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Nota dell’autrice
Prologo
PARTE I
Partenza: la nascita delle idee
Capitolo primo
Gli inizi
Capitolo secondo
Immaginazione e natura
Capitolo terzo
In cerca di una meta
PARTE II
Arrivo: la raccolta delle idee
Capitolo quarto
Sud America
Capitolo quinto
Gli Llanos e l’Orinoco
Capitolo sesto
Attraverso le Ande
Capitolo settimo
Il Chimborazo
Capitolo ottavo
Politica e natura
Thomas Jefferson e Humboldt
PARTE III
Ritorno: l’ordinamento delle idee
Capitolo nono
Europa
Capitolo decimo
Berlino
Capitolo undicesimo
Parigi
Capitolo dodicesimo
Rivoluzioni e natura
Simón Bolívar e Humboldt
Capitolo tredicesimo
Londra
Capitolo quattordicesimo
Girando a vuoto
Maladie centrifuge
PARTE IV
Influenza: la diffusione delle idee
Capitolo quindicesimo
Ritorno a Berlino
Capitolo sedicesimo
Russia
Capitolo diciassettesimo
Evoluzione e natura
Charles Darwin e Humboldt
Capitolo diciottesimo
Il Cosmos di Humboldt
Capitolo diciannovesimo
Poesia, scienza e natura
Henry David Thoreau e Humboldt
PARTE V
Nuovi mondi: l’evoluzione delle idee
Capitolo ventesimo
Il più grande di tutti gli uomini dal Diluvio universale
Capitolo ventunesimo
Uomo e natura
George Perkins Marsh e Humboldt
Capitolo ventiduesimo
Arte, ecologia e natura
Ernst Haeckel e Humboldt
Capitolo ventitreesimo
Tutela e natura
John Muir e Humboldt
Epilogo
Ringraziamenti
Abbreviazioni
Fonti e bibliografia
Crediti illustrazioni
A Linnéa (P.o.P.)
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Si chiudano gli occhi, si presti attento ascolto e, dal più leggero soffio fino al più selvaggio
rumore, dal più elementare suono fino al più complesso accordo, dal più veemente e
appassionato grido fino alle più miti parole della ragione, sarà sempre la natura a parlare, a
rivelare la propria presenza, la propria forza, la propria vita e le proprie connessioni, cosicché
un cieco, a cui l’infinitamente visibile fosse negato, in ciò che è udibile potrà cogliere un
infinitamente vivente.
Gli inizi
Uno degli esperimenti sull’elettricità animale condotti da Humboldt utilizzando zampe di rana
Immaginazione e natura
Schiller (a sinistra) con Wilhelm e Alexander von Humboldt e Goethe nel giardino di Schiller a
Jena
Sud America
Non era mai stato così felice e in forma12. Il clima caldo gli si
addiceva, le febbri e i disturbi nervosi di cui aveva sofferto in Europa
erano spariti. Mise su anche qualche chilo. Durante il giorno, lui e
Bonpland raccoglievano, la sera si sedevano insieme a scrivere appunti
e di notte facevano lo loro osservazioni astronomiche. In una di quelle
notti restarono ammutoliti per ore mentre una pioggia meteorica
disegnava nel cielo migliaia di code bianche13. Le lettere che
Humboldt scriveva a casa ardevano di eccitazione e portavano il suo
mondo incantato nei salotti di Parigi, Berlino e Roma. Scriveva di
ragni giganti che mangiavano colibrì e di serpenti lunghi dieci metri14.
Intanto con i suoi strumenti destava lo stupore della gente di Cumaná:
i suoi telescopi gli portavano la luna vicina e i microscopi
trasformavano in bestie mostruose i pidocchi che avevano nei
capelli15.
Ma c’era una cosa che smorzava la gioia di Humboldt: il mercato
degli schiavi davanti alla casa che avevano affittato nella piazza
principale di Cumaná. Sin dall’inizio del sedicesimo secolo gli spagnoli
avevano importato schiavi nelle loro colonie in Sud America e
continuavano a farlo. Tutte le mattine giovani africani, uomini e
donne, venivano messi in vendita. Erano costretti a ungersi con olio di
cocco per rendere la loro pelle di un nero lucente e poi fatti sfilare per i
potenziali acquirenti, che gli aprivano a forza la bocca per esaminare i
denti come “cavalli al mercato”16. Questo spettacolo fece diventare per
sempre Humboldt abolizionista.
Poi, il 4 novembre 1799, meno di quattro mesi dopo il loro arrivo in
Sud America, Humboldt per la prima volta avvertì il pericolo che
poteva mettere a rischio la sua vita e i suoi progetti. Era una giornata
calda e umida. A mezzogiorno si addensarono nuvole nere e alle
quattro del pomeriggio lampi violenti illuminarono la città.
All’improvviso la terra cominciò a tremare, mandando Bonpland quasi
a sbattere contro il pavimento mentre era chino sul tavolo a esaminare
alcune piante e scuotendo violentemente Humboldt nella sua amaca17.
La gente si riversò di corsa urlando nelle strade mentre le case
crollavano; ma Humboldt mantenne la calma e si sollevò dall’amaca
per piazzare i suoi strumenti: niente poteva impedirgli di fare le sue
osservazioni, neanche mentre la terra tremava. Cronometrò le scosse,
notò che il terremoto si propagava da nord a sud e misurò l’elettricità.
Ma malgrado l’apparente compostezza, dentro di sé Humboldt visse
un vero e proprio scompiglio. Mentre si muoveva sotto i suoi piedi, la
terra distruggeva tutte le sue illusioni – scrisse: perché l’acqua, non la
terra, era l’elemento del moto. Fu come essere risvegliato
improvvisamente e penosamente da un sogno. Fino a quel momento
aveva nutrito una salda fiducia nella stabilità della natura; ma si era
ingannato. Ora “per la prima volta dobbiamo diffidare di un suolo sul
quale per tanto tempo avevamo poggiato fiduciosamente i piedi”18,
diceva; ma era ancora fermamente deciso a proseguire i suoi viaggi.
Aveva aspettato per anni di vedere il mondo e sapeva che stava
mettendo a rischio la propria vita; ma voleva vedere di più. Due
settimane dopo e dopo aver aspettato con ansia di poter ritirare
denaro con la sua nota di credito spagnola (quando il tentativo fallì, fu
il governatore a dare i soldi a Humboldt dai suoi fondi privati)19
lasciarono Cumaná per Caracas. A metà novembre Humboldt e
Bonpland – con un inserviente meticcio di nome José de La Cruz20 –
noleggiarono un piccolo mercantile locale scoperto lungo dieci metri21
e si misero in navigazione verso ovest, dopo aver imballato i loro
numerosi strumenti e bauli, già pieni di oltre 4.000 esemplari di
piante e di insetti, taccuini e tavole di misurazioni22.
Situata a 900 metri di altezza sul livello del mare, Caracas aveva
40.000 abitanti. Fondata dagli spagnoli nel 1567, era la capitale del
Capitanato Generale del Venezuela. Il 95% della popolazione bianca
della città era costituito da criollos, o “ispano-americani”23 come li
chiamava Humboldt – coloni bianchi di discendenza spagnola ma nati
in Sud America. Per quanto maggioranza, i creoli sudamericani erano
stati esclusi per decenni dalle posizioni amministrative e militari più
elevate. La corona spagnola aveva inviato spagnoli a controllare le
colonie, molti dei quali erano meno istruiti dei creoli. I ricchi
proprietari di piantagioni creoli trovavano esasperante essere
governati da mercanti spediti da una madrepatria lontana; le autorità
spagnole, lamentavano alcuni, li trattavano “come se fossero dei vili
schiavi”24.
Caracas giace adagiata in un’alta vallata cinta da montagne, vicino
alla costa. Ancora una volta Humboldt prese in affitto una casa, come
base da cui partire per brevi escursioni. Da lì Humboldt e Bonpland si
mossero per scalare la Silla con le sue due cime tondeggianti25, una
montagna tanto vicina da poterla vedere da casa, ma sulla quale, come
scoprì Humboldt con sorpresa, nessuno tra quanti aveva conosciuto a
Caracas si era mai arrampicato. Un altro giorno si addentrarono a
cavallo tra le colline pedemontane, dove trovarono una sorgente di
acqua chiarissima che cadeva da una parete di roccia luccicante.
Osservando un gruppo di ragazze intente a prendere l’acqua,
Humboldt tutt’a un tratto fu colpito da un ricordo di quando era in
patria. Quella sera scrisse nel diario: “Ricordi di Werther, Goethe e le
figlie del re”26 – un riferimento a I dolori del giovane Werther, dove
Goethe aveva descritto una scena simile. In altre occasioni era la forma
particolare di un albero, o una montagna, a dargli un immediato senso
di familiarità. Bastava volgere lo sguardo alle stelle nel cielo del Sud, o
alla sagoma dei cactus contro l’orizzonte, per rendersi conto di quanto
fosse lontano dalla sua patria. Ma poi gli bastava sentire il
campanaccio di una mucca o il muggito di un toro ed era di nuovo nei
prati di Tegel27.
Quando le foreste vengono distrutte, come hanno fatto ovunque in America i coloni
europei con incauta avventatezza, le sorgenti si prosciugano o diventano comunque meno
abbondanti. I letti dei fiumi, restando asciutti per parte dell’anno, si trasformano in
torrenti ogniqualvolta abbondanti piogge cadono sulle alture. Venendo a sparire dai
fianchi delle montagne, con il sottobosco, zolle erbose e muschio, l’acqua che cade sotto
forma di pioggia non è più impedita nel suo corso: e invece di far salire il livello dei fiumi
con infiltrazioni progressive, durante i grandi diluvi scava solchi sui fianchi delle colline,
trascina giù la terra non più trattenuta e provoca quelle inondazioni improvvise che
devastano il paese50.
Alla fine di marzo del 1800, quasi due mesi dopo aver lasciato Caracas,
Humboldt e Bonpland raggiunsero infine la missione dei Cappuccini
di San Fernando de Apure, sul Rio Apure. Di qui avrebbero navigato in
direzione est lungo il Rio Apure e attraverso la foresta fluviale fino al
Basso Orinoco – una distanza di più o meno centocinquanta
chilometri in linea d’aria, ma più del doppio seguendo le anse del
fiume. Una volta raggiunto il punto di confluenza tra il Rio Apure e il
Basso Orinoco, intendevano proseguire verso sud lungo l’Orinoco e
attraverso le grandi rapide di Atures e Maipures, addentrandosi nel
profondo di una regione dove ben pochi uomini bianchi avevano mai
messo piede. Qui speravano di trovare il Casiquiare, il leggendario
raccordo tra i grandi fiumi Rio delle Amazzoni e Orinoco9.
L’imbarcazione che avevano comprato a San Fernando de Apure fu
messa in acqua nel Rio Apure il 30 marzo, carica di provviste per
quattro settimane – insufficienti per l’intera spedizione, ma che erano
quanto l’imbarcazione era in grado di contenere. Dai frati Cappuccini
comprarono banane, radici di manioca, polli e cacao, ma anche i frutti
a forma di baccello dell’albero del tamarindo, di cui avevano sentito
dire che poteva trasformare l’acqua del fiume in una rinfrescante
limonata. Per il resto, il cibo lo dovevano catturare – pesce, uova di
tartaruga, uccelli e altra selvaggina – o procurarselo barattando con le
tribù indigene l’alcool che avevano portato con sé10.
Diversamente dalla maggior parte degli esploratori europei,
Humboldt e Bonpland non viaggiavano con un grande seguito:
soltanto quattro uomini presi sul posto per remare e un pilota per
governare l’imbarcazione, il loro servitore José di Cumaná e il cognato
del governatore provinciale che si era unito a loro11. Humboldt non
temeva la solitudine. Tutt’altro: qui non c’era niente a interrompere i
suoi studi12, la natura offriva stimoli sufficienti e aveva Bonpland
come amico e consulente scientifico. Nei pochi mesi trascorsi insieme
erano diventati fidi compagni di viaggio. Quando aveva conosciuto
Bonpland a Parigi, Humboldt aveva istintivamente visto giusto:
Bonpland era un eccellente botanico che amava lavorare sul campo,
non sembrava badare alla fatica delle loro avventure e restava calmo
anche nelle situazioni più avverse. Ma ciò che contava di più, diceva
Humboldt, era la capacità di Bonpland di essere sempre ottimista e di
buon umore, qualunque cosa succedesse13.
A mano a mano che procedevano, remando sul Rio Apure e poi
sull’Orinoco, un mondo nuovo si dispiegava davanti ai loro occhi.
Dall’imbarcazione avevano una vista perfetta. Centinaia di grossi
coccodrilli si crogiolavano sulle sponde del fiume con le mascelle
aperte, spesso lunghi anche cinque metri. Assolutamente immobili,
sembravano tronchi d’albero – finché all’improvviso non scivolavano
nell’acqua14. Erano così numerosi che difficilmente c’era un momento
in cui non ne vedessero neanche uno. Le grandi scaglie seghettate delle
code ricordavano a Humboldt i draghi nei libri della sua infanzia.
Enormi serpenti boa nuotavano dietro la loro barca, ma nonostante
tutti questi pericoli gli uomini facevano il bagno ogni giorno, in una
prudente rotazione: uno alla volta si lavava, mentre gli altri badavano
agli animali15. Viaggiando sul fiume incontravano anche grandi
branchi di capibara, i roditori più grossi del mondo, che vivevano in
grandi gruppi familiari e nuotavano nell’acqua con le zampe come i
cani. I capibara somigliano alle gigantesche cavie dal naso mozzato
sudamericane, pesano cinquanta chili o anche di più. Ancora più
grossi erano i tapiri, animali diffidenti e solitari che con i loro grugni
carnosi rovistavano in cerca di foglie nei boschetti sulla riva del fiume,
e i giaguari dal bel manto maculato di cui erano preda. La notte,
Humboldt sentiva il verso dei delfini di fiume, che sembrano russare,
sul sottofondo dell’incessante ronzio degli insetti. Gli uomini
passavano davanti a isole abitate da migliaia di fenicotteri, aironi
bianchi e trampolieri rosa, con i loro grandi becchi a spatola.
Una barca sull’Orinoco
Una notte, sotto una pioggia torrenziale, Humboldt era sdraiato nella
sua amaca appesa nella giungla ad alberi di palma. Liane e piante
rampicanti formavano sopra di lui un alto scudo protettivo. Guardava
in su, in quello che sembrava un pergolato naturale, decorato dai
lunghi fiori arancioni delle eliconie che penzolavano e altri fiori dalle
forme strane. Il fuoco del loro accampamento illuminava quella volta
naturale e la luce delle fiamme lambiva i tronchi delle palme fino a
diciotto metri di altezza. I fiori oscillavano entrando e uscendo dai
bagliori di luce tremolanti, mentre il fumo bianco saliva in spirali
verso il cielo che restava nascosto dal fogliame. Era un incanto, disse
Humboldt61.
Aveva descritto le rapide dell’Orinoco “illuminate dai raggi del sole
al tramonto”62 come se un fiume fatto di nebbia fosse “sospeso sul suo
letto”. Benché sempre impegnato a misurare e registrare, Humboldt
scriveva anche di come “arcobaleni colorati risplendono, svaniscono e
riappaiono” sulle grandi rapide e della luna “cinta da anelli colorati”.
Più avanti, lo allietava la superficie scura del fiume che di giorno
rifletteva come uno specchio perfetto le piante cariche di fiori sulle rive
e di notte le costellazioni di stelle dell’emisfero meridionale. Nessuno
scienziato prima di lui aveva mai parlato così della natura. “Ciò che
parla all’anima”, diceva, “sfugge alle nostre misurazioni.”63 Non era la
natura intesa come un sistema meccanicistico, ma un nuovo mondo
eccitante pieno di meraviglie. Vedendo il Sud America con gli occhi di
cui Goethe lo aveva dotato, Humboldt era estasiato.
Meno piacevoli erano le notizie che ricevevano dai missionari che
incontravano per strada: il fatto che il Casiquiare collegasse il Rio delle
Amazzoni e l’Orinoco sembrava essere ben noto da diversi decenni
nella regione. L’unica cosa che a Humboldt restava da fare era
tracciare una mappa precisa del corso del fiume. L’11 maggio 1800
finalmente trovarono l’accesso al Casiquiare64. L’aria era così satura
di umidità che Humboldt non riusciva a vedere né il sole né le stelle –
senza di cui non avrebbe potuto determinare la posizione geografica
del fiume e dunque la sua mappa non sarebbe stata precisa. Ma
quando la guida india preannunciò cieli limpidi si affrettarono a
proseguire verso nord-est. Di notte cercavano di dormire nelle amache
sulle rive, ma riposare era quasi impossibile. Una notte furono cacciati
da colonne di formiche che salivano sulle corde delle amache, in altre
notti erano tormentati dalle zanzare.
A mano a mano che procedevano, la vegetazione diventava più fitta.
Gli argini erano come “dirupi” viventi65, pareti verdi coperte di foglie
e liane – così Humboldt li descrisse. Ben presto non poterono più
trovare uno spazio in cui dormire e neanche scendere dalla canoa per
andare a riva. Ma almeno il tempo migliorava e Humboldt poté fare le
osservazioni necessarie per la sua mappa. Poi, passati dieci giorni da
quando erano entrati nel Casiquiare, raggiunsero di nuovo l’Orinoco: i
missionari avevano ragione66. Non ci fu bisogno di percorrere tutto il
tragitto verso sud fino al Rio delle Amazzoni, perché Humboldt aveva
dimostrato che il Casiquiare era una via d’acqua naturale tra l’Orinoco
e il Rio Negro. Poiché il Rio Negro era un affluente del Rio delle
Amazzoni, era evidente che i bacini dei due grandi fiumi erano
collegati. E benché Humboldt non avesse “scoperto” il Casiquiare,
aveva stilato una mappa dettagliata del complesso sistema di affluenti
di questi fiumi. Questa mappa rappresentava un grande passo avanti
rispetto a quelle che l’avevano preceduta, che, diceva, erano opere di
fantasia, come se “fossero state inventate di sana pianta a Madrid”67.
Il 13 giugno 1800, dopo aver ridisceso la corrente del fiume verso
nord e poi verso est per altre tre settimane, arrivarono ad Angostura68
(oggi Ciudad Bolívar), una piccola, animata città sull’Orinoco, un po’
meno di 400 chilometri a sud di Cumaná. Dopo 2.250 chilometri e
settantacinque giorni di faticoso viaggio su fiumi, Angostura con i suoi
6.000 abitanti a Humboldt e Bonpland sembrò una metropoli. Anche
gli alloggi più umili apparivano bellissimi e la minima comodità era
percepita come un lusso. Lavarono gli abiti, ordinarono le collezioni e
si prepararono per il viaggio di ritorno attraverso gli Llanos.
Erano sopravvissuti a zanzare, giaguari, fame e altri pericoli ma,
proprio quando pensavano che il peggio fosse passato, Bonpland e
Humboldt furono improvvisamente colpiti da una febbre violenta69.
Humboldt si riprese rapidamente, ma Bonpland si trovò presto a
lottare per la vita. Quando, dopo due lunghe settimane, la febbre
cominciò a scendere subentrò la dissenteria. Imbarcarsi nel lungo
viaggio di ritorno attraverso gli Llanos nel pieno della stagione delle
piogge sarebbe stato troppo pericoloso per Bonpland. Aspettarono un
mese ad Angostura, finché Bonpland non riprese forze sufficienti per
affrontare il viaggio fino alla costa, dove intendevano noleggiare
un’imbarcazione per raggiungere Cuba e di lì Acapulco, in Messico. Di
nuovo i bauli furono caricati su muli, con le gabbie delle scimmie e dei
pappagalli che penzolavano ai loro fianchi70. Le nuove collezioni
avevano aggiunto così tanto peso ai bagagli che ora avanzavano
terribilmente a rilento71. Alla fine di luglio del 1800, uscirono dalla
foresta pluviale negli spazi aperti degli Llanos. Dopo settimane nel
fitto della giungla dove le stelle sembrava di vederle come dal fondo di
un pozzo, fu una rivelazione. Humboldt provò un tale senso di libertà
che gli venne voglia di galoppare attraverso le vaste pianure. La
sensazione di “vedere” tutto ciò che lo circondava gli sembrò del tutto
nuova. “L’infinito dello spazio, come hanno detto i poeti in tutte le
lingue”, meditava Humboldt, “si riflette dentro di noi.”72
Nei quattro mesi trascorsi da quando avevano visto per la prima
volta gli Llanos, la stagione delle piogge aveva trasformato le steppe
desolate quasi in un paesaggio marino, in cui grandi laghi e fiumi di
nuovo pieni erano circondati da tappeti di erba fresca73. Ma poiché
“l’aria diventava acqua”74, era ancora più caldo di quanto lo era stato
durante la loro prima traversata. Prati e fiori diffondevano il loro dolce
profumo per tutta la distesa, i giaguari si nascondevano nell’erba alta e
nelle prime ore del mattino migliaia di uccelli cantavano. La piatta
monotonia degli Llanos era interrotta soltanto da qualche isolata
palma Mauritia. Alte e slanciate, queste palme protendevano le loro
fronde dalle lunghe dita come enormi ventagli. Ora erano cariche di
lucenti frutti rossastri commestibili che a Humboldt ricordavano le
pigne degli abeti e che sembravano esercitare una particolare attrattiva
sulle scimmie, che si allungavano attraverso le sbarre delle gabbie per
afferrarle. Humboldt aveva già visto le palme nella foresta pluviale, ma
qui negli Llanos avevano una funzione specifica.
Palme Mauritia (Mauritia flexuosa)
Attraverso le Ande
Il Chimborazo
Il 9 giugno 1802 Humboldt lasciò Quito, dove era arrivato cinque mesi
prima. Era ancora intenzionato a raggiungere Lima, anche se non vi
avrebbe trovato il capitano Baudin. Da Lima sperava di trovare un
passaggio per il Messico, altro paese che voleva esplorare1. Ma prima
di tutto avrebbe scalato il Chimborazo – la più grande ossessione della
sua vita. Questo maestoso vulcano inattivo – un “colosso mostruoso”2,
come lui lo descriveva – si trovava a circa 150 chilometri a sud di Quito
e si elevava fino a quasi 6.300 metri *.
Cavalcando verso il vulcano, Humboldt, Bonpland, Montúfar e José
attraversarono la fitta vegetazione tropicale. Nelle vallate ebbero modo
di ammirare le dature con i loro grandi fiori arancioni a forma di
tromba e le brillanti fucsie rosse dai petali scultorei, che sembrano
quasi finti. Poi, a mano a mano che lentamente salivano, quei fiori
voluttuosi furono rimpiazzati da vuote praterie dove pascolavano
mandrie di vicuñas, simili a piccoli lama. Infine, all’orizzonte apparve
il Chimborazo, che, come un duomo maestoso, si ergeva solitario su un
elevato altopiano. Per diversi giorni, mentre si avvicinavano, la
montagna si stagliava contro l’azzurro vivido del cielo senza nessuna
nube a sporcarne l’imponente profilo. Ogni volta che si fermavano, un
eccitatissimo Humboldt tirava fuori il telescopio. Vide un manto di
neve che copriva le pendici e il paesaggio che circondava il vulcano
sembrava brullo e desolato. Fin dove riusciva a vedere, massi
tondeggianti e rocce ricoprivano il suolo3. Era uno scenario
ultraterreno. A quell’epoca Humboldt aveva già scalato tanti vulcani
da essere l’alpinista più esperto al mondo, ma il Chimborazo era una
prospettiva minacciosa anche per lui. Eppure, come poi avrebbe
spiegato, tutto ciò che sembra irraggiungibile “esercita una misteriosa
attrazione”4.
Il Chimborazo incappucciato di neve
Il 22 giugno arrivarono ai piedi del vulcano, dove trascorsero una
notte insonne in un piccolo villaggio. La mattina presto, la squadra di
Humboldt iniziò l’ascensione con un gruppo di portatori locali. A
dorso di mulo attraversarono pianure e pendici erbose fino a 4.110
metri di altezza. Quando il terreno roccioso diventò più scosceso, si
lasciarono gli animali alle spalle e proseguirono a piedi. Il tempo gli si
stava rivoltando contro. La notte aveva nevicato e l’aria era fredda.
Diversamente dai giorni precedenti, la cima del Chimborazo era
avvolta nella nebbia5. Ogni tanto la nebbia si alzava, consentendo loro
una fugace e tuttavia allettante occhiata alla vetta. La giornata sarebbe
stata lunga.
A 4.750 metri i portatori si rifiutarono di proseguire. Humboldt,
Bonpland, Montúfar e José si divisero gli strumenti e proseguirono da
soli. La nebbia avvolgeva nel suo abbraccio la cima del Chimborazo.
Ben presto si ritrovarono tutti e quattro ad avanzare strisciando distesi
lungo un’alta cresta che si restringeva pericolosamente a soli cinque
centimetri con ripidi precipizi a destra e a sinistra – gli spagnoli con
un termine appropriato la chiamavano cuchilla, ovvero “filo del
coltello”6. Humboldt guardava avanti con determinazione, incurante
del gelo che gli aveva intorpidito mani e piedi e del piede che si era
ferito durante una precedente scalata e ora si era infettato. A
quell’altezza ogni passo pesava come piombo. Presi dalla nausea e
storditi per il mal d’altitudine, con gli occhi iniettati di sangue e le
gengive sanguinanti, provavano un senso costante di vertigine che,
ammise più tardi Humboldt, “era molto pericoloso data la situazione
in cui ci trovavamo”7. Sul Pichincha il mal d’altitudine aveva colpito
Humboldt così gravemente da farlo svenire. Qui, sulla cuchilla, poteva
essere fatale.
Malgrado tutte queste difficoltà, mentre salivano Humboldt aveva
ancora la forza di allestire i suoi strumenti ogni qualche centinaio di
metri. Il vento freddo aveva ghiacciato quelli di ottone e maneggiarne
viti e leve tanto delicate con le mani semi-congelate era quasi
impossibile. Ficcava il termometro nel terreno, leggeva il barometro e
raccoglieva campioni di aria per analizzarne i componenti chimici.
Misurava l’umidità e verificava il punto di ebollizione dell’acqua a
differenti altitudini8. Scalciavano anche sassi tondeggianti giù per le
pendici scoscese per vedere fino a che distanza continuavano a
rotolare.
Dopo un’ora di insidiosa scalata, la cresta divenne un po’ meno
ripida, ma le rocce affilate fecero a brandelli le loro scarpe e i piedi
cominciarono a sanguinare. Poi, all’improvviso, la nebbia si sollevò
svelando la vetta imbiancata del Chimborazo che luccicava sotto il
sole, a circa 300 metri sopra di loro. Ma proprio allora videro anche
che la stretta cresta era finita: al suo posto, davanti a loro si apriva la
bocca di un enorme crepaccio. Per aggirarlo, avrebbero dovuto
camminare nella neve alta, ma era l’una del pomeriggio e il sole aveva
sciolto la crosta di ghiaccio che la ricopriva. Quando Montúfar provò
con grande circospezione a camminarci sopra, sprofondò fin quasi a
scomparire. Non c’era modo di passare. Mentre sostavano Humboldt
tirò di nuovo fuori il barometro e misurò l’altezza: si trovavano a 5.917
metri9. Anche se non fossero riusciti ad arrivare fino in cima, era come
essere sul tetto del mondo. Nessuno aveva mai raggiunto
quell’altitudine – neanche i pionieristici aeronauti in Europa.
Guardando giù le pendici del Chimborazo e le catene montuose che
si estendevano in lontananza, tutto ciò che Humboldt aveva visto negli
anni precedenti gli si affollò davanti agli occhi. Suo fratello Wilhelm
aveva sempre pensato che Humboldt avesse una mente fatta “per
connettere idee, individuare catene di cose”10. Quel giorno, stando
immobile in piedi sul Chimborazo, Humboldt assorbiva tutto ciò che
aveva di fronte, mentre la sua mente tornava a tutte le piante, le
formazioni rocciose e le misurazioni che aveva visto ed effettuato sulle
pendici delle Alpi, sui Pirenei e a Tenerife. Tutto quello che aveva
osservato nel tempo trovava la sua collocazione; la natura, realizzò, è
una rete vitale e una forza globale. Come più tardi avrebbe detto un
collega, fu il primo a capire che tutto è intrecciato, come un unico
tessuto fatto “di migliaia di fili”11. Questa nuova idea di natura era
destinata a cambiare la visione che il genere umano ha del mondo.
Humboldt era colpito “dalle somiglianze che riscontriamo in climi
che sono quanto più possibile distanti tra di loro”12. Nelle Ande, per
esempio, cresceva un muschio che gli ricordava una specie
proveniente dalle foreste della Germania settentrionale, lontane
migliaia di chilometri. Sulle montagne nei dintorni di Caracas aveva
osservato piante a forma di rododendro – che lui chiamava rosi
alpini13 – che assomigliavano a quelle che si trovano sulle Alpi
svizzere. Più tardi, in Messico, avrebbe trovato pini, cipressi e querce
simili a quelli che crescevano in Canada14. Si potevano trovare piante
alpine sulle montagne della Svizzera e in Lapponia, come qui sulle
Ande. Tutto era connesso15.
Per Humboldt i giorni trascorsi facendo escursioni da Quito e poi
scalando il Chimborazo erano stati come un viaggio botanico che
partiva dall’Equatore in direzione dei poli, con l’intero mondo vegetale
che sembrava disposto in strati sovrapposti a mano a mano che le zone
di vegetazione risalivano la montagna: i gruppi di piante spaziavano
dalle specie tropicali giù nelle valli ai licheni incontrati in prossimità
della linea delle nevi perenni16. Verso la fine della sua vita, spesso
Humboldt parlava dell’esigenza di capire la natura da “un punto di
vista più alto”17, dal quale si potessero vedere le connessioni. Il
momento in cui lo aveva compreso era qui, sul Chimborazo, dove con
“un’unica occhiata”18 vedeva dispiegarsi davanti a sé l’insieme della
natura.
Politica e natura
Nel 1804 Thomas Jefferson era all’apice della carriera. Aveva scritto
la Dichiarazione d’Indipendenza, era presidente degli Stati Uniti e alla
fine dell’anno avrebbe ottenuto una schiacciante vittoria elettorale
assicurandosi il secondo mandato. E, con il recente acquisto del
Territorio della Louisiana dalla Francia, aveva gettato le basi per
l’espansione della nazione verso ovest *. Con solo 15 milioni di dollari
statunitensi, Jefferson aveva raddoppiato le dimensioni della nazione,
aggiungendovi oltre 1.250.000 chilometri quadrati che si estendevano
a ovest dal Mississippi alle Montagne Rocciose e dal Canada a nord al
Golfo del Messico a sud. Inoltre, Jefferson aveva appena spedito
Meriwether Lewis e William Clark nel loro viaggio via terra attraverso
l’intero continente nordamericano. La spedizione metteva insieme
tutti i temi che più gli stavano a cuore: aveva personalmente dato
istruzioni agli esploratori, che dovevano raccogliere piante, semi e
specie animali; riferire sulle pratiche agricole e di gestione dei terreni
dei nativi americani; ispezionare suolo e fiumi18.
L’arrivo di Humboldt non poteva cadere in un momento migliore. Il
console americano a Cuba, Vincent Gray, aveva già scritto a Madison
sollecitandolo a incontrare Humboldt perché era in possesso di
informazioni utili sul Messico, il loro nuovo paese confinante a sud a
seguito dell’acquisizione della Louisiana.
Appena Humboldt sbarcò a Philadelphia, vi fu uno scambio di
lettere tra lui e il presidente e Jefferson lo invitò a Washington. Era
eccitato, scrisse a Humboldt, perché nutriva “buone speranze nella
capacità di questo nuovo mondo di mostrare miglioramenti nella
condizione umana”19. E così, il 29 maggio, Humboldt, Bonpland e
Montúfar salirono sulla diligenza postale a Philadelphia per recarsi a
Washington20, a circa 250 chilometri in direzione sud-ovest.
Il paesaggio che attraversarono era fatto di campi ben tenuti con
dritti filari di colture e fattorie sparse circondate da frutteti e orti
ordinati. Era l’incarnazione delle idee nutrite da Jefferson riguardo al
futuro economico e politico degli Stati Uniti: una nazione di
proprietari terrieri indipendenti con piccole fattorie autosufficienti21.
Con le Guerre Napoleoniche che dilaniavano l’Europa, l’economia
americana andava a gonfie vele perché, come nazione neutrale –
almeno per il momento – trasportava gran parte delle merci del globo.
Navi americane cariche di spezie, cacao, cotone, caffè e zucchero
solcavano gli oceani dal Nord America ai Caraibi all’Europa fino alle
Indie Orientali. Anche i mercati di esportazione per i prodotti agricoli
interni erano in espansione. Sembrava davvero che Jefferson stesse
portando il paese verso un futuro di prosperità e felicità.
Tuttavia, nei tre decenni trascorsi dalla rivoluzione, l’America era
cambiata. Vecchi amici rivoluzionari si erano litigati sui diversi ideali
di repubblica, dandosi a feroci lotte tra fazioni. Divisioni erano insorte
sulla struttura che le diverse fazioni ritenevano dovesse avere la
società americana: una nazione di coltivatori, o una società
mercantile? C’era chi, come Jefferson, immaginava gli Stati Uniti come
una repubblica rurale i cui principi naturali erano la libertà degli
individui e i diritti dei singoli Stati, ma c’era anche chi prediligeva il
commercio e un governo centrale forte22.
Le differenze si manifestavano forse con la massima evidenza nei
progetti proposti per la nuova capitale, Washington – la città nuova di
zecca che era stata strappata alle terre paludose e selvagge sul fiume
Potomac. Tutti ritenevano che la capitale dovesse rispecchiare il
governo e il suo potere (o la sua assenza di potere). Il primo presidente
degli Stati Uniti, George Washington, paladino di un forte governo
federale, aveva voluto una grande capitale con ampie strade che
attraversavano in lungo e in largo la città, un palazzo presidenziale e
giardini maestosi. Jefferson e i suoi amici repubblicani, viceversa,
sostenevano che il governo centrale doveva avere il minimo potere
possibile. Preferivano una capitale piccola – una cittadina rurale e
repubblicana23.
Benché avessero prevalso le idee di Washington – e, sulla carta, la
capitale sembrasse sontuosa – nella realtà ben poco si era fatto
quando Humboldt vi giunse nell’estate del 1804. Con solo 4.500
abitanti, Washington aveva più o meno le dimensioni di Jena quando
Humboldt vi aveva incontrato per la prima volta Goethe ed era ben
diversa da come i forestieri immaginavano la capitale di un paese
immenso come gli Stati Uniti d’America24. Le strade erano in
condizioni terribili e così ingombre di pietre e tronconi d’albero che le
carrozze regolarmente si rovesciavano25. Mota rossa si appiccicava
come colla alle ruote e agli assi e i pedoni rischiavano di affondare fino
alle ginocchia nelle pozzanghere fangose da cui nessun tratto di strada
era esente.
Quando Jefferson vi si trasferì, subito dopo la sua inaugurazione nel
marzo del 1801, la Casa Bianca26 era ancora un cantiere. Tre anni
dopo, al tempo della visita di Humboldt, ben poco era cambiato. In
quello che avrebbe dovuto essere un giardino presidenziale, c’erano
solo sporcizia e le baracche degli operai. I terreni erano separati dai
campi confinanti soltanto da una staccionata mezza marcia sulla quale
le lavandaie di Jefferson stendevano ad asciugare in bella vista la
biancheria presidenziale27. Né andava molto meglio all’interno della
Casa Bianca, dove la gran parte delle stanze non erano più che semi-
arredate. Jefferson, come osservò un visitatore, abitava soltanto un’ala
della residenza e tutto il resto era ancora in uno “stato di sudicia
desolazione”28.
Jefferson non se ne curava. Appena entrato in carica, fin dal primo
giorno aveva cominciato a demistificare il ruolo del presidente29
liberando l’amministrazione, che muoveva i suoi primi passi, dai rigidi
protocolli sociali e dalla pompa dei cerimoniali e proponendosi come
un semplice coltivatore. Anziché dare eleganti ricevimenti formali,
invitava gli ospiti a cene ristrette, che si svolgevano a un tavolo
rotondo per evitare questioni di gerarchie e ordini di precedenza. Si
vestiva deliberatamente in modo informale e fioccavano commenti sul
suo aspetto disordinato. Aveva pantofole così consunte che le dita dei
piedi sbucavano fuori, il cappotto era “liso” e la biancheria “molto
logora”30. Sembrava un “coltivatore dall’ossatura massiccia”31,
osservò un diplomatico britannico: era proprio l’immagine che
Jefferson voleva trasmettere.
Jefferson si considerava, in primo luogo, un coltivatore e
giardiniere, non un politico. “Non c’è occupazione che mi delizi di più
che coltivare la terra”32, diceva. A Washington, ogni giorno sarebbe
uscito a cavallo nella campagna circostante per sfuggire al tedio della
corrispondenza e degli incontri governativi. La cosa che più di ogni
altra bramava era di tornare a Monticello. Alla fine del suo secondo
mandato avrebbe proclamato che “nessun prigioniero, liberato dalle
sue catene, ha mai provato un tale sollievo come quello che io proverò
scrollandomi di dosso i ceppi del potere”33. Al presidente degli Stati
Uniti piaceva di più sguazzare nelle paludi e scalare rocce, raccogliere
una foglia o un seme, che presenziare alle riunioni di Gabinetto34.
Non c’era pianta – “dall’erbaccia più vile all’albero più nobile”, ebbe a
dire un amico – che sfuggisse al suo esame minuzioso. Il suo amore
per la botanica e il giardinaggio era così noto che i diplomatici
americani spedivano alla Casa Bianca semi da tutto il mondo35.
Gli interessi di Jefferson spaziavano in tutti i campi scientifici,
comprese l’orticoltura, la matematica, la meteorologia e la geografia.
Era affascinato dagli scheletri fossili e in particolare dal mastodonte,
un gigante estinto della famiglia degli elefanti che soltanto 10.000
anni prima aveva vagato nelle regioni interne d’America36. La sua
biblioteca contava migliaia di libri e aveva scritto di sua mano Notes
on the State of Virginia, una descrizione dettagliata dell’economia e
della società, delle risorse naturali e delle piante, ma anche un inno al
paesaggio della Virginia.
Come Humboldt, Jefferson si muoveva a suo perfetto agio tra i
diversi campi scientifici. Aveva la mania delle misurazioni e compilava
un numero infinito di elenchi che spaziavano dalle centinaia di specie
di piante che coltivava a Monticello a tabelle con le temperature
quotidiane. Contava i gradini delle scale, teneva la “contabilità” delle
lettere che riceveva dai nipoti e si portava sempre in tasca un righello.
Sembrava che la sua mente non riposasse mai37. Con un uomo dalla
cultura così eclettica come presidente, la Casa Bianca di Jefferson era
diventata luogo di incontri scientifici. Alle cene si parlava di botanica,
di geografia, di esplorazioni. Era anche presidente della American
Philosophical Society38, fondata con Benjamin Franklin prima della
rivoluzione e da allora il più importante forum scientifico negli Stati
Uniti. Jefferson, disse un contemporaneo, era “il filosofo illuminato,
l’illustre naturalista, il primo statista al mondo, l’amico e gloria della
scienza… il padre del nostro Paese, il fido guardiano delle nostre
libertà”39. Non vedeva l’ora di conoscere Humboldt.
Europa
Verso la fine di giugno del 1804, Humboldt lasciò gli Stati Uniti sulla
fregata francese Favorite1 e nell’agosto, poche settimane prima del suo
trentacinquesimo compleanno, arrivò a Parigi accolto come un eroe.
Era stato via per più di cinque anni e tornava con i bauli pieni di
dozzine di taccuini, centinaia di schizzi e decine di migliaia di
osservazioni astronomiche, geologiche e meteorologiche. Riportava
circa 60.000 esemplari di piante, 6.000 specie, di cui almeno 2.000
erano sconosciute ai botanici europei: un numero sbalorditivo, se si
pensa che alla fine del diciottesimo secolo le specie conosciute erano
all’incirca 6.000. Humboldt si vantava di averne raccolte più di
chiunque altro2.
“Non vedo l’ora di essere di nuovo a Parigi!”3, aveva scritto da Lima
a uno scienziato francese quasi due anni prima. Ma questa Parigi era
diversa dalla città che aveva lasciato nel 1798. Humboldt aveva lasciato
una repubblica e ora trovava una nazione governata da un dittatore.
Dopo il colpo di stato del 1799, Napoleone si era proclamato Primo
console e in tal modo era diventato l’uomo più potente di Francia.
Appena qualche settimana prima dell’arrivo di Humboldt, Napoleone
aveva annunciato che sarebbe stato incoronato Imperatore di Francia.
Le strade risuonavano del rumore degli attrezzi per le opere edilizie
che erano state avviate per realizzare la grande visione che Napoleone
aveva di Parigi. “Sono così spaesato che prima di tutto devo
orientarmi”64, scrisse Humboldt a un vecchio amico. La cattedrale di
Notre-Dame era in corso di restauro in vista dell’incoronazione di
Napoleone a dicembre e le case medievali con la struttura in legno
venivano demolite per fare spazio alle aree pubbliche, alle fontane e ai
boulevard. Si stava scavando un canale, lungo cento chilometri, per
portare acqua fresca a Parigi e si stava costruendo il Quai d’Orsay per
impedire le inondazioni della Senna.
Molti dei giornali che Humboldt aveva conosciuto erano stati chiusi
o erano ora gestiti da editori leali nei confronti del nuovo regime,
mentre erano proibite le caricature di Napoleone e del suo regno.
Napoleone aveva istituito una nuova forza di polizia nazionale come
anche la Banque de France che regolava la moneta nazionale. Il suo
governo era centralizzato a Parigi e tutti gli aspetti della vita della
nazione erano sotto il suo stretto controllo. La sola cosa che non
sembrava essere cambiata era che in Europa la guerra continuava a
imperversare.
Il motivo per cui Humboldt aveva scelto Parigi come nuova dimora
era semplice: nessun’altra città era così impregnata di scienza. In
Europa non c’era altro posto in cui al pensiero fosse consentito di
essere altrettanto libero. Con la Rivoluzione francese il ruolo della
Chiesa cattolica si era ridotto e in Francia gli scienziati non erano più
vincolati da canoni religiosi o da credenze ortodosse. Potevano
sperimentare e speculare liberi da pregiudizi, mettendo in questione
qualunque cosa. La ragione era la nuova religione e fiumi di denaro si
riversavano sulle scienze5. Al Jardin des Plantes, come era conosciuto
l’ex Jardin du Roi, erano state costruite nuove serre e il Museo di
storia naturale si stava espandendo con collezioni saccheggiate in tutta
Europa dall’esercito di Napoleone: erbari, fossili, animali impagliati e
anche due elefanti vivi provenienti dall’Olanda6. A Parigi Humboldt
trovò pensatori con le sue stesse idee, insieme con incisori e società
scientifiche, salotti e istituzioni interessati alle scienze. Parigi era
anche il centro dell’editoria europea. In breve, era il posto perfetto per
Humboldt, che desiderava condividere le sue idee con il mondo.
La città brulicava di attività. Era una vera metropoli, con una
popolazione di circa mezzo milione di abitanti, la seconda città più
grande d’Europa dopo Londra. Nel decennio dopo la rivoluzione,
Parigi era caduta in rovina e in preda all’austerità, ma ora erano
tornate a prevalere la frivolezza e l’allegria. Alle donne ci si rivolgeva
con l’appellativo di “Madame” o “Mademoiselle” invece che “cittadina”
e a decine di migliaia di francesi esiliati era stato concesso di rientrare.
C’erano caffè ovunque e dopo la rivoluzione il numero dei ristoranti
era cresciuto rapidamente da un centinaio a cinquecento7. Gli
stranieri erano spesso sorpresi nel constatare quanto la vita parigina si
svolgesse fuori casa. L’intera popolazione sembrava vivere in pubblico,
“come se le case fossero costruite solo per dormirci”, affermò il poeta
romantico inglese Robert Southey8.
Lungo le rive della Senna, accanto al piccolo appartamento che
Humboldt aveva affittato a Saint-Germain, centinaia di lavandaie con
le maniche arrotolate lavavano e strofinavano i panni sotto gli occhi di
coloro che passavano sui molti ponti della città. Le strade erano
fiancheggiate da banchi che offrivano di tutto, dalle ostriche e dai
grappoli d’uva ai mobili. Ciabattini, arrotini e venditori ambulanti
offrivano rumorosamente i loro servizi. Animali che si esibivano,
giocolieri che facevano i loro numeri e “filosofi” che arringavano il
pubblico o effettuavano esperimenti. Qui un vecchio strimpellava
l’armonica a bocca, là un bambino batteva sul tamburello e un cane
faceva suonare con le zampe un organetto. I “grimacier” contorcevano
le facce nelle più orribili forme, mentre l’odore delle caldarroste si
mescolava con altri olezzi meno piacevoli9. Era, disse un visitatore,
come se la città intera fosse “dedita esclusivamente al godimento”10.
Anche a mezzanotte le strade erano ancora affollate, con musicisti,
attori e prestigiatori che intrattenevano la gente. Tutta la città, osservò
un altro turista, sembrava in “perenne agitazione”11.
Ciò che sorprendeva gli stranieri era il fatto che tutte le classi
vivevano sotto lo stesso tetto in grandi edifici: dall’appartamento di un
duca al piano nobile agli alloggi della servitù o delle modiste nelle
soffitte del quinto piano. Anche l’alfabetizzazione sembrava andare al
di là delle classi. Persino le ragazze che vendevano fiori o ciondoli
avevano la testa sprofondata nei libri quando non c’erano clienti che
abbisognassero della loro attenzione12. Una bancarella dopo l’altra
fiancheggiavano le strade e le conversazioni ai tavoli che
ingombravano i marciapiedi davanti ai ristoranti e ai caffè vertevano
spesso sulla bellezza e sull’arte o potevano riguardare un “discorso su
qualche astruso punto di matematica superiore”13.
Vita di strada a Parigi
Berlino
La Porta di Brandeburgo attraverso cui Napoleone entrò a Berlino in trionfo nel 1806, dopo la
battaglia di Jena e Auerstädt
Parigi
Rivoluzioni e natura
Procedevo, coperto del mantello di Iride, dal luogo in cui l’impetuoso Orinoco paga il suo
tributo al dio delle acque. Avevo visitato le meravigliose sorgenti dell’Amazzonia,
arrampicandomi faticosamente sulla torre di guardia dell’universo. Ero alla ricerca delle
tracce di La Condamine e di Humboldt, seguendole con determinazione. Nulla poteva
fermarmi. Raggiunsi le cime ghiacciate e l’atmosfera mi tolse il respiro. Nessun piede
umano aveva mai macchiato la corona di diamanti posta dalle mani dell’Eternità sui
templi sublimi di questo superbo picco andino. Dissi a me stesso: il mantello arcobaleno
di Iride mi è servito da stendardo. L’ho portato attraverso regioni infernali. Ha solcato
fiumi e mari ed è salito sulle spalle gigantesche delle Ande. La terra si è spianata ai piedi
della Colombia e neanche il tempo ha potuto trattenere la marcia della libertà. La dea
della guerra, Bellona, è stata umiliata dallo splendore di Iride. Perché dovrei esitare a
calpestare la chioma bianca di ghiaccio di questo gigante sulla terra? Lo farò! E preso da
un tremore spirituale che non avevo mai sperimentato prima e che mi sembrava una sorta
di frenesia divina, mi lasciai alle spalle le tracce di Humboldt e cominciai a lasciare le mie
impronte sui cristalli eterni che cingono il Chimborazo.
Simón Bolívar, Il mio delirio sul Chimborazo, 18221
Londra
Girando a vuoto
Maladie centrifuge
Il 14 aprile 1827, Humboldt lasciò Parigi per Berlino, non senza una
delle sue solite deviazioni. Passò per Londra, forse in un ultimo
disperato tentativo di convincere la Compagnia delle Indie Orientali a
concedergli il permesso di esplorare l’India. Erano passati nove anni
dalla sua ultima visita, nel 1818, quando era stato ospite del fratello
Wilhelm. Da allora Wilhelm era stato richiamato dalla sua
destinazione diplomatica in Gran Bretagna e viveva ora a Berlino*, ma
Humboldt riprese velocemente i contatti con le vecchie conoscenze
britanniche. Cercò di ottenere il massimo dalla sua visita di tre
settimane.
Humboldt passava da una persona all’altra – politici, scienziati e un
“gruppo di aristocratici”63. Alla Royal Society Humboldt incontrò i
vecchi amici John Herschel e Charles Babbage e partecipò a una
riunione nella quale uno dei colleghi presentava dieci carte che
facevano parte di un nuovo atlante dell’India commissionato dalla
Compagnia delle Indie Orientali – un doloroso richiamo a ciò che
Humboldt non era riuscito a fare64. Pranzò con Mary Somerville*65,
una delle poche scienziate in Europa e andò a trovare il botanico
Robert Brown al giardino botanico di Kew, a ovest di Londra. Brown
aveva esplorato l’Australia quale uno dei collezionisti di piante di
Joseph Bank e Humboldt era impaziente di apprendere qualcosa sulla
flora degli antipodi.
Humboldt fu anche invitato a un party elegante presso la Royal
Academy e cenò con la sua vecchia conoscenza George Canning, che
era diventato primo ministro britannico da appena due settimane66.
Alla cena con Canning Humboldt ebbe il graditissimo piacere di
incontrare il vecchio amico di Washington, Albert Gallatin, che era ora
ministro plenipotenziario americano a Londra. Era solo l’attenzione
dell’aristocrazia britannica ad annoiare Humboldt. Parigi era una città
addormentata in confronto ai “miei tormenti qui”, scrisse a un amico,
perché ognuno sembrava aspirare a un pezzo di lui. A Londra, “ogni
frase comincia”, si lamentò, con “non vorrete partire senza aver visto
la mia residenza di campagna: è solo a poco più di cinquanta
chilometri da Londra”67.
Il giorno più eccitante per Humboldt, tuttavia, fu quello passato non
con scienziati o politici, ma con un giovane ingegnere, Isambard
Kingdom Brunel, che aveva invitato Humboldt a osservare la
costruzione del primo tunnel sotto il Tamigi. L’idea di costruire un
tunnel sotto un fiume era tanto audace quanto rischiosa, e nessuno era
mai riuscito in questa impresa.
Le condizioni del Tamigi non potevano essere peggiori, perché il
letto del fiume e il terreno sottostante erano fatti di sabbia e di argilla
morbida. Il padre di Brunel, Marc, aveva inventato un metodo
ingegnoso per costruire un tunnel: uno scudo di ferro dell’altezza e
larghezza del canale del tunnel. Ispirato alla teredo navalis che perfora
le tavole di legno più dure proteggendosi la testa con uno scudo, Marc
Brunel aveva progettato un enorme congegno che consentiva di
scavare il tunnel puntellando al tempo stesso il soffitto e tenendo
ferma l’argilla morbida. Mentre gli operai spostavano lo scudo
metallico davanti a loro sotto il letto del fiume, costruivano il guscio di
mattoni del tunnel dietro di loro. Centimetro dopo centimetro e passo
dopo passo, lentamente la lunghezza del tunnel cresceva. I lavori
erano iniziati due anni prima e nel momento in cui Humboldt giunse a
Londra gli uomini di Brunel erano giunti quasi alla metà del tunnel
lungo 400 metri68.
Il lavoro era insidioso e il diario di Marc Brunel era pieno di pensieri
di timore e preoccupazione: “l’ansietà cresce di giorno in giorno”, “le
cose stanno peggiorando ogni giorno” oppure “ogni mattina mi dico:
un altro giorno di pericolo è passato”69. Il figlio Isambard, che era
stato nominato “ingegnere interno” nel gennaio 1827 a vent’anni,
apportava al progetto la sua sconfinata energia e fiducia. Ma l’opera
era impegnativa. Agli inizi di aprile, poco prima che Humboldt
arrivasse, sempre più acqua filtrava nel tunnel e Isambard impiegava
quaranta uomini per pomparla e tenere sotto controllo l’infiltrazione.
“Sulle loro teste” c’era solo “limo argilloso”70, era la preoccupazione di
Marc Brunel, il quale temeva che il tunnel potesse collassare in
qualsiasi momento. Isambard voleva ispezionare la costruzione
dall’esterno e chiese a Humboldt di accompagnarlo. Era pericoloso,
ma Humboldt non se ne preoccupava – era troppo eccitante per
rinunciarvi. Sperava anche di misurare la pressione atmosferica sul
fondo del fiume per confrontarla con le sue misurazioni sulle Ande.
La campana d’immersione in cui Humboldt discese con Brunel sul fondo del Tamigi per
vedere la costruzione del tunnel
1. In giugno 1814, novembre 1817 e settembre 1818; vedi anche WH a CH, 22 e 25 settembre
1818, WH CH Lettere 1910-16, vol. 6, pp. 320, 323; “Fashionable Arrivals”, Morning Post, 25
settembre 1818; Théodoridès 1966, pp. 43-4.
2. AH a Karl August von Hardenberg, 18 ottobre 1818, Beck 1959-61, vol. 2, p. 47.
3. Ibid.
4. WH a CH, 9 ottobre 1818, WH CH Lettere 1910-16, vol. 6, p. 336.
5. Morning Chronicle, 28 settembre 1818.
6. Daudet 1912, p. 329.
7. The Times, 20 ottobre 1818.
8. Ibid.; vedi anche Biermann e Schwarz 2001a, senza numeri di pagina.
9. The Times, 20 ottobre 1818.
10. AH a Karl August von Hardenberg, 18 ottobre 1818, Beck 1959-61, vol. 2, p. 47.
11. Federico Guglielmo III a AH, 19 ottobre 1818, ivi, p. 48; The Times, 31 ottobre 1818.
12. AH a Karl August von Hardenberg, 30 luglio 1819; AH a WH, 22 gennaio 1820, Daudet
1912, pp. 346, 355; Gustav Parthey, febbraio 1821, Beck 1959-61, vol. 2, p. 51.
13. Eichhorn 1959, pp. 186, 205 sgg.
14. AH a Marc-Auguste Pictet, 11 luglio 1819, Beck 1959-61, vol. 2, p. 50.
15. Bonpland a Olive Gallacheau, 6 luglio 1814, Bell 2010, p. 239.
16. Ivi, pp. 22, 239; Schulz 1960, p. 595.
17. Francisco Antonio Zea a Bonpland, 4 marzo 1815, Bell 2010, p. 22.
18. Schneppen 2002, p. 12.
19. José Rafael Revenga a Francisco Antonio Zea, “Instrucciones a que de orden del
excelentísimo señor presidente habrá de arreglar su conducta el E.S. Francisco Zea en la
misión que se le ha conferido por el gobierno de Colombia para ante los del continente de
Europa y de los Estados unidos de America,” Bogotá, 24 dicembre 1819, Archivo General de la
Nación, Colombia, Ministerio de Relaciones Exteriores, Delegaciones – Transferencia 2, 242,
315r-320v. Vorrei ringraziare Ernesto Bassi per questo riferimento.
20. Manuel Palacio a Bonpland, 31 agosto 1815, Bell 2010, p. 22.
21. Bolívar a Bonpland, 25 febbraio 1815, Schulz 1960, pp. 589, 595; Schneppen 2002, p. 12;
Bell 2010, p. 25.
22. William Baldwin, marzo 1818, Bell 2010, p. 33.
23. AH a Bonpland, 25 novembre 1821, AH Bonpland Lettere 2004, p. 79.
24. Schneppen 2002, p. 12.
25. Bolívar a José Gaspar Rodríguez de Francia, 22 ottobre 1823, ivi, p. 17.
26. Ivi, pp. 18-21; AH a Bolívar, 21 marzo 1826, O’Leary 1879-88, vol. 12, p. 237.
27. AH a Jean Baptiste Joseph Delambre, 29 luglio 1803, Bruhns 1873, vol. 1, p. 333.
28. AH a WH, 17 ottobre 1822, Biermann 1987, p. 198.
29. Ibid.
30. AH a Bolívar, 21 marzo 1826, O’Leary 1879-88, vol. 12, p. 237; WH a CH, 2 settembre
1824, WH CH Lettere 1910-16, vol. 7, p. 218.
31. WH a CH, 2 settembre 1824, ivi.
32. Davy pranzò con AH il 19 aprile 1817, AH Lettere USA 2004, p. 146; Charles Babbage e
John Herschel in 1819, Babbage 1994, p. 145.
33. Charles Babbage, 1819, Babbage 1994, p. 147.
34. William Buckland a John Nicholl, 1820, Buckland 1894, p. 37.
35. Charles Lyell a Charles Lyell sen., 21 e 28 giugno 1823, Lyell 1881, vol. 1, pp. 122-4.
36. Charles Lyell a Charles Lyell sen., 28 agosto 1823, ivi, p. 146.
37. Charles Lyell a Charles Lyell sen., 3 luglio 1823, ivi, p. 126.
38. Charles Lyell a Charles Lyell sen., 28 giugno 1823, ivi, p. 124.
39. Körber 1959, p. 301.
40. AH Cosmos 1845-52, vol. 1, p. 312; AH Kosmos 1845-50, vol. 1, p. 340.
41. Charles Lyell a Poulett Scrope, 14 giugno 1830, Lyell 1881, vol. 1, p. 270; vedi anche Lyell
1830, vol. 1, p. 122.
42. Charles Lyell a Gideon Mantell, 15 febbraio 1830, Lyell 1881, vol. 1, p. 262.
43. Körber 1959, pp. 299 sgg.
44. Lyell 1830, vol. 1, p. 122; vedi anche Wilson 1972, pp. 284 sgg.
45. Charles Lyell a Poulett Scrope, 14 giugno 1830, Lyell 1881, vol. 1, p. 269.
46. Ivi, p. 270.
47. CH a WH, 14 aprile 1809, WH CH Lettere 1910-16, vol. 3, p. 131; vedi anche Carl Vogt,
gennaio 1845, Beck 1959, p. 201.
48. AH a Simón Bolívar, 29 luglio 1822, Minguet 1986, p. 749; era Jean-Baptiste Boussingault,
Podach 1959, pp. 208-9.
49. AH a Jefferson, 20 dicembre 1811, TJ Papers RS, vol. 4, p. 352; era José Corrêa da Serra;
AH presentò anche l’italiano Carlo de Vidua a Jefferson nel 1825, AH a Jefferson, 22 febbraio
1825, Terra 1959, p. 795 e AH Lettere USA 2004, pp. 122-3.
50. Justus von Liebig su AH, Terra 1955, p. 265.
51. Gallatin 1836, p. 1.
52. Charles Lyell a Charles Lyell sen., 28 agosto 1823, Lyell 1881 vol. 1, p. 142.
53. AH lo disse a George Bancroft, 1820, Terra 1955, p. 266; AH a Charles Lyell in 1823,
raccontato da Charles Lyell a Charles Lyell sen., 8 luglio 1823, Lyell 1881, vol. 1, p. 128.
54. AH ad Auguste-Pyrame Decandolle, 1818, Bruhns 1873, vol. 2, p. 38; per la scienza a
Parigi, vedi Päßler 2009, p. 30 e Terra 1955, p. 251.
55. AH a Charles Lyell in 1823, raccontato da Charles Lyell a Charles Lyell sen., 8 luglio 1823,
Lyell 1881, vol. 1, p. 127.
56. Ibid.
57. Jean Baptiste Boussingault, 1822, Podach 1959, pp. 208-9.
58. Re Federico Guglielmo III a AH, autunno 1826, Bruhns 1873, vol. 2, p. 95.
59. AH a WH, 17 dicembre 1822, AH WH Lettere 1880, p. 112; per le finanze di AH, vedi
Eichorn 1959, p. 206.
60. Helen Maria Williams a Henry Crabb Robinson, 25 marzo 1818, Leask 2001, p. 225.
61. AH a Carl Friedrich Gauß, 16 febbraio 1827, AH Gauß Lettere 1977, p. 30.
62. AH a Georg von Cotta, 28 marzo 1833, AH Cotta Lettere 2009, p. 178.
63. AH a Arago, 30 aprile 1827, AH Arago Lettere 1907, p. 23.
64. 3 maggio 1827, RS Journal Book, vol. XLV, pp. 73 sgg. e 3 maggio 1827, Elenco dei
partecipanti, RS Dining Club, vol. 21, senza numeri di pagina; AH a Arago, 30 aprile 1827, AH
Arago Lettere 1907, pp. 22-4.
65. (nota a piè di pagina) Patterson 1969, p. 311; Patterson 1974, p. 272.
66. AH a Arago, 30 aprile 1827, AH Arago Lettere 1907, p. 28; Canning divenne Primo
Ministro il 10 aprile e il pranzo si tenne il 23 aprile 1827.
67. AH a Achille Valenciennes, 4 maggio 1827, Théodoridès 1966, p. 46.
68. Buchanan 2002, pp. 22 sgg.; Pudney 1974, pp. 16 sgg.; Brunel 1870, pp. 24 sgg.
69. Marc Brunel, 4 gennaio, 21 marzo, 29 marzo 1827, Brunel 1870, pp. 25-26.
70. Marc Brunel, 29 marzo 1827, ivi, p. 26.
71. AH a Arago, 30 aprile 1827, AH Arago Lettere 1907, pp. 24 sgg.; Pudney 1974, pp. 16-17;
AH a William Buckland, 26 aprile 1827, American Philosophical Society (copia presso
l’Alexander-von-Humboldt-Forschungstelle, Berlino); Fürst Pückler Muskau, 20 agosto 1827,
Pückler Muskau 1833, p. 177.
72. AH a Arago, 30 aprile 1827, AH Arago Lettere 1907, p. 25.
73. Ibid.
74. Marc Brunel, 29 aprile e 18 maggio 1827, Brunel 1870, p. 27; Buchanan 2002, p. 25.
75. Robert Darwin a Charles Darwin, Darwin 1958, p. 28.
*. O, nel caso delle isobare, le linee rappresentano la pressione atmosferica.
*. Durante il regno di Napoleone, Luigi XVIII aveva vissuto in esilio in Prussia, in Russia e in
Gran Bretagna.
*. Wilhelm aveva lasciato Londra nel 1818. Aveva poi occupato per breve tempo una posizione
ministeriale a Berlino, ma era rimasto deluso dalla politica reazionaria della Prussia. Alla fine
del 1819, Wilhelm si era ritirato dalla carriera politica e si era trasferito nella tenuta di famiglia
a Tegel, che aveva ereditato.
*. WLa quarantaseienne Mary Somerville era una famosa matematica e un’intellettuale
poliedrica. Nel 1827 stava lavorando alla traduzione in inglese del libro di Laplace Mécanique
céleste. La sua scrittura era così chiara che il libro divenne un bestseller in Gran Bretagna. Era
la sola donna, diceva Laplace, “che poteva comprendere e correggere le sue opere”. Altri la
definivano la “regina della scienza”. In seguito avrebbe pubblicato un libro intitolato Physical
Geography, che presentava molte somiglianze con l’approccio di Humboldt alla scienza e al
mondo naturale.
PARTE IV
Ritorno a Berlino
Il castello di Berlino
Russia
Evoluzione e natura
HMS (Her Majesty Ship) Beagle andava su e giù sulle onde con
implacabile regolarità, mentre il vento scompigliava le tele rigonfie
delle vele. La nave aveva lasciato Portsmouth, sulla costa meridionale
dell’Inghilterra quattro giorni prima, il 27 dicembre 1831, per un
viaggio intorno al globo con lo scopo di studiare le linee costiere e
misurare la posizione geografica esatta dei porti. A bordo c’era il
ventiduenne Charles Darwin, che si sentiva “maledettamente giù di
morale”1. Non era questo il modo in cui aveva immaginato la sua
avventura. Invece di stare in coperta a guardare il mare in tempesta,
mentre attraversavano il Golfo di Biscaglia in direzione di Madeira,
Darwin si sentiva più infelice di quanto si fosse mai sentito prima.
Soffriva un tale mal di mare che l’unica maniera di sopportarlo era di
rifugiarsi nella sua cabina, mangiare gallette e starsene disteso2.
La piccola cabina a poppa, che divideva con due membri
dell’equipaggio, era così stipata che la sua amaca era appesa sopra il
tavolo su cui gli ufficiali lavoravano con le carte nautiche. La cabina
era all’incirca tre metri per tre, contornata di scaffali, armadietti e una
cassapanca a cassetti lungo le pareti e il grande tavolo da lavoro al
centro3. Alto più di un metro e ottanta, Darwin non aveva lo spazio
per stare in piedi. Al centro del piccolo ambiente passava l’albero di
mezzana, come una grande colonna a lato del tavolo. Per muoversi
nella cabina, gli uomini dovevano arrampicarsi sulle grosse travi
dell’agghiaccio che attraversavano il pavimento. Non c’erano finestre,
tranne un lucernario attraverso il quale Darwin guardava la luna e le
stelle quando giaceva sull’amaca.
Sul piccolo scaffale accanto all’amaca c’erano le cose più preziose di
Darwin: i libri che aveva scelto con cura per tenergli compagnia4.
Aveva parecchi libri di botanica e di zoologia, un nuovissimo
dizionario spagnolo-inglese, diversi resoconti di viaggi scritti da
esploratori e il primo volume dei rivoluzionari Principles of Geology,
pubblicati l’anno precedente5. Accanto c’era la Personal Narrative di
Alexander von Humboldt, il resoconto in sette volumi della spedizione
in Sud America e il motivo per cui Darwin era sul Beagle*6. “La mia
ammirazione per il famoso resoconto personale di Humboldt (di cui
conoscevo quasi a memoria alcune parti)”, diceva Darwin, “mi ha
indotto a viaggiare in paesi lontani e mi ha spinto a offrirmi
volontariamente come naturalista sul Beagle di Sua Maestà.”7
Planimetria del Beagle con la cabina di Darwin (ponte di poppa) verso la parte posteriore
Nel settembre 1835, poco meno di quattro anni dopo aver lasciato
l’Inghilterra, il Beagle finalmente lasciò il Sud America per continuare
la circumnavigazione del globo. Da Lima fecero vela verso le Isole
Galapagos, che si trovano a 1.000 chilometri a ovest della costa
ecuadoregna. Erano isole molto strane, aride, vi vivevano uccelli e
rettili così docili e non avvezzi agli esseri umani che si lasciavano
prendere con facilità72. Qui Darwin analizzò le rocce e le formazioni
geologiche, raccolse fringuelli e tordi americani e misurò le dimensioni
delle testuggini giganti che vagavano per l’isola. Ma fu solo quando alla
fine tornò in Inghilterra e analizzò le sue collezioni che divenne chiaro
quanto le Isole Galapagos fossero divenute importanti per la teoria
evoluzionistica di Darwin. Per Darwin le isole rappresentarono un
punto di svolta, sebbene all’epoca non se ne fosse reso conto.
Dopo cinque settimane alle Galapagos, il Beagle riprese il viaggio
nel vuoto del Pacifico meridionale verso Tahiti e da lì verso la Nuova
Zelanda e l’Australia. Dalla costa occidentale dell’Australia
attraversarono l’Oceano Indiano e doppiarono l’estremità del
Sudafrica prima di riattraversare l’Oceano Atlantico verso il Sud
America. Gli ultimi mesi di viaggio furono gravosi per tutti. “Non c’era
mai stata una nave”, scrisse Darwin, “così piena di eroi che soffrivano
di nostalgia.”73 Ogni volta che, durante quelle settimane,
incontravano navi mercantili, avvertiva la “più pericolosa inclinazione
a scappare”74 e a saltare sulla nave, ammise. Erano stati lontani da
casa per quasi cinque anni – così a lungo che si ritrovavano a sognare
le terre verdi e piacevoli dell’Inghilterra.
Il 1° agosto 1836, dopo aver attraversato l’Oceano Indiano e poi
l’Atlantico, fecero una breve sosta a Bahia in Brasile, che era stata il
loro primo approdo in Sud America alla fine di febbraio del 1832,
prima di dirigersi a nord per l’ultima tappa del viaggio. Visitare Bahia
fu per Darwin un’esperienza deludente. Invece di ammirare i fiori
tropicali della foresta pluviale brasiliana, come aveva fatto durante la
prima visita, questa volta desiderava ardentemente vedere i maestosi
ippocastani di un parco inglese75. Aveva una voglia disperata di
tornare a casa. Ne aveva abbastanza di questa navigazione “a zig-zag”,
scrisse alla sorella. “Ho nausea del mare, lo aborro, insieme con tutte
le navi che ci viaggiano sopra”76.
Alla fine di settembre, oltrepassarono le Azzorre nell’Atlantico
settentrionale e si diressero verso l’Inghilterra. Darwin era nella sua
cabina, con lo stesso mal di mare che aveva provato il primo giorno.
Anche dopo tutti questi anni, non si era ancora abituato al ritmo del
mare e lamentava: “Odio ogni onda dell’oceano”77. Sdraiato
sull’amaca, riempiva il suo diario rigonfio con le ultime osservazioni,
riassumendo i pensieri sui cinque anni trascorsi. Le prime
impressioni, osservò in una delle ultime osservazioni, erano spesso
influenzate da idee preconcette. “Tutte le mie erano prese dalle vivide
descrizioni che ci sono nella Personal Narrative”78.
Il 2 ottobre 1836, quasi cinque anni dopo aver lasciato l’Inghilterra,
il Beagle entrava nel porto di Falmouth sulla costa meridionale della
Cornovaglia79. Al fine di completare la sua ricognizione, il capitano
FitzRoy doveva ancora effettuare una misurazione longitudinale a
Plymouth, esattamente nello stesso posto in cui aveva effettuato la
prima. Darwin, tuttavia, sbarcò a Falmouth. Non vedeva l’ora di
prendere la carrozza postale per Shrewsbury, per rivedere la sua
famiglia.
Mentre la carrozza procedeva sferragliando verso nord, si mise a
guardare fuori dal finestrino il mosaico ondulato di campi e cespugli
che gli si stendeva davanti. I campi sembravano molto più verdi del
solito, pensava, ma quando interrogò gli altri passeggeri per avere
conferma della sua osservazione, lo guardarono senza espressione80.
Dopo più di quarantott’ore in carrozza, Darwin arrivò a notte fonda a
Shrewsbury e si infilò silenziosamente in casa, perché non voleva
svegliare il padre e le sorelle. Quando, il mattino successivo, entrò
nella sala della prima colazione, essi non potevano credere ai loro
occhi. Era tornato e tutto intero – ma “molto magro d’aspetto”81, disse
la sorella. C’era tanto da dire, ma Darwin si fermò solo per qualche
giorno, perché doveva andare a Londra per scaricare i bauli dal
Beagle82.
Darwin tornava in un paese che era ancora governato dallo stesso
re, Guglielmo IV, ma durante la sua lunga assenza erano state
approvate due leggi parlamentari importanti. Nel giugno 1832, dopo
feroci battaglie politiche, era diventato legge il controverso Reform Bill
– un primo, grande passo verso la democrazia, in quanto per la prima
volta assegnava alle città che erano cresciute durante la rivoluzione
industriale dei seggi alla Camera dei Comuni ed estendeva il voto dai
ricchi proprietari terrieri all’alta borghesia. La famiglia di Darwin, che
appoggiava la legge, lo aveva tenuto informato meglio che poteva sui
dibattiti parlamentari attraverso le lettere che gli inviava durante il
viaggio sul Beagle. L’altra novità esaltante era l’approvazione dello
Slavery Abolition Act nell’agosto 1834, mentre Darwin era in Cile.
Sebbene il commercio degli schiavi fosse già stato proibito nel 1807, la
nuova legge proibiva ora lo schiavismo nella maggior parte
dell’Impero britannico. Le famiglie Darwin e Wedgwood, che avevano
fatto parte a lungo del movimento antischiavista, erano felicissime,
come lo era Humboldt, che aveva sempre combattuto energicamente
contro l’asservimento degli esseri umani fin dalla spedizione in
America Latina.
La cosa più importante per Darwin, tuttavia, erano le novità del
mondo scientifico. Aveva materiale sufficiente per pubblicare più libri
e l’idea di diventare un prete si era dissolta da tempo. I suoi bauli
erano pieni di esemplari – uccelli, animali, insetti, piante, rocce e ossa
fossili giganti – e i suoi taccuini zeppi di osservazioni e di idee. Darwin
desiderava ora farsi un nome nella comunità scientifica. In
preparazione, aveva già scritto al suo vecchio amico, il botanico John
Stevens Henslow, pochi mesi prima dall’isola remota di Sant’Elena
nell’Atlantico meridionale, chiedendogli di agevolare il suo ingresso
nella Geological Society83. Era impaziente di mostrare i suoi tesori e
gli scienziati inglesi, che avevano seguito le avventure del Beagle
tramite le lettere e i resoconti diffusi dai giornali, erano desiderosi di
incontrarlo. “Il viaggio del Beagle, scrisse in seguito, è stato di gran
lunga l’evento più importante della mia vita e ha determinato tutta la
mia carriera”84.
A Londra, Darwin correva da una parte all’altra per partecipare agli
incontri della Royal Society, della Geological Society e della Zoological
Society mentre lavorava ai suoi saggi. Fece esaminare le sue collezioni
dai migliori scienziati – anatomisti e ornitologi nonché quelli che
classificavano i fossili, i pesci, i rettili e i mammiferi*85. Un progetto
immediato era quello di rivedere il suo diario per la pubblicazione86.
Quando il Voyage of the Beagle fu pubblicato, nel 1839, rese Darwin
famoso87. Parlava delle piante, degli animali e della geologia, ma
anche del colore del cielo, del senso della luce, dell’immobilità dell’aria
e della foschia dell’atmosfera – con le vivide pennellate di un pittore.
Come Humboldt, Darwin registrava le sue risposte emotive di fronte
alla natura, mentre forniva dati scientifici e informazioni sulle
popolazioni indigene.
Quando le prime copie uscirono dalla tipografia, a metà maggio del
1839, Darwin ne spedì una a Humboldt a Berlino. Non sapendo dove
indirizzare la corrispondenza, Darwin chiese a un amico, “perché non
so se dovevo scrivere al re di Prussia e all’Imperatore di tutte le
Russie”88. Agitato per la spedizione del libro al suo idolo, Darwin fece
ricorso all’adulazione e nella lettera d’accompagnamento scrisse che
erano stati i resoconti di Humboldt sul Sud America a fargli venire il
desiderio di viaggiare. Aveva ricopiato lunghi passi della Personal
Narrative, disse Darwin a Humboldt, in modo che “potessero essere
sempre presenti nella mia mente”89.
Darwin non avrebbe dovuto preoccuparsi. Quando ricevette la
copia, Humboldt rispose con una lunga lettera, elogiandolo come un
“libro eccellente e degno di ammirazione”90. Se il suo lavoro aveva
ispirato un libro come il Voyage of the Beagle, questo era il suo più
grande successo. “Avete davanti a voi un futuro eccellente”, scrisse. Lo
scienziato più famoso dell’epoca diceva garbatamente al trentenne
Darwin che reggeva la fiaccola della scienza. Sebbene fosse più vecchio
di Darwin di quarant’anni, Humboldt aveva riconosciuto
immediatamente uno spirito affine.
La lettera di Humboldt non era fatta di complimenti superficiali –
commentava le osservazioni di Darwin riga per riga, citando il numero
di pagina, elencando gli esempi e discutendo gli argomenti. Humboldt
aveva letto ogni pagina del resoconto di Darwin. Ma non solo: scrisse
anche una lettera alla Geographical Society di Londra – che fu
pubblicata sulla rivista dell’istituto perché tutti la leggessero –
affermando che il libro di Darwin era “uno dei lavori più ragguardevoli
che, nel corso della mia lunga vita, ho avuto il piacere di vedere
pubblicati”91. Darwin era in estasi. “Poche cose nella mia vita mi
hanno appagato di più”, disse, “neanche un giovane autore può
ingoiare una tale dose di adulazione”92. Era onorato di ricevere un
tale apprezzamento pubblico93, disse a Humboldt. Quando questi, in
seguito, sollecitò una traduzione tedesca del Voyage of the Beagle,
Darwin scrisse a un amico: “devo vantarmi con te con imperdonabile
vanità”94.
Darwin era in uno stato di eccitazione frenetica. Lavorava su una
vasta gamma di temi, dalla barriera corallina e i vulcani ai terremoti.
“Non sopporto di interrompere il mio lavoro anche solo per mezza
giornata”95, ammetteva con il suo vecchio insegnante e amico, John
Stevens Henslow. Lavorava talmente tanto che aveva palpitazioni di
cuore, che sembravano verificarsi, diceva, tutte le volte che qualcosa
“mi agita”96. Una ragione era, probabilmente, la scoperta eccitante
riguardo agli esemplari di uccelli che aveva riportato dalle Isole
Galapagos. Analizzando i suoi reperti, Darwin cominciò a riflettere
sull’idea che le specie possano evolvere – la trasmutazione delle
specie, come fu poi chiamata97.
I diversi cardellini e tordi beffeggiatori che aveva raccolto sulle varie
isole non erano solo varianti degli uccelli noti sul continente, come
Darwin aveva pensato inizialmente98. Quando l’ornitologo britannico
John Gould – che identificò gli uccelli dopo il ritorno del Beagle –
dichiarò che erano invece specie diverse, Darwin comprese che ogni
isola aveva le sue specie tipiche. Dal momento che le isole stesse erano
di origine vulcanica relativamente recente, c’erano solo due
spiegazioni possibili: o Dio aveva creato queste specie specificamente
per le Galapagos o nel loro isolamento geografico erano tutte evolute
da un antenato comune che era migrato nelle isole.
I fringuelli delle Isole Galapagos di Darwin
Il Cosmos di Humboldt
L’università di Berlino che Wilhelm von Humboldt aveva fondato nel 1810 e dove Alexander
von Humboldt frequentava le lezioni
Nel corso degli anni in cui attese alla scrittura di Cosmos, Humboldt si
recò a Parigi diverse volte, ma nel 1842 accompagnò Federico
Guglielmo IV in Inghilterra per il battesimo del Principe di Galles (il
futuro re Edoardo VII) al Castello di Windsor. La visita fu frettolosa,
meno di due settimane59, lamentò Humboldt, con poco spazio per le
questioni scientifiche. Non riuscì nemmeno a ritagliarsi un po’ di
tempo per visitare l’osservatorio di Greenwich né il giardino botanico
di Kew, ma riuscì a incontrare Charles Darwin.
Humboldt aveva chiesto al geologo Roderick Murchison, una
vecchia conoscenza di Parigi, di organizzare una riunione60.
Murchison fu felice di fare questa cortesia, anche se era la stagione
della caccia e avrebbe “perso le migliori battute dell’anno”61. La data
fu fissata per il 26 gennaio. Nervoso ed eccitato per l’incontro con
Humboldt, Darwin uscì di casa la mattina presto, affrettandosi verso la
casa di Murchison a Belgrave Square, poche centinaia di metri al di là
di Buckingham Palace a Londra62. Aveva tante cose da chiedere e da
discutere. Stava lavorando alla sua rivoluzionaria teoria
dell’evoluzione e stava ancora riflettendo sulla distribuzione delle
piante e la migrazione delle specie.
In passato, Humboldt aveva utilizzato le sue idee sulla distribuzione
delle piante per discutere la connessione possibile fra l’Africa e il Sud
America, ma aveva parlato anche di barriere come i deserti o le catene
montuose, che bloccavano il movimento delle piante. Aveva scritto del
bamboo tropicale che era stato trovato “sepolto nelle terre coperte di
ghiaccio del nord”63, sostenendo che il pianeta era cambiato e lo
stesso aveva fatto la distribuzione delle piante.
Quando il trentaduenne Darwin giunse alla casa di Murchison, vide
un vecchio signore con una massa di capelli argentati, vestito come
durante la spedizione in Russia, con una marsina scura e un foulard
bianco. Questa era la sua “tenuta cosmopolita”64, come la chiamava
Humboldt, perché era adatta a tutte le occasioni sia che incontrasse re
che studenti. A settantadue anni, la camminata di Humboldt si era
fatta più lenta e prudente, ma sapeva ancora come affrontare il
pubblico. Quando arrivava a un ricevimento o a una riunione, di solito
attraversava la sala trascinandosi a stento, con la testa leggermente
piegata e facendo cenni a destra e sinistra mentre superava le
persone65. Durante tutta questa sequenza inaugurale, il flusso di
parole di Humboldt non si arrestava un istante. Dal momento in cui
entrava in una sala, tutti gli altri facevano silenzio. Qualsiasi
commento fatto da qualcun altro, induceva Humboldt a fare un’altra
lunga divagazione filosofica.
Darwin era affascinato. Più volte tentò di aprire bocca, ma alla fine
vi rinunciò. Humboldt fu abbastanza cordiale e gli fece “qualche
fantastico complimento”66, ma il vecchio parlava troppo. Humboldt si
effuse smodatamente per tre lunghe ore, ciarlando “al di là di ogni
ragione”67, disse Darwin. Non era così che aveva immaginato il primo
incontro. Dopo tutti quegli anni di adorazione nei confronti di
Humboldt e di ammirazione per i suoi libri, Darwin si sentiva un po’
abbacchiato. “Ma le mie aspettative, probabilmente, erano troppo
elevate”68, ammise in seguito.
Il monologo infinito di Humboldt rese impossibile a Darwin avere
con lui una conversazione significativa. Mentre la lezione di Humboldt
proseguiva, i suoi pensieri andavano e venivano. Poi, all’improvviso,
sentì Humboldt parlare di un fiume in Siberia in cui la vegetazione
sulle due sponde era “molto diversa”69, malgrado il suolo e il clima
fossero gli stessi. L’interesse di Darwin ne fu stimolato. Le piante su di
una sponda del fiume erano prevalentemente asiatiche e sull’altra
europee, raccontava Humboldt. Darwin aveva afferrato quanto
bastava per stuzzicare la sua curiosità, ma si era perso molti dei
dettagli del fuoco di fila di Humboldt – inoltre, non osava
interrompere. Ma a casa, Darwin scribacchiò subito tutto quello che
riusciva a ricordare nel suo taccuino. Non era però sicuro di aver
compreso correttamente il vecchio scienziato: “due flore sono avanzate
da lati opposti e si sono incontrate qui? – strano caso”70, scrisse
Darwin.
Darwin stava pensando e raccogliendo materiale per la sua “teoria
delle specie”. Vista dall’esterno, la sua vita funzionava come un
“meccanismo a orologeria”71, disse, costruita intorno a una routine
fatta di lavoro, pasti e tempo in famiglia. Aveva sposato la cugina
Emma Wedgwood nel 1839, poco più di due anni dopo il ritorno dal
viaggio sul Beagle e vivevano ora con i due bambini a Londra*. Nella
sua mente, tuttavia, Darwin era impegnato con i pensieri più
rivoluzionari. Spesso era malato; soffriva di mal di testa, di dolori
addominali, di stanchezza e di infiammazione al viso72, ma ancora
produceva saggi e libri, riflettendo al contempo sull’evoluzione.
La maggior parte degli argomenti che avrebbe presentato anni dopo
in Origin of Species aveva già assunto una forma ben definita, ma il
meticoloso Darwin non si affrettava a pubblicare nulla che non fosse
argomentato solidamente e sorretto da fatti. Proprio come aveva
stilato un elenco dei pro e dei contro per il matrimonio prima di
proporlo a Emma73, avrebbe messo insieme tutto ciò che concerneva
la sua teoria dell’evoluzione prima di presentarla al mondo.
Se quel giorno i due uomini si fossero davvero parlati, forse
Humboldt avrebbe discusso le sue idee di un mondo governato non
dall’equilibrio e dalla stabilità, ma dal cambiamento dinamico –
pensieri che avrebbe presto introdotto nel primo volume di Cosmos.
Una specie era una parte del tutto, legata sia al passato che al futuro,
avrebbe scritto Humboldt, più mutevole che “fissa”74. In Cosmos
avrebbe discusso anche i legami mancanti e i “passaggi intermedi”75
che si potevano rinvenire nei reperti fossili. Avrebbe scritto sul
“cambiamento ciclico”76, sulle transizioni e sul rinnovamento
costante. In breve, la natura di Humboldt era in continuo mutamento.
Tutte queste idee precorrevano la teoria evoluzionistica di Darwin.
Humboldt, come disse uno scienziato in seguito, era un “darwinista
pre-darwiniano”77*78.
Darwin, dunque, non parlò mai di queste idee con Humboldt, ma la
storia del fiume siberiano continuava a occupargli la mente. Nel
gennaio 1845, tre anni dopo la visita di Humboldt a Londra, un amico
stretto di Darwin, il botanico Joseph Dalton Hooker, si recò a Parigi.
Sapendo che anche Humboldt era a Parigi per uno dei suoi viaggi di
studio, Darwin sfruttò l’occasione per chiedere a Hooker di indagare
ulteriormente sull’enigma della flora sul fiume siberiano. Insistette
perché Hooker ricordasse in primo luogo a Humboldt che tutta la sua
vita era stata forgiata dalla Personal Narrative. Messa da parte
l’adulazione, Darwin istruì Hooker perché chiedesse a Humboldt “del
fiume nel nord-est Europa, con la flora completamente diversa sulle
due sponde”79.
Hooker prenotò nello stesso hotel di Humboldt, l’Hôtel de Londres
a Saint-Germain80. Come sempre, Humboldt era felice di rendersi
utile, ma fu di aiuto anche il fatto che Hooker gli fornisse informazioni
sull’Antartide. Poco più di un anno prima, Hooker era tornato da un
viaggio di quattro anni che faceva parte della cosiddetta “Crociata
magnetica”. Si era unito alla ricerca del Polo sud magnetico in cui era
impegnato il capitano James Clark Ross – una spedizione che era la
risposta britannica all’appello di Humboldt per una rete globale di
punti di osservazione.
Come Darwin, nel suo pensiero il ventisettenne Hooker aveva
trasformato Humboldt in un eroe di proporzioni quasi mitiche.
Quando a Parigi incontrò il settantacinquenne Humboldt, in un primo
momento Hooker rimase deluso. “Con grande stupore”, disse Hooker,
vide “un piccolo tedesco frastornato”81 invece dell’esploratore
prestante, alto più di un metro e ottanta, che si era immaginato. La
reazione di Hooker fu tipica. Molti altri supponevano che il
leggendario tedesco fosse più imponente e “simile a Giove”82.
Humboldt non era mai stato particolarmente alto e massiccio, ma
invecchiando si era incurvato ed era diventato ancora più esile. A
Hooker sembrava impossibile che quest’uomo piccolo e avvizzito fosse
mai salito sul Chimborazo, ma si riprese rapidamente e fu presto
affascinato dal vecchio scienziato.
Parlarono degli amici comuni in Gran Bretagna e di Darwin. Hooker
era divertito dall’abitudine di Humboldt di citare se stesso e i suoi
libri, ma era impressionato da quanto fosse ancora acuto. La sua
memoria e la sua “capacità di generalizzare”, disse, erano “davvero
straordinarie”83. Hooker avrebbe solo voluto che ci fosse anche
Darwin, perché insieme sarebbero stati in grado di rispondere alle
domande di Humboldt. Naturalmente, Humboldt parlava senza
interruzione, come sempre, riferì Hooker a Darwin, ma “la sua mente
era ancora vigorosa”84. La miglior prova fu la sua risposta alla
domanda di Darwin sul fiume della Siberia. Era l’Obi, riferì Hooker, il
fiume che Humboldt aveva attraversato per raggiungere Barnaul dopo
aver corso per la steppa russa infestata dall’antrace. Humboldt disse a
Hooker tutto quello che sapeva sulla distribuzione delle piante
siberiane, anche se erano trascorsi più di quindici anni dalla
spedizione in Russia. “Penso che non abbia ripreso fiato per 20
minuti”85, scrisse Hooker a Darwin.
Poi, con grande stupore di Hooker, Humboldt gli mostrò le bozze
del primo volume di Cosmos. Hooker quasi non credeva ai suoi occhi.
Come chiunque altro nel mondo scientifico, Hooker aveva “dato per
perso Cosmos”86, perché Humboldt ci aveva messo più di un decennio
a completare il primo volume. Sapendo che anche Darwin sarebbe
stato entusiasta della notizia, si affrettò a informare l’amico.
Due mesi dopo, alla fine di aprile del 1845, il primo volume fu
finalmente pubblicato in Germania87. L’attesa era valsa la pena.
Cosmos divenne immediatamente un bestseller, con più di 20.000
copie dell’edizione tedesca vendute in un paio di mesi. Nel giro di
poche settimane, l’editore di Humboldt fece una ristampa e negli anni
immediatamente successivi furono pubblicate traduzioni – “i figli non
tedeschi di Cosmos”88, come li chiamò Humboldt – in inglese,
olandese, italiano, francese, danese, polacco, svedese, spagnolo, russo
e ungherese.
Cosmos era diverso da ogni altro libro precedente sulla natura.
Humboldt conduceva i lettori in un viaggio dallo spazio esterno alla
terra e poi dalla superficie del pianeta nel suo nucleo più riposto.
Trattava delle comete, della via lattea e del sistema solare nonché del
magnetismo terrestre, dei vulcani e del limite delle nevi perenni.
Scriveva della migrazione della specie umana, delle piante e degli
animali e degli organismi microscopici che vivono nelle acque
stagnanti o sulla superficie delle rocce esposte alle intemperie. Mentre
altri sostenevano che la natura veniva spogliata del suo fascino mano a
mano che l’umanità ne penetrava i segreti più profondi, Humboldt
pensava esattamente il contrario. Come poteva essere, chiedeva
Humboldt, in un mondo in cui i raggi variopinti di un’aurora “si
uniscono in una fiamma tremolante sul mare”89, creando una veduta
così oltremondana, di cui “nessuna descrizione può uguagliare lo
splendore”? La conoscenza, diceva, non può mai “uccidere la forza
creativa dell’immaginazione”90 – perché genera emozione, meraviglia
e ammirazione. La parte più importante di Cosmos era l’introduzione,
lunga quasi un centinaio di pagine. Qui Humboldt esponeva per filo e
per segno la sua visione – di un mondo che pulsava di vita. Ogni cosa
era parte di questa “attività infinita delle forze animate”91, scriveva
Humboldt. La natura era un “tutto vivente”92, in cui gli organismi
erano uniti insieme in un “intricato tessuto reticolare”93.
Il resto del libro era composto di tre parti: la prima sui fenomeni
celesti; la seconda sulla terra, compreso il geomagnetismo, gli oceani, i
terremoti, la meteorologia e la geografia; e la terza sulla vita organica,
che comprendeva le piante, gli animali e gli esseri umani. Cosmos era
un’esplorazione del “vasto campo della natura”94, che riuniva una
gamma di argomenti di gran lunga più estesa di ogni altro libro
precedente. Ma era di più di una mera raccolta di fatti e di conoscenze,
come la famosa Encyclopédie di Diderot, ad esempio, perché
Humboldt era interessato più di ogni altra cosa alle connessioni. La
trattazione del clima da parte di Humboldt era solo un esempio che
rivelava quanto fosse diverso il suo approccio. Mentre altri scienziati si
concentravano solo sui dati meteorologici, come la temperatura e il
tempo, Humboldt era il primo a considerare il clima come un sistema
di correlazioni complesse fra l’atmosfera, gli oceani e i continenti. In
Cosmos scriveva della “interrelazione perpetua”95 fra l’aria, i venti, le
correnti oceaniche, l’altezza e la densità della copertura vegetale sul
terreno.
Il respiro era incomparabile con quello di qualsiasi altra
pubblicazione. E, sorprendentemente, Humboldt aveva scritto un libro
sull’universo che neppure una volta menzionava la parola “Dio”. Sì, la
natura di Humboldt era “animata da un respiro – da un polo all’altro
una vita scorre liberamente dentro le rocce, le piante, gli animali, e
anche nel petto rigonfio dell’uomo”96, ma quel respiro veniva dalla
terra stessa e non era infuso da un ente divino. Per quelli che lo
conoscevano non era una sorpresa, perché Humboldt non era mai
stato devoto, anzi l’opposto97. In tutta la sua vita, aveva messo in
evidenza le conseguenze nefaste del fanatismo religioso. Aveva
criticato i missionari in Sud America come la Chiesa in Prussia. Invece
che di Dio, Humboldt parlava di una “meravigliosa rete della vita
organica”98*99.
Tutti convenivano che Thoreau era uno che si trovava più a suo agio
con la natura e con le parole che con le persone. Faceva eccezione la
sua gioia per la compagnia dei bambini. Il figlio di Emerson, Edward,
ricordava con affetto come Thoreau avesse sempre tempo per loro,
raccontando storie su di un “duello” fra due tartarughe del fango nel
fiume32 o facendo scomparire e ricomparire magicamente le matite.
Quando i bambini del villaggio andavano a trovarlo nella sua capanna
di Walden Pond, Thoreau li portava a fare lunghe passeggiate nei
boschi. Quando faceva strani fischi, uno ad uno comparivano gli
animali – la marmotta faceva capolino dal sottobosco, gli scoiattoli
correvano verso di lui e gli uccelli si posano sulle sue spalle.
La natura, diceva Hawthorne, “sembra adottarlo come un figlio
speciale”33, perché gli animali e le piante comunicavano con lui. C’era
un legame che nessuno sapeva spiegare. I topi gli correvano sulle
braccia, le cornacchie si appollaiavano su di lui, i serpenti gli si
attorcigliavano intorno alle gambe e trovava sempre i primi fiori,
anche i più nascosti, che spuntavano a primavera. La natura gli
parlava, e Thoreau parlava alla natura. Quando piantava un campo di
fagioli, chiedeva, “Cosa imparerò dei fagioli o i fagioli impareranno di
me?”. La gioia della sua vita quotidiana era “come aver afferrato un po’
di polvere di stelle”34, diceva, o il “segmento di un arcobaleno”.
Nel periodo trascorso a Walden Pond, Thoreau osservò la natura da
vicino. La mattina faceva il bagno e poi si sedeva al sole. Faceva
passeggiate nei boschi o si accucciava tranquillo in una radura,
aspettando che gli animali sfilassero davanti a lui35. Osservava il
tempo e si definiva un “ispettore autonominato delle tempeste di neve
e degli acquazzoni”36. D’estate tirava fuori la barca e suonava il flauto
mentre andava alla deriva sull’acqua e d’inverno si stendeva sulla
superficie gelata del lago, premendo la faccia contro il ghiaccio per
studiare il fondo “come un’immagine dietro un vetro”37. Di notte
ascoltava i rami degli alberi che sfregavano contro il tetto di assi della
capanna e, al mattino, gli uccelli che gli facevano la serenata. Era una
“ninfa del bosco”, come disse un amico, “uno spirito silvano”38.
Per quanto gli piacesse la solitudine, Thoreau non viveva nella
capanna come un eremita. Spesso andava al villaggio per pranzare con
la famiglia nella casa dei genitori o con gli Emerson39. Dava lezioni al
liceo di Concord e riceveva visite a Walden Pond. Nell’agosto 1846, la
società antischiavista di Concord tenne la sua assemblea annuale sui
gradini davanti alla porta della capanna di Thoreau e lui partì per
un’escursione nel Maine. Inoltre, scriveva. Nei due anni trascorsi a
Walden Pond, Thoreau riempì due spessi taccuini40, uno con i suoi
esperimenti nel bosco (gli appunti che sarebbero diventati la prima
versione di Walden) e un altro contenente un abbozzo di A Week on
the Concord and Merrimack River, un libro sul viaggio in battello che
aveva fatto con il tanto compianto fratello qualche anno prima.
Quando lasciò la capanna e tornò a Concord, tentò più volte, senza
successo, di trovare un editore per A Week. Nessuno era interessato a
un manoscritto che in parte era una descrizione della natura e in parte
un’autobiografia. Alla fine, un editore accettò di pubblicarlo e
distribuirlo a spese di Thoreau. Fu un sonoro fallimento commerciale.
Nessuno voleva comprare il libro e molte delle recensioni erano feroci,
con una, per esempio, che accusava Thoreau di aver copiato
malamente Emerson. Solo in pochi espressero ammirazione,
definendolo come un libro “prettamente americano”41.
L’impresa lasciò Thoreau con diverse centinaia di dollari di debito e
con molte copie invendute di A Week. Possedeva ora una biblioteca di
900 libri, scherzava, “dei quali più di settecento li ho scritti io
stesso”42. Il fallimento della pubblicazione provocò anche frizioni fra
Thoreau ed Emerson. Thoreau si sentiva tradito dal suo vecchio
mentore, che aveva elogiato A Week per quanto non gli piacesse.
“Finché il mio amico era mio amico, mi lusingava e da lui non ho mai
ascoltato la verità, ma quando è diventato mio nemico me l’ha lanciata
addosso con una freccia avvelenata”43, Thoreau scrisse nel suo diario.
Non giovò alla loro amicizia, probabilmente, anche il fatto che
Thoreau si era preso una cotta per la moglie di Emerson, Lydian44.
Oggi Thoreau è uno degli scrittori americani più letti e amati –
finché era vivo, tuttavia, gli amici e la famiglia si preoccupavano per la
sua mancanza di ambizione. Emerson lo definiva “l’unico uomo che
faceva la bella vita”45 a Concord e che era “fuori luogo qui in città”46,
mentre la zia di Thoreau riteneva che il nipote avrebbe dovuto fare
qualcosa di meglio che “andare di tanto in tanto a passeggiare”47.
Thoreau non si curò mai granché di ciò che gli altri pensavano.
Lottava, invece, con il manoscritto di Walden, incontrando difficoltà a
finirlo. “Di che cosa parlano questi pini e questi uccelli? Che fa questo
piccolo lago?”, scrisse nel suo diario, concludendo “devo saperne un
po’ di più.”48
Thoreau stava ancora tentando di dare un senso alla natura.
Continuava a camminare per le campagne, dritto come un pino, come
dicevano gli amici, e a grandi passi. Cominciò anche a lavorare come
agrimensore, ricavandone una piccola entrata, potendo passare ancora
più tempo all’aria aperta. Contando i passi, diceva Emerson, Thoreau
riusciva a misurare le distanze meglio di qualunque altro
agrimensore49 con i suoi strumenti, la pertica e la chain*. Raccoglieva
esemplari per i botanici e gli zoologi dell’università di Harvard.
Misurava la profondità dei corsi d’acqua e dei laghi, prendeva le
temperature e pressava le piante. A primavera, Thoreau registrava
l’arrivo degli uccelli e d’inverno contava le bolle ghiacciate che
venivano imprigionate nella crosta gelata del lago50. Invece di
“rivolgersi a qualche studioso”51, spesso percorreva a piedi parecchi
chilometri nel bosco per i suoi “appuntamenti” con le piante. Thoreau
cercava a tentoni di capire ciò che questi pini e questi uccelli
veramente significavano.
Thoreau, come Emerson, era alla ricerca dell’unità della natura, ma
alla fine avrebbero scelto strade diverse. Thoreau avrebbe seguito
Humboldt nella sua convinzione che l’“insieme” potesse essere
compreso solo intendendo le connessioni, le correlazioni e i dettagli.
Emerson, all’opposto, riteneva che non si potesse scoprire questa unità
soltanto attraverso il pensiero razionale, ma anche con l’intuizione o
attraverso una qualche rivelazione da parte di Dio. Come i romantici in
Inghilterra, quale Samuel Taylor Coleridge, e gli idealisti tedeschi,
quale Friedrich Schelling, Emerson e i suoi compagni trascendentalisti
in America reagivano contro i metodi scientifici che erano associati
con il ragionamento deduttivo e la ricerca empirica52. Analizzare la
natura in tal modo, diceva Emerson, tendeva a “offuscare la vista”53.
L’uomo, invece, doveva trovare nella natura la verità spirituale. Gli
scienziati erano solo materialisti, il cui “spirito è materia ridotta a
un’estrema rarefazione”54, scrisse.
I trascendentalisti erano stati ispirati dal filosofo tedesco Immanuel
Kant e dalla sua spiegazione della comprensione umana del mondo.
Kant aveva parlato di una categoria di idee o conoscenza, spiegava
Emerson, “che non provengono dall’esperienza”55. Con ciò Kant si era
opposto agli empiristi, come il filosofo britannico John Locke, che alla
fine del diciassettesimo secolo aveva detto che ogni conoscenza era
basata sull’esperienza dei sensi. Emerson e i suoi compagni
trascendentalisti sostenevano ora che l’uomo ha la capacità “di
conoscere la verità tramite l’intuizione”56. Per loro i fatti e le
apparenze della natura erano come una tenda che andava tirata per
scoprire la legge divina dietro di essa. Thoreau, invece, trovava sempre
più difficile inserire in questa visione del mondo il suo interesse e il
suo affascinamento per i fatti, perché per lui ogni cosa nella natura
aveva un significato di per sé. Era un trascendentalista che cercava
quelle meravigliose idee di unità nei petali di un fiore o negli anelli di
un tronco d’albero caduto.
Thoreau aveva cominciato a osservare la natura da scienziato.
Misurava e registrava e il suo interesse per questo genere di dettagli
divenne sempre più pressante. Poi, nell’autunno 1849, due anni dopo
che aveva lasciato la capanna e nel momento in cui divenne ovvio, in
tutta la sua dimensione, il fallimento di A Week, Thoreau prese una
decisione che gli avrebbe cambiato la vita e dato origine a Walden
come oggi lo conosciamo. Riorientò completamente la sua vita con un
nuovo tran-tran quotidiano, che prevedeva ogni mattina o ogni sera
uno studio serio, con l’interruzione di una lunga passeggiata nel
pomeriggio57. Fu in quel momento che fece il primo passo che lo
avrebbe portato a diventare il più importante scrittore naturalista
americano, smettendo di essere solo un poeta affascinato dalla natura.
Forse, fu l’esperienza spiacevole della pubblicazione di A Week o la
rottura con Emerson. O, forse, Thoreau aveva trovato la fiducia in sé
per concentrarsi su ciò che adorava. Qualunque fosse il motivo, tutto
cambiò.
Il nuovo regime segnò l’inizio dei suoi studi scientifici, che
comprendevano la scrittura quotidiana di un denso diario. Ogni
giorno, Thoreau avrebbe annotato ciò che aveva visto nelle sue
passeggiate. Queste annotazioni, che prima erano state il frammento
occasionale di un’osservazione, ma erano state principalmente abbozzi
di brani per i suoi saggi e libri, divennero ora regolari e cronologiche,
documentando le stagioni a Concord in tutta la loro complessità.
Invece di spezzettare i suoi diari per incollarne i frammenti nei
manoscritti letterari, come aveva fatto prima, Thoreau lasciò intatti i
suoi nuovi tomi. Quelle che erano state raccolte casuali divennero ora
le “Field Notes” (Annotazioni sul campo)58.
Armato del suo cappello come una “scatola di botanica”59, in cui
manteneva al fresco gli esemplari di piante durante le lunghe
passeggiate, di un pesante libro di musica come pressa per le piante, di
un cannocchiale e di un bastone da passeggio come metro per
misurare, Thoreau esplorava ora la natura in tutti i suoi dettagli.
Durante le sue passeggiate, scriveva appunti su pezzettini di carta, che
poi la sera ampliava nelle più lunghe annotazioni dei diari. Le sue
osservazioni botaniche divennero così meticolose che gli scienziati
ancora le utilizzano per analizzare l’impatto dei cambiamenti climatici
– confrontando le date della prima fioritura dei fiori selvatici o le date
di “perdita delle foglie” degli alberi contenute nei diari di Thoreau con
quelle di oggi60.
“Ometto le cose eccezionali – gli uragani e i terremoti – e descrivo
quelle comuni”, scrisse Thoreau nel diario: “questo è il vero tema della
poesia.”61 Mentre girovagava, misurava e osservava, Thoreau si
allontanava dalle grandiose idee spirituali di Emerson sulla natura e
osservava invece la dettagliata varietà che gli si schiudeva davanti nelle
sue passeggiate. Questo fu anche il primo momento in cui Thoreau si
immerse per la prima volta nelle opere di Humboldt – nello stesso
periodo in cui si sottraeva all’influenza di Emerson. “Mi sento maturo
per qualcosa”, scrisse Thoreau nel diario. “È tempo di semina per me –
sono stato a riposo fin troppo a lungo.”62
Uomo e natura
Man and Nature era la sintesi di ciò che Marsh aveva letto e osservato
nei decenni precedenti. “Ruberò, e anche parecchio”, aveva scherzato
con l’amico Baird dando inizio al lavoro, “ma un po’ di cose le so
anch’io”1895. Per raccogliere informazioni ed esempi, Marsh aveva
razziato biblioteche di tantissimi paesi in cerca di manoscritti e
pubblicazioni. Aveva letto i testi classici per trovare le prime
descrizioni di paesaggi e colture nell’antica Grecia e a Roma. A tutto
questo aveva aggiunto le proprie osservazioni derivate dai viaggi in
Turchia, Egitto, Medio Oriente, Italia e nel resto d’Europa e aveva
incluso rapporti di forestali tedeschi, citazioni da giornali dell’epoca,
dati raccolti da ingegneri, estratti da saggi francesi e persino aneddoti
di quando era bambino – oltre, naturalmente, alle informazioni tratte
dai libri di Humboldt.
A Marsh Humboldt aveva insegnato a mettere in relazione uomo e
ambiente1896. E in Man and Nature Marsh snocciolava uno dopo
l’altro esempi di come gli uomini avessero interferito con i ritmi della
natura: quando una modista parigina inventò i cappelli di seta, per
esempio, quelli di pelliccia passarono di moda – e ciò ebbe un forte
impatto sull’ormai decimata popolazione di castori in Canada, che
cominciò a recuperare. In maniera analoga i coltivatori, che avevano
fatto stragi di uccelli per proteggere i propri raccolti, dovettero poi
combattere contro sciami di insetti che in precedenza erano stati preda
degli uccelli. Durante le guerre napoleoniche in molte regioni
d’Europa riapparvero i lupi perché i loro abituali cacciatori erano
occupati sul campo di battaglia. Persino i minuscoli organismi che si
trovano nell’acqua, diceva Marsh, sono essenziali nell’equilibrio della
natura: una pulizia troppo scrupolosa dell’acquedotto di Boston li
aveva eliminati e l’acqua era diventata torbida1897. “Legami invisibili
collegano in un unico insieme la natura”1898, scriveva.
Da troppo tempo l’uomo si era dimenticato che la terra non gli era
stata donata perché lui la “consumasse”1899. Il prodotto della terra
era stato dissipato: gli animali selvaggi uccisi per il loro pellame, gli
struzzi per le penne, gli elefanti per le zanne e le balene per l’olio.
L’uomo era responsabile dell’estinzione di animali e piante1900,
scriveva in Man and Nature, mentre l’uso sfrenato di acqua non era
che un altro esempio di scellerata avidità*1901. L’irrigazione, diceva,
impoverisce i grandi fiumi e fa diventare i terreni salini e
improduttivi1902.
La visione del futuro di Marsh era fosca. Era convinto che, se niente
cambiava, il pianeta sarebbe stato ridotto in una condizione tale da
poter solo risultare in una “superficie distrutta, eccessi climatici… e
forse addirittura l’estinzione della specie umana”1903. Vedeva il
paesaggio americano attraverso la lente d’ingrandimento di tutto ciò
che aveva osservato durante i suoi viaggi – dalle colline spogliate dai
troppi pascoli lungo il Bosforo nei pressi di Costantinopoli ai pendii
brulli dei monti in Grecia. Grandi fiumi, boschi indomiti, fertili terreni
prativi: tutto questo era scomparso1904. In Europa le coltivazioni
senza limiti avevano reso la terra “desolata come la superficie
lunare”1905. L’Impero romano era fallito perché i romani avevano
distrutto le loro foreste e dunque il suolo stesso che li nutriva1906.
Il Vecchio Mondo doveva essere per il Nuovo Mondo il “racconto
morale” che insegna a non fare gli stessi errori. Quando lo Homestead
Act* del 1862 assegnò a tutti coloro che si spostavano verso l’Ovest 160
acri (più o meno 60 ettari) di terra a testa a un prezzo equivalente a
poco più della tassa di registrazione, milioni di ettari di suolo pubblico
passarono in mani private per essere “migliorate” con l’accetta e
l’aratro. “Siamo saggi”, sollecitava Marsh, e impariamo dagli errori dei
“nostri fratelli maggiori!”1907 Le conseguenze dell’azione dell’uomo
non si potevano prevedere. “Quando lanciamo un sassolino
nell’oceano della vita organica non possiamo sapere quanto si
allargherà il cerchio della perturbazione che generiamo negli assetti
armonici della natura”1908, scriveva. Sapeva però che da quando
“l’homo sapiens d’Europa”1909 aveva messo piede in America, anche i
danni erano migrati da est a ovest.
Altri erano arrivati alle stesse conclusioni. Negli Stati Uniti, il primo a
far proprie le idee di Humboldt era stato James Madison. Aveva
conosciuto Humboldt nel 1804 a Washington, e poi aveva letto i suoi
libri1910. Madison aveva applicato agli Stati Uniti le osservazioni
riportate da Humboldt sul Sud America. In un discorso, che ebbe
grande risonanza, tenuto alla Agricultural Society a Albemarle,
Virginia, nel maggio 1818, un anno dopo aver lasciato la presidenza,
Madison aveva ripetuto gli ammonimenti di Humboldt riguardo alla
deforestazione ed evidenziato le conseguenze catastrofiche che la
coltivazione su larga scala del tabacco aveva sul suolo un tempo fertile
della Virginia1911. Quel discorso conteneva il nucleo
dell’ambientalismo americano. La natura non esisteva per esser messa
al servizio dell’uomo, disse Madison sollecitando i suoi concittadini a
difendere l’ambiente; ma le sue ammonizioni furono ampiamente
ignorate.
Fu Simón Bolívar a tradurre per primo in legge le idee di Humboldt
con un decreto lungimirante, emesso nel 1825, che impegnava il
governo della Bolivia a piantare un milione di alberi1912. Nel bel
mezzo di battaglie e in piena guerra, Bolívar si era reso conto delle
conseguenze devastanti dell’inaridimento del suolo per il futuro della
nazione. La nuova legge era finalizzata a proteggere i corsi d’acqua e a
creare foreste nelle diverse aree della nuova repubblica. Quattro anni
dopo aveva disposto “Misure per la protezione e il buon uso delle
foreste nazionali”1913 indirizzate alla Colombia, con un’attenzione
particolare al controllo del raccolto della chinina dalla corteccia
dell’albero selvatico della china1914 – un metodo molto dannoso, che
spogliava gli alberi della loro corteccia protettiva e che già aveva
richiamato l’attenzione di Humboldt durante la sua spedizione*1915.
In Nord America, toccò a Henry David Thoreau invocare la
salvaguardia delle foreste, nel 1851. “La salvaguardia del mondo
dipende dalla salvaguardia della natura allo stato selvaggio”1916,
aveva detto, per concludere più tardi, nell’ottobre 1859 – pochi mesi
dopo la morte di Humboldt – che ogni città dovrebbe avere una
foresta di qualche centinaio di ettari “inalienabile per sempre”1917.
Mentre Madison e Bolívar avevano concepito la tutela degli alberi
come necessità economica, Thoreau sosteneva che le “riserve
nazionali”1918 andavano risparmiate per lo svago. Ora, con Man and
Nature, Marsh metteva insieme tutto questo, dedicando un intero
libro all’argomento e presentando la prova che il genere umano stava
distruggendo la terra.
“L’apostolo è stato Humboldt”1919, aveva dichiarato Marsh quando
cominciava a lavorare a Man and Nature e in tutto il libro avrebbe
fatto riferimento a Humboldt, ampliandone tuttavia le idee1920.
Mentre gli ammonimenti di Humboldt erano dispersi tra le varie opere
– piccole perle di intuizioni qua e là, ma che spesso si smarrivano nel
contesto più ampio – ora Marsh intesseva tutto in un’unica, potente
argomentazione. Pagina dopo pagina, parlava dei danni della
deforestazione1921 spiegando che le foreste proteggono il suolo e le
sorgenti d’acqua naturali: una volta distrutte, il suolo rimane nudo
contro le intemperie – venti, sole, pioggia – e la terra smette di essere
una spugna per diventare un ammasso di polvere; a mano a mano che
il terreno viene dilavato perde ogni sostanza e “pertanto la terra
diventa inadatta alla vita dell’uomo”1922, concludeva. Tutto ciò
rendeva la lettura inquietante. I danni provocati da due o tre sole
generazioni sarebbero stati altrettanto disastrosi dell’eruzione di un
vulcano o di un terremoto. “Stiamo demolendo il pavimento, il
rivestimento e i telai di porte e finestre della nostra casa”1923,
ammoniva profeticamente.
Marsh diceva agli americani che dovevano agire in fretta, prima che
fosse troppo tardi. Vanno prese “misure immediate”, perché “in ballo
ci sono i timori più estremi”1924. Bisognava risparmiare le foreste e
piantarne di nuove. Alcune andavano preservate come luoghi di svago,
d’ispirazione e habitat per la flora e la fauna – proprietà inalienabile di
ogni cittadino1925 – mentre altre aree andavano rimboschite e gestite
al fine di un uso sostenibile del legname. “Abbiamo già abbattuto
troppe foreste”1926, scriveva Marsh.
Marsh non parlava di una piccola zona nel sud della Francia dove la
macchia si era seccata, o di un’arida regione in Egitto o di un lago nel
Vermont depauperato delle sue risorse ittiche. Parlava della terra
intera. La forza di Man and Nature discendeva dalla sua dimensione
globale, perché Marsh valutava e concepiva il mondo come un tutto
unico. Anziché considerare eventi locali, elevava le preoccupazioni
ambientali a un nuovo, terrificante livello. L’intero pianeta era in
pericolo. “La terra sta rapidamente diventando una casa non più
adatta per i suoi più nobili abitanti”1927, scriveva.
Man and nature fu la prima opera nel campo della storia naturale a
influenzare in misura sostanziale la politica americana. Fu il “pugno
più duro tirato in faccia”1928 all’ottimismo dell’America, come
avrebbe detto in seguito lo scrittore e ambientalista americano Wallace
Stegner: mentre il paese correva verso l’industrializzazione –
sfruttando senza pietà le sue risorse naturali e radendo al suolo le
foreste – lui pretendeva che i suoi compatrioti si fermassero a
riflettere! Con sua grande delusione, inizialmente le vendite di Man
and Nature furono basse. Poi, nel giro di qualche mese, andarono
meglio: ne furono vendute più di 1.000 copie e l’editore cominciò a
ristamparlo*1929.
Per qualche decennio l’impatto di Man and Nature non si fece
sentire appieno, ma il libro influenzò un gran numero di persone negli
Stati Uniti, che sarebbero diventate figure chiave nei movimenti per la
salvaguardia e la conservazione dell’ambiente. Lo avrebbero letto John
Muir, il “padre dei parchi nazionali”, e Gifford Pinchot, il primo a
dirigere il Forestry Service degli Stati Uniti, che lo avrebbe definito
“epocale”1930. Le osservazioni di Marsh sulla deforestazione
contenute in Man and Nature portarono all’approvazione del Timber
Culture Act del 18731931, che incoraggiava i coloni delle Grandi
Pianure a piantare alberi e preparò il terreno per la tutela delle foreste
d’America, cui provvide il Forest Reserves Act del 1891 – legge che nel
testo attingeva abbondantemente alle pagine del libro di Marsh e alle
precedenti idee di Humboldt.
Man and Nature ebbe anche una risonanza internazionale.
Intensamente discusso in Australia, ispirò i forestali in Francia e i
legislatori in Nuova Zelanda. Incoraggiò gli ambientalisti in Sudafrica
e in Giappone a lottare per la tutela degli alberi. Leggi italiane in
materia di forestazione avrebbero citato Marsh, mentre in India gli
ambientalisti arrivarono a portare il libro “lungo la pendice
dell’Himalaya settentrionale, in Kashmir e in Tibet”1932. Man and
Nature forgiò una nuova generazione di attivisti e nella prima metà
del ventesimo secolo sarebbe stato celebrato come “l’origine del
movimento per la tutela dell’ambiente”1933.
Riteneva Marsh che le lezioni più importanti fossero nascoste nelle
cicatrici che il genere umano aveva lasciato sul paesaggio nel corso di
migliaia di anni. “Il futuro è più incerto del passato”1934, diceva.
Guardando indietro, Marsh guardava avanti.
1817. Marsh a Caroline Estcourt, 3 giugno 1859, Marsh 1888, vol. 1, p. 410.
1818. Journal of the American Geographical and Statistical Society, vol. 1, n. 8, ottobre 1859,
pp. 225-46; per Marsh membro dell’American Geographical and Statistical Society, vedi vol. 1,
n. 1, gennaio 1859, p. iii.
1819. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 26 agosto 1859, UVM.
1820. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 25 aprile 1859; Marsh a Francis Lieber, maggio 1860,
Marsh 1888, vol. 1, pp. 405-6, 417; Lowenthal 2003, pp. 154 sgg.
1821. Lowenthal 2003, p. 199.
1822. Marsh a Caroline Marsh, 26 luglio 1859, ivi.
1823. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 26 agosto 1859, UVM.
1824. Lowenthal 2003, p. 64; Marsh possedeva l’edizione tedesca del 1849 di Quadri della
natura ampliata, diversi volumi di Cosmos (anch’essi in tedesco) nonché una biografia e altri
libri su di Humboldt. Aveva letto anche la Personal Narrative, vedi Marsh 1892, pp. 333-4;
Marsh 1864, pp. 91, 176.
1825. Marsh, “Speech of Mr. Marsh, of Vermont, on the Bill for Establishing the Smithsonian
Institution, Delivered in the House of Representatives”, 22 aprile 1846, Marsh 1846.
1826. Ivi; per i tedeschi e i libri tedeschi: Marsh 1888, vol. 1, p. 90-1, 100, 103; Lowenthal
2003, p. 90.
1827. Caroline Marsh a Caroline Estcourt, 15 febbraio 1850, Marsh 1888, vol. 1, p. 161.
1828. Lowenthal 2003, p. 49.
1829. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 10 ottobre 1848, Marsh 1888, vol. 1, p. 128.
1830. Marsh a Caroline Escourt, 10 giugno 1848; Marsh a Spencer Fullerton Baird, 15
settembre 1848; Marsh a Caroline Marsh, 4 ottobre 1858, Marsh 1888, vol. 1, pp. 123, 127,
400.
1831. Marsh, “The Study of Nature”, Christian Examiner, 1860, Marsh 2001, p. 83.
1832.. George W. Wurts a Caroline Marsh, 1 ottobre 1884; per la sua infanzia e le abitudini di
lettura, Lowenthal 2003, pp. 11 sgg., 18-19, 374; Marsh 1888, vol. 1, pp. 38, 103.
1833. Marsh a Charles Eliot Norton, 24 maggio 1871, Lowenthal 2003, p. 19.
1834. Marsh a Asa Gray, 9 maggio 1849, UVM.
1835. Marsh 1888, vol. 1, p. 40; Lowenthal 2003, p. 35.
1836. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 25 aprile 1859, Marsh 1888, vol. 1, p. 406.
1837. Lowenthal 2003, pp. 35, 41-2.
1838. Caroline Marsh su Marsh, Marsh 1888, vol. 1, p. 64.
1839. James Melville Gilliss a Marsh, 17 settembre 1857, Lowenthal 2003, p. 167.
1840. Marsh 1888, vol. 1, pp. 133 sgg.; Lowenthal 2003, p. 105.
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1842. Lowenthal 2003, pp. 106-7, 117; Marsh 1888, vol. 1, p. 136.
1843. Marsh a James B. Estcourt, 22 ottobre 1849, Lowenthal 2003, p. 107.
1844. Lowenthal 2003, pp. 46, 377ff; Caroline Marsh, 1 e 12 aprile 1862, Caroline Marsh
Journal, NYPL, pp. 151, 153.
1845. Lowenthal 2003, pp. 381 sgg.
1846. Cornelia Undewood a Levi Underwood, 5 dicembre 1873, Lowenthal 2003, p. 378.
1847. Marsh a Hiram Powers, 31 marzo 1863, ivi.
1848. Lowenthal 2003, pp. 47, 92, 378.
1849. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 6 luglio 1859, UVM.
1850. Marsh a Caroline Estcourt, 19 aprile 1851, Marsh 1888, vol. 1, pp. 219.
1851. Marsh a Lyndon Marsh, 10 febbraio 1851; Marsh a Frederick Wislizenus, 10 febbraio
1851; Marsh a H.A. Holmes, 25 febbraio 1851; Marsh a Caroline Estcourt, 28 marzo 1851,
Marsh 1888, vol. 1, pp. 205, 208, 211 sgg.
1852. Marsh a Caroline Estcourt, 28 marzo 1851, ivi p. 213.
1853. Marsh a Caroline Estcourt, 28 marzo 1851, ivi, p. 215.
1854. Ibid.
1855. Marsh a Frederick Wislizenus e Lucy Crane Frederick Wislizenus, 10 febbraio 1851, ivi,
p. 206.
1856. AH Aspects 1849, vol. 2, p. 11; AH Views 2014, p. 158; AH Ansichten 1849, vol. 2, p. 13.
1857. AH Plant Geography 2009, p. 73.
1858. AH, 10 marzo 1801, AH Río Magdalena 2003, vol. 1, p. 44; per AH sulla deforestazione a
Cuba e in Mexico, vedi AH Cuba 2011, p. 115; AH New Spain 1811, vol. 3, pp. 251-2.
1859. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 3 maggio 1851, Marsh 1888, vol. 1, p. 223.
1860. Marsh a American Consul-General in Cairo, 2 giugno 1851, ivi, p. 226.
1861. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 23 agosto 1850, ivi, p. 172.
1862. Spencer Fullerton Baird a Marsh, 9 febbraio 1851; vedi anche 9 agosto 1849 e 10 marzo
1851, UVM.
1863. Marsh 1856, p. 160; Lowenthal 2003, pp. 130-31.
1864. Marsh a Caroline e James B. Estcourt, 18 giugno 1851; per i viaggi nel 1851, vedi Marsh a
Susan Perkins Marsh, 16 giugno 1851, Marsh 1888, vol. 1, pp. 227-32, 238; Lowenthal 2003,
pp. 127-9.
1865. Marsh a Caroline Estcourt, 28 marzo 1851, Marsh 1888, vol. 1, p. 215; vedi anche Marsh,
“The Study of Nature”, Christian Examiner, 1860, Marsh 2001, p. 86.
1866. Marsh 1857, p. 11.
1867. Marsh 1864, p. 36.
1868. Ivi, p. 234.
1869. Johnson 1999, pp. 361, 531.
1870. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 10, 16 e 21 maggio 1860, Marsh 1888, vol. 1, pp. 420-
22.
1871. Chicago Daily Tribune, 26 gennaio 1858, 7 febbraio 1866.
1872. Marsh 1857, pp. 12-15; Marsh 1864, pp. 107-8.
1873. Marsh 1864, pp. 106, 251-7.
1874. Ivi, p. 278.
1875. Ivi, pp. 277-8.
1876. Marsh a Francis Lieber, 12 aprile 1860; per le finanze di Marsh, Marsh 1888, vol. 1, p.
362; Lowenthal 2003, pp. 155 sgg., 199.
1877. Marsh a Francis Lieber, 3 giugno 1859, UVM.
1878. Marsh a Charles D. Drake, 1 aprile 1861, Marsh 1888, vol. 1, p. 429.
1879. Lowenthal 2003, p. 219.
1880. Benedict 1888, vol. 1, pp. 20-21.
1881. Lowenthal 2003, p. 219; arrivarono a Torino il 7 giugno 1861, vedi Caroline Marsh, 7
giugno 1861, Caroline Marsh Journal, NYPL, p. 1.
1882. Lowenthal 2003, pp. 238 sgg.
1883. Caroline Marsh, inverno 1861, Caroline Marsh Journal, NYPL, p. 71.
1884. Marsh a Henry e Maria Buell Hickok, 14 gennaio 1862; Marsh a William H. Seward, 12
maggio 1864, Lowenthal 2003, p. 252; vedi anche Caroline Marsh, 17 settembre 1861, 5
gennaio 1862, 26 dicembre 1862, 17 gennaio 1863, Caroline Marsh Journal, NYPL, pp. 43, 94,
99, 107.
1885. Caroline Marsh, 15 febbraio, 25 marzo 1862, Caroline Marsh Journal, NYPL, pp. 128,
148.
1886. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 21 novembre 1864, UVM.
1887. Ivi.
1888. Caroline Marsh, 10 marzo 1862; vedi anche 11 marzo, 24 marzo e 1 aprile 1862, Caroline
Marsh Journal, NYPL, pp. 143-4, 148, 151.
1889. Caroline Marsh, 7 aprile 1862, ivi, p. 157.
1890. Caroline Marsh, 14 aprile 1862 e 2 aprile 1863, ivi, pp. 154, 217; Lowenthal 2003, pp.
270-73; vedi anche Marsh a Charles Eliot Norton, 17 ottobre 1863, UVM.
1891. Caroline Marsh, 1 aprile 1862, Caroline Marsh Journal, NYPL, p. 151.
1892. Caroline su Marsh, Lowenthal 2003, p. 272.
1893. Marsh a Charles Eliot Norton, 17 ottobre 1863, UVM.
1894. Charles Scribner a Marsh, 7 luglio 1863; Marsh a Charles Scribner 10 settembre 1863,
Marsh 1864, p. xxviii.
1895. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 21 maggio 1860, Marsh 1888, vol. 1, p. 422.
1896. Marsh 1864, pp. 13-14, 68, 75, 91, 128, 145, 175 sgg.
1897. L’interferenza dell’uomo con la natura: per i cappelli e i castori, vedi Marsh 1864, pp. 76-
7; uccelli e insetti, pp. 34, 39, 79 sgg.; lupi, p. 76; l’acquedotto di Boston, p. 92.
1898. Ivi, p. 96.
1899. Ivi, p. 36.
1900. Ivi, pp. 64 sgg., 77 sgg., 96 sgg.
1901. (nota a piè di pagina) AH, 4 marzo 1800, AH Venezuela 2000, p. 217; AH Personal
Narrative 1814-29, vol. 4, p. 154.
1902. Marsh 1864, pp. 322, 324.
1903. Marsh 1864, ivi, p. 43.
1904. Marsh a Spencer Fullerton Baird, 23 agosto 1850, luglio 1852, Marsh 1888, vol. 1, p. 174,
280; Marsh 1864, p. 9, 19.
1905. Marsh 1864, p. 42.
1906. Marsh, “Oration before the New Hampshire State Agricultural Society”, 10 ottobre 1856,
Marsh 2001, pp. 36-7; Lowenthal 2003, p. x; Marsh 1864, p. xxiv.
1907. Marsh 1864, p. 198.
1908. Ivi, pp. 91-2; vedi anche p. 110.
1909. Ivi, p. 46.
1910. AH inviò i suoi libri a Madison; vedi David Warden a James Madison, 2 dicembre 1811,
Madison Papers PS, vol. 4, p. 48; Madison a AH, 30 novembre 1830, Terra 1959, p. 799.
1911. Madison, Discorso alla Agricultural Society di Albemarle, 12 maggio 1818, Madison
Papers RS, vol. 1, pp. 260-83; Wulf 2011, pp. 204 sgg.
1912. Bolívar, Decreto, 19 dicembre 1825, Bolívar 2009, p. 258.
1913. Bolívar, Misure per la protezione e il buon uso delle foreste nazionali, 31 luglio 1829,
Bolívar 2003, pp. 199-200.
1914. AH Aspects 1849, vol. 2, p. 268; AH Views 2014, p. 268; AH Ansichten 1849, vol. 2, p.
319; AH, 23-28 luglio 1802, AH Río Magdalena 2003, vol. 2, pp. 126-30.
1915. (nota a piè di pagina) Bolívar, Decreto, 31 luglio 1829, Bolívar 2009, p. 351; O’Leary
1879-8, vol. 2, p. 363.
1916. Thoreau, “Walking”, 1862 (conferenza tenuta nell’aprile 1851), Thoreau Excursion and
Poems 1906, p. 224.
1917. Thoreau, 15 ottobre 1859, Thoreau Journal 1906, vol. 12, p. 387.
1918. Thoreau Maine Woods 1906, p. 173.
1919. Marsh, “The Study of Nature”, Christian Examiner, 1860, Marsh 2001, p. 82.
1920. Marsh 1864, pp. 13-14, 68, 75, 91, 128, 145, 175 sgg.
1921. Ivi, pp. 128, 131, 137, 145, 154, 171, 180, 186-8.
1922. Ivi, p. 187.
1923. Ivi, p. 52; per disastri come il terremoto, p. 226.
1924. Ivi, pp. 201-2.
1925. Ivi, p. 203; per la riforestazione, pp. 259 sgg., 269-80, 325.
1926. Ivi, p. 280.
1927. Ivi, p. 43.
1928. Wallace Stegner, in ivi, p. xvi.
1929. (nota a piè di pagina) Lowenthal 2003, p. 302.
1930. Gifford Pinchot, ivi, p. 304; Gifford Pinchot a Mary Pinchot, 21 marzo 1886, Miller
2001, p. 392; per John Muir, vedi Wolfe 1946, p. 83.
1931. Lowenthal 2003, p. xi.
1932. Hugh Cleghorn a Marsh, 6 Marsh 1868; per l’influenza di Man and Nature in tutto il
mondo, vedi Lowenthal 2003, pp. 303-5.
1933. Mumford 1931, p. 78.
1934. Marsh 1861, p. 637.
*. I primi sette Stati a separarsi furono: South Carolina, Florida, Mississippi, Georgia, Texas,
Louisiana e Alabama. Nel maggio 1861 ne seguirono altri quattro: Virginia, Arkansas,
Tennessee e North Carolina.
*. Humboldt aveva già visto questi rischi e ammonito che il progetto d’irrigazione degli Llanos
in Venezuela mediante un sistema di canali che attingevano al lago di Valencia era
irresponsabile. Nel breve periodo avrebbe consentito di avere campi fertili negli Llanos, ma il
risultato a lungo termine non poteva che essere un “arido deserto”85. Alla fine la valle di
Aragua sarebbe diventata brulla come le montagne circostanti ormai spogliate delle loro
foreste.
*. Poteva farne richiesta ogni cittadino di età pari o superiore a ventuno anni che non avesse
combattuto contro gli Stati Uniti. Gli si chiedeva di vivere sul terreno assegnato per un
minimo di cinque anni e impegnarsi a “migliorarlo”.
*. Con Bolívar l’abbattimento di alberi o la raccolta di legname nelle foreste di proprietà dello
Stato divenne un reato suscettibile di punizione. A preoccuparlo era anche la possibile
estinzione delle mandrie di vicuñas selvagge.
*. Marsh donò i diritti di Man and Nature a un ente di beneficenza che aiutava i soldati
rimasti feriti nella guerra civile. Per sua fortuna, il fratello e il nipote si affrettarono a
ricomprarli prima che le vendite cominciassero a risalire.
Capitolo ventiduesimo
Nella vita di Haeckel, Humboldt era sempre stato una figura molto
influente. Nato a Potsdam nel 1834, lo stesso anno in cui Humboldt
aveva cominciato a scrivere Cosmos, Haeckel ne aveva letto i libri da
ragazzo. Il padre lavorava per il governo prussiano, ma aveva anche
interessi scientifici e la famiglia trascorreva spesso le serate leggendo
ad alta voce pubblicazioni scientifiche. Pur non avendo mai conosciuto
Humboldt, Haeckel fin da bambino si era imbevuto delle sue idee sulla
natura7. Adorava le sue descrizioni dei tropici fino al punto di
desiderare ardentemente di diventare lui stesso un esploratore; ma il
padre aveva in mente per lui una carriera molto più tradizionale.
Seguendo i desideri paterni, a diciotto anni il giovane si era quindi
iscritto alla facoltà di medicina a Würzburg in Baviera per diventare
medico. Era malinconico e soffriva di nostalgia. Dopo le lunghe
giornate trascorse a lezione si ritirava nella sua stanza, con una voglia
disperata di leggere Cosmos8. E tutte le sere, appena apriva le pagine
piene di ditate, si sprofondava nel meraviglioso mondo di Humboldt.
Quando non leggeva, andava in giro nei boschi, in cerca di solitudine e
di legami con il mondo della natura. Alto, snello, bello e con penetranti
occhi azzurri, tutti i giorni correva e nuotava ed era atletico come lo
era stato Humboldt da giovane9.
“Non potete sapere quanto gioisco dei piaceri che mi offre la
natura”, scriveva ai genitori da Würzburg, “tutte le mie preoccupazioni
di colpo svaniscono.”10 Scriveva del canto garbato degli uccelli e del
vento che pettina le foglie; guardava incantato i doppi arcobaleni e le
pendici dei monti chiazzate dalle ombre fugaci delle nuvole; a volte
tornava dalle sue lunghe passeggiate carico di edera, con cui
intrecciava collane che appendeva al ritratto di Humboldt nella sua
stanza11. Quanto avrebbe desiderato vivere a Berlino, più vicino al suo
eroe! Aveva intenzione di partecipare alla cena annuale alla
Geographical Society a Berlino dove Humboldt sarebbe stato presente,
scrisse ai genitori nel marzo 1853, pochi mesi dopo essere arrivato a
Würzburg: vedere Humboldt, sia pure da lontano, era il suo “desiderio
più ardente”12.
Nella primavera seguente, Haeckel ottenne il permesso di studiare
per un trimestre a Berlino – e anche se non gli riuscì vedere Humboldt
neanche di sfuggita, trovò comunque qualcun altro da ammirare.
Prese qualche lezione di anatomia comparata dal più famoso zoologo
tedesco del tempo, Johannes Müller, che allora lavorava su pesci e
invertebrati marini13. Affascinato dai suoi vivaci racconti di raccolte
fatte sulla riva del mare, Haeckel trascorse un’estate a Helgoland,
un’isoletta al largo della costa tedesca sul Mare del Nord. Passava le
giornate all’aperto, nuotando e catturando creature marine. Se
prendeva qualche medusa la osservava ammirato: i loro corpi
trasparenti erano venati di striature colorate e i lunghi tentacoli si
muovevano con eleganza nell’acqua. E quando con il retino ne catturò
un esemplare di particolare bellezza14, Haeckel capì di aver trovato il
suo animale preferito e una disciplina scientifica da approfondire: la
zoologia.
Pur obbedendo alla volontà del padre e continuando a studiare
medicina, Haeckel non intendeva esercitare la professione di medico.
Gli piacevano la botanica e l’anatomia comparata, gli invertebrati
marini e i microscopi, amava scalare montagne e nuotare, dipingere e
disegnare; ma la medicina la detestava. Più leggeva Humboldt e più
cresceva la sua brama di conoscerne le opere. Quando andò a trovare i
genitori portò con sé Quadri della natura e chiese alla madre di
comprargli una copia di Personal Narrative perché, disse, “era la sua
ossessione”15. Prese a prestito dalla biblioteca dell’università di
Würzburg decine di libri di Humboldt, dai volumi di botanica alla
grande edizione in folio di Vues des Cordillères con le spettacolari
incisioni di paesaggi e monumenti latino-americani – “edizioni
straordinariamente sontuose”16, le definiva. Chiese ai genitori di
mandargli come regalo di Natale l’atlante che era stato pubblicato per
accompagnare Cosmos17: gli era più facile, spiegò, capire e
memorizzare attraverso immagini che non attraverso parole18.
Ernst Haeckel con la sua attrezzatura da pesca
Mentre lavorava a Die Radiolaren, aveva letto un libro che ancora una
volta avrebbe cambiato la sua vita: Origin of Species di Darwin.
Rimase impressionato dalla teoria di Darwin sull’evoluzione – era “un
libro assolutamente folle”55, avrebbe raccontato più tardi. In una volta
sola, Origin of Species gli dava le risposte che cercava su come gli
organismi si erano sviluppati. Il libro di Darwin apriva un mondo
nuovo56, diceva Haeckel. Dava una soluzione “a tutti i problemi, per
quanto spinosi”57, scrisse in una lunga lettera a Darwin piena di
ammirazione. Con il suo lavoro, Darwin sostituiva la credenza nella
creazione divina degli animali, delle piante e degli essere umani con il
concetto che essi erano il prodotto di processi naturali – un’idea
rivoluzionaria che scuoteva la dottrina religiosa fino al suo nucleo più
profondo.
Origin of Species sollevò un’ondata generale di protesta nel mondo
scientifico. In molti accusarono Darwin di eresia. Portata alle estreme
conclusioni, la teoria di Darwin significava che l’uomo apparteneva
allo stesso albero della vita di tutti gli altri organismi. Pochi mesi dopo
la pubblicazione, in Inghilterra si arrivò a una grande resa dei conti
pubblica, a Oxford, tra il vescovo Samuel Wilberforce e l’acceso
sostenitore di Darwin, Thomas Huxley, biologo e futuro presidente
della Royal Society. A un convegno della British Association for the
Advancement of Science, Wilberforce aveva provocatoriamente chiesto
a Huxley se non fosse per caso parente di una scimmia da parte della
nonna o del nonno e Huxley aveva risposto che preferiva essere
disceso da una scimmia piuttosto che da un vescovo. I dibattiti erano
polemici, eccitanti e radicali58.
Quando Haeckel lo lesse, Origin of Species cadde su di un terreno
fertile, perché fin dall’infanzia era stato influenzato dal concetto di
natura di Humboldt e Cosmos già conteneva “modi di pensare pre-
darwiniani”59. Nei decenni successivi Haeckel sarebbe diventato il più
acceso sostenitore di Darwin in Germania*60. Anna lo chiamava “il
suo Darwin tedesco”61, mentre Hermann Allmers canzonava
allegramente Haeckel per la sua “vita piena di amore e di
darwinismo”62.
Poi arrivò la tragedia. Il 16 febbraio 1864, il giorno del trentesimo
compleanno di Haeckel, nel quale ricevette un prestigioso premio
scientifico per il suo libro sui radiolari, Anna morì dopo una breve
malattia – forse un’appendicite. Erano sposati da meno di due anni63.
Haeckel cadde in una depressione profonda. “Dentro sono morto”64,
disse a Allmers, schiacciato da un “dolore atroce”65. Dichiarava che la
morte di Anna aveva distrutto ogni prospettiva di felicità e, per
sopravvivere, si buttò nel lavoro. “Intendo dedicare tutta la mia
vita”66 alla teoria dell’evoluzione, scrisse a Darwin.
Viveva come un eremita67, gli disse, e l’unica cosa di cui si occupava
era l’evoluzione. Era pronto a sfidare l’intero mondo scientifico,
perché la morte di Anna lo aveva reso “immune al plauso e al
biasimo”68. Per dimenticare le sue pene, per un anno intero lavorò
diciotto ore al giorno per sette giorni alla settimana.
Dalla sua disperazione nacquero i due volumi di Generelle
Morphologie der Organismen, pubblicati nel 1866 – 1.000 pagine su
evoluzione e morfologia degli organismi, compreso lo studio della loro
struttura e forma*69. Darwin descriveva il libro come “il più grandioso
panegirico”70 che mai si fosse fatto di Origin of Species. Era un libro
arrabbiato, nel quale Haeckel attaccava quanti si rifiutavano di
accettare la teoria evoluzionista di Darwin e snocciolava un fuoco di
fila di insulti: i critici di Darwin scrivevano libri grossi ma “vuoti”,
erano “in un dormiveglia scientifico” e vivevano una “vita piena di
sogni ma povera di pensieri”71. Persino Thomas Huxley – che pure si
definiva “il cane da guardia”72 di Darwin – pensava che Haeckel
dovesse abbassare un po’ i toni, se voleva vedersi pubblicare
un’edizione inglese. Ma lui non si smuoveva.
Una riforma radicale delle scienze non si poteva fare con le buone
maniere, diceva Haeckel a Huxley, bisognava sporcarsi le mani e usare
i “forconi”73. Aveva scritto Generelle Morphologie in un momento di
profonda crisi personale, come spiegava a Darwin, la sua amarezza
riguardo al mondo e alla propria vita si insinuava in ogni frase. Da
quando Anna era morta, non gli importava più nulla della sua
reputazione: i miei tanti nemici “possono attaccare il mio lavoro con
tutta la forza che hanno e quanto gli pare”74. Potevano stroncarlo
quanto volevano, non gliene poteva importare di meno.
Generelle Morphologie non era soltanto un appello a favore della
nuova teoria dell’evoluzione, era anche il libro in cui Haeckel per la
prima volta dava un nome alla disciplina propria di Humboldt:
Oecologie, o “ecologia”75, prendendo il termine greco che significa
casa – oikos – per applicarlo al mondo naturale. Tutti gli organismi
della terra erano legati tra loro come una famiglia che condivide la
stessa casa, e al pari dei membri di una famiglia, potevano essere tra
loro in conflitto o aiutarsi a vicenda. Natura organica e natura
inorganica formano un “sistema di forze attive”76, scriveva in
Generelle Morphologie, usando esattamente le stesse parole di
Humboldt. Haeckel riprendeva l’idea humboldtiana della natura come
un insieme unico fatto di interrelazioni complesse e gli dava un nome:
ecologia, la “scienza delle relazioni di un organismo con l’ambiente che
lo circonda”77*78.
Lo stesso anno in cui aveva inventato la parola “ecologia”, Haeckel
finalmente seguì Humboldt e Darwin in lidi più lontani. Nell’ottobre
1866, più di due anni dopo la morte di Anna, partì per Tenerife, l’isola
che per gli scienziati aveva assunto una dimensione quasi mistica, sin
da quando Humboldt l’aveva descritta in termini così seducenti in
Personal Narrative. Era giunto il momento di realizzare quello che
Haeckel chiamava il suo “sogno più vecchio e prediletto in materia di
viaggi”79. Circa settant’anni dopo che Humboldt aveva preso il largo e
più di trenta da quando Darwin era salito a bordo del Beagle, Haeckel
intraprese il suo viaggio. Per quanto appartenenti a tre diverse
generazioni, per tutti la scienza non era soltanto un’attività cerebrale.
La loro scienza implicava uno strenuo esercizio fisico, perché
guardavano la flora e la fauna – si trattasse di palme, licheni, cirripedi,
uccelli o invertebrati marini – nei loro habitat naturali. Capire
l’ecologia voleva dire esplorare nuovi mondi brulicanti di vita.
In viaggio verso Tenerife, Haeckel fece sosta in Inghilterra, dove
combinò per incontrare Darwin nella sua casa a Down House, nel
Kent, a breve distanza di treno da Londra. Non aveva mai conosciuto
Humboldt, ma ora aveva la possibilità di conoscere l’altro suo eroe.
Alle 11 e mezzo del mattino di sabato 21 ottobre, il cocchiere di Darwin
andò a prendere Haeckel a Bromley, la stazione ferroviaria locale e lo
portò in una casa di campagna coperta d’edera dove il
cinquantasettenne Darwin lo aspettava sulla porta80. Haeckel era così
nervoso che dimenticò il poco inglese che sapeva. I due uomini si
strinsero a lungo la mano, con Darwin che non smetteva di dire
quanto era felice di vederlo. Haeckel, come raccontò la figlia di
Darwin, Henrietta, era stordito e ammutolito in un “silenzio
mortale”81. Passeggiando in giardino lungo la Sandwalk, il sentiero
cui Darwin doveva molte delle sue riflessioni, Haeckel un po’ alla volta
si riprese e cominciò a parlare. Parlava in inglese con forte accento
tedesco, incespicando un po’, ma in maniera abbastanza chiara da
consentire ai due scienziati di godersi una lunga conversazione
sull’evoluzione e sui viaggi all’estero.
Darwin era esattamente come Haeckel lo aveva immaginato. Più
vecchio di lui, gentile e con un tono di voce pacato e sommesso,
emanava un’aura di saggezza, pensava Hackel, proprio come lui
s’immaginava Socrate o Aristotele. L’intera famiglia di Darwin lo
accolse con tale calore che si era davvero sentito a casa, disse agli
amici di Jena. Quella visita, avrebbe affermato più tardi, fu uno dei
momenti più “indimenticabili”82 della sua vita. Il giorno dopo,
quando ripartì, era più che mai convinto che la natura non poteva che
essere vista come “un insieme unico” – un “regno della vita”83 al cui
interno tutto era interrelato.
Era venuto il momento di partire. Haeckel aveva organizzato un
incontro con i tre assistenti che aveva assunto per aiutarlo nella sua
ricerca (uno scienziato di Bonn e due dei suoi studenti di Jena)84: si
sarebbero trovati a Lisbona per salpare insieme verso le Isole Canarie.
Appena i quattro uomini approdarono a Tenerife, Haeckel si precipitò
a vedere i luoghi che Humboldt aveva descritto. E naturalmente non
poté mancare di seguire le sue orme fino alla vetta del Pico del Teide.
Mentre si arrampicava tra neve e venti ghiacciati, il mal d’altitudine gli
fece perdere i sensi e ridiscese barcollando e incespicando. Ma lo aveva
fatto!, scrisse a casa orgoglioso. Il fatto di aver visto ciò che Humboldt
aveva visto era “molto appagante”85. Da Tenerife, Haeckel e i suoi tre
assistenti s’imbarcarono per l’isola vulcanica di Lanzarote, dove
trascorsero tre mesi lavorando a vari progetti zoologici. Lui si
concentrava su radiolari e meduse e gli assistenti studiavano pesci,
spugne, vermi e molluschi. Il paesaggio era brullo, ma il mare era vivo,
diceva Haeckel, era come un “grande brodo animale”86.
Quando tornò a Jena, nell’aprile 1867, era più calmo e in pace87.
Anna sarebbe rimasta l’amore della sua vita e persino molti anni dopo,
quando si era già risposato, l’anniversario della sua morte lo
addolorava. “In questo giorno triste io mi sento perso”88, scrisse
trentacinque anni dopo. Ma aveva imparato ad accettare e a convivere
con la morte di Anna.
Al volgere del secolo, l’Europa era entrata nella cosiddetta Età delle
Macchine. Le fabbriche vennero dotate di macchinari elettrici e la
produzione di massa spingeva le economie d’Europa e degli Stati
Uniti. La Germania per lungo tempo era rimasta indietro rispetto alla
Gran Bretagna, ma dopo la creazione del Reich tedesco nel 1871,
guidato dal cancelliere tedesco Otto von Bismarck e con il re di
Prussia, Wilhelm I, divenuto imperatore della Germania, il paese
aveva preso una velocità da capogiro99. Quando Haeckel pubblicò la
prima edizione di Kunstformen der Nature nel 1899, la Germania, con
Inghilterra e Stati Uniti, era un’economia leader a livello mondiale.
Ormai sulle strade tedesche correvano le prime automobili e una
rete ferroviaria collegava i centri industriali della Ruhr con le grandi
città portuali, quali Amburgo e Brema. Si producevano carbone e
acciaio in quantità sempre crescenti e nuove città nascevano come
funghi attorno ai fulcri del sistema industriale. Nel 1887 a Berlino era
entrata in funzione la prima centrale elettrica e l’industria chimica
della Germania, ormai la più importante e avanzata al mondo,
produceva tinture, prodotti farmaceutici e fertilizzanti di sintesi.
Diversamente dall’Inghilterra, la Germania aveva politecnici e
laboratori di ricerca industriali che formavano una generazione di
nuovi scienziati e ingegneri. Erano istituzioni incentrate
sull’applicazione pratica della scienza più che sulle scoperte
accademiche.
Tra i sempre più numerosi abitanti dei centri urbani, scriveva
Haeckel, molti avevano una gran voglia di allontanarsi dall’“irrequieto
trambusto” e dalle “nuvole di fumo nero delle fabbriche”100.
Scappavano sulle coste, nelle foreste ombrose o su frastagliate pendici
montane, nella speranza di ritrovare se stessi nella natura. Al volgere
del secolo, gli artisti dell’Art Nouveau cercarono di riconciliare la
relazione disturbata tra uomo e natura, traendo la loro ispirazione
estetica dal mondo naturale. Ora “imparavano dalla natura”101 e non
da docenti, commentava un designer tedesco. L’introduzione di motivi
naturali negli arredamenti e nell’architettura divenne un momento di
redenzione nel portare l’organico in un mondo sempre più
meccanico102.
A sinistra: i disegni di Binet per interruttori della luce elettrica che riprendevano i disegni di
Haeckel. A destra: il disegno di Haeckel della medusa che fu dipinto sul soffitto di Villa
Medusa
Tutela e natura
Lo schizzo di Muir mostrava lo spostamento delle piante artiche nel corso di migliaia di anni.
Muir indicava tre differenti posizionamenti: nelle pianure “all’inizio del loro viaggio verso le
montagne”; poi alcune di esse che ancora “indugiano” un po’ più su e infine in prossimità della
vetta, la “recente collocazione delle piante artiche – tuttora in movimento verso l’alto”
Indice stilato da Muir sulla pagina posteriore della sua copia di Views of Nature di Humboldt.
È un elenco di temi quali “effetti delle foreste” e “foreste e civilizzazione”, con indicazione delle
pagine che trattano dell’impatto degli alberi sul clima, sul suolo e sulla evaporazione o del
potere distruttivo dell’agricoltura e della deforestazione
Muir lottò per la tutela della natura per tutto il resto della sua vita.
Man and Nature aveva allertato una parte degli americani, ma mentre
Marsh aveva scritto un libro che incoraggiava la tutela dell’ambiente
sostanzialmente ai fini del vantaggio economico che ne avrebbe tratto
il paese, Muir avrebbe pubblicato una dozzina di libri e più di 300
articoli che fecero innamorare della natura gli americani comuni.
Voleva che restassero in attonita soggezione davanti allo spettacolo
delle montagne e di alberi imponenti, e, per raggiungere il suo scopo,
sapeva essere divertente, affascinante e seduttivo. Quale scrittore
naturalista, Muir prese il testimone da Humboldt: era stato lui a
inventare questo nuovo genere, che combinava pensiero scientifico e
reazioni emotive davanti alla natura. Humboldt aveva fortemente
impressionato i suoi lettori, compreso Muir. Che poi a sua volta
divenne maestro in questo genere di scrittura. “La natura” è già essa
stessa “un poeta”98, diceva Muir – e lui non doveva fare altro che
lasciarla parlare attraverso la sua penna.
Muir era un grande comunicatore. Aveva fama di essere un
indomito conversatore, pieno zeppo di idee, di fatti da raccontare, di
osservazioni e del suo amore gioioso per la natura. “Ci sembrava di
sentire il vento e la pioggia che sferzavano le nostre facce”99,
commentò un amico dopo avere ascoltato Muir che narrava qualcuna
delle sue storie. Le lettere, i diari, i libri: tutto ciò che scriveva
trasudava passione e tutto era infarcito di descrizioni che
trasportavano il lettore nei boschi e sulle montagne. Una volta,
arrampicandosi su una montagna con Charles Sargent, direttore
dell’Arnold Arboretum di Harvard, Muir rimase stupito vedendo come
un uomo che sapeva tutto sugli alberi potesse restare così indifferente
davanti a quel magnifico scenario autunnale. Mentre lui saltava di qua
e di là inneggiando allo “splendore che c’è in tutto ciò”, Sargent se ne
stava impalato e “imperturbabile come una roccia”. E quando Muir
gliene chiese la ragione, lui replicò: “Io non sono uno che parla col
cuore in mano”. Muir non gli poteva consentire di cavarsela così.
“Dove metti il tuo piccolo cuore non interessa a nessuno”, ribatté, “te
ne stai qui davanti al Paradiso sceso sulla terra con l’atteggiamento di
chi ha da criticare l’intero universo, come a dire ‘Vieni, natura, vieni,
porta pure il meglio di quel che hai da offrire: io sono di
BOSTON.’”100
Muir la natura la viveva e la respirava. Una sua vecchia lettera – una
lettera d’amore alle sequoie – era stata scritta con un inchiostro che lui
stesso aveva fatto usando la loro linfa e quegli scarabocchi ancora oggi
luccicano del rosso della linfa di sequoia. L’intestazione della lettera
riportava: “Squirrelville, Sequoia Co, Nut time” (Città dello scoiattolo,
contea di Sequoia, ora della noce) e proseguiva: “Il Re albero e io oggi
abbiamo giurato eterno amore”. Quando si trattava di natura, Muir
non aveva mai paura a lasciarsi andare. Voleva predicare di foreste,
vita e natura a un “mondo inaridito”. Voi che siete stati defraudati
dalla civilizzazione, scriveva, che vi sentiate “delusi o realizzati, venite
a imbevervi di sequoia e vi salverete”101.
Il disegno di Muir con lui che spinge la moglie su per una montagna a Yosemite
La gioia festosa che trasudava dai libri e dagli articoli di Muir
contagiò milioni di americani e incise profondamente sulla loro
relazione con la natura. Muir scriveva del “glorioso splendore di una
natura selvaggia che sembrava chiamare con mille voci cantanti” e di
alberi che in piena tempesta “vibravano suonando la loro musica e
pulsavano di vita”102: il suo linguaggio era emotivo e viscerale.
Afferrava i lettori e li portava nella natura incontaminata, su per le
montagne innevate, sopra e dietro stupefacenti cascate e attraverso
praterie fiorite*103.
A Muir piaceva attribuirsi il ruolo dell’uomo selvaggio che vive sulle
montagne. Tuttavia, dopo i primi cinque anni trascorsi nelle aree
rurali della California e nella Sierra, cominciò a passare i mesi
invernali a San Francisco e nella regione della Baia104 per scrivere i
suoi articoli. Prendeva in affitto una stanza da amici e conoscenti e
continuava a detestare le strade “brulle dove non vola neanche
un’ape”105; ma fu lì che conobbe i direttori di giornali e riviste che gli
commissionarono i primi pezzi. In tutti quegli anni non aveva avuto
pace, ma quando i fratelli e le sorelle cominciarono a scrivergli lettere
dal Wisconsin raccontando dei loro matrimoni e dei loro bambini,
Muir cominciò a pensare al suo futuro106.
Fu Jeanne Carr, nel settembre 1874, a presentarlo a Louie
Strentzel107, quando Muir aveva trentasei anni. Lei ne aveva
ventisette ed era l’unica figlia in vita di un ricco immigrato polacco che
possedeva un grande frutteto e vigne a Martinez, cinquanta chilometri
a nord-est di San Francisco. Per cinque anni le scrisse lettere e andava
regolarmente a trovare Louie e la sua famiglia, finché non prese la
decisione. Si fidanzarono nel 1879 e si sposarono nell’aprile dell’anno
successivo, pochi giorni prima del suo quarantaduesimo compleanno.
Si stabilirono nella fattoria degli Strentzel a Martinez – ma Muir non
poteva rinunciare alle fughe nella natura selvaggia. Louie capì che
doveva lasciar andare il marito quando si sentiva “perso e le esigenze
del lavoro agricolo lo soffocavano”108. Tornava sempre, di nuovo
fresco e ispirato, pronto a dedicare tempo alla moglie e poi alle due
bambine, che adorava109. Solo una volta Louie lo accompagnò nella
Yosemite Valley, dove Muir la spingeva su per le montagne con un
bastone premuto nelle schiena – un gesto che secondo lui l’avrebbe
aiutata, ma l’esperimento non fu mai ripetuto110.
Muir accettò di dirigere l’azienda agricola, ma quel ruolo non gli
piacque mai. Così, quando il padre di Louie morì, nel 1890,
lasciandole un patrimonio di quasi 250.000 dollari americani,
decisero di vendere parte dei terreni e assunsero la sorella di Muir con
il marito con l’incarico di gestire la restante proprietà111. Muir, che
allora aveva appena superato i cinquant’anni, fu contento di essere
sollevato dal lavoro quotidiano nella fattoria e di potersi di nuovo
concentrare su cose per lui più importanti.
Negli anni in cui aveva gestito la fattoria degli Strentzel a Martinez,
Muir non aveva mai perso la sua passione per Yosemite. Incoraggiato
da Robert Underwood Johnson, direttore di Century, il mensile
letterario più importante del paese, aveva intrapreso la sua battaglia
per la tutela della natura112. Ogni volta che visitava la Yosemite Valley
vedeva qualche altro cambiamento. Per quanto la valle fosse un parco
statale, le regole erano troppo permissive e i controlli scarsi. La
California gestiva male la Yosemite Valley. Il pascolo delle greggi aveva
reso brullo il terreno e il paesaggio era ingombro di strutture per far
alloggiare i turisti. Muir notò anche che tanti fiori selvatici erano
scomparsi da quando aveva visitato per la prima volta la Sierra
vent’anni prima. Sulle montagne, fuori dai confini del parco, molte
delle sue amate sequoie erano state abbattute per farne legname.
Devastazione e sporcizia colpivano amaramente Muir, che più tardi
avrebbe scritto: “sicuramente da questi alberi, una volta passati
attraverso una segheria, si ricaverà del buon legname; anche George
Washington, se fosse passato attraverso le mani di un cuoco francese,
avrebbe cucinato bene”113*114.
Sotto la pressione di Johnson, Muir convertì il suo amore per la
natura in attivismo e cominciò a scrivere e fare campagna per la
creazione di un parco nazionale a Yosemite – come lo Yellostone
National Park in Wyoming, il primo e fino a quel momento l’unico nel
paese, istituito nel 1872. Negli ultimi mesi estivi e nell’autunno del
1890, Johnson si impegnò a fare attività di lobby alla Camera dei
rappresentanti a Washington in favore di un Yosemite National Park,
mentre gli articoli di Muir per il popolare Century assicuravano ampia
risonanza alla battaglia grazie alla distribuzione della rivista su tutto il
territorio nazionale115. Riccamente illustrati con straordinari disegni
dei canyon, delle montagne e degli alberi della Yosemite Valley, gli
articoli trasportavano i lettori nella natura selvaggia della Sierra. Le
valli diventavano “strade di montagna piene di vita e di luce”, giganti
di granito avevano i piedi nei prati verde smeraldo e “le sopracciglia”
nel cielo azzurro. Ali di uccelli, farfalle e api muovevano “l’aria
trasformandola in musica” e cascatelle “turbinavano e danzavano”116.
Le cascate più maestose spumeggiavano, si piegavano, si
attorcigliavano e precipitavano mentre “sbocciavano” le nubi.
Il presidente Theodore Roosevelt con John Muir sul Glacier Point nella Yosemite Valley nel
1903
Tutto era cominciato con Humboldt e con una passeggiata. “Ero uscito
per una semplice passeggiata e ho finito per restare fuori fino al
tramonto” scrisse Muir dopo essere tornato, “perché mi sono reso
conto che andare fuori significava entrare davvero dentro.”140
1. Worster 2008, p. 120.
2. Merrill Moores, “Recollections of John Muir as a Young Man”, ivi, pp. 109-10.
3. Muir a Jeanne Carr, 13 settembre 1865, JM online.
4. Muir a Daniel Muir, 7 gennaio 1868, ivi.
5. Muir Journal 1867-8, ivi, risguardi; per l’itinerario, p. 2.
6. Muir 1913, p. 3.
7. Ivi, p. 27.
8. Ivi, p. 207.
9. Gisel 2008, p. 3; Worster 2008, pp. 37 sgg.
10. Gifford 1996, p. 87.
11. Worster 2008, p. 73.
12. Holmes 1999, pp. 129 sgg.; Worster 2008, pp. 79-80.
13. Muir a Frances Pelton, 1861, Worster 2008, p. 87.
14. Muir 1913, p. 287.
15. Worster 2008, pp. 94 sgg.
16. Muir a Jeanne Carr, 13 settembre 1865, JM online.
17. Muir 1924, vol. 1, p. 124.
18. Ivi, p. 120.
19. Muir a Emily Pelton, 1 marzo 1864, Gisel 2008, p. 44.
20. Holmes 1999, pp. 135 sgg.
21. Muir 1924, vol. 1, p. 153.
22. Muir a Merrills Moores, 4 marzo 1867, JM online.
23. Muir 1924, vol. 1, pp. 154 sgg.; Muir a Sarah e David Galloway, 12 aprile 1867; Muir a
Jeanne Carr, 6 aprile 1867; Muir a Merrills Moores, 4 marzo 1867, JM online.
24. Muir a Merrills Moores, 4 marzo 1867, JM online.
25. Muir “Memoirs”, Gifford 1996, p. 87.
26. Muir Journal 1867-8, JM online, p. 2.
27. Ivi, pp. 22, 24.
28. Ivi, p. 17.
29. Ivi, pp. 32-3.
30. Muir 1916 p. 164; Muir Journal 1867-8, JM online, pp. 194-5.
31. Muir Journal 1867-8, JM online, p. 154; vedi anche la copia di Muir della AH Personal
Narrative 1907, vol. 2, pp. 288, 371, MHT.
32. Muir Journal 1867-8, JM online, p. 154; Muir inserì la parola “cosmos” nel resoconto
pubblicato, Muir 1916, p. 139; evidenziato anche nella copia di Muir della AH Personal
Narrative 1907, vol. 2, p. 371, MHT.
33. Muir a David Gilrye Muir, 13 dicembre 1867, JM online.
34. Holmes 1999, p. 190; Worster 2008, pp. 147-8.
35. Muir a Jeanne Carr, 26 luglio 1868, JM online.
36. Muir 1912, p. 4; vedi anche Muir “Memoir”, Gifford 1996, p. 96.
37. Muir a Jeanne Carr, 26 luglio 1868, JM online.
38. Muir, “The Wild Parks and Forest Reservations of the West”, Atlantic Monthly, gennaio
1898, p. 17.
39. Muir a Catherine Merrill et al., 19 luglio 1868, JM online; vedi anche Muir a David Gilrye
Muir, 14 luglio 1868; JM a Jeanne Carr, 26 luglio 1868, JM online; Muir “Memoir”, Gifford
1996, pp. 96 sgg.
40. Muir 1912, p. 5.
41. Muir, “The Treasures of the Yosemite”, Century, vol. 40, 1890.
42. Muir 1912, p. 11.
43. Muir 1911, p. 314.
44. Copia di Muir della AH Personal Narrative 1907, vol. 2, p. 306, MHT.
45. Muir a Catherine Merrill et al., 19 luglio 1868, JM online.
46. Muir a Margaret Muir Reid, 13 gennaio 1869, JM online.
47. Questa importante frase passò attraverso varie stesure fra il diario e il resoconto
pubblicato – da “Quando proviamo a selezionare una cosa da sola, isolandola dal resto, ci
accorgiamo che è solidamente collegata a tutte le cose dell’universo da mille fili invisibili che
non si possono spezzare”; poi “Quando proviamo a selezionare una cosa da sola, isolandola dal
resto, ci accorgiamo che è collegata a tutte le cose dell’universo da innumerevoli e
imprevedibili fili”; e poi la versione finale nel libro di Muir: “Quando proviamo a selezionare
una cosa da sola, isolandola dal resto, ci accorgiamo che è strettamente legata a tutto ciò che
c’è nell’universo”. Muir 1911, p. 211; Muir Journal “Sierra”, estate 1869 (1887), MHT; Muir
Journal “Sierra”, estate 1869 (1910), MHT.
48. Muir Journal “Sierra”, estate 1869 (1887), MHT.
49. Muir 1911, pp. 321- 2.
50. (nota a piè di pagina) Copia di Muir dellaAH Views 1896, pp. xi, 346 e AH Cosmos 1878,
vol. 2, p. 438, MHT.
51. Tra il 1868 e il 1874, Muir passò quaranta mesi a Yosemite, Gisel 2008, p. 93.
52. Muir “Memoir”, Gifford 1996, p. 112.
53. Muir a Jeanne Carr, 29 luglio 1870, JM online.
54. Muir 1911, p. 212.
55. Muir, “Yosemite Glaciers”, New York Tribune, 5 dicembre 1871; vedi anche Muir, “Living
Glaciers of California”, Overland Monthly, dicembre 1872 e Gifford 1996, pp. 143 sgg.
56. Muir a Jeanne Carr, 8 ottobre 1872; Muir a Catherine Merrill, 12 luglio 1872, JM online.
57. Muir a Jeanne Carr, 11 dicembre 1871, ivi.
58. Muir a J.B. McChesney, 8-9 giugno 1871, ivi.
59. Muir a Joseph Le Conte, 27 aprile 1872, ivi; Muir evidenziò anche le pagine dei libri di
Humboldt che trattano della distribuzione delle piante. (copia di Muir della AH Views 1896,
pp. 317 sgg. e AH Personal Narrative 1907, vol. 1, pp. 116 sgg., MHT).
60. Muir a Jeanne Carr, 16 marzo 1872, JM online.
61. Muir a Jeanne Carr, 3 aprile 1871, ivi.
62. Robert Underwood Johnson su Muir, in Gifford 1996, p. 874.
63. Muir a Emerson, 26 marzo 1872, JM online.
64. Ivi.
65. Muir a Emily Pelton, 16 febbraio 1872, JM online.
66. Muir a Emily Pelton, 2 aprile 1872, JM online; Gisel 2008, pp. 93, 105-6.
67. U.S., Statutes at Large, 15, in Nash 1982, p. 106.
68. Muir a Daniel Muir, 21 giugno 1870, JM online.
69. Gifford 1996, pp. 131-6; Jeanne Carr a Muir, 1 maggio 1871; Muir a Emerson, 8 maggio
1871; Muir a Emerson, 6 luglio 1871; Muir a Emerson, 26 marzo 1872, JM online.
70. Muir on Emerson, Gifford 1996, p. 133.
71. Muir a Jeanne Carr, non datata ma si riferiva alla lettera di Emerson a Muir del 5 febbraio
1872, JM online.
72. Emerson a Muir, 5 febbraio 1872, ivi.
73. Muir sottolineò i commenti di Thoreau sulla solitudine nella sua copia di Walden. Copia di
Muir di Thoreau’s Walden (1906), pp. 146, 150, 152, MHT.
74. Muir sottolineò l’affermazione di Humboldt in Cosmos secondo cui la connessione fra “il
sensuale e l’intellettuale” era vitale per la comprensione della natura; copia di Muir di AH
Cosmos 1878, vol. 2, p. 438, MHT.
75. Muir a Jeanne Carr, autunno 1870, JM online.
76. Muir 1911, pp. 79, 135.
77. Ivi, pp. 90, 113.
78. Muir a Ralph Waldo Emerson, 26 marzo 1872, JM online.
79. (nota a piè di pagina) Copia di Muir di AH Views 1896, vol. 1, pp. 210, 215, MHT.
80. Muir 1911, pp. 48, 98.
81. Muir 1911, p. 326.
82. Muir Journal “Twenty Hill Hollow” 1869, 5 aprile 1869; Holmes 1999, p. 197.
83. Muir a Jeanne Carr, 20 maggio 1869, ivi.
84. Muir 1911, pp. 82, 205.
85. Muir a Daniel Muir, 17 aprile 1869, JM online.
86. Copia di Muir di AH Personal Narrative 1907, vol. 1, p. 502, vedi anche vol. 2, p. 214,
MHT; copia di Muir di AH Cosmos 1878, vol. 2, pp. 377, 381, 393, MHT.
87. Copia di Muir di AH Personal Narrative 1907, vol. 2, p. 362, MHT.
88. Copia di Muir di AH Views 1896, p. 21, MHT.
89. Muir a Jeanne Carr, 26 luglio 1868, JM online.
90. I libri di Thoreau e di Darwin appartenenti a Muir, MHT.
91. Copia di Muir di AH Personal Narrative 1907, vol. 1, pp. 98, 207, 215, 476-7; vol. 2, pp. 9-
10, 153, 207, MHT; copia di Muir di AH Views 1896, pp. 98, 215, MHT.
92. Johnson 1999, p. 515.
93. Richardson 2007, p. 131; Johnson 1999, p. 535.
94. Frederick Jackson Turner nel 1903, Nash 1982, p. 147.
95. Muir a Jeanne Carr, 7 ottobre 1874, JM online.
96. Wolfe 1946, p. 83.
97. Copia di Muir di Thoreau, Maine Woods (1868), p. 160 e anche pp. 122-3, 155, 158, MHT.
98. Muir 1911, p. 211.
99. Samuel Merrill, “Personal Recollections of John Muir”; vedi anche Robert Underwood
Johnson, C. Hart Merriam, “To the Memory of John Muir”, Gifford 1996, pp. 875, 889, 891,
895.
100. Muir e Sargent, settembre 1898, Anderson 1915, p. 119.
101. Muir a Jeanne Carr, autunno 1870, JM online.
102. Muir 1911, pp. 17, 196.
103. (nota a piè di pagina) Daniel Muir a Muir, 19 marzo 1874, JM online.
104. Worster 2008, pp. 216 sgg.
105. Muir a Strentzels, 28 gennaio 1879, JM online.
106. Muir a Sarah Galloway, 12 gennaio 1877, JM online; Worster 2008, p. 238.
107. Worster 2008, pp. 238 sgg.
108. Muir a Millicent Shin, 18 aprile 1883, JM online.
109. Worster 2008, p. 262.
110. Muir a Annie Muir, 16 luglio 1884, JM online.
111. Worster 2008, pp. 324-5; per la gestione di Martinez, vedi Kennedy 1996, p. 31.
112. Worster 2008, pp. 312 sgg.; Nash 1982, pp. 131 sgg..
113. Muir 1920.
114. (nota a piè di pagina) Copia di Muir di Thoreau, Maine Woods (1868), p. 123.
115. Muir, “The Treasures of the Yosemite” e “Features of the Proposed Yosemite National
Park”, Century, voll. 40 e 41, 1890.
116. Muir, “The Treasures of the Yosemite”, Century, vol. 40, 1890.
117. Nash 1982, p. 132.
118. Muir 1901, p. 365.
119. Robert Underwood Johnson, 1891, Nash 1982, p. 132.
120. Muir a Henry Senger, 22 maggio 1892, JM online.
121. Kimes e Kimes 1986, pp. 1-162.
122. Theodore Roosevelt a Muir, 14 marzo 1903, JM online.
123. Theodore Roosevelt a Muir, 19 maggio 1903, ivi.
124. Muir a Charles Sprague Sargent, 3 gennaio 1898, ivi.
125. Nash 1982, pp. 161-81; Muir, “The Hetch Hetchy Valley”, Sierra Club Bulletin, vol. 6, n. 4,
gennaio 1908.
126. New York Times, 4 settembre 1913.
127. Muir a Robert Underwood Johnson, 1 gennaio 1914, Nash 1982, p. 180.
128. Muir, Memorandum di John Muir, 19 maggio 1908 (per la Conferenza dei governatori
sulla conservazione del 1908), JM online.
129. Muir a Daniel Muir, 17 aprile e 24 settembre 1869; Muir a Mary Muir, 2 maggio 1869;
Muir a Jeanne Carr, 2 ottobre 1870; Muir a J.B. McChesney, 8 giugno 1871, ivi.
130. Muir a Betty Averell, 2 marzo 1911, Branch 2001, p. 15.
131. Muir, 26-9 giugno 1903, Muir Journal “World Tour”, pt. 1, 1903, JM online.
132. Helen S. Wright a Muir, 8 maggio 1878, ivi.
133. Henry F. Osborn a Muir, 18 novembre 1897, ivi.
134. Muir a Jeanne Carr, 13 settembre 1865, ivi.
135. Muir a Robert Underwood Johnson, 26 gennaio 1911, Branch 2001, p. 10; vedi anche p.
xxvi sgg.; Fay Sellers a Muir, 8 agosto 1911, JM online.
136. Branch 2001, pp. 7-9.
137. (nota a piè di pagina) Muir a William E. Colby, 8 maggio 1911, ivi, p. 19
138. Muir a Katharine Hooker, 10 agosto 1911, ivi, p. 31.
139. Muir a Helen Muir Funk, 12 agosto 1911, ivi, p. 32.
140. Muir nel 1913, Wolfe 1979, p. 439.
*. Il sogno di Humboldt di un canale attraverso l’istmo di Panama non si era ancora realizzato.
Ma ora una ferrovia attraversava la stretta striscia di terra da Colón a Panama City.
Completata soltanto tredici anni prima, nel 1855, l’avevano utilizzata le decine di migliaia di
persone partite per la California durante la corsa all’oro.
*. Nella sua copia di Views of Nature e di Cosmos Muir sottolineò i passaggi in cui Humboldt
parlava della “armoniosa cooperazione tra forze” e della “unità di tutte le forze vitali della
natura”, nonché la famosa osservazione di Humboldt sulla natura come “riflesso di un unico
insieme”.
*. Humboldt aveva spiegato tante volte che ogni cosa era permeata di vita – rocce, fiori, insetti
e così via. Nella sua copia di Views of Nature, Muir ha sottolineato le osservazioni di
Humboldt su questa “profusione universale di vita” e sulle forze organiche “incessantemente
al lavoro”.
*. Soltanto al severo padre di Muir non piaceva che il figlio scrivesse di natura. Daniel Muir,
che nel 1873 aveva lasciato la moglie per unirsi a una setta religiosa, scriveva a John: “Non
puoi riscaldare il cuore del Santo di Dio con le tue gelide montagne incappucciate di ghiaccio”.
*. Muir aveva sottolineato un concetto simile nella sua copia del libro The Maine Woods di
Thoreau, che recitava: “Ma il pino non è legname, non più di quanto lo è un uomo; e essere
trasformato in tavole e case non è l’utilizzo più appropriato ed elevato che se ne possa fare –
non più di quanto l’uso più appropriato di un uomo non è essere abbattuto ammazzato e
trasformato in concime… un pino morto non è un pino, non più di quanto la carcassa di un
uomo morto è un uomo”.
*. Roosevelt mantenne la promessa: nel 1906 la Yosemite Valley e Mariposa Grove furono
aggiunti al Yosemite National Park.
*. Muir andò anche a Washington per fare pressioni a favore di Hetch Hetchy. Ebbe incontri
con il presidente William H. Taft, con il ministro degli Interni e con il presidente della Camera
dei rappresentanti nonché con molti senatori e membri del Congresso.
Epilogo
Nel corso del 2013 sono stata “Eccles Writer in Residence” alla British
Library. È stato l’anno più produttivo nella mia carriera di scrittrice.
Ne ho apprezzato ogni istante. Grazie a tutti i collaboratori dell’Eccles
Centre – in particolare a Philip Davies, Jean Petrovic e Cara Rodway
nonché Matt Shaw e Philip Hatfield della British Library. Grazie!
Negli ultimi anni, ho ricevuto tanta assistenza da così tante persone
che mi sento indegna della loro generosità. Grazie a tutti per aver reso
la ricerca e la scrittura di questo libro la più meravigliosa delle
esperienze. In tanti hanno condiviso le loro conoscenze e la loro
ricerca, hanno letto capitoli, hanno dischiuso le loro rubriche degli
indirizzi, hanno risposto alle mie domande (ripetute volte) e mi hanno
accolto calorosamente in tutto il mondo – è stata una vera esperienza
humboldtiana delle reti globali.
In Germania vorrei ringraziare Ingo Schwarz, Eberhard Knobloch,
Ulrike Leitner e Regina Mikoasch alla Humboldt Forschungstelle di
Berlino; Thomas Bach alla Ernst-Haeckel Haus di Jena; Frank Holl
alla Münchner Wissenschaftstage a Monaco; Ilona Haak-Macht alla
Klassik Stiftung di Weimar, Direzione Musei/Sezione Goethe-
Nationalmuseum, Jürgen Hamel, e Karl-Heinz Werner.
In Gran Bretagna vorrei ringraziare Adam Perkins del Department
of Manuscripts and University Archives, University Library,
Cambridge; Annie Kemkaran-Smith alla Down House del Kent; Neil
Chambers al Sir Joseph Banks Archive Project presso la Nottingham
Trent University; Richard Holmes; Rosemarie Clarkson al Darwin
Correspondence Project; Jenny Wattrus per le traduzioni dallo
spagnolo; Eleni Papavasileiou alla Library & Archive, SS Great Britain
Trust; John Hemming; Terry Gifford e il suo “gruppo di lettura”
formato da studiosi della Bath University; Lynd Brooks alla Linnean
Society; Keit Moore e il resto del personale della Royal Society Library
and Archives di Londra; Crestina Forcina al Wellcome Trust e il
personale della British Library e della London Library.
Negli Stati Uniti vorrei ringraziare Michael Wurtz all’Holt-Atherton
Special Collections, University of the Pacific Library; Bill Swagerty del
John Muir Centre, University of Pacific; Ron Eber; Marie Arana; Keith
Thomson dell’American Philosophical Society; il personale della New
York Public Library; Leslie Wilson della Concord Free Public Library;
Jeff Cramer del Thoreau Institute di Walden Woods; Matt Bourne del
Walden Woods Project; David Wood, Adrienne Donohue e Margaret
Burke del Concord Museum; Kim Burns; Jovanka Ristic e Bob Jaeger
dell’American Geographical Society Library presso le University of
Wisconsin-Milwaukee Librarues; Sandra Rebok; Prudence Doherty
della Special Collections Bailey/Howe Library presso l’University of
Vermont; Eleanor Harvey dello Smithsonian American Art Museum;
Adam Goodheart del C.V. Starr Center for the Study of the American
Experience, Washington College. E a Monticello Anna Berkes, Endrina
Tay, Christa Dierksheide, e Lisa Francavilla all’International Center
for Jefferson Studies, Jefferson Retirement Papers e Jefferson Library;
David Mattern del Madison Retirement Papers presso l’University of
Virginia; Aaron Sachs, Ernesto Bassi e gli “Historians are Writers
Group” alla Cornell University.
In Sud America vorrei ringraziare Alberto Gómez Gutiérrez della
Pontificia Universidad Javeriana, Bogotá; la nostra guida Juanfe
Duran Cassola in Ecuador e il personale degli archivi del Ministerio de
Cultura y Patrimonio a Quito.
Sono grata ai seguenti archivi e biblioteche per il permesso di citare
dai loro manoscritti: i Syndics of Cambridge University Library; la
Royal Society, Londra; la Concord Free Public Library, Concord; la
Staatsbibliothek di Berlino – Preussischer Kulturbesitz; le Holt-
Atherton Special Collections, University of the Pacific, Stockton,
California copyright 1984 Muir-Hanna Trust; la New York Public
Library; la British Library; le Special Collections, University of
Vermont.
Vorrei ringraziare la stupenda squadra della John Murray, tra cui
Georgina Laycock, Caroline Westmore, Nick Davies, Juliet Brightmore
e Lyndsey Ng.
Alla Knopf vorrei ringraziare una squadra ugualmente stupenda, tra
cui Edward Kastenmeier, Emily Giglierano, Jessica Purcell e Sara
Eagle. Un grazie particolare e molto sentito al mio meraviglioso amico
e agente Patrick Walsh, che per più di un decennio ha voluto che
scrivessi un libro su Alexander von Humboldt e che per primo mi ha
portato in Venezuela dieci anni fa. Avete lavorato in maniera
incredibilmente serrata a questo libro – riga per riga. Il libro sarebbe
stato molto diverso senza di voi. E grazie per aver creduto in me ed
esservi presi cura di me. Senza di voi, mi sarei divertita molto meno
nella vita e sarei senza lavoro.
E un grazie enorme ai miei amici e ai miei familiari che hanno
sopportato pazientemente la mia febbre per Humboldt:
Leo Hollis che – come tante altre volte – ha incanalato le mie idee
nella direzione giusta e ha riassunto tutto in una sola frase. Il titolo è
merito tuo!
Mia madre, Brigitte Wulf, ancora una volta mi ha aiutato nelle
traduzioni dal francese e si è trascinata libri avanti e indietro dalle
biblioteche della Germania per me, mentre mio padre Herbert Wulf ha
letto tutti i capitoli in varie versioni. E grazie per essere venuti a
Weimar e Jena.
Constanze von Unruh ha riesaminato l’intero manoscritto –
guidandomi con schiettezza, intelligenza e incoraggiamenti attraverso
tutto il libro. Grazie di tutto e di tutte quelle serate.
Molti dei miei amici e dei miei familiari hanno letto capitoli in bozza
– rivedendoli per la stampa, facendo commenti e avanzando
suggerimenti; grazie a Robert Rowland Smith, John Jungclaussen,
Rebecca Bernstein e Regan Ralph. Un grazie speciale per Regan che è
l’amico più splendido e mi ha offerto una seconda casa – ed è venuto
con me a Yosemite. Grazie davvero. Vorrei ringraziare anche Hermann
e Sigrid Düringer per avermi consentito di soggiornare nel loro
bell’appartamento berlinese durante il periodo di ricerca che vi ho
trascorso, e mio fratello Axel Wulf per le informazioni sui barometri,
nonché Anne Wigger per l’aiuto sul Faust. Un grande ringraziamento a
Lisa O’Sullivan che è stata una grande sostenitrice e amica… che si è
presa cura di me con inflessibile determinazione quando ero bloccata
nel suo appartamento di New York durante l’uragano Sandy. Sei ora
un membro certificato della mia squadra apocalittica.
Il ringraziamento più grande va alla mia migliore e più vecchia
amica Julia-Niharika Sen che ha esaminato l’intero manoscritto,
parola per parola, più e più volte – smontandolo e poi aiutandomi a
rimetterlo insieme. E grazie per essere venuta con me in Ecuador e in
Venezuela – passando le vacanze a seguire le orme di Humboldt.
Invece che spiagge e cocktail, c’erano, tarantole e mal di montagna.
Trovarmi con te a 5.000 metri sul Chimborazo è stato uno dei
momenti migliori della mia vita. Ce l’abbiamo fatta! Grazie di esserci.
Sempre. Senza di te non sarei riuscita a scrivere questo libro.
Il libro è dedicato alla mia meravigliosa e intelligente sorella Linnéa
che ha dovuto convivere per molto tempo con Humboldt. Grazie di
essere la migliore delle sorelle. Mi hai reso completa. E felice.
Nota sulle pubblicazioni di Humboldt1
ALTRE PUBBLICAZIONI
COSMOS
PERSONE E ARCHIVI
ALTRE ABBREVIAZIONI
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Crediti illustrazioni
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in alto/photo Gerhard Murza. © Humboldt-Universität Berlin:
4/Alexander von Humboldt, Geographie der Pflanzen in den Tropen-
Ländern, ein Naturgemälde der Anden (1807), photo Bridgeman
Images. By permission of The Linnean Society of London: 8 in
alto/Ernst Haeckel, Kunstformen der Natur (1899-1904). Wellcome
Library, London: pp. 1, 2, 5 in alto/Alexander von Humboldt, Vues des
Cordilleres (1810-1813); 5 in basso/Traugott Bramme, Atlas zu Alex. v.
Humboldt’s Kosmos (1851); 6 in alto/Heinrich Berghaus, The Physical
Atlas (1845).
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