua
volta aveva un grosso impatto sulla natura. Marsh calcolava che il
terreno necessario per alimentare gli animali superava di gran lunga la
superficie dei campi necessaria per ottenere un valore nutrizionale
equivalente in cereali e verdura. Ne concludeva che la dieta di un
vegetariano era assai più responsabile di quella di chi mangia
carne1875.
Ricchezza e consumi portano distruzione, sosteneva Marsh. Per il
momento, tuttavia, la sua preoccupazione per l’ambiente era soffocata
dalla cacofonia del progresso – il cigolio delle ruote di un mulino, il
sibilo delle macchine a vapore, i suoni ritmici delle seghe nella foresta,
il fischio delle locomotive.
Intanto la situazione finanziaria di Marsh si era fatta ancora più
precaria. Lo stipendio in Turchia si era rivelato insufficiente, il
lanificio era andato in malora, il suo socio lo aveva imbrogliato e tutti
gli altri investimenti erano stati un disastro. Sull’orlo della bancarotta,
ora cercava un lavoro “poco impegnativo e ben remunerato”1876. Un
po’ di sollievo arrivò nel marzo 1861, quando il neo eletto presidente,
Abraham Lincoln, lo nominò ambasciatore degli Stati Uniti nel nuovo
Regno d’Italia.
Al pari della Germania, l’Italia in precedenza era formata da Stati
indipendenti. Dopo anni di battaglie, finalmente gli Stati italiani si
erano uniti, a eccezione di Roma, rimasta sotto il controllo papale, e di
Venezia al nord sotto dominio austriaco. Già al tempo della sua prima
visita in Italia dieci anni prima, Marsh si era appassionato per il
cammino verso l’unificazione intrapreso dal paese: “Vorrei avere
trent’anni di meno e una Kugelfest”1877 – “giubba antiproiettile” –
aveva scritto allora a un amico, perché così si sarebbe unito ai
combattenti. Diventare l’inviato dell’America nella nuova nazione era
una prospettiva eccitante, così come lo era quella di un reddito
regolare. “Non potrei sopravvivere altri due anni”, diceva, “come ho
vissuto negli ultimi tempi.”1878 Il programma prevedeva di partire
per Torino, capitale provvisoria nel nord Italia, dove in primavera si
era insediato il primo parlamento italiano. Non c’era molto tempo e le
cose da fare erano tante. Nel giro di tre settimane Marsh disdisse
l’affitto della casa a Burlington, imballò mobili, libri e vestiti nonché i
suoi taccuini e la prima stesura di alcune sezioni di Man and
Nature1879.
Con l’America sull’orlo della guerra civile, era il momento giusto per
partire. Già prima dell’insediamento di Lincoln, il 4 marzo 1861, sette
Stati del Sud si erano separati e avevano formato una nuova alleanza:
la Confederazione*. Il 12 aprile, neanche un mese dopo l’insediamento
di Lincoln, i Confederati spararono i primi colpi attaccando le forze
dell’Unione a Fort Sumter, nel porto di Charleston. Dopo oltre trenta
ore di cannoneggiamenti ininterrotti, l’Unione abbandonò il forte. Era
l’inizio di una guerra in cui alla fine oltre 600.000 soldati americani
sarebbero rimasti uccisi. Sei giorni più tardi, Marsh salutò un migliaio
di concittadini con un discorso appassionato nel municipio di
Burlington1880. Era loro dovere, disse, aiutare con denaro e uomini
l’Unione nella sua battaglia contro i Confederati e la schiavitù. Questa
guerra era più importante della rivoluzione del 1776, disse loro Marsh,
perché in gioco c’erano l’eguaglianza e la libertà di tutti gli americani.
Mezz’ora dopo il suo discorso, il sessantottenne Marsh e sua moglie
Caroline salivano su un treno diretto a New York, per poi imbarcarsi
per l’Italia1881.
Marsh lasciava un paese che si stava lacerando per trasferirsi in uno
in cui il processo verso l’unificazione era in pieno svolgimento. Con
l’America profondamente divisa dalla guerra, Marsh voleva aiutare, da
lontano, quanto più poteva. A Torino cercò di convincere il famoso
condottiero italiano Giuseppe Garibaldi a dare il suo aiuto unendosi
all’Unione nella guerra civile americana. Scriveva dispacci diplomatici
e acquistò armi per le forze dell’Unione1882. In tutto questo, la sua
testa non si staccava dal manoscritto di Man and Nature, per il quale
continuava a raccogliere materiale. Quando conobbe il primo ministro
italiano, Bettino Ricasoli, uomo noto per la gestione innovativa dei
possedimenti di famiglia, Marsh gli fece un sacco di domande su
argomenti riguardanti l’agricoltura – in particolare sulla bonifica della
Maremma, in Toscana. Ricasoli promise di fargli avere un rapporto
dettagliato1883.
La nuova posizione diplomatica si rivelò tuttavia molto più
impegnativa di quanto Marsh avesse sperato. L’etichetta delle
relazioni sociali a Torino imponeva un costante giro di visite e, inoltre,
si ritrovò ad avere a che fare con i turisti americani che lo trattavano
come fosse una sorta di loro segretario privato all’estero: doveva
ritrovare i bagagli smarriti, occuparsi dei loro passaporti e persino
indicare i luoghi più belli da visitare. Veniva interrotto in
continuazione. “Per quanto riguarda il riposo e la rilassatezza che
cercavo sono profondamente deluso”1884, scriveva agli amici in
patria. L’idea di un lavoro che lo impegnasse poco e gli desse parecchi
soldi svanì alla svelta.
C’erano, ogni tanto, l’oretta o il paio di orette che poteva trascorrere
in biblioteca o al giardino botanico di Torino. Adagiata nella Valle del
Po, Torino era incorniciata dalla catena maestosa delle Alpi
incappucciate di neve. Appena trovavano un momento libero, lui e
Caroline facevano brevi escursioni e gite nella campagna
circostante1885. Marsh adorava montagne e ghiacciai e cominciò a
definirsi “pazzo per il ghiaccio”1886. Era ancora vigoroso e
“considerata la mia età e i centimetri (di circonferenza)”, si vantava,
“non sono affatto un cattivo scalatore”1887. Se avesse continuato così,
scherzava, a cent’anni avrebbe scalato l’Himalaya.
Quando all’inverno subentrò la primavera, la campagna intorno a
Torino li tentò ancora di più. La valle del Po diventò un tappeto di
fiori. “Abbiamo rubato un’ora del nostro tempo”1888, scrisse Caroline
nel suo diario, nel marzo 1862, per stare a guardare migliaia di violette
far concorrenza alle primule gialle. I mandorli erano in fiore e le
foglioline nuove tingevano di verde i rami penzolanti dei salici.
Caroline adorava cogliere fiori selvatici, ma il marito pensava che fosse
“un crimine”1889 contro la natura.
Marsh si ritagliava a fatica un po’ di tempo per lavorare ai suoi
progetti nelle prime ore del mattino. Riprese brevemente in mano
Man and Nature nella primavera del 1862 e poi di nuovo durante
l’inverno, quando trascorsero qualche settimana in Riviera vicino a
Genova1890. Poi, nella primavera del 1863, la coppia si trasferì nel
piccolo paese di Piobesi, venti chilometri a sud-ovest di Torino, con il
manoscritto di Man and Nature, completato a metà, nei bauli di
Marsh. Qui, in una vecchia villa fatiscente con una torre del decimo
secolo che guardava sulle Alpi, Marsh trovò finalmente il tempo
necessario per portare a termine il libro.
Il suo studio dava su una grande terrazza soleggiata adiacente alla
torre, dalla quale vedeva migliaia di rondini intente a costruire nidi
nelle vecchie mura. La stanza era piena di scatole e di così tanti
manoscritti, lettere e libri che a volte se ne sentiva sopraffatto. Aveva
raccolto dati per anni, c’erano tanti inserimenti e collegamenti da fare
e tanti esempi da valutare. Mentre lui scriveva, Caroline leggeva e
preparava i testi per la stampa, confessando a volte di sentirsi
“stremata”1891. Marsh se ne disperava, al punto che lei temette che
avrebbe commesso un “libricidio”1892. Scriveva con furia, sentendo
che l’umanità doveva cambiare alla svelta se si voleva proteggere la
terra dalla devastazione dell’aratro e dell’accetta. “Lo faccio per farmi
uscire dal cervello i fantasmi che da lungo tempo lo abitano”1893,
scrisse al direttore della North American Review.
Quando l’estate subentrò alla primavera, il caldo diventò
insopportabile e le mosche non davano tregua – posandosi persino
sulle palpebre e sulla punta della penna. All’inizio di luglio del 1863
Marsh finì l’ultima revisione e spedì il manoscritto all’editore in
America. Voleva intitolare il libro “Man the Disturber of Nature’s
Harmonies” (L’uomo, disturbatore delle armonie della natura) – ma
l’editore lo dissuase1894, sostenendo che avrebbe danneggiato le
vendite. Concordarono su Man and Nature e il libro uscì dopo un
anno, nel luglio 1864.

Man and Nature era la sintesi di ciò che Marsh aveva letto e osservato
nei decenni precedenti. “Ruberò, e anche parecchio”, aveva scherzato
con l’amico Baird dando inizio al lavoro, “ma un po’ di cose le so
anch’io”1895. Per raccogliere informazioni ed esempi, Marsh aveva
razziato biblioteche di tantissimi paesi in cerca di manoscritti e
pubblicazioni. Aveva letto i testi classici per trovare le prime
descrizioni di paesaggi e colture nell’antica Grecia e a Roma. A tutto
questo aveva aggiunto le proprie osservazioni derivate dai viaggi in
Turchia, Egitto, Medio Oriente, Italia e nel resto d’Europa e aveva
incluso rapporti di forestali tedeschi, citazioni da giornali dell’epoca,
dati raccolti da ingegneri, estratti da saggi francesi e persino aneddoti
di quando era bambino – oltre, naturalmente, alle informazioni tratte
dai libri di Humboldt.
A Marsh Humboldt aveva insegnato a mettere in relazione uomo e
ambiente1896. E in Man and Nature Marsh snocciolava uno dopo
l’altro esempi di come gli uomini avessero interferito con i ritmi della
natura: quando una modista parigina inventò i cappelli di seta, per
esempio, quelli di pelliccia passarono di moda – e ciò ebbe un forte
impatto sull’ormai decimata popolazione di castori in Canada, che
cominciò a recuperare. In maniera analoga i coltivatori, che avevano
fatto stragi di uccelli per proteggere i propri raccolti, dovettero poi
combattere contro sciami di insetti che in precedenza erano stati preda
degli uccelli. Durante le guerre napoleoniche in molte regioni
d’Europa riapparvero i lupi perché i loro abituali cacciatori erano
occupati sul campo di battaglia. Persino i minuscoli organismi che si
trovano nell’acqua, diceva Marsh, sono essenziali nell’equilibrio della
natura: una pulizia troppo scrupolosa dell’acquedotto di Boston li
aveva eliminati e l’acqua era diventata torbida1897. “Legami invisibili
collegano in un unico insieme la natura”1898, scriveva.
Da troppo tempo l’uomo si era dimenticato che la terra non gli era
stata donata perché lui la “consumasse”1899. Il prodotto della terra
era stato dissipato: gli animali selvaggi uccisi per il loro pellame, gli
struzzi per le penne, gli elefanti per le zanne e le balene per l’olio.
L’uomo era responsabile dell’estinzione di animali e piante1900,
scriveva in Man and Nature, mentre l’uso sfrenato di acqua non era
che un altro esempio di scellerata avidità*1901. L’irrigazione, diceva,
impoverisce i grandi fiumi e fa diventare i terreni salini e
improduttivi1902.
La visione del futuro di Marsh era fosca. Era convinto che, se niente
cambiava, il pianeta sarebbe stato ridotto in una condizione tale da
poter solo risultare in una “superficie distrutta, eccessi climatici… e
forse addirittura l’estinzione della specie umana”1903. Vedeva il
paesaggio americano attraverso la lente d’ingrandimento di tutto ciò
che aveva osservato durante i suoi viaggi – dalle colline spogliate dai
troppi pascoli lungo il Bosforo nei pressi di Costantinopoli ai pendii
brulli dei monti in Grecia. Grandi fiumi, boschi indomiti, fertili terreni
prativi: tutto questo era scomparso1904. In Europa le coltivazioni
senza limiti avevano reso la terra “desolata come la superficie
lunare”1905. L’Impero romano era fallito perché i romani avevano
distrutto le loro foreste e dunque il suolo stesso che li nutriva1906.
Il Vecchio Mondo doveva essere per il Nuovo Mondo il “racconto
morale” che insegna a non fare gli stessi errori. Quando lo Homestead
Act* del 1862 assegnò a tutti coloro che si spostavano verso l’Ovest 160
acri (più o meno 60 ettari) di terra a testa a un prezzo equivalente a
poco più della tassa di registrazione, milioni di ettari di suolo pubblico
passarono in mani private per essere “migliorate” con l’accetta e
l’aratro. “Siamo saggi”, sollecitava Marsh, e impariamo dagli errori dei
“nostri fratelli maggiori!”1907 Le conseguenze dell’azione dell’uomo
non si potevano prevedere. “Quando lanciamo un sassolino
nell’oceano della vita organica non possiamo sapere quanto si
allargherà il cerchio della perturbazione che generiamo negli assetti
armonici della natura”1908, scriveva. Sapeva però che da quando
“l’homo sapiens d’Europa”1909 aveva messo piede in America, anche i
danni erano migrati da est a ovest.

Altri erano arrivati alle stesse conclusioni. Negli Stati Uniti, il primo a
far proprie le idee di Humboldt era stato James Madison. Aveva
conosciuto Humboldt nel 1804 a Washington, e poi aveva letto i suoi
libri1910. Madison aveva applicato agli Stati Uniti le osservazioni
riportate da Humboldt sul Sud America. In un discorso, che ebbe
grande risonanza, tenuto alla Agricultural Society a Albemarle,
Virginia, nel maggio 1818, un anno dopo aver lasciato la presidenza,
Madison aveva ripetuto gli ammonimenti di Humboldt riguardo alla
deforestazione ed evidenziato le conseguenze catastrofiche che la
coltivazione su larga scala del tabacco aveva sul suolo un tempo fertile
della Virginia1911. Quel discorso conteneva il nucleo
dell’ambientalismo americano. La natura non esisteva per esser messa
al servizio dell’uomo, disse Madison sollecitando i suoi concittadini a
difendere l’ambiente; ma le sue ammonizioni furono ampiamente
ignorate.
Fu Simón Bolívar a tradurre per primo in legge le idee di Humboldt
con un decreto lungimirante, emesso nel 1825, che impegnava il
governo della Bolivia a piantare un milione di alberi1912. Nel bel
mezzo di battaglie e in piena guerra, Bolívar si era reso conto delle
conseguenze devastanti dell’inaridimento del suolo per il futuro della
nazione. La nuova legge era finalizzata a proteggere i corsi d’acqua e a
creare foreste nelle diverse aree della nuova repubblica. Quattro anni
dopo aveva disposto “Misure per la protezione e il buon uso delle
foreste nazionali”1913 indirizzate alla Colombia, con un’attenzione
particolare al controllo del raccolto della chinina dalla corteccia
dell’albero selvatico della china1914 – un metodo molto dannoso, che
spogliava gli alberi della loro corteccia protettiva e che già aveva
richiamato l’attenzione di Humboldt durante la sua spedizione*1915.
In Nord America, toccò a Henry David Thoreau invocare la
salvaguardia delle foreste, nel 1851. “La salvaguardia del mondo
dipende dalla salvaguardia della natura allo stato selvaggio”1916,
aveva detto, per concludere più tardi, nell’ottobre 1859 – pochi mesi
dopo la morte di Humboldt – che ogni città dovrebbe avere una
foresta di qualche centinaio di ettari “inalienabile per sempre”1917.
Mentre Madison e Bolívar avevano concepito la tutela degli alberi
come necessità economica, Thoreau sosteneva che le “riserve
nazionali”1918 andavano risparmiate per lo svago. Ora, con Man and
Nature, Marsh metteva insieme tutto questo, dedicando un intero
libro all’argomento e presentando la prova che il genere umano stava
distruggendo la terra.
“L’apostolo è stato Humboldt”1919, aveva dichiarato Marsh quando
cominciava a lavorare a Man and Nature e in tutto il libro avrebbe
fatto riferimento a Humboldt, ampliandone tuttavia le idee1920.
Mentre gli ammonimenti di Humboldt erano dispersi tra le varie opere
– piccole perle di intuizioni qua e là, ma che spesso si smarrivano nel
contesto più ampio – ora Marsh intesseva tutto in un’unica, potente
argomentazione. Pagina dopo pagina, parlava dei danni della
deforestazione1921 spiegando che le foreste proteggono il suolo e le
sorgenti d’acqua naturali: una volta distrutte, il suolo rimane nudo
contro le intemperie – venti, sole, pioggia – e la terra smette di essere
una spugna per diventare un ammasso di polvere; a mano a mano che
il terreno viene dilavato perde ogni sostanza e “pertanto la terra
diventa inadatta alla vita dell’uomo”1922, concludeva. Tutto ciò
rendeva la lettura inquietante. I danni provocati da due o tre sole
generazioni sarebbero stati altrettanto disastrosi dell’eruzione di un
vulcano o di un terremoto. “Stiamo demolendo il pavimento, il
rivestimento e i telai di porte e finestre della nostra casa”1923,
ammoniva profeticamente.
Marsh diceva agli americani che dovevano agire in fretta, prima che
fosse troppo tardi. Vanno prese “misure immediate”, perché “in ballo
ci sono i timori più estremi”1924. Bisognava risparmiare le foreste e
piantarne di nuove. Alcune andavano preservate come luoghi di svago,
d’ispirazione e habitat per la flora e la fauna – proprietà inalienabile di
ogni cittadino1925 – mentre altre aree andavano rimboschite e gestite
al fine di un uso sostenibile del legname. “Abbiamo già abbattuto
troppe foreste”1926, scriveva Marsh.
Marsh non parlava di una piccola zona nel sud della Francia dove la
macchia si era seccata, o di un’arida regione in Egitto o di un lago nel
Vermont depauperato delle sue risorse ittiche. Parlava della terra
intera. La forza di Man and Nature discendeva dalla sua dimensione
globale, perché Marsh valutava e concepiva il mondo come un tutto
unico. Anziché considerare eventi locali, elevava le preoccupazioni
ambientali a un nuovo, terrificante livello. L’intero pianeta era in
pericolo. “La terra sta rapidamente diventando una casa non più
adatta per i suoi più nobili abitanti”1927, scriveva.
Man and nature fu la prima opera nel campo della storia naturale a
influenzare in misura sostanziale la politica americana. Fu il “pugno
più duro tirato in faccia”1928 all’ottimismo dell’America, come
avrebbe detto in seguito lo scrittore e ambientalista americano Wallace
Stegner: mentre il paese correva verso l’industrializzazione –
sfruttando senza pietà le sue risorse naturali e radendo al suolo le
foreste – lui pretendeva che i suoi compatrioti si fermassero a
riflettere! Con sua grande delusione, inizialmente le vendite di Man
and Nature furono basse. Poi, nel giro di qualche mese, andarono
meglio: ne furono vendute più di 1.000 copie e l’editore cominciò a
ristamparlo*1929.
Per qualche decennio l’impatto di Man and Nature non si fece
sentire appieno, ma il libro influenzò un gran numero di persone negli
Stati Uniti, che sarebbero diventate figure chiave nei movimenti per la
salvaguardia e la conservazione dell’ambiente. Lo avrebbero letto John
Muir, il “padre dei parchi nazionali”, e Gifford Pinchot, il primo a
dirigere il Forestry Service degli Stati Uniti, che lo avrebbe definito
“epocale”1930. Le osservazioni di Marsh sulla deforestazione
contenute in Man and Nature portarono all’approvazione del Timber
Culture Act del 18731931, che incoraggiava i coloni delle Grandi
Pianure a piantare alberi e preparò il terreno per la tutela delle foreste
d’America, cui provvide il Forest Reserves Act del 1891 – legge che nel
testo attingeva abbondantemente alle pagine del libro di Marsh e alle
precedenti idee di Humboldt.
Man and Nature ebbe anche una risonanza internazionale.
Intensamente discusso in Australia, ispirò i forestali in Francia e i
legislatori in Nuova Zelanda. Incoraggiò gli ambientalisti in Sudafrica
e in Giappone a lottare per la tutela degli alberi. Leggi italiane in
materia di forestazione avrebbero citato Marsh, mentre in India gli
ambientalisti arrivarono a portare il libro “lungo la pendice
dell’Himalaya settentrionale, in Kashmir e in Tibet”1932. Man and
Nature forgiò una nuova generazione di attivisti e nella prima metà
del ventesimo secolo sarebbe stato celebrato come “l’origine del
movimento per la tutela dell’ambiente”1933.
Riteneva Marsh che le lezioni più importanti fossero nascoste nelle
cicatrici che il genere umano aveva lasciato sul paesaggio nel corso di
migliaia di anni. “Il futuro è più incerto del passato”1934, diceva.
Guardando indietro, Marsh guardava avanti.
1817. Marsh a Caroline Estcourt, 3 giugno 1859, Marsh 1888, vol. 1, p. 410.
1818. Journal of the American Geographical and Statistical Society, vol. 1, n. 8, ottobre 1859,
pp. 225-46; per Marsh membro dell’American Geographical and Statistical Society, vedi vol. 1,
n. 1, gennaio 1859, p. iii.
1819. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 26 agosto 1859, UVM.
1820. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 25 aprile 1859; Marsh a Francis Lieber, maggio 1860,
Marsh 1888, vol. 1, pp. 405-6, 417; Lowenthal 2003, pp. 154 sgg.
1821. Lowenthal 2003, p. 199.
1822. Marsh a Caroline Marsh, 26 luglio 1859, ivi.
1823. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 26 agosto 1859, UVM.
1824. Lowenthal 2003, p. 64; Marsh possedeva l’edizione tedesca del 1849 di Quadri della
natura ampliata, diversi volumi di Cosmos (anch’essi in tedesco) nonché una biografia e altri
libri su di Humboldt. Aveva letto anche la Personal Narrative, vedi Marsh 1892, pp. 333-4;
Marsh 1864, pp. 91, 176.
1825. Marsh, “Speech of Mr. Marsh, of Vermont, on the Bill for Establishing the Smithsonian
Institution, Delivered in the House of Representatives”, 22 aprile 1846, Marsh 1846.
1826. Ivi; per i tedeschi e i libri tedeschi: Marsh 1888, vol. 1, p. 90-1, 100, 103; Lowenthal
2003, p. 90.
1827. Caroline Marsh a Caroline Estcourt, 15 febbraio 1850, Marsh 1888, vol. 1, p. 161.
1828. Lowenthal 2003, p. 49.
1829. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 10 ottobre 1848, Marsh 1888, vol. 1, p. 128.
1830. Marsh a Caroline Escourt, 10 giugno 1848; Marsh a Spencer Fullerton Baird, 15
settembre 1848; Marsh a Caroline Marsh, 4 ottobre 1858, Marsh 1888, vol. 1, pp. 123, 127,
400.
1831. Marsh, “The Study of Nature”, Christian Examiner, 1860, Marsh 2001, p. 83.
1832.. George W. Wurts a Caroline Marsh, 1 ottobre 1884; per la sua infanzia e le abitudini di
lettura, Lowenthal 2003, pp. 11 sgg., 18-19, 374; Marsh 1888, vol. 1, pp. 38, 103.
1833. Marsh a Charles Eliot Norton, 24 maggio 1871, Lowenthal 2003, p. 19.
1834. Marsh a Asa Gray, 9 maggio 1849, UVM.
1835. Marsh 1888, vol. 1, p. 40; Lowenthal 2003, p. 35.
1836. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 25 aprile 1859, Marsh 1888, vol. 1, p. 406.
1837. Lowenthal 2003, pp. 35, 41-2.
1838. Caroline Marsh su Marsh, Marsh 1888, vol. 1, p. 64.
1839. James Melville Gilliss a Marsh, 17 settembre 1857, Lowenthal 2003, p. 167.
1840. Marsh 1888, vol. 1, pp. 133 sgg.; Lowenthal 2003, p. 105.
1841. Marsh a C.S. Davies, 23 marzo 1849, Lowenthal 2003, p. 106.
1842. Lowenthal 2003, pp. 106-7, 117; Marsh 1888, vol. 1, p. 136.
1843. Marsh a James B. Estcourt, 22 ottobre 1849, Lowenthal 2003, p. 107.
1844. Lowenthal 2003, pp. 46, 377ff; Caroline Marsh, 1 e 12 aprile 1862, Caroline Marsh
Journal, NYPL, pp. 151, 153.
1845. Lowenthal 2003, pp. 381 sgg.
1846. Cornelia Undewood a Levi Underwood, 5 dicembre 1873, Lowenthal 2003, p. 378.
1847. Marsh a Hiram Powers, 31 marzo 1863, ivi.
1848. Lowenthal 2003, pp. 47, 92, 378.
1849. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 6 luglio 1859, UVM.
1850. Marsh a Caroline Estcourt, 19 aprile 1851, Marsh 1888, vol. 1, pp. 219.
1851. Marsh a Lyndon Marsh, 10 febbraio 1851; Marsh a Frederick Wislizenus, 10 febbraio
1851; Marsh a H.A. Holmes, 25 febbraio 1851; Marsh a Caroline Estcourt, 28 marzo 1851,
Marsh 1888, vol. 1, pp. 205, 208, 211 sgg.
1852. Marsh a Caroline Estcourt, 28 marzo 1851, ivi p. 213.
1853. Marsh a Caroline Estcourt, 28 marzo 1851, ivi, p. 215.
1854. Ibid.
1855. Marsh a Frederick Wislizenus e Lucy Crane Frederick Wislizenus, 10 febbraio 1851, ivi,
p. 206.
1856. AH Aspects 1849, vol. 2, p. 11; AH Views 2014, p. 158; AH Ansichten 1849, vol. 2, p. 13.
1857. AH Plant Geography 2009, p. 73.
1858. AH, 10 marzo 1801, AH Río Magdalena 2003, vol. 1, p. 44; per AH sulla deforestazione a
Cuba e in Mexico, vedi AH Cuba 2011, p. 115; AH New Spain 1811, vol. 3, pp. 251-2.
1859. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 3 maggio 1851, Marsh 1888, vol. 1, p. 223.
1860. Marsh a American Consul-General in Cairo, 2 giugno 1851, ivi, p. 226.
1861. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 23 agosto 1850, ivi, p. 172.
1862. Spencer Fullerton Baird a Marsh, 9 febbraio 1851; vedi anche 9 agosto 1849 e 10 marzo
1851, UVM.
1863. Marsh 1856, p. 160; Lowenthal 2003, pp. 130-31.
1864. Marsh a Caroline e James B. Estcourt, 18 giugno 1851; per i viaggi nel 1851, vedi Marsh a
Susan Perkins Marsh, 16 giugno 1851, Marsh 1888, vol. 1, pp. 227-32, 238; Lowenthal 2003,
pp. 127-9.
1865. Marsh a Caroline Estcourt, 28 marzo 1851, Marsh 1888, vol. 1, p. 215; vedi anche Marsh,
“The Study of Nature”, Christian Examiner, 1860, Marsh 2001, p. 86.
1866. Marsh 1857, p. 11.
1867. Marsh 1864, p. 36.
1868. Ivi, p. 234.
1869. Johnson 1999, pp. 361, 531.
1870. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 10, 16 e 21 maggio 1860, Marsh 1888, vol. 1, pp. 420-
22.
1871. Chicago Daily Tribune, 26 gennaio 1858, 7 febbraio 1866.
1872. Marsh 1857, pp. 12-15; Marsh 1864, pp. 107-8.
1873. Marsh 1864, pp. 106, 251-7.
1874. Ivi, p. 278.
1875. Ivi, pp. 277-8.
1876. Marsh a Francis Lieber, 12 aprile 1860; per le finanze di Marsh, Marsh 1888, vol. 1, p.
362; Lowenthal 2003, pp. 155 sgg., 199.
1877. Marsh a Francis Lieber, 3 giugno 1859, UVM.
1878. Marsh a Charles D. Drake, 1 aprile 1861, Marsh 1888, vol. 1, p. 429.
1879. Lowenthal 2003, p. 219.
1880. Benedict 1888, vol. 1, pp. 20-21.
1881. Lowenthal 2003, p. 219; arrivarono a Torino il 7 giugno 1861, vedi Caroline Marsh, 7
giugno 1861, Caroline Marsh Journal, NYPL, p. 1.
1882. Lowenthal 2003, pp. 238 sgg.
1883. Caroline Marsh, inverno 1861, Caroline Marsh Journal, NYPL, p. 71.
1884. Marsh a Henry e Maria Buell Hickok, 14 gennaio 1862; Marsh a William H. Seward, 12
maggio 1864, Lowenthal 2003, p. 252; vedi anche Caroline Marsh, 17 settembre 1861, 5
gennaio 1862, 26 dicembre 1862, 17 gennaio 1863, Caroline Marsh Journal, NYPL, pp. 43, 94,
99, 107.
1885. Caroline Marsh, 15 febbraio, 25 marzo 1862, Caroline Marsh Journal, NYPL, pp. 128,
148.
1886. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 21 novembre 1864, UVM.
1887. Ivi.
1888. Caroline Marsh, 10 marzo 1862; vedi anche 11 marzo, 24 marzo e 1 aprile 1862, Caroline
Marsh Journal, NYPL, pp. 143-4, 148, 151.
1889. Caroline Marsh, 7 aprile 1862, ivi, p. 157.
1890. Caroline Marsh, 14 aprile 1862 e 2 aprile 1863, ivi, pp. 154, 217; Lowenthal 2003, pp.
270-73; vedi anche Marsh a Charles Eliot Norton, 17 ottobre 1863, UVM.
1891. Caroline Marsh, 1 aprile 1862, Caroline Marsh Journal, NYPL, p. 151.
1892. Caroline su Marsh, Lowenthal 2003, p. 272.
1893. Marsh a Charles Eliot Norton, 17 ottobre 1863, UVM.
1894. Charles Scribner a Marsh, 7 luglio 1863; Marsh a Charles Scribner 10 settembre 1863,
Marsh 1864, p. xxviii.
1895. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 21 maggio 1860, Marsh 1888, vol. 1, p. 422.
1896. Marsh 1864, pp. 13-14, 68, 75, 91, 128, 145, 175 sgg.
1897. L’interferenza dell’uomo con la natura: per i cappelli e i castori, vedi Marsh 1864, pp. 76-
7; uccelli e insetti, pp. 34, 39, 79 sgg.; lupi, p. 76; l’acquedotto di Boston, p. 92.
1898. Ivi, p. 96.
1899. Ivi, p. 36.
1900. Ivi, pp. 64 sgg., 77 sgg., 96 sgg.
1901. (nota a piè di pagina) AH, 4 marzo 1800, AH Venezuela 2000, p. 217; AH Personal
Narrative 1814-29, vol. 4, p. 154.
1902. Marsh 1864, pp. 322, 324.
1903. Marsh 1864, ivi, p. 43.
1904. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 23 agosto 1850, luglio 1852, Marsh 1888, vol. 1, p. 174,
280; Marsh 1864, p. 9, 19.
1905. Marsh 1864, p. 42.
1906. Marsh, “Oration before the New Hampshire State Agricultural Society”, 10 ottobre 1856,
Marsh 2001, pp. 36-7; Lowenthal 2003, p. x; Marsh 1864, p. xxiv.
1907. Marsh 1864, p. 198.
1908. Ivi, pp. 91-2; vedi anche p. 110.
1909. Ivi, p. 46.
1910. AH inviò i suoi libri a Madison; vedi David Warden a James Madison, 2 dicembre 1811,
Madison Papers PS, vol. 4, p. 48; Madison a AH, 30 novembre 1830, Terra 1959, p. 799.
1911. Madison, Discorso alla Agricultural Society di Albemarle, 12 maggio 1818, Madison
Papers RS, vol. 1, pp. 260-83; Wulf 2011, pp. 204 sgg.
1912. Bolívar, Decreto, 19 dicembre 1825, Bolívar 2009, p. 258.
1913. Bolívar, Misure per la protezione e il buon uso delle foreste nazionali, 31 luglio 1829,
Bolívar 2003, pp. 199-200.
1914. AH Aspects 1849, vol. 2, p. 268; AH Views 2014, p. 268; AH Ansichten 1849, vol. 2, p.
319; AH, 23-28 luglio 1802, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, pp. 126-30.
1915. (nota a piè di pagina) Bolívar, Decreto, 31 luglio 1829, Bolívar 2009, p. 351; O’Leary
1879-8, vol. 2, p. 363.
1916. Thoreau, “Walking”, 1862 (conferenza tenuta nell’aprile 1851), Thoreau Excursion and
Poems 1906, p. 224.
1917. Thoreau, 15 ottobre 1859, Thoreau Journal 1906, vol. 12, p. 387.
1918. Thoreau Maine Woods 1906, p. 173.
1919. Marsh, “The Study of Nature”, Christian Examiner, 1860, Marsh 2001, p. 82.
1920. Marsh 1864, pp. 13-14, 68, 75, 91, 128, 145, 175 sgg.
1921. Ivi, pp. 128, 131, 137, 145, 154, 171, 180, 186-8.
1922. Ivi, p. 187.
1923. Ivi, p. 52; per disastri come il terremoto, p. 226.
1924. Ivi, pp. 201-2.
1925. Ivi, p. 203; per la riforestazione, pp. 259 sgg., 269-80, 325.
1926. Ivi, p. 280.
1927. Ivi, p. 43.
1928. Wallace Stegner, in ivi, p. xvi.
1929. (nota a piè di pagina) Lowenthal 2003, p. 302.
1930. Gifford Pinchot, ivi, p. 304; Gifford Pinchot a Mary Pinchot, 21 marzo 1886, Miller
2001, p. 392; per John Muir, vedi Wolfe 1946, p. 83.
1931. Lowenthal 2003, p. xi.
1932. Hugh Cleghorn a Marsh, 6 Marsh 1868; per l’influenza di Man and Nature in tutto il
mondo, vedi Lowenthal 2003, pp. 303-5.
1933. Mumford 1931, p. 78.
1934. Marsh 1861, p. 637.
*. I primi sette Stati a separarsi furono: South Carolina, Florida, Mississippi, Georgia, Texas,
Louisiana e Alabama. Nel maggio 1861 ne seguirono altri quattro: Virginia, Arkansas,
Tennessee e North Carolina.
*. Humboldt aveva già visto questi rischi e ammonito che il progetto d’irrigazione degli Llanos
in Venezuela mediante un sistema di canali che attingevano al lago di Valencia era
irresponsabile. Nel breve periodo avrebbe consentito di avere campi fertili negli Llanos, ma il
risultato a lungo termine non poteva che essere un “arido deserto”85. Alla fine la valle di
Aragua sarebbe diventata brulla come le montagne circostanti ormai spogliate delle loro
foreste.
*. Poteva farne richiesta ogni cittadino di età pari o superiore a ventuno anni che non avesse
combattuto contro gli Stati Uniti. Gli si chiedeva di vivere sul terreno assegnato per un
minimo di cinque anni e impegnarsi a “migliorarlo”.
*. Con Bolívar l’abbattimento di alberi o la raccolta di legname nelle foreste di proprietà dello
Stato divenne un reato suscettibile di punizione. A preoccuparlo era anche la possibile
estinzione delle mandrie di vicuñas selvagge.
*. Marsh donò i diritti di Man and Nature a un ente di beneficenza che aiutava i soldati
rimasti feriti nella guerra civile. Per sua fortuna, il fratello e il nipote si affrettarono a
ricomprarli prima che le vendite cominciassero a risalire.
Capitolo ventiduesimo

Arte, ecologia e natura

Ernst Haeckel e Humboldt

Il giorno in cui seppe della morte di Alexander von Humboldt, il


venticinquenne zoologo tedesco Ernst Haeckel si sentì affranto dal
dolore. “Due anime, ahimè, vivono nel mio petto”1, scrisse alla
fidanzata, Anna Sethe, ricorrendo a una famosa figura retorica tratta
dal Faust di Goethe per spiegare i suoi sentimenti. Mentre Faust era
lacerato tra il suo amore per il mondo terreno e il desiderio di librarsi
verso più alti regni, Haeckel era lacerato tra arte e scienza, tra
percepire la natura con il cuore o indagare il mondo naturale in qualità
di zoologo. A innescare questa crisi era stata la notizia della morte di
Humboldt – l’autore dei libri che fin da bambino avevano ispirato il
suo amore per la natura, la scienza, le esplorazioni e la pittura.
Haeckel si trovava a Napoli, dove sperava di fare certe scoperte
zoologiche che dessero il via alla sua carriera accademica in Germania.
Ma fino ad allora l’aspetto scientifico del suo viaggio si era rivelato un
totale fallimento. Era venuto per studiare l’anatomia dei ricci, dei
cetrioli di mare e delle stelle marine, ma era risultato impossibile
trovare nel Golfo di Napoli quantitativi sufficienti di esemplari vivi.
Sicché, invece di un ricco raccolto marino, era stato il paesaggio
italiano a offrirgli quelle che chiamava “tentazioni allettanti”2. Come si
era potuto pensare che lui fosse uno scienziato impegnato in una
disciplina che sentiva limitata in maniera quasi claustrofobica, quando
fuori la natura esponeva le sue merci allettanti come in un bazar
orientale? Era così orribile, scrisse Haeckel a Anna, che gli pareva di
sentire “la risata di scherno di Mefistofele”3.
Nella stessa lettera, Haeckel filtrava i suoi dubbi attraverso la lente
della visione humboldtiana della natura. Come poteva conciliare la
necessità di fare le osservazioni dettagliate richieste dal suo lavoro
scientifico con l’impulso a “comprendere la natura come un insieme”?
4 In Cosmos Humboldt aveva scritto del legame che univa conoscenza,
scienza, poesia e sentimento artistico, ma Haeckel era incerto su come
applicare ciò al suo lavoro di zoologo5. La flora e la fauna lo invitavano
a svelare i loro segreti, tormentandolo e blandendolo; ma lui non
sapeva se doveva usare un pennello da pittore o un microscopio. Come
faceva a saperlo con certezza?
La morte di Humboldt aprì una fase di incertezza nella vita di
Haeckel, durante la quale andò in cerca della sua vera vocazione. Essa
rappresentò l’inizio di una carriera in parte segnata da un misto di
rabbia, crisi e sofferenza. Nella sua vita, la morte sarebbe diventata
una forza propulsiva che, anziché condurlo a uno stato di stasi o di
torpore, lo spingeva a lavorare più duramente e con accanimento,
incurante della sua reputazione futura. Ne fece anche uno degli
scienziati più controversi e di spicco della sua epoca*6 – capace
d’influenzare artisti e scrittori e di traghettare nel ventesimo secolo il
concetto humboldtiano di natura.

Nella vita di Haeckel, Humboldt era sempre stato una figura molto
influente. Nato a Potsdam nel 1834, lo stesso anno in cui Humboldt
aveva cominciato a scrivere Cosmos, Haeckel ne aveva letto i libri da
ragazzo. Il padre lavorava per il governo prussiano, ma aveva anche
interessi scientifici e la famiglia trascorreva spesso le serate leggendo
ad alta voce pubblicazioni scientifiche. Pur non avendo mai conosciuto
Humboldt, Haeckel fin da bambino si era imbevuto delle sue idee sulla
natura7. Adorava le sue descrizioni dei tropici fino al punto di
desiderare ardentemente di diventare lui stesso un esploratore; ma il
padre aveva in mente per lui una carriera molto più tradizionale.
Seguendo i desideri paterni, a diciotto anni il giovane si era quindi
iscritto alla facoltà di medicina a Würzburg in Baviera per diventare
medico. Era malinconico e soffriva di nostalgia. Dopo le lunghe
giornate trascorse a lezione si ritirava nella sua stanza, con una voglia
disperata di leggere Cosmos8. E tutte le sere, appena apriva le pagine
piene di ditate, si sprofondava nel meraviglioso mondo di Humboldt.
Quando non leggeva, andava in giro nei boschi, in cerca di solitudine e
di legami con il mondo della natura. Alto, snello, bello e con penetranti
occhi azzurri, tutti i giorni correva e nuotava ed era atletico come lo
era stato Humboldt da giovane9.
“Non potete sapere quanto gioisco dei piaceri che mi offre la
natura”, scriveva ai genitori da Würzburg, “tutte le mie preoccupazioni
di colpo svaniscono.”10 Scriveva del canto garbato degli uccelli e del
vento che pettina le foglie; guardava incantato i doppi arcobaleni e le
pendici dei monti chiazzate dalle ombre fugaci delle nuvole; a volte
tornava dalle sue lunghe passeggiate carico di edera, con cui
intrecciava collane che appendeva al ritratto di Humboldt nella sua
stanza11. Quanto avrebbe desiderato vivere a Berlino, più vicino al suo
eroe! Aveva intenzione di partecipare alla cena annuale alla
Geographical Society a Berlino dove Humboldt sarebbe stato presente,
scrisse ai genitori nel marzo 1853, pochi mesi dopo essere arrivato a
Würzburg: vedere Humboldt, sia pure da lontano, era il suo “desiderio
più ardente”12.
Nella primavera seguente, Haeckel ottenne il permesso di studiare
per un trimestre a Berlino – e anche se non gli riuscì vedere Humboldt
neanche di sfuggita, trovò comunque qualcun altro da ammirare.
Prese qualche lezione di anatomia comparata dal più famoso zoologo
tedesco del tempo, Johannes Müller, che allora lavorava su pesci e
invertebrati marini13. Affascinato dai suoi vivaci racconti di raccolte
fatte sulla riva del mare, Haeckel trascorse un’estate a Helgoland,
un’isoletta al largo della costa tedesca sul Mare del Nord. Passava le
giornate all’aperto, nuotando e catturando creature marine. Se
prendeva qualche medusa la osservava ammirato: i loro corpi
trasparenti erano venati di striature colorate e i lunghi tentacoli si
muovevano con eleganza nell’acqua. E quando con il retino ne catturò
un esemplare di particolare bellezza14, Haeckel capì di aver trovato il
suo animale preferito e una disciplina scientifica da approfondire: la
zoologia.
Pur obbedendo alla volontà del padre e continuando a studiare
medicina, Haeckel non intendeva esercitare la professione di medico.
Gli piacevano la botanica e l’anatomia comparata, gli invertebrati
marini e i microscopi, amava scalare montagne e nuotare, dipingere e
disegnare; ma la medicina la detestava. Più leggeva Humboldt e più
cresceva la sua brama di conoscerne le opere. Quando andò a trovare i
genitori portò con sé Quadri della natura e chiese alla madre di
comprargli una copia di Personal Narrative perché, disse, “era la sua
ossessione”15. Prese a prestito dalla biblioteca dell’università di
Würzburg decine di libri di Humboldt, dai volumi di botanica alla
grande edizione in folio di Vues des Cordillères con le spettacolari
incisioni di paesaggi e monumenti latino-americani – “edizioni
straordinariamente sontuose”16, le definiva. Chiese ai genitori di
mandargli come regalo di Natale l’atlante che era stato pubblicato per
accompagnare Cosmos17: gli era più facile, spiegò, capire e
memorizzare attraverso immagini che non attraverso parole18.
Ernst Haeckel con la sua attrezzatura da pesca

Durante una visita a Berlino, Haeckel si recò in pellegrinaggio nella


tenuta di proprietà della famiglia, Tegel19. Era una bellissima giornata
estiva – anche se Humboldt non lo si vedeva da nessuna parte. Fece il
bagno nel lago, dove un tempo aveva nuotato il suo eroe e si sedette
sulla sponda finché la luna non proiettò un velo d’argento sulla
superficie dell’acqua. Non era mai stato così vicino a Humboldt.
Voleva seguirne le orme e vedere il Sud America. Sarebbe stato
l’unico modo per riconciliare le due anime tra loro in conflitto nel suo
petto: “l’uomo razionale” e l’artista dominato “dai sentimenti e dalla
poesia”20. L’unica professione in grado di combinare la scienza con le
emozioni e l’avventura era quella dell’esploratore-naturalista, Haeckel
ne era sicuro. Sognava “giorno e notte”21 un grande viaggio e cominciò
a fare piani. Prima si sarebbe laureato in medicina e poi avrebbe
cercato un impiego come medico di bordo. Una volta raggiunti i
tropici, avrebbe lasciato la nave per dedicarsi al suo “progetto
robinsoniano”22. Il vantaggio di un piano del genere, spiegava ai
genitori sempre più preoccupati, era che lo avrebbe costretto a portare
a termine gli studi a Würzburg. Avrebbe fatto qualunque cosa, se ciò
significava poter andare “lontano, lontano nel mondo”23.
Ma i genitori la pensavano diversamente e insistevano perché il
figlio facesse il medico a Berlino. All’inizio Haeckel fece quel che gli
veniva richiesto, ma sotto sotto cercava di sabotare i loro piani.
Quando cominciò a esercitare la professione a Berlino, stabilì orari di
apertura del suo studio piuttosto stravaganti: i pazienti potevano farsi
visitare soltanto tra le cinque e le sei del mattino24 e non sorprende
che, in un anno, non ne avesse avuti che una mezza dozzina – anche se
nessuno di coloro che aveva avuto in cura era morto, annunciava con
orgoglio.
Alla fine fu l’amore per la fidanzata Anna a fargli prendere in
considerazione una carriera più tradizionale. Haeckel la chiamava la
“figlia genuina della foresta tedesca”25. Anna, anziché beni materiali –
vestiti, mobili o bei gioielli – amava le gioie semplici della vita, come
una passeggiata in campagna o starsene sdraiata in un prato in mezzo
ai fiori selvatici. Era, come lui diceva, “incontaminata e pura”26. Un
destino felice gli fece scoprire che condivideva il giorno della nascita
con quello di Humboldt – 14 settembre – e fu sempre in questa data
che annunciarono il loro fidanzamento27. Haeckel decise di diventare
professore di zoologia: era una professione rispettabile e lui non
avrebbe avuto a che fare con la sua “insormontabile repulsione” per un
“corpo malato”28. Per sfondare nel mondo scientifico, non aveva che
da scegliere un progetto di ricerca.

All’inizio di febbraio del 1859 Haeckel arrivò in Italia, dove sperava di


trovare nuovi invertebrati marini. Andava bene tutto, dalle meduse a
micro-organismi monocellulari, purché fosse una scoperta utile a
lanciare la sua nuova carriera. Dopo qualche settimana trascorsa a
visitare Firenze e Roma, Haeckel raggiunse Napoli per mettersi a
lavorare seriamente. Ma niente andò per il verso giusto29. I pescatori
si rifiutavano di aiutarlo. La città era sporca e rumorosa, le strade
piene d’imbroglioni e truffatori e i prezzi gonfiati. Il clima era caldo e
polveroso e di ricci di mare e di meduse se ne vedevano ben pochi.
Fu a Napoli che Haeckel ricevette la lettera con cui il fratello gli
annunciava la morte di Humboldt, facendolo riflettere non solo su arte
e scienza, ma sul suo stesso futuro. Nei vicoli rumorosi della città che
s’intrecciavano formando un labirinto sotto la sagoma imponente del
Vesuvio, avvertì di nuovo le due anime in lotta tra loro nel suo
petto30. Il 17 giugno, tre settimane dopo aver appreso della scomparsa
del suo eroe, Haeckel non ce la fece più a sopportare Napoli. Andò a
Ischia, piccola isola nel Golfo di Napoli, raggiungibile con un breve
tragitto in battello.
A Ischia conobbe un poeta e pittore tedesco, Hermann Allmers31.
Per una settimana i due uomini se ne andarono in giro per l’isola,
disegnando e facendo escursioni, nuotando e conversando. Godevano
della reciproca compagnia e decisero di viaggiare per un po’ insieme.
Quando tornarono a Napoli scalarono il Vesuvio e poi salparono per
Capri, altra isoletta nel golfo, dove Haeckel sperava di vedere la natura
come un unico “insieme interconnesso”32.
Haeckel imballò cavalletto e acquerelli e, per precauzione, anche gli
strumenti di lavoro e i taccuini. Ma nel giro di una settimana dal suo
arrivo a Capri aveva adottato un nuovo stile di vita da artista. Viveva
nei suoi sogni, confessò ad Anna, rimasta a Berlino ad aspettare
pazientemente il fidanzato. Il microscopio restava nell’astuccio: invece
di lavorare, Haeckel dipingeva. Non voleva essere “una larva attaccata
alla lente di un microscopio”33, disse ad Anna – e come avrebbe
potuto, con la natura in tutto il suo splendore che lo chiamava: “Fuori!
Esci!”34 Solamente “uno studioso fossilizzato”35 sarebbe stato capace
di resistere. Fin da quando, ancora ragazzo, aveva letto Quadri della
natura di Humboldt, sognava questo tipo di “vita semi-selvaggia
immerso nella natura”36. A Capri, finalmente vedeva la “straordinaria
magnificenza del macro-cosmo”37, scrisse ad Anna. Non aveva
bisogno d’altro che del suo “fedele pennello”38, voleva dedicare
l’esistenza a quel mondo poetico di luci e colori: la crisi innescata dalla
morte di Humboldt si evolveva in una trasformazione a tutto tondo.
I genitori ricevevano lettere analoghe, anche se con meno enfasi
sugli aspetti più selvatici della sua nuova vita. Piuttosto, Haeckel a loro
parlava del suo possibile futuro di artista, senza mancare di
rammentare ciò che Humboldt aveva scritto sul legame tra arte e
scienza. Con il suo talento artistico – che altri pittori a Capri
attestavano, assicurava ai genitori – e le sue conoscenze botaniche,
riteneva di essere nella posizione più idonea per a raccogliere la sfida
lanciata da Humboldt. Dopo tutto, dipingere paesaggi era stato uno
degli “interessi preferiti di Humboldt”. E ora lui annunciava di voler
essere un pittore che “con il pennello percorreva a grandi passi il
mondo, dall’Oceano Artico all’Equatore”39.
A casa, a Berlino, il padre non era affatto contento di questi sviluppi
e spedì una lettera severa. Erano anni che osservava i progetti
oscillanti del figlio. Non era un uomo ricco, ricordò a Haeckel, e “non
posso farti viaggiare per anni per tutto il mondo”40. Perché suo figlio
doveva sempre portare tutto agli estremi – lavorare, nuotare, scalare,
ma anche sognare, sperare e dubitare? “Ora devi coltivare il tuo vero
lavoro”, proseguiva Haeckel senior, non lasciando spazio a dubbi su
dove vedeva il futuro del figlio.
Fu ancora una volta l’amore di Haeckel per Anna a fargli prendere
coscienza che il suo sogno era destinato a restare tale. Se voleva
sposarla, doveva diventare uno “scialbo”41 professore, anziché
esplorare il mondo con un pennello. A metà settembre, poco più di
quattro mesi dopo la morte di Humboldt, Haeckel raccolse bagagli e
strumenti e andò a Messina, in Sicilia, per concentrarsi sul lavoro
scientifico. Ma le settimane trascorse a Capri lo avevano cambiato per
sempre. Quando i pescatori siciliani gli portarono dei secchi pieni di
acqua di mare animata da migliaia di minuscoli organismi, Haeckel li
vide con gli occhi dello zoologo e dell’artista. Quando, con estrema
attenzione, faceva scendere qualche goccia d’acqua sotto al
microscopio, si svelavano nuove meraviglie. Quei piccolissimi
invertebrati marini sembravano “delicate opere d’arte”42, pensava,
fatte di vetro intagliato o gemme variopinte. E invece di lasciarsi
spaventare dall’idea di trascorrere giornate dietro a un microscopio
era tutto preso da quelle “meraviglie marine”.
Tutti i giorni faceva una nuotata, all’alba, quando il sole laccava di
rosso la superficie dell’acqua e la natura riluceva nella sua “più
mirabile brillantezza”43, scriveva a casa. Dopo la nuotata, andava al
mercato del pesce a prendere la sua fornitura quotidiana di acqua di
mare e alle 8 era nella sua stanza, dove lavorava fino alle 5 del
pomeriggio. Dopo un pasto veloce seguito da una camminata a passo
spedito lungo la spiaggia, alle 7 e mezzo era di nuovo al tavolo e
scriveva appunti fino a mezzanotte44. La tenacia lo ripagò. A
dicembre, tre mesi dopo il suo arrivo in Sicilia, era sicuro di aver
trovato il progetto scientifico che gli avrebbe assicurato una carriera:
la ricerca sui radiolari.
Questi minuscoli organismi marini monocellulari misuravano circa
50-100 micrometri ed erano visibili solo attraverso il microscopio.
Una volta ingranditi, i radiolari rivelavano la loro straordinaria
struttura. I delicati scheletri minerali presentavano un modello
complesso di simmetrie, spesso con sporgenze a raggiera che
sembravano farli galleggiare. Settimana dopo settimana, Haeckel
identificava nuove specie e anche nuove famiglie. All’inizio di febbraio
aveva scoperto più di sessanta specie prima sconosciute. Poi, il 10
febbraio, la pesca del mattino ne aggiunse, da sola, altre dodici. Cadde
in ginocchio davanti al microscopio, scrisse ad Anna e s’inchinò a
quelle benevole divinità e ninfe marine per ringraziarle dei loro doni
generosi45.
Questo lavoro “è fatto per me”46, dichiarava ora Haeckel. Metteva
insieme la sua passione per l’esercizio fisico, la natura, la scienza e
l’arte – dal piacere della pesca mattiniera, che ora faceva da solo,
all’ultimo tratto di matita dei suoi disegni. I radiolari gli svelavano un
mondo nuovo, fatto di ordine ma anche di meraviglia – “poetico e
incantevole”47, diceva ad Anna. Alla fine di marzo 1860, aveva
scoperto oltre cento nuove specie ed era pronto per tornare a casa e
svilupparle in un libro48.
Haeckel illustrò il suo libro di zoologia con disegni di propria mano,
di un’accuratezza perfetta sotto il profilo scientifico, ma anche di
considerevole bellezza. Sembrava capace di guardare con un occhio nel
microscopio mentre l’altro si concentrava sul tavolo da disegno49 – un
talento così inusuale da far dire ai suoi vecchi professori che non
avevano mai conosciuto nessuno in grado di fare una cosa del genere.
Ma per lui l’atto del disegnare era il modo migliore per comprendere la
natura: con la matita e il pennello, diceva, penetrava nel segreto della
sua bellezza50 più a fondo di quanto non avesse mai fatto prima,
erano gli strumenti con cui vedeva e apprendeva. Le due anime nel suo
petto si erano finalmente riunite.
I radiolari erano così belli, scrisse Haeckel al vecchio compagno di
viaggio Allmers al suo ritorno in Germania, che si chiedeva se non
volesse magari usarli per decorare il suo studio – o addirittura “creare
un nuovo ‘stile’!!”51*52. Lavorò freneticamente sui disegni e due anni
dopo, nel 1862, pubblicò un magnifico libro in due volumi: Die
Radiolarien (Rhizopoda Radiaria). Il risultato fu la nomina a
professore associato presso l’università di Jena, la cittadina in cui
Humboldt, più di mezzo secolo prima, aveva conosciuto Goethe53.
Nell’agosto 1862, Haeckel sposò Anna. Era felice. Senza di lei, disse,
sarebbe morto come una pianta priva della “luce vitale del sole”54.

Mentre lavorava a Die Radiolaren, aveva letto un libro che ancora una
volta avrebbe cambiato la sua vita: Origin of Species di Darwin.
Rimase impressionato dalla teoria di Darwin sull’evoluzione – era “un
libro assolutamente folle”55, avrebbe raccontato più tardi. In una volta
sola, Origin of Species gli dava le risposte che cercava su come gli
organismi si erano sviluppati. Il libro di Darwin apriva un mondo
nuovo56, diceva Haeckel. Dava una soluzione “a tutti i problemi, per
quanto spinosi”57, scrisse in una lunga lettera a Darwin piena di
ammirazione. Con il suo lavoro, Darwin sostituiva la credenza nella
creazione divina degli animali, delle piante e degli essere umani con il
concetto che essi erano il prodotto di processi naturali – un’idea
rivoluzionaria che scuoteva la dottrina religiosa fino al suo nucleo più
profondo.
Origin of Species sollevò un’ondata generale di protesta nel mondo
scientifico. In molti accusarono Darwin di eresia. Portata alle estreme
conclusioni, la teoria di Darwin significava che l’uomo apparteneva
allo stesso albero della vita di tutti gli altri organismi. Pochi mesi dopo
la pubblicazione, in Inghilterra si arrivò a una grande resa dei conti
pubblica, a Oxford, tra il vescovo Samuel Wilberforce e l’acceso
sostenitore di Darwin, Thomas Huxley, biologo e futuro presidente
della Royal Society. A un convegno della British Association for the
Advancement of Science, Wilberforce aveva provocatoriamente chiesto
a Huxley se non fosse per caso parente di una scimmia da parte della
nonna o del nonno e Huxley aveva risposto che preferiva essere
disceso da una scimmia piuttosto che da un vescovo. I dibattiti erano
polemici, eccitanti e radicali58.
Quando Haeckel lo lesse, Origin of Species cadde su di un terreno
fertile, perché fin dall’infanzia era stato influenzato dal concetto di
natura di Humboldt e Cosmos già conteneva “modi di pensare pre-
darwiniani”59. Nei decenni successivi Haeckel sarebbe diventato il più
acceso sostenitore di Darwin in Germania*60. Anna lo chiamava “il
suo Darwin tedesco”61, mentre Hermann Allmers canzonava
allegramente Haeckel per la sua “vita piena di amore e di
darwinismo”62.
Poi arrivò la tragedia. Il 16 febbraio 1864, il giorno del trentesimo
compleanno di Haeckel, nel quale ricevette un prestigioso premio
scientifico per il suo libro sui radiolari, Anna morì dopo una breve
malattia – forse un’appendicite. Erano sposati da meno di due anni63.
Haeckel cadde in una depressione profonda. “Dentro sono morto”64,
disse a Allmers, schiacciato da un “dolore atroce”65. Dichiarava che la
morte di Anna aveva distrutto ogni prospettiva di felicità e, per
sopravvivere, si buttò nel lavoro. “Intendo dedicare tutta la mia
vita”66 alla teoria dell’evoluzione, scrisse a Darwin.
Viveva come un eremita67, gli disse, e l’unica cosa di cui si occupava
era l’evoluzione. Era pronto a sfidare l’intero mondo scientifico,
perché la morte di Anna lo aveva reso “immune al plauso e al
biasimo”68. Per dimenticare le sue pene, per un anno intero lavorò
diciotto ore al giorno per sette giorni alla settimana.
Dalla sua disperazione nacquero i due volumi di Generelle
Morphologie der Organismen, pubblicati nel 1866 – 1.000 pagine su
evoluzione e morfologia degli organismi, compreso lo studio della loro
struttura e forma*69. Darwin descriveva il libro come “il più grandioso
panegirico”70 che mai si fosse fatto di Origin of Species. Era un libro
arrabbiato, nel quale Haeckel attaccava quanti si rifiutavano di
accettare la teoria evoluzionista di Darwin e snocciolava un fuoco di
fila di insulti: i critici di Darwin scrivevano libri grossi ma “vuoti”,
erano “in un dormiveglia scientifico” e vivevano una “vita piena di
sogni ma povera di pensieri”71. Persino Thomas Huxley – che pure si
definiva “il cane da guardia”72 di Darwin – pensava che Haeckel
dovesse abbassare un po’ i toni, se voleva vedersi pubblicare
un’edizione inglese. Ma lui non si smuoveva.
Una riforma radicale delle scienze non si poteva fare con le buone
maniere, diceva Haeckel a Huxley, bisognava sporcarsi le mani e usare
i “forconi”73. Aveva scritto Generelle Morphologie in un momento di
profonda crisi personale, come spiegava a Darwin, la sua amarezza
riguardo al mondo e alla propria vita si insinuava in ogni frase. Da
quando Anna era morta, non gli importava più nulla della sua
reputazione: i miei tanti nemici “possono attaccare il mio lavoro con
tutta la forza che hanno e quanto gli pare”74. Potevano stroncarlo
quanto volevano, non gliene poteva importare di meno.
Generelle Morphologie non era soltanto un appello a favore della
nuova teoria dell’evoluzione, era anche il libro in cui Haeckel per la
prima volta dava un nome alla disciplina propria di Humboldt:
Oecologie, o “ecologia”75, prendendo il termine greco che significa
casa – oikos – per applicarlo al mondo naturale. Tutti gli organismi
della terra erano legati tra loro come una famiglia che condivide la
stessa casa, e al pari dei membri di una famiglia, potevano essere tra
loro in conflitto o aiutarsi a vicenda. Natura organica e natura
inorganica formano un “sistema di forze attive”76, scriveva in
Generelle Morphologie, usando esattamente le stesse parole di
Humboldt. Haeckel riprendeva l’idea humboldtiana della natura come
un insieme unico fatto di interrelazioni complesse e gli dava un nome:
ecologia, la “scienza delle relazioni di un organismo con l’ambiente che
lo circonda”77*78.
Lo stesso anno in cui aveva inventato la parola “ecologia”, Haeckel
finalmente seguì Humboldt e Darwin in lidi più lontani. Nell’ottobre
1866, più di due anni dopo la morte di Anna, partì per Tenerife, l’isola
che per gli scienziati aveva assunto una dimensione quasi mistica, sin
da quando Humboldt l’aveva descritta in termini così seducenti in
Personal Narrative. Era giunto il momento di realizzare quello che
Haeckel chiamava il suo “sogno più vecchio e prediletto in materia di
viaggi”79. Circa settant’anni dopo che Humboldt aveva preso il largo e
più di trenta da quando Darwin era salito a bordo del Beagle, Haeckel
intraprese il suo viaggio. Per quanto appartenenti a tre diverse
generazioni, per tutti la scienza non era soltanto un’attività cerebrale.
La loro scienza implicava uno strenuo esercizio fisico, perché
guardavano la flora e la fauna – si trattasse di palme, licheni, cirripedi,
uccelli o invertebrati marini – nei loro habitat naturali. Capire
l’ecologia voleva dire esplorare nuovi mondi brulicanti di vita.
In viaggio verso Tenerife, Haeckel fece sosta in Inghilterra, dove
combinò per incontrare Darwin nella sua casa a Down House, nel
Kent, a breve distanza di treno da Londra. Non aveva mai conosciuto
Humboldt, ma ora aveva la possibilità di conoscere l’altro suo eroe.
Alle 11 e mezzo del mattino di sabato 21 ottobre, il cocchiere di Darwin
andò a prendere Haeckel a Bromley, la stazione ferroviaria locale e lo
portò in una casa di campagna coperta d’edera dove il
cinquantasettenne Darwin lo aspettava sulla porta80. Haeckel era così
nervoso che dimenticò il poco inglese che sapeva. I due uomini si
strinsero a lungo la mano, con Darwin che non smetteva di dire
quanto era felice di vederlo. Haeckel, come raccontò la figlia di
Darwin, Henrietta, era stordito e ammutolito in un “silenzio
mortale”81. Passeggiando in giardino lungo la Sandwalk, il sentiero
cui Darwin doveva molte delle sue riflessioni, Haeckel un po’ alla volta
si riprese e cominciò a parlare. Parlava in inglese con forte accento
tedesco, incespicando un po’, ma in maniera abbastanza chiara da
consentire ai due scienziati di godersi una lunga conversazione
sull’evoluzione e sui viaggi all’estero.
Darwin era esattamente come Haeckel lo aveva immaginato. Più
vecchio di lui, gentile e con un tono di voce pacato e sommesso,
emanava un’aura di saggezza, pensava Hackel, proprio come lui
s’immaginava Socrate o Aristotele. L’intera famiglia di Darwin lo
accolse con tale calore che si era davvero sentito a casa, disse agli
amici di Jena. Quella visita, avrebbe affermato più tardi, fu uno dei
momenti più “indimenticabili”82 della sua vita. Il giorno dopo,
quando ripartì, era più che mai convinto che la natura non poteva che
essere vista come “un insieme unico” – un “regno della vita”83 al cui
interno tutto era interrelato.
Era venuto il momento di partire. Haeckel aveva organizzato un
incontro con i tre assistenti che aveva assunto per aiutarlo nella sua
ricerca (uno scienziato di Bonn e due dei suoi studenti di Jena)84: si
sarebbero trovati a Lisbona per salpare insieme verso le Isole Canarie.
Appena i quattro uomini approdarono a Tenerife, Haeckel si precipitò
a vedere i luoghi che Humboldt aveva descritto. E naturalmente non
poté mancare di seguire le sue orme fino alla vetta del Pico del Teide.
Mentre si arrampicava tra neve e venti ghiacciati, il mal d’altitudine gli
fece perdere i sensi e ridiscese barcollando e incespicando. Ma lo aveva
fatto!, scrisse a casa orgoglioso. Il fatto di aver visto ciò che Humboldt
aveva visto era “molto appagante”85. Da Tenerife, Haeckel e i suoi tre
assistenti s’imbarcarono per l’isola vulcanica di Lanzarote, dove
trascorsero tre mesi lavorando a vari progetti zoologici. Lui si
concentrava su radiolari e meduse e gli assistenti studiavano pesci,
spugne, vermi e molluschi. Il paesaggio era brullo, ma il mare era vivo,
diceva Haeckel, era come un “grande brodo animale”86.
Quando tornò a Jena, nell’aprile 1867, era più calmo e in pace87.
Anna sarebbe rimasta l’amore della sua vita e persino molti anni dopo,
quando si era già risposato, l’anniversario della sua morte lo
addolorava. “In questo giorno triste io mi sento perso”88, scrisse
trentacinque anni dopo. Ma aveva imparato ad accettare e a convivere
con la morte di Anna.

Per qualche decennio viaggiò molto – soprattutto in Europa ma anche


in Egitto, India, Sri Lanka, Giava e Sumatra89. Continuava a
insegnare a Jena agli studenti, ma i viaggi lo rendevano più felice di
ogni altra cosa. La sua passione per l’avventura non venne mai meno.
Nel 1900, a sessantasei anni, partecipò a una spedizione a Giava e la
sola prospettiva, commentavano gli amici, lo aveva “ringiovanito”90.
Durante queste spedizioni raccoglieva esemplari e disegnava. Come
Humboldt, riteneva che i tropici fossero il posto migliore per capire le
basi dell’ecologia.
Un albero nella foresta pluviale, scriveva Haeckel, illustrava da solo,
nella maniera più evidente, le relazioni reciproche tra animali e piante
e tra questi e l’ambiente: le orchidee epifite, che con le loro radici si
abbarbicavano ai rami degli alberi, gli insetti, che erano diventati
impollinatori adattandosi perfettamente all’ambiente, o i rampicanti,
che avevano vinto la loro battaglia facendosi strada attraverso la
chioma di un albero in cerca di luce – erano tutte prove di un
ecosistema vario. Qui ai tropici, diceva Hackel, la “lotta per la
sopravvivenza”91 era così intensa che le armi sviluppate dalla flora e
dalla fauna erano “eccezionalmente ricche” e variegate. Era questo il
posto giusto per vedere come piante e animali vivono insieme ad
“amici e nemici, ai loro simbionti e parassiti”92, scriveva Haeckel. Era
la rete vitale di Humboldt.
Durante gli anni trascorsi a Jena, Haeckel aveva anche fondato,
assieme ad altri, una rivista scientifica in onore di Humboldt e Darwin.
Dedicata alla teoria evoluzionista e alle idee ecologiche, fu intitolata
Kosmos93. Scrisse e pubblicò, inoltre, ricche monografie su creature
marine quali spugne calcaree, meduse e ancora sui radiolari, nonché
resoconti di viaggi e diversi libri per diffondere ulteriormente le teorie
di Darwin. Molti dei libri di Haeckel contenevano ricche illustrazioni,
presentate per la maggior parte come serie piuttosto che come
immagini singole. Quei disegni costituivano una sorta di racconto
della natura, che rispondeva al suo bisogno di rendere “visibile”
l’evoluzione94. L’arte era diventata per Haeckel uno strumento di
trasmissione delle conoscenze scientifiche.
Al volgere del secolo, Haeckel pubblicò una serie di libriccini
intitolati Kunstformen der Nature che, nell’insieme, formavano una
raccolta di un centinaio di squisite illustrazioni destinate a lasciare
un’impronta sul linguaggio stilistico dell’Art Nouveau95. Per più di
cinquant’anni, disse Haeckel a un amico, era stato un seguace delle
idee di Humboldt96, ma ora Kunstformen der Nature le spingeva
oltre, mettendo artisti e designer a contatto con temi scientifici. La
maggior parte delle illustrazioni di Haeckel svelavano la bellezza
spettacolare di organismi minuscoli, visibili soltanto attraverso il
microscopio – “tesori nascosti”97, li chiamava. In Kunstformen der
Nature insegnava ad artigiani, artisti e architetti come usare questi
nuovi “magnifici motivi”98 nella maniera corretta, aggiungendo un
epilogo con tabelle in cui classificava i diversi organismi secondo la
loro importanza estetica e inserendovi commenti tipo: “estremamente
ricco”, “molto vario e significativo” oppure “motivo ornamentale”.
Pubblicato tra il 1899 e il 1904, Kunstformen der Nature ebbe
subito un enorme impatto. In un periodo in cui urbanizzazione,
industrializzazione e progresso tecnologico allontanavano la gente
dalla terra, i disegni di Haeckel offrivano una tavolozza di forme e
motivi tratti dalla natura che divennero un linguaggio a disposizione di
artisti, architetti e artigiani desiderosi di unire di nuovo, attraverso
l’arte, l’uomo e la natura.

A sinistra: la porta monumentale di Binet all’Esposizione universale di Parigi del 1900. A


destra: radiolari di Haeckel che ispirarono la cancellata di Binet – in particolare quelli nella
fila di mezzo

Al volgere del secolo, l’Europa era entrata nella cosiddetta Età delle
Macchine. Le fabbriche vennero dotate di macchinari elettrici e la
produzione di massa spingeva le economie d’Europa e degli Stati
Uniti. La Germania per lungo tempo era rimasta indietro rispetto alla
Gran Bretagna, ma dopo la creazione del Reich tedesco nel 1871,
guidato dal cancelliere tedesco Otto von Bismarck e con il re di
Prussia, Wilhelm I, divenuto imperatore della Germania, il paese
aveva preso una velocità da capogiro99. Quando Haeckel pubblicò la
prima edizione di Kunstformen der Nature nel 1899, la Germania, con
Inghilterra e Stati Uniti, era un’economia leader a livello mondiale.
Ormai sulle strade tedesche correvano le prime automobili e una
rete ferroviaria collegava i centri industriali della Ruhr con le grandi
città portuali, quali Amburgo e Brema. Si producevano carbone e
acciaio in quantità sempre crescenti e nuove città nascevano come
funghi attorno ai fulcri del sistema industriale. Nel 1887 a Berlino era
entrata in funzione la prima centrale elettrica e l’industria chimica
della Germania, ormai la più importante e avanzata al mondo,
produceva tinture, prodotti farmaceutici e fertilizzanti di sintesi.
Diversamente dall’Inghilterra, la Germania aveva politecnici e
laboratori di ricerca industriali che formavano una generazione di
nuovi scienziati e ingegneri. Erano istituzioni incentrate
sull’applicazione pratica della scienza più che sulle scoperte
accademiche.
Tra i sempre più numerosi abitanti dei centri urbani, scriveva
Haeckel, molti avevano una gran voglia di allontanarsi dall’“irrequieto
trambusto” e dalle “nuvole di fumo nero delle fabbriche”100.
Scappavano sulle coste, nelle foreste ombrose o su frastagliate pendici
montane, nella speranza di ritrovare se stessi nella natura. Al volgere
del secolo, gli artisti dell’Art Nouveau cercarono di riconciliare la
relazione disturbata tra uomo e natura, traendo la loro ispirazione
estetica dal mondo naturale. Ora “imparavano dalla natura”101 e non
da docenti, commentava un designer tedesco. L’introduzione di motivi
naturali negli arredamenti e nell’architettura divenne un momento di
redenzione nel portare l’organico in un mondo sempre più
meccanico102.
A sinistra: i disegni di Binet per interruttori della luce elettrica che riprendevano i disegni di
Haeckel. A destra: il disegno di Haeckel della medusa che fu dipinto sul soffitto di Villa
Medusa

Il famoso decoratore di vetri artistici francese, Émile Gallé, ad


esempio, possedeva una copia di Kunstformen der Nature ed era
convinto che il “raccolto marino” dagli oceani aveva trasformato i
laboratori scientifici in atelier per le arti decorative. La “medusa
cristallina”, disse nel maggio del 1900, ha portato nuove “sfumature e
curve nel vetro”103. Il nuovo linguaggio stilistico dell’Art Nouveau
inseriva ovunque elementi presi a prestito dalla natura: dai grattacieli
alla gioielleria, dai manifesti ai candelieri, dalla mobilia ai tessuti.
Ornamenti sinuosi si attorcigliavano in linee floreali arricchite da
viticci incise su vetrate e i fabbricanti di mobili lavoravano le gambe
dei tavoli e dei braccioli realizzando curve a guisa di rami.
Furono questi movimenti e queste linee ispirati alla natura organica
a dare all’Art Nouveau il suo stile particolare. Nel primo decennio del
ventesimo secolo, l’architetto barcellonese Antoni Gaudí ingrandì gli
organismi marini di Haeckel per farne balaustre e archi104. Ricci di
mare giganti decoravano le sue finestre di vetro colorato e i grandi
lampadari a soffitto da lui progettati sembravano conchiglie di nautili.
Ciuffi immensi di alghe intrecciate con invertebrati marini
sagomavano stanze, scaloni e finestre. Di là dall’Atlantico, negli Stati
Uniti, Louis Sullivan, il cosiddetto “padre dei grattacieli”, cercava a sua
volta ispirazione nella natura. Sullivan possedeva diversi libri di
Haeckel e attribuiva all’arte la capacità di creare un’armonia tra
l’anima dell’artista e quella della natura105. Le facciate dei suoi edifici
erano decorate con motivi stilizzati tratti dalla flora e dalla fauna.
Anche il designer americano Louis Comfort Tiffany fu influenzato da
Haeckel. Le caratteristiche eteree e diafane proprie di alghe e meduse
s’intonavano perfettamente ai suoi oggetti in vetro, meduse
ornamentali si allungavano giro giro attorno ai vasi di Tiffany e dal suo
atelier uscì anche una collana di oro e platino “a forma di alga
marina”106.
Verso la fine di agosto del 1900, in viaggio da Jena verso Giava,
Haeckel fece una breve sosta a Parigi per visitare l’Esposizione
Universale, dove passò attraverso uno dei suoi radiolari107.
L’architetto francese René Binet si era infatti ispirato alle immagini di
microscopiche creature marine di Haeckel per la sua “Porta
monumentale”, la grande cancellata di ferro da lui progettata per
l’esposizione108. L’anno prima aveva scritto a Haeckel per dirgli che
“tutto in essa”109 – dal più piccolo dettaglio al disegno generale – “è
stato ispirato dai vostri studi”. L’esposizione fece conoscere l’Art
Nouveau in tutto il mondo e almeno 50 milioni di visitatori
attraversarono il radiolario di Haeckel, ingigantito.
Lo stesso Binet, in seguito, pubblicò un libro intitolato Esquisses
Décoratives che mostrava come le illustrazioni di Haeckel potevano
essere tradotte in decorazioni per arredamenti. Meduse tropicali
diventavano lampade, organismi monocellulari si trasformavano in
interruttori e immagini microscopiche di tessuti cellulari in disegni di
carta da parati. Binet sollecitava architetti e progettisti a “guardare al
grande laboratorio della Natura”110.
Coralli, meduse e alghe entravano nelle case e il suggerimento semi-
scherzoso che Haeckel aveva dato a Allmers quarant’anni prima,
riguardo all’utilizzo degli schizzi di radiolari che gli mandava dall’Italia
per inventare un nuovo stile, era diventato realtà. A Jena, Haeckel
aveva chiamato la sua casa Villa Medusa* dandogli il nome
dell’adorata creatura marina e l’aveva decorata di conseguenza. Per
esempio, il rosone centrale del soffitto nella sala da pranzo era basato
sul disegno di una medusa da lui stesso scoperta in Sri Lanka.
Mentre l’uomo smontava il mondo naturale in parti sempre più
piccole – fino alle cellule, le molecole, gli atomi e poi gli elettroni –
Haeckel riteneva che questo mondo frammentato andasse
ricomposto111. Humboldt aveva sempre parlato dell’unità della
natura, ma ora Haeckel riprendeva l’idea spingendosi oltre. Diventò
un ardente sostenitore del “monismo” – l’idea che non c’era
separazione tra mondo organico e mondo inorganico. Il monismo si
ribellava in maniera esplicita al concetto di dualismo tra spirito e
materia. Questa idea di unità prendeva il posto di Dio e, con ciò, il
monismo all’inizio del ventesimo secolo divenne il più importante
sostituto (Ersatz) della religione112.
Haeckel spiegò le fondamenta filosofiche di questa visione del
mondo nel suo Welträthsel, che fu pubblicato nel 1899 – lo stesso
anno della prima edizione di Kunstformen der Natur. Il libro divenne
subito un bestseller internazionale, con 450.000 copie vendute nella
sola Germania. Welträthsel fu tradotto in ventisette lingue, tra cui
anche il sanscrito, il cinese e l’ebraico e, con il volgere del secolo,
divenne il più influente libro scientifico destinato al grande
pubblico113. In Welträthsel, Haeckel parlava dell’anima, del corpo e
dell’unità della natura; di fede e conoscenza; di scienza e religione.
Diventò la bibbia del monismo.
Scriveva Haeckel che la dea della verità viveva nel “tempio della
natura”114. Le colonne svettanti della chiesa monistica erano palme
slanciate e alberi tropicali coperti da liane e, in luogo degli altari, vi
sarebbero stati acquari pieni di delicati coralli e pesci variopinti. Dal
“ventre di nostra Madre Natura”, dichiarava Haeckel, discende un
flusso di “bellezze eterne” che non si prosciuga mai115.
Haeckel credeva anche che l’unità della natura potesse essere
espressa attraverso l’estetica116. Alla sua mente quest’arte intrisa di
natura evocava un mondo nuovo. Come aveva già detto Humboldt nel
suo “brillante Kosmos”117, scriveva, l’arte è uno dei più importanti
strumenti educativi, perché diffonde l’amore per la natura. Ciò che
Humboldt aveva chiamato la “contemplazione scientifica ed
estetica”118 del mondo naturale, ribadiva ora Haeckel, era essenziale
per comprendere l’universo e fu questo pensiero a tradursi in una
“religione naturale”.
Finché c’erano scienziati e artisti, non c’era bisogno di preti e
cattedrali. Di questo Haeckel era convinto.
1. Haeckel a Anna Sethe, 29 maggio 1859, p. 63; vedi anche Haeckel a parents, 29 maggio
1859, Haeckel 1921b, p. 66; Carl Gottlob Haeckel a Ernst Haeckel, 19 maggio 1859
[Akademieprojekt “Ernst Haeckel (1834-1918): Briefedition”: devo ringraziare Thomas Bach
per avermi fornito un riassunto della trascrizione].
2. Haeckel a Anna Sethe, 29 maggio 1859, Haeckel 1921b, p. 64.
3. Ibid.
4. Ibid.
5. Cosmos 1845-52, vol. 2, pp. 74, 85, 87; AH Kosmos 1845-50, vol. 2, pp. 76, 87, 90; Haeckel
ai genitori, 6 novembre 1852, Haeckel 1921a, p. 9.
6. (nota a piè di pagina) Richards 2008, pp. 244-76, 489-512.
7. Haeckel a Wilhelm Bölsche, 4 agosto 1892, 4 novembre 1899, 14 maggio 1900, Haeckel
Bölsche Lettere 2002, pp. 46, 110, 123-4; Haeckel 1924, p. ix; Richards 2009, pp. 20 sgg.; Di
Gregorio 2004, pp. 31-5; Krauße 1995, pp. 352-3; I libri di Humboldt sono ancora sugli scaffali
dello studio di Haeckel nella Ernst-Haeckel-Haus a Jena.
8. Haeckel ai genitori, 6 novembre 1852, Haeckel 1921a, p. 9.
9. Max Fürbringer in 1866, Richards 2009, p. 83; e gli esercizi atletici, vedi Haeckel ai
genitori, 11 giugno 1856, Haeckel 1921a, p. 194.
10. Haeckel ai genitori, 27 novembre 1852; vedi anche 23 maggio e 8 luglio 1853, 5 maggio
1855, Haeckel 1921a, pp. 19, 54, 63-4, 132.
11. Haeckel ai genitori, 23 maggio 1853, ivi, p. 54.
12. Haeckel ai genitori, 4 maggio 1853, ivi, p. 49.
13. Haeckel 1924, p. xi; Richards 2009, p. 39; Di Gregorio 2004, p. 44.
14. Richards 2009, p. 40; Haeckel 1924, p. xii.
15. Haeckel ai genitori, 1 giugno 1853, Haeckel 1921a, p. 59.
16. Haeckel ai genitori, 17 febbraio 1854, ivi, pp. 100.
17. Era il Physikalischer Atlas di Heinrich Berghaus; Haeckel ai genitori, 25 dicembre 1852,
ivi, p. 26.
18. Haeckel ai genitori, 25 dicembre 1852, ivi, p. 27.
19. Haeckel a Anna Sethe, 2 settembre 1858, Haeckel 1927, pp. 62-3.
20. Haeckel a Anna Sethe, 23 maggio 1858, ivi, p. 12.
21. Haeckel ai genitori, 17 febbraio 1854, Haeckel 1921a, pp. 101.
22. Ivi, p. 102.
23. Haeckel ai genitori, 11 giugno 1856, ivi, p. 194.
24. “Bericht über die Feier des sechzigsten Geburtstages von Ernst Haeckel am 17. Februar
1894 in Jena”, 1894, p. 15; Haeckel 1924, p. xv.
25. Haeckel a un amico, 14 settembre 1858; vedi anche Haeckel a Anna Sethe, 26 settembre
1858, Haeckel 1927, pp. 67, 72-3 e Haeckel 1924, p. XV.
26. Haeckel a un amico, 14 settembre 1858, Haeckel 1927, p. 67.
27. 14 settembre 1858, Richards 2009, p. 51.
28. Haeckel ai genitori, 1 novembre 1852, Haeckel 1921a, p. 6.
29. Haeckel su Napoli: Haeckel a Anna Sethe, 9 aprile, 24 aprile, 6 giugno 1859, Haeckel
1921b, pp. 30-31, 37 sgg., 67.
30. Ernst Haeckel a Anna Sethe, 29 maggio 1859, ivi, pp. 63 sgg.
31. Haeckel a Anna Sethe, 25 giugno e 1 agosto 1859, ivi, pp. 69, 79-80.
32. Haeckel ad amici, agosto 1859, Uschmann 1983, p. 46.
33. Haeckel a Anna Sethe, 7 agosto 1859, Haeckel 1921b, p. 86.
34. Haeckel a Anna Sethe, 16 agosto 1859, ivi, p. 86.
35. Ibid.
36. Ibid.
37. Ibid.
38. Ibid.
39. Haeckel ai genitori, 21 ottobre 1859, Haeckel 1921b, pp. 117-18.
40. Carl Gottlob Haeckel a Ernst Haeckel, fine 1859, Di Gregori 2004, p. 58; vedi anche
Haeckel a Anna Sethe, 26 novembre 1859, Haeckel 1921b, p. 134.
41. Haeckel ai genitori, 21 ottobre 1859, Haeckel 1921b, p. 118.
42. Haeckel ai genitori, 29 ottobre 1859, ivi, pp. 122-3.
43. Haeckel a Anna Sethe, 29 febbraio 1860, ivi, p. 160.
44. Haeckel ai genitori, 29 ottobre 1859; Haeckel a Anna Sethe, 16 dicembre 1859, ivi, pp. 124,
138.
45. Haeckel a Anna Sethe, 16 febbraio 1860, ivi, p. 155.
46. Haeckel a Anna Sethe, 29 febbraio 1860, ivi, p. 160.
47. Haeckel a Anna Sethe, 29 febbraio 1860, ivi.
48. Haeckel a Anna Sethe, 10 e 24 marzo 1860, ivi, pp. 165-6.
49. Haeckel ai genitori, 21 dicembre 1852, Haeckel 1921a, p. 26.
50. Haeckel 1899-1904, prefazione.
51. Haeckel a Allmers, 14 maggio 1860, Koop 1941, p. 45.
52. (nota a piè di pagina) Allmers a Haeckel, 7 gennaio 1862, ivi, p. 79.
53. Haeckel fu fatto Professor extraordinarius nel 1862 – paragonabile a un professore
associato – e poi Professor ordinarius nel 1865, ovvero professore ordinario; Richards 2009,
pp. 91, 115-16.
54. Haeckel a Anna Sethe, 15 giugno 1860, Haeckel 1927, p. 100.
55. Haeckel a Wilhelm Bölsche, 4 novembre 1899, Haeckel Bölsche Lettere 2002, p. 110; vedi
anche Di Gregorio 2004, pp. 77-80.
56. Haeckel a Darwin, 9 luglio 1864, Darwin Correspondence, vol. 12, p. 482.
57. Ibid.
58. Browne 2006, pp. 84-117.
59. Wilhelm Bölsche a Ernst Haeckel, 4 luglio 1913, Haeckel a Wilhelm Bölsche 18 ottobre
1913, Haeckel Bölsche Lettere 2002, pp. 253-4.
60. (nota a piè di pagina) Breidbach 2006, p. 113; Richards 2009, p. 2.
61. Haeckel a Darwin, 10 agosto 1864, Darwin Correspondence, vol. 12, p. 485.
62. Allmers a Haeckel, 25 agosto 1863, Koop 1941, p. 93.
63. Haeckel, “Aus einer Autobiographische Skizze vom Jahre 1874”, Haeckel 1927, pp. 330-2;
Haeckel 1924, p. xxiv.
64. Haeckel a Allmers, 27 marzo 1864, Richards 2009, p. 106.
65. Haeckel a Allmers, 20 novembre 1864, Richards 2009, p. 115.
66. Haeckel a Darwin, 9 luglio 1864, Darwin Correspondence, vol. 12, p. 483.
67. Haeckel a Darwin, 11 novembre 1865, ivi, vol. 13, p. 475.
68. Ibid.
69. (nota a piè di pagina) Haeckel 1866, vol. 1, pp. xix, xxii, 4.
70. Darwin a Haeckel, 18 agosto 1866, Darwin Correspondence, vol. 14, p. 294.
71. Haeckel 1866, vol. 1, p. 7; Richards 2009, p. 164.
72. Browne 2003b, p. 105; per Huxley su Haeckel, vedi Richards 2009, p. 165.
73. Haeckel a Thomas Huxley, 12 maggio 1867, Uschmann 1983, p. 103.
74. Haeckel a Darwin, 12 maggio 1867, Darwin Correspondence, vol. 15, p. 506.
75. Haeckel 1866, vol. 1, p. 8, nota e vol. 2, pp. 235-6, 286 sgg.; vedi anche la conferenza
inaugurale di Haeckel a Jena, 12 gennaio 1869, Haeckel 1879, p. 17; Worster 1977, p. 192.
76. Haeckel 1866, vol. 1, p. 11; vedi anche vol. 2, p. 286; per AH vedi AH Aspects 1849, vol. 1,
p. 272; AH Views 2014, p. 147; AH Ansichten 1849, vol. 1, p. 337.
77. ckel 1866, vol. 2, p. 287; vedi anche vol. 1, p. 8, nota e vol. 2, pp. 235-6; conferenza
inaugurale di Haeckel a Jena, 12 gennaio 1869, Haeckel 1879, p. 17.
78. (nota a piè di pagina) Haeckel ai genitori, 7 febbraio 1854, Haeckel 1921a, p. 93.
79. Haeckel ai genitori, 27 novembre 1866, Uschmann 1983, p. 90.
80. Haeckel a Darwin, 19 ottobre 1866; Darwin a Haeckel, 20 ottobre 1866, Darwin
Correspondence, vol. 14, pp. 353, 358; Haeckel ad amici, 24 ottobre 1866, Haeckel 1923, p. 29;
Bölsche 1909, p. 179.
81. Henrietta Darwin a George Darwin, 21 ottobre 1866, Richards 2009, p. 174.
82. Haeckel 1924, p. XIX; vedi anche Haeckel ad amici, 24 ottobre 1866, Haeckel 1923, p. 29;
Bölsche 1909, p. 179.
83. Haeckel 1901, p. 56.
84. I tre assistenti di Haeckel: Richard Greeff, Hermann Fol e Nikolai Miklucho; Richards
2009, p. 176.
85. Haeckel ai genitori, 27 novembre 1866, Haeckel 1923, pp. 42 sgg.
86. Haeckel 1867, p. 319.
87. Haeckel, “Aus einer autobiographische Skizze vom Jahre 1874”, Haeckel 1827, p. 330;
Haeckel 1924, p. xxiv.
88. Haeckel a Frieda von Uslar-Gleichen, 14 febbraio 1899, Richards 2009, p. 107.
89. Di Gregorio 2004, p. 438; Richards 2009, p. 346.
90. Haeckel a Wilhelm Bölsche, 14 maggio 1900, Haeckel Bölsche Lettere 2002, p. 124.
91. Haeckel 1901, p. 76.
92. Ivi, p. 75.
93. Kosmos. Zeitschrift für einheitliche Weltanschauung auf Grund der Entwicklungslehre,
in Verbindung mit Charles Darwin / Ernst Haeckel, Leipzig, 1877-86; Di Gregorio 2004, pp.
395-8; vedi anche Haeckel a Darwin, 30 dicembre 1876, CUL DAR 166, p. 69.
94. Breidbach 2006, pp. 20 sgg., 51, 57, 101 sgg., 133; Richards 2009, p. 75.
95. Breidbach 2006, pp. 25 sgg., 229; Kockerbeck 1986, p. 114; Richards 2009, pp. 406 sgg.;
Di Gregorio 2004, p. 518.
96. Haeckel a Wilhelm Bölsche, 14 maggio 1900, Haeckel Bölsche Lettere 2002, pp. 123-4.
97. Haeckel 1899-1904, Supplementheft: Allgemeine Erläuterungen und systematische
Übersicht, p. 51.
98. Ibid.
99. Watson 2010, pp. 356-81.
100. Haeckel, Wanderbilder, Kockerbeck 1986, p. 116; vedi anche Haeckel 1899, p. 395.
101. Peter Behrens, 1901, Festschrift zur Künstlerkolonie Darmstadt, Kockerbeck 1986, p. 115.
102. Kockerbeck 1986, pp. 59 sgg.
103. Émile Gallé, “Le Décor Symbolique”, 17 maggio 1900, Mémoires de l’Académie de
Stanislaus, Nancy, 1899-1900, vol. 7, p. 35.
104. Clifford e Turner 2000, p. 224.
105. Weingarden 2000, pp. 325, 331; Bergdoll 2007, p. 23.
106. Krauße 1995, p. 363; Breidbach e Eibl-Eibesfeld 1998, p. 15; Cooney Frelinghuysen 2000,
p. 410.
107. Richards 2009, pp. 407 sgg.
108. Proctor 2006, pp. 407-8.
109. René Binet a Haeckel, 21 marzo 1899, Breidbach e Eibl-Eibesfeld 1988, p. 15.
110. René Binet in Esquisses Décoratives, Bergdoll 2007, p. 25.
111. Kockerbeck 1986, p. 59.
112. Ivi, p. 10.
113. Breidbach 2006, p. 246; Richards 2009, p. 2.
114. Haeckel 1899, p. 389.
115. Ivi, p. 463.
116. Ivi, pp. 392 sgg.
117. Ivi, p. 396.
118. Ibid.
*. La reputazione di Haeckel subì i colpi più duri nella seconda metà del ventesimo secolo,
quando alcuni storici lo accusarono di aver fornito ai nazisti le fondamenta intellettuali per i
loro programmi razziali. Nella biografia scritta da Robert Richards, The Tragic Sense of Life,
l’autore argomentò che Haeckel, morto oltre un decennio prima dell’ascesa al potere dei
nazisti, non era un antisemita. In effetti Haeckel nel suo controverso “albero genealogico”
aveva collocato gli ebrei accanto ai caucasici. Per quanto oggi inaccettabili, le sue teorie
relative a un processo progressivo che avrebbe condotto da razze “selvagge” a razze
“civilizzate” sono state condivise da Darwin e da numerosi altri scienziati del diciannovesimo
secolo.
*. Allmers rispose a Haeckel dicendogli che sua cugina si era appropriata di uno dei disegni dei
radiolari per farne il “modello per un lavoro all’uncinetto”.
*. I libri di Haeckel sulla teoria dell’evoluzione di Darwin furono tradotti in più di una dozzina
di lingue e vendettero più copie dello stesso libro di Darwin. In molti appresero sulla teoria
dell’evoluzione più da Haeckel che da qualsiasi altra fonte.
*. Generelle Morphologie offriva anche una visione scientifica generale per fare da
contrappeso alle divisioni tra le diverse discipline che si andavano sempre più consolidando.
Gli scienziati avevano perso la visione dell’insieme – scriveva Haeckel – e i troppi specialisti
avevano fatto precipitare le scienze in una “Babilonia”. Botanici e zoologi potevano anche
raccogliere singoli mattoni da costruzione, ma avevano perso di vista il progetto d’insieme. Era
come un grande “caotico cumulo di detriti” e nessuno ci capiva più nulla – ad eccezione di
Darwin… e naturalmente di Haeckel.
*. Haeckel aveva assorbito da lungo tempo un modo di pensare ecologico. All’inizio del 1854,
quando, giovane studente a Würzburg, leggeva Humboldt, già pensava alle conseguenze
ambientali della deforestazione. Dieci anni prima che George Perkins Marsh pubblicasse Man
and Nature, Haeckel scriveva che gli antichi avevano abbattuto le foreste in Medio Oriente e
ciò a sua volta aveva modificato il clima in quell’area. Affermava che civiltà e distruzione delle
foreste procedono “di pari passo”. Nel tempo, in Europa sarebbe successa la stessa cosa –
preannunciava. Inaridimento del terreno, cambiamento climatico e inedia avrebbero alla fine
indotto un esodo di massa dall’Europa verso terre più fertili. “L’Europa e la sua iper-civiltà
presto saranno finite”, diceva.
*. Haeckel costruì la sua villa esattamente sul posto da cui Goethe nel 1810 aveva disegnato la
casa con giardino di Friedrich Schiller. Dalla sua finestra poteva vedere, di là dal ruscello
Leutra, la vecchia casa di Schiller – il luogo in cui i fratelli Humboldt, Goethe e Schiller
avevano trascorso tante serate all’inizio dell’estate del 1797.
Capitolo ventitreesimo

Tutela e natura

John Muir e Humboldt

Humboldt aveva sempre camminato, dalle escursioni nelle foreste di


Tegel quando era ragazzo alla spedizione attraverso le Ande. E, ormai
sessantenne, il suo vigore aveva stupito i suoi compagni di viaggio in
Russia, dove poteva camminare e arrampicarsi per ore. I viaggi a piedi,
diceva, gli insegnavano la poesia della natura. Mentre l’attraversava, la
sentiva.
Verso la fine dell’estate del 1867, otto anni dopo la morte di
Humboldt, John Muir, allora ventinovenne, si fece la borsa e lasciò
Indianapolis, dove aveva lavorato negli ultimi quindici mesi, alla volta
del Sud America. Viaggiava leggero: un paio di libri, sapone e
asciugamano, una pressa per piante, qualche matita e un taccuino.
Aveva soltanto gli abiti che indossava e un po’ di biancheria di
ricambio1. Era vestito semplicemente, ma in maniera accurata. Alto e
snello, Muir era un bell’uomo, con capelli ondulati di un biondo
ramato e limpidi occhi azzurri che perlustravano costantemente ciò
che aveva intorno2. “Come mi piacerebbe essere come Humboldt!”3,
diceva, morendo dalla voglia di vedere le “Ande incappucciate di neve
e i fiori dell’Equatore”4.
Dopo essersi lasciata alle spalle la città di Indianapolis, Muir si
sedette a riposare sotto un albero e dispiegò la mappa tascabile per
pianificare l’itinerario da seguire fino alla Florida, dove avrebbe
cercato un passaggio per il Sud America. Tirò fuori il taccuino ancora
vuoto e scrisse sulla prima pagina: “John Muir, Pianeta Terra,
Universo”5 – rivendicando il suo spazio nel cosmo di Humboldt.
Nato e cresciuto a Dunbar sulla costa orientale della Scozia, John Muir
aveva trascorso la prima adolescenza nei campi e sulla riva rocciosa
del mare. Il padre era un uomo profondamente religioso che aveva
bandito dalla sua casa la presenza di qualsiasi oggetto ornamentale,
quadri, strumenti musicali. La madre invece, mentre i bambini
scorrazzavano per la campagna, aveva scoperto la bellezza,
prendendosi cura del giardino. “Amavo tutto ciò che era selvaggio”6,
rievocava Muir, ricordando il suo desiderio di scappare da un padre
che lo costringeva a recitare “a memoria e con grande tormento”7 tutto
il Vecchio e il Nuovo Testamento. Quando non era fuori all’aria aperta,
Muir leggeva dei viaggi di Humboldt e sognava di luoghi esotici8.
Quando aveva undici anni la famiglia emigrò negli Stati Uniti. Il
fanatismo aveva spinto il padre Daniel a maturare un progressivo
distacco dalla Chiesa scozzese. Sperava di trovare in America la libertà
di religione9: voleva vivere secondo la pura verità della Bibbia, non
guastata dalla religione organizzata, e non avere preti a comandarlo.
Fu così che la famiglia Muir comprò un pezzo di terra e si stabilì nel
Wisconsin. Non appena era libero dal lavoro nella fattoria, John
girovagava per prati e foreste, coltivando quello spirito vagabondo che
non lo avrebbe mai abbandonato per il resto della sua vita10. Nel
gennaio 1861, a ventun anni, si iscrisse all’“indirizzo scientifico”11
dell’università del Wisconsin, a Madison. Qui conobbe Jeanne Carr,
botanica di talento e moglie di uno dei suoi professori. Carr lo
incoraggiò negli studi botanici e aprì al giovane la sua biblioteca.
Divennero amici intimi e, più tardi, attivi corrispondenti12.
Mentre Muir a Madison s’innamorava della botanica, la guerra civile
spaccava in due il paese e nel marzo 1863, dopo due anni da quando a
Fort Sumter si erano sparati i primi colpi di cannone, il presidente
Abraham Lincoln firmò la prima legge sulla coscrizione nella storia
della nazione. Il solo Wisconsin doveva mettere insieme 40.000
uomini e gli studenti a Madison discutevano di fucili, di guerra e di
cannoni. Fortemente turbato dalla “voglia di uccidere”13 dei suoi
compagni, Muir non aveva alcuna intenzione di partecipare.
Un anno dopo, nel marzo 1864, Muir lasciò Madison e sfuggì alla
coscrizione attraversando la frontiera per trasferirsi in Canada – la sua
nuova “università della natura incontaminata”14. Nei due anni
successivi scorrazzò per le campagne, facendo lavori occasionali
quando restava senza soldi. Aveva il bernoccolo dell’inventore e
costruiva macchine e attrezzi per le segherie15; ma il sogno che non lo
abbandonava mai era quello di seguire le orme di Humboldt16.
Appena poteva faceva lunghe escursioni – al lago Ontario o alle
cascate del Niagara, per esempio. Guadando fiumi, sguazzando nelle
paludi e facendosi strada in fitte foreste, cercava piante, che
raccoglieva, pressava e essiccava per il suo erbario, sempre più
voluminoso. Era così preso dai suoi esemplari che una famiglia presso
la quale abitò e lavorò per un mese, in una fattoria a nord di Toronto,
lo soprannominò “Botany”17. Mentre si districava tra radici
aggrovigliate e rami ricurvi, pensava alle descrizioni di Humboldt delle
“foreste inondate dell’Orinoco”18; e avvertiva quel “legame schietto
con il Cosmo”19 che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Poi, nella primavera del 1866, quando un incendio distrusse lo
stabilimento in cui lavorava sulle rive del lago Huron in Canada, i suoi
pensieri si rivolsero verso casa20. La guerra civile era finita l’estate
precedente dopo cinque lunghi anni di battaglie e Muir era pronto a
tornare. Raccolse le poche cose che aveva e si mise a studiare una
mappa. Dove andare? Decise di tentare la fortuna a Indianapolis,
perché era un grande nodo ferroviario e immaginava che ci fossero
tanti opifici dove poter trovare un lavoro. Ma quel che più contava,
diceva, era che la città si trovava “nel cuore di una delle più ricche
foreste decidue di alberi da legno duro che ci fossero sul continente”21.
Qui avrebbe potuto combinare la necessità di mantenersi con la
passione per la botanica.
Trovò lavoro a Indianapolis, in una fabbrica che produceva ruote
per vagoni e altre parti di vetture ferroviarie. Era un lavoro
temporaneo, perché il piano di Muir era di mettere da parte i soldi
necessari per seguire le orme di Humboldt in un “viaggio botanico”22
attraverso il Sud America. Poi, ai primi di marzo del 1867, mentre in
fabbrica cercava di accorciare la cinghia di cuoio di una sega circolare,
i suoi progetti fecero una brusca fine. Mentre scuciva la cinghia con la
punta aguzza di una lima di metallo, la lima slittò e lo colpì in faccia,
forandogli l’occhio destro. Quando portò la mano sotto l’occhio ferito,
un liquido gli gocciolò sul palmo e la vista svanì23.
All’inizio era solo l’occhio destro, ma nel giro di qualche ora anche
l’altro occhio diventò cieco. Il buio lo avvolse e tutto cambiò. Da anni
Muir “ardeva dal desiderio di vedere le magnificenze della flora
tropicale”24, ma ora i colori del Sud America sembravano essere per
lui persi per sempre. Nelle settimane successive, mentre giaceva nella
sua stanza oscurata a riposare, i ragazzi del vicinato andavo a trovarlo
e gli leggevano libri. Con sorpresa del dottore, gli occhi a poco a poco
recuperarono. Prima riuscì a scorgere le sagome dei mobili nella
stanza, poi a riconoscere i volti. Dopo quattro settimane di
convalescenza, fu in grado di decifrare la scrittura e uscì per la prima
passeggiata. Non appena ebbe recuperato a pieno la vista, niente gli
poteva più impedire di raggiungere il Sud America per vedere la
“vegetazione tropicale nella sua gloriosa magnificenza”25. Il 1°
settembre, sei mesi dopo l’incidente e dopo una visita nel Wisconsin
per salutare i genitori e i fratelli, Muir si legò il diario alla cintura con
un pezzo di spago, si mise in spalla la borsa e la pressa per le piante e
si avviò per percorrere a piedi 1.500 chilometri circa da Indianapolis
alla Florida.

Camminando verso Sud, Muir attraversava un paese devastato26. La


guerra civile si era lasciata dietro strutture distrutte – strade,
fabbriche e ferrovie – mentre tante fattorie, trascurate e abbandonate,
erano andate in rovina. La guerra aveva distrutto le ricchezze del Sud e
il paese ne era uscito profondamente diviso. Nell’aprile 1865, meno di
un mese prima della fine della guerra, Abraham Lincoln era stato
assassinato e il suo successore, Andrew Johnson, si batteva per unire
la nazione. Benché la schiavitù fosse stata abolita alla fine della guerra
e i primi afro-americani di sesso maschile avessero votato in
Tennessee alle elezioni del governatore un mese prima che Muir
lasciasse Indianapolis, gli schiavi liberati non erano trattati come
eguali.
Muir evitava città, centri urbani e villaggi27. Voleva stare nella
natura. Certe notti dormiva nella foresta e si svegliava all’alba con il
canto degli uccelli; altre notti trovava riparo nel fienile di qualche
fattoria. In Tennessee scalò la sua prima montagna28. A mano a mano
che le vallate e le pendici ricoperte da boschi si allungavano sotto di
lui, ammirava il paesaggio ondulato. E proseguendo nel viaggio
cominciò a leggere le montagne e le zone di vegetazione con gli occhi
di Humboldt, notando come le piante che era abituato a vedere al
Nord qui crescevano sulle pendici più fredde e più alte, mentre quelle
che crescevano nelle valli diventavano tipicamente meridionali e a lui
sconosciute. Si rese conto che le montagne erano come “strade
maestre che consentono alle piante del nord di colonizzare il sud”29.
Nei quarantacinque giorni di camminata attraverso l’Indiana, il
Kentucky, il Tennessee, la Georgia e poi la Florida, Muir cominciò a
cambiare il suo modo di pensare. Era come se, a ogni chilometro che
percorreva allontanandosi dalla sua vecchia vita, si avvicinasse sempre
di più a Humboldt. Mentre raccoglieva piante, osservava insetti e si
preparava il letto su cuscini di muschio nella foresta, Muir percepiva il
mondo della natura in un modo nuovo. Se fino ad allora era stato un
collezionista di singoli esemplari per il suo erbario, ora cominciava a
vedere connessioni. In questo enorme intrico vitale ogni cosa era
importante. Non c’era un “frammento” che non fosse connesso a tutto
il resto30, pensava Muir. Gli organismi più minuscoli facevano parte
di questa rete al pari del genere umano. “Perché l’uomo dovrebbe
considerarsi più importante della più piccola unità che fa pur parte
dell’unica grande unità che è il creato?”31, si chiedeva. “Il cosmo”,
diceva usando il termine di Humboldt, senza l’uomo sarebbe
incompleto, ma lo sarebbe anche senza “la più piccola creatura visibile
solo al microscopio”.32
In Florida fu colpito dalla malaria, ma dopo essersi riguardato per
qualche settimana s’imbarcò per Cuba. Il pensiero delle “magnifiche
montagne e dei campi di fiori”33 dei Tropici lo aveva sostenuto
durante gli attacchi di febbre, ma era ancora debole. E a Cuba stava
troppo male per riuscire a esplorare l’isola che Humboldt per tanti
mesi aveva considerato casa sua. Stremato dalle febbri ricorrenti, alla
fine, sia pur riluttante, abbandonò i progetti sudamericani e decise di
andare in California dove sperava che il clima più mite gli facesse
recuperare la salute34.
Nel febbraio 1868, dopo appena un mese da quando vi era arrivato,
Muir lasciò Cuba per New York, dove trovò un passaggio economico
per la California. Il tragitto più veloce e più sicuro per raggiungere
l’Ovest dalla costa orientale nordamericana non era via terra
attraversando il continente, ma in nave. Per quaranta dollari, Muir
comprò un biglietto di terza classe che lo riportò da New York a Sud, a
Colón sulla costa caraibica di Panama. Da qui un breve viaggio
ferroviario di ottanta chilometri attraverso l’istmo di Panama lo portò
a Panama City sulla costa del Pacifico; e fu così che vide per la prima
volta la foresta pluviale tropicale – ma soltanto dal vagone di un
treno*. Gli alberi, inghirlandati da fiori viola, rossi e gialli, correvano
via a una “velocità spietata”, lamentava Muir, che poteva soltanto
“guardare fuori dalla piattaforma della carrozza e piangere di gioia”35.
Non c’era tempo per un’escursione botanica, perché doveva prendere
la sua goletta a Panama City.
Il 27 marzo 1868, un mese dopo la partenza da New York, Muir
arrivò a San Francisco, sulla costa occidentale degli Stati Uniti.
Detestava la città, che la corsa all’oro nei due decenni precedenti aveva
trasformato da cittadina di 1.000 abitanti in un caotico grande centro
urbano di 150.000 persone. Con chi aveva tentato di far qui la sua
fortuna erano arrivati banchieri, commercianti e imprenditori. C’erano
taverne rumorose e negozi ben forniti, depositi pieni di merci e una
gran quantità di alberghi. Il primo giorno chiese a uno che gli passava
accanto la strada per recarsi fuori città. Alla domanda su dove volesse
andare rispose: “In un posto qualsiasi, purché selvaggio”36.
E così fu. Dopo aver passato una notte a San Francisco, Muir partì a
piedi diretto verso la Sierra Nevada, la catena montuosa che si estende
per 650 chilometri da nord a sud attraverso la California (e con alcune
diramazioni orientali attraverso il Nevada), correndo più o meno
parallela alla costa sul Pacifico, a circa centocinquanta chilometri
all’interno. La cima più alta raggiunge quasi i 4.500 metri e nel tratto
centrale giace la Yosemite Valley, a circa 300 chilometri a est di San
Francisco. La Yosemite Valley era circondata da enormi rocce
granitiche con falesie a strapiombo ed era famosa per i suoi alberi e le
cascate.
Per raggiungere la Sierra Nevada, Muir doveva prima attraversare la
vasta Central Valley, una grande pianura che si estende verso la catena
montana. Camminando tra i fiori e l’erba alta, pensava che era un
“paradiso terrestre, da un’estremità all’altra”37. Sembrava
un’immensa aiuola fiorita, un tappeto di colori che si srotolava sotto i
suoi piedi. Ma tutto ciò sarebbe cambiato nel giro di qualche decennio,
a mano a mano che l’agricoltura e l’irrigazione ne avrebbero fatto il più
grande frutteto e terreno coltivato del mondo. In seguito, Muir
avrebbe lamentato che la grande prateria incontaminata era stata
“arata e adibita a pascolo fino a distruggerla”38.
Procedendo a piedi verso le montagne, evitando strade e centri
urbani, s’immergeva in un bagno di colori così delizioso, disse, che
l’aria era “dolce come l’alito degli angeli”39. In lontananza, le vette
della Sierra scintillavano come se fossero fatte di pura luce, come
“mura di una città celeste”40. Quando finalmente entrò nella Yosemite
Valley – lunga più o meno undici chilometri – Muir fu sopraffatto
dalla sua selvatica e intatta bellezza.
Le numerose, grandi rocce di granito grigio che cingevano la valle
erano spettacolari. Con la sua vetta a quasi 2.700 metri, lo Half Dome
era il monte più alto e sembrava sorvegliare la vallata come una
sentinella. Il lato rivolto verso la valle era una falesia a picco, l’altro era
arrotondato – una cupola tagliata a metà. Non meno stupefacente era
El Capitan – con una parete verticale che s’innalzava dritta per più di
1.000 metri dalla base della valle (a sua volta a 1.200 metri circa sul
livello del mare). Con i suoi dirupi perpendicolari di granito che
solcavano la valle, dava l’impressione che qualcuno avesse aperto un
varco attraverso le rocce. El Capitan è così ripido che la sua scalata
rimane a tutt’oggi una delle sfide più ardite per i rocciatori.
Era il momento migliore dell’anno per arrivare nella Yosemite
Valley, dove le nevi, sciogliendosi, alimentavano le numerose cascate
che cadevano di schianto sulle pareti rocciose. Sembravano “sgorgare
direttamente dal cielo”41, pensava Muir. Qua e là un arcobaleno
sembrava danzare tra gli spruzzi42. Le Yosemite Falls precipitano in
una gola stretta profonda circa 760 metri, che ne fa le cascate più alte
del Nord America. Il fondo valle era coperto di pini e piccoli laghi
riflettevano lo scenario sulle loro superfici specchiate.
Competevano con questa scena imponente le antiche sequoie
(Sequoiadendron giganteum) di Mariposa Grove, una trentina di
chilometri a sud della valle. Alti, dritti e maestosi, questi giganti
sembravano appartenere a un altro mondo. Erano tipiche del posto,
tanto che le si potevano trovare soltanto sul versante occidentale della
Sierra. Alcune delle sequoie di Mariposa Grove raggiungevano
un’altezza di quasi 100 metri e avevano più di 2.000 anni. Le sequoie, i
più grandi alberi a tronco unico esistenti sulla terra, sono una delle
specie viventi più vecchie dell’intero pianeta. Maestose colonne con
una corteccia rossastra scanalata e senza rami bassi, le piante più
anziane s’innalzavano in cielo sembrando ancora più alte della realtà.
Non assomigliavano a nessuno degli alberi che Muir avesse mai visto e
lui erompeva in grida davanti a ogni esemplare, balzando da una
sequoia all’altra.
Un momento Muir se ne stava sdraiato sulla pancia con la testa
sollevata verso l’alto, aprendo i ciuffi d’erba del prato per vedere quello
che lui chiamava “il “sottomondo dei muschi”43 popolato di formiche
indaffarate e scarafaggi; e il momento dopo si domandava come si
fosse creata la Yosemite Valley. Passava in un baleno dal piccolo
particolare al maestoso scenario: guardava insomma la natura con gli
occhi di Humboldt, attratto dai grandiosi paesaggi delle Ande, ma
capace anche di contare 44.000 fiori in una sola inflorescenza su un
albero della foresta pluviale44. A sua volta Muir contò soltanto
“165.913” fiori45 in meno di un metro quadrato mentre si deliziava a
guardare “la volta luminosa del cielo”46. Grande e piccolo erano
intessuti in un unico insieme.
Quando “proviamo a selezionare una cosa da sola, isolandola dal
resto, ci accorgiamo che è strettamente legata a tutto ciò che c’è
nell’universo”47, scrisse più tardi nel suo libro My First Summer in
the Sierra. Muir tornava continuamente su questa idea. Scrivendo dei
“mille fili invisibili” e degli “innumerevoli fili infrangibili” e di quelli
“che non si possono spezzare”48, non faceva che rimuginare sul
concetto di una natura in cui tutto era connesso. Ogni albero, fiore,
insetto, uccello, ruscello o lago sembrava invitarlo “ad apprendere
qualcosa della sua storia e delle sue relazioni”49 e gli insegnamenti più
importanti di quella prima estate a Yosemite, disse, furono le “lezioni
di unità e interrelazione” *50.
Muir rimase così affascinato da Yosemite che negli anni successivi vi
tornò più volte, non appena poteva. A volte si tratteneva per mesi, a
volte soltanto per qualche settimana51. Quando non era impegnato in
scalate, camminava o si dedicava alle sue osservazioni sulla Sierra,
faceva lavori occasionali – nella Central Valley, sulle colline
pedemontane della Sierra o a Yosemite. Lavorava come pastore in
montagna, come bracciante in un ranch o come operaio in una
segheria della Yosemite Valley. Una volta, a Yosemite, si costruì un
capanno52 attraverso il quale scorreva un ruscelletto che la notte
gorgogliava, cantandogli una dolce ninnananna. Nel capanno crebbero
felci e le rane saltavano per terra, entrando e uscendo a loro
piacimento. Ogni volta che poteva, Muir spariva su per le montagne,
“lanciando urla da una vetta all’altra”53.
Nella Sierra, diceva Muir, “più ci si addentra e si sale”54 e più il
mondo si rende visibile. Osservava e annotava le sue osservazioni,
disegnava e collezionava, ma saliva anche fino alle sommità dei monti,
sempre più in alto. Scalava passando da una vetta a un canyon, da un
canyon a una vetta, comparando e misurando – raccogliendo dati per
capire la creazione della Yosemite Valley.

Lo schizzo di Muir mostrava lo spostamento delle piante artiche nel corso di migliaia di anni.
Muir indicava tre differenti posizionamenti: nelle pianure “all’inizio del loro viaggio verso le
montagne”; poi alcune di esse che ancora “indugiano” un po’ più su e infine in prossimità della
vetta, la “recente collocazione delle piante artiche – tuttora in movimento verso l’alto”

Diversamente dagli scienziati allora impegnati nella Geological


Survey of California (Indagine geologica sulla California) e convinti
che l’origine della valle fosse da ricondurre a eruzioni causate da un
cataclisma, Muir fu il primo a comprendere che a formarla era stato,
nel corso di migliaia di anni, il lento movimento di giganteschi
ghiacciai55. Cominciò a leggere sulle formazioni rocciose le impronte e
i segni lasciati dai ghiacci. Quando trovò un ghiacciaio ancora vivo,
poté provare la sua teoria sul movimento glaciale nella Yosemite
Valley piantando dei paletti nel ghiaccio che, nel giro di quarantasei
giorni, si spostarono di diversi centimetri56. Si era completamente
congelato, spiegava, e “non ho altro da riferire se non cosa è congelato,
o sul punto di farlo”57, scriveva a Jeanne Carr. E per quanto Muir
ancora desiderasse visitare le Ande, decise di non lasciare la California
finché la Sierra “si fida di me e mi parla”58.
Nella Yosemite Valley, Muir ebbe anche modo di riflettere sulle idee
di Humboldt riguardo alla distribuzione delle piante. Nella primavera
del 1872, esattamente tre anni dopo la prima visita, Muir buttò giù uno
schizzo sulla migrazione delle piante artiche dalle pianure nella
Central Valley su fino ai ghiacciai della Sierra nel corso di migliaia di
anni. Quel piccolo disegno mostrava il posizionamento delle piante,
spiegava lui stesso, “agli albori dell’era glaciale”59, ma anche il luogo
in cui crescevano ora, vicino alla vetta. Lo schizzo rivelava una stretta
discendenza dalla Naturgemälde di Humboldt e come Muir fosse
arrivato a percepire il reciproco, stretto legame tra botanica, geografia,
clima e geologia.
Muir godeva della natura intellettualmente, emotivamente e con
tutte le viscere. La sua resa alla natura era “incondizionata”60, diceva,
e ne ignorava allegramente i rischi. Una sera, per esempio, si
arrampicò fino a una cengia pericolosamente alta dietro alla Upper
Yosemite Fall per esaminare da vicino quello che riteneva potesse
essere il segno lasciato da un ghiacciaio61. Scivolò e cadde, ma in
qualche modo riuscì a restare aggrappato a uno spunzone di roccia
sporgente. Mentre se ne stava accovacciato sulla cengia dietro la
cascata a circa 500 metri di altezza, gli spruzzi incessanti lo
spingevano contro la parete alle sue spalle. Era bagnato fradicio e in
uno stato come di trance. Era buio pesto quando si buttò a precipizio
giù per la montagna, ma era estasiato: era stato battezzato dalla
cascata – diceva.
Sulle montagne Muir si trovava a suo agio. Balzava per ripidi pendii
ghiacciati “con la sicurezza di una capra di montagna”62, ebbe a dire
un amico, e si arrampicava su alberi altissimi. Le tempeste invernali lo
entusiasmavano. Quando, nella primavera del 1872, forti scosse fecero
tremare la Yosemite Valley e il suo capanno, corse fuori urlando: “Un
terremoto grandioso!!!”63 E mentre enormi massi rotondi di granito
ruzzolavano giù, Muir vide realizzarsi le sue teorie sulla montagna. “La
distruzione è sempre creazione”64, diceva. Questa sì che era una
scoperta vera! Come si può pretendere di trovare la verità della natura
in un laboratorio?
In quei primi anni trascorsi in California Muir scriveva lettere piene
di entusiasmo agli amici e alla famiglia, ma accompagnava anche i
visitatori nella vallata. Quando Jeanne Carr, sua vecchia amica e
mentore dai tempi dell’università, da Madison si recò con il marito in
California presentò Muir a scienziati, artisti e scrittori. Per i visitatori
era facile riconoscerlo, scriveva Muir: non avevano che da “cercare
l’uomo più abbronzato, timido e con le spalle spioventi”65. Fu così che
accolse scienziati da tutti gli Stati Uniti.
Vennero botanici stimati come Asa Gray e John Torrey, così come il
geologo Joseph LeConte66. La Yosemite Valley stava intanto
diventando anche un’attrazione turistica e ben presto i visitatori si
contarono a centinaia. Nel giugno 1864, tre anni prima che Muir vi
giungesse per la prima volta, il governo degli Stati Uniti aveva dato in
concessione la Yosemite Valley allo Stato della California come parco
adibito “a uso pubblico, località turistica e di svago”67. A mano a mano
che l’industrializzazione assumeva un ritmo sempre più sostenuto,
cresceva di pari passo la quantità di gente che si trasferiva nelle città e
c’era chi cominciava ad avvertire nella propria vita la mancanza della
natura. Ora arrivavano a Yosemite su cavalli carichi delle comodità
connesse alla civilizzazione: con i loro abiti sgargianti, scriveva Muir,
sembravano “insetti” variopinti68 che svolazzavano fra le rocce e gli
alberi.
Tra i visitatori vi fu anche il vecchio mentore di Henry David
Thoreau, Ralph Waldo Emerson, incoraggiato da Jeanne Carr a
cercare Muir69. I due uomini trascorsero insieme alcune giornate,
durante le quali Muir, che aveva appena compiuto trentatré anni, fece
vedere al settantenne Emerson i suoi schizzi e il suo erbario, la vallata
e le sue adorate sequoie a Mariposa Grove. Ma Muir rimase
profondamente deluso quando vide che Emerson, anziché accamparsi
all’aperto, preferiva trascorrere le notti in uno degli alloggi costruiti
con tronchi d’albero nella valle, dove i turisti potevano affittare una
stanza. L’insistenza di Emerson nel voler dormire al chiuso era,
secondo Muir, una “triste chiosa al glorioso trascendentalismo”70.
Emerson, invece, fu così colpito dalle conoscenze di Muir e dal suo
amore per la natura da volerlo con sé alla facoltà della Harvard
University dove lui stesso aveva studiato e dove ancora ogni tanto
teneva lezione. Muir rifiutò. Era troppo selvatico per l’istituzione sulla
costa orientale, “troppo confuso per bruciare bene nelle sue fornaci
educative esclusive e surriscaldate”71. Muir bramava soltanto vivere
nella natura incontaminata. “La solitudine”, lo ammoniva Emerson, “è
un’amante meravigliosa, ma una moglie insopportabile”72. Ma Muir
era irremovibile. L’isolamento gli piaceva, e poi, come poteva sentirsi
solo quando era in un dialogo costante con la natura?73.

Indice stilato da Muir sulla pagina posteriore della sua copia di Views of Nature di Humboldt.
È un elenco di temi quali “effetti delle foreste” e “foreste e civilizzazione”, con indicazione delle
pagine che trattano dell’impatto degli alberi sul clima, sul suolo e sulla evaporazione o del
potere distruttivo dell’agricoltura e della deforestazione

Quel dialogo si svolgeva su numerosi livelli. Come Humboldt e


Thoreau, Muir si era convinto che per capire la natura le sensazioni
personali erano altrettanto importanti dei dati scientifici74. Partito
con l’idea di dare un senso al mondo naturale leggendolo “attraverso la
lente della botanica”, Muir si era ben presto reso conto di come questo
approccio potesse essere limitativo. A caratterizzare gli articoli e i libri
che in seguito avrebbe scritto per un pubblico non-scientifico,
sarebbero state le descrizioni di consistenze, colori, suoni e odori. Ma
già nelle lettere e nei taccuini dei suoi primi anni a Yosemite, quasi da
ogni pagina trasudava un rapporto con la natura profondamente
sensoriale. “Io sono nei boschi, boschi, boschi… e loro sono dentro di
me…ee…e”75, scriveva, oppure “vorrei essere ebbro e sequoioso”,
trasformando la robustezza delle sequoie in un suggestivo aggettivo.
Le ombre delle foglie sui massi tondeggianti “danzano, ballano il
walzer in un dolce, gaio vortice”76 e i ruscelli gorgogliando “cantano”.
La natura a Muir parlava. Le montagne lo chiamavano: “Vieni, vieni
più su!”, mentre le piante e gli animali al mattino gli gridavano:
“Sveglia, sveglia, allegria, allegria, vieni a manifestarci il tuo amore e
canta con noi. Vieni! Vieni!”77 Parlava con le cascate e con i fiori. In
una lettera a Emerson gli raccontava di aver chiesto a due violette cosa
pensavano del terremoto e loro avevano risposto: “È solo Amore”78. Il
mondo che Muir scopriva a Yosemite era animato e pulsante di vita.
Era la natura come organismo vitale di Humboldt*79.
Muir scriveva del “respiro della Natura” e delle “pulsazioni del
grande cuore della natura”80. Insisteva a dire di essere “parte della
Natura incontaminata”81. A volte diventava fino a tal punto tutt’uno
con la natura da indurre il lettore a chiedersi a cosa si riferisse:
“Quattro giornate di aprile senza una nuvola con ogni poro e
interstizio pieno di una forte, smodata luce solare”82: pori e interstizi
di Muir o del paesaggio?
Quella che per Humboldt era stata una reazione emotiva divenne a
sua volta per Muir dialogo spirituale. Laddove Humboldt aveva scorto
una forza creativa interna, Muir scorgeva una mano divina. Nella
natura Muir scopriva Dio – ma non il Dio che riecheggiava dai pulpiti
delle chiese. La Sierra Nevada era il suo “tempio montano”83, nel
quale le rocce, le piante e il cielo erano le parole di Dio e potevano
essere lette come fossero un manoscritto divino. Il mondo naturale
apriva “mille finestre per mostrarci Dio”84, aveva scritto Muir durante
la prima settimana trascorsa nella Yosemite Valley, e ogni fiore era
come uno specchio che rifletteva la mano del Creatore. Muir avrebbe
pregato la natura come un “apostolo”85, diceva.
Muir non conversava soltanto con la natura e con Dio; conversava
anche con Humboldt. Aveva le sue copie di Personal Narrative,
Quadri della natura e di Cosmos, tutte pesantemente segnate da
centinaia di annotazioni a matita. Leggeva con grande interesse delle
tribù indigene che Humboldt aveva incontrato in Sud America e che
consideravano sacra la natura. Lo affascinavano le descrizioni di certe
tribù che punivano severamente “la violazione di questi monumenti
della natura”86 e di quelle che “non avevano altro culto se non la
venerazione delle forze della natura”87. Il loro dio era nella foresta,
proprio come quello di Muir. Quando Humboldt scriveva dei “sacri
santuari della natura”88, Muir convertiva quelle parole in “il sanctum
sanctorum delle Sierre”89.
L’ossessione era tale da spingere Muir a evidenziare persino nelle
sue copie dei libri di Darwin e di Thoreau le pagine che contenevano
riferimenti a Humboldt90. Lo colpivano in particolare – come
avevano colpito George Perkins Marsh – i suoi commenti sulla
deforestazione e sulla funzione ecologica delle foreste91.
Osservando il mondo che lo circondava Muir si rendeva conto che
qualcosa bisognava fare. Il paese stava cambiando. Ogni anno gli
americani pretendevano altri 6 milioni di ettari di terreno da dedicare
a coltivazioni92. Con l’avvento di mietitrici, legatrici e mietitrebbia
azionate da motori a vapore, che tagliavano, trebbiavano e pulivano
meccanicamente i cereali, l’agricoltura era ormai industrializzata. Il
mondo sembrava girare sempre più vorticosamente. Nel 1861, con il
primo cavo telegrafico transcontinentale che connetteva l’insieme
degli Stati Uniti dalla costa Atlantica a est alla costa del Pacifico a
ovest, le comunicazioni erano diventate pressoché istantanee. Nel
1869, l’anno in cui Muir trascorse la sua prima estate a Yosemite e in
cui il mondo celebrò il centenario della nascita di Humboldt, nel Nord
America la prima ferrovia transcontinentale raggiunse la costa
occidentale. L’esplosione dei collegamenti ferroviari nei decenni
precedenti aveva trasformato l’America e nei primi cinque anni
trascorsi da Muir in California furono costruite altri 55.000 chilometri
di binari – nel 1890 più di 260.000 chilometri di binari si snodavano
attraverso gli Stati Uniti93. Le distanze sembravano accorciarsi e di
pari passo si restringevano le aree rimaste incontaminate. Nel West
americano non c’erano più terre da conquistare e esplorare. Gli anni
1890 furono il primo decennio senza più una frontiera. “La difficile
lotta per domare la natura selvaggia è terminata”94, avrebbe
dichiarato nel 1903 lo storico americano Frederick Jackson Turner.
La ferrovia non solo consentiva di raggiungere velocemente i posti
più remoti, ma indusse anche una “standardizzazione” degli orari, che
avrebbe portato a suddividere l’America in quattro fusi orari. Ora
legale e orologi sostituirono il sole e la luna come strumento di misura
del tempo e scansione della nostra vita. Sembrava che l’uomo avesse
messo sotto controllo la natura; e gli americani erano all’avanguardia.
Avevano terre da coltivare, acque da imbrigliare e legna da bruciare.
Tutto il paese costruiva, arava, si muoveva freneticamente e lavorava.
Con la rapida diffusione delle ferrovie, si potevano trasportare
facilmente merci e cereali attraverso l’immenso continente. Alla fine
del diciannovesimo secolo gli Stati Uniti erano il primo paese
manifatturiero del mondo e, mentre i coltivatori si spostavano nelle
città e nei centri urbani, la natura diventava sempre più estranea alla
vita quotidiana.
Nei dieci anni successivi alla prima estate trascorsa a Yosemite,
Muir si dedicò alla scrittura per “stimolare l’uomo a guardare alla
natura con amore”95. Mentre scriveva i suoi primi articoli, studiava i
libri di Humboldt, ma anche Man and Nature96 di Marsh e The
Maine Woods e Walden di Thoreau. Nella sua copia di The Maine
Woods sottolineò l’appello di Thoreau alla istituzione di “riserve
nazionali”97 e cominciò a riflettere sulla tutela delle aree selvagge.
Attorno alle idee di Humboldt il cerchio si era chiuso: non solo
Humboldt aveva influenzato alcuni dei massimi pensatori, scienziati e
artisti, ma essi si erano a loro volta reciprocamente ispirati. Insieme,
Humboldt, Marsh e Thoreau fornirono l’impianto intellettuale
attraverso cui Muir vedeva il mondo in rapido mutamento che lo
circondava.

Muir lottò per la tutela della natura per tutto il resto della sua vita.
Man and Nature aveva allertato una parte degli americani, ma mentre
Marsh aveva scritto un libro che incoraggiava la tutela dell’ambiente
sostanzialmente ai fini del vantaggio economico che ne avrebbe tratto
il paese, Muir avrebbe pubblicato una dozzina di libri e più di 300
articoli che fecero innamorare della natura gli americani comuni.
Voleva che restassero in attonita soggezione davanti allo spettacolo
delle montagne e di alberi imponenti, e, per raggiungere il suo scopo,
sapeva essere divertente, affascinante e seduttivo. Quale scrittore
naturalista, Muir prese il testimone da Humboldt: era stato lui a
inventare questo nuovo genere, che combinava pensiero scientifico e
reazioni emotive davanti alla natura. Humboldt aveva fortemente
impressionato i suoi lettori, compreso Muir. Che poi a sua volta
divenne maestro in questo genere di scrittura. “La natura” è già essa
stessa “un poeta”98, diceva Muir – e lui non doveva fare altro che
lasciarla parlare attraverso la sua penna.
Muir era un grande comunicatore. Aveva fama di essere un
indomito conversatore, pieno zeppo di idee, di fatti da raccontare, di
osservazioni e del suo amore gioioso per la natura. “Ci sembrava di
sentire il vento e la pioggia che sferzavano le nostre facce”99,
commentò un amico dopo avere ascoltato Muir che narrava qualcuna
delle sue storie. Le lettere, i diari, i libri: tutto ciò che scriveva
trasudava passione e tutto era infarcito di descrizioni che
trasportavano il lettore nei boschi e sulle montagne. Una volta,
arrampicandosi su una montagna con Charles Sargent, direttore
dell’Arnold Arboretum di Harvard, Muir rimase stupito vedendo come
un uomo che sapeva tutto sugli alberi potesse restare così indifferente
davanti a quel magnifico scenario autunnale. Mentre lui saltava di qua
e di là inneggiando allo “splendore che c’è in tutto ciò”, Sargent se ne
stava impalato e “imperturbabile come una roccia”. E quando Muir
gliene chiese la ragione, lui replicò: “Io non sono uno che parla col
cuore in mano”. Muir non gli poteva consentire di cavarsela così.
“Dove metti il tuo piccolo cuore non interessa a nessuno”, ribatté, “te
ne stai qui davanti al Paradiso sceso sulla terra con l’atteggiamento di
chi ha da criticare l’intero universo, come a dire ‘Vieni, natura, vieni,
porta pure il meglio di quel che hai da offrire: io sono di
BOSTON.’”100
Muir la natura la viveva e la respirava. Una sua vecchia lettera – una
lettera d’amore alle sequoie – era stata scritta con un inchiostro che lui
stesso aveva fatto usando la loro linfa e quegli scarabocchi ancora oggi
luccicano del rosso della linfa di sequoia. L’intestazione della lettera
riportava: “Squirrelville, Sequoia Co, Nut time” (Città dello scoiattolo,
contea di Sequoia, ora della noce) e proseguiva: “Il Re albero e io oggi
abbiamo giurato eterno amore”. Quando si trattava di natura, Muir
non aveva mai paura a lasciarsi andare. Voleva predicare di foreste,
vita e natura a un “mondo inaridito”. Voi che siete stati defraudati
dalla civilizzazione, scriveva, che vi sentiate “delusi o realizzati, venite
a imbevervi di sequoia e vi salverete”101.

Il disegno di Muir con lui che spinge la moglie su per una montagna a Yosemite
La gioia festosa che trasudava dai libri e dagli articoli di Muir
contagiò milioni di americani e incise profondamente sulla loro
relazione con la natura. Muir scriveva del “glorioso splendore di una
natura selvaggia che sembrava chiamare con mille voci cantanti” e di
alberi che in piena tempesta “vibravano suonando la loro musica e
pulsavano di vita”102: il suo linguaggio era emotivo e viscerale.
Afferrava i lettori e li portava nella natura incontaminata, su per le
montagne innevate, sopra e dietro stupefacenti cascate e attraverso
praterie fiorite*103.
A Muir piaceva attribuirsi il ruolo dell’uomo selvaggio che vive sulle
montagne. Tuttavia, dopo i primi cinque anni trascorsi nelle aree
rurali della California e nella Sierra, cominciò a passare i mesi
invernali a San Francisco e nella regione della Baia104 per scrivere i
suoi articoli. Prendeva in affitto una stanza da amici e conoscenti e
continuava a detestare le strade “brulle dove non vola neanche
un’ape”105; ma fu lì che conobbe i direttori di giornali e riviste che gli
commissionarono i primi pezzi. In tutti quegli anni non aveva avuto
pace, ma quando i fratelli e le sorelle cominciarono a scrivergli lettere
dal Wisconsin raccontando dei loro matrimoni e dei loro bambini,
Muir cominciò a pensare al suo futuro106.
Fu Jeanne Carr, nel settembre 1874, a presentarlo a Louie
Strentzel107, quando Muir aveva trentasei anni. Lei ne aveva
ventisette ed era l’unica figlia in vita di un ricco immigrato polacco che
possedeva un grande frutteto e vigne a Martinez, cinquanta chilometri
a nord-est di San Francisco. Per cinque anni le scrisse lettere e andava
regolarmente a trovare Louie e la sua famiglia, finché non prese la
decisione. Si fidanzarono nel 1879 e si sposarono nell’aprile dell’anno
successivo, pochi giorni prima del suo quarantaduesimo compleanno.
Si stabilirono nella fattoria degli Strentzel a Martinez – ma Muir non
poteva rinunciare alle fughe nella natura selvaggia. Louie capì che
doveva lasciar andare il marito quando si sentiva “perso e le esigenze
del lavoro agricolo lo soffocavano”108. Tornava sempre, di nuovo
fresco e ispirato, pronto a dedicare tempo alla moglie e poi alle due
bambine, che adorava109. Solo una volta Louie lo accompagnò nella
Yosemite Valley, dove Muir la spingeva su per le montagne con un
bastone premuto nelle schiena – un gesto che secondo lui l’avrebbe
aiutata, ma l’esperimento non fu mai ripetuto110.
Muir accettò di dirigere l’azienda agricola, ma quel ruolo non gli
piacque mai. Così, quando il padre di Louie morì, nel 1890,
lasciandole un patrimonio di quasi 250.000 dollari americani,
decisero di vendere parte dei terreni e assunsero la sorella di Muir con
il marito con l’incarico di gestire la restante proprietà111. Muir, che
allora aveva appena superato i cinquant’anni, fu contento di essere
sollevato dal lavoro quotidiano nella fattoria e di potersi di nuovo
concentrare su cose per lui più importanti.
Negli anni in cui aveva gestito la fattoria degli Strentzel a Martinez,
Muir non aveva mai perso la sua passione per Yosemite. Incoraggiato
da Robert Underwood Johnson, direttore di Century, il mensile
letterario più importante del paese, aveva intrapreso la sua battaglia
per la tutela della natura112. Ogni volta che visitava la Yosemite Valley
vedeva qualche altro cambiamento. Per quanto la valle fosse un parco
statale, le regole erano troppo permissive e i controlli scarsi. La
California gestiva male la Yosemite Valley. Il pascolo delle greggi aveva
reso brullo il terreno e il paesaggio era ingombro di strutture per far
alloggiare i turisti. Muir notò anche che tanti fiori selvatici erano
scomparsi da quando aveva visitato per la prima volta la Sierra
vent’anni prima. Sulle montagne, fuori dai confini del parco, molte
delle sue amate sequoie erano state abbattute per farne legname.
Devastazione e sporcizia colpivano amaramente Muir, che più tardi
avrebbe scritto: “sicuramente da questi alberi, una volta passati
attraverso una segheria, si ricaverà del buon legname; anche George
Washington, se fosse passato attraverso le mani di un cuoco francese,
avrebbe cucinato bene”113*114.
Sotto la pressione di Johnson, Muir convertì il suo amore per la
natura in attivismo e cominciò a scrivere e fare campagna per la
creazione di un parco nazionale a Yosemite – come lo Yellostone
National Park in Wyoming, il primo e fino a quel momento l’unico nel
paese, istituito nel 1872. Negli ultimi mesi estivi e nell’autunno del
1890, Johnson si impegnò a fare attività di lobby alla Camera dei
rappresentanti a Washington in favore di un Yosemite National Park,
mentre gli articoli di Muir per il popolare Century assicuravano ampia
risonanza alla battaglia grazie alla distribuzione della rivista su tutto il
territorio nazionale115. Riccamente illustrati con straordinari disegni
dei canyon, delle montagne e degli alberi della Yosemite Valley, gli
articoli trasportavano i lettori nella natura selvaggia della Sierra. Le
valli diventavano “strade di montagna piene di vita e di luce”, giganti
di granito avevano i piedi nei prati verde smeraldo e “le sopracciglia”
nel cielo azzurro. Ali di uccelli, farfalle e api muovevano “l’aria
trasformandola in musica” e cascatelle “turbinavano e danzavano”116.
Le cascate più maestose spumeggiavano, si piegavano, si
attorcigliavano e precipitavano mentre “sbocciavano” le nubi.

Il presidente Theodore Roosevelt con John Muir sul Glacier Point nella Yosemite Valley nel
1903

La prosa di Muir trasportava la bellezza magica di Yosemite


direttamente nei salotti d’America, ma nello stesso tempo lui
ammoniva che tutto questo sarebbe stato presto distrutto dalle
segherie e dalle greggi. Si trattava di proteggere un’immensa fascia di
territorio, perché le valli che si diramavano e i corsi d’acqua che
alimentavano la Yosemite Valley erano strettamente collegate, come
“le dita al palmo di una mano”. La valle non era un “frammento” a sé
stante, ma parte della grande, “armoniosa unità” della natura.
Distruggendo una parte anche le altre sarebbero andate in malora.
Nell’ottobre del 1890, solo poche settimane dopo l’uscita degli
articoli di Muir su Century, quasi 800.000 ettari di terreno furono
messi al sicuro come Yosemite National Park – sotto il controllo
federale degli Stati Uniti e non della California117. Ma al centro della
mappa del nuovo parco appariva, come un immenso spazio vuoto, la
Yosemite Valley, rimasta sotto la negligente gestione della California.
Era un primo passo, ma c’era ancora molto da fare. Muir era
convinto che soltanto “lo zio Sam”118 – il governo federale – avesse il
potere di proteggere la natura dagli “stolti” che abbattevano gli alberi.
Non bastava destinare certe aree a parco o riserve boschive, bisognava
anche monitorare e rafforzare la loro tutela. Fu per questi motivi che
Muir due anni dopo, nel 1892, fondò insieme ad altri il Sierra Club.
Concepito come “associazione di salvaguardia”119 della natura
selvaggia, oggi il Sierra Club è la più grande organizzazione
ambientalista di base d’America. Muir sperava che ciò “servisse a
qualcosa per la natura incontaminata e rendesse felici le
montagne”120.
Muir, instancabile, continuava a scrivere e a fare campagne. Le
maggiori riviste nazionali, come Atlantic Monthly, Harper’s New
Monthly Magazine e, naturalmente, Century, pubblicavano i suoi
articoli e la sua audience si ampliava sempre di più121. Al volgere del
secolo Muir era diventato così famoso che il presidente Theodore
Roosevelt gli chiese di accompagnarlo in una escursione in tenda a
Yosemite. “Non voglio altri con me se non voi”122, gli scrisse
Roosevelt nel marzo 1903. Due mesi dopo, in maggio, il presidente,
con il suo ampio torace, arrivò in Sierra Nevada. Era un naturalista
accanito, ma gli piaceva anche la caccia grossa.
Erano una strana coppia: Muir, allora sessantacinquenne, sottile e
vigoroso; e, più giovane di vent’anni, il rude e robusto Roosevelt. Si
accamparono per quattro giorni in tre posti diversi – nel “tempio
solenne delle sequoie giganti”123, in alto nella neve su una delle
enormi rocce e nel fondo valle sotto la grigia parete perpendicolare di
El Capitan. Fu qui, circondati dalle maestose rocce granitiche e dagli
alberi svettanti, che Muir convinse il presidente che toccava al governo
federale assumere il controllo della Yosemite Valley, sottraendolo allo
Stato della California affinché facesse parte del più vasto Yosemite
National Park*.
Se Humboldt aveva capito i rischi cui andava incontro la natura e
Marsh aveva raccolto le prove di questa minaccia in un’unica
convincente argomentazione, fu Muir a far radicare le preoccupazioni
per l’ambiente in una più ampia arena politica e nell’opinione
pubblica. C’erano differenze tra Marsh e Muir, tra salvaguardia e
protezione. Quando Marsh aveva fatto la sua battaglia contro la
distruzione delle foreste, si era proposto come sostenitore della
salvaguardia, dato che argomentava essenzialmente a favore della
tutela delle risorse naturali. Voleva che l’uso degli alberi o dell’acqua
venisse regolamentato in modo da raggiungere un equilibrio
sostenibile.
Muir, al contrario, interpretava in modo diverso le idee di
Humboldt. Propugnava la protezione, con ciò intendendo la
protezione della natura dall’impatto dell’uomo. Voleva mantenere
foreste, fiumi e montagne nelle condizioni originarie e perseguiva
questo obiettivo con ferrea tenacia. “Non ho alcun piano, sistema o
stratagemma per salvarle le foreste”, diceva, “voglio semplicemente
seguitare a picchiare duro e martellare più che posso.”124
Galvanizzava i suoi seguaci e l’opinione pubblica. A mano a mano che
decine di migliaia di americani leggevano i suoi articoli e i suoi libri
diventavano dei bestseller, la sua voce risuonava distintamente
attraverso l’intero continente nordamericano. Era diventato il più
accanito paladino della natura incontaminata in America.
Una delle sue battaglie più importanti riguardò il progetto di
costruire una diga nella Hetch Hetchy Valley125, una valle meno
conosciuta, ma non meno spettacolare all’interno del Yosemite
National Park. Nel 1906, dopo un grosso terremoto seguito da un
incendio, la città di San Francisco, che da lungo tempo lottava con la
penuria di acqua, chiese al governo degli Stati Uniti di costruire una
diga sul fiume che correva nella Hetch Hetchty, al fine di creare un
serbatoio per la metropoli in espansione. Muir fece sua la battaglia
contro la diga e subito scrisse a Roosevelt, ricordando al presidente
l’escursione con le tende a Yosemite e l’urgenza di salvare Hetch
Hetchty. Ma Roosevelt riceveva contemporaneamente anche i rapporti
degli ingegneri da lui incaricati del caso, secondo i quali la diga era
l’unica soluzione al problema della carenza cronica di acqua di San
Francisco. Con i due schieramenti ben definiti, questa divenne la
prima disputa tra i fautori della natura incontaminata e le esigenze
della civiltà – tra protezione e progresso – combattuta a livello
nazionale. La posta in gioco era alta. Se si potevano rivendicare parti
di un parco nazionale per ragioni commerciali, allora niente era
veramente protetto.
Mentre Muir scriveva articoli di fuoco e il Sierra Club sollecitava i
cittadini a scrivere ai politici e al presidente, la battaglia per Hetch
Hetchty diventò una protesta di portata nazionale. Membri del
Congresso e senatori ricevevano migliaia di lettere dagli elettori
interessati, rappresentanti del Sierra Club testimoniavano davanti a
commissioni governative e il New York Times definì lo scontro “una
battaglia universale”126. Ma, dopo anni di campagne, San Francisco
ebbe la meglio e cominciarono i lavori per la costruzione della diga.
Pur essendo sconvolto, Muir si rendeva conto che l’intero paese era
stato “risvegliato dal sonno”127. Hetch Hetchty era persa. Ma Muir e i
suoi compagni di lotta per la conservazione dell’ambiente avevano
imparato a fare lobby, a condurre una campagna nazionale e ad agire
nell’arena politica – mettendo a punto con questa esperienza un
modello per l’attivismo futuro. L’idea di un movimento nazionale di
protesta a favore della natura ormai era nata. Le lezioni erano state
dure; ma loro avevano imparato. “Per quanto venga protetto, niente di
tutto ciò che è monetizzabile è al sicuro”128, diceva Muir.

In tutti quei decenni e in mezzo a tutte quelle battaglie, Muir non


aveva mai smesso di sognare il Sud America129. Nei primi anni dopo il
suo arrivo in California era stato sicuro che ci sarebbe andato, ma era
sempre successo qualcosa. “Mi sono forse dimenticato il Rio delle
Amazzoni, il fiume più grande della terra?”130 No, no, mai. Il suo
pensiero è stato come un carbone ardente per mezzo secolo e lo sarà
per sempre”, scrisse a un vecchio amico. Fra una scalata e l’altra, il
lavoro nelle fattorie, la scrittura e le sue battaglie, Muir aveva trovato
anche il tempo per qualche viaggio in Alaska e per un giro del mondo
dedicato allo studio degli alberi. Era stato in Europa, Russia, India,
Giappone, Australia e Nuova Zelanda; ma ad andare in Sud America
non ce l’aveva fatta. Nella sua mente, tuttavia, Humboldt in tutti
quegli anni era sempre rimasto presente. Durante il giro del mondo si
era fermato a Berlino, dove aveva passeggiato nello Humboldt Park
costruito dopo le celebrazioni del centenario e reso omaggio alla statua
collocata all’esterno dell’università131. Gli amici sapevano fino a che
punto Muir s’identificava con lo scienziato prussiano e a volte
chiamavano le sue spedizioni “il tuo viaggio di Humboldt”132. Uno di
loro nella sua biblioteca collocò le pubblicazioni di Muir nella sezione
dedicata alle esplorazioni “sotto la voce Humboldt”133.
Muir restava strettamente attaccato all’idea di seguire le orme del
suo predecessore. Se possibile, più invecchiava e più il desiderio di
visitare il Sud America, che durava ormai da una vita, diventava più
forte. C’erano anche meno cose che lo trattenevano a casa. La moglie
Louie era morta nel 1905, poi entrambe le figlie si erano sposate e
avevano le loro famiglie. Quando arrivò a settant’anni, età in cui altri
avrebbero pensato a ritirarsi, lui ancora non rinunciava ai suoi sogni.
Rivolse tutti i suoi pensieri ad approfondire seriamente gli studi su
Humboldt. Fu forse scrivendo My First Summer in the Sierra, nella
primavera del 1910, che si riaccese il desiderio di realizzare il sogno
giovanile – dopo tutto, era stata la voglia di essere “uno Humboldt”134
a spingerlo a lasciare Indianapolis e a portarlo in California, più di
quarant’anni prima. Muir comprò una nuova edizione di Personal
Narrative e rilesse il libro dalla prima all’ultima pagina, riempiendo le
pagine di segni e annotazioni. Niente lo avrebbe fermato. Non
servivano le proteste delle figlie e degli amici: lui doveva andare,
“prima che sia troppo tardi”135. Sapevano quanto poteva essere
caparbio. Aveva parlato della spedizione tante di quelle volte, disse
una vecchia amica, che era sicura che Muir non sarebbe stato contento
finché non avesse visto il Sud America.
Nell’aprile del 1911 Muir lasciò la California e attraversò il paese con
la Southern Pacific Railroad fini alla costa orientale, dove trascorse
qualche settimana a lavorare con accanimento ai manoscritti di diversi
libri136*137. Poi, il 12 agosto, s’imbarcò a New York su una nave a
vapore. Finalmente era in viaggio verso “il grande fiume caldo che da
tanto tempo desidero vedere”138. Un’ora prima che la nave lasciasse il
porto, buttò giù in fretta e furia un ultimo biglietto per la figlia Helen,
sempre più preoccupata. “Non ti crucciare per me, sto benissimo”139,
le assicurò. Dopo due settimane era a Belém, in Brasile – la porta per il
Rio delle Amazzoni. Quarant’anni dopo aver lasciato Indianapolis per
la sua escursione a piedi nel Sud, e a più di un secolo di distanza da
quando Humboldt era salpato, finalmente Muir mise piede sul suolo
sudamericano. Aveva settantatré anni.

Tutto era cominciato con Humboldt e con una passeggiata. “Ero uscito
per una semplice passeggiata e ho finito per restare fuori fino al
tramonto” scrisse Muir dopo essere tornato, “perché mi sono reso
conto che andare fuori significava entrare davvero dentro.”140
1. Worster 2008, p. 120.
2. Merrill Moores, “Recollections of John Muir as a Young Man”, ivi, pp. 109-10.
3. Muir a Jeanne Carr, 13 settembre 1865, JM online.
4. Muir a Daniel Muir, 7 gennaio 1868, ivi.
5. Muir Journal 1867-8, ivi, risguardi; per l’itinerario, p. 2.
6. Muir 1913, p. 3.
7. Ivi, p. 27.
8. Ivi, p. 207.
9. Gisel 2008, p. 3; Worster 2008, pp. 37 sgg.
10. Gifford 1996, p. 87.
11. Worster 2008, p. 73.
12. Holmes 1999, pp. 129 sgg.; Worster 2008, pp. 79-80.
13. Muir a Frances Pelton, 1861, Worster 2008, p. 87.
14. Muir 1913, p. 287.
15. Worster 2008, pp. 94 sgg.
16. Muir a Jeanne Carr, 13 settembre 1865, JM online.
17. Muir 1924, vol. 1, p. 124.
18. Ivi, p. 120.
19. Muir a Emily Pelton, 1 marzo 1864, Gisel 2008, p. 44.
20. Holmes 1999, pp. 135 sgg.
21. Muir 1924, vol. 1, p. 153.
22. Muir a Merrills Moores, 4 marzo 1867, JM online.
23. Muir 1924, vol. 1, pp. 154 sgg.; Muir a Sarah e David Galloway, 12 aprile 1867; Muir a
Jeanne Carr, 6 aprile 1867; Muir a Merrills Moores, 4 marzo 1867, JM online.
24. Muir a Merrills Moores, 4 marzo 1867, JM online.
25. Muir “Memoirs”, Gifford 1996, p. 87.
26. Muir Journal 1867-8, JM online, p. 2.
27. Ivi, pp. 22, 24.
28. Ivi, p. 17.
29. Ivi, pp. 32-3.
30. Muir 1916 p. 164; Muir Journal 1867-8, JM online, pp. 194-5.
31. Muir Journal 1867-8, JM online, p. 154; vedi anche la copia di Muir della AH Personal
Narrative 1907, vol. 2, pp. 288, 371, MHT.
32. Muir Journal 1867-8, JM online, p. 154; Muir inserì la parola “cosmos” nel resoconto
pubblicato, Muir 1916, p. 139; evidenziato anche nella copia di Muir della AH Personal
Narrative 1907, vol. 2, p. 371, MHT.
33. Muir a David Gilrye Muir, 13 dicembre 1867, JM online.
34. Holmes 1999, p. 190; Worster 2008, pp. 147-8.
35. Muir a Jeanne Carr, 26 luglio 1868, JM online.
36. Muir 1912, p. 4; vedi anche Muir “Memoir”, Gifford 1996, p. 96.
37. Muir a Jeanne Carr, 26 luglio 1868, JM online.
38. Muir, “The Wild Parks and Forest Reservations of the West”, Atlantic Monthly, gennaio
1898, p. 17.
39. Muir a Catherine Merrill et al., 19 luglio 1868, JM online; vedi anche Muir a David Gilrye
Muir, 14 luglio 1868; JM a Jeanne Carr, 26 luglio 1868, JM online; Muir “Memoir”, Gifford
1996, pp. 96 sgg.
40. Muir 1912, p. 5.
41. Muir, “The Treasures of the Yosemite”, Century, vol. 40, 1890.
42. Muir 1912, p. 11.
43. Muir 1911, p. 314.
44. Copia di Muir della AH Personal Narrative 1907, vol. 2, p. 306, MHT.
45. Muir a Catherine Merrill et al., 19 luglio 1868, JM online.
46. Muir a Margaret Muir Reid, 13 gennaio 1869, JM online.
47. Questa importante frase passò attraverso varie stesure fra il diario e il resoconto
pubblicato – da “Quando proviamo a selezionare una cosa da sola, isolandola dal resto, ci
accorgiamo che è solidamente collegata a tutte le cose dell’universo da mille fili invisibili che
non si possono spezzare”; poi “Quando proviamo a selezionare una cosa da sola, isolandola dal
resto, ci accorgiamo che è collegata a tutte le cose dell’universo da innumerevoli e
imprevedibili fili”; e poi la versione finale nel libro di Muir: “Quando proviamo a selezionare
una cosa da sola, isolandola dal resto, ci accorgiamo che è strettamente legata a tutto ciò che
c’è nell’universo”. Muir 1911, p. 211; Muir Journal “Sierra”, estate 1869 (1887), MHT; Muir
Journal “Sierra”, estate 1869 (1910), MHT.
48. Muir Journal “Sierra”, estate 1869 (1887), MHT.
49. Muir 1911, pp. 321- 2.
50. (nota a piè di pagina) Copia di Muir dellaAH Views 1896, pp. xi, 346 e AH Cosmos 1878,
vol. 2, p. 438, MHT.
51. Tra il 1868 e il 1874, Muir passò quaranta mesi a Yosemite, Gisel 2008, p. 93.
52. Muir “Memoir”, Gifford 1996, p. 112.
53. Muir a Jeanne Carr, 29 luglio 1870, JM online.
54. Muir 1911, p. 212.
55. Muir, “Yosemite Glaciers”, New York Tribune, 5 dicembre 1871; vedi anche Muir, “Living
Glaciers of California”, Overland Monthly, dicembre 1872 e Gifford 1996, pp. 143 sgg.
56. Muir a Jeanne Carr, 8 ottobre 1872; Muir a Catherine Merrill, 12 luglio 1872, JM online.
57. Muir a Jeanne Carr, 11 dicembre 1871, ivi.
58. Muir a J.B. McChesney, 8-9 giugno 1871, ivi.
59. Muir a Joseph Le Conte, 27 aprile 1872, ivi; Muir evidenziò anche le pagine dei libri di
Humboldt che trattano della distribuzione delle piante. (copia di Muir della AH Views 1896,
pp. 317 sgg. e AH Personal Narrative 1907, vol. 1, pp. 116 sgg., MHT).
60. Muir a Jeanne Carr, 16 marzo 1872, JM online.
61. Muir a Jeanne Carr, 3 aprile 1871, ivi.
62. Robert Underwood Johnson su Muir, in Gifford 1996, p. 874.
63. Muir a Emerson, 26 marzo 1872, JM online.
64. Ivi.
65. Muir a Emily Pelton, 16 febbraio 1872, JM online.
66. Muir a Emily Pelton, 2 aprile 1872, JM online; Gisel 2008, pp. 93, 105-6.
67. U.S., Statutes at Large, 15, in Nash 1982, p. 106.
68. Muir a Daniel Muir, 21 giugno 1870, JM online.
69. Gifford 1996, pp. 131-6; Jeanne Carr a Muir, 1 maggio 1871; Muir a Emerson, 8 maggio
1871; Muir a Emerson, 6 luglio 1871; Muir a Emerson, 26 marzo 1872, JM online.
70. Muir on Emerson, Gifford 1996, p. 133.
71. Muir a Jeanne Carr, non datata ma si riferiva alla lettera di Emerson a Muir del 5 febbraio
1872, JM online.
72. Emerson a Muir, 5 febbraio 1872, ivi.
73. Muir sottolineò i commenti di Thoreau sulla solitudine nella sua copia di Walden. Copia di
Muir di Thoreau’s Walden (1906), pp. 146, 150, 152, MHT.
74. Muir sottolineò l’affermazione di Humboldt in Cosmos secondo cui la connessione fra “il
sensuale e l’intellettuale” era vitale per la comprensione della natura; copia di Muir di AH
Cosmos 1878, vol. 2, p. 438, MHT.
75. Muir a Jeanne Carr, autunno 1870, JM online.
76. Muir 1911, pp. 79, 135.
77. Ivi, pp. 90, 113.
78. Muir a Ralph Waldo Emerson, 26 marzo 1872, JM online.
79. (nota a piè di pagina) Copia di Muir di AH Views 1896, vol. 1, pp. 210, 215, MHT.
80. Muir 1911, pp. 48, 98.
81. Muir 1911, p. 326.
82. Muir Journal “Twenty Hill Hollow” 1869, 5 aprile 1869; Holmes 1999, p. 197.
83. Muir a Jeanne Carr, 20 maggio 1869, ivi.
84. Muir 1911, pp. 82, 205.
85. Muir a Daniel Muir, 17 aprile 1869, JM online.
86. Copia di Muir di AH Personal Narrative 1907, vol. 1, p. 502, vedi anche vol. 2, p. 214,
MHT; copia di Muir di AH Cosmos 1878, vol. 2, pp. 377, 381, 393, MHT.
87. Copia di Muir di AH Personal Narrative 1907, vol. 2, p. 362, MHT.
88. Copia di Muir di AH Views 1896, p. 21, MHT.
89. Muir a Jeanne Carr, 26 luglio 1868, JM online.
90. I libri di Thoreau e di Darwin appartenenti a Muir, MHT.
91. Copia di Muir di AH Personal Narrative 1907, vol. 1, pp. 98, 207, 215, 476-7; vol. 2, pp. 9-
10, 153, 207, MHT; copia di Muir di AH Views 1896, pp. 98, 215, MHT.
92. Johnson 1999, p. 515.
93. Richardson 2007, p. 131; Johnson 1999, p. 535.
94. Frederick Jackson Turner nel 1903, Nash 1982, p. 147.
95. Muir a Jeanne Carr, 7 ottobre 1874, JM online.
96. Wolfe 1946, p. 83.
97. Copia di Muir di Thoreau, Maine Woods (1868), p. 160 e anche pp. 122-3, 155, 158, MHT.
98. Muir 1911, p. 211.
99. Samuel Merrill, “Personal Recollections of John Muir”; vedi anche Robert Underwood
Johnson, C. Hart Merriam, “To the Memory of John Muir”, Gifford 1996, pp. 875, 889, 891,
895.
100. Muir e Sargent, settembre 1898, Anderson 1915, p. 119.
101. Muir a Jeanne Carr, autunno 1870, JM online.
102. Muir 1911, pp. 17, 196.
103. (nota a piè di pagina) Daniel Muir a Muir, 19 marzo 1874, JM online.
104. Worster 2008, pp. 216 sgg.
105. Muir a Strentzels, 28 gennaio 1879, JM online.
106. Muir a Sarah Galloway, 12 gennaio 1877, JM online; Worster 2008, p. 238.
107. Worster 2008, pp. 238 sgg.
108. Muir a Millicent Shin, 18 aprile 1883, JM online.
109. Worster 2008, p. 262.
110. Muir a Annie Muir, 16 luglio 1884, JM online.
111. Worster 2008, pp. 324-5; per la gestione di Martinez, vedi Kennedy 1996, p. 31.
112. Worster 2008, pp. 312 sgg.; Nash 1982, pp. 131 sgg..
113. Muir 1920.
114. (nota a piè di pagina) Copia di Muir di Thoreau, Maine Woods (1868), p. 123.
115. Muir, “The Treasures of the Yosemite” e “Features of the Proposed Yosemite National
Park”, Century, voll. 40 e 41, 1890.
116. Muir, “The Treasures of the Yosemite”, Century, vol. 40, 1890.
117. Nash 1982, p. 132.
118. Muir 1901, p. 365.
119. Robert Underwood Johnson, 1891, Nash 1982, p. 132.
120. Muir a Henry Senger, 22 maggio 1892, JM online.
121. Kimes e Kimes 1986, pp. 1-162.
122. Theodore Roosevelt a Muir, 14 marzo 1903, JM online.
123. Theodore Roosevelt a Muir, 19 maggio 1903, ivi.
124. Muir a Charles Sprague Sargent, 3 gennaio 1898, ivi.
125. Nash 1982, pp. 161-81; Muir, “The Hetch Hetchy Valley”, Sierra Club Bulletin, vol. 6, n. 4,
gennaio 1908.
126. New York Times, 4 settembre 1913.
127. Muir a Robert Underwood Johnson, 1 gennaio 1914, Nash 1982, p. 180.
128. Muir, Memorandum di John Muir, 19 maggio 1908 (per la Conferenza dei governatori
sulla conservazione del 1908), JM online.
129. Muir a Daniel Muir, 17 aprile e 24 settembre 1869; Muir a Mary Muir, 2 maggio 1869;
Muir a Jeanne Carr, 2 ottobre 1870; Muir a J.B. McChesney, 8 giugno 1871, ivi.
130. Muir a Betty Averell, 2 marzo 1911, Branch 2001, p. 15.
131. Muir, 26-9 giugno 1903, Muir Journal “World Tour”, pt. 1, 1903, JM online.
132. Helen S. Wright a Muir, 8 maggio 1878, ivi.
133. Henry F. Osborn a Muir, 18 novembre 1897, ivi.
134. Muir a Jeanne Carr, 13 settembre 1865, ivi.
135. Muir a Robert Underwood Johnson, 26 gennaio 1911, Branch 2001, p. 10; vedi anche p.
xxvi sgg.; Fay Sellers a Muir, 8 agosto 1911, JM online.
136. Branch 2001, pp. 7-9.
137. (nota a piè di pagina) Muir a William E. Colby, 8 maggio 1911, ivi, p. 19
138. Muir a Katharine Hooker, 10 agosto 1911, ivi, p. 31.
139. Muir a Helen Muir Funk, 12 agosto 1911, ivi, p. 32.
140. Muir nel 1913, Wolfe 1979, p. 439.
*. Il sogno di Humboldt di un canale attraverso l’istmo di Panama non si era ancora realizzato.
Ma ora una ferrovia attraversava la stretta striscia di terra da Colón a Panama City.
Completata soltanto tredici anni prima, nel 1855, l’avevano utilizzata le decine di migliaia di
persone partite per la California durante la corsa all’oro.
*. Nella sua copia di Views of Nature e di Cosmos Muir sottolineò i passaggi in cui Humboldt
parlava della “armoniosa cooperazione tra forze” e della “unità di tutte le forze vitali della
natura”, nonché la famosa osservazione di Humboldt sulla natura come “riflesso di un unico
insieme”.
*. Humboldt aveva spiegato tante volte che ogni cosa era permeata di vita – rocce, fiori, insetti
e così via. Nella sua copia di Views of Nature, Muir ha sottolineato le osservazioni di
Humboldt su questa “profusione universale di vita” e sulle forze organiche “incessantemente
al lavoro”.
*. Soltanto al severo padre di Muir non piaceva che il figlio scrivesse di natura. Daniel Muir,
che nel 1873 aveva lasciato la moglie per unirsi a una setta religiosa, scriveva a John: “Non
puoi riscaldare il cuore del Santo di Dio con le tue gelide montagne incappucciate di ghiaccio”.
*. Muir aveva sottolineato un concetto simile nella sua copia del libro The Maine Woods di
Thoreau, che recitava: “Ma il pino non è legname, non più di quanto lo è un uomo; e essere
trasformato in tavole e case non è l’utilizzo più appropriato ed elevato che se ne possa fare –
non più di quanto l’uso più appropriato di un uomo non è essere abbattuto ammazzato e
trasformato in concime… un pino morto non è un pino, non più di quanto la carcassa di un
uomo morto è un uomo”.
*. Roosevelt mantenne la promessa: nel 1906 la Yosemite Valley e Mariposa Grove furono
aggiunti al Yosemite National Park.
*. Muir andò anche a Washington per fare pressioni a favore di Hetch Hetchy. Ebbe incontri
con il presidente William H. Taft, con il ministro degli Interni e con il presidente della Camera
dei rappresentanti nonché con molti senatori e membri del Congresso.
Epilogo

Alexander von Humboldt è stato ampiamente dimenticato nel mondo


di lingua inglese. Fu uno degli ultimi intellettuali eclettici e morì in
un’epoca in cui le discipline scientifiche si andavano consolidando in
campi strettamente delimitati e più specialistici. Conseguentemente, il
suo approccio più olistico – un metodo scientifico che, accanto a dati
concreti, includeva arte, storia, poesia e politica – non godeva più di
grandi simpatie. All’inizio del ventesimo secolo, c’era poco spazio per
un uomo le cui conoscenze avevano spaziato tra un’ampia gamma di
materie. A mano a mano che s’inoltravano nelle loro strette sfere di
competenza, dividendosi e suddividendosi, gli scienziati perdevano i
metodi interdisciplinari di Humboldt e la sua concezione della natura
come forza globale.
Uno dei più grandi meriti di Humboldt era stato quello di rendere la
scienza popolare e accessibile a tutti. Tutti impararono qualcosa da lui:
coltivatori e artigiani, alunni e insegnanti, artisti e musicisti, scienziati
e politici. Nel mondo occidentale non c’era libro di testo o atlante in
mano ai bambini che non fosse stato influenzato dalle idee di
Humboldt – dichiarò un oratore a Boston nel 1869 durante le
celebrazioni del centenario della sua nascita1. Diversamente da
Cristoforo Colombo o Isaac Newton, Humboldt non scoprì un
continente né nuove leggi della fisica. Non era famoso per un fatto o
una scoperta specifica, ma per la sua visione del mondo. La sua
concezione della natura è penetrata come per osmosi nelle nostre
coscienze. È come se le sue idee avessero assunto una tale visibilità da
rendere invisibile l’uomo che vi stava dietro.
Un’altra ragione per cui Humboldt è scomparso dalla nostra
memoria collettiva – almeno in Gran Bretagna e negli Stati Uniti – è il
sentimento anti-tedesco che si sviluppò con la Prima guerra mondiale.
Non sorprende che uno scienziato tedesco non fosse più popolare in
un paese come la Gran Bretagna in cui persino la famiglia reale
dovette cambiare il suo cognome dal suono troppo tedesco, “Sachsen-
Coburg und Gotha”, in “Windsor” e in cui la musica di Beethoven e di
Bach non si suonava più. In maniera analoga, negli Stati Uniti, quando
il Congresso votò l’entrata in guerra nel 1917, gli americani di origine
tedesca cominciarono d’un colpo a essere linciati e vessati. A
Cleveland, dove cinquant’anni prima migliaia di persone erano sfilate
nelle strade per la celebrazione del centenario della nascita di
Humboldt, i libri tedeschi vennero bruciati in un pubblico falò2. A
Cincinnati tutti i libri tedeschi vennero rimossi dagli scaffali della
biblioteca pubblica e “Humboldt Street” fu ribattezzata “Taft Street”3.
Entrambe le guerre mondiali del ventesimo secolo proiettarono lunghe
ombre e né la Gran Bretagna né l’America erano più luoghi adatti a
onorare una grande mente tedesca.

Ma perché dovremmo occuparcene? Negli ultimi anni, tante persone


mi hanno chiesto perché m’interessavo di Alexander von Humboldt. A
questa domanda si potrebbe rispondere in tanti modi, perché tanti
sono i motivi per cui Humboldt resta un personaggio importante e
affascinante: non solo la sua vita è stata pittoresca e piena di
avventure, ma la sua storia spiega perché noi vediamo la natura nella
maniera in cui oggi la vediamo. In un mondo in cui si tende a tracciare
una linea netta tra le scienze e l’arte, tra ciò che è soggettivo e ciò che è
oggettivo, l’intuizione di Humboldt che si possa veramente capire la
natura soltanto usando l’immaginazione fa di lui una mente
lungimirante.
I discepoli di Humboldt, e poi a loro volta i loro discepoli, hanno
portato avanti il suo lascito – senza strepito, con acume e talvolta
senza volere. Ambientalisti, ecologisti e quanti scrivono sulla natura
oggi restano saldamente legati alla visione di Humboldt – benché
molti non ne abbiano mai sentito neanche parlare. Non importa:
Humboldt è il loro padre fondatore.
Ora che gli scienziati cercano di capire e fare previsioni sulle
conseguenze globali del cambiamento climatico, l’approccio
interdisciplinare di Humboldt alla scienza e alla natura acquista più
rilevanza che mai. I principi in cui credeva, come il libero scambio di
informazioni, la necessità di unire gli scienziati e intensificare la
comunicazione tra le diverse discipline, oggi soni i capisaldi della
scienza e il suo concetto di natura come sistema globale è alla base del
nostro pensiero.
Uno sguardo all’ultimo rapporto del Panel intergovernativo delle
Nazioni Unite sul cambiamento climatico (IPCC) del 2014 mostra
proprio quanto abbiamo bisogno di una prospettiva humboldtiana. Il
rapporto, prodotto da oltre 800 scienziati ed esperti, afferma che il
riscaldamento globale avrà “conseguenze gravi, pervasive e
irreversibili per la popolazione e gli ecosistemi”4. Le intuizioni di
Humboldt sulla stretta connessione tra le questioni sociali,
economiche e politiche e i problemi ambientali rimangono
sorprendentemente attuali. Come diceva il coltivatore e poeta
americano Wendell Berry: “Di fatto non c’è distinzione tra il destino
della terra e il destino delle persone. Quando uno viene sottoposto a
violenze, l’altro ne soffre”5. O ancora, come afferma l’attivista
canadese Naomi Klein in This Changes Everything (2014), il sistema
economico e l’ambiente sono in guerra. Proprio come Humboldt si era
reso conto che le colonie fondate su schiavitù, monocoltura e
sfruttamento creavano un sistema fatto di ingiustizia e disastrosa
devastazione ambientale, così anche noi dobbiamo capire che forze
economiche e cambiamento climatico sono parte dello stesso sistema.
Humboldt parlava di “danno prodotto dal genere umano… che
disturba l’ordine naturale della natura”6. Nella sua vita ci furono
momenti in cui era così pessimista da raffigurare il fosco futuro
dell’espansione finale del genere umano nello spazio, quando gli
uomini avrebbero sparso in altri pianeti la loro letale miscela di vizio,
avidità, violenza e ignoranza. La specie umana sarebbe capace di
rendere “desolate” e di “devastare” anche quelle stelle lontane7,
scriveva Humboldt nel lontano 1801, così come già stava facendo con
la terra.
È come se avessimo chiuso il cerchio. Forse ora è il momento, per
noi e per il movimento ambientalista, di rivendicare Alexander von
Humboldt come il nostro eroe.
Goethe paragonò Humboldt a una “fontana con tante cannelle da
cui fluiscono all’infinito rivoli rinfrescanti e noi non dobbiamo fare
altro che mettervi sotto i nostri recipienti”8.
Credo che quella fontana non si sia mai prosciugata.
1. Louis Agassiz, 14 settembre 1869, New York Times, 15 settembre 1869.
2. Riportato dal New York Times del 4 aprile 1918, Nichols 2006, p. 409; centenario di
Cleveland, New York Herald, 15 settembre 1869.
3. Nichols 2006, p. 411.
4. IPCC, Fifth Assessment Synthesis Report, 1 novembre 2014, p. 7.
5. Wendell Berry, “It all Turns on Affection”, Jefferson Lecture 2012,
http://www.neh.gov/about/awards/jefferson-lecture/wendell-e-berry-lecture.
6. AH, febbraio 1800, AH Venezuela 2000, p. 216.
7. AH, 9-27 novembre 1801, Popayán, AH Lateinamerika 1982, p. 313.
8. Goethe a Johann Peter Eckermann, 12 dicembre 1826, Goethe e Eckermann 1999, p. 183.
Ringraziamenti

Nel corso del 2013 sono stata “Eccles Writer in Residence” alla British
Library. È stato l’anno più produttivo nella mia carriera di scrittrice.
Ne ho apprezzato ogni istante. Grazie a tutti i collaboratori dell’Eccles
Centre – in particolare a Philip Davies, Jean Petrovic e Cara Rodway
nonché Matt Shaw e Philip Hatfield della British Library. Grazie!
Negli ultimi anni, ho ricevuto tanta assistenza da così tante persone
che mi sento indegna della loro generosità. Grazie a tutti per aver reso
la ricerca e la scrittura di questo libro la più meravigliosa delle
esperienze. In tanti hanno condiviso le loro conoscenze e la loro
ricerca, hanno letto capitoli, hanno dischiuso le loro rubriche degli
indirizzi, hanno risposto alle mie domande (ripetute volte) e mi hanno
accolto calorosamente in tutto il mondo – è stata una vera esperienza
humboldtiana delle reti globali.
In Germania vorrei ringraziare Ingo Schwarz, Eberhard Knobloch,
Ulrike Leitner e Regina Mikoasch alla Humboldt Forschungstelle di
Berlino; Thomas Bach alla Ernst-Haeckel Haus di Jena; Frank Holl
alla Münchner Wissenschaftstage a Monaco; Ilona Haak-Macht alla
Klassik Stiftung di Weimar, Direzione Musei/Sezione Goethe-
Nationalmuseum, Jürgen Hamel, e Karl-Heinz Werner.
In Gran Bretagna vorrei ringraziare Adam Perkins del Department
of Manuscripts and University Archives, University Library,
Cambridge; Annie Kemkaran-Smith alla Down House del Kent; Neil
Chambers al Sir Joseph Banks Archive Project presso la Nottingham
Trent University; Richard Holmes; Rosemarie Clarkson al Darwin
Correspondence Project; Jenny Wattrus per le traduzioni dallo
spagnolo; Eleni Papavasileiou alla Library & Archive, SS Great Britain
Trust; John Hemming; Terry Gifford e il suo “gruppo di lettura”
formato da studiosi della Bath University; Lynd Brooks alla Linnean
Society; Keit Moore e il resto del personale della Royal Society Library
and Archives di Londra; Crestina Forcina al Wellcome Trust e il
personale della British Library e della London Library.
Negli Stati Uniti vorrei ringraziare Michael Wurtz all’Holt-Atherton
Special Collections, University of the Pacific Library; Bill Swagerty del
John Muir Centre, University of Pacific; Ron Eber; Marie Arana; Keith
Thomson dell’American Philosophical Society; il personale della New
York Public Library; Leslie Wilson della Concord Free Public Library;
Jeff Cramer del Thoreau Institute di Walden Woods; Matt Bourne del
Walden Woods Project; David Wood, Adrienne Donohue e Margaret
Burke del Concord Museum; Kim Burns; Jovanka Ristic e Bob Jaeger
dell’American Geographical Society Library presso le University of
Wisconsin-Milwaukee Librarues; Sandra Rebok; Prudence Doherty
della Special Collections Bailey/Howe Library presso l’University of
Vermont; Eleanor Harvey dello Smithsonian American Art Museum;
Adam Goodheart del C.V. Starr Center for the Study of the American
Experience, Washington College. E a Monticello Anna Berkes, Endrina
Tay, Christa Dierksheide, e Lisa Francavilla all’International Center
for Jefferson Studies, Jefferson Retirement Papers e Jefferson Library;
David Mattern del Madison Retirement Papers presso l’University of
Virginia; Aaron Sachs, Ernesto Bassi e gli “Historians are Writers
Group” alla Cornell University.
In Sud America vorrei ringraziare Alberto Gómez Gutiérrez della
Pontificia Universidad Javeriana, Bogotá; la nostra guida Juanfe
Duran Cassola in Ecuador e il personale degli archivi del Ministerio de
Cultura y Patrimonio a Quito.
Sono grata ai seguenti archivi e biblioteche per il permesso di citare
dai loro manoscritti: i Syndics of Cambridge University Library; la
Royal Society, Londra; la Concord Free Public Library, Concord; la
Staatsbibliothek di Berlino – Preussischer Kulturbesitz; le Holt-
Atherton Special Collections, University of the Pacific, Stockton,
California copyright 1984 Muir-Hanna Trust; la New York Public
Library; la British Library; le Special Collections, University of
Vermont.
Vorrei ringraziare la stupenda squadra della John Murray, tra cui
Georgina Laycock, Caroline Westmore, Nick Davies, Juliet Brightmore
e Lyndsey Ng.
Alla Knopf vorrei ringraziare una squadra ugualmente stupenda, tra
cui Edward Kastenmeier, Emily Giglierano, Jessica Purcell e Sara
Eagle. Un grazie particolare e molto sentito al mio meraviglioso amico
e agente Patrick Walsh, che per più di un decennio ha voluto che
scrivessi un libro su Alexander von Humboldt e che per primo mi ha
portato in Venezuela dieci anni fa. Avete lavorato in maniera
incredibilmente serrata a questo libro – riga per riga. Il libro sarebbe
stato molto diverso senza di voi. E grazie per aver creduto in me ed
esservi presi cura di me. Senza di voi, mi sarei divertita molto meno
nella vita e sarei senza lavoro.
E un grazie enorme ai miei amici e ai miei familiari che hanno
sopportato pazientemente la mia febbre per Humboldt:
Leo Hollis che – come tante altre volte – ha incanalato le mie idee
nella direzione giusta e ha riassunto tutto in una sola frase. Il titolo è
merito tuo!
Mia madre, Brigitte Wulf, ancora una volta mi ha aiutato nelle
traduzioni dal francese e si è trascinata libri avanti e indietro dalle
biblioteche della Germania per me, mentre mio padre Herbert Wulf ha
letto tutti i capitoli in varie versioni. E grazie per essere venuti a
Weimar e Jena.
Constanze von Unruh ha riesaminato l’intero manoscritto –
guidandomi con schiettezza, intelligenza e incoraggiamenti attraverso
tutto il libro. Grazie di tutto e di tutte quelle serate.
Molti dei miei amici e dei miei familiari hanno letto capitoli in bozza
– rivedendoli per la stampa, facendo commenti e avanzando
suggerimenti; grazie a Robert Rowland Smith, John Jungclaussen,
Rebecca Bernstein e Regan Ralph. Un grazie speciale per Regan che è
l’amico più splendido e mi ha offerto una seconda casa – ed è venuto
con me a Yosemite. Grazie davvero. Vorrei ringraziare anche Hermann
e Sigrid Düringer per avermi consentito di soggiornare nel loro
bell’appartamento berlinese durante il periodo di ricerca che vi ho
trascorso, e mio fratello Axel Wulf per le informazioni sui barometri,
nonché Anne Wigger per l’aiuto sul Faust. Un grande ringraziamento a
Lisa O’Sullivan che è stata una grande sostenitrice e amica… che si è
presa cura di me con inflessibile determinazione quando ero bloccata
nel suo appartamento di New York durante l’uragano Sandy. Sei ora
un membro certificato della mia squadra apocalittica.
Il ringraziamento più grande va alla mia migliore e più vecchia
amica Julia-Niharika Sen che ha esaminato l’intero manoscritto,
parola per parola, più e più volte – smontandolo e poi aiutandomi a
rimetterlo insieme. E grazie per essere venuta con me in Ecuador e in
Venezuela – passando le vacanze a seguire le orme di Humboldt.
Invece che spiagge e cocktail, c’erano, tarantole e mal di montagna.
Trovarmi con te a 5.000 metri sul Chimborazo è stato uno dei
momenti migliori della mia vita. Ce l’abbiamo fatta! Grazie di esserci.
Sempre. Senza di te non sarei riuscita a scrivere questo libro.
Il libro è dedicato alla mia meravigliosa e intelligente sorella Linnéa
che ha dovuto convivere per molto tempo con Humboldt. Grazie di
essere la migliore delle sorelle. Mi hai reso completa. E felice.
Nota sulle pubblicazioni di Humboldt1

Ancora oggi la cronologia delle pubblicazioni di Alexander von


Humboldt è confusa. Neppure Humboldt sapeva esattamente che cosa
fosse stato pubblicato, quando e in quale lingua. Non aiuta il fatto che
alcuni dei libri siano stati pubblicati in edizioni e formati diversi o
come parte di una serie e poi anche separatamente in volumi singoli.
Le pubblicazioni relative all’America Latina divennero il Voyage to the
Equinoctial Region of the New Continent in trentaquattro volumi,
illustrati con 1500 incisioni. A titolo di orientamento, ho compilato un
elenco delle pubblicazioni cui si fa riferimento in L’invenzione della
natura, ma non ho elencato le pubblicazioni specialistiche sulla
botanica, la zoologia, l’astronomia, ecc.

PUBBLICAZIONI CHE FACEVANO PARTE DEL VOYAGE TO THE EQUINOCTIAL


REGION OF THE NEW CONTINENT IN TRENTAQUATTRO VOLUMI

SAGGIO SULLA GEOGRAFIA DELLE PIANTE

È il primo volume completato da Humboldt dopo il ritorno


dall’America Latina. Fu pubblicato originariamente in tedesco sotto il
titolo di Ideen zu einer Geographie der Pflanzen e in francese con il
titolo Essai sur la géographie des plantes – entrambi nel 1807. Il
Saggio presentava le idee di Humboldt sulla distribuzione delle piante
e sulla natura come una rete di vita. Era illustrato con una grande
tavola pieghevole, 60×90 cm, colorata a mano, la cosiddetta
Naturgemälde – le montagne con le piante disposte secondo l’altezza
e con le colonne di destra e di sinistra che contenevano ulteriori
informazioni sulla gravità, la pressione atmosferica, la temperatura, la
composizione chimica e così via. Humboldt dedicò il Saggio al vecchio
amico Goethe. Fu pubblicato in spagnolo sulla rivista sudamericana
Semanario nel 1809, ma non fu mai tradotto in inglese fino al 2009
(Essay on Geography of Plants).

QUADRI DELLA NATURA

Era il libro preferito di Humboldt, che combinava l’informazione


scientifica con la descrizione poetica dei paesaggi. Era suddiviso in
capitoli quali “Steppe e deserti” o “Cataratte dell’Orinoco”. Fu
pubblicato per la prima volta in tedesco (Ansichten der Natur) agli
inizi del 1808, cui seguì, nello stesso anno, la traduzione francese
(Tableaux de la nature). Quadri della natura ebbe svariate edizioni.
La terza edizione ampliata fu pubblicata per l’ottantesimo compleanno
di Humboldt, il 14 settembre 1849. La stessa edizione fu pubblicata in
inglese in due edizioni concomitanti sotto due titoli diversi: Aspects of
Nature (1849) e Views of Nature (1850).

VUES DES CORDILLIÈRES ET MONUMENTS DES PEUPLES INDIGÈNES DE


L’AMÉRIQUE

Questi due volumi sono la più fastosa delle pubblicazioni di Humboldt.


Contenevano sessantanove incisioni del Chimborazo, delle rovine inca,
dei manoscritti aztechi e dei calendari messicani, ventitré delle quali a
colori. Vues des Cordillères fu pubblicato a Parigi in sette dispense fra
il 1810 e il 1813 in formato in-folio grande. A seconda della qualità
della carta, il prezzo era di 504 o 764 franchi. Solo due delle dispense
furono pubblicate in tedesco nel 1810. Come per la Personal
Narrative, la traduzione inglese di Vues des Cordillères fu curata da
Helen Maria Williams e riveduta da Humboldt. Fu pubblicata in Gran
Bretagna nel 1814, in un’edizione meno monumentale di due volumi in
ottavo, che comprendeva tutti i testi ma solo venti incisioni. Il titolo
inglese era Researches concerning the Institutions & Monuments of
the Ancient Inhabitants of America with Descriptions & Views of
some of the most Striking Scenes in the Cordilleras! - il punto
esclamativo faceva parte del titolo.

PERSONAL NARRATIVE OF TRAVELS TO THE EQUINOCTIAL REGIONS OF


THE NEW CONTINENT DURING THE YEARS 1799-1804

Il resoconto in sette volumi della spedizione di Humboldt in America


Latina era in parte un libro di viaggi e in parte un libro di scienza, che
seguiva cronologicamente il viaggio di Humboldt e di Bonpland.
Humboldt non lo portò mai a termine. L’ultimo volume finiva con il
loro arrivo sul Río Magdalena il 20 aprile 1801 – neppure la metà della
spedizione. Fu pubblicato in Francia in una edizione in quarto sotto il
titolo di Voyage aux régioms équinoxiales du Nouveau Continent fait
en 1799, 1800, 1801, 1802, 1803 et 1804 (con i volumi pubblicati fra il
1814 e il 1831) e fu poi seguito da un’edizione molto più piccola e molto
meno costosa in ottavo (1816-1831). I prezzi andavano da 7 a 234
franchi al volume. A seconda dell’edizione, veniva venduto anche come
una pubblicazione in tre volumi. Fu quasi immediatamente pubblicato
in inglese come Personal Narrative (1814-1829), nella traduzione di
Helen Maria Williams, che viveva a Parigi e lavorò a stretto contatto
con Humboldt. Nel 1852, fu pubblicata una nuova edizione inglese
(nella versione non autorizzata di Thomasina Ross). Non autorizzata
era anche la traduzione tedesca che fu pubblicata fra il 1818 e il 1832.
Il 20 gennaio 1840, Humboldt disse al suo editore tedesco che non
aveva mai neppure visto l’edizione tedesca e in seguito, dopo averla
letta, si lamentò che la traduzione era terribile2.
In maniera disorientante, l’ultimo volume fu pubblicato nel 1826
anche come un libro separato con il titolo di Essai politique sur l’île de
Cuba – tradotto come Political Essay on the Island of Cuba.

SAGGIO POLITICO SULL’ISOLA DI CUBA


Il dettagliato resoconto di Humboldt su Cuba fu pubblicato per la
prima volta in francese con il titolo Essai politique sur l’île de Cuba e
come parte del Voyage aux régioms équinoxiales du Nouveau
Continent fait en 1799, 1800, 1801, 1802, 1803 et 1804 (o Personal
Narrative in inglese). Era pieno di informazioni sul clima,
sull’agricoltura, sui porti, sulla demografia oltre che di dati economici
sulle importazioni e le esportazioni – comprese le sferzanti critiche di
Humboldt allo schiavismo. Fu tradotto anche in spagnolo nel 1827. La
prima traduzione inglese (a cura di J.S. Thrasher) fu pubblicata negli
Stati Uniti nel 1856 senza il capitolo di Humboldt sullo schiavismo.

ALTRE PUBBLICAZIONI

FRAGMENTS DE GÉOLOGIE ET DE CLIMATOLOGIE ASIATIQUES

Dopo la spedizione in Russia, nel 1831 Humboldt pubblicò Fragments


de géologie et de climatologie asiatiques – gran parte del quale era
basato sulle conferenze tenute a Parigi fra l’ottobre 1830 e il gennaio
1831. Come indica il titolo, il libro presentava le osservazioni di
Humboldt sulla geologia e sul clima dell’Asia. Era una pubblicazione
preliminare rispetto al più ampio Asie centrale, che seguì nel 1843. Il
libro fu pubblicato in Germania nel 1832 sotto il titolo Fragmente
einer Geologie und Klimatologie Asiens, ma non fu mai tradotto in
inglese.

ASIE CENTRALE, RECHERCHES SUR LES CHAÎNES DE MONTAGNES ET LA


CLIMATOLOGIE COMPARÉE

Humboldt pubblicò i risultati più completi della spedizione in Russia


in tre volumi in francese, nella primavera del 1843. Bisogna fare
attenzione al termine “comparée” nel titolo: tutto era basato su
comparazioni. Asie centrale raccoglieva informazioni aggiornate sulla
geologia e sul clima dell’Asia, compresi resoconti dettagliati sulle
catene montuose della Russia, del Tibet e della Cina. Un recensore del
Journal of the Royal Geographical Society lo definì “la più importante
opera di geografia uscita nell’ultimo anno”3. Humboldt dedicò il libro
allo zar Nicola I, ma senza entusiasmo. “Andava fatto”, disse a un
amico, perché la spedizione era stata finanziata dallo zar4. La
traduzione tedesca fu pubblicata nel 1844 con il titolo Central-Asien.
Untersuchungen über die Gebirgsketten und die vergleichende
Klimatologie e conteneva ulteriori ricerche rispetto alla precedente
edizione francese. Humboldt era sorpreso che Asie centrale non fosse
mai stato tradotto in inglese. Era strano, disse, che gli inglesi fossero
così ossessionati da Cosmos mentre i “padroni delle Indie Orientali”5
avrebbero dovuto essere maggiormente interessati all’Asie centrale e
alle informazioni sull’Himalaya.

COSMOS

Humboldt lavorò a Cosmos per più di due decenni. Fu pubblicato per


la prima volta in tedesco con il titolo Kosmos. Entwurf einer
physischen Weltgeschichte. Progettato originariamente come una
pubblicazione in due volumi, arrivò a comprenderne cinque,
pubblicati fra il 1845 e il 1862. Era il “libro sulla natura” di
Humboldt6, il culmine della sua vita di lavoro, liberamente basato
sulle conferenze berlinesi del 1827-28. Il primo volume era un viaggio
attraverso il mondo esterno, dalle nebulose alle stelle, ai vulcani, alle
piante e agli esseri umani. Il secondo era un viaggio del pensiero
attraverso la storia umana, dall’antica Grecia ai tempi moderni. Gli
ultimi tre volumi erano più specifici dal punto di vista scientifico e non
interessarono il pubblico generico che era stato attratto dai primi due.
I primi due volumi ebbero un successo enorme e nel 1851 Cosmos era
stato tradotto in dieci lingue. In Gran Bretagna comparvero quasi nello
stesso momento tre edizioni concomitanti, ma solo quella tradotta da
Elizabeth J.L. Sabine e pubblicata da John Murray era stata
autorizzata da Humboldt (e furono tradotti solo i primi quattro
volumi). Nel 1850, il primo volume, nella traduzione di Sabine, era già
alla settima edizione e il secondo all’ottava. Nel 1849 erano state
vendute circa 40.000 copie in inglese. In Germania, furono pubblicate
varie edizioni minori e più a buon mercato subito prima e dopo la
morte di Humboldt – erano accessibili a un pubblico ampio e
paragonabili agli attuali paperback.
1. Se non indicato diversamente l’informazione sulle pubblicazioni di Humboldt è basata su
Alexander von Humboldts Schriften. Bibliographie der selbständig erschienenen Werke
(Fiedler e Leitner 2000).
2. AH a Cotta, 20 gennaio 1840, AH Cotta Lettere 2009, pp. 223-4.
3. Journal of the Royal Geographical Society, 1843, vol. 13, Fiedler e Leitner 2000, p. 359.
4. AH a Heinrich Christian Schumacher, 22 maggio 1843, AH Schumacher Lettere 1979, p.
112.
5. AH a Johann Georg von Cotta, 16 marzo 1849, AH Cotta Lettere 2009, p. 360.
6. AH a Varnhagen, 24 ottobre 1834, AH Varnhagen Lettere 1860, p. 19; mia traduzione
dall’edizione tedesca AH Varnhagen Lettere 1860, p. 13.
Abbreviazioni

PERSONE E ARCHIVI

AH: Alexander von Humboldt


BL: British Library, London Caroline Marsh Journal, NYPL: Crane
family papers. Manuscripts and Archives Division. The New York
Public Library. Astor, Lenox, and Tilden Foundations
CH: Caroline von Humboldt
CUL: Scientific Manuscripts Collections, Department of Manuscripts
& University Archives, University Library, Cambridge
DLC: Library of Congress, Washington DC
JM online: Online collection of John Muir Papers. Holt-Atherton
Special Collections, University of the Pacific, Stockton, California,
©1984 Muir-Hanna Trust
MHT: Holt-Atherton Special Collections, University of the Pacific,
Stockton, California, © 1984 Muir-Hanna Trust
NYPL: New York Public Library
RS: Royal Society, London
Stabi Berlin NL AH: Staatsbibliothek zu Berlin – Preußischer
Kulturbesitz, Nachlass. Alexander von Humboldt (Collezione di
manoscritti di Humboldt)
TJ: Thomas Jefferson
UVM: George Perkins Marsh Collection, Special Collections,
University of Vermont Library
WH: Wilhelm von Humboldt

LE OPERE DI ALEXANDER VON HUMBOLDT


AH Althaus Briefwechsel 1861: Briefwechsel und Gespräche
Alexander von Humboldt’s mit einem jungen Freunde, aus den
Jahren 1848 bis 1856
AH Ansichten 1808: Ansichten der Natur mit wissenschaftlichen
Erläuterungen
AH Ansichten 1849: Ansichten der Natur mit wissenschaftlichen
Erläuterungen, III ediz. ampliata
AH Arago Lettere 1907: Correspondance d’Alexandre de Humboldt
avec François Arago (1809-1853)
AH Aspects 1849: Aspects of Nature, in Different Lands and Different
Climates, with Scientific Elucidations
AH Berghaus Lettere 1863: Briefwechsel Alexander von Humboldt’s
mit Heinrich Berghaus aus den Jahren 1825 bis 1858
AH Bessel Lettere 1994: Briefwechsel zwischen Alexander von
Humboldt und Friedrich Wilhelm Bessel
AH Böckh Lettere 2011: Alexander von Humboldt und August Böckh.
Briefwechsel
AH Bonpland Lettere 2004: Alexander von Humboldt and Aimé
Bonpland. Correspondance 1805-1858
AH Bunsen Lettere 2006: Briefe von Alexander von Humboldt und
Christian Carl Josias Bunsen
AH Central-Asien 1844: Central-Asien. Untersuchungen über die
Gebirgsketten und die vergleichende Klimatologie
AH Cordilleras 1814: Researches concerning the Institutions &
Monuments of the Ancient Inhabitants of America with Descriptions
& Views of some of the most Striking Scenes in the Cordilleras!
AH Cordilleren 1810: Pittoreske Ansichten der Cordilleren und
Monumente americanischer Völker
AH Cosmos 1845-52: Cosmos: Sketch of a Physical Description of the
Universe
AH Cosmos 1878: Muir’s copy of Cosmos: A Sketch of a Physical
Description of the Universe
AH Cotta Lettere 2009: Alexander von Humboldt und Cotta.
Briefwechsel
AH Cuba 2011: Political Essay on the Island of Cuba. A Critical
Edition
AH Dirichlet Lettere 1982: Briefwechsel zwischen Alexander von
Humboldt und P. G. Lejeune Dirichlet
AH du Bois-Reymond Lettere 1997: Briefwechsel zwischen Alexander
von Humboldt und Emil du Bois-Reymond
AH Federico Guglielmo IV Lettere 2013: Alexander von Humboldt.
Friedrich Wilhelm IV. Briefwechsel
AH Fragmente Asien 1832: Fragmente einer Geologie und
Klimatologie Asiens
AH Gauß Lettere 1977: Briefwechsel zwischen Alexander von
Humboldt und Carl Friedrich Gauß
AH Geographie 1807: Ideen zu einer Geographie der Pflanzen nebst
einem Naturgemälde der Tropenländer
AH Geography 2009: Essay on the Geography of Plants
AH Kosmos 1845-50: Kosmos. Entwurf einer physischen
Weltbeschreibung
AH Kosmos Vorträge 2004: Alexander von Humboldt. Die Kosmos-
Vorträge 1827/28
AH Lateinamerika 1982: Lateinamerika am Vorabend der
Unabhängigkeitsrevolution: eine Anthologie von Impressionen und
Urteilen aus seinen Reisetagebüchern
AH Lettere 1973: Die Jugendbriefe Alexander von Humboldts 1787-
1799
AH Lettere America 1993: Briefe aus Amerika 1799-1804
AH Lettere Russia 2009: Briefe aus Russland 1829
AH Lettere USA 2004: Alexander von Humboldt und die Vereinigten
Staaten von Amerika. Briefwechsel
AH Mendelssohn Lettere 2011: Alexander von Humboldt. Familie
Mendelssohn. Briefwechsel
AH New Spain 1811: Political Essay on the Kingdom of New Spain
AH Personal Narrative 1814-29: Personal Narrative of Travels to the
Equinoctial Regions of the New Continent during the years 1799-
1804
AH Personal Narrative 1907: Muir’s copy of Personal Narrative of
Travels to the Equinoctial Regions of the New Continent during the
years 1799-1804
AH Río Magdalena 2003: Reise auf dem Río Magdalena, durch die
Anden und Mexico
AH Schumacher Lettere 1979: Briefwechsel zwischen Alexander von
Humboldt und Heinrich Christian Schumacher
AH Spiker Lettere 2007: Alexander von Humboldt. Samuel Heinrich
Spiker. Briefwechsel
AH Varnhagen Lettere 1860: Letters of Alexander von Humboldt to
Varnhagen von Ense
AH Venezuela 2000: Reise durch Venezuela. Auswahl aus den
Amerikanischen Reisetagebüchern
AH Views 1896: Muir’s copy of Views of Nature
AH Views 2014: Views of Nature
AH WH Lettere 1880: Briefe Alexander’s von Humboldt und seinen
Bruder Wilhelm
Terra 1959: Alexander von Humboldt’s Correspondence with
Jefferson, Madison, and Gallatin

ALTRE ABBREVIAZIONI

Darwin Beagle Diary 2001: Beagle Diary


Darwin Correspondence: The Correspondence of Charles Darwin
Goethe AH WH Lettere 1876: Goethe’s Briefwechsel mit den
Gebrüdern von Humboldt
Goethe Briefe 1968-76: Goethes Briefe
Goethe Tagebücher 1998-2007: Johann Wolfgang Goethe,
Tagebücher
Goethe Eckermann 1999: Johann Peter Eckermann, Gespräche mit
Goethe in den Letzten Jahren seines Lebens
Goethe Begegnungen 1965-2000: Goethe Begegnungen und
Gespräche, a cura di Ernst Grumach e Renate Grumach
Goethe Humboldt Lettere 1909: Goethes Briefwechsel mit Wilhelm
und Alexander v. Humboldt, a cura di Ludwig Geiger
Goethe Lettere 1980-2000: Briefe an Goethe, Gesamtausgabe in
Regestform,a cura di Karl Heinz Hahn
Goethe Morphologie 1987: Johann Wolfgang Goethe. Schriften zur
Morphologie
Goethe Naturlehre 1989: Johann Wolfgang Goethe. Schriften zur
Allgemeinen Naturlehre, Geologie und Mineralogie, a cura di Wolf
von Engelhardt e Manfred Wenzel
Goethe Tag zu Tag 1982-96: Goethes Leben von Tag zu Tag: Eine
Dokumentarische Chronik, a cura di Robert Steiger
Goethe Tag- und Jahreshefte 1994: Johann Wolfgang Goethe. Tag-
und Jahreshefte, a cura di Irmtraut Schmid
Haeckel Bölsche Lettere 2002: Ernst Haeckel-Wilhelm Bölsche.
Briefwechsel 1887-1919, a cura di Rosemarie Nöthlich
Madison Papers SS: The Papers of James Madison: Secretary of State
Series, a cura di David B. Mattern et al.
Muir Journal 1867-8, JM online: John Muir, Manuscript Journal “The
‘thousand mile walk’ from Kentucky to Florida and Cuba, settembre
1867-febbraio 1868”, MHT
Muir Journal “Sierra”, summer 1869 (1887), MHT: John Muir,
Manuscript “Sierra Journal”, vol. 1: summer 1869, notebook, circa
1887, MHT
Muir Journal “Sierra”, summer 1869 (1910), MHT: John Muir, “Sierra
Journal”, vol. 1: summer 1869, typescript, circa 1910, MHT
Muir Journal “World Tour”, pt. 1, 1903, JM online: John Muir,
Manuscript Journal, “World Tour”, pt. 1, giugno-luglio 1903, MHT
Schiller e Goethe 1856: Briefwechsel zwischen Schiller und Goethe in
den Jahren 1794-1805
Schiller Lettere 1943-2003: Schillers Werke: Nationalausgabe.
Briefwechsel, a cura di Julius Petersen e Gerhard Fricke
Thoreau Correspondence 1958: The Correspondence of Henry David
Thoreau, a cura di Walter Harding e Carl Bode
Thoreau Excursion and Poems 1906: The Writings of Henry David
Thoreau: Excursion and Poems
Thoreau Journal 1906: The Writings of Henry David Thoreau:
Journal, a cura di Bradford Torrey
Thoreau Journal 1981-2002: The Writings of Henry D. Thoreau:
Journal, a cura di Robert Sattelmeyer et al.
Thoreau Walden 1910: Walden
TJ Papers RS: The Papers of Thomas Jefferson: Retirement Series, a
cura di Jeff Looney et al.
WH CH Lettere 1910-16: Wilhelm und Caroline von Humboldt in
ihren Briefen, a cura di Familie von Humboldt
Fonti e bibliografia

OPERE DI ALEXANDER VON HUMBOLDT

Alexander von Humboldt und August Böckh. Briefwechsel, a cura di


Romy Werther e Eberhard Knobloch, Berlin, Akademie Verlag, 2011.
Alexander von Humboldt et Aims Bonpland. Correspondance 1805-
1858, a cura di Nicolas Hossard, Paris, L’Harmattan, 2004.
Alexander von Humboldt mid Cotta. Briefwechsel, a cura di Ulrike
Leitner, Berlin, Akademie Verlag, 2009.
Alexander von Humboldt – Johann Franz Encke. Briefwechsel, a cura
di Ingo Schwarz, Oliver Schwarz, Eberhard Knobloch, Berlin,
Akademie Verlag, 2013.
Alexander von Humboldt – Friedrich Wilhelm IV Briefwechsel, a cura
di Ulrike Leitner, Berlin, Akademie Verlag, 2013.
Alexander von Humboldt – Familie Mendelssohn. Briefwechsel, a
cura di Sebastian Panwitz e Ingo Schwarz, Berlin, Akademie Verlag,
2011.
Alexander von Humboldt und Carl Ritter. Briefwechsel, a cura di
Ulrich Raßler, Berlin, Akademie Verlag, 2010.
Alexander von Humboldt – Samuel Heinrich Spiker. Briefwechsel, a
cura di Ingo Schwarz, Berlin, Akademie Verlag, 2007.
Alexander von Humboldt und die Vereinigten Staaten von Amerika.
Briefwechsel, a cura di Ingo Schwarz, Berlin, Akademie Verlag, 2004.
Alexander von Humboldt’s Correspondence with Jefferson, Madison,
and Gallatin, a cura di Helmut de Terra, in Proceedings of the
American Philosophical Society, vol. 103, 1959.
Ansichten der Natur mit wissenschaftlichen Erläuterungen,
Tübingen, J.G. Cotta’schen Buchhandlung, 1808.
Ansichten der Natur mit wissenschaftlichen Erläuterungen, III ediz.
ampliata, Stuttgart-Tübingen, J.G. Cotta’schen Buchhandlung, 1849.
Aphorismen aus der chemischen Physiologie der Pflanzen, Leipzig,
Voss und Compagnie, 1794.
Aspects of Nature, in Different Lands and Different Climates, with
Scientific Elucidations, trad. di Elizabeth J.L. Sabine, London,
Longman, Brown, Green and John Murray, 1849.
Briefe Alexander’s von Humboldt an seinen Bruder Wilhelm, a cura di
Familie von Humboldt, Stuttgart, J.G. Cotta’schen Buchhandlung,
1880.
Briefe aus Amerika 1799-1804, a cura di Ulrike Moheit, Berlin,
Akademie Verlag, 1993.
Briefe aus Russland 1829, a cura di Eberhard Knobloch, Ingo Schwarz
e Christian Suckow, Berlin, Akademie Verlag, 2009.
Briefe von Alexander von Humboldt und Christian Carl Josias
Bunsen, a cura di Ingo Schwarz, Berlin, Rohrwall Verlag, 2006.
Briefwechsel Alexander von Humboldts mit Heinrich Berghaus aus
den Jahren 1825 bis 1858, a cura di Heinrich Berghaus, Leipzig,
Constenoble, 1863.
Briefwechsel zwischen Alexander von Humboldt und Friedrich
Wilhelm Bessel, a cura di Hans-Joachim Felber, Berlin, Akademie
Verlag 1994.
Briefwechsel zwischen Alexander von Humboldt und Emil du Bois-
Reymond, a cura di Ingo Schwarz e Klaus Wenig, Berlin, Akademie
Verlag, 1997.
Briefwechsel und Gespräche Alexander von Humboldts mit einem
jungen Freunde, aus den Jahren 1848 bis 1856, Berlin, Verlag Franz
von Duncker, 1861.
Briefwechsel zwischen Alexander von Humboldt und Carl Friedrich
Gauß, a cura di Kurt-R. Biermann, Berlin, Akademie Verlag, 1977.
Briefwechsel zwischen Alexander von Humboldt und P.G. Lejeune
Dirichlet, a cura di Kurt-R. Biermann, Berlin, Akademie Verlag, 1982.
Briefwechsel zwischen Alexander von Humboldt und Heinrich
Christian Schumacher, a cura di Kurt-R. Biermann, Berlin, Akademie
Verlag, 1979.
Central-Asien. Untersuchungen über die Gebirgsketten und die
vergleichende Klimatologie, Berlin, Carl J. Klemann, 1844.
Correspondance d’Alexandre de Humboldt avec Frarifois Arago
(1809-1853), a cura di Théodore Jules Ernest Hamy, Paris, Guilmoto,
1907.
Cosmos: Sketch of a Physical Description of the Universe, trad. di
Elizabeth J.L. Sabine, London, Longman, Brown, Green and
Longmans, and John Murray, 1845-52 (voll. 1-3).
Cosmos: A Sketch of a Physical Description of the Universe, trad. di
E.C. Otte, London, George Bell & Sons, 1878 (voll. 1-3).
Die Jugendbriefe Alexander von Humboldts 1787-1799, a cura di Ilse
Jahn, Fritz G. Lange, Berlin, Akademie Verlag, 1973.
Die Kosmos-Vorträge 1827/28, a cura di Jürgen Hamel, Klaus-Harro
Tiemann, Frankfurt, Insel Verlag, 2004.
Essay on the Geography of Plants (AH e Aime Bonpland), a cura di
Stephen T. Jackson, Chicago-London, Chicago University Press, 2009.
Florae Fribergensis specimen, Berlin, Heinrich August Rottmann,
1793.
Fragmente einer Geologie und Klimatologie Asiens, Berlin, J.A. List,
1832.
Ideen zu einer Geographie der Pflanzen nebst einem Naturgemälde
der Tropenländer (AH e Aimé Bonpland), Tübingen, G. Cotta – Paris,
F. Schoell, 1807.
Kosmos. Entwurf einer physischen Weltbeschreibung, Stuttgart-
Tübingen, J.G. Cotta’schen Buchhandlungen, 1845-50 (voll. 1-3).
Lateinamerika am Vorabend der Unabhängigkeitsrevolution: eine
Anthologie von Impressionen und Urteilen aus seinen
Reisetagebüchern, a cura di Margot Faak, Berlin, Akademie Verlag,
1982.
Letters of Alexander von Humboldt to Varnhagen von Ense, a cura di
Ludmilla Assing, London, Trübner & Co., 1860.
Mineralogische Beobachtungen über einige Basalte am Rhein,
Braunschweig, Schulbuchhandlung, 1790.
Personal Narrative of Travels to the Equinoctial Regions of the New
Continent during the years 1799-1804, trad. di Helen Maria Williams,
London, Longman, Hurst, Rees, Orme, Brown and John Murray, 1814-
29.
Personal Narrative of Travels to the Equinoctial Regions of the New
Continent during the years 1799-1804, trad. di Thomasina Ross,
London, George Bell & Sons, 1907 (voll. 1-3).
Pittoreske Ansichten der Cordilleren und Monumente americanischer
Völker, Tübingen, J.G. Cotta’schen Buchhandlungen, 1810.
Political Essay on the Island of Cuba. A Critical Edition, a cura di
Vera M. Kutzinski e Ottmar Ette, Chicago-London, Chicago University
Press, 2011.
Political Essay on the Kingdom of New Spain, trad. di John Black,
London-Edinburgh, Longman, Hurst, Rees, Orme and Brown; and H.
Colburn; and W. Blackwood, and Brown and Crombie, Edinburgh,
1811.
Reise auf dem Rio Magdalena, durch die Anden und Mexico, a cura di
Margot Faak, Berlin, Akademie Verlag, 2003.
Reise durch Venezuela. Auswahl aus den Amerikanischen
Reisetagebüchern, a cura di Margot Faak, Berlin, Akademie Verlag,
2000.
Researches concerning the Institutions & Monuments of the Ancient
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Crediti illustrazioni

Illustrazioni all’interno del testo


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4/Alexander von Humboldt, Geographie der Pflanzen in den Tropen-
Ländern, ein Naturgemälde der Anden (1807), photo Bridgeman
Images. By permission of The Linnean Society of London: 8 in
alto/Ernst Haeckel, Kunstformen der Natur (1899-1904). Wellcome
Library, London: pp. 1, 2, 5 in alto/Alexander von Humboldt, Vues des
Cordilleres (1810-1813); 5 in basso/Traugott Bramme, Atlas zu Alex. v.
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