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Acquisito il paradigma machiavelliano proveremo ad applicarlo per definire una nuova teoria

politica, ma prima volevo riprendere un interessante contributo di Massimo Morigi che ci consente
di articolare ulteriormente la definizione del repubblicanesimo. Libertà come non interferenza del
potere o libertà come non dominio? Morigi ha effettuato un ribaltamento dei termini della
questione, potenzialmente in grado di mettere fine alla diatriba, se non fosse che «il dibattito
(accademico) deve continuare», ponendo la libertà come estensione e diffusione nella società del
potere. In una serie di interventi, che mi auguro possano trasformarsi in un contributo più
sistematico, egli ha delineato un «repubblicanesimo geopolitico», nel quale «l’accento è messo sul
potere come energia generatrice di libertà mentre il marxismo classico vuole una società dove i
rapporti di forza siano estinti (fine della storia, estinzione dello stato). Secondo perché se per il
marxismo l’agente generatore di una società più libera è il proletariato, per il Repubblicanesimo
Geopolitico l’agente per una maggiore libertà sono proprio quelle forze ed energie (quindi anche il
proletariato ma pure le forze che vi si contrappongono) che scontrandosi originano una dialettica del
potere che è alla base per un concreto e non astratto ampliamento della sfera della libertà (sottolineo
che questa della conflittualità come origine della libertà e/o della forza di una comunità politica non
è certo molto originale discendendo direttamente da Machiavelli e dalla sua spiegazione della forza
militare degli antichi romani, la quale, secondo il Segretario fiorentino, discendeva direttamente
dalla lotta fra patrizi e plebei che trovava una sua valvola di sfogo nella espansione territoriale di
Roma). E queste forze ed energie per il Repubblicanesimo Geopolitico possono trovare la loro
piena espressione solo a condizione che il quadro geopolitico in cui questa comunità vive la sua
esperienza storica sia favorevole a che questa comunità possa irrobustire la sua identità e, di
conseguenza, progettare e lottare per sempre maggiori spazi di libertà»26.
Inoltre, Morigi in un’intervista video27 sottolineava che che la divisione fra dominanti e dominati
non deve condurre alla conclusione apparentemente logica che i dominati non decidono. I dominati
decidono a loro modo, possono decidere di seguire o non seguire i dominanti, oppure se costretti
possono decidere di seguire i dominanti in modo passivo, oppure facendo resistenza fino al
sabotaggio. I romani lo sapevano benissimo ed è per questo che erano consci della necessità di
coinvolgere il popolo, che costituiva la base dell’esercito, nelle decisioni. Gianfranco Campa, un
«repubblicano» di origine italiana trasferitosi negli Usa, «appartenente prima al mondo militare e
poi a quello delle forze dell’ordine», ha scritto un articolo28 in cui descrive a tinte fosche lo stato
mentale dell’esercito statunitense dove imperversano malattie mentali, uso e abuso di droghe, alcol
e psicofarmaci. Non è difficile capire perché i soldati rifiutano intimamente il loro ruolo pur
essendo costretti ad esercitarlo per avere un salario. È evidente che l’essere pagati non è un motivo
sufficiente per uccidere o essere uccisi, quando si è consapevoli che la propria famiglia non ha
nessuna garanzia di appartenenza ad un sistema sociale che la protegga dal finire in mezzo alla
strada (e negli Usa è molto facile che ciò accada). E quando non si capiscono i motivi per cui si
combatte una determinata guerra, se non che questa guerra non migliorerà le condizioni della
propria classe sociale. Le classi dominanti statunitensi non possono contare pienamente sul proprio
esercito, ma proprio questo le rende molto pericolose, perché le può spingere ad una soluzione
«tecnica» (cioè facendo affidamento su armi micidiali) della propria crisi di egemonia.

Bisogna ricercare un assetto che prenda atto realisticamente della competizione per le sfere
d’influenza fra le potenze eredi delle grandi civiltà, compresa la possibilità di conflitti locali e a
margine delle linee di faglia degli stati eredi delle grandi civiltà, senza però che questo degeneri nel
conflitto di civiltà. Il timore, anzi l’orrore, per le conseguenze probabili di una collisione diretta tra
civiltà è ciò che deve guidare in negativo le relazioni internazionali. Per l’«occidente» si
richiederebbe una decisa inversione di rotta dall’imperialismo da cui è sorto il globalismo (cioè la
tendenza al dominio mondiale) ad un territorialismo che curi l’ordine interno. La campagna
elettorale di Trump è stata improntata a un «protezionismo» che sembrava riflettesse in una certa
misura il desiderio di una inversione di tendenza, ma naturalmente ora eletto non sta mantenendo
nessuna promessa. Dicono perché costretto dal «deep state» (cioè dal potere effettivo nascosto, il
vero stato), ma temo che quei settori delle classi dominanti che hanno sostenuto Trump non hanno
avuto fin dall’inizio l’intenzione di effettuare una seria inversione di marcia. Il «populismo
dall’alto» non potrà mai funzionare, se non si incontra con «populismo dal basso». Mi chiedo
quanto le classi dominanti possano abusare del popolo nella loro infinita arroganza, finché i
cittadini non decidano che sia il tempo di dare loro una lezione. Tra l’altro negli Usa si è conservato
uno dei principi fondamentali del repubblicanesimo, cioè la possibilità per il popolo di portare le
armi. Di solito si vuole discreditare questo principio sacrosanto attribuendogli la responsabilità
dell’alto tasso di violenza. Accusa infondata in quanto in Canada e in Svizzera, dove ugualmente la
possibilità di portare liberamente le armi è sancita dalla costituzione, vi sono tassi di mortalità per le
armi da fuoco simili a quelli europei, mentre in varie nazioni dell’America Latina dove non vi è
questo diritto costituzionale i tassi di mortalità sono più alti di quelli statunitensi.
Un radicale cambiamento di indirizzo degli Usa dal globalismo alla cura dell’ordine interno non è
possibile senza cambiamento radicale della sua struttura interna. Tale cambiamento sembra molto
difficile nelle condizioni attuali, ma l’alternativa è il declino e il disfacimento interno, oppure la
ricerca di una «soluzione tecnica» della crisi attraverso le micidiali armi attuali che comporterebbe
una catastrofe mai vista nell’intera storia dell’umanità. Anche se non credo che comporterebbe la
fine del genere umano, si tratterebbe comunque di una catastrofe di proporzioni inenarrabili.
Siamo ad una tappa decisiva, che impone un radicale cambiamento di indirizzo, di un percorso
iniziato oltre tre millenni fa. Ciò che Jaspers chiama il periodo assiale andrebbe visto come un
percorso in cui l’essere umano è passato dalla soggezione verso la natura al tentativo di
conquistarla. Non credo che la volontà di non essere in balia della natura sia in sé sbagliata,
sicuramente vanno capite bene le modalità e i rischi che essa comporta. Innanzitutto l’essere umano
può conquistare uno spazio di preminenza all’interna della natura, ma non può pensare di mettersi al
di sopra di essa perché da essa è generato. Come aveva ben capito Jaspers è proprio attraverso
l’insensato proposito dell’essere umano che la natura ristabilisce la preminenza. «La soggezione
dell’uomo alla natura è resa manifesta in maniera nuova dalla tecnica moderna. La natura minaccia
di sopraffare in modo imprevisto l’uomo stesso, proprio mercé il dominio enormemente maggiore
che questi ha su di essa. Attraverso la natura dell’uomo impegnato nel lavoro tecnico, la natura
diventa davvero la tiranna dell’essere umano. C’e il pericolo che l’uomo sia soffocato dalla seconda
natura, a cui egli da vita tecnicamente come suo prodotto, mentre può apparire relativamente libero
rispetto alla natura indomata nella sua perpetua lotta fisica per l’esistenza.»
Heidegger nell’analisi della illimitata volontà di potenza a cui Nietzsche diede l’espressione più
pregnante, e che non fu certo solo della Germania nazista, scrisse: «La volontà di potenza non è
soltanto il modo in cui e il mezzo mediante il quale accade la posizione di valori, ma è, in quanto
essenza della potenza, l’unico valore fondamentale in base al quale viene stimata qualsiasi cosa che
deve avere valore o che non puo pretendere di averne. «Ogni accadere, ogni movimento, ogni
divenire come uno stabilire rapporti di grado e di forza, come una lotta… . Chi è che in tale lotta
soccombe è, in quanto soccombe, nel torto e non vero. Chi è che in questa lotta rimane a galla è, in
quanto vince, nella ragione e nel vero. Per che cosa si lotti è, pensato e auspicato come fine con un
contenuto particolare, sempre di importanza secondaria. Tutti i fini della lotta e le grida di battaglia
sono sempre e solo strumenti di lotta. Per che cosa si lotti è già deciso in anticipo: è la potenza
stessa che non ha bisogno di fini. Essa è senza-fini, così come l’insieme dell’ente privo-di-valore.
Questa mancanza-di-fini fa parte dell’essenza metafisica della potenza. Se mai qui si puo parlare di
un fine, questo fine è la mancanza di fini dell’incondizionato dominio dell’uomo sulla terra. L’uomo
di questo dominio è il super-uomo (Uber-Mensch)»37.
Frank Coleman, nell’analizzare il rapporto tra Hobbes e l’Antico Testamento, ritiene che nella
misura in cui «il capitalismo è ciò che genera la percezione di un difetto nella natura, è anche il
capitalismo, assistito dalla scienza moderna, che mostra ad Hobbes la via d’uscita. Il modo in cui il
capitalismo ci libera dalla presenza di un difetto nella natura è attraverso il progetto di derivazione
biblica di dominio sulla terra. I poteri del Dio dell’Antico Testamento sono riattribuiti al capitale e
alla scienza moderna che procede quindi alla produzione di un artefatto della società civile che fa da
parallelo e da rinforzo all’artefatto costituito dallo stato. […] Non è tanto il ruolo politico assegnato
al capitalismo e alla scienza in sostegno allo stato moderno che è di interesse, ma il concetto che di
natura ad esso sottostante. L’idea di derivazione biblica della natura quale artefatto, lasciatemi
sottolineare, soggiace allo stato leviatano, alla scienza moderna, e al capitalismo nella teoria
hobbesiana»38.
Seppure l’Antico Testamento ha giocato un ruolo fondamentale, io credo esso vada collocato nella
cornice più ampia del movimento del pensiero umano costituito dal periodo assiale. Non a caso
l’Artefice, il Creatore, the Maker (secondo la lingua inglese) ha un suo antenato nel Demiurgo
platonico, figura che nasce dal e allo stesso tempo intende superare il netto dualismo tra mondo
delle idee e realtà sensibile. Il trascendentalismo dominante durante il periodo assiale, che si
differenzia rispetto ad un periodo precedente dominato da religioni immanenti alla natura, è
l’espressione della volontà dell’essere umano di porsi al di sopra della natura. Poiché ciò che
trascende l’essere umano è la natura da cui esso è generato, spostare la trascendenza dalla natura
allo spirito, determinando una netta contrapposizione tra materia e spirito, tra corpo e anima,
significa porre la trascendenza nell’intelligenza, in ciò che l’uomo ritiene che lo ponga al sopra
degli altri esseri viventi, restringendo il significato di natura che nell’accezione dei greci
comprendeva l’intero cosmo, alle sole «creature» viventi.
Il peccato maggiore dei moderni, prima che due guerre mondiali e la Bomba spegnessero le
illusioni, è stata la hybris. Prometeo fu trasformato in una figura positiva, mettendone in secondo
piano la tragicità. Persino Goethe, il più equilibrato di tutti, non fu esente da questa distorsione.
Eppure se Prometeo fu condannato ad un pena terribile non fu senza ragione. Non tanto per aver
rubato il fuoco agli Dei, quanto per aver pensato in questo modo di rendere gli uomini simili ad essi.
Il peccato della hybris consiste nell’illusione di poter diventare padroni della natura, dimenticando
che siamo sempre soggetti ad essa. Massima è la hybris di Marx secondo il quale sarebbe stato
possibile padroneggiare addirittura la Storia, prevederne gli esiti. La storia e la natura hanno le loro
radici nell’Ignoto, non sono prevedibili e padroneggiabili nei loro fondamenti ultimi. Far fronte a
tale condizione esistenziale è compito degli esseri umani, ma senza pensare di poter padroneggiare
ciò da cui siamo stati generati. Engels, un pensatore originale scrisse che la natura «si vendica di
ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti in prima istanza le conseguenze sulle quali avevamo
fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto impreveduti, che troppo spesso
annullano a loro volta le prime conseguenze (…). Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non
dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato (…). Tuttavia il
nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di
conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato»39.
Quando leggiamo Machiavelli lo sentiamo come un moderno, qualcuno che parla di un mondo che
è anche il nostro, ma riguardo al rapporto dell’uomo con la natura appare la diversità del «pagano»
Machiavelli portavoce di una modernità diversa rispetto a quella che ha prevalso.
«Quanto alle cause che vengono dal cielo, sono quelle che spengono la umana generazione, e
riducano a pochi gli abitatori di parte del mondo. E questo viene o per peste o per fame o per una
inondazione d’acque: e la più importante è questa ultima, sì perché la è più universale, sì perché
quegli che si salvono sono uomini tutti montanari e rozzi, i quali, non avendo notizia di alcuna
antichità, non la possono lasciare a’ posteri. […]. E che queste inondazioni, peste e fami venghino,
non credo sia da dubitarne; sì perché ne sono piene tutte le istorie, sì perché si vede questo effetto
della oblivione delle cose, sì perché e’ pare ragionevole ch’e’ sia: perché la natura, come ne’ corpi
semplici, quando e’ vi è ragunato assai materia superflua, muove per sé medesima molte volte, e fa
una purgazione, la quale è salute di quel corpo; così interviene in questo corpo misto della umana
generazione, che, quando tutte le provincie sono ripiene di abitatori, in modo che non possono
vivervi, né possono andare altrove, per essere occupati e ripieni tutti i luoghi; e quando la astuzia e
la malignità umana è venuta dove la può venire, conviene di necessità che il mondo si purghi per
uno de’ tre modi; acciocché gli uomini, sendo divenuti pochi e battuti, vivino più comodamente, e
diventino migliori»40.
Vediamo quindi come Machiavelli ripristina spontaneamente la trascendenza nella natura. La
modernità dalla antica visione del mondo si rivela tutta in queste parole che dovrebbero essere da
monito per noi viventi. Se gli esseri umani non riusciranno ad invertire la tendenza riparando ai
mali prodotti da un percorso millenario, che non è condannare in sé, quale volontà dell’essere
umano di non essere in completa balia della natura, ma solo nell’illusione di poter soggiogare la
natura, dimenticando che essa stabilisce comunque la sua preminenza rispetto al singolo individuo.
Il Grande Falegname (per quelli del tempo della Bibbia) o il Grande Ingegnere Interstellare per
quelli di oggi è un concetto antropomorfico. C’è bisogno di un concetto che indichi l’esistenza di
ciò che trascende la capacità di comprensione umana o che l’essere umano può cogliere in minima
parte senza poterla esaurire, possiamo chiamarlo Dio, Infinito, Natura. E’ da superare il concetto di
Dio creatore della natura (che il settimo giorno si riposò), perché è una proiezione dell’illusione
umana di dominare la natura.
Se non si metterà il massimo impegno a invertire una «crescita» che ormai somiglia più al
diffondersi di una metastasi e ristabilire un equilibrio allora sarà la natura a farlo. Questo non vuol
dire affatto porsi dalla parte della «de-crescita», quel semplicismo per cui basta mettere il segno
negativo al valore della «crescita». Sapranno conquistare l’egemonia quei sistemi sociali che
sapranno indicare ai popoli un diverso modello qualitativo di sviluppo.
Siamo oggi nel crepuscolo del Demiurgo. Si spera che la notte che incombe non sia illuminata da
esplosioni nucleari.
Non il pacifismo, né il buonismo, questi due figli ipocriti della carità cristiana, entrambi arruolati
dal globalismo, ma la virtù machiavelliana può ispirare uno spirito di antagonismo nei confronti
dell’Idra le cui teste sono sparse in tutto il globo, l’Apparato di potere che rischia di devastare
l’intero mondo nella sua agonia. Il pericolo maggiore è che l’Idra-Apparato voglia ricorrere alla
Tecnica (nello specifico all’utilizzo delle armi atomiche su vasta scala), sulla quale ha fatto sempre
affidamento prioritario, per impedire o ritardare la sua fine, perché non può ricorrere alla virtù che
da tempo ha soffocato nei suoi sottoposti. Il compito prioritario degli «occidentali» sarebbe
distruggere questo mostro che altrimenti li porterà alla rovina. Siamo sulla strada che porterà ad uno
scontro generalizzato che ridefinirà i rapporti inter-nazionali, acquisiranno un ruolo di primo piano
le società che faranno affidamento non solo sulla superiorità tecnica degli armamenti, ma sulla loro
maggiore compatezza, sul maggiore attaccamento dei loro cittadini al proprio stato, al proprio
sistema sociale, alla proprià civiltà. Gli occidentali questo attaccamento non l’hanno, troppo marce
sono diventate le società occidentali, troppo piene di diseguaglianza e plateali ingiustizie, troppo
pieni di menzogne i programmi dei partiti politici, inqualificabili sono i media occidentali si
dedicano deliberatamente al rimbambimento dei loro spettatori e a suscitare tutti i più miseri
particolarismi.
Prepariamoci psicologicamente e fisicamente, non esiste una netta distinzione, a tempi difficili. La
cosa peggiore è la fuga dalle realtà degli «occidentali», ma per chi non vuole essere in balia degli
eventi, per chi ritiene che la dignità dell’essere umano consista nel tentare almeno di far fronte ai
colpi della Fortuna, Machiavelli è sicuramente un compagno di strada.
1Pocock, Il momento machiavelliano, ed. it. II vol. p. 389. Ho semplificato i riferimenti
bibliografici, con gli attuali strumenti informatici è molto facile ritrovare i testi citati. Inoltre, poiché
ho utilizzato la versione digitale di molti testi, ho inserito il numero di pagina solo quando era
disponibile, non l’ho inserito nel caso di articoli e introduzioni. L’eventuale lettore interessato al
contesto da cui sono tratte alcune citazioni non farà fatica a ritrovarlo. Vorrei infine ringraziare che
ha allestito il sito http://gen.lib.rus.ec/, dove ho reperito tantissimi testi e senza il quale non avrei
potuto portare a termine questo lavoro.
2 Marco Geuna, Introduzione a Skinner, La Libertà prima del liberalismo, p. XVII
3 M. Geuna, Introduzione a Philip Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del
governo, p. 28

5 M. Geuna, Introduzione a Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo


6 Chabod, Scritti su Machiavelli, p. 77

8« …tener ricco il pubblico, povero il privato, mantenere con sommo studio li esercizi militari, sono
le vie a far grande una Repubblica» Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio
9William J. Connell, L’espansione come telos dello stato
10 «Se però è corretto definire Impero “una organizzazione tale che in essa l’unità non agisca in
modo distruttivo e livellatore nel riguardo della molteplicità etnica e culturale da essa compresa”, a
ragione si può affermare con de Benoist che l’Impero romano, sotto questo profilo è un esempio
particolarmente illuminante: nell’Impero romano la tolleranza religiosa è la norma, esiste una
doppia cancelleria imperiale, in Egitto si continua ad applicare il diritto indigeno spolverato di
diritto greco e il diritto ebraico continua ad essere valido per gli ebrei. Ogni comunità cioè ha il
diritto di organizzarsi in base alla propria tradizione, benché chi gode del diritto di cittadinanza
romana (concessa con l’editto di Caracalla del 212 d. C. a tutti gli abitanti liberi dell’impero) possa
sempre appellarsi alla giustizia imperiale. Insomma, il cittadino romano si trova a dipendere sia
dalla città in cui è nato sia dall’amministrazione imperiale. E Maurice Sartre giunge a sostenere: “Se
c’è un insegnamento che dobbiamo trarre dalla storia dell’Impero romano potrebbe essere proprio
questo: la coesione di un insieme tanto disparato che si basa sul rispetto di strutture locali
responsabili della gestione della vita quotidiana, guardiane delle tradizioni […] A conti fatti, il
rispetto delle identità culturali è più importante, a lungo termine, del successo economico o degli
imperativi strategici”, in quanto sono in gioco un modello di civiltà e un sistema di valori che si
ritiene di dover difendere “contro chi vorrebbe metterli in discussione, all’esterno (i barbari) o
all’interno (in particolar modo i cristiani)”». Fabio Falchi, L’impero come «grande spazio» . Vedi
l’intero articolo per una distinzione tra il concetto di impero e l’imperialismo. Anche se
personalmente preferisco utilizzare il termine territorialismo al posto di impero. (L’articolo si può
consultare sullo spazio dell’autore in academia.edu).
11da War and State Formation in Ancient China and Early Modern Europe Victoria Tin-Bor Hui,
un’apparentemente modesta ricercatrice accademica, ma dal pensiero affilato come la lama di una
katana, ha elaborato un interessantissimo saggio comparativo tra la sviluppo della Europa moderna
e quello della Cina antica. Putroppo, lo stato comatoso della cultura europea ha lasciato passare
inosservato questo saggio che pur ha ricevuto una serie di premi in ambito accademico statunitense.
12 Victoria Tin-Bor Hui, op. cit. p. 39
13Victoria Tin-Bor Hui, op. cit. p. 28
14 Arte della guerra
15Victoria Tin Hui, op. cit. p. 140-1. La citazione di Machiavelli è da Il principe
16… giudico il mondo sempre essere stato ad uno medesimo modo, ed in quello essere stato tanto
di buono quanto di cattivo; ma variare questo cattivo e questo buono di provincia in provincia,
come si vede per quello si ha notizia di quegli regni antichi, che variano dall’uno all’altro per la
variazione de’ costumi, ma il mondo restava quel medesimo: solo vi era questa differenza, che dove
quello aveva prima allogata la sua virtú in Assiria, la collocò in Media, dipoi in Persia, tanto che la
ne venne in Italia e a Roma. E se dopo lo Imperio romano non è seguíto Imperio che sia durato né
dove il mondo abbia ritenuta la sua virtú insieme, si vede nondimeno essere sparsa in di molte
nazioni dove si viveva virtuosamente; come era il regno de’ Franchi, il regno de’ Turchi, quel del
Soldano, ed oggi i popoli della Magna, e prima quella setta Saracina che fece tante gran cose ed
occupò tanto mondo, poiché la distrusse lo Imperio romano orientale. In tutte queste provincie
adunque, poiché i Romani rovinorono, ed in tutte queste sétte è stata quella virtú, ed è ancora in
alcuna parte di esse, che si desidera e che con vera laude si lauda.
1. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio
17 Pocock, Introduzione a James Harrington The Commonwealth of Oceana and A System of
Politics
18 M. Geuna, Rousseau interprete di Machiavelli
19 Victoria Tin-Bor Hui, op. cit. p.. 194
20 Max Weber, Storia economica, p. 227-8
21Crawford Brough Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese: la teoria
dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke
22Idem
23 Kant, Il conflitto delle facoltà
24Come sintetizza il titolo, From the state of princes to the person of the state, del capitolo finale
del II vol. di Vision of Politics
25Diversi testi di Marco Geuna sono disponibili sul sito academia.edu
26Gli interventi di Massimo Morigi sul Repubblicanesimo Geopolitico sono stati pubblicati dal sito
http://corrieredellacollera.com
27https://www.youtube.com/watch?v=VeOUHYC8zq8&t=533s
28http://www.cogitoergo.it/l%E2%80%99esercito-esaurito/
29E avvengaché quelli suoi re perdessono l’imperio, per le cagioni e modi discorsi; nondimeno
quelli che li cacciarono, ordinandovi subito due Consoli che stessono nel luogo de’ Re, vennero a
cacciare di Roma il nome, e non la potestà regia: talché, essendo in quella republica i Consoli e il
Senato, veniva solo a essere mista di due qualità delle tre soprascritte, cioè di Principato e di
Ottimati. Restavale solo a dare luogo al governo popolare: onde, sendo diventata la Nobilità romana
insolente per le cagioni che di sotto si diranno si levò il Popolo contro di quella; talché, per non
perdere il tutto, fu costretta concedere al Popolo la sua parte e, dall’altra parte, il Senato e i Consoli
restassono con tanta autorità, che potessono tenere in quella republica il grado loro. E così nacque la
creazione de’ Tribuni della plebe, dopo la quale creazione venne a essere più stabilito lo stato di
quella republica, avendovi tutte le tre qualità di governo la parte sua. E tanto le fu favorevole la
fortuna, che, benché si passasse dal governo de’ Re e delli Ottimati al Popolo, per quelli medesimi
gradi e per quelle medesime cagioni che di sopra si sono discorse, nondimeno non si tolse mai, per
dare autorità agli Ottimati, tutta l’autorità alle qualità regie; ne si diminuì l’autorità in tutto agli
Ottimati, per darla al Popolo; ma rimanendo mista, fece una republica perfetta: alla quale perfezione
venne per la disunione della Plebe e del Senato
30Polibio, Storie (Libro VI) L’eccellenza della costituzione romana
31Slavery and Social Death
32Sull’individualismo di Marx vedi Louis Dumont, Homo aequalis
33Michael Hardt (Autore), Antonio Negri (Autore), A. Pandolfi (a cura di), D. Didero (a cura di),
Impero
34Vedi in merito il lavoro di James H. Billington, Fire in the Minds of Men: Origins of the
Revolutionary Faith
35 Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio
36 N. Machiavelli, Istorie fiorentine
37 Nietzsche
38The prosthetic God: Thomas Hobbes, the bible, and modernity
39Dialettica della natura
40Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

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