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Vi è una serie di temi gravosi che concernono l’antichità, sui quali gli storici
ed i profani appassionati si accapigliano da sempre: la Troia di Omero, la
localizzazione di Itaca, il lineare A di Creta, l’esistenza dell’Atlantide e
l’origine degli Etruschi. E: la storicità di Gesù Cristo. Quando si tratta di
questi temi, gli eruditi si trincerano ognuno all’interno delle proprie linee
difensive, da dove più nessun vero contatto con l’altro campo è possibile.
Scommettendo su una certa concezione si sono rovinate intere reputazioni
scientifiche.
War Jesus Caesar? Gesù fu effettivamente lo stesso che Giulio Cesare? Dietro
questo titolo sconcertante e provocante si nasconde uno studio elaborato e
riccamente documentato del filosofo e linguista italiano Francesco Carotta. Se il
libro contiene anche solo un nucleo di verità, innesca una bomba sotto il
bimillenario Cristianesimo.
Tralasciando i veri credenti che prendono la parola del vangelo per assoluta, da
quando Ernest Renan nel 1862 nella sua Vie de Jésus, Vita di Gesù, mise
pubblicamente in dubbio la divinità di Cristo, rimane ai filologi, storici e
teologi seri ancora abbastanza materiale di discussione per continuare ad essere
fondamentalmente in disaccordo gli uni cogli altri. Quando poi arriva un outsider
con una teoria apparentemente ancor più astrusa, tutti gli scienziati che non
hanno avuto loro stessi quell’idea, serrano – è umano – le fila. Poiché, se questo
è vero, allora decine d’anni del loro lavoro sono da cestinare.
Quel che Carotta mette altresì in campo sul terreno della storia della cultura, è
altrettanto notevole. Molto si basa su circumstancial evidence, ma è di una tal
mole, che non può trattarsi di puro caso. Così per esempio i simbolismi utilizzati
sono strettamente apparentati. E vi è una lunga catena di nomi di luoghi e di
persone vicinissimi, che interpretano lo stesso ruolo sia presso Cesare che presso
Cristo. La vita e la morte di entrambi mostrano una lunga serie di paralleli,
incluso il tradimento da parte di un discepolo (Giuda come novello Bruto), dove le
vicende di Cristo possono venire interpretate come la traduzione simbolica e
depoliticizzata di quelle di Cesare.
L’esposizione di Carotta esige in ogni caso una critica seria ed una eventuale
confutazione. Si potrebbe per esempio controllare se egli non sorvoli scientemente
sugli aspetti che non combaciano, ben nota tendenza degli ‘outsider’ che cercano
di far quadrare per arrotondamento la loro ‘soluzione’ di vecchi enigmi. In nessun
caso però il suo lavoro può essere scartato come se fosse opera di un sognatore,
di un nuovo Erich von Däniken. E’ troppo basato su studi approfonditi in diversi
campi specialistici incluso quello linguistico. Presso Carotta gli dei non sono
cosmonauti, ma semplicemente il Messia adorato da duemila anni dalla Cristianità
non è un comune giudeo di Palestina, ma la clonazione inselvatichita
(bastaardkloon) di un romano onnipotente. In Vaticano e a Staphorst [NB:
Staphorst, roccaforte dei protestanti olandesi] si sono scelti soltanto la falsa
figura del Salvatore – cioè una fittizia.
E’ inoltre indubbio che il culto del dio Giulio era molto popolare anche
nell’oriente dell’impero, soprattutto presso i suoi soldati ed i loro discendenti.
Di questo culto a partire dal terzo quarto del primo secolo non si hanno più
notizie, senza che il suo scomparire venga notato dagli storiografi del tempo. E
proprio in quel momento emerge altrettanto improvvisamente nelle fonti una nuova
setta. Inizialmente non viene chiamata christiani ma (così in Tacito) chrestiani –
Christos sta in greco per ‘l’Unto’, Chrêstos per ‘il Buono’ – un epiteto
attribuito ufficialmente al dio Cesare e iscritto sui piedestalli delle sue statue
di culto. Un caso? Una confusione di scrittura o una simbiosi è presto fatta
quando in Palestina altre idee provenienti dal giudaismo e concernenti un Messia
compenetrano la religione del Divo Giulio importata da Roma.
Divo Giulio nella sua qualità di antidio imperiale era popolare soprattutto fra
coloro che si rifiutavano espressamente di rendere i dovuti onori divini
all’imperatore momentaneamente al potere – cosa che valse anche per i cristiani.
Un caso? Molti luoghi di culto del Divo Giulio nelle città fondate da Cesare o in
suo nome appaiono improvvisamente trasformati in chiese dedicate al Salvatore, e i
templi di Venere nelle stesse città nelle prime chiese della Madonna: un caso?
Cesare si considerava figlio di Venere, e quando lui stesso fu fatto dio, Venere
divenne conseguentemente madre di dio. Una speculazione? Certo, epperò in mancanza
di fonti abbondanti, senza speculazioni – purché fondate su argomentazioni sensate
– uno storico dell’antichità non può procedere.
Perché uno non pensi che Carotta faccia bruciar vivo Gesù, diciamo subito che
secondo l’autore “Gesù” era già morto da tempo. Quel che colpisce in Marco infatti
è che Gesù non proferisce più parola da quando egli dal 15 del mese di nizan viene
preso nel Gethsemani. Certo, in Giovanni seguono interi monologhi fin sulla croce,
non così però secondo il primo evangelista. Davanti agli scribi giudei, Gesù, noto
per la sua prontezza di parola e facondia – ‘in principio era il verbo’ –, a tutte
le domande non risponde più nulla, eccetto un breve insignificante ‘tu lo dici’.
L’audace conclusione di Carotta: “Gesù” in quel momento non era già più in vita –
e precisamente già dal momento della sua ‘cattura’. La scena nel Gethsemani,
accompagnata non a caso dal necessario sguainar di armi e da ferite,
corrisponderebbe all’assassinio di Cesare il 15 (!) di marzo del 44 a.C. E ciò che
poi segue nei vangeli, è una riproduzione del processo postumo (!) con susseguente
cremazione del corpo, come ampiamente descritto da Appiano, Svetonio e Dione
Cassio. Gli scribi sono presso di essi i senatori: patres conscripti, così stava
scritto in latino. La fonte di un ulteriore fraintendimento? Da Marco non risulta
poi che Gesù dopo il Getzemani si sia più mosso sulle proprie gambe – viene
continuamente ‘mandato’, ‘condotto’, ed infine ‘portato’ sul Golgotha. Ciò si può
fare in linea di massima, come parte di una particolare cerimonia, sostanzialmente
anche con un morto.
Notevole in questo contesto: il corpo di Cesare viene alla fine portato sul
Campidoglio. Capitolium significa in latino classico ‘luogo del cranio’ – proprio
come Golgotha. Sappiamo che fra gli elementi che più colpirono durante la
cremazione pubblica di Cesare, vi fu una grande croce (tropeo), che stava a capo
della bara e sulla quale venne fissata una figura in cera di Cesare divinizzato.
Al contempo, seguendo il costume romano, un attore – con una maschera del defunto
davanti alla faccia – proferì in nome del defunto alcune frasi significative.
Abbiamo qui i primi ‘antecedenti’ delle ultime parole di Gesù sulla croce.
Come è possibile che una storia che ha luogo a Roma venga trasferita così
facilmente in Palestina? Questo è dovuto al fatto che nel racconto romano
dell’ultimo periodo della vita di Cesare, i luoghi e le persone vengono quasi
sempre espressi in termini generali: Non Roma, ma ‘la città’, non Cesare, ma ‘il
salvatore’, ‘il gran sacerdote’, ‘Egli’, oppure – ‘il figlio di Dio’. Sinedrio,
come viene chiamato il collegio degli scribi, era un termine greco usato
comunemente per indicare il Senato di Roma. E i romani erano dappertutto.
Gli unici che vengono nominati espressamente, sono i giudei: essi infatti erano
presenti anche a Roma. Ma in un ruolo affatto diverso da quello che hanno nel
nuovo testamento. Le tinte fosche in cui vengono lì dipinti si devono a Paolo,
che, come è noto, ha dato praticamente al cristianesimo la sua forma. Anche dietro
Paolo si nasconde secondo Carotta un personaggio storico, e la sua
particolareggiata e dettagliata tesi al riguardo non è meno sensazionale. Chi vuol
sapere come stanno precisamente le cose, deve leggere il saggio di Carotta.