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Narrativa

Lina Danielli

il malo sogno

Romanzo
Bononia University Press
Via Farini 37
40124 Bologna
tel. (+39) 051 232882
fax (+39) 051 221019

© 2012 Bononia University Press

ISBN 978-88-7395-769-0

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I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,


di riproduzione e di adattamento totale o parziale,
con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm
e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.

Progetto di copertina e impaginazione: Irene Sartini

Stampa: Editografica (Rastignano - Bologna)

Prima edizione: ottobre 2012


A Franco
Luoghi ove si svolgono le azioni narrate

Bologna
La stamperia di strà San Vitale; la casa di strà dell’Altabella; palaz-
zo Bolognetti; palazzo Zambeccari; palazzo Malvasia; i portici e la
chiesa di via Santo Stefano; il palazzo dei signori Bolognini; palazzo
Pepoli; palazzo Albergati; palazzo dell’Archiginnasio; il portico del
Pavaglione; il Foro dei mercanti e il Quadrivio della gabella; l’Ospe-
dale della Morte; il Tribunale del Torrone; vicolo Olanda; il Monte
di Pietà; i Banchi di prestito degli ebrei; il collegio degli studenti di
Spagna; la taverna del Sole; l’edificio della Dogana; le mura della città;
il Mercato di mezzo; la torre Asinella e la Garisenda; strà Maggiore;
vicolo Alemagna; l’oratorio delle suore Vallombrosiane; la chiesa di
San Pietro; la chiesa di San Mattia; la certosa della città; la parrocchia
di Sant’Isaia; la chiesa di San Domenico; via San Mamolo; le case del
Guasto dei Canetoli; l’Accademia dei Gelati; il voltone del Baraccano;
la piazza Grande; il tempio di San Petronio; via Nosadella; via de’
Bastardini; via dei Frassini; borgo della Saragozza; il Pradello; il porto
Navile

Casalecchio di Reno
Palazzo del Toiano; l’ospedale dei canonici renani (spezieria); la chiesa
di San Martino; l’osteria del Calza

Rupe di Sasso
Segreti rifugi

Isola di Malta
La Valletta

Roma
Palazzotto del cardinale Santarcangelo; ponte Sant’Angelo

Crespellano
La casa di una debitrice

Cesena
La Biblioteca di Novello Malatesta e la casa del custode
Val di Zena
La casa del torcoliere

Prato
La casa di Lucco

Gambulaga
La casa di Timoteo Domenico Medori

Modena
La casa di una bottonaia; il Duomo

Crevalcore
Castello Palata Pepoli

Personaggi

Banchieri Adriano, compositore


Barigello, capo della polizia
Bolognetti Camillo, conte, marito di Dorotea
Bolognetti Sulpizia, madre di Camillo
Bolognetti Vincenzo, fratello naturale di Camillo
Carracci Ludovico, pintore
Castaldi Ciriaco, beccaro
De Sangri monsignore, legato pontificio
De’ Lelli Matteo, fattore
Desideri Calidonia, faccendiera
Donato, stalliere
Girometta, custode della farmacia dei veleni
Giustiniani Alessandro, cardinale giudice del tribunale del Torrone
il bresciano, recitante
il torcoliere e l’impressore
Leone XI, papa
Lepido, coppiere
Levante Ludovico, dissettore dello Studio
Lucco, gazzettiere e autore
Malvasia Fulgenzia, zia di Dorotea
Malvasia Zambeccari Virginia, madre di Dorotea
Marco Antonio don, parroco di Casalecchio
Mazzoni Toselli Ottavio, scrittore di delitti
Menelao d’Alessandria, scienziato
Michele, servo di Camillo Bolognetti
Moscatelli Giovanni Paolo, stampatore
Orsina, donzella di Dorotea
Palmieri Sebastiano, cavaliere e amico dei fratelli Zambeccari
Paola, serva
Pepoli Guido, cardinale
Pepoli Filippo, conte e amante di Dorotea
Roero Sigismondo, cavaliere di Malta
Sabino, messo di palazzo
Sambuca, maga
Sante, credenziere
sgherri
Strufiàn e gente del Pradello
Timorato Domenico Medori, alias Timorato D., scriba
Valli Aldo, inventore di strà dell’Altabella
Ventarole Bartolomeo dalle, editore
Zambeccari Bolognetti Dorotea
Zambeccari Camillo, fratello di Dorotea
Zambeccari Carlo, fratello di Dorotea
Zambeccari Paolo, capitano padre di Dorotea
Sommario

Affezionarsi alle antiche polveri 13

Capitolo primo 15

Prima puntata 24

Capitolo secondo 47

Seconda puntata 54

Capitolo terzo 70

Terza puntata 95

Epilogo
Il volo nuziale delle formiche alate 125
Affezionarsi alle antiche polveri

Chi s’appresta a scrivere un romanzo, cosiddetto storico, oltre


la visione d’insieme è tenuto a fare i conti con una molteplicità
di cose concrete, tutte da battezzare. Vie contrade piazze e mez-
zi di trasporto, oggetti quali mobili suppellettili vesti e arredi,
riportati sulla pagina con il loro esatto nome, risuscitano la vita
del tempo come le percezioni, se ben definite, arrivano a toc-
care i sensi degli uomini d’oggi. Volendo dare corpo e anima a
un mondo tanto complicato e diverso, mi sono resa curiosa di
tutto: dai documenti storici alle celesti idee passando attraverso
inventari di case, note di botteghe, notizie di banco, rogiti no-
tarili, tele d’artisti, diari di viaggiatori o di devoti pellegrini. E
a una perlustratrice di antiche carte con il gusto per l’accumulo
capita d’affezionarsi alle polveri d’archivio, su cui lenta si depo-
sita la memoria del tempo. Con questa variegata dote ho sposa-
to il mio romanzo. Che prende inizio, nei primissimi anni del
Seicento, da un delitto per avvelenamento commesso da illustri
aristocratici presso il palazzo del Toiano, nelle campagne non
distanti da Bologna. Un crimine come tanti destinato a non fare
notizia perché l’inquisizione stringeva i lacci attorno alle stam-
pe di sconveniente argomento. È nata, così, l’idea d’inventare
una verosimile trama con protagonisti un gazzettiere, vale a dire
un giornalista prima dei giornali, e uno stampatore, alias il suo
editore. Entrambi passionati di scrivere e pubblicare lo scon-

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veniente Caso del Toiano alla faccia dei divieti e in nome della
verità. Del tragico evento esiste una cronaca redatta in tempi
largamente successivi, nei Racconti storici estratti dall’Archivio
criminale di Bologna di Ottavio Mazzoni Toselli (Bologna 1870,
tomo I, pp. 260-266), si legge: Zambeccari Dorotea in Bolognet-
ti barbaramente uccisa dal marito. Segnalo anche l’opera che ha
dato inizio e spunto alle mie ricerche d’archivio: Storia di Bolo-
gna. Bologna nell’età moderna, a cura di Adriano Prosperi, (Bo-
logna 2008). Da ultimo, mi sta a cuore sottolineare il debito
sovrano della lingua del testo con il lessico i proverbi i detti di
Giulio Cesare Croce. Con buona pace del grande scrittore per-
sicetano, l’operetta il Bertoldo è coeva al fatto narrato. Il testo di
riferimento è: Le astuzie di Bertoldo e le semplicità di Bertoldino,
a cura di Piero Camporesi (Milano 2004).
Ringrazio la signora Grazia Montebugnoli, proprietaria del pa-
lazzo del Toiano, che mi ha fatto avere documenti importanti
per la ricostruzione dell’antico delitto.

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Capitolo primo

Bologna, mese d’Aprile Anno D. 1606


Nella casa del gazzettiere Lucco e nella bottega dello stampatore
Moscatelli

«Orsina, fu un malo sogno o s’è vivi per grazia ricevuta?»


Guata la donna distesa a capa ingiù sopra il matarazzo con la
treccia scura sparpagliata, che pare una biscia. Principia, Lucco,
a girellare per la stanza, alza la mano sinistra ferita e urla: «Inve-
ce è tutto horrendamente vero!»
Lei, fatto un balzo, ripiomba nel sonno mentre il gazzettiere,
afferrati scartabello e matita, descrive per filo e per segno le fasi
del massacro, che entrambi viddero.
All’alba, si porta nella stamperia di strà San Vitale. È serrata
ma Giovanni Paolo Moscatelli habita sopra, due colpi secchi e
la porta s’apre.
«Chi v’insegnò ad entrare nelle case a quest’hora?»
«Mastro, non è tempo di creanza. Leggete».
In sulla soglia, l’editore scorre le paginette poscia pacata-
mente dimanda: «E codesta sarebbe la vostra Relazione sul bu-
cato in Villa dei conti Bolognetti?»
«Moscatelli, con quel che è occorso a palazzo vorreste forse
una narrazione fresca, una coserellina vezzeggiata dal venticel-
lo alla presenza di lor signori tutti contenti? Or dunque, fatemi
accomodare!»

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Una volta dentro, piomba in su di una scranna dinanzi a
Giovanni Paolo che si stringe al petto la camiscia, peraltro spor-
caccina, da cui sbucano due gambette esili con scarsi peli, solca-
te da vene grosse come cordoni.
«Svegliatevi, omo di bottega! Di mio, avrei già messo in
moto il torchio onde dar alle stampe un Avviso».
L’altro si move verso la seconda stanzetta ove, accanto al let-
to, si trova un bacile con sopra una brocca. Data l’acqua alle
mani e alla faccia, piglia un drappo, s’asciuga con il bordo e gri-
da: «State ai patti, voi, e consegnatemi la coserellina sul bucato
verso il mezzodì».
Mai e poi mai, pensa il nostro, mentre s’accomiata sanza un
cenno di saluto.
Lo stampatore pare intuire qualcosa se, una volta sceso in
bottega, si mostra non chéto e lamenta che i garzoni sono las-
si e…: «Ove s’è ficcato quell’assonito d’un impressore in luo-
go di allineare le maiuscole e le minuscole nella cassettina de’
piombi?»
«Sono qua a scopettare le due colonne, la base e i piani del
torchio che non basta ’na giornata a finire tutto».
Invece sta trastullandosi con il gatto, un certosino dalla coda
mozza lì accovacciato.
«Onde mettervi in piè, dovrei pubblicar so poi io cosa. E te-
nete a mente che da questa officina sortirono fogli celebri grazie
a mio padre Antonio!»
«Mastro», dimanda il torcoliere dalle braccia assai robustose
a furia di dare di gomito in sulla leva della macchina, «allora ’sta
volta faremo una roba seria?»
«Taci, bestiaccia! Da noi non si move foglia…».
«Che l’inquisizione non voglia», conclude il vispo, «e voi già
subiste una visita per via di quella Corrispondenza…».
«Giudicata eretica e poscia assolta dall’accusa… cionono-
stante lo vedesti mai tu il sussidio che lor signori danno agli
stampatori?»
“Che soggetto!”, pensa il garzone. E guardalo davanti al giu-
ramento imposto dall’Indice, in bella vista lungo la parete, men-
tre recita a modo suo le sacrosante formule.
“…Attento ai libri che stampi, occhio ai garzoni e ai loro

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trascorsi che hanno da esser chiari come l’acqua di fonte, non
prestare mente alle lusinghe di chi possieda o legga opere prohi-
bite, e revisiona i testi con ogni diligenza possibile…”.
Tanto siamo tutti dentro queste ragne, caro mastro! E tiria-
mo fogli sanza cibo sodo con historiette, vecchie o zeppe di pi-
pistrelli vestiti alla turchesca, sperando di far cassa con qualche
celebrazione o per un incendio occorso alla fiera di Lugo.
“Povero Lucco”, sta dicendo tra sé Giovanni Paolo, “in qual
mala ventura è incappato per causa mia!”
“Che tirchio sei diavolaccio d’un Moscatelli”, pensa Lucco
nella casa di strà dell’Altabella. In vero, fu lo stampatore a farlo
correre nella Santa settimana dietro la gloria d’un bucato con
le dita dei pie’ strette contro il duro cuoio dei suoi stivali pur
di non sborsare quattrinelli per una carocia. Però, in cambio,
pretese le pianelle vermiglie del gazzettiere di ben maggior valo-
re. E così, passo impedito dopo passo impacciato, lungo la strà
della Saragozza dinanzi al palazzo degli illustri Albergati i nani,
in attesa d’esser appellati dai signori, derisero uno al par di lui
fingendosi zoppi anche loro. Era meglio, in luogo di magnare
polvere e dannarsi sotto il sole nelle campagne, attorno al borgo
di Casalecchio, pigliare la strada per Cesena, verso il mare, met-
tere lì piè nella libraria del Malatesta tanto per sognare almen
nel tempo d’un solo giorno d’esser un umanista. “Ci andrai…
ci andrai”, sprona la vocina dentro la sua capa. “Quando?”, di-
manda lui se, al presente, mi ritrovo, qui, dopo avere passato
cinque notti presso la Villa del gran Toiano dentro un bugigat-
tolo accanto a un ben d’Iddio d’attrezzi. Poscia… poscia, capitò
l’inferno là e sono fuggito con la testimone del crimine… mica
potevo lasciarla in preda agli uccisori!
L’Orsina gli s’appropinqua e ode: «Nessuno ci aiuterà, fida
donzella, siamo rimasti io te e la mia chronica che nessuno
vuole».
Intanto s’asside con un sospiro e riman muto, immobile.
Come sortire dalle panie?
Di contro, in bottega Moscatelli s’agita e le pensa davvero tutte.
Non può pubblicare un Assassinamento compiuto nei dintorni
della città, perché i signori inquisitori sbandierano ai quattro

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venti che i bolognesi odorano, tutti, di santità, mentre gli scele-
rati tengono casa altrove o sono eretici. S’aggiunti, poi, il fatto
che solo gli aristocratici sanno leggere e codesti mai comprereb-
bero un Avviso con una testimonianza tanto disonorevole per
i lor pari. Però, se nessun stampatore ha l’ardimento di mover
li torchi in sul vento d’una notizia simile a questa… eh, il co-
raggio è il pane del mestiere con i caratteri inchiostrati a far da
companatico! Così dicea sempre il di lui padre. Guata i suoi fo-
gli dalle lettere così picciole che, per poterle decifrare, non ba-
stano gli occhi d’un ventenne, quando un’idea gli attraversa la
ruga della fronte. Toglie i pesanti occhiali dal naso sciogliendo
la cordella dietro le orecchie, sfila il grembiale di cuoio, indossa
due maniche fresche e sortisce con l’intenzione d’andar da chi
sa lui.
«Mica son uno che d’un fiato si tira da una banda sanza aver-
le provate tutte o, perlomeno, una!», pronunzia.
Gionto nei pressi della piazza Grande, alla vista degli stril-
loni con fior d’Avvisi in mano, scote la capa e sente una stretta
alla bocca dello stomaco perché il collega, quel Bartolo dalle
Ventarole, si fa prospero con le operine piacevoli di Giulio Ce-
sare Croce su madonna Caccolina e in virtù delle cinquanta lire
annue, elargite agli editori camerali al par di lui.
Tagliata qualche viuzza, è l’ultimo della fila dinanzi alla
stretta botteguccia delle Muratelle, ove si vendono bottoni ca-
tene specchi vetri prismi, tante immaginette della martire Lucia
cui cavarono gli occhi, e lenticchie per orbi. Arrivato il suo tur-
no, pone all’occhialaio la dimanda che gli sta a core.
«Volete sapere come vanno le vendite, mastro?», risponde
l’altro, «Grazie ai peduncoli da formichina dei vostri fogli, il
mercato delle lenti d’ingrandimento è in crescita anche se i cor-
rieri olandesi sono delle belle lumache e i mastri vetrai di Vene-
zia si fanno sempre disiare».
«Così i prezzi salgono, vero Lucio?»
«L’appetito è condimento delle vivande, come dicea quello. I
compratori badano sol al prezzo degli astucci, ma io me la cavo
con quelli di bosso… niente argento oro o avorio cesellati che
sono roba d’orafo, per li signori».
“Che giorno ben avventurato!”, pensa il nostro nel sortire di

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bottega, “trovai il chiodino per appendere quel dannato Caso su
ispirazione del mio buon padre”.
E lungo la via de’ Tessitori già immagina, macché gli par
quasi di veder un messere con due lenti in sul naso e, nascosto
tra le pieghe della giubba, un Avviso. Non pago, fantastica la
scena e il dialogo di codesto con un curiosone di passaggio che,
sbirciato a fatica il titolo Caso horrendo e compassionevole occorso
nella villa dei conti Bolognetti, addimanda: «Ma son invero gli
illustri signori, codesti di cui si narra il criminoso fatto?»
«Proprio loro, che scandalo!»
«E quanto costa il foglio?»
«Una stampa prohibita sta al doppio rispetto alle altre… due
bei carlini e le copie vengono solo celatamente vendute nella
stamperia di Giovanni Paolo Moscatelli presso la porta San Vi-
tale dicendo la frase giusta “come sta il gatto?”»
Immedesimato nella parte dell’audace e degno figliol d’arte,
il nostro quasi scorda di salire nella ca’ del gazzettiere onde an-
nunziare la buona novella.
Dati tre colpi in sull’uscio, apre la porta Lucco e dietro sbu-
ca una personcina esile con la sacca della serva pendente dalla
cintola.
L’ospite addimanda: «Vi portaste dalle campagne chi laverà
i panni di casa?»
«No, signori. La testimone del delitto del gran Toiano è bra-
va a fare le polpette».
«E le stringe per dare sapore?»
«Eh… messere, le pesto bene. Vi piaceranno».
«Vedremo, ma tu da dove vieni?»
«Eh… io son l’Orsina del Monte delle formiche».
«Ah, una contadina di quella montagna là, ove anche le for-
michuzze hanno l’ali».
«Eh… adesso che mi ricordo facevano tanta paura e tutti
correvano dentro le stalle quando nel mese di settembre veniva-
no giù da un cielo tutto nero».
«E parli pure, in luogo di stare muta come le tue pari».
Assiso in fronte al tavolo della prima stanza, Moscatelli da
subito dichiara che non intende spiegare il cangiamento d’opi-
nione sul predetto Caso trattandosi d’una sorta di devozione da

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consumar da solo come una preghiera. Indi, rilegge le paginet-
te dello scartabello, questa volta con estrema attenzione. È una
chronica minuziosa e sobria delle fasi del delitto, ma difettosa
d’argumento: «E voi, gazzettiere, accettereste a vostro periculo
di condurre un’investigazione allo scopo d’approfondire le ca-
gioni del crimine, poscia lustrare la prosa per impressionar i let-
tori magari acconciando lo scritto con un tocco d’invenzione?
Questo genere di narrationi par che vada a ruba».
Lucco ci sta ancor pensando quando parole verbi aggettivi,
scesi a cateratte dalle labbra, formano una frase ch’è un impe-
gno: “Sarò auttore d’un racconto a puntate, una cosa mai vista
né udita nell’universo mondo della scrittura”.
Indi, come se un altro avesse parlato in vece sua, rimane at-
tonito mentre Moscatelli vuole sapere: «Ma contro chi puntate,
voi?»
«Io? Contro tutti».
“La strada per Cesena si fa più larga”, pensa, “entrerò nella
libraria del Malatesta a spalle fiere e sarò pregiato per avere scrit-
to una storia”.
Giovanni Paolo ancor attende una risposta e lì per lì se l’in-
venta, lui, facendo l’essempio del burattinaio che, in sul più
bello della sua storia, fa cadere giù il siparietto della colorata ba-
racca con il pubblico ancor in curiositade di sapere cosa capiterà
nella scena successiva.
«Così, mastro, faremo noi. Le nostre puntate sortiranno ogni
sette dì e, per ognuna d’esse, si potrebbe toccare moneta ven-
dendo un centinaio di copie».
«E se, invece, gli inquisitori ci riducono in polpette?», intan-
to ne piglia una dal cartoccio bisunto, lo stampatore.
«In principio, l’impresa apparirà sì impensabile da portar
allo smarrimento lor signori».
«Non intesi un accidente del vostro sofistico argomento,
indi dimando ov’è la fiaschetta che robbaste in Villa. O ve la
siete già scolata per intero?»
«Moscatelli, confessate che v’aggrada ’sta idea obriaca».
«Oh, signur, che Dio e i santi ci guatino benevoli visto che
avremo contro magistrati, inquisitori e il cardinale Legato!»
Ad entrambi non difetta l’ardore e chiudono l’argumento se-

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riosamente, dicendosi che chi sa ben veleggiare passa ogni golfo
anche se il ciel minaccia gran tempesta, che lor scaricheranno
sopra d’altri.
E la donna di casa? Al presente, resta fora dall’impresa a det-
ta dello stampatore.
«Eh… no che ci sono dentro anch’io».
«Con una femina inter pedes», sussurra il medesmo «il cielo
si fa turbato, poveri noi!»
«Ma, Giovanni Paolo, un cavalier dee sempre salvare la don-
zella, se no qual mai storia è?»
E così passò l’intero dì.
Quanto è scritto è vero, lettore
Da subito, il gazzettiere si mette all’ovra in compagnia dell’Or-
sina, camuffata da vedova in quanto ricercata come la teste a ca-
rico degli uccisori. Il fitto velo in sul volto e il gabannone nero,
tutta roba di seconda mano, vengono pagati agli strazzaroli del-
la Garisenda da Moscatelli. L’investigazione li porta, di giorno,
a girovagar per le campagne e i loci di città onde raccogliere te-
stimonianze prove e voci mentre, di sera, Lucco elabora l’intrec-
cio usando la fantasia come un narratore vero. Passano li mesi
e lo stampatore lamenta: «Quante spese per ’sti viaggi e come la
menate per le lunghe!»
«Pazientate, e tenete a mente il detto chi non s’arrischia non
guadagna».
«O, forse, siete voi a bighellonare pur d’estorcermi scudi?»
«Tra due settimane, quando s’aprirà il publico processo con-
tro gli uccisori prometto di consegnare le pagine».
Una pioggia di fine estate saluta la discesa in sul piano bas-
so del torchio dei fogli, scanditi dai due colpi di gomito del
torcoliere, con l’impressore lesto nel visionarli uno ad uno per
controllare l’allineamento e la spaziatura delle righe e che non
ci siano sbavature lungo la pagina ancor inumidita dai caratteri
inchiostrati. Per tirare le prime cento copie di sei pagine cia-
scheduna, s’arriva a consumare tre hore circa. Poscia lo stampa-
tore, inforcate le lenti, prende a legger a voce alta la prima pun-
tata nella modulazione di pause e ritmi, infine, piuttosto stanco

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s’asside bofonchiando: «Certo che una recita sarebbe tutt’altra
roba!»
«Teniamola, or dunque!», replica l’auttore, «così anche chi
non sa leggere, e in città sono la più parte, conoscerà la storia».
L’altro persevera nel mostrare la capa bassa scotendola come
a dire, “No…”, invece è l’attore, tentennamenti su tentenna-
menti, a darla ad intendere sino a quando s’ode: «E chi reciterà?»
Il torcoliere gracchia, l’impressore sembra una lattuga da
quaresima, lui non è più giovine e Lucco tiene un bel numero
di berrette che non fanno certo primavera.
«Sentite», replica il ranocchio, «io conosco un attore abitan-
te nella Santa Caterina, bravissimo, e attrae le donne, quel for-
moso, dentro l’abito da scena. Lo nomano il bresciano e non
costa avercelo».
Di codesto corse fama sotto le torri e sono in tanti a ricor-
darlo grasso e grosso poscia, andati in fumo i grandi banchetti e
quei sollazzi, è rimasto un povero cristo come tanti che nessuno
più vuole, anche se mica dà a vedere la sua mestizia.
«E meno male perché di smergolamenti, qui, se ne fan anche
troppi da parte vostra».
Vola il garzone e, quando ritorna, la figura del bresciano ap-
pare secca flappa e passa. Con imperio, però, piglia la scranna
dietro lo scrittoio e sta per salirvi su con le pagine se non che:
«Oh, non siete mica a ca’ vostra, badate ben ove mettere li piè!»
e il padrone di casa gli porge uno struffione da infilare sotto.
La recita è superba se i presenti, guatandosi l’un l’altro, muo-
von i palmi a raffica per significare “La vince su ogni rivale”.
Qual impresa sarà mai! La bottega vibra insieme al travaglio-
so torchio, che pare volere sortir dai gangheri, con l’impressore
che cuce li fogli e Moscatelli che non sta più nella pelle. Rapido,
spedisce il torcoliere lungo le vie a fare tamburo mentre Lucco
dispone che lungo il muro del portico, ove si farà teatro, venga
appeso codesto annunzio…
VENERDÌ, VENTUNESIMO DEL MESE DI AGOSTO
AVANTI CENA, IN QUESTO MEDESIMO SITO SI TIENE
LA PRIMA RECITA D’UNA STORIA VERA, SCRITTA DA
CHI INTENDE RESTARE ANONIMO E OVE S’ASCOLTA
DI COLPE E VIZII A UTILITÀ E MONITO DI CIASCUNO,

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CHE NON SI DEE FAR COSA, CHE SIA CONTRO LA MA-
ESTÀ DI DIO.

Nel dì previsto, un discreto numero di persone si raduna in


loco. Arriva il bresciano che non difetta di un po’ di pittura blu
attorno agli occhi e con in sulle spalle un’alta cadrega per do-
minar il pubblico. Poi Lucco, vestito come al solito, dietro Mo-
scatelli seguito dall’Orsina in vedovili vesti. Al torcoliere viene
comandato di non metter in mostra gli Avvisi, piuttosto dee ce-
latamente far sapere che i medesmi saran in vendita, il dì dopo,
a due carlini per copia presso la bottega di San Vitale. Il più
stranito è l’impressore sanza ragione d’esserlo, all’apparenza. Il
recitante sale in sul podio e Giovanni Paolo da sotto gli sussur-
ra di stare attento a non citare mai il nome vero dei personag-
gi principali. Indi, donna Dorotea Zambeccari Bolognetti è la
contessa, il conte Camillo Bolognetti il di LEI signor marito,
Filippo Pepoli il fascinoso conte, Carlo Zambeccari il maggior
fratello, Camillo Zambeccari il minor fratello. Circa la dimora
del gran Toiano, verrà nomata la Villa.
Chissà quant’altro avrebbe da aggiuntare ma pronunzia solo:
«Bresciano, non adoprate la parola puntata tanto nessuno ca-
pirebbe, ditela parte che così l’intendon tutti e, nel corso della
recita, fatevi condurre dal pubblico, che va sempre a modo suo
dentro una storia. Concedete a me e all’auttore la sodisfazzione
d’udire queste parole, Quanto è scritto è vero».

In nome della verità, uno stampatore e un gazzettiere stanno


giocandosi la capa sotto le cento cape in pietra di palazzo Bolo-
gnini, che dan in sulla piazza di Santo Stefano.

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Prima puntata

Sotto il portico di strà Santo Stefano

M iei cortesi uditori, nei vostri volti colgo un’attesa che non
verrà delusa. Nel core di tutti gli omini di buona volontà,
difatti, alberga l’amore per le storie vere e questa, che mi accin-
go a narrarvi, è di tal fatta anche se condita di qualche fantasia.
Il racconto ha cominciamento nella piazza di Porta Rave-
gnana all’ombra della mozza torre Garisenda e dell’Asinella. Vi
sentite a casa? Voi tutti conoscete il loco e, se tirate su con il
naso, v’arrivan i puzzori dei portici, della Gabella, dei due spe-
dali come del chiuso dei bauli che contengono robe vendute,
qui, durante il mercato del Lunedì. “Odore di femina”, pensa
un messere di non mediocre complessione dalla giubba ricamata
su cui pendono, legati da una cordella, uno scartabello una ma-
tita e la mollica per scancellare. Se l’habito fa lo monaco, que-
sto dee esser un gazzettiere. Eccolo, il nostro protagonista con
in sulla capa un cappello da studente a punta di panno morello
mentre passeggia tra donne, ritte in su pianelle alte quattro dita.
Saranno anche di bassa condicione, ma il collo inghirlandato e
le spille ne fan intendere di bella biancheria sotto l’habito… tut-
ta merce di poco prezzo, direbbe con spocchia una vera dama.
«Allora cosa combina un messere sì abbigliato tra ’sta gen-
te?», fa udir un tale appoggiato a una colonna del portico.

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Chi ha pazienza, signori, verrà premiato. Al presente, però,
giriamo gli occhi verso la loggetta del piano nobile di quel pa-
lazzo, posto in sulla piazzetta dei mercanti. Tra le due semico-
lonne in pietra grigia, s’affaccia una dama che pare guatare con
svagamento sino a quando mette le mani tra le chiome in un
gesto di disperazione. È LEI la contessa della nostra storia.
«Chissà cosa passa nella sua capa», intervien il solito, «perché
io conosco le grillerie delle femine».
Al par di chi scrisse questo racconto, replica il bresciano, che
ci fa sapere come la medesma, dopo avere riconosciuto il carro
del bucato testé sortito dal portale della sua dimora, sparisca in
un detto d’amen quasi avesse visto un can che mostra il dente.
E dentro la gran stanza di palazzo suona la sta manfrina: «Siam
in ritardo, siam in ritardo per la partenza alla volta delle cam-
pagne mentre il fattore è già in strada con sette sacchi di panni
e due di cenere».
Una bella scordona, la nostra dama, che quasi facea sortire
dall’orlo della scarpa la cerimonia! E, onde mettersi chéta, scari-
ca la colpa della propria dimenticanza in sulla fida donzella, una
piccolina non più giovine, nomata Orsina, che, china sopra una
solidissima arca in legno, sta già tirando fora l’habito verde per
la festa fora di città.

Tra il pubblico, uno a fortissima voce proclama di sapere come


nacque la moda del Bucato in Villa e intende narrare la storia ai
presenti per farsi bello. L’attore vorrebbe dargli un boccone av-
velenato ma, guatato Moscatelli tutto contento, con un ampio
gesto del braccio: «Prego», murmura.
«C’era una volta, or fanno cinquant’anni», piglia a dir code-
sto, «nove dame che fecero di necessità virtù declamando le ma-
ravigliose sensazioni di freschezza provate durante l’atto d’ap-
pender i pannicelli alle corde. Le ben nate divennero famose per
avere dato accoglienza nella Villa Bel Poggio dei signori Malvez-
zi, fora dalle mura di Santo Stefano, a conclamati banditi tra cui
il famigerato Francesco Temploni, romagnolo bello come una
lama di lustro acciaio, gionto in su di un cavallo di pelo rosso.
Denunziate da una serva, gelosa del fiero maschio, in fronte ai
giudici che le interrogavano inventarono di sana pianta d’essere

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rimaste in situ con la sola intenzione di fare la bughèda metten-
do a nuovo pure le piume de’ materassi dopo avere compiuto
una strage di starnazzanti oche. Non solo le oche vennero credu-
te, bensì imitate negli anni a venire così la cerimonia fece il suo
ingresso tra le cose memorabili citate negli Annali della città».
Tace il saputello mentre la gente sotto il portico vuole dire la
sua a proposito dei vecchi riti con l’attore che in silenzio lamen-
ta: «Starei meglio, se codesto avesse tirato le calcie!»
Poscia, passato un lasso, si fanno tutti muti con gli occhi fissi
verso il recitante che riprende la lettura.

Messeri, nella gran stanza la padrona e la serva son intente alla


toiletta con l’una che aggiusta i riccioli e l’altra: «Orsina, non fai
che sgraffiarmi… caccerai mai via quel pettine dai denti rotti?»
«Eh… no, l’avorio non si butta! E poi, mia signora, state
contenta che oggi sortirete da queste stanze».
«Non farmi pensare ai dì della mia prigionia… quanti ne
sono colati, cara donzella?»
«Eh… fu il giorno di febbraio quando il signor marito serrò
a chiave l’uscio della vostra porta e, io, tanto ci provai a mettere
l’ago grosso dentro la toppa».
«Qual punizione mi fu inflitta per l’atto che commisi! Ma,
ora, sono parata a cangiare la mia vita perché le notti mi diede-
ro consiglio», e il busto è scosso da un tremore. Poscia, afferrato
lo specchio a mano, scopre due macchie lividine sotto gli occhi,
che la fanno sbiavata.
E il rimanente, uditori, come appare? Per l’Orsina, LEI è
sottile come un giunco.
«Di’ pur», ridacchiano le serve, «che è solo secca e tre carni
sono dure, l’oca la capra e la femina magra».
E poi stiamo parlando del viso, non della complessione. Al-
lor va detto che ha un incarnato color delle lenticchie in una
sfinitezza di tratti degni di buon aristocratico sangue.
Se, invece, un cavaliere di passaggio la vedesse tra i campi sot-
to il sole direbbe: “Che femmina smorta con quei due calamari!”
Sia come sia, è una fisionomia rara a vedersi tra la gente di
Bologna e il nostro auttore la trova somigliante alla compagna
di Adamo, dipinta da un pittore del nord Europa.

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Torniamo alla contessa, messeri, rimasta sola nella stanza in
compagnia d’un raggio di sole che danza, sognante, tra granelli
di crusca. Sognare… sognare… questo è tempo d’agire per LEI,
che tira l’esile maniglia del secondo tiretto cercando la molla
segreta per aprire quello delle gioie. Tra gli ornamenti sceglie
la collana di perle e il grosso rubino, pendente in sul seno, pare
una goccia di sangue abbandonata o una lacrima tinta da un
belletto troppo rosso. La mano ancora tasta il fondo, indugia
scarta cerca ed ecco la lettera dal sigillo cilestrino, scritta di get-
to a lume di candela. Un sottile involucro di fibra e acqua che
contiene un segreto, indi un pericolo quando viene messo nero
in su bianco. Un’amorosa cilestrina che reclamerebbe un bacio
se non s’udisse la voce del messo Sabino, ritto in sull’uscio: «Ho
parato il cavallo, signora, per il viaggio al castello di Crevalcore
che mi comandaste ieri tramite la vostra donzella».
«Tieni cucite le labbra sulla meta e sulle persone!», ordina la
dama avanti di passargli l’epistola e, insieme, una manciata di
monete. S’accomiata lo spavaldo ma, lungo lo scalone, vede il
conte salire dall’altra banda e «Oddio!», murmura pigliando la
discesa in tutta corsa. Il padrone, invero, gli avea dato ordine di
spiare la moglie, oramai sciolta dalla prigionia, per riferire ogni
di LEI nòva mossa… indi cosa accadrà mai, miei uditori?

Il recitante, sceso dalla cadrega, rimane muto per un lasso, po-


scia s’ode: «Siete disposti, messeri, a udir la ventura di chi avea
in animo di Radere e fu raduto come capitò a un tal per nome
Benvenuto».
Il pubblico sgrana gli occhi, Moscatelli s’appropinqua a Luc-
co e il bresciano stringe le spalle quasi avvertisse… Avete freddo,
gente, intanto che vi sto conducendo nei sotterranei di palazzo
dietro le gambe del messo, il romore degli stivali del padrone e i
cauti passi del gazzettiere che li pedina, dopo essersi introdotto
furtivamente nell’androne? Attraversiamo un lavatoio scivoloso
per via dei pezzi di sapone caduti a terra, poi è la volta d’una
legnaia aperta in su di uno stanzone, fornito di pozzo e passa-
vivande, ove si calano gli avanzi destinati a stare lì per giorni.
Continua a filare dritto, Sabino, tra snelle colonne simili
a quelle d’una basilica e l’atmosfera, carica d’ombre, richiama

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buoni propositi umori penitenziali odori d’incensi non il tanfo
delle robe depositate dai dazieri, che han in affitto il loco. Nella
sua capa, forse, frullano le parole del padre conciatore: “Cuocili
a fuoco lento i signori come io faccio con la seta”. E lui pare aver
intento di prender il padrone contropelo grattando il barile sino
a spaccarsi le unghie pur di non consegnare la cilestrina. Tiene
alto il busto, l’ardito, e non si gira nonostante i sommessi richia-
mi sino a che l’altro gli afferra il polso a due passi dalla legnaia.
Una volta dentro, una mossa da parte d’entrambi fa crollar un
armamentario di bidenti tridenti forchini addosso al servo che,
per lo spavento, perde ogni vigore. Il conte gli sta sopra come
volesse intimargli “Confessa” e il tremebondo cede l’epistola.
Di poi in quel buio non c’è membro né osso del poveraccio che
non lamenti la sua bella spiegata di bastone, così riferisce il gaz-
zettiere nascosto dietro l’angolo.
Povera cilestrina finita in quel cieco stanzone e nelle mani
dell’omo sbagliato! Invece, dovea godersi una bella trottata di
cinque miglia lungo le campagne, in piena luce tra filari ordi-
nati di vite e alberi da frutto, stretta al petto del messo. Poscia
dovea essere raccolta dal più fascinoso aristocratico della città,
che passava li giorni nel proprio castello di Crevalcore, servito
e riverito dal suo scriba. E che rara perla di scriba, messeri! Un
che, in luogo di marcire le ossa in sugli argini di antichi rami
del fiume Po, ove nacque, s’era fatto grosso con le tre S, ovvero
Studio Silenzio Sottomissione, sin a diventare l’ottimo tra gli
scrivani di città. Il di lui nome è Timorato Domenico Medori,
nativo di Gambulaga. E di codesto, che fu il precettore della no-
stra contessa, sentirete ancora narrare nel proseguo della storia.
Ora, il racconto ci porta nelle rimesse della dimora in fron-
te all’antica Gabella ove, durante le prime hore del meriggio di
Lunedì, vien approntata la più grande carocia per andar in Vil-
la. Vi montano in sette. La signora di palazzo con la sua donzel-
la, il fratello naturale del conte, detto Vincenzo, i bimbetti della
coppia, Girolamo e Lucrezia, tra le braccia della servetta Paola
e, da ultimo, s’asside il signor marito accanto alla moglie. Il mi-
stero del viaggio trova posto in due diverse cassettine, appoggia-
te rispettivamente in sulle ginocchia dei coniugi. Quella della
contessa contiene una penna d’oca due o tre fogli un suggello

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cilestrino e lo sgarzino per cancellare mentre l’altra più pesante,
di legno policromo, chissà cosa custodisce. Il conte, guatando la
mogliera, principia a tamburellare con le dita la copritura degli
strumenti per scrivere. LEI s’impaura, il cor s’agghiaccia, come
se fosse stata colta in fallo, e la mano afferra la maniglia della
portiera. È parata a fuggire ma, più pallida d’un cencio sotto la
neve, stringe solo il polso dell’Orsina indi, per staccarsi da quei
fitti tocchi d’unghia in sul cartone, porta gli occhi al di là della
finestrella dell’abitacolo. Due servi, un di città l’altro di campa-
gna, stanno al passo. Il primo in sul cavallo grosso, il secondo
a piè come il gazzettiere che marcia paro paro alla vettura sino
all’altezza del collegio di Spagna quando, superatala d’un balzo,
si pone nel bel mezzo della strà sventolando la punta del suo
cappello di panno morello.
L’apparizione ferma i quadrupedi. Si sporge la capa della
contessa, cui il messere si presenta condecentemente con dif-
fuse parole.
«Condecentemente un corno!», bercia dall’interno il padro-
ne, dall’incarnato scurognolo al par della sua mal curata bar-
betta, e non la finisce più su quel tanghero ciarliero che manco
vidde il nobiliare stemma di famiglia, dipinto in sulla fiancata
destra, e nel bel mezzo della sinistra la gloriosa lettera C. iniziale
di Cimeta, il migliore carradore d’Italia.
«Via, via, Donato, che a ’sto impiccione, intenzionato di ce-
lebrare il bucato in Villa, va fatta magnare la polvere». E i mo-
relli volano lungo le case basse della Saragozza, di poi prendono
la via dei peregrini e, divorato un buon tratto, la sosta vede i
signori presso l’osteria del Calza nel paesaggio aperto sotto le
pendici del monte Castello, tra il fragore delle acque trattenute
dall’imponente chiusa del Reno. Torrentizio come indomabile,
il fiume si vanta d’aver quel nome sin troppo grande per il suo
picciolo corso, minaccioso al tempo delle piene sì da essere im-
brigliato a dovere. Il loco attorno, nomato Casalecchio, conta
poche case al di là del ponte, qualche edificio abbandonato si-
mile a un masso al centro di larghi poderi e tre solitarie Ville.
L’Orsina rimane ferma lungo la testata d’un campo con la con-
tessa che, invece, girella per il lungo e per il largo e sono tanti
i forse a movere li suoi passi “forse il signor marito sospetta…

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forse sa… forse il messo”. Intanto i bambini con la Paola danno
dietro a un cane inanzi alla locanda e quel piccoletto del cre-
denziere Sante, dopo esservi entrato per certe aggiunte di cuci-
na, non sortisce più. Il conte, sanza dire una parola, prende un
viottolo girando gli occhi una volta sì e l’altra pure. Gionto a
un bivio, eccolo in fronte allo spedale dei canonici Renani ove,
presso la farmacia, l’attende un che… ma state a sentir che que-
sta è poi bella, uditori.
Il soggetto che incontreremo non difetta di humori come
di gagliardia, ma lasciamo parlar li fatti. Or dunque, lo scu-
ro signore ha da presentarsi in fronte a Girometta, il custode
fidatissimo della spezieria secondo il parere del vigilante. Sarà
anche tale codesto, ma in un mondo avviluppato ove l’un in-
ganna l’altro e il dritto val quanto il rovescio, che natura potrà
mai avere chi traffica in una fabbrica di veleni? Il ciel ci guardi
dalla sua lingua, fornita di pungiglione come la femina d’un ca-
labrone! Finito qui perché il responsabile del loco gli mise una
ramazza in mano fingendosi scordevole di quanto il manigoldo
avea commesso nel monastero appena fora di porta Saragozza.
Cosa fece ’sto gobbetto ingrigito? Penetrò nel convento onde
godere della prima gallinella con il velo, sorpresa in schivi pas-
si lungo orto. Di contro, in sull’atto fu sorpreso lui che riuscì a
salvare le spalle anche se venne denunziato dai famigliari delle
recluse e pure dal priore con l’accusa di tentata violenza carnale
e ratto movendosi contro l’uccello di bosco un’inquisizione in
quest’anno e nel presente mese di Febbraio.
Una volta accolto nell’apoteca, il seduttore pulì i pavimen-
ti sanza mai alzar gli occhi da terra sino a quando li sollevò e,
nel cielo dei farmaci, riconobbe la sua buona stella. Dovendo
lo speziale sostituire l’addetto alle vendite, caduto malato, ten-
ne, in mancanza d’altri, a favore di Girometta un picciolo corso
sui medicamenti che sanano gli infermi. E l’allievo sbadigliava.
Gli indicò allor erbe e polveri che agiscono celatamente consu-
mando la vittima sino a portarla a morte o, pari a saette, non
lasciano al colpito il tempo d’un grido. E il discepolo sentì una
siffatta fregola che venne ritenuto l’omo giusto per consegnar i
veleni agli avventori a patto si contentasse di qualche rapa e di
un puntuto matarazzo. Ma cosa importano il cibo e il sonno per

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chi si sente dio in quel giuoco tremendo che pone la vita di tutti
nelle mani d’un solo omo?
Lo raggiunge il signore nel loco simile… come ve l’immagi-
nate, uditori, dentro un’aura particolare? Macché pare il retro
di bottega d’un locandiere trasandato, avvezzo alle erbe e con
l’uzzolo di farsi avvelenatore con belladonna e vino. Perché i
due elementi, ben combinati in calice, suscitano fantasie anima-
lesche nei commensali e c’è pur qualcuno che, sentendosi una
bestia da soma, viene caricato al par d’un asino.
“E chi vorrà mai tirare per la cavezza ’sto aristocratico appas-
sionato di veleni?”, si dimanda Girometta.
Non rivela il proprio nome, non reclama erbette fattucchie-
re, piuttosto la polvere d’arsenico, dosata dallo speziale e nasco-
sta dentro un picciolo sacchetto in pelle di daino, da riporre nel-
la cassettina che stringe al petto. E mostra furia d’averla mentre
sarà la cipria biancuzza a infuriar, una volta toccato lo stomaco
della sua vittima. Chi sceglie d’uccidere tramite questo veleno,
miei uditori?” “Quelli dallo stomaco debole”, risponde chi vi
parla “che temono la vista del sangue ed amano la cerimonia
pulita e asciutta”. E l’arsenico preserva bianche le mani come
lascia in forse la mente perché il tossico, nomato il principe dei
veleni e il veleno de’ principi, si nasconde menzognero e ambi-
guo dentro le minestre e nel vino, tra le pieghe degli abiti e lun-
go il margine dei libri. “Ma lascia tracce tali da creare sospetto
nei medici che praticano la dissezione del cadavere in cerca della
vera cagione di morte?”, ancor mi potreste dimandare.
“Occorre tanta furbizia”, risponde in vece mia Girometta,
“per occultare le prove considerando massimamente la salute e
l’età della persona, l’effetto sulle diverse complessioni e le con-
seguenti reazioni del paziente al gelo o alla fiamma prodotte dal
letale farmaco. Anche il periodo dell’anno va studiato e i veleni,
propinati nei dì ingloriati di primavera, sono quelli che fanno
morire più gente”. Il conte tiene premura d’andarsene, la caro-
cia l’attende, mica gli va d’imparare alcunché su d’una strega
franzese abbruciata con l’accusa d’averne mandati tanti al Cre-
atore grazie alle sue misture e… ascoltiamo il proseguo. Le sue
ceneri disperse al vento, respirate da omini e donne, infusero
ne’ petti piccioli spiriti maligni e quasi tutti i presenti all’esecu-

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zione furono colti da un qualche capriccio avvelenatore tal da
maravigliare poi tutti. Ecco, questo è il mondo bramato dagli
occhi infocati del Girometta, che ancor testimonia come un tale
marchese Ruini, cupido d’estinguere nel dì delle nozze presso
una chiesa romana la promessa sposa, avesse impestato d’arse-
nico il bouquet della Maria. Il custode emana zaffate di penne
strinate di tacchino o di pelo di coniglio passato alla fiamma, e
l’aristocratico onde poter respirare si ritrae con l’altro che, mec-
canicamente, un poco s’appropinqua. Così il primo non ce la
fa ad agguantare la dose e il secundo a toccare le monete. Come
due animaletti nell’aia, dopo avere giocherellato un po’ in sul-
la distanza, i due mascoli si ritrovano in un corpo a corpo che
benedice lo scambio con l’odore di canfora e d’argilla dissecata.
Appena fora dalla spezieria, il signore colloca la polvere in uno
dei due scomparti della cassettina, fasciati di seta castagna. Fatti
due passi, si ferma batte il legno con le nocche e pronunzia for-
te: «Se per ventura nel corso de’ prossimi giorni qualcuno met-
tesse le mani in su questa, sarei ruinato!»
Non perde tempo, estrae il sacchetto del veleno, che nascon-
de con cautela in saccoccia, poscia raccoglie qualche erbetta la
frantuma tra le dita macchiando il guanto di verdolino e pigia
i pezzetti nelle due scatolette vòte. E si mostra sorridente men-
tre avanza lungo il sentiero del bosco dandosi del bravo come
chi sa che la prudentia non è mai troppa. Con baldanza scosta
il fogliame quando avverte d’essere strano. Gli gira la capa e gli
occhi allucinano, tra i rami, una liana simile a un serpente dalla
livrea color rosa scurita di riflessi lungo il dorso, perfettamente
immobile nello splendore della sua pelle. Mosso di paura per la
mala visione, il maestrissimo tenta di scappare ma il piede sini-
stro, inviluppato d’erba e rami secchi, trascina la gamba entro
una buca, calda di vomito animale, con lui che ci sprofonda a
mezzo busto. A pochi passi, celato dietro un cespuglio, Giro-
metta ride al par d’un diavoletto.

Anche il pubblico se la spassa per via del conte finito in buca o


perché il bresciano finge di dover ripulire la veste e si tura il naso
contro l’acido odore? Moscatelli accanto a Lucco sussurra: «La
conta a modo suo il nostro omo… a Voi spiace?»

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«A honor del vero sono commosso».
«Purché si vendano gli Avvisi, a me va bene».
«Ascoltate, sta mettendoci l’anima!»

Si riparte, uditori, con il gazzettiere finalmente gionto, grazie


al buon core d’una carocia con otto posti e sette passeggeri, che
segue quella del conte per il restante tratto di viaggio. Scorrono
i pioppi, rustici signori, poi i silenziosi cipressi mentre il piano-
ro cede il passo alle prime morbide colline lungo uno scenario
dolce e felice in sulla destra del Reno. Dall’altra banda, invece,
gli alberi s’ergon accanto ai rivi e il paesaggio muta con alture
solcate da grigiastri imponenti tagli. Dopo una casa rustica e un
picciolo oratorio dedicato a San Biagio, che protegge i contadini
dal mal di gola, appaiono il tetto a guscio della Villa il colonnato
l’intera mole rosata a colloquio con il cielo il vento le stagioni.
Una dimora creata per semidei.
Ancor un traballare di rote inanzi la cancellata per via di un
cavedagnone erboso, ma tutti salvi i padroni, fastiditi dal lun-
go viaggio, stanno mostrando i temuti aspetti ai lor servi com-
pitamente schierati come una falange macedone con in testa il
prode coppiere Lepido. La lunghissima sosta, perché le richieste
de’ famigli son eterne, concede al gazzettiere d’arrivar in situ e
osservare la chiara signora e la donzella mentre entrano nella
loggia passante avanti di sparire nella prima stanza a destra. In-
tanto la Paola con i due figlioletti sta salendo negli alloggi del
piano superiore, ad uso dei serventi maschi e femmine, zeppi di
arche in legno con tanti legnetti da gioco piccioli piccioli che
fan sentire gigante ogni bambino. Girolamo principia subito a
trastullarsi con strisce di giunchi di palude, dalla cima spalmata
di grasso animale, adoprate come candele nel palazzo di campa-
gna perché danno sì scarsa luce ma a poco prezzo. La giornata
si chiude con il padrone e l’ottimo Lepido che s’allontanano di
buon trotto verso il fiume. Uditori… un signore con una dose
d’arsenico in saccoccia e un coppiere di palazzo, oltremodo fi-
dato, son una coppia imbestiata che dà li brividi. Chissà mai
se questi corrono lungo la schiena della serva Orsina, divota
alla sua padrona, o dentro il corsetto del messo Sabino, che sta
coprendo la sua vigliaccata con una grossa menzogna non po-
tendo rivelare come l’epistola sia ora nelle mani del padrone. E

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inventa che il destinatario non si trovava nel castello di Creval-
core così lui consegnò la cilestrina allo scriba Timorato D. La
mancata risposta manda in gelosia la contessa: «Forse, Orsina,
corteggia un’altra dama e con la nova fiamma è già in viaggio
alla volta di Venezia in su d’un barcone di delizie».
«Eh… mi sa che quella là è una barcaccia di mangiagatti
mica per un signore come lui».
LEI sorride mentre invoca tra sé la personale maga, nomata
Sambuca, ma l’incantadora, buona a leggere le eresie d’amore
dentro la scodella, al presente sta prestando soccorso a un’altra
infelice di città.

Solleva lo sguardo l’attore e, dietro le spalle dei presenti, vede


un garzoncello con una fiasca. In sul di lui volto si stampa un
sorriso e, nello scendere, per la foga quasi ribalta la cadrega. «Di
noi si parla se l’oste della strà di Santo Stefano accanto al vivaio
dei monaci della chiesa ci manda la sua benedizione», dice Luc-
co a Moscatelli.
«Sì, gazzettiere, ma il nostro omo perde la capa alla vista del
vino, indi speriamo bene circa il proseguo della recita».
«Non temete, nel racconto si andrà per acque chiare a veder
la bughèda».

Martedì, diciannovesimo d’Aprile, s’apre in Villa il rito del bu-


cato. Uditori, io, pur avendo conosciuto la vita de’ palazzi, mai
assistetti a tale cerimonia. Dicono che servono tre cose per la ri-
uscita della festa, il sole il vento il sapone. Quanti cubetti s’ado-
prano onde fare fresca tra le acque del Reno un’invernata di pan-
ni, una sporcizia da ottobre sino a marzo? Ne conosce il numero
l’Orsina, figlia d’una lavandara, in grado d’amalgamar in giuste
dosi cotenna e ossa di maiale tritati con olio di vetriolo. Cuoce
il composto, lo lascia infreddare, indi ritaglia i preziosi dadi così
i signori sono contenti d’aver il sapone fatto in casa. Lo sgobbo
principia all’alba con i servi affaccendati lungo il prato in mezzo
a pentoloni e fochi, accanto a steccati e corde tese da una siepe
all’altra. E la signora di palazzo dalla verdolina veste? È assente
al pari del vento mentre le donne robuste s’occupano del len-
zuolame e le mingherline delle macchie in sulla roba minuta.

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«Cancaro, maledetta, non vedi che mi stai addosso!» grida una
grossa con il bastone alzato in sulla malcapitata perché la fatica
imbestia con parole e gesti che vengono giù come acqua sporca.
All’Orsina tocca fare da paciera, se no va a monte e non a fiume
la prima andata. E allora addio spettacolo per i contadini che,
da hore, in sulla riva aspettano di spiare qualche capezzolo, rosa
o blu, scappato fora mentre le mani delle lavandaie strizzano!
Una volta tornate a palazzo, codeste pigiano il carico nell’olla in
rame, fornita d’un foro di scolo con sopra il ceneraccio su cui
versar acqua caldissima. Quando il liquido fuoriesce dal buco
chiaro come una prima comunione, i panni sono raccolti e insa-
ponati per almeno tredici volte… cancaro l’arcana scaramanzia!
e, se non sono proprio tredici, sempre in numero dispari. Indi,
la bughèda riposa per un’intera notte avanti d’essere portata a
fiume per l’ultima sciacquatura, poscia battuta onde togliere le
grinze e distesa lungo le corde. Il vento s’ostina a non mover
una piega, di contro appare la regina del rito, cui viene conse-
gnato un minuscolo cesto lieve di qualche ricamato fazzoletto
d’appender alle funicelle con un gesto signorilmente annoiato.
Finito tutto, l’Orsina s’appoggia allo steccato e chiama due servi
a fare da guardiani acciocché a nessuno salti per la capa di rob-
bare la roba stesa. Il gazzettiere con un sorriso dice: «Fosti brava
come tua madre… ma tuo padre chi era?»
«Eh… un soldato tutto confuso bussò alla porta mia madre
aprì e sono nata io. Così diceva il ciavattino del Monte delle for-
miche che, forse, c’entrò lui nella casetta».
«E dopo cosa facesti?»
«Eh… adesso che mi ricordo venni giù a Bologna. Giravo
con le calze a campanella e una caldirana mi portò al Baraccano
a tirar li fili della seta e mi piaceva stare nell’opera bianca ma,
poi, finii a palazzo per servire e tutti dicevano, “Eh, te”».
Accompagnato dagli incanti della natura giunge, uditori, il
Mercoledì lungo i campi battezzati dal sole come da una brez-
za leggera, che spazzola le foglie lustra le corolle disorienta i
calabroni. In Villa, ancor s’attende il ritorno del padrone e del
coppiere Lepido mentre la signora, dopo avere scritto due nove
cilestrine, fa cercar il messo acciocché galoppi sino al castello di
Crevalcore.

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In sul far del vespero, Sabino è di ritorno a mani vòte. Nes-
suna risposta da parte del conte. “Per quale cagione?”, si diman-
da LEI col core preso a morsi dal serpente della gelosia.
Giovedì, ventesimo giorno d’Aprile, un romore di pioggia
e di cavalli porta a palazzo il maggior e il minor fratello del-
la contessa insieme a un tizio, per nome Sebastiano Palmieri,
tanto bramoso d’esser nomato cavaliere da considerarsi già tale.
Codesto, omo collerico feroce e rosso di pelo, fu condannato
perché in compagnia del maggior fratello avea tratto un’archi-
bugiata a morte ad un giovine della nobile famiglia Spada. En-
trambi, poi, vennero graziati nel novembre di tre anni or fa con
la riduzione della pena in tenue multa pecuniaria. Messeri che
m’ascoltate, così vanno le cose in questa città ove, nell’arco dei
passati tre anni, si commisero tremilaseicento omicidi. Il cardi-
nale legato, da esemplare amministratore, però non se ne cura
adducendo come cagione il gran numero della popolazione, sti-
mata in sessantaquattromila anime non tutte pie. Di notte, le
carocie variopinte all’interno e con il guidatore abbigliato in
nero sono scortate e, se ci s’imbatte in un giovine dalla treccia
intorno all’orecchio e una penna nel cappello, trattasi d’un bra-
vo assoldato per delinquere. Gironzola nella contrada, nomata
Truffalmondo, una ciurmaglia arruffata, lesta di coletello e pa-
rata ad offrirsi al migliore offerente. Sono codesti dei banditi,
vestiti di cervetto o di panno azzurro e verde, tutti armati di sti-
letti e di due o tre archibugietti piccioli, oltre quello lungo, che
di preferenza stanno dietro gli angoli di strà degli Albiroli, dal
nome della famiglia piuttosto svelta nel farsi giustizia da sé. Nel
solo giorno di San Bartolomeo, un picco di cinquantacinque
delitti con aristocratiche madri sgozzate insieme ai figli per pura
nobiliare vendetta. Nei vicoli risuona il grido degli accoltellati
e, in sui portali de’ palazzi, le punte di ferro a lancia son nere
di sangue secco. Ma, uditori, torniamo ai nostri, sulle cui facce
appaiono stampati i tre regni della natura. Il maggior fratello
somiglia a un bellissimo uccello dal ruffo piumaggio, il minore
sembra una pera beccata qua e là, e il cavaliero una pietra focaia
per via d’un tremolio negli occhi come a schizzare scintille. Voi
conoscete la dilettevole historietta del Tre? Tre sciagurati fanno
un forfante, tre forfanti un disgraziato, tre disgraziati un infame,

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tre infami un vituperoso, tre vituperosi un obbrobrioso e tre obbro-
briosi fanno un manigoldo. E quel manigoldo del maggior fra-
tello è un giovine di bell’aspetto, dal carattere mutevole che lo
spinge al male con la stessa brama con cui si dà ai bagordi e alle
orge. Incline al furore, vendicativo come avido e insieme prodi-
go sanza avere le rendite d’un principe, cominciò a delinquere
sin dall’età di quindici anni nel sito detto Guasto dei Canetoli.
Là dimorava una femina dagli occhi verdi su di una pelle color
del latte, nomata Calidonia, vedova di Ercole Mezzovillani e
madre di Silvia, poscia sposa di un gran buon uomo, Romano
Desideri, il cui principale scopo nella vita era d’ottenere la croce
di cavaliere. Tenete a mente, messeri, il nome di costei perché
è un personaggio importante di questa storia. Al presente, sto
per dirvi che la disinvolta si trastullava con il beccaro di zona,
il robustoso Ciriaco Castaldi, incaricato d’impegnar e disimpe-
gnar al Monte di Pietà sessanta bottoni d’oro, di proprietà del-
la medesma. Durante un’estate in quel di Sasso, la capricciosa
s’invaghì del maggior figliolo dei conti che passavano la stagione
nella vicina Villa. La tresca continuò nella casa di città nel cor-
so dei mesi in cui cadono le foglie, poscia d’inverno quando il
geloso Ciriaco aggredì l’aristocratico e, mal gli incolse, visto che
codesto gli sferrò un colpo di misericordia da spedirlo tra i santi
o i diavoli. Trasportato su d’una carrega nella via delle Lame, fu
visitato dal celebre medico Tagliacozzo ma, giorno dopo gior-
no, peggiorò tanto da passare all’altro mondo il settimo di Di-
cembre. I giudici, dopo aver interrogato la di lui moglie, Lavi-
nia Guidicelli, sospettarono che il beccaro fosse stato ferito dal
rampollo d’un illustre casato con il consenso dell’amante Cali-
donia. Vennero chiamate a deporre due treccole che, nel corso
del fattaccio, vendeano minutaglie agli avventori della spezieria,
nomata dell’Aquila. “Noi non videmmo un accidente di niente
perché s’era intente a travagliare”, testimoniarono. S’aprì un’in-
vestigazione all’interno della casa di Romano Desideri e, dopo
avere messo a soqquadro le sale dabbasso, gli esaminatori eran
in sulle mosse d’accomiatarsi allorquando la figliola Silvia indi-
cò la stanza, posta sopra. Ivi scopriron i due amanti distesi sopra
un gran letto e lei sul corpo nudo facea mostra d’una ventina di
bottoni d’oro. Vennero entrambi arrestati, poscia condotti alle

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prigioni in attesa di giudicio, ma la conclusione del lungo pro-
cesso non portò a nulla in quanto gli indizi non erano bastevoli
per mandare gli imputati al tormento. Al fine di tutelare l’ho-
nore della figlia spiona, l’Auditore del tribunale l’affidò a un tal
Giacomo Battaglia, presso cui restò per qualche tempo. Indi, di
propria volontà, entrò in convento come preposta a canti e mu-
sica durante le funzioni. Dopo l’ennesima stecca, la mortificata
decise di far la copista di spartiti e, data l’indole sua, giammai si
perdonò il benché minimo fallo. Intanto il maggior fratello era
libero di darsi alle sue male imprese, che nelle taverne intruona-
vano le orecchie dei compagni di carte e dadi.
Tra queste, la più avventurata, ci porta nella lontana isola di
Malta, ove il medesmo trovò pan per li suoi denti. Nelle viuzze
strette della capitale, La Valletta, di notte sono continue le risse
e, all’alba, i feriti sono tutti ricovrati nello spedale della città, il
più caritatevole del Mediterraneo, controllato dai Cavalieri dal
nero saio con in sul petto la croce bianca a otto punte. Ci finì
pure Sigismondo Roero, ferito dal bolognese dopo una disputa
attorno al commercio degli schiavi berberi. La polizia si mosse
perché il frate, delegato a versar il tributo annuale simbolico
d’un falcone al viceré di Sicilia, era considerato figura di riguar-
do. Braccato dai maltesi, il maggior fratello protetto dal cugino
Alessandro, luogotenente del Gallone della Religione e capitano
della Galeotta, la scampò prendendo il largo in su di un logoro
barcone da pesca. Toccò le coste della Sicilia, poscia che viaggio!
Lungo la penisola italica ebbe commercio con briganti e femi-
ne di malaffare, s’indormentò dentro canoniche disabitate guar-
dato a vista da tarlate statue di santi in legno, si nutrì d’olive e
visse per giorni attaccato a una parete di grotta come un ragno.
Arrivato a Roma, agitò il batacchio del palazzotto dell’honesto
cardinale Santarcangelo che ne curò il ritorno in famiglia. I si-
gnori genitori riscattarono le pene e l’erede fu padrone di vagare
per la città da mane a sera sanza trovare un allocco disposto ad
elargirgli una manciata di scudi tra gli aristocratici, che non lo
degnavano d’uno sguardo. Tra codesti c’era chi sussurrava che
lui passasse le notti in compagnia delle donnacce di strà Mira-
sole, dalla benda gialla lungo il petto, di cui era gelosissimo se,
in quel momento, era una di queste a piacergli. Due o tre, di

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contro, si presero la briga di giurare: «Altro che meretrici! Lo
vedemmo, noi, stender li gioielli della contessa madre lungo il
tavolo dell’orologio». Perdita su perdita, i debiti si fecero grossi
e il prestito di quattromila cinquecento lire, ottenuto dagli opa-
chi eredi degli Sforno di contrada…, montò per via dell’Usura
dell’usura sino a renderlo povero ma non vergognoso.
«Son lor, Sebastiano, che mi cuocion a foco lento», sta di-
cendo, «e non passano dì sanza cercarmi in ogni dove. Ah! Se
mi fossi recato nelle sale attigue alla canonica della chiesa di San
Pietro, visti le limosine sui prestiti elargiti dal Monte di Pie-
tà, non sarei qui a mostrarti ’ste piaghe. Però, non vi misi piè
in cagione d’orgoglio. Ma io, te lo giuro, risorgerò e, insieme,
godremo d’una gran bella vita dopo che t’avrò fatto nomare
cavaliero».
«Io e te siamo fatti dello stesso metallo… ma, omo superbo,
qual è il tuo intento?»
L’altro tace e guata verso il minor fratello che, lì accanto, si
tormenta le mani. Codesto è un soggetto sanza carattere, privo
di volontà, tanto servizievole quanto incapace come un cagno-
lino da signora. Scodinzola dietro ogni atto compiuto dal mag-
giore, bramoso d’emularlo a costo di rompersi le ossa onde ve-
nire considerato prima o poi coraggioso. Solo lui, tra i complici,
ha contezza del piano del fratello che, a dir il vero, è duplice
come imparerete, uditori, se ancor mi prestate orecchio. Seguia-
mo, or dunque, il ragionamento dell’indebitato secondo cui la
sorella, al pari d’ogni ben nata, governa un fondo-dote perso-
nale, cui può attingere a piacimento sanza rendere ragione a
nessuno. La medesma inoltre possiede un rubino che, fatti due
conti, vale un terzo della liquidità richiesta ai banchieri ebrei
per far rientro in città dopo i divieti. Risoluzione oltremodo
irresistibile, quest’ultima, perché gli ostinati creditori si plache-
rebbero nel vedere rotolare lungo il lor banco la pietra. Rossa a
ricordare l’occhio del drago, la pietra è la salvezza e lui la concu-
pisce come l’avvelenato la triaca, l’assettato l’acqua, l’affamato il
pane, il soldato la lancia, e la scure la nuca del reo. Al presente,
potrebbe sol dimandarla in prestito, onde non turbare troppo la
parente… circa la restituzione si vedrà. Sortito d’un balzo dalla
loggetta, entra nella loggia passante, grida il nome della sorel-

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la che rintuona lungo le scale sin dentro la stanza, ove LEI si si
trova insieme ai figlioletti.
«Scendo», risponde restando ferma in sul primo gradino.
Immaginiamo d’osservar, io e voi, quest’aristocratica di venti-
cinque anni detta “la chiara”, dal nome solare e la figura eretta.
Poscia fissiamo l’anello all’anulare sinistro, pegno di fedeltà alle
regole d’un contratto secondo il quale la moglie, a riconoscenza
delle cure accordate dal marito, gli dovea la più assoluta delle
divozioni alienando ogni parte della volontà, nonché la sua ani-
ma per intero. Come voi conoscete, uditori, le famiglie nobili
brigano attorno al matrimonio sin dalla nascita degli eredi, che
loro destinano a farsi futuri sposi. Gionti all’età delle nozze, i
prescelti sono tenuti a mettere al mondo un buon numero di fi-
gli e, nel contempo, augmentare i patrimoni dei rispettivi casati.
E la nostra contessa si maritò secondo tali patti celebrati lun-
go tre giorni di festa tra le armonie della gran Villa. I piatti del
nuziale banchetto vennero inghirlandati con fiori leggeri ad ala
di farfalla e i doni agli sposi, distesi sopra dieci tavole sotto le
logge di palazzo, furono quelli della terra, provenienti da cor-
redi di cantine dispense pollai. Portati tutti da cestaroli con in
sulla cape le tonde paniere, offerte dalla compagnia dei Mestie-
ri e dei paesani, che si mischiavano a scalchi e valletti in gran
daffare per dare la cadrega agli invitati considerando il lor ran-
go e i privilegi di religione e di spada. Le famiglie mostrarono
ricchezze di tazze, vetri, maioliche faentine, bacili in bronzo e
argento mentre li tappeti collocati in sui prati, pareano arazzi,
su cui erano fissati specchi ove gentiluomini e dame potevano
rimirarsi. Poscia la sposa accolta nella dimora di città, governata
dall’austera suocera, divenne madre di due figli e principiarono
a scorrere anni mesi hore in tutto identici a quelli che vivea ogni
signora di Bologna. Ma la vita va anche per suo conto liberando
le forze oscure dei desideri con gli omini che mantengono con-
cubine e amanti mentre le giovini spose si dimandano “Ove son
la passione l’attrazione irresistibile e l’amore?”
Passano giorni, dilaniate dalla lotta interiore, s’impongo-
no serrati controlli onde scongiurare l’umiliazione della colpa e
non venire meno al dovere sin quando…
“Un’improvvisa folata di primavera poi un foco tenace den-

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tro il petto, ecco come s’annunzia l’incontro fatale”, dicono tra
sé le agiate malmaritate.
Le questioni da dibatter in questo snodo del racconto sono:
“Capitò tal sorte anche alla nostra signora? Qual è il segreto del-
le lettere cilestrine rimaste sanza risposta? Cosa stanno sussur-
randosi i due fratelli dietro i vetri della loggetta, lontani dagli
sguardi?”
Ecco il core dell’intrigo perché la contessa, certa d’aver in-
contrato l’amore eterno nella persona del più fascinoso aristo-
cratico della città, ha perso la capa e, d’indole gelosa qual è, in-
tende agir di fretta avanti che una rivale lo faccia suo. Nel corso
dei giorni di prigionia, risolvette d’annunziar al marito durante
il rito del bucato la richiesta di separazione dalla mensa e dal
letto buttando a fiume la prudenza coniugale sanza la quale, di
questi tempi, non esiste il buon gusto. Eccitata dalla decisione,
brama di parlare con il primo che capita e, se questi, è sangue
del suo sangue, il fatto la rassicura. E principia, la sconsiderata,
l’audace rivelazione con l’omo men atto ad accoglierla metten-
do in conto costi e rischi dello scioglimento del vincolo, sana-
bili però mediante la vendita… e intanto sfiora la collana. E al
maggior fratello resta tra le dita solo un ricordo di rubino.

Questa lunga lettura, pazienti uditori, reclama qualche comodi-


tà e come capisco chi di voi s’è assiso in sui gradini del portico!
Anch’io vorrei poter stendere le gambe ma devo restare in Villa,
ove il colloquio tra i due fratelli vien interrotto da un gran vocia-
re. I servi sono tutti in premura per l’arrivo del padrone e sinanco
un cavallo, stretto di ventre come corto di giunture, scalpitando
pare volerlo salutar a modo suo. Il maggior fratello s’appropin-
qua al signor cognato mentre la contessa già inanzi alla chiesetta
schiude la porta con un gesto rallentato. Nel tramonto d’Aprile il
prato, vòto di lavandaie, appare più grande al gazzettiere.
“Ma chi è quel tale in sul fondo del giardino con un col-
tellaccio appeso alla cintola?”, si dimanda. Forse un servo, un
contadino, o un bandito sceso dalle montagne. Lo scruta, strin-
gendo gli occhi, e ravvisa il minor fratello. E guarda cosa fa. Sta
per entrar nella bottega del fabbro. D’improvviso, s’ode un bat-
ter di martello, che pare una musica, e in sui tocchi il medesmo

41
sortisce con passi danzanti. “Par una bestiolina eccitata”, pensa
il nostro. Poscia scorge l’Orsina e, fattosi vicino, dice piano:
«Spiegami la cagione per cui la tua padrona fu carcerata nelle
sue stanze su ordine del marito. Cosa capitò?»
«Eh… lo so ma non lo dico a te», e gira le spalle.
«Fida, io non sono nemico della signora e in famiglia s’anni-
dano le insidie. La contessa abbisogna che sia la mia persona e
la sua donzella le dian aiuto, come posson e sanno».
«Eh… LEI e l’amante furono visti dal signor marito nella
saletta rosso cremisi di casa e aveano messo le due sedie vicine».
«Se la porta era chiusa, nacque lo scandalo… vero Orsina?
Perché ognuno sa bene come l’honore delle donne non consista
nel fare o non fare, bensì nel credersi o non credersi».
«Eh… a palazzo anche le fessure hanno gli occhiacci e fu tut-
to un dire in città».
Così la sconsiderata femina venne scoperta e un adulterio
consumato sotto il tetto coniugale, indi divenuto di publica
fama, manda al vento la richiesta di separazione da parte della
colpevole. “E LEI non dovrebbe ignorare che così recita la leg-
ge”, pensa il gazzettiere.

Tra il pubblico s’alza una voce, ma non s’intendono bene le


parole.
«Dite, dite», messere, «volete forse salir in sulla cadrega?», in-
vita il bresciano un poco stanco. Disceso l’uno, montato l’altro,
vien raccontato dal secundo che nella civilissima città di Bolo-
gna donna Antonia Sanvitale d’un illustre casato romagnolo,
ma vivente da noi, scoprì il signor marito Aurelio Dall’Armi in
flagrante adulterio nel coniugale talamo. Per tal “colpa” fu dal
libertino picchiata a sangue e, sì mal ridotta, venne accolta da
un giudice solerte nell’istruire la causa della separazione. Poscia,
corsero tempi biblici, il prezzo del processo parve intramonta-
bile anche se l’Antonia affrontò l’impresa sino a scorgere l’alba
della libertà nel proprio feudo, fiduciosa di meritar ogni consi-
derazione presso la sua gente. I maschi di Romagna, in vero, al
vederla passare intonavano: “Che adesso poi non si possa più
darne di santa ragione alla propria moglie non fu mai visto!”
Ridono tutti e pure Lucco sorride mentre guarda l’Orsina,

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sempre più commossa sotto il velo, intanto che il recitante ripi-
glia il suo posto e la parola.

Cortesi uditori, riportate l’orecchio a questa parte del racconto


che l’auttore titola Parenti serpenti. Ci trasferiamo nel palazzo
di città dei signori conti, proprio in fronte alla porta della sa-
letta rosso cremisi che da mesi, a partir dal dì dell’incontro tra
i due amanti, il ventottesimo di Febbraio, è rimasta chiusa. Le
finestre non filtrano una goccia di luce e le pareti sono tirate a
lutto con pesanti tendaggi. La signora madre del coniuge com-
promesso, al secolo donna Sulpizia, ogni qual volta passa accan-
to a quell’uscio, abbassa la capa tormenta i palmi si fa il segno
della croce, e s’infila nel salone posto accanto. Rossa di rabbia,
porta le mani in sul petto come se ospitasse un macigno al po-
sto del core mentre si move per il lungo e per il largo. Parla da
sola inanzi alle sedie, disposte lungo le pareti perché nessuno,
quando cala il buio, ci possa inciampare, poscia si rivolge ai val-
letti muti e sordi, posti a guardia del camino. Lamenta, la gran
dama, d’aver in sulle spalle il governo della casa, un marito de-
crepito dal poco giudicio e un erede che la mette in croce dac-
ché, dopo avere scoperto l’adulterio della moglie, s’è intestardito
con la cassettina de’ veleni. Sollevando le braccia fa rimostranze
al soffitto: «Se mai in città si venisse a conoscenza delle morti
occorse subito dopo le mie visite presso la Casa del soccorso di
San Paolo, un’intera vita di caritatevoli opere verrebbe in un
Amen scancellata». Cosa mai avrà compiuto di sì grave? Chi vi
parla collegando i veleni alle morti improvvise, beh… un’idea
se l’è già fatta anche se mica è bello pensar male d’una buona
cristiana quale la signora vanta d’essere. Fare del bene al prossi-
mo tuo, uditori, è il primario dovere delle ben nate bolognesi,
da sempre in gara nel contendersi la palma della più virtuosa
con l’una dedita a spiare l’altra ponendo in campo le personali
qualità. A donna Sulpizia, in causa del carattere fermo quanto
indagatore, vennero affidate le derelitte scappate dalle botte de’
mariti, quelle in fama d’essere malefemine e chi s’era sbarazzata
dei propri figli. Giongono, codeste, malconce e affamate nella
soccorrevole Casa, fondata da un ricco mercante e, passato un
primo esame, quivi trovano pane preghiere e pentimento oltre

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al quotidiano esercizio della confessione davanti alla lor reden-
trice. Gravoso impegno, questo, perché le miserande provando
vergogna nel raccontare i propri vizii all’austera signora, che in-
calza dimanda su dimanda anche solo per la curiositade di sape-
re, talvolta escono di sé. Nascono così le scene accese, gli scambi
d’insulti e affannate corse verso le polveri benedette da calar in
su la capa dell’eccitata per cacciar via il diavolo e, se costei non
mostra di placarsi, al pari d’una strega vien cacciata dalle mura.
Provata da tali fatiche, la caritatevole Sulpizia, una volta gionta
nella personale magione, avrebbe pur il diritto di tirar lo fiato,
invece non trova pace. Al presente, non cessa di deambulare e,
a voce alta, impromette di portarsi dimani in pellegrinaggio alla
volta di Loreto e sarà la Madonna nera a propiziare la risoluzio-
ne della faccenda familiare.
Dall’oriolo, sopra il camino, i granelli di sabbia non vogliono
proprio scendere, il consuocero capitano Paolo tarda ad apparire
nonostante il sollecito invito, tutti gli accidenti vanno storti si-
nanco il perimetro della stanza che non appaga i passi della non
chèta. Aiutati che Dio t’aiuta, e l’indomita avrebbe bel escogita-
to un piano a patto d’aver dalla sua alleati di famiglia. Eccolo il
capitano già nel vestibolo, e lei raddrizza la figura inventando un
sorriso. Poscia è una spiegata di parole a far abbassare la capa del
signore che in meno d’un balenio di lampo pronunzia: «Mi trova
consenziente la vostra decisione di mandare l’adultera in un con-
vento di bianche o di grigie, magari lungi da Bologna, in quel di
Reggio di Lombardia così il tuono non adduggerà le nostre case.
A voi dimando solo quando e in quale guisa provvederete al tra-
sferimento dalle campagne al monastero».
«Prima che mai, e sarete voi a scortare la malcostumata fora
di città curando che la sua cella sia serrata a doppia mandata.
Indi, affrettatevi a provvedere alla carocia».
S’accomiata con un inchino il capitano, un gentiluomo di-
stratto al punto d’aver scordato da un bel pezzo d’essere padre di
tre figlioli affidando ogni decisione alla solerte genitrice, ma la
giornata ancor non è conchiusa se, nei pressi della sua dimora,
avverte una voce. Si gira e rimane come chi ha magnato troppo
d’aglio.
La corruttrice del suo maggior figliolo è colei che gli si para

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contro. Vi ricordate, uditori, di donna Calidonia, la formosa fe-
mina del Guasto de’ Canetoli, cui piacea scherzare nuda in sul
letto con il corpo istoriato di sessanta bottoni d’oro e un cagno-
lino a leccarle i piè accanto all’amante di turno? Al presente, ha
fatto carriera e che carriera! Appostata fora dal principale Monte
di Pietà o presso i pii Monti delle diverse contrade, aspetta di
vedere qualcuno con in mano la ricevuta del pegno. Lesta s’ap-
propinqua afferra la carta s’alza in volo al pari d’un uccello dopo
avere beccato. I derubati le corrono dietro con le furie in sulle
cape, ma la furbona piglia a lanciare alle sue spalle una piogge-
rellina di quattrinelli in rame e sono gli inforchettati, ’sta volta,
a beccare come colombi.
Poscia, fatto passare un breve lasso, disimpegna anzi tempo
gli oggetti godendosi il prezzo vantaggioso.
Ognuno, però, è schiavo dell’indole sua, e la nostra s’inva-
ghì d’un giovane sedicente cavalier dalla lunga coda di capelli,
nomato Sebastiano Palmieri, amico del maggior fratello. E se la
spassavano, i tre, perché l’inventiva della comune amante era cosa
assai dilettosa. Ora, la medesma intende estorcere scudi all’inef-
fabile signor padre e mostra la biancheria ricamata, sanza però lo
stemma di famiglia, scovata chissà mai dove, e tirata fora dal sac-
co portato da una robustosa, simile a una fantesca dall’aria vaga.
«Dovete provvedere, capitano», si querela, «perché mi disse-
ro che in Villa stanno per capitare cose grosse».
Il signor non comprende. Allora la nostra, paro paro, spiega
d’avere molto brigato per scovar un rifugio tra i monti, ove il
maggior figliolo possa ricovrarsi in caso di bisogno. Indi, la fati-
ca merita un compenso, diversamente il Barigello verrà a cono-
scenza delle trame di palazzo e del sito nascosto.
Che parole, uditori, pronunziate da chi ancora puzza di
stamberghe magazzini granari inanzi a chi pratica ben altre re-
gole di creanza! All’aristocratico non rimane che far rotolare li
scudi in sui palmi della Calidonia mentre insinua: «Nelle nostre
campagne regna l’armonia, ma elargir una limosina ai pezzenti
solleva lo spirto».
Di poi, entrato a palazzo con il sinistro ciglio sollevato a mo’
di cipiglio, cerca la signora moglie. E suonano tre secche frasi:
«Dimani devo andar in quel di Reggio con la vostra figliola.

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Una gorgiera fresca è quel che ci vuole per fare buona figura
inanzi alle monache. Conto, però, d’arrivar in tempo per la visi-
ta di cortesia ai signori Malvezzi». In quel mentre la Calidonia,
rimasta in sulla strà, si rivolge alla muta testimone ancor gravata
dal sacco di biancheria: «Maga Sambuca, corri in Villa, armata
di scodella, per capire come là si stiano movendo le faccende.
Pago io il carro. E porta la roba bianca ai bisognosi… non udisti
che questo è il dì delle limosine?»
Parte l’incantatrice in su di una carocia e, gionta in sito, fa
per scendere ma s’alza un ventaccio che mica è uno scherzo.
Conquistata a fatica la sortita, avanza tutta bardata di pelo color
squizzo d’oca come la più grossa gallina del pollaio… e, se lascia
dietro qualche svolazzante penna, pazienza! La signora, avvisata
dalla donzella Orsina, appare in sul retro della loggia passante
quando una folata manda in su la gonna, poscia s’infila lungo
i mutandoni così da farla scappar dentro. Nella prima stanza
a destra dell’entrata principale, la Sambuca abbraccia la dama
che l’accomoda vicino al tavolo dalle otto facce con accanto
due scranne. L’indovina pone in sul piano la boccetta d’olio e
la propria scodella dimandando una brocca d’acqua, che versa
nella ciotola sino a metà. Indi, pronunzia i nomi, suggeriti dal-
la contessa tutta tremante, mentre dal beccuccio calano lente
le gocce e s’attende che il mescolamento degli elementi porti a
galla il destino. Uno sfarfallio di forme sinuose indica la buona
sorte, l’aggruppamento minaccia qualche intoppo, ma quello
che lei ora vede davvero è sì spaventevolmente contorto da farla
balzare in piè.
«Chi ha tempo non aspetti tempo», dice, «Scappate, signora,
in sull’ali del vento perché ogni tardanza sona periculo per voi!»
«Prova, Sambuca, a far scender una seconda gutta in sul
nome del mio conte».
Macché, così l’incantesimo non vale. E la fattucchiera è già
fora dall’uscio.

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Capitolo secondo

Presso la stamperia e in altri siti di città

Silenzio in sulla piazza. Gli occhi di Lucco e Moscatelli si cer-


cano, il bresciano sta per annunziare la seconda recita tra sette
dì nel medesmo sito quando alcuni tra gli uditori, dopo avere
sollevato la cadrega, lo portan in giro tra il ciac ciac che più non
si ferma. E chissà, dimani, quante copie si venderanno! Ma il
torcoliere, tutto in sverzura, s’è già messo a distribuir li fogli
lungo il portico intascando i carlini e Giovanni Paolo, cosa mai
vista, allunga al bresciano qualche quattrinello in rame. L’Orsi-
na sparisce insieme all’impressore in vivaci chiacchiere mentre
Lucco, appoggiato a una colonna del portico, alza lo sguardo
verso la testa in pietra d’un satiro ghignante e “Sono contento”,
gli fa saper.
Chi semina spine non vada sanza scarpe
Il giorno vegnente, arriva in stamperia chi ha tutta l’aria d’essere
un servente di palazzo, con la camiscia fora dalle braghe, le scar-
pe colorate e tra le mani un largo fazuolo.
«Mastro, dico a voi», pronunzia.
«Ma non vedete che sono all’ovra, servo…».
Ovra o non ovra, lo tira a sé mentre riferisce che i signori

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Zambeccari vogliono incontrarlo a palazzo insieme al torcoliere
e all’impressore. “Qual mai nova!”, pensa il nostro, intanto che
l’altro si propone di restar in situ acciocché nessun ladro entri.
S’acconcia fresco Giovanni Paolo, mira soddisfatto le pianelle in
velluto, che gli diede Lucco in cambio dei suoi stivali, spolvera
alla meglio le spalle dei garzoni e…: «Se non v’isforzate d’essere
da bene inanzi ai signori, siete figli d’una madre pelata». Ecco-
lo il terzetto già fora di bottega quando, dopo un tocco in sulla
sua capa, lo stampatore trascina dentro il torcoliere che resterà a
presidiar il torchio. In due s’avviano con Moscatelli ridacchiante
perché, se si degnano di chiamarlo, sarà per un’accomodata. I
Zambeccari sono gente d’antica aristocrazia, che fanno parte del
Senato, e s’accorderanno con il Legato onde far passare sotto si-
lenzio la recita magari dandogli un bel compenso. Se la racconta
nel corso del cammino sin nei pressi di San Barbaziano e, lì, av-
viene una gran bella scoperta. In sul portale del palazzo, trovan
un robustoso dal cappello di sghimbescio con piumetta, che si
passa l’indice della mano lungo il collo ad indicare cosa capiterà
a chi scherza coi santi. E lor intendono bene se, lungo la via del
ritorno, l’impressore non apre bocca mentre il mastro, disco-
sto un buon tratto di mano, pare di gesso. E quando, attorno
al mezzo dì, Lucco arriva in bottega scorge un busto disteso in
sullo scrittoio a braccia larghe con i garzoni a commentare: «Da
hore Moscatelli pare un morto». Dopo avere ascoltato l’infausto
incontro, il gazzettiere prova a sussurrar all’orecchio del sanza
vita: «E se cangiassimo il sito delle recite, Giovanni Paolo, lor
signori mica aspettan una tal svirgolata».
E il resuscitato replica: «Facciamo, però, lo punto. Forse è
possibile… ma come dare la notizia del nostro spostamento al
pubblico? Sta a vedere che mi tocca tirar un altro Avviso e così
finisco col mangiarmi la coda come un gatto».
All’udire l’ultima parola i presenti si guatano l’un con l’altro
e poi piegano la capa verso il pavimento.
«Ma il certosino sanza coda ov’è finito?», dimandano tut-
ti. Il torcoliere, quello svagato, l’ha perso di vista e al rientro
dell’impressore e dello stampatore Miao non s’è infilato tra le
lor gambe. Chiamato e vezzeggiato, non sbuca da dietro le co-
lonne del torchio, non lo si trova acquattato sotto lo scrittoio

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e neppure salta giù dalla vetrina piena di polvere. L’impressore
corre fora e, una volta rientrato, ha tra le mani il fazuolo insan-
guinato del servo con dentro il corpo dell’animale.
«È un avviso e non dei nostri!», gridan all’unisono.
«Anche se noi parimente daremo la nostra publica recita»,
proclama Moscatelli, «ove, però, non so».
Nella piazza Grande, pare suggerir il maestoso torchio.
Meglio è essere uccello di campagna che di gabbia
Frattanto in città di lor si parla. Fu bello, concordan in tanti, ci
siamo sentiti dei veri signori con un attore bravo tutto per noi
come fossimo a palazzo. E quelli del mercato già pensano che
Venerdì avanti l’hora di cena chiuderanno l’uscio delle lor bot-
teghe e, nel frattempo, si fanno raccontare la trama o prestar il
foglio onde leggerlo o farselo leggere. I più accorti hanno rico-
nosciuto i personaggi reali: «Ma ci piace saper gli accadimenti
veri», concludono, «avanti che li imbrogli il publico processo».
Anche lungo i corridoi del tribunale tre giudici ad maleficia par-
lano della cosa, ma scotono la capa. A breve, giustizia sarà fatta
e s’udiranno le testimonianze dei servi presenti in Villa nei dì
del crimine, già interrogati con il permesso dei lor padroni. Da
un dì questi appresero che la donzella della vittima è l’unica te-
stimone, sfuggita agli indagatori come ai parenti della vittima.
Ne sanno di più sulla fuggiasca le anime compassionevoli di strà
dell’Altabella che, vedendola, dicono: “Poverina sembra anne-
gar in quel lutto!” Perché lei, in luogo di consumare lo sguardo
sulla torre alta e bella, s’era da subito messa in cerca d’un loco
ove potere dar una mano.
«Con queste sortite tu mi renderai pazzo!», ripetea Lucco.
«Eh… è meglio esser uccello di campagna che di gabbia».
Così, giorno dopo giorno, eccola nel vicolo dell’Alemagna
presso la locanda preferita dagli amanti dei crauti e delle salsic-
ce. Sul far della tarda sera, facea ritorno a casa con un cartoccio
e la solita frase: «Eh… ho le polpette, bel cappello?». Due non
più giovini, intenti a mangiare roba fredda al lume d’una sola
candela, si fanno speciali se i tre giudici sopraddetti son in sul
punto di conoscer il sito che li accoglie. Avanti di far il nome
della ricercata, il primo mordicchia l’unghia del pollice, il se-

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cundo passa l’indice lungo la gorgiera inamidata, che par una
lattuga in horto, poscia come un sol omo dicono: «Compete al
Barigello e ai Birri stanare ’sta ervaccia, mica a noi… e che gli
inquisitori faccian il rimanente ch’è lor spettanza!»
Chi è furbo a ogni cesto
trova il suo manico
In città, il capo della polizia ha collocato in ogni stamperia un
omo fidato, indi anche nell’officina di Porta San Vitale si trova
una spia.
«Sì lenta nel compier il dover suo che mi farà perdere la
scranna!», grida il medesmo allo scriba nella propria residenza
dalla porta tinta di verdolino, posta nell’ultimo arco del portico
del Podestà dalla parte del Publico Palazzo, accanto all’alloggia-
mento de’ Birri e alla gran torre che ospita le carceri. E dà ordi-
ne a un dei suoi di menarlo immantinente, vivo o morto. Due
hore dopo, in fronte all’imponente giudice, la lingua patinosa
del delatore racconta per il lungo e per il largo.
«E tu, in luogo di cantarmi l’intera messa, tenesti stretto il
segreto del confessionale? Avresti dovuto da subito vòtare lo
sacco dicendomi del racconto delle recite delle vendite di fogli
clandestini, che danno il contagio come la peste».
L’impressore abbassa lo sguardo: «Perdonatemi, signore, fac-
cio di tutto adesso per tornarvi caro».
«Allora voglio quelle maladette pagine sotto il mio naso».
«Non posso. Moscatelli tiene lo scartabello di Lucco nella
tasca della giubba, signore».
«Si tratta dell’originale, nevvero».
«Certo, signore».
«Chi è furbo a ogni cesto trova il suo manico e tu piglia li fogli,
poscia datti malato. E portami quel dannato scritto… Dimani!
Gambe in spalla! Diversamente, le vedrai legate con un anello di
ferro mentre s’appropinquano a due assi con dei cunei conficca-
ti, che possono essere quattro oppure otto. Inteso?»
«Ma, dimani, avanti l’hora di cena siamo tutti per la secun-
da recita!»
«E ove si terrà?»
«In sulla piazza Grande, penso».

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«Lo pensi o lo sai, miscredente?»
«Per certo», confessa.
“Hanno l’ardire di portare la disfida nel core della città, a
due palmi dalla mia residenza!”, dice tra sé il Barigello che, con
in pugno il romanzo, intende presentarsi agli inquisitori perché
verba volant ma scripta manent.
L’impressore, una volta gionto in bottega, vede Lucco di spal-
le, intento a guardar in sul cristallo dello specchietto a mano lo
stampatore che rampogna il garzone. “Qual è la più veloce cosa
che ci sia?”, si dimanda la spia. Il pensiero. E in men di un amen
s’appropinqua a Giovanni Paolo con il cassettino de’ piombi in-
chiostrati e, oplà, li ribalta sopra la di lui veste. Intanto che si
scusa, implora sino a persuaderlo a restar in camiscia. Indi, dietro
un angolo, fruga in tasca estrae lo scartabello e lo ficca all’interno
della cintola. Il gazzettiere, adocchiato il traffico, rimane zitto an-
che se lungo il dì ripensa a quel gesto. Verso la metà della notte,
gli Avvisi sono messi a dormire con tutti che se ne vanno conten-
ti, tranne Lucco acquattato dietro le mura di Porta. Non passa un
lasso che il ladro butta fora, guardingo, la capa. Nel buio l’altro
lo vede prender il portico sino alla torre Asinella, lo segue a dovu-
ta distanza mentre s’aggira tra i banchi coperti del mercato, po-
scia eccolo inanzi l’ingresso dell’acquartieramento de’ Birri. Un
di loro, sotto il voltone della Madonna del Popolo, gli fa cenno
come se lo conoscesse… eh sì che lo conosce, se gli sta dando la
manata dell’amicone in sulla spalla, e l’impressore mette piè nel
paradiso degli spioni. “Che fare?”, si chiede il nostro,“Scappare
con i compagni o escogitar una possibile difesa?”
Anco la volpe talvolta si finge inferma
per trapolar i pollastri
Quando sorge la luce del dì, Lucco entra in stamperia con gli
occhi sfuggenti al par della lingua, che non risponde alle di-
mande di Moscatelli, perché saprebbe di spergiuro come avesse
sputato l’ostia della Messa. Di sottecchi, mira le mosse del tra-
ditore tornato in loco che, una mano lungo il fianco, finge do-
lori sempre più acuti sì da finir accompagnato dal torcoliere allo
spedale della Morte.

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In bottega l’aria è serena con gli Avvisi che vengono distesi
lungo lo scrittoio e l’impresa strappa sorrisi scaldando lo core
perché… “Saremo tutti in sulla piazza Grande, dimani”.
“Non ci saremo più noi dimani”, pensa l’auttore, assiso in
su di un cadreghino mentre Giovanni Paolo dà incarco al gar-
zone di passare parola tra le botteghe del mercato di Mezzo così
la gente affollerà la gradinata inanzi al tempio di San Petronio.
È lasso il giovine per l’impresa, valuta mestamente il gazzet-
tiere. Indi, come se una bestiolina annidata tra il legno l’avesse
punto in sul fondo della schiena, balza in piè con una pensata
sghemba in attesa di farsi tonda. Sortisce di bottega, vola nella
taverna del Sole, presso il Gorgadello dei Ranocchi, e in sul far
del mezzodì trova chi inghiotte a quattro ganasce, chi ha l’aria
stracca, e due studenti che, pieni di voglia, mirano li satolli.
“Saranno loro i miei omini”, dice tra sé.
Gli studenti, l’anima eretica della città, faranno tamburo e
un folto pubblico terrà testa ai Birri onde difendere la publica
recita e i paladini della verità. Tutti hanno sete di saper e anche
la piazza Grande dee destarsi dal lungo sonno! Tirato il primo
da una banda, dimanda chi lui sia.
«Sono foresto», risponde, «e mi chiaman Alessandro Diffi-
da. Con ’sto cognome un poco palindromo sarò pur dotto nel-
la rettorica, però, dacché vivo nella città grassa non faccio che
magnare crusca».
Per qualche soldo entrambi accettan l’impresa e, di buon
animo, divorano le ova sode pagate da Lucco al tavernaro che,
bazzicando i Michelazzi d’osteria, allarga le braccia sconsolato.
«All’hora della vostra lettura giuro in sul mio nome, messere,
che ci saran i compagni dello Studio, i bottegari, i giovini notari
di via delle Accuse, i tirocinanti dei due vicini spedali, anche i
sonnacchiosi sotto il Publico palazzo avranno le orecchie tese».
Gli dà fidanza, il nostro, e dopo una stretta di mano s’ac-
cinge a metter in riparo l’Orsina. Sale nell’alloggio e conduce la
testimone in vicolo dell’Alemagna, ove dee restare sino a notte
fonda e, nel caso non lo vedesse ritornare, l’ordine è di scappa-
re via.
«Eh… ma dove?»
Lui ci pensa su e dice: «Rifugiati nel convento a fianco del
collegio Montaldo, le monache sono golose di polpette».

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Lei fa un di quei musi che il nostro sa imitare benissimo e,
insieme, trovan un po’ di voglia per ridere.
Ignora, lui, che il Barigello la medesma mattina, deposto
in sullo tavolo dello studiolo lo scartabello, s’è allontanato per
un’urgenza corporale. Intanto il suo scriba, uno spaventato ti-
mido amante della prosa, entra vede il taccuino in sullo scrittoio
l’afferra scorre qualche pagina quando avverte dei passi e, rapi-
do, lo nasconde tra le sue scartoffie. Inanzi alla scrivania vòta il
capo rivolge uno sguardo disperato verso il suo omo più fedele e
grida: «Corri a chiamare le guardie… qui passò un ladro!». E il
ladro vero tace. I Birri cercano da mane sino all’hora in cui Luc-
co rotando gli occhi in sui presenti raccolti nella piazza Grande:
«Che strane facce!», dice, «Ove sono li bottegari gli osti i mer-
canti e quel Diffida, fatto di frottole e fanfaluche, che s’è messo
in saccoccia i miei quattrinelli?»
In quel mentre il bresciano, sistemata la cadrega è un sol fre-
mito. Farà udire la sua voce, ostinatamente esclusa dal coro dei
Concerti Palatini che si tengono in sulla piazza, e vieppiù eccita-
to continua a ripetersi, “La piazza Grande… la piazza Grande”.

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Seconda puntata

Nella piazza Grande

U ditori, la parte del racconto che m’accingo a leggere ci por-


ta in quel di Casalecchio, presso il palazzo degli illustri
conti, teatro degli eventi noti a chi di voi era presente alla prima
recita. A favore degli ignari dirò che, quivi, s’era tenuto il Bu-
cato lungo i dì della Santa settimana del corrente anno. Strani
giorni davvero, quelli, con tanti accidenti da toglier il sonno pur
alla notte, scrive il gazzettiere dal bel cappello gionto da Bolo-
gna onde raccontare il rito. Al presente, udrete il proseguo della
storia che principia in Villa a partir dal Venerdì della passione
di Nostro Signore ventunesimo giorno d’Aprile.

Verso l’alba, il conte è in piè accanto alle cortine del grande letto
nella stanza del piano terreno. S’è girato e rigirato tra i drappi,
nonostante il cielo e la pace immacolata scesa sui campi rassi-
curassero piante e fiori con un luminoso sereno. Dopo un lasso,
risoluto entra in una delle cucine, che dà sul giardino, e vede
un garzone mai notato avant’ora. Per certo chiamato dal fattore
Matteo De’ Lelli, pensa lui, che nelle mie campagne fa il bello
e il cattivo tempo. Squadra il medesmo, venuto giù dai monti,
poscia lo manda a cercar il credenziere Sante. Nell’attesa, resta
immobile tra un piumoso sfarfallio sotto il lampadario di vo-

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latili impiccati a testa ingiù, ancora nostalgici delle lor penne.
Sanza increspare le narici in quell’inferno di puzze accarezza la
cassettina in legno policromo dicendo a voce alta: «Sono parato
a fronteggiar qualsivoglia accidente». Ecco che arriva il piccolet-
to, con l’aria già stracca avanti d’udir il comando di procurare il
pesce ai mercati di Bologna per una cena alla buona nella gran-
de cucina come si costuma in Villa quando non ci son ospiti
di città. Fa per andarsene se non che il credenziere gli tocca un
lembo della giubba e, da subito pentito per l’imperdonabil atto,
si piega in avanti aspettando una bella lisciata di cuoio in sulle
spalle. Il signore, invece, gli consegna un piastrone da tre lire
per le compere. Parte Sante in su di un carretto, tirato da un
mulo lento quanto testardo, sotto il sole a picco e, dopo un paio
d’hore, incoronato da un canestro arriva nelle viuzze del merca-
to di Mezzo. Se la gode nella bottega d’un venditore di coltelli
tastando le lame una ad una, poscia presso il falegname dà due
colpi di pialla e, dietro i banchi del pesce, s’inchinano tutti pur
d’aver un resto di moneta contro un barillotto d’ostriche. Tra
bestemmie patimenti e sogni d’acqua fa ritorno a palazzo ma,
una volta gionto, non c’è un cane di servo a dirgli “Bravo!”.
Sono tutti, fermi come stoccafissi, ad aspettare le consegne e
nessuno manca alla conta tranne Bernardino, trinciante di pa-
lazzo, in aggiunta il più gran pelandrone dei paraggi. Una bella
fila di natiche si move a ritmo nel pulire li pavimenti mentre le
vecchie di casa stirano con le mani le grinze della tovaglia e, tra
una parola e l’altra, buttano là: «Cosa ci fa poi l’Orsina insieme
al foresto dal bel cappello che da giorni ci sta in sui calli?»
Le ciance volano sopra le schiene in quel Venerdì scordo-
ne della passione di Cristo dentro il fare domestico d’un gior-
no ugual a hieri e, forse, anche a dimani. Dimani no, uditori,
perché il baglior di qualche terribile realtà, saltato fora dal core
della primavera, move l’aria se il gazzettiere si nasconde dietro
la tenda rossa di cucina. Qualche tempo dopo il vespero, entra
la signora di palazzo, vestita di verde, con un bel gioiello in sul
seno che s’appropinqua ai suoi bimbetti. In disparte, il di LEI
marito parla a gesti concitati con due castaldi mentre gionge su
di una carocia, messa a disposizione dal conte, il Massaro di Ca-
salecchio, cui viene data la scranna più alta nonché scomodissi-

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ma. La mamma lava le mani alle creature dentro un bacile, li ac-
carezza e vuole subito congedarli. Perché tanta premura? La luce
della sera insinua qualcosa… macché, siamo in famiglia attorno
al desco… e il vino? Sta arrivando sta arrivando… anche se, in
assenza del coppiere Lepido, il servetto mandato nelle cantine
non sa qual barilotto prendere nella stanza delle botti e delle
brocche così, a naso per aria, girella per gli altri tre vani. Scruta
il pollame e la grande selvaggina conservati nel primo, odora la
cassa contenente la biancheria, scopre nel terzo i cesti con den-
tro le candele di sego, fatte in casa con il grasso d’un qualsiasi
animale, e quelle di cera d’api ben più pregiate. Nel piano di
sopra, frattanto, la contessa, assisa accanto al signor marito, con
l’indice meccanicamente sfiora la cassettina policroma, appog-
giata in sulla tavola, ma subito lo ritrae quasi impaurita. Alle sue
spalle, appare Michele, perfido sgherro, con nella mano sinistra
un’ampolla da cui fa cadere dentro una scodella, retta dalla de-
stra, una roba bianca come farina. Dita grosse e polvere fina non
vanno d’accordo se una buona metà finisce in sul pavimento.
Il servo gira gli occhi verso il pater familias che, colto lo sguar-
do, s’alza finge di parlottare con il fratello naturale Vincenzo fa
l’amico coi fattori, indi a voce alta addimanda: «E il curato di
Casalecchio non s’è ancor visto?»
«Sarà nelle brighe di dar un’estrema unzione», dice un
castaldo.
«Oppure», prosegue il Massaro, «c’è qualcuno che ha qual-
che straccio in bucato da confessare».
«Forse sì… invece qui ci godremo la cena», replica il padro-
ne intanto che ordina d’accendere sette candele, quattro lungo
la tavola e le rimanenti in un angolo di cucina. Dalle cantine
arriva il garzoncello con due fiaschi e il signore, sollevato il ca-
lice verso i presenti, proclama in baldanza: «L’acqua è fatta pei
perversi, il diluvio ’l dimostrò». Un brindisi all’antica, con il dito
dentro il bicchiere, saluta il fumante pancotto portato dalla cu-
ciniera mentre lo sgherro Michele indica a un’altra servente la
scodella da porgere alla contessa. LEI solleva il cucchiaio sino
alle labbra quando il bel cappello, sortito in un amen dalla ten-
da, scopertamente grida: «Signora, per la carità non toccate la
minestra versata dentro quel piatto!»

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Il gesto della donna rimane sospeso, i commensali son at-
toniti, il marito smania in sulla cadrega mentre s’ode: «Sono il
gazzettiere, gionto in Villa onde immortalare la cerimonia del
bucato e, da dietro la cortina, viddi il servo versar una polvere
bianca nella scodella».
Tutti s’alzano, parati ad andarsene, per primo il Massaro con
la mano in sulla lama pendente dalla sua cintola. Il volto del pa-
drone, privo di sentimento, pare quello d’una statua che, per in-
cantesimo, prenda la parola: «Gentili ospiti, nel pancotto della
mia signora furono versate su mio comando erbe benefiche ri-
dotte in minugia, onde rinvigorirla dopo le fatiche del bucato».
A riprova, solleva la cassettina dal piano della tavola, tira fora le
due scatolette, manda giù tutto sino all’ultima innocua fogliet-
ta. Il pubblico ufficiale tira il fiato, i commensali sorridendo
s’assidono, il braccio del marito cinge le spalle della moglie che
inghiotte la broda. Al secondo sorso, il di LEI volto diventa co-
lor della cenere, i palmi stringono il ventre, le labbra faticano a
dire: «Ho un gran dolore allo stomaco come se m’avessero pun-
to il core con uno spillone».
Indi, sollevatasi, tende la mano verso l’Orsina, che ne guida
i passi sino a quando, terrorizzata, sospinge la padrona da una
banda. A terra, qualcosa si move. Poscia due balzi convulsi agi-
tan un corpicciolo, una schiumosa bava s’addensa lungo il muso
e gli occhi di brace sono quelli d’un morto stecchito a zampe
all’insù. Manda un urlo la donzella e il signore, adocchiata la
bestiolina, rassicura tutti: «In questa cucina ballano pure li topi,
dovremmo provvedere». Indi, accompagna la moglie fora dal-
la stanza con un viso su cui si legge solo attenzione e riguardo
per la donna. Le cape dei presenti restano chine in sulle proprie
scodelle, il bel cappello sparisce, dall’uscio socchiuso fa il suo
ingresso la notte.

S’arresta il bresciano. Il silenzio della piazza gli prende la gola


come s’avesse inghiottito un uccellino con tutte le piume a ra-
schiar il gargarozzo. Infin ritrova la voce…

Le due donne s’avviano lungo la loggia passante brancolando


per raggiungere la stanza a destra rispetto all’entrata principale.

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Noi, uditori, le seguiamo, cerchiamo un appoggio mentre gli
stinchi urtan il tavolino a otto facce, poscia il buio è mosso da
una vibrazione lunga e dolorosa, un quasi lamento emesso dal-
le corde della cassa armonica ribaltata. D’improvviso, in sulla
soglia si mostra la figura del padrone con in mano il doppie-
re. Alla luce delle candele il volto mostra una fredda e crudele
impassibilità in fronte alla donzella che mantiene il core saldo
se, liberata la gemente dall’habito e messole un bacile sotto il
mento, dice: «Fora tutto, signora». Poscia, ecco un calcio a sca-
raventar a terra la ciotola con la serva stretta alla padrona avanti
che un poderoso spintonamento la cacci via mentre, lungo la
parete, il riverbero della fiamma fa gigantesca la sua figura che,
a capa bassa, sortisce. All’interno della stanza, il tempo princi-
pia a colare in attesa dell’effetto del veleno, anche se la presa in-
ghiottita è troppo scarsa per spengere l’affanno di chi è ancor in
vita. E noi, uditori, al par dei fantasmi delle valli, immaginiamo
di portarci all’esterno onde prendere fiato, alzar gli occhi verso
uno spicchio d’aglio di luna coperta da una nuvolaglia vagante,
stringerci al muro e scoprire di non essere soli perché il gazzet-
tiere con l’indice in sul naso ci sta facendo un cenno.
Il conte, testé sortito, rimane di spalle rispetto alla porta del-
la loggia passante e lancia un fischio, simile a una freccia in
corsa lungo quel vòto. Risponde un grosso cane, sbucato dal
niente. E se annusa presenze straniere? È bastevolmente grosso
per finire sia me che voi. La bestia, in vero, si raccoglie ai piè del
padrone e noi siamo salvi. Al secondo fischio, più breve, appare
in sull’uscio d’un edificio rustico la stazza del perfido Michele.
Lo scorgiamo perché la luna, uscita dal velo, fascia le di lui spal-
le d’una chiarezza schiumosa. Il signore il servo l’animale s’av-
vian in direzione del casotto della pesca. Dentro, s’accende una
fiamma. In un amen, potrebbe abbruggiare le pareti incannuc-
ciate chiudendo la notte dei veleni con i corpi dei due complici
neri come tizzi da camino, invece il bagliore scema e il buio si
fa di nuovo fitto. Tremanti, guadagniamo la distanza giusto in
tempo per avvertir un romore e schivar un sacchetto pieno lan-
ciato dalla finestrella, cui vanno dietro altri tre sputati al ritmo
di scaracci. Sotto il piastrone in ferro della porta, un’ombra ar-
meggia attorno al cavallo delle braghe, indi la robusta pisciata

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dello sgherro appanna gli involucri intrisi. Passa un lasso sanza
udir l’agitarsi d’una foglia, poscia gli occhi, abituatisi allo scuro,
riescon a distinguere quattro sacchetti ciondolanti tra le mani
del servo e del padrone che, un appresso l’altro, entran a palazzo
seguiti dal cane. Volgiamo lo sguardo al cielo… siamo vivi noi!
E il giardino torna ad esser innocente.

In sulla piazza Grande, Lucco serra le palpebre e ricorda cosa


vidde attraverso i vetri piombati della finestra. La luce delle can-
dele stava cedendo mentre, accanto al letto di donna Dorotea,
i feroci principiano ad infierire, sanza pietà, in su di un corpo
molle lento vieppiù deformato. Paiono non conoscere freno, in
gara tra chi batte più duro con quegli umidi maleodoranti pesi
tra le dita e il cagnaccio tra li piè a fiutar in ogni dove. E lui, nel
terror di venire ammazzato, non gridò non chiamò gente rima-
se, lì, immobile, con negli occhi il massacro.

Uditori, prosegue il bresciano, nella stanza di palazzo Michele è


una furia ma, quando s’accorge di non essere visto, con un gi-
nocchio a terra strappa la collana della contessa. Rapido, infila
il monile in saccoccia avanti di fare forza tra la coscia e la gam-
ba onde avvolgerle ben stretta una funicella attorno al collo e,
pensando d’avere dato la morte alla donna, s’alza in piè. Con
il palmo vuole gustare i rilievi delle perle in sulla ruvida tela e
godersi il corpo del rubino, ma la saccoccia è piatta, Manca il
tempo d’uno sguardo per cercare. Deve fuggire insieme al pa-
drone. Verso dove?
Il rifugio, come la testolina d’un poppante tra grosse tette di
balia, sbuca in mezzo ai pendii della collina vicino alla chieset-
ta, ove si trova la canonica diroccata dall’unica finestrella a lato.
Questo è il sito. I due, legati i quadrupedi alla steccata, dopo un
furioso accavallamento di gambe v’entrano. S’accucciano a caso
e…: «Ascolta, servo, il lavoro che dovrai compier a punizione
delle tue mani maldestre nel versare la dose d’arsenico».
Lo sgherro è scosso da un brivido. Uno spiffero, sortito da
una fessura lungo il muro ampia sì da permetter a un uccello di
farsi un nido, insiste sulla sua nuca corre lungo la schiena e le
parole del signore sono fiammelle ad accender il buio. Il perfido

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Michele vede le azioni che l’attendono. Scovar il coppiere Le-
pido fingere di dargli soccorso farlo secco con un colpo di mi-
sericordia. Porta la mano in sull’uncino pendente dalla cintura,
tasta il coltello a tre lame fatte per scattar insieme e, rapide, arri-
vare sin all’osso. Serra le palpebre, vede il sangue sgorgare dalla
ferita mortale, intridere la pelle, ghignar il volto, rendere lattei
gli occhi avanti di spengerli.
«Perché proprio lui?», addimanda.
Fora, s’è alzato il vento. Le foglie degli alberi si scambiano
rabbuffi da un ramo all’altro, fanno mulinello mentre gli aghi
dei pini trattengono gli aliti come le crepe dei muri la risposta
del signore: «Lepido ricusò di versar il veleno nel pancotto della
padrona».
Con quali immagini paure pensieri viene condotta la restante
parte della notte rimane il segreto tra l’artefice del crimine e il di
lui manovale e solo i puzzori dei lor corpi raccontano la verità.
«Che ci facciam, qui, padrone?»
«Non si dà fuga, idiota, sanza coprirsi le spalle e la dismessa
pieve di Tizzano me la concessero i signori Marescalchi».
Messeri che m’ascoltate, passano lente le hore e, fattosi gior-
no, in Villa risuonano le urla di dolore della contessa che por-
tano dabbasso le serve. Entrate nella stanza, restan impietrite
in fronte a quel corpo tutto livido, al volto dagli occhi schizzati
fora, con le trecce in bocca e gli orecchini quasi spiccati dai lobi.
Orrore compassione pietà duran il tempo di dimandarsi: «E la
collana con il rubino ov’è finita?»
Principian a cercarla sotto il letto lungo il pavimento tra le
pieghe della veste, poscia frugan il corpo della derelitta in ogni
dove. Nessuna sa nessuna ricorda, ma tra codeste sante si tro-
va una ladra. «Io non la robbai», giura una con due dita incro-
ciate in sulle labbra, poscia svuota le tasche del grembiale. La
stanza s’indemonia, la padrona geme, le donne sono tribola-
te scombuiate nemiche, ma nessuna azzarda di pronunziar il
nome dell’Orsina. La colpevole non vien trovata, indi la Bernar-
da chiama dentro servi fattori contadini lavandaie e le vecchie di
casa, che si trascinan in su gambe malferme. Tutti con gli occhi
fissi e in punta di piè per vedere come muoia una che mai patì
la fame. “E in quel finimondo d’impronte, vai te a iscoprir chi
si cuccò la collana!”, avrà pensato la scaltra serva.

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“Nessuna parola”, dice tra sé Lucco nel silenzio della piazza
Grande, “potrà mai rendere la forza dell’afflizione che mi con-
dusse dentro la stanza”. Donna Dorotea tribolata e piegata, arsa
dalla febbre, con le mani appoggiate in sul letto tentava di met-
tersi dritta, or dava la testa contro il muro, or nelle colonne del
baldacchino intanto che la voce dell’Orsina pronunziava piano:
«Signora, avete tanto male?» Dopo molte smanie parve final-
mente chèta con in sul volto una smorfia di desiderio mentre
le mani parevano cercar qualcosa e gli occhi si chiudevano san-
za avere rivelato quale cosa avrebbero avuto caro di vedere o
toccare.
Solo i Birri potevano ancor salvarla e lui, con tutto il fiato
che trovò in gola, prese a correre verso la casa del Massaro di
Casalecchio quando, stremato, lungo il bordo d’un campo sentì
il vomito salir alla gola il sole battere sopra la capa le gambe va-
cillare franando dentro una buca.
Moscatelli gli dà di gomito e Lucco, sortito dal malo sogno,
è di nuovo, lì, in sulla piazza con il bresciano che legge le sue
pagine in fronte a un pubblico fatto d’ombre.

Sabato, ventiduesimo giorno d’Aprile, uditori, in Villa lo stallie-


re Donato giudicando che la padrona sia in sul punto di spirar
esce dalla stanza. Deve, secondo gli accordi convenuti con il pa-
drone, prendere l’unico cavallo, là rimasto, e partir alla volta di
Bologna. Gionto nei dintorni di Casalecchio, riconosce un pez-
zetto di stoffa colorata sporgere dal ciglio d’un sentiero. “È fini-
to in un agguato, quel ficcanaso di palazzo!”, e tira dritto con la
coda dell’occhio ancor rivolta all’indietro quando, dal fossato,
vengano fora prima cinque dita poi un braccio sino al gomito.
S’arresta e, dopo un breve parlottare, entrambi montan in sella
e, via, come fosser un solo omo perché l’animale è il miglior ca-
valcatore delle campagne, fulvo fiero e snello di giunture. Sosta-
no presso l’osteria del Calza e lisciando il bordo della fiaschetta
di rosso il gazzettiere fa: «Perché tal inferno in Villa, servo?»
«Roba da ricchi, messere», viene risposto da chi lascia in sul
banco gocce di sudore venute giù dalla fronte. Si riprende la
corsa e, infin gionti alla Porta di San Mamolo, il nostro scende
all’altezza della grande apertura delle mura per la sortita delle

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acque del torrente Avesa, disceso dalle colline. Vorrebbe poter
isfogarsi con il capitano custode della Porta, intento al controllo
sopra i generi che s’introducon in Bologna, di contro, a buon
giudizio, s’incammina in cerca del Massaro alla volta del palazzo
del tribunale dalla gran torre, nomato il Torrone. Da lungi, vede
Vincenzo, il fratello naturale del conte testé arrivato in città con
l’incarco di riferire ai parenti la sorte della derelitta, e si mette
a seguirlo. Uditori, se qualcuno marcia come un fante todesco
in parata su due braghette a sbuffo e strette alle cosce viene da
pensare che voglia farsi prendere per chi non è. E di qual pasta
sarà mai fatto codesto se, in fronte al palazzo di famiglia, non
gli passa per la zucca di salir onde dare la mala nova a quelli di
casa? Resta, invece, a naso all’aria per leggere lungo un addobbo
color porpora la scritta in lettere dorate che annunzia, Dimani,
pellegrinaggio alla santa Casa di Loreto.
“Visto che una genitrice è in gran daffare per la partenza,
mi recherò dall’altra”, risolve Vincenzo. Presso la dimora in strà
San Barbaziano di donna Virginia, signora madre della contes-
sa in agonia, non gli viene concesso d’entrare nonostante abbia
solennemente detto il proprio nome.
«Passate più tardi», consiglia il valletto, «più tardi, verso il
mezzodì. La signora è ancor in letto». Il passo marziale si fa las-
so lungo la contrada ove, un tempo, soldati in fuga da un qual-
che esercito sostavano sotto l’insegna in ferro di un’aquila sopra
l’osteria, carinamente nomata d’Olanda. Entra nel buio, rila-
sciato da un avanzo di notte, e si move in mezzo a tavolacci ove
scivolarono storie roboanti nomi di fantasia imprese combinate.
Inventa d’avere fame divorando stantii fegatelli per compiacere
l’oste dalla brutta cicatrice lungo il collo, appoggiato alla smoz-
zicata colonna d’un teatro romano. “Riuscirò infin parlar con
qualcuno?”, s’interroga nel sortire. Lungo il torrente dell’Avesa,
la sua figura svanisce tra i vapori delle acquate di primavera e
a un omo di fumo nessuno concede fidanza, se donna Virginia
lo sbriga dicendo che il suo signor marito è già in sulle mosse
di partire con la carocia onde portare la contessa in convento.
In quel mentre, non trovando il Massaro presso il tribunale
della città, il gazzettiere dimanda ragguagli a uno scriba. Impara
che le denunzie relative ai crimini di famiglia son accolte solo

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se presentate da un publico ufficiale oppure da un parente della
vittima. In scoramento, s’aggira lungo lo stretto corridoio dalle
porte tutte serrate sanza vedere l’ombra di sottonotaio, amante
delle sportule, parato per quattro lirette ad ascoltarlo.
E così, caricato in su di un carretto d’un venditore di robe da
magnare, fa ritorno in Villa. Da lungi, il palazzo tinge il transito
del sole verso occidente d’un inquietante viola che luccica insi-
nua incanta, poi si slancia in paradiso. L’inferno è dietro la porta
della prima stanza a destra dell’entrata principale ove la donna
fatica ad esalare l’ultimo respiro e, attorno, una cieca furia move
gli animi. I complici del massacro appaiono poscia scompaiono,
c’è chi corre nel rifugio tra i monti, chi in città, chi ha core e
chi pancia… tutti scombinati, ’sti assassini! Al par d’usci sbattu-
ti s’odono le parole dei servi: «La signora avea un’amorosa sto-
ria con un nobile della città e il di LEI marito è il vendicatore
dell’honore offeso».
Frattanto il principale colpevole nascosto nella torre ruinata
accanto alla parochia di Giovanni Battista e Pietro di Sùccida,
udita la notizia che la moglie è ancor viva, per averne contez-
za manda in Villa un legnaiolo magretto e lo sgherro Michele.
Nelle vicinanze, il servo scende dopo avere detto al mingherli-
no: «Spia la donna e porta fora la roba da magnare». Il medesmo
si ferma in sulla loggia passante, dimanda a un famiglio ove si
trovino la stanza della padrona e le cucine. Allentato il pelame
di caprone che gli infiamma la gola, al cospetto della morente
scappa via ma, fatti pochi passi, s’accorge d’una cuciniera ac-
canto all’uscio di sinistra. Entra apre la madia e prende la sortita
con un fazuolo odorante agnello e pesce rancido.
Due hore dopo il mezzodì, gionge a palazzo la carocia del
capitano Paolo onde portare via la figlia ma, in sulla soglia della
loggia, vien fermato da Vincenzo che butta lì qualche impedi-
mento da parte della contessa.
«Se le cose stanno così, allor me ne vado», e s’avvia seguito
dall’altro che gli dimanda il favor d’un passaggio per li due fan-
ciulli. Parte il nonno in compagnia di Girolamo e Lucrezia e la
carocia quasi travolge il curato di Casalecchio, appellato per dar
i salutari conforti dell’anima alla contessa.
“Ecco il prete, ecco il prete!”, risuonano lungo i campi le voci

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dei contadini, presti ad andargli dietro. Hanno un bel da rinco-
rarlo, i poveracci, sperando in una benedizione, ma il lor don
Marco Antonio non presta mente ad alcuno. Gravato da una
faticosa digestione e dai liquorini d’erbe delle monachelle del vi-
cino monastero, non riuscendo a tenere gli occhi aperti manda
avanti le braccia come fa il bendato della mosca cieca. Raggionto
con fatica il letto della moribonda, s’accosta con tra le mani il sa-
cro vaso per l’estrema unzione e l’aspersorio. Poscia, dato ordine
alle serve di portare nove candele, esorta la gemente a pentirsi dei
suoi peccati, perdonare coloro che l’offesero ed invocar il nome
di Gesù e della Beata Vergine Maria. LEI, perduto il diritto al
grido, sente nella gola lo straziante bisogno di dimandare se dee
veramente compatire gli aggressori o aggrapparsi al dolce nulla,
vomitare la sua colpa oppure scoprire la vera cagione per cui la
stanno finendo. Solo gli occhi, divorati da una fiamma interna,
paiono l’unica parte del corpo ancor rimasta in vita.
L’addio dell’afflitta alla vita terrena viene funestato dal ru-
moroso arrivo del minor fratello e del cavalier Sebastiano Pal-
mieri, inquartato d’armi dalla cintola in giù. Entrati nella stanza
calda di fiati, vedono l’Orsina che mandano subito fora. Poiché
l’estremo offizio sembra non volere conchiudersi, scalpitano ac-
cendendo una candela dopo l’altra. Il religioso continua a fare
il dover suo intanto che il fratello s’accosta e dell’intero stra-
ziato corpo della derelitta mette a foco solo il collo sguarnito.
Nella sua mente risuonano le parole del maggior fratello “Vedi
di robbare il rubino”. Lui allunga lo sguardo tra le suppellettili,
volge la capa in basso, non iscopre la pietra e si volge, colmo di
spavento, verso il complice. Costui, in prontezza, sussurra che
solo l’Orsina non s’è mai mossa dal capezzale della donna, indi
o lei vidde chi portò via il gioiello oppure la medesma è la la-
dra e va frugata dalla testa ai piè. Ogni atto a suo tempo, però.
L’altro pare prender forza, finge di volere tastar il polso della
morente, mostra una premura che contagia l’ultima benedizio-
ne. Di poi, in compagnia di Sebastiano accompagna il prete
sino alle garitte di palazzo e, appoggiatosi a una colonna, tenta
di placare la paura trattenendo il curato in chiacchiere. Tirato
per un lembo della giubba dal cavaliere, si volta di botto e quasi
s’incuccia con Vincenzo. Insieme, i tre s’avviano verso la stan-

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za dell’agonizzante con il cavaliere che comanda alle donne di
serrare dall’esterno entrambe le porte della loggia, poscia d’an-
dare nella casa del fattore e là restare. Sopraggiunge l’Orsina
quando le chiavi già girano nella toppa e lei, più che veloce, si
porta all’esterno dietro i vetri della finestra. Da lì, vede il mi-
nor fratello, assiso sopra un cassone vicino al letto, che sembra
un pargolo punito dalla madre e in attesa d’essere perdonato. Il
Palmieri gli fa un cenno. Lui, dopo avere frugato in saccoccia,
pesca un laccio tenta di fare un nodo non vi riesce. Si fa inanzi
l’altro, lesto nello stringere la corda provarne la tenuta porge-
re il cappio all’uccisore che si move verso il letto della propria
sorella. Dalle stalle esce un nitrito, in sulla risata gorgheggiante
del cavallo s’impenna l’urlo dell’Orsina: «Stanno finendo la mia
padrona, quei due! Aiutatela, voi di casa!»
Gli uccisori sentono il disperato richiamo, “la serva ci vid-
de”, dicono i lor occhi, mentre la donzella scote la prima porta
della loggia, poscia forza la seconda nel retro scotendola e anco-
ra scotendola sino a quando frana al suolo. E par un cencio gri-
gio abbandonato, poscia una freccia scoccata dall’arco intanto
che all’interno l’atto criminoso si compie.
Trascorso un lasso, il cavaliere richiama le donne. Meste e
assorte scoprono la contessa girata in sul fianco destro, la boc-
ca spalancata nell’ultimo gemito, il volto morello segnato da
una riga di sangue, lo sfregio del capestro lungo il collo, coperto
dall’assalitore con un cordoncino nero, e gli occhi ancor aperti.
La veneranda Checchina, rivestita la signora con ogni rispetto,
vuole che sia la fida donzella a chiudere le palpebre della padrona
e manda una servetta a cercarla. Lungo il porticato, il caprifoglio
prepara la sua fioritura, i meli sono bianchi come fosse caduta
la neve in su di un paesaggio di primavera… ma l’Orsina ov’è?

“Io conoscevo il loco”, pensa Lucco accanto allo stampatore nel-


la piazza silenziosa e il ricordo s’affaccia alla mente più nitido
del vero. Rivede il capanno degli attrezzi, sente il fresco del fer-
ro tra le sue dita mentre tentano la maniglia del chiavistello,
ode il cigolio della porta che s’apre, ecco la sagoma, distesa con
la faccia a terra e i pugni stretti. La serva aspetta chi la sgozze-
rà quando, avvertito un tocco delicato in sulle spalle, solleva lo

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sguardo si chiude le orecchie: «Sento di nuovo la risata del ca-
vallo», farfuglia.
E fu quello l’attimo in cui lui impromise a se stesso che
avrebbe salvato la testimone honorato la memoria di donna Do-
rotea scritto l’intera storia, in tutta verità.

Uditori, a palazzo la donzella s’accinge a darsela a gambe nel


buio sempre più pesto, il gazzettiere dee spianarle la via di fuga,
il minor fratello e il Palmieri hanno da trovare la serva e la
collana.
«Sebastiano, ordina ai famigli di cercare l’Orsina e portala
nella pieve di Tizzano, al presente vòta. E ricorda di consegnar
al publico ufficiale la Lettera d’Autoaccusa del mio signor cogna-
to perché tramite quella la scamperemo».
S’allontana in premura l’uccisore, atteso nel rifugio tra i
monti, e il cavaliero, alzate le spalle, avanza verso il palazzo con
un brutto ghigno. Mica gli garba ricever ordini da un maldestro
manovale del crimine, sol obbediente ai comandi del maggior
fratello… buona lana anche quello che s’è dileguato come neb-
bia al sole per non sporcare le proprie mani e tradendo il lor
patto di complicità! Guata sanza voglia i servi, muniti di grossi
ceri, intenti lungo il prato a rovistar ogni dove e non bada alla
voce che s’alza: «Correte… la donna è qui, dietro il cespuglio,
accanto alla peschiera».
Il dito indice del gazzettiere è puntato verso il basso quan-
do… «Ahi!», un rovo ferisce la mano con una strisciolina di san-
gue, che principia a correre lungo il palmo. È già scappata, fan
udir i cercatori. Respira, il nostro, gira gli occhi verso il bacino e
scorge il cagnaccio di Michele in strane mosse accanto al salice.
S’appropinqua. La bestia fa saltar attorno al muso bavoso una
filza d’ossetti dalla forma strana e sono le perle e il rubino della
contessa che stanno scivolando a filo d’acqua. Fa un balzo per af-
ferrarla, lui, balzano le zampacce all’altezza del suo petto, sta per
esser fatto a pezzi quando un braccio si leva. Poscia taglia l’aria il
romore d’una badilata che spacca le ossa del cranio dell’animale
e lungo le pietre, lento, cola un grumoso liquido nero.
Mentre il salvatore sparisce, la mano non guasta del bel cap-
pello scivola lungo le pareti della vasca tra foglie marcite gusci

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corrotti consistenze molli ondeggianti attorno al polso, di poi
immerge l’avambraccio. E fruga, fruga. Vanamente.
Nel frattempo ove si trova il Palmieri? In cucina, ad affogare
nel vino l’onta inflittagli dai complici e, mezzo obriaco, sortisce
dal retro con una torcia vacillante al par dei suoi passi. La fortu-
na, uditori, sarà anche orba, ma con l’aiuto della fiamma mette
in luce il rubino, rimasto impigliato in sul rametto più basso
del salice. Il cavaliero allunga una mano e l’agguanta. Guata
all’intorno. Nessuno vidde. Serra il monile in sul petto, poscia
lo cela sotto la giubba. Batte due o tre colpetti onde assicurare
il tesoro, destinato a farlo prospero. In quale guisa? Conosce la
femina giusta. Diavolessa d’una Calidonia! Grazie alla factotum
del Monte di Pietà, lui se la spasserà da papa alla faccia di quel
caccia frombole del maggior fratello e di quella fanciullina spa-
ventata, incapace di fare un nodo a un cappio. E si mette a ri-
dere con il core largo come il giardino, indi rientra a palazzo in
attesa del Massaro.
All’alba, si fa vivo un insonnolito publico ufficiale con l’in-
tenzione d’approntar la denunzia di morte secondo le norme
che prescrivono la visione del cadavere la registratura della di-
partita l’ascolto dei testimoni.
«Fatti sveglio, omo pubblico, ai granari le regole!», dice il
cavalier, «Tra noi la fidanza corre in sulla parola».
E le parole dell’accordo sono poi queste…
“Avendo io, Massaro del loco detto Casalecchio, inteso che
nell’antecedente sera la contessa era morta, andai a vederla e,
dopo averla guatata solamente nel viso, non mi accorsi di alcun
segno tranne una piccola graffiatura in sul naso. A palazzo, ac-
canto al capezzale, era presente il di lei minore fratello, e il ca-
valiere Sebastiano Palmieri colà arrivati per darle una triaca che,
però, non fecero in tempo a prestarle. Viene pure riferito da
quelli di casa, siano essi servi che testimoni, come dal curato di
Casalecchio don Marco Antonio, che la donzella della signora,
per nome Orsina, è fuggita dalla stanza della padrona morente
sanza concedere alla medesima i dovuti soccorsi”.
Il dì che segue, Domenica della Santa Pasqua ventitreesimo
giorno d’Aprile, il Massaro monta in su di un carro scoperto a
quattro ruote, dai begli intagli in legno lungo le fiancate, per

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recarsi a Bologna e depositare l’atto di morte presso il palazzo
del Torrone.
Sotto l’arco ogivale della Porta di San Mamolo, il signor
Vincenzo è già in attesa di lui e insieme si recano nella dimora
della vittima per affidare la Lettera d’Autoaccusa del coniuge al
prete di casa. Indi si trasferiscono nel palazzotto del cugino del
marito, capitano del presidio todesco, onde averlo compagno
nell’impresa.
Nella stanzetta del tribunale, il Massaro consegna la denun-
zia allo scriba del notaio ad maleficia mentre, in quello stes-
so tempo, la Lettera d’Autoaccusa del signor marito, pervenuta
nelle mani di monsignor Vicelegato, viene passata all’Auditore
criminale.
Siamo gionti, uditori, al core astuto della trama delittuosa
perché un tale genere di confessione, massimamente adoprata
dai potenti, è un espediente mirato a spengere le dovute investi-
gazioni convincendo i signori giudici a prestare fede allo scritto,
redatto dal reo a personale discolpa.
La medesma in duplice copia, lingua latina e vulgare, vien
affissa nella bacheca giudiziaria del Publico Palazzo. Il testo re-
cita…
“All’illustrissimo e reverendissimo signore e padrone co-
lendissimo Monsignore De Sangri Patriarca d’Alessandria e
Vicelegato di Bologna.
Avendo io, erede de’ conti Bolognetti, in scarico dell’honore
mio, fatto commettere l’omicidio nella persona della Dorotea
già mia moglie, rea d’adulterio, da un mio servo, quale se n’è an-
dato con Dio, però prego V.S. Illustrissima a non dar molestia
ad alcuno, atteso che non è consapevole del fatto altri che quello
che l’ha compiuto. Ed io sperando che V.S. Illustrissima non
abbia a usar gran rigore in tal caso, perché so che ella è Cavaliere
d’honore a cui piacciono gli uomini honorati, e con tale fine
supplicandola a tenermi nella sua buona grazia Gli bacio le
mani pregandoLe da Nostro Signore ogni compita felicità.
Di Villa 23 Aprile 1606
Di V. S. Illustrissima e reverendissima
Devotissimo Servitore vero
Camillo Bolognetti”

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In sul finire della medesma mattina, il sotto Auditore accompa-
gnato dal Barigello e da tre suoi Birri si trasferisce in Villa allo
scopo di visitar il cadavere ed esaminar i famigli mentre s’aspetta
l’arrivo dei medici legali dalla lunga veste scarlatta con maniche
a gomito. Codesti, nel corso dell’ispezione esterna del cadavere,
scopron il segno rosso della funicella attorno al collo registran-
do il vulnus nelle lor note poscia, estratti dalla lor cassettina in
legno d’ulivo i bisturi, con dita agili apron il ventre. A testa
china osservan e di getto scrivono: “trovati gli intestini immaco-
lati e sanza offesa indizio o della tenuità del veleno o dall’esser
stato rigettato, giudichiamo che la donna deve essere morta non
attossicata ma strozzata con corda o capestro”.
Il gazzettiere e l’Orsina, nascosti nella casupola d’una con-
tadina, attendono di sapere come passino le faccende in Villa.
Avuta contezza d’un carro coperto, testé gionto da Bologna, con
dentro casse di ceri e candele, sollevano gli occhi al cielo. Poscia,
pigliando strade traverse, fanno ritorno in città con un’ambascia
che li intuona dentro. Lei a ogni passo murmora: «Povera la mia
signora!», cui fa eco: «Infelicissima contessa!»

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Capitolo terzo

Per loci sparsi


Guarda te che pubblico ’sta sera!
Conclusa la recita, il gazzettiere si dimanda perché mai sia anda-
to tutto sì troppo liscio mentre s’aspettava una mossa da parte del
Barigello e, in conseguenza, la cattura di lor tutti. Insieme agli al-
tri, s’allontana dalla piazza Grande sotto il vasto cielo della notte
bolognese, che accenna ondeggia distilla e vaga come cercasse di
dare risposta ai suoi dubbi. Una volta gionti in bottega, si levan i
lamenti e tutti portano scritto in sulle fronti “Culpa mea”.
«Sono certo, invero, che dimani nessuno si presenterà per
aver una copia d’Avviso», dice Giovanni Paolo, «la festa dei car-
lini è bella e chiusa se anche le stampe prohibite non eccitan più
i lettori. Guarda te che pubblico ’sta sera! Non s’è mai visto in
sulla nostra piazza che i bolognesi restino muti come pesci in
barile».
Così per non aggiungere pena a pena svelando il tradimento
dell’impressore, Lucco tace e in tristezza se ne va. Intendea pro-
vocare nella gente sentimenti d’indignazione orror e di condan-
na, invece… Data l’hora della mezzanotte, la padrona dell’al-
loggio intanto che lui sale le scale non s’affaccia con il consueto:
“Aspetto una Vostra visita per metter in paro la pigione”.

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Monta i tredici gradini, apre la porta e nel buio chiama l’Or-
sina. Nessun risponde e, in un amen, rammenta d’averle co-
mandato di aspettar il suo ritorno presso la locanda dei todeschi
in vicolo dell’Alemagna. Fa per sortire quando s’accorge d’un
filo di luce che filtra sotto l’uscio semichiuso della stanza, sul
sinistro fianco rispetto all’entrata. Temendo un agguato, rimane
immobile sino a che, lucidamente, si persuade che un assalitore
non aspetta di compier il dover suo a lume di candela e torna
indietro. Attraverso lo stipite scopre la donzella intenta a to-
gliersi l’odore di cucina con uno straccio umido. La donna ha
un corpo che racchiude nella sua nudità ogni grazia sanza esa-
gerarla, e una pelle chiara come quella della sua padrona. Lucco
s’allontana in silenzio mentre la donzella – finta ignara? – chissà
mai cosa pensa pure lei.
Il danno non è cader,
bensì non saper tornare dritto
Col novo dì, si presenta in stamperia un messer dall’elegan-
za non conclamata a dimandare politamente di conferire con
Lucco pronunziando il nome della strà ove habita. Colto di sor-
presa, lo stampatore farfuglia con l’altro che, dopo aver ringra-
ziato, si dilegua.
L’incontro turba Giovanni Paolo e il torcoliere lo vede sca-
gliar a terra il solito portafortuna di picciola dimensione infilato
dietro l’orecchio, come fa all’annunzio d’una mala nuova, sin-
ché gionge l’auttore cui è narrata la visita di chi viene conside-
rata una spia.
«Moscatelli, la spia è un altro».
«Chi? parlate, adunque!»
«Il vostro impressore».
«Ma se si trova allo spedale per le pietruzze ai reni».
«È in fuga insieme a lor».
Indi per filo e per segno narra la cosa.
Lo stampatore fruga in saccoccia e…: «Corpo d’un Bacco,
incomodo dio dell’Olimpo tutto, e io che volevo solo aiutar un
amante dei gatti dopo che la bottega, ove prestava opra, venne
chiusa per aver pubblicato testi eretici».
Resta in silenzio poscia, dopo un sussulto, riprende la voce:

71
«Che pezzo d’idiota fui! Eppure so che l’inquisizione mantiene
sotto tiro vita naturale durante i sospettati. E ora chi mai c’aiu-
terà, Lucco?»
Non aspetta la risposta e, salito nel suo alloggio, si cori-
ca sopra il letto non sanza essersi tolto con un mesto sorriso
le pianelle vermiglie prestate dal gazzettiere, che principiò la
lor ventura con i di lui stivali. Uno scambio, una quasi un’al-
leanza, che avrebbe dovuto essere di buon auspicio, invece…
Avvertendo un improvviso freddo, tira li drappi che gravan in
sullo stomaco come una cena non digerita… o è la dannazione
di posseder un torchio che grava al par di piombo? Pensa alla
vita che gli resta dacché la mogliera se n’è ita e lui, di domenica
dopo la Messa, se la fa con l’Augustina anche se la giovine già
adocchia il torcoliere e pure lei lo tradirà. S’è tenuto per troppo
tempo una serpe d’impressore in seno! Che lo proteggano i
morti visto che i vivi… e cerca un parco calore sotto la coltre
quando ode: «Giovannino vedrai che s’aggiustano le cose… ne
viddi tante, io!»
La voce lontana ha il timbro strascicato, anche roco, di
Antonio Moscatelli. Il di lui padre? Non di sangue ma di core.
Antonio e la mogliera Lena, or fanno quarant’anni, durante un
tremendo inverno perser un figlioletto di mesi tre, morto di
freddo. La donna, dal seno carico di latte, pensò di compie-
re la cosa giusta andando nello spedale degli Esposti a diman-
dar a balia un bastardino per non fare morire, questa volta di
fame, un altro innocente. Scelse chi si movea con le gambette
come volesse dire: “Prendi me, prendi me che sono vispo”. Con
loro rimase il piccolo, che crebbe con il doppio nome, il novo
cognome e tanti scimitoni. Pervenuto al quindicesimo anno,
Antonio portò in stamperia il figliolo cui insegnare dall’A alla Z
l’alfabeto dell’artegiano, poscia lo rese dottore in merito. Avanti
di chiudere gli occhi, raccomandò all’erede il torchio: «Vedi,
ragazzo, il legno viene dalle paludi, è prezioso e par antico per
via dei nodi con attorno le nervature sfumate mentre all’interno
reca i segni dei tagli. È bello, grande e guata come si mangia lo
spazio nella bottega! Ti darà il cibo, se saprai volergli bene come
feci io».
E con lo sguardo carezzava le due colonne il piano superiore

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e quello inferiore, la barra il timpano la leva a gomito e le corde
consegnando al giovine una passione degna d’un omo libero, il
suo futuro e la devozione degli stampatori d’una volta.
«Ma i moderni più m’aggradano», dice forte Giovanni Paolo
già in piè, «e tu, padre mio, potrai raccontar ai tipografi del
Paradiso che io non fermai la macchina in fronte alle minacce
dei potenti!»
Quando le lucciole fan mercanzia con le lanterne
Due dì appresso, lunedì primo giorno del mese di Settembre
dell’anno Domini 1606, presso l’aula maggiore del tribunale del
Torrone s’apre il publico processo contro gli uccisori di donna
Dorotea Zambeccari Bolognetti, occorso nel palazzo del gran
Toiano il ventitreesimo giorno d’Aprile del medesmo anno.
Lucco Moscatelli l’Orsina il bresciano e il torcoliere son accanto
alla gente, vestita a festa come andasse alla Messa, orgogliosa
d’assister al compimento della Giustizia.
L’Auditore Criminale, con indosso la lunga veste di panno
nero rinfrescata da una corta lattughetta attorno alle mani e al
collo, apre le sedute assiso dietro l’imponente banco con tre
seggi lungo i lati, ciascuno provvisto di leggio, ove prendo-
no posto i sei notai ad maleficia. Essendo in atto un processo
comportante la pena capitale, lo scriba legge la Lettera d’Auto-
accusa del conte Camillo de’ Bolognetti, al presente latitante
insieme ai complici. Un giudice riassume frettolosamente le
accuse contro il reo indugiando sulle cagioni che, di necessità,
spinsero un omo d’honore al crimine. Così tutti intendono
lucciole per lanterne. Come il signor marito abbia agito sia in
ragione del sentimento di gelosia, sia allo scopo di vendicare
insieme ai parenti l’oltraggio arrecato al buon nome delle fami-
glie Bolognetti e Zambeccari da parte della moglie adultera. Il
pubblico principia a commentar a voce alta, ciascuno secondo
la propria natura, e la contessa viene subito nomata da una lin-
guaccia “La dama del capestro”. Lucco freme e pure le autorità
son in sulle spine visto che ordinano di far silenzio… se no:
«Tutti fora!»
Vengono nominati coloro che eran in Villa durante i gior-
ni dell’agonia, indi chiamati all’interrogatorio i presenti, po-

73
scia sarà la volta del curato di Casalecchio, del Massaro e delle
autorità cittadine quali il Barigello e i due medici legali. Tutti
compostamente s’assidon inanzi all’Auditore dando le spalle al
pubblico. Per primo, vengono sentiti il fattore Matteo de’ Lelli
e una sfilza di servi, che non finisce più.
Quando risuona il nome della donzella, detta Orsina, lo
scriba dà lettura d’una nota secondo cui la suddetta si rese fug-
giasca dopo aver abbandonato la padrona morente.
«Eh… son qui, signor giudice», grida lei intanto che libera
il volto dal velo.
Il medesmo squadra con severità i dottori, che condussero
l’investigazione, indi la donna vicino a Lucco, parato a sugge-
rirle le parole.
«Eh… sono qui per testimoniare che donna Dorotea, la mia
padrona, fu strozzata dal fratello Camillo e nella stanza era pre-
sente pure il cavalier Palmieri!»
In men di un detto d’amen la seduta viene sospesa e il gaz-
zettiere fa giusto in tempo a portare via di peso la scalpitante,
che ancor grida la sua denunzia strascicando il velo lungo le
pietre del pavimento. Il dì vegnente, la lettura d’una seconda
nota rende palese che la testimonianza della detta Orsina, al
presente assente in aula, è da ritenersi nulla non facente più
parte, la stessa, dei famigli né di Villa né del palazzo cittadino.
In quel mentre si scatena un temporale con lampi e un tuonar sì
forte che il Barigello i medici legali, Lodovico Lodi e Alessandro
Bonci, arrivano fradici e in gran ritardo. Ognuno risponde dan-
do lettura dei rispettivi verbali, confermanti le lor ispezioni già
note al collegio giudicante secondo le quali la donna è morta
strozzata, non attossicata.
Visto che Giove ancor scarrozza i giudici, temendo la ca-
duta d’un fulmine sopra le lor case, vogliono finire presto e
così s’arriva alla prima sentenza. Vincenzo Bolognetti, l’unico
congiurato assiso dietro il banco, vien accusato di complicità
sulla base di evidenti indizi quali: “l’essere partito dal palazzo
del Toiano per recar notizia della morte di donna Dorotea alla
contessa Sulpizia Bolognetti, madre di Camillo la quale, come
s’evince da un costituto fatto ad una delle serve, odiava la nuora,
e al tempo della visita del medesmo era pellegrina alla volta di

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Loreto; l’aver trasmesso l’ordine il Sabato alle serve tutte di ab-
bandonare la padrona nell’intento di permetter al di lei fratello
Camillo e al cavaliere Palmieri di finirla”.
Vien incarcerato ma, in sull’uscio della prigione piombato
al suolo come una pera matura, è trasferito presso l’Ospedale
della Morte, nella più appartata delle stanze. Dopo una sospen-
sione d’alcune hore sortisce l’altra sentenza contro i contumaci,
scritta in lingua latina, di cui dà lettura l’Auditore Criminale
mentre lo scriba traslatore fa sapere che “si condannano il conte
Camillo Bolognetti, i due fratelli Zambeccari, Carlo e Camillo,
e il cavalier Palmieri alla pena del capo e alla confisca dei beni,
ingiungendo che se mai nel frattempo pervenissero nelle forze
della giustizia, fossero condotti nel loco solito e lì decapitati, e il
servo Michele sospeso alle forche, dopo essere stato steso in sulla
rota e aver subito la tortura ordinaria e straordinaria”.
Sfolla il pubblico dall’aula e tra lor c’è chi mostra compiaci-
mento per le dure pene inflitte agli uccisori.
«Che allocchi!», dice Lucco a Moscatelli che gli riferisce ogni
cosa in ca’ dell’Altabella. I giudici, come tutti sanno, emanano
sempre sentenze esemplari contro i potenti ma, tempo al tem-
po, che i condannati si faranno vivi con le lor Suppliche presso
il Cardinale legato onde cangiar la lor sorte. Brama di sortire, il
gazzettiere, per isfogare la rabbia anche se, intanto che accom-
pagna l’altro in stamperia, il suo core lacrima mentre Giovanni
Paolo vorrebbe poter mettere le mani addosso al mondo intero.
In sulla via del ritorno, il nostro slunga la strada verso la piazza
Grande ove un nugoletto di gente, che assistette all’ultima recita
e alle sedute del processo, discute con animo. S’appropinqua e
coglie prima una voce, poscia la seconda. Entrambe concordano
nel dire che in sulla piazza Grande, il Venerdì sera, stazionavano
i Birri sanza avere l’armamentario di sempre per non creare pau-
ra… le spie del Legato, invece, faceano cantone sotto il portico
de’ Banchi.
Con l’ali ai piè il gazzettiere è di novo in fronte alla stamperia
chiusa, vista l’hora. Sotto la finestra piglia a gridare: «Giovanni
Paolo, erano solo Birri e spie quelli raccolti in sulla piazza…
ecco la cagione del grande silenzio! E, visto che non ci carcera-
rono, forse siamo salvi».

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Nessuno s’affaccia perché il medesmo in ginocchio sta di-
cendo: «Grazie, padre Antonio! Dimani, tirerò gli Avvisi della
terza “puntata” e tutti in bottega saranno contenti».
Omo rozzo, sarìa buono a piantare rape
La decisione di Moscatelli sona vibrante anche se, presto, s’udrà
tutt’altra musica da parte dei tre messeri che si sono dati segreto
convegno. Onde raggiunger il sito prescelto, passan inanzi alla
Certosa della città e alla parochia di San Isaia ove, verso il ve-
spero, viene distribuito il pane con dentro i semi del papavero
bianco che alloppia i pezzenti unti piagati tignosi, nocevoli alla
comunità. Nella dirimpettaia chiesa di San Mattia con l’annes-
so convento di suore domenicane arriva a piè il dignitosissi-
mo terzetto. Primo il Sottolegato con delega di Monsignor De
Sangri e in compagnia d’un vellutato cuscino vermiglio, segue il
Barigello a mani nude, indi uno sconosciuto, facente da tramite
tra le famiglie Zambeccari e Bolognetti. Il prete, che li acco-
glie, fa strada con in mano un candelabro d’argento martellato.
Entrano tutti nel parlatorio dalle due finestrelle alte, sbarrate
mediante legni incrociati, con tre scranne di ruvidi vimini in-
trecciati e un tavolo, ricoperto d’un panno disadorno, su cui le
candele invian il lor tremore attorno alle piume dei cappelli,
testé appoggiati. Avanti d’assidersi, il Sottolegato sistema il cu-
scino e con un sorriso fa: «Roba da vecchi!»
Non sono privi di cure pure gli altri, se l’intermediario mo-
stra premura nel dire come entrambi i casati siano pervenuti ad
amicali accordi, sanza l’intervento della conciliatrice magistra-
tura dell’Assunteria. Di contro, il Barigello appare rabbioso in
quanto le cose non marcian a dovere. Se avesse potuto stringer
li ferri attorno ai polsi di quei degenerati nel bel mezzo della re-
cita, che punizione esemplare in fronte alla plebalia! Ma, sanza
avere sotto gli occhi il maladetto romanzo, gli inquisitori non
autorizzarono la cattura… “bestia d’un impressore, non vedrai
più dei bei giorni!”, minaccia in silenzio.
In quel mentre il Sottolegato annunzia che gli uccisori già
palesarono l’intenzione di farsi supplici nei confronti di sua
Eccellenza Monsignor De Sangri e, circa li fogli clandestini, ha
parata una succosa nota. Così legge, “Il testo d’anonimo auttore,

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messo in vendita in forma d’Avviso privo della dicitura licenza
di stampa e pervenuto nelle nostre mani grazie alla sollecitudi-
ne d’un honesto plebeo, contiene cose prohibite, stampate alla
giornata, non conformi alle regole dell’Indice come contrarie al
beneficio publico. Indi, tutte le copie esistenti van requisite”.
«Questo sì ch’è un parlare chiaro», interrompe il capo dei
Birri, «o, secondo il detto degli antichi, Res ipsa loquitur. Se la
cosa parla da sé, gli Avvisi circolanti impongono pure l’imme-
diata serrata della stamperia. Ai maladetti andranno fatti ingo-
iare tre secchi d’acqua onde affogar la lor lingua che accese una
plebe sinora divota, qual conviene sia nella seconda città del
papa».
“Omo rozzo, sarìa buono a piantar rape!”, pensa il Sottolegato
agitandosi al punto che le di lui ulcere anali sono grate al mor-
bido velluto del cuscino mentre le sue parole mostrano cristiana
carità verso gli infami a patto che sospendane le recite.
«Se così non fanno, che ne sarà del corpo dei miscredenti?»,
addimanda l’altro.
«Le vie provvidenziali sono tante e noi, per grazia infusa,
conosciamo le più munifiche», risponde avanti d’alzarsi dalla
scranna.
Già in sull’uscio, fatti due passi all’indietro, appalesa come
sia stato richiesto dai parenti della vittima d’ottenere dal
Barigello l’invio d’un Birro al castello della Palada acciocché il
conte Filippo Pepoli, presunto amante dell’adultera, abbia con-
tezza dei recenti fatti.
Sta per aprir la porta quando soggiunge che la serva, per nome
Orsina, dev’essere trovata al più presto e carcerata come infida
testimone: «Mi pare che codesta sia nativa del Monte delle…».
Il gemito di due colombi in amore in su di una finestrella
sbarrata gli fa perder il filo mentre il capo dei Birri: «Monte
delle formiche, Sottolegato, così si noma il loco. E costoro altri
non sono che formiche come quelle che ogni anno, là, s’alzano
in volo per poi finire spiccicate in sui muri del santuario della
Vergine. Eh… a cader va chi troppo in alto sale!»
L’altro solleva il mento. Inanzi ai suoi occhi sfilan uno stam-
patore dalla malconcia bottega, un gazzettiere con l’aria smaga-
ta, un poveraccio d’un attore che, insieme, diventan un grosso

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punto di dimanda. Perché questi signor nessuno si mostrano sì
accaniti nel perseguir un’impresa che li farà soccombere?
Infine dice: «Barigello, deponete l’ira considerando che le
bestioline di quel monte avanti di morire s’accoppiarono. Il loro
è un volo nuziale, indi anch’esse sono partecipi del divino atto
della creazione».
«Eccellenza», salta su l’implacato, «lasciamo ben stare l’uni-
verso creato mondo per tornar a quelle bestie che infestan i por-
tici e la piazza Grande». E impromette che, con il consenso del
Legato, verranno tutti mandati al tormento compreso la spia a
suo servizio, lenta come un melone a Febbraio in luogo d’essere
doppia al par d’una cipolla.
La chiesa di San Mattia è assai lungi dalla strà dell’Altabella,
indi nessuna voce è gionta all’orecchio di Lucco che, però, ap-
pare non chéto perché il proseguo della storia mostra le fondan-
ti cagioni del crimine. C’è più d’un buon motivo onde temer
una persecuzione da parte del feroce Barigello contro la corag-
giosa testimone dacché codesta nell’aula del tribunale mostrò
il suo volto. Si reca, quindi, in stamperia proponendo a tutti
una finzione. Al presente, loro spariranno dalla scena onde far
credere che sono morti o pentiti poscia, passato un lasso, eccoli
inaspettatamente vivi e parati a portar a compimento la terza
recita. Viene deciso all’unanimità che la pausa porterà Giovanni
Paolo in quel di Modena per un non trascurabile affare e gli altri
a pestar l’uva nei tini lungo le campagne.
Messo mandato non paga pena
Nel frattempo, in città, si fa inquisizione contro di loro e le in-
sidie marciano come i piè del Birro più unico che raro, inviato
al castello della Palada per una missione difficile e soprattutto
delicata. È un giovine che vien da fora, capace di leggere scrivere
e dir a modo. In aggiunta, possiede indubitabili doti nell’arte
del travestimento, che gli consentono d’indossare con eleganza
pari a naturalezza habiti villici o vesti da gran signore e di far
visita, così abbigliato, sia ai poveri che ai ricchi adoprando modi
da cadetto o una lingua da taverna. Secondo gli ordini, non
dee montar in sella perché un cavalier dà nell’occhio, piuttosto

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viene raccomandato dal Barigello: «Tieni tra le mani una mappa
per non sbagliare strada, e, sotto il corsetto, scalda l’epistola per
il signor conte». Gionge, il medesmo, nei paraggi di Crevalcore
non sanza avere sostato presso un casolare e preso gaudio in
compagnia d’una contadinella, che gli cucinò un pollo india-
volato come lei.
«E il vostro marito?», dimandò il polito giovine.
«Travaglia nelle mense di città e non è ben vestito come voi».
E lui, tutto baldanzoso, riprese il cammino. Una volta inanzi
la cancellata del maniero, s’accinge a conferire con il padrone
ma, in un amen, un cagnotto l’acciuffa e a suon di busse lo fa
parlare sino alle lacrime, indi lo spedisce là onde partì.
«L’ultima cosa che viddi avanti d’essere battuto», sta dicen-
do il malcapitato corso nella ca’ del Barigello, «fu un paesaggio
ubertoso e un labirinto di verzura simile a…»
«Che paesaggio e paesaggio, asino d’un cor gentile, dimmi
altro o ti mando a concimare li prati!»
E il medesmo giura d’esser stato ligio ai comandi mostran-
do la lettera con il suggello del Tribunale, però lo sgherro non
allentava di dargli colpi su colpi per obedir agli ordini del pa-
drone di non fare passar alcuno anche con una carta in mano.
«Ti facesti almen dire dal menatore ove si trovi il conte
Filippo Pepoli?»
«In vero io ripetei… Messo mandato non paga pena, ma non
valse».
Licenziato il garbato dolente, l’omo più vituperato e odia-
to dalla plebaglia cittadina stringe li pugni e, reclinata la capa,
emette un fiato che mangia l’aria della stanza dentro il casotto,
accanto alla guardiola de’ Birri, ove vive con la mogliera e i suoi
due pargoli. Dimani andrà dal Vicelegato a chiudere ’sta fac-
cenda.
È la stampa moderna, Monsignore
Il Vicelegato Monsignor De Sangri dalla nera veste con ma-
niche e collo bianchi di camiscia è assiso in su di una cadrega
riccioluta nella stanza, contigua alla Cappella maggiore, ove si
conservan i libri battesimali della chiesa di San Pietro. Accanto,

79
si trova un giovine prelato domestico inviato da Roma. Per
giungervi, il Barigello segue una processione di candelabri lun-
go un corridoio con lapidi sepolcrali e sono queste a suggerirgli
l’incipit.

«Eccellenza, il viaggio umano dal battesimo alla morte respi-


ra la sua pace nella vostra cattedrale».
L’uomo di chiesa aggrotta un sorriso intanto che l’altro pre-
cipita a narrare le mosse di quel nido di formiche, ove…
«Esimio magistrato, so già tutto, indi riferitemi solo come
intendete mettervi all’ovra».
Sulla mancata perfezione della suddetta son entrambi con-
vinti, ma le ultime parole del colloquio spettano alla mitezza del
patriarca di Costantinopoli e Vicelegato di Bologna, che con-
siglia una cristiana pietà verso tutti i colpevoli tranne l’auttore
delle stampe infamanti e la di lui complice, quella serva non
fida. Indi congeda il visitatore e guarda il giovine ecclesiastico
con l’aria di dimandare.
«Monsignore», prende a dire il medesmo, «si tratta d’umili
stampatori, che si vantan d’avere moderne opinioni, e io ben
compresi l’intento di mantener alta l’idea della persecuzione in
questa città e mi compiace il vostro serrato essercizio del potere,
ma…».
«Proseguite, vi prego, siamo qui per farci illuminare dalle
fresche menti».
«Vorrei spiegar il concetto tramite un essempio. Quando
viddi in un trattato di scienze naturali una degna tavola con il
disegno d’un elefante, da subito paragonai l’imagine a quella
della nostra amatissima Chiesa».
Silenzio curioso da parte dell’altro.
«L’animale dalla pelle incredibilmente spessa parea quasi vo-
ler sfondar il margine della pagina avanzando lento irrefrenabile
temibile al pari della marcia trionfante della milizia di Cristo».
Ancora silenzio.
«Vedete, Eccellenza, l’elefante non sente lo sfregolio delle
formichine lungo la ruvida buccia di quel suo corpaccione a
meno che…»
Una cupa ombra in sul volto dell’Eminenza.

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«Queste non gli s’infilino in un occhio, allora sì che move
la proboscide facendo udir un barrito. Indi, colendissimo, to-
gliamo il bruscolino che appanna la nostra vista e godiamoci
la cattura di codesti, condotta dal solo Barigello sanza esporre
le nostre persone all’ira della plebe!»
Aria compiaciuta da parte dell’altro.
«Però, suggerirei di far sortire dalle vostre stanze una ver-
sione addomesticata sul luttuoso accidente, occorso nella
Villa del Toiano, da me curata e con fior di preghiere a San
Petronio acciocché i colpevoli possan infine mostrarci le lor
doglianze».
Una benedizione move le dita dell’egregio.
Il sogno nuziale della formichina
Intanto che si movono le segrete cose, l’auttore sta tornando a
ca’ quando, nel bel mezzo di via dell’Altabella, scorge un nugo-
letto di persone molto concitate e s’appropinqua per dimandar-
ne la cagione.
«È occorso un delitto dentro questo atrio buio…», e il più
accalorato con l’indice segnala la porta di casa di Lucco.
Appoggiatosi al muro e in su di un filo di voce: «Chi è la
vittima?», dimanda lui.
Non ode la risposta perché la mente realizza che gli inquisi-
tori seppero dall’impressore il rifugio della fida… oh non avere
compreso da subito le lor trame!
«Ehi, voi, mi date retta… come ve lo devo dire che la morta
è una donna?»
Sempre più pallido, trova la forza di far udire: «Vedeste forse
il cadavere?»
«La guardai io», risponde un altro, «perché non mi fa senso
il sangue».
Oramai allo stremo, Lucco farfuglia: «Il suo aspetto…»
«Beh, le morte ammazzate sono sempre delle morte ammaz-
zate e uno mica si mette a guardarle… le vede e basta. Questa
era… boh… tutta coperta di sangue perché il marito la sbudellò
per gelosia… sospettava della mogliera che si dava trastullo, ogni
martedì, alla sua faccia con l’inventore per nome Aldo Valli».
“Il mio vicino di porta”, dice tra sé il gazzettiere, “Benedette

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sian tutte le adultere di Bologna, se salvano la pelle della mia
Orsina!”
Tacciono le voci con ognuno che va per suo conto mentre
il nostro prende a salire le scale e, al tredicesimo gradino, ha
sciolto il rebus. Un Birro, agli ordini del Barigello, commise un
errore di persona per cui la fida è salva.
Apre la porta, grida: «Orsina!» Lei corre e lui vorrebbe ram-
pognarla, invece, prende la sua mano e insieme entrano nel letto.
Scopre tra i baci la pelle candida della donna e il suo corpo ritro-
va la gioia d’un maschio giovine insieme alla nostalgia del vigore
perduto mentre si stringon in un abbraccio d’eccitato sgomento.
Tra il languore l’Orsina rivede Crispino. Fu lui il primo che la
prese. Fu il falegname a portarla in quell’altana con tante ragna-
tele lungo il soffitto, ma la vista dava in sul ponticello sopra il
canale delle lavandaie. Era un magrone, nativo di Foligno, e gli
piacea star in sulle mosse visto che un bel dì… Quante lacrime
versò, lei! Abbandonata da chi le mandò a dire per bocca d’una
lavorante della seta che volea andarsene nelle Maremme a tentare
fortuna. E, al presente? Qui respira la buon’aria di casa, si move
svelta tra le due stanze, fa le polpette e Lucco la protegge al par
d’un buon marito. Pone la capa all’altezza delle ascelle dell’omo,
che la respinge poscia la riprende. Lucco, Lucco… quanto scalda
il core ripetere quel nome! Si rannicchia e sente correre lungo le
vene la sodisfazione di quella notte da sposa vera.
Un bel sogno? No, è sveglia se ode: «Orsina, verrai con me
nella strà di Saragozza. Ti spiegherò la cagione cammin facendo».
Poscia con un sorriso intanto che si stira aggiunge: «Là un
gruppetto di nani se la ride tutto il santo dì e, ora, scoprirem ove
passan le notti dopo tanto sghignazzare».
Gionti in sito, a chi tiene l’aria del capo il nostro addimanda
un rifugio per la sua amica che verrà ospitata in uno stanzo-
ne basso di palazzo Albergati, affacciato in sulla stradina det-
ta Malpertuso, a patto che mai e poi mai si mostri ai signori.
Insieme, ispezionano il loco. Un deposito di robe vecchie, ma
tanto pieno che nessuno dei servi ci mette più il naso, con un
matarazzo buttato contro una parete. Il gazzettiere, presa la
mano della donna, dice: «Tornerò da te, lo sai. Bada, però, di
tenere a freno la lingua perché rischiasti di finire sotto una lama

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dopo avere detto troppo all’impressore. Piuttosto ricorda che, se
non dovessi rivedermi, l’amico Moscatelli t’aiuterà».
Si stringono sanza versar una lacrima avanti di separarsi.
Rimasta sola, lei scoppia in pianto con singhiozzi sì grossi che
il nano, con l’orecchio pigiato in sull’uscio, piglia a canticchiare
“L’amor porta dolor”.
Ci lascia per sempre, il nostro Lucco
Con passi svelti Lucco s’avvia in direzione della stamperia e,
una volta entrato, coglie la luce del dì settembrino in sugli
Avvisi ai piè del torchio. Nota che l’impressore non è più al suo
posto, fissa le mani del torcoliere cerca il bresciano non sente
il miagolio del gatto. Indi rivolgendosi allo stampatore dice:
«Giovanni Paolo, abbiamo dietro giudici inquisitori Birri e io
sono costretto a fuggire».
«Cosa?», dimanda l’altro.
Poscia, sempre più accorato, rievoca la lor impresa mentre
venivan alla luce i primi figli d’una stampa libera da infingi-
menti. Immaginarono di volar alto, di contro, sono finiti a ter-
ra, perseguitati, e la vittima designata ha un nome. In città, il
Barigello vuole l’Orsina morta.
«Siamo falliti… siamo falliti, Moscatelli, se, per causa no-
stra, s’attenta alla vita di un’impavida innocente! E non fatemi
pronunziar altro».
«Lucco, che dite mai? Voi avete fatto vibrare sotto li portici
e nella piazza Grande la luce bianca della verità e concepito il
racconto a puntate, un’invenzione nel destino di non finir insie-
me a noi. Oh, non abbandonateci!»
«Amico mio, Vi ringrazio anche se non trovo parole».
Abbassa la capa, gli altri non sanno dire se pianga intanto
che odono: «L’ultima recita non si terrà e voi due rifugiatevi da
qualche parte dopo avere raccomandato al bresciano di cercar
fortuna altrove. Quanto a me, mai scorderò come le sue recite
abbiano honorato le mie pagine e, tra noi, lui fu il migliore».
«Beh, Lucco, piano. Adesso mica darem a Cesare quel che
è di Giovanni Paolo, che ci mise torchio bottega e lirette. Poi
guatate ’sto ranocchio di garzone che per far piacere a voi smise
pur di gracchiare».

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«Cosa farò, io, sanza la vostra persona… e la nostra Orsina?»,
fa udir il medesmo mentre l’altro non c’è già più.
Il nome della donzella svanisce in sul di lui grido: «Ci lascia
per sempre il nostro Lucco!»
«Sì, è finita», e si gratta la barba castagna, il mastro. Poscia
con gli occhi rivolti in basso: «Ho ancor nei piè le sue pregiate
pianelle vermiglie. Lo conosco, io, quell’elegantone… torne-
rà… eccome tornerà per riprendersele!»
Piove a Cesena
Parte, il nostro alla volta delle terre di Romagna su buoni stivali,
con dentro la saccoccia poche robe, e sono tre giorni di cammi-
no condotti con alterna fortuna sino a quando, issato sulle mas-
serizie d’un carro scoperto, Lucco s’infradicia perché “Piove…
è mercoledì, è a Cesena”, ove si trova la libraria di Malatesta
Novello. Il sogno di poterla un giorno visitar è dietro il portale
ligneo scolpito con la rosa quadripetala. Più d’un sogno è una
curiosità e, insieme, una necessità. I Birri non lo scoveranno mai
in una libera terra, tra i tomi d’una sala di lettura rettangolare,
allungata su tre navate come una basilica. Sfiora due file parallele
di banchi, ritmate da colonne in marmo bianco e capitelli adorni
d’emblemi, e “Passerò buon tempo qui”, pensa. Non ricorda il
nome del dotto che gli riferì come lo spirito del loco si colga, du-
rante un’intera giornata, nella corrispondenza tra la luce naturale,
e la luce del sapere emanata dai libri. S’asside in su di un banco a
sinistra con nel ripiano sottostante volumi di scienza e medicina,
sfiorati da un fresco taglio di luce e, al solo tirare la catenella a
grani di ferro che li mantiene legati al pluteo, quasi avverte un
risveglio dei sensi, come fosse un fanciullo in sul punto di cono-
scere il proprio corpo. Cessata la pioggia, attraverso le finestrelle
la luminosità del pieno mattino lo porta nel fianco della bibliote-
ca, rivolto a levante, per seguire quel raggio che rende ancor più
vivide le ridenti lettere dei copisti gotici e, mentre sfoglia i mano-
scritti, sente il calore diffondersi lungo la sua persona. In sul far
della sera, le opere teologiche e di meditazione, disposte lungo la
fila di destra, verso ponente, aspettano il distendersi d’una flebile
luce su d’un loco, che mai conobbe il riverbero d’una candela.
Dalla porta s’affaccia una figura con in mano un’antica chiave.

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Lucco s’alza per sortire dalla sala e, intanto che le passa accanto,
addimanda: «Ove potrei ricovrarmi per qualche tempo?»
Il custode guata a lungo il soggetto che dà fidanza d’esser
un buon omo. Poscia pacatamente risponde: «Ho una stanzetta
nella mia casa, se vi contentate».
«Son contento avanti di vederla», pronunzia lui.
Di Settembre di frutti ce n’è sempre
I giorni del corrente mese nella città di Bologna sono talmente
uguali a se stessi che ammalano di noia i nativi tranne chi sa
leggere la prima Supplica degli assassini, scritta in lingua lati-
na, rivolta al Vicelegato Monsignor De Sangri, ed esposta nella
bacheca del tribunale del Torrone, che così recita in volgare…
“Essendo donna Dorotea moglie e sorella degli uccisori
supplicanti, non è verosimile che essi sian stati indotti al de-
litto sanza esser mossi da urgentissime cagioni, le quali se non
li rimettono dalla pena li rendono almeno degni di Grazia.
Indi Vincenzo Bolognetti, carcerato, e il cosiddetto cavaliere
Palmieri, contumace, sperando nella benignità e clemenza di
Sua Signoria Illustrissima, ricorron supplici a Voi acciocché si
degni graziosamente di liberarli ed assolverli dall’inquisizione,
processo, bando, e pene contenute nella sentenza, e restituir-
li al pristino stato, alla patria, agli honori, e alla buona fama,
come se le cose narrate nel processo, non fossero mai avvenute.
Volesse inoltre ordinare e comandar all’Auditore e al Barigello
di cancellar i lor nomi e cognomi nel processo, nell’inquisizione
e nella sentenza, acciocché essi non fossero molestati, né ad al-
cuno fosse lecito di molestarli”.
Con animo sollevato, pertanto, le sopraddette autorità citta-
dine accettano l’invito degli illustri Albergati per il pranzo della
bandiga a conclusione dell’opera d’ornati in macigno lungo le
finestre e la cornice di coronamento del lor palazzo. Nel corti-
le è testé apparso Monsignor De Sangri quando gli si accosta
il Barigello che, accanto a una lapide romana murata, dice: «I
tempi lieti sono tornati, Eccellenza!»
«In virtù del Vostro sollecito operare, mio egregio, le recite si
spensero. Mi riferiscono che la stamperia da tempo è serrata con
due assi di legno a croce in sulla porta e speriam che…»

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«Così, Monsignore, a voi è consentito l’animo sereno con
cui vaglierete la Supplica dei pentiti uccisori».
«Vedremo, vedremo…», intanto salgono lo scalone d’honore.
Ai lati dell’ampia porta dagli stucchi dorati, che dà in sulla
sala grande, i nani sono schierati in due file parallele, ben vestiti
truccati gentili nel porger un picciol dono agli ospiti. L’Orsina
con cinque o sei nei sbarazzini proprio nel bel mezzo delle gote
rosee di belletto, fatto un accenno d’inchino, depone nella
mano inguantata del capo dei Birri, suo persecutore, il presente
offerto dalla nobiliare casa e il medesmo le sorride pure.
«Eh… c’è cascato, Lucco», dice tra sé. Poscia “Lucco Lucco”,
ripete, come fa mille volte ogni dì.
In sala vien annunziato il primo servizio di credenza, che
apre il pranzo da grasso con una portata di magro, quando il
Vicelegato, ben accomodato nella più riccioluta cadrega, fa:
«Quella stamperia, anche se chiusa, m’inquieta perché da là sor-
tirono le diavolerie».
Rapido, il magistrato: «Non ignorate, illustre, che io atten-
do un Vostro cenno per allumar la festa», intanto prende una
fritellina di cervella.
«Ci conto, messere, e avrete ogni nostra benedizione. Certo
che le malleverie, richieste alle famiglie degli uccisori onde as-
solver le pene inflitte ai lor congiunti, sono pari a…» e indica
i grossi piccioni col crosto portati in sul desco. Poscia, alzatosi,
cerca con gli occhi un valletto e, una volta vicino, gli addiman-
da qualcosa di molto privato se codesto in segretezza, tenendo
l’indice destro verso il basso, indica il sito ove la ricca gabba-
na scura s’avvia per pisciare. Di ritorno scruta il volto dell’al-
tro che… «Stavo per dire», prosegue, «dei casati Zambeccari
e Bolognetti. Lor signori si faranno magri al solo guatare pan
bianco e mortadella».
«Guatate Voi, invece, che stanno portando il pastizzo in for-
ma di Fortezza urbana con quattro bandirole e l’armi del nostro
Signore e santa Chiesa. Non mi fa gola».
«Ma noi, esimio, abbiam altre spezie per favorir li vostri ap-
petiti».
E due giorni dopo, in sull’alba, la gente corre lungo la Porta
di San Vitale con addosso le vesti della notte: «Al foco, al foco»,

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gridano tutti, «oh povero Moscatelli! E adesso chi glielo dice che
nella sua stamperia entrarono li diavolacci?»
Lontano dal paradiso
Giovanni Paolo dimora presso una parente per nome Nocetti,
che fa la bottonaia vicino al duomo di Modena. Un giorno sì e
l’altro pure, lui si porta a mirare le formelle scolpite in sulla fac-
ciata del tempio sin quando, oramai stracco di quel fare niente,
non sortì più di casa. Incaponitosi su cosa poter pubblicare, una
volta tornato a Bologna, pensa di stampare un libercolo di pre-
ghiere o un manualetto sopra la cucina. Indi principia sempre a
piangere come fa lo cielo di metà Novembre.
In quel di Cesena, Lucco dopo il vespero dà lezioni di latino
alla figliola del custode. Le hore di luce sono buone per lo stu-
dio nella libraria ma, calato il buio dell’inverno, l’auttore nella
picciola stanzetta s’accuccia ai piè della signora Melanconia. Gli
tornano alla mente, più vive che mai, memorie mai sopite. Le
terre di Toscana visitate in compagnia della madre, nativa delle
Maremme, che si recava dai parenti in compagnia del piccolo
figlio e gli odori delle botteghe dei cenciaioli di Prato, patria
del padre, ove vivea la famigliola. Un uomo, suo padre, che
quando lui dava isfogo a focose impressioni di giovinezza, lo
guatava pietosamente poscia, girate le spalle, con le lagrime agli
occhi andava a lamentarsi presso la mogliera perché il figliolo
non gli volea bene. Così s’avvezzò a serrare in sé ogni sentire,
a fare progetti solitari e a non contar su alcuno onde mandarli
a compimento. Nel corso del suo diciassettesimo anno, vidde
morire la madre finita in un amen sotto i suoi occhi intanto
che parlavano. D’allora, le incertezze nei confronti del destino
augmentarono la sua vaga disposizione a fantasticare. Distratto
e tediato dalla vita del borgo, vicino a Firenze, promise d’andar-
sene celatamente per non scoprire di nuovo le lacrime solcare
il viso del genitore e, nel core d’una notte, stava per sortire ma,
dopo essersi girato per l’ultimo sguardo, richiudette l’uscio. Tra
le mani del padre, quasi nascosto dietro un angolo, c’era qualco-
sa non ben distinguibile nel buio della stanza. Dopo aver acceso
due candele, il ricamo li colori il tessuto pregiato d’una gabbana
spinsero le sue mani a toccarla mentre quel buon Cristo dicea:

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“Si chiama lucco, proprio come te, questo manto commissiona-
to da un magistrato fiorentino che spirò avanti che fosse finito.
Che porti miglior sorte al tuo viaggio!”. Con in su le spalle la
gabbana d’un morto e, dentro la saccoccia, una porzione dei
risparmi di casa, gionse in quel di Bologna per le lusinghe pro-
messe dalla famosa antichissima Università. Spartì il tempo tra
studi interrompendoli spesso, progetti non portati a compi-
mento e intanto scribacchiava su feste processioni e delegazioni
d’acclamati forestieri. Il suo lucco piacea alle donne, ma le amo-
rose venture finivano in un dirotto pianto da parte delle femine
poscia, in virtù d’un repentino cangiamento d’humore, i con-
vulsi singhiozzi si faceano risate irrefrenabili, come quelle de’
pazzi. Al presente, lui pensa all’Orsina? Talvolta. Quali parole
pronunzierà rivedendola? Ne sta provando tante nella sua capa.
Il bresciano pare avere trovato requie presso gli ardenti ac-
cademici dei Gelati, che lo fanno recitare pastorellerie poscia,
tignosetti, gli dicono in sulla faccia d’amare soprattutto il bel
canto. Ma a lui piace sentirsi in uno spazio aperto inanzi a un
pubblico di poveri come di ricchi perché declamare partecipa
dell’allegria della vita per ogni attore. La prima recita, condotta
sotto il portico di Santo Stefano e l’altra in sulla piazza Grande,
l’aveano reso quasi dimentico dello scorno d’essere stato escluso
dalle voci del coro dei Concerti Palatini, che si tengono ogni
giorno dalla ringhiera del publico Palazzo richiamando una fol-
la plaudente. Oramai, pensa con mestizia, la sua unica piazza
saranno le salette delle private dimore alla presenza di poche
dame, assise in su scranne rivestite di seta turchina, mentre i
gentiluomini restano in piè lungo le pareti affrescate di chimere
e sfingi ad ascoltare lui, un dicitore al chitarrino. Dovrà dire ad-
dio al sogno di recitare cantando le Canzonette del compositore
Adriano Banchieri e a chissà quant’altro ancora.
Nella Val di Zena, il garzone: «Sto da papa, qui», proclama,
«e con la figliola di uno del posto siamo già in promessa di vo-
lerci bene».
Quando Genaro fa polvere, il pane si fa di rovere…
mentre ad Aprile, ogni dì un barile
Scorron i mesi sin alla più solenne nevicata dal cominciamento

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del novo secolo. S’agghiaccia l’inchiostro nel calamo dello scri-
ba di Monsignor De Sangri intanto che verga sotto dettatura la
risposta alla Supplica degli uccisori in lingua latina. Tradotta,
così recita:
“Attese le cose narrate e in virtù della presunta pace tra i
parenti di donna Dorotea Zambeccari e le persone coinvolte del
casato Bolognetti, dopo aver depositato nelle mani dell’Atten-
dente della Camera apostolica le mille e quattrocento lire richie-
ste, versate dalle due famiglie, il Vicelegato commuta a tutti lor
la pena del capo in quella dell’esilio. Si richiedon inoltre a mo’
di cauzione altri duemila scudi e la solenne promessa di non
rientrare nello Stato ecclesiastico”.
Lasciati colar una sessantina di giorni, gli uccisori porgon
una secunda Supplica, che conclude:
“pregando sua Signoria, l’illustre Vicelegato, di graziarli
dell’esilio perché il non respirare l’aria nativa causa loro tristezza
nel capo e nocumento nella propria salute”.
Anche questa volta esauditi in grazia di altri trecento scudi,
si mantiene per loro solo l’esilio dalla città.
In tal guisa s’apparecchia la Giustizia ecclesiastica e secola-
re, che rivolta le pene in multe, onde augmentar equamente la
cassa della Camera apostolica e quella del tribunale del Torrone,
nomata la zecca di Bologna!

In sul finire del mese d’Aprile, il Legato di Bologna, illustrissimo


Cardinale Giustiniani, con la lente infilata tra l’arco sopraciliare
e lo zigomo, per non precisati motivi tali però da indurlo dopo
un’hora di riflessione a pietà dettata da intimo convincimento,
li richiama per iscritto in patria restituendoli ad patriam honores
et pristinam libertatem.
Il ventitreesimo del mese anno Domini 1607, primo anni-
versario della morte di donna Dorotea, l’Orsina, dopo avere pas-
sato una brutta notte, con la scusa di portare li panni nel lavatoio
delle rimesse saluta il più caro dei nani dei signori Albergati. Ma
la carezza è troppo lunga perché il furbetto ci caschi.
Tre giorni avanti, Lucco all’ennesimo errore della sua allie-
va su di una voce latina salutò il custode la libraria e Cesena.
Moscatelli, alla fatidica data, arriva a Bologna con l’idea di dar

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alle stampe un manualetto attorno alle vite dei santi onde ingra-
ziarsi gli inquisitori.
Proprio nel medesmo tempo il bresciano scopre che, tor-
nato il sole, è gionta l’hora d’andarsene dalla gelata sala degli
Accademici di palazzo.
Il torcoliere, vent’anni, d’incanto non se la sente più di ma-
ritarsi con una montanara, priva d’incanto, e torna a pestare le
vie della città.
In quel mentre il capo della polizia nel suo alloggiamento
dice a chi bussa alla porta dello studiolo: «Avanti!». S’affaccia
il timido scriba, nonché mai scoperto ladro dello scartabello di
Lucco, ad annunziar una visita.
«E chi è?», dimanda.
«Un nano degli illustri Albergati».
«Un nano… e che entri, orsù!»
Codesto, giudicando di fare buona figura, s’abbigliò da Birro
con un giustacuore turchino e in sulla capa un pennacchione in
uguale tinta onde alzare un po’ la figura e la posta in gioco.
Fattosi spavaldo per via del travestimento, addimanda protezio-
ne per i nani della Saragozza lungo il viaggio sin a Mantova. «In
contraccambio, signor, ho da darvi una nova».
Il Barigello consente e la picciola spia principia a raccontare
d’una serva per nome Orsina… S’allarma il magistrato, che in
rapidità lo congeda, fa chiamar un de’ suoi omini, dà l’ordine
di recarsi nel loco, ov’era la stamperia, e spiare l’arrivo di cinque
persone. Una volta adocchiati i facinorosi, dee chiamare subito
rinforzi e attendere le guardie, poscia celatamente seguirli sin
dove andranno, presumibilmente nella piazza Grande.
«Perché devon esser presi inanzi alla plebe acciocché tutti
comprendano che non sono concesse intemerate di voce in
Bologna», tuona.
Verso il mezzo dì, come rondini, compreso il Birro a far da
corvo, i nostri s’appropinquan alla bottega. Il momento dell’in-
contro tra Lucco e l’Orsina è finalmente gionto. Quali saranno
le lor prime parole? Entrambi non sanno da dove principiar ma
il torcoliere, fresco d’amorose scaramucce, borbotta: «Tra i due
gatta ci cova».
In fronte alla stamperia nera al par d’un tizzo da camino,

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ognun però scorda le proprie cure. Moscatelli piange, Lucco è
sgomento, mentre il bresciano sapea della focosa ruina. Il gar-
zone esclama: «Bestie!» E l’Orsina si copre il viso. Poscia tutto
cangia con l’editore che grida: «Corpo d’un Bacco, incomodo
dio dell’Olimpo tutto, parimente terremo la nostra ultima reci-
ta e sanza stampare Avvisi!».
«Bella forza», dice il torcoliere, «non c’è più il torchio!»
«E il sito sarà di nuovo la piazza Grande!», continua Giovanni
Paolo.
«Eh… portate anche me?», dimanda l’Orsina.
«E io», considera il cantore di Brescia, «leggerò la puntata
dalla malacopia, che conserva Lucco».
«Vedrete come gli uditori giungeranno, passo dopo passo», e
si frega le mani, lo stampatore.
Marcian in direzione della meta come un sol omo. Sono
tanti, però, li Birri appostati in sui quattro angoli della piazza
Grande, se un passeggero commenta: «Toh, arriva il papa oggi!»
Scappan i nostri e, con istintiva astuzia, singolarmente si
disperdono. Moscatelli irrompe in una bottega del Mercato
mostrando di volere comprar, il bresciano dimanda ricovero
a un amico liutaio, il torcoliere entra nella chiesa della Vita.
L’Orsina e Lucco s’acquattano nel piano terreno dello spedale
della Morte e tra i puzzori dei medicamenti lei ode: «Dimmi
con chi parlasti!»
«Eh… adesso che mi ricordo con nessuno… ma poi nel son-
no feci un nome… Dorotea… e il nano era lì… perdonami».
«Se non lo facessi, non ti meriterei».
In sull’hora del vespero, son ancora sparsi per la città, ma
Moscatelli non ignora ov’attenderli. “Avranno tutti la gola secca
per la paura”, pensa nei pressi di vicolo del Pozzo dell’Acqua
Buona, che taglia il lumacone di portico lungo la strà Castiglione
in angolo con le case dei signori Poeti. E ai sopraggionti con una
bella sete in corpo fa sapere: «Reciteremo l’ultima puntata…
dove, però, non so».
«Mentre io, Giovanni Paolo, conosco il loco», dice l’autto-
re, «il bresciano leggerà inanzi all’osteria del Calza in quel di
Casalecchio rivolgendosi al sole al vento alle stagioni e alle gen-
ziane, che nelle campagne fioriscon anzi tempo».

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«Oh, Lucco, non fate il poeta anche se siamo nella via de’
Poeti. Mica vorrete farci andar a ca’ del diavolo…»
«Mastro», salta su l’attore, «concedetemi una notte, m’è
gionta una pensata».
Gli altri si guatano, ove posson nascondersi nel frattempo?
S’acquattano nei pressi della residenza degli inquisitori passan-
do per la porta vicino alla chiesa di San Domenico, accanto alle
cantine più stipate di vini di quelle dei todeschi.
Andarem ove vanno i savi e i matti
Il vino corre a fiotti anche nel sito ove il bresciano arriva. Quivi
esisteva una florida piantagione di peri, un selvatico attraente
per le barbariche invasioni poscia, spariti gli alberi e i foresti,
il borgo fu stretto alla prima cerchia muraria della città. E al
presente, nella strà detta il Pradello, sono sortiti i ladri che s’in-
gozzano di fagioli nelle scodelle, scavate nel legno dei tavoli con
i cucchiai ancorati da robuste catenelle.
Mi gusta il rione, pensa lui, e sono belle le rose nere fiorite
in sulle scollature delle femine.
Nel crosale, ove s’incontrano sempre tutti, non trova
Strufiàn, un ladro così nomato per via del grembiulone legato
alla cintola, che gli dee ricambiar un favore. Forse, il medesmo
è finito nella locanda della Margheritona, chiamata Ghitòn, che
però dice come non dice, insomma da lei non ci sta. Può tro-
varsi presso l’osteria Reginula, il benedetto invocato Strufiàn?
Il recitante addimanda a destra e a manca, ma la lingua del
Pradello è un accidente di dialetto non per gente di passaggio.
Strufiàn… Strufiàn, finalmente ecco Strufiàn che s’era messo a
far da giudice della lutarì, una sorta di gara tra facchini del mer-
cato di Mezzo, grossi come dieci casse una in sull’altra. Sfregato
il sudore a uno dei partecipanti con lo strofinaccio infilato nelle
braghe, ode le parole del bresciano: «Io e i miei compari siamo
braccati per via d’una recita e…»
Non finisce la frase che l’altro: «Beh, di te, che non sei di
Bologna, mi ricordo per quella volta là che m’aiutasti e, insieme
ai tuoi amici, puoi venir da noi. Qui i Birri non mettono piè
perché siamo più delinquenti di loro».
In quel mentre passa una capa rasa, compensata da un folto

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mostacchio che, voltate le spalle ai nostri, piscia contro lo muro
e il rivolo fumante, toccato il suolo, s’unisce a una mappa ori-
nosa di contorte strisce brunastre simili a bisce secche. «Tutti vi
daran una mano», continua Strùfian che nomina i biassanot,
capaci di sfinir pur li santi a furia di ciance, i veloci pelagatti e
i rapinatori, svelti a saltare sopra li carri non appena una rota
abbia ficcato un dente nella loro terra.
L’attore guata gli omini del Pradello, dagli stivali ferrati, con
lame lunghe o corte, pendenti da braghe imbottite di bombice,
divoti a quattro precetti. Se le danno se le prendono non uno
fa denunzia e ogni grembiale cela una lamicchia, che splende al
lume della luna. Di notte, è regola spartir il ricavato delle rube-
rie, nonostante le alleanze svaniscan in sull’alba con le femine a
far combutta con chi, da ultimo, fece lor veder il paradiso.
«Qui leggerò la storia in sulla mia cadrega», dice forte.
«Ne sappiamo tante, noi, di storie». E principia, Strufiàn,
con quella d’un poveraccio che, sanza averci l’intenzione, sol
per mala sorte, avea coltellato la mogliera. Eh, se fosse rimasto
qui! Invece, gli venne la voglia di metter il naso fora così lo pre-
sero e, due giorni fa, gli tirarono il guindo in sulla ringhiera del
publico palazzo mentre, nella piazza, tutti sguazzavano perché
non erano mica lor a tirar calci all’aria. E, adesso, il suo boia
si stima andando in giro con il corsetto di cervetto del Nardi,
comprato al mercato di Bazzano.
«Solo un ladro al par di te», e scote la capa il bresciano, «può
pensar alla giubba del malcapitato! E sappi che la folla si reca
a veder il tormento perché chi s’è macchiato d’un delitto provi
vergogna e umiliazione».
«Attore, va mo’ in chiesa a far il predicozzo».
«Strufiàn, giuro che nessun di noi ammazzò la mogliera e
abbiamo tutti più d’una buona cagione per non farci veder in
sulla piazza Grande e non perdere le nostre cape».
«Solo dentro sarete al sicuro», confirma, «Allora v’aspetto,
eh, stringiamo il patto».
«Ma… ove potrò mettere la cadrega?»
«Beh, nel crusel, sotto l’immagine della Madonna di san
Lucca e la pancaccia te la trovo poi io. Se vuoi, anche il tamburo
che è a portata di mano».

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Fatto ritorno in stamperia, il bresciano annunzia d’avere
stretto un patto con un diavolo del Pradello. Tutti gli danno
del “Bravo” tranne Moscatelli che, in veste di malcontento, fa
le smorfie mentre, sotto sotto, pronunzia “ Va ben, va ben…
andarem ove vanno i savi e i matti”.
S’avviano, ognun per proprio conto, attenti a che nessun
li segua con lo stampatore che, nel corso del cammino, scote
la capa poscia decide. Sarà, lui, a raccontare l’antefatto, indi il
bresciano attaccherà la puntata pronunziando in libertà li nomi
veri dei personaggi visto che, dopo il publico processo, corrono
già in sulla bocca di tutti e, peggio di così, mica può andare.

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Terza puntata

Nel crosale del Pradello

G ente che m’ascoltate, dopo le parole dello stampatore prin-


cipio a narrare il proseguo della storia. Ci portiamo nel-
le campagne attorno a Casalecchio in quel giorno di Maggio
dall’aria lustra quando il gazzettiere dal bel cappello gionge
nella chiesa di San Martino insieme alla donzella Orsina, che
pare un calabrone sortito dalla scura pece. Ha preso a nomarla
“La mia dama nera” per poi aggiungere: «Sei o non sei la dama
nera di questa storia?» E lei ride sempre, tanto contenta mentre
ripete la medesma dimanda. Con il pretesto d’esser, entrambi,
parenti della vittima, lui intende farsi dire dal parroco ove si tro-
vi la tomba di donna Dorotea. Don Marco Antonio principia a
tremare perché, uditori, la salma di colei, cui il religioso prestò
gli ultimi salutari conforti della fede, è sparita. Cosa? direte voi.
Ogni guasto è sempre opra del diavolo in questo mondo, si
difende il curato.
«Che insegna a fare le pentole ma non li coperchi», incalza il
nostro, «indi, omo di Dio, scoperchiate mo’ la pignatta!»
Che fumana esce da quel pentolone! Mica facile capire
come si son acconciate le faccende, se il prete un po’ mente,
un po’ scorda, infin confonde un ammazzamento con l’altro.

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Dovrebbe, in verità, consultar il librone, imposto dalle nove re-
gole del Concilio di Trento, ove vengono segnati i nomi di chi
è nato s’è maritato oppure è spirato. Invece, lui pensa bene di
cascare a terra insieme alla pisside, che tenea tra le mani, in un
infioramento di ostie sanza sapore. Si piega a squadra, l’altro,
e pare un esorcizzatore che reclama d’udire per intera la verità.
E allora sì che il curatonzolo ricorda un carretto derelitto con
dentro il corpo della padrona del gran Toiano e sopra la cassa
una selva di ceri ammucchiati.
«Furono due cagnotti, messere, a portare via il cadavere della
povera donna Dorotea, mentre io cercavo ove collocarlo, e avea-
no dei coltelli pendenti dalla cintola da fare scappar il diavolo».
Alla vista di quei ceffi don Marco sentì lo gelo nel cervello e,
rannicchiato in un angolo, lasciò fare. Non crede alla spiegata
il nostro e minaccia d’infligger al mentitore terribili punizioni
corporali nel caso perseveri a mentire. «Su ordine del signor
Camillo Bolognetti», infin confessa, «il factotum di Villa Matteo
De’ Lelli e il di lui cognato muto misero la salma in su di un
picciolo carretto facendola passare dalla sponda posteriore». Era
un trabiccolo con schizzi di fango lungo le fiancate, privo di se-
dili, solo un po’ di paglia sparsa per coprire le sgraffiature delle
pietre trasportate e tirato da un misero mulo. Viaggiava lungo le
campagne scossando il povero corpo dentro la cassa, vegliato dal
curato con le spalle appoggiate a quelle del guidatore e le gambe
strette dai polpacci del fattore. Nel core d’una notte di mezza
primavera, il disonore di quel trasporto tagliò l’aria sin nei pressi
dello spedale dei Canonici del Reno.
«E in sulla soglia della fabrica io viddi una gabbana bianca
con al centro un teschio e sopra una croce», conclude don Marco
Antonio avanti di serrarsi a chiave dentro la sacrestia. In un amen,
l’indagatore ravvisa la foggia dei divoti della Compagnia di Santa
Maria della Morte che tengono l’antico spedale nei pressi dello
Studio, lungo il portico del Pavaglione. Qual mai sito governan
i Renani e qual legame hanno con gli orgogliosi confratelli di
Bologna? Dovrà recarsi in tal sito, una volta tornato in città.
Al presente, invece si porta con l’Orsina presso una di lei
vecchia amica, che sta nei paraggi. Si fermano inanzi a una ca-
supola, che pare un’onda della terra, con il tetto appena visibile

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e la contadina, ferma in sull’uscio, li accoglie. Da codesta, tra
un abbraccio una soffiata energica di naso e più d’una parola,
apprendono dell’atroce fatto occorso nella piccionaia della Villa
del Toiano dei signori Bolognetti. E io, uditori, son in sul punto
di servirvi una minestra così calda da soffiar poi sopra anche alla
fredda perché, in tal loco, fu scoperto da un servo un misero
corpo pendente dall’alto della scala con una corda al collo.
«Vogliono farci credere», dice la rustica con le narici tremule,
«che Lepido s’è appiccato di sua mano».
Di contro fu Michele, il più perfido tra i servi, a infierire
ripetuti colpi di lama per mandar all’altra sponda il coppiere,
colpevole d’avere ricusato l’ordine del padrone di versar il vele-
no nel pancotto della di lui moglie, donna Dorotea. Mandato a
fine il crudele gesto, dovea menar il cadavere in sulla sommità
della scala della piccionaia creando la messinscena a penzoloni
acciocché il Massaro di Casalecchio non conducesse indagini su
di un famiglio che s’era ammazzato da solo. Il suo corpaccione,
però, non passava tra gli angusti gradini, così il medesmo diede
l’incarco del trasporto al fattore di palazzo, quella buon’anima
di Matteo.
Quanto pesava il corpo di Lepido in sulle spalle del villico?
Se, uditori, potessimo dimandarlo proprio a lui, risponderebbe:
«Non fu il carco del morto a ingombrarmi, ma quei maladetti
colombi».
«Spiegati meglio, fellone», incalziamo noi.
E il medesmo: «Dite bene, voi, ma se aveste mai veduto
quella dannata scala con i gradini coperti di sterco e centinaia
di pennuti inferociti, svegliati dal romore de’ passi…»
«Noi no che non la vedemmo e per tal cagione non vedem-
mo nemmeno i quattrinelli in rame del padrone, che pagò la
vestina nova nova per la tua mogliera, di nome Barbara».
Fu lei, la più vanitosa tra le galline del pollaio, a ciurmar
il mingone che intascò il compenso. Se avesse mai potuto,
Matteo, immaginare quella salita con la bocca di Lepido pigiata
in sull’orecchio quasi volesse sussurrare: “Bestia, me la pagherai!”
A dunque, gli occhi del vivo erano girati verso l’alto, la testa
dell’accoltellato andava di suo e la meta… quella cima da cui
viene giù uno svolazzamento di piume grigie e bianche, intrise

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di schizzi molli umidi vischiosi a immerdar i capelli le guance
le labbra. Nello spostare la capa di lato, il Lelli move il braccio
ciondolante dell’accoltellato che, dannata strettoia, urta la pare-
te e il corpo rotola dabbasso tra il gemere e il tubar dell’intero
stizzito popolo della colombaia. E a lui tocca risalire, dopo aver
potato con il coltello l’ingombro di quel braccio, mentre la mo-
glie Barbara l’aspettava fora con indosso l’habituccio fresco.
“Delitto chiama delitto”, dice tra sé il bel cappello stretto a
una parete della casupola, e move li passi verso il tavolo con sopra
qualche ravanello ridotto in minugia. Guata le due donne, che
paiono non temere niente, apre la porticciuola e respira la notte.
Principian a corrergli lungo la schiena ripetuti morsi, è la paura
a fare sentire i suoi rantoli. Paura d’andare lungo queste campa-
gne, da solo, tra insidie veleni e lame, con omini lordi di colpe,
ministri di Dio ignari di pietade, servi parati alla ferocia. A che
pro arrischiare la pelle? Potrebbe metter a riparo la testimone,
rinunciar all’investigazione e fare ritorno a ca’. Passa hore a capa
china, assiso in su di una panca, tra scoramenti dolori pene, sino
a quando, accanto ai suoi, vede due piè nudi che calzano sandali.
Solleva lo sguardo lungo una veste grigiastra con una corda alla
cintola, tenuta lenta, e in sul petto un’ispida barba.
Pace e bene, ode.
«La pace…», risponde lui intanto che si scosta per dare po-
sto a fra Serafino. Vive da queste parti, il cappuccino, sanza ave-
re un monastero d’elezione, perché per dormire basta un po’ di
paglia in sulla nuda terra. Ha intento di recarsi da un pellegrino,
ricovrato presso lo spedale dei Renani, per il quale la morte non
riesce a venire e così, passo dopo passo, è qui gionto. Guarda in
basso, il gazzettiere, e indica al frate il bordo d’una cotica nera,
tagliata da fessure, lungo i di lui talloni.
«Però non dà dolore questa mappa del mio vagare».
«Per dimandare la questua, vero?»
«Son io che devo qualcosa ai fratelli di povertà».
«Però, nella vicina Villa le cose andavano diverse. Ci foste
mai?»
«Non son i miei siti, quelli».
«Ma dell’inumano delitto colà occorso, di certo aveste con-
tezza?»

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«Sì, incontrai il maggior fratello della vittima».
Fa un balzo il nostro insieme al suo “Dove?”. Vien a sape-
re che nelle prime hore del Sabato santo, mentre la contessa
agonizzava, Carlo Zambeccari era in quel di Tizzano, lungo
il bordo d’un fosso. Il religioso fu presto a tender una mano
all’obriaco, che fora di sé, vaneggiava e insieme, rifugiatisi in un
capanno, colloquiarono.
«Mi confessò d’esser un traditore d’affetti e sentimenti…»
«E voi, voi?», incalza il nostro.
«Anche Giuda fu chiamato amico da Cristo quando…»
«Frate», interrompe il bel cappello, «adesso non raccontate-
mi del perdono e dello spirito di caritade, io vorrei… oh come
vorrei vedere compiuta la giustizia in questa terra anche se le
mie forze stanno per cedere!»
«Sono tante, e diverse tra loro, le afflizioni dell’animo uma-
no e vanno tutte comprese e perdonate».
S’allontana frate Serafino con piè sicuro e li passi non sol-
levano polvere. Avanza gioioso e vivace in sul sentiero d’una
pensosa, personale felicità.
Sotto la luce già chiara, il gazzettiere respira a pieni polmoni
e, animato dal vivo essempio, si porterà presso lo spedale dei
Renani sperando in qualche buon effetto.
«Gambe in sulle spalle, dama nera, che siamo già là», sprona.
Una volta gionti inanzi alle colonnette della guardiola, den-
tro non vedono nessuno. Gira la capa, lui, e poco distante scor-
ge il custode che fa saltar in aria il suo zuccotto di panno, come
fosse una palla, tanto per divertirsi. L’afferra al volo e, “Bello”,
complimenta onde mostrarsi amabile con chi non move un
muscolo del viso. Dette due o tre frasi per scaldare l’aria, butta
lì qualcosa a proposito d’un medico con indosso una speciale
candida gabbana che dovrebbe, magari di notte, essere stato
presente…
«No e poi no», è la secca risposta, «non si vidde mai una
siffatta tunica da queste parti. Qui entrano solo gli spezieri e i
pellegrini in malore accolti dai nostri curanti, non chi è in piena
forza e si vole impicciare di segrete cose».
E, girate le spalle, riprende il suo gioco.
L’Orsina subito s’allontana lasciando l’amico assorto con

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gli occhi bassi come avesse da contar i quadrifogli del prati-
cello. Poscia, quasi spinto da una forza ignota, avanza verso il
padiglione alla sua sinistra, più largo che alto e tinto di color
gialletto. Entra, furtivo, da una porta semichiusa e, dentro lo
stanzone, s’allunga verso un tavolo posto in ombra con sopra
erbe messe a dissecare, non distanti da una finestra schermata
onde fare passare solo l’aria.
È la farmacia dello spedale, donde sortì la dose d’arsenico
che diede cominciamento all’agonia di donna Dorotea.
Il gazzettiere è attento ai piè per non dar contro a spatole
mortai bilance stadere bagni maria torchi e pentole da bolli-
ture. In un angolo si vedono delle grosse spugne… però pensa
“mantengono il corpo pulito, gli speziali”. Nella stanza c’è odor
di tutto e lui si tura il naso per non sentire la regina dei fetori
vegetali, detta asa foetida. Come sopravviver al tanfo? In una
spezieria esiste ogni rimedio pur di saperlo scovare. Forse, in
un qualche libro… e dalla credenza-biblioteca, posta lungo la
parete, afferra un bel titolo Veleni vegetali e così impara che si
devono pestare bulbi di narciso dissecati, capaci di dissolvere i
puzzori. Ma ove sono le cipollette del fiore, che vanno conser-
vate in loco secco e al buio? Apre l’anta in basso del credenzone.
Scopre una fila di albarelli in ceramica adoprati per conservare
gli unguenti, fiaschi e bottiglie forniti di cartiglio per i medica-
menti liquidi e un ampollone ansato con beccuccio che tanto
lo incuriosa quando, dal sovrastante ripiano casca il testo di Ibn
Washya, l’infernale cuciniere arabo dei Nabatei.
Robe lontane, queste, e risistema il volume dopo averne
sfogliato due o tre paginette. Gira gli occhi attorno. Cerca la
polvere d’arsenico, il recipiente di terracotta ove va arrostito con
cinque once di sale di Cappadocia, quattro lamelle d’oro, farina
e zucchero sino a che il miscuglio non diventa un allume candi-
do compatto sfolgorante al par del diamante.
Piega la capa da una banda e resta così, fantasticando i ve-
leni, quando ode una voce dalla cadenza foresta: «State male,
messere?»
Si gira e vede una maschera di vetro che deforma al pari d’uno
specchio convesso il volto di chi gli sta in fronte. Spaventato ar-
retra mentre l’altro, toltasi la copertura, spiega come l’oggetto

100
inventato dai franzesi venga adoprato, oramai dappertutto, con-
tro i fumi sprigionati dai liquidi mortali.
«Stavo lavorando con le mie storte, chiuso a chiave nella cel-
la de’ veleni, quando udii dei passi. Ma voi chi siete?»
«Chi, io?», trova la forza di dire, «son uno studioso in cerca
d’un libercolo sui Nabatei».
«Allor trovaste chi fa per voi».
E racconta d’essere transfuga dalla celebre fabrica veneziana
detta Allo Struzzo, indi dottissimo sì da conoscer ove il sofistica-
to testo arabo sia collocato nella biblioteca. Dopo avergli rivolto
un sorriso, si move per andare a recuperarlo lasciando solo il
nostro che a gambe levate si dilegua.
Raggionta l’Orsina, tira dritto sanza dir una parola e con
una nuvola in sul volto.
«Eh… adesso cos’hai?»
Lui si ferma. Piegato in sul ciglio del fosso, stacca un’erbetta
se l’infila in bocca dice: «Trovai chi m’avrebbe aiutato, ma sono
scappato per la paura d’una maschera che parea l’ultimo ghigno
dell’avvelenato».
«Eh… se tieni la strizza, allora perché mastichi la cicuta?»
«La cicuta… quella che Socrate bevve in coppa», e la sputa
fora.
«Eh… non conosco nessuno con quel nome e noi mica sia-
mo scemi a berla».
Uditori, non sono le erbette de’ fossi a giocarsi questa storia,
piuttosto i delitti che s’ingarbugliano come fili d’una matassa.
«Ci troviamo qui, dama nera, per disvelare le cagioni del cri-
mine, che spense la vita di donna Dorotea, e scopro lo scempio
consumato nella piccionaia di palazzo in sul corpo del coppiere
Lepido mentre una tunica bianca, forse, nasconde un nero se-
greto».
La loro investigazione deve andare avanti e i due, trovato un
passaggio in su di un biroccio, fanno ritorno in città. Al pre-
sente, stanno per mettere piè nello spedale della Morte, posto
all’angolo tra il portico del Pavaglione e via dell’Archiginnasio.
Sopra il portale, l’insegna d’una croce nera con flagello e teschio
annunzia l’antica gloriosa fabrica, ben pasciuta di secolari do-
nazioni.

101
«Eh… i signori fanno tante di quelle limosine», dice la fida
spolverandosi il gabbanone.
«No», risponde lui, «qui si reclamano le vedove che coi lor
lasciti mandano inanzi la bottega e tu, così abbigliata, hai l’aria
d’una di loro».
Varcano la soglia, sostano nel vestibolo in fronte al corridoio
che serve tre reparti, per maschi femmine e feriti urgenti, allu-
mati da ampie finestre in alto e scaldati da un camino ardente
di resine ed essenze per sconfiggere l’odore dell’orina stagnante
dentro le matule sanza sortire alcun effetto. Sfila qualche in-
tabarrato di bianco con teschio e croce in sul petto mentre il
nostro si mette a leggere le Sei regole della Preservazione della
Salute, poste in cornice lungo la parete. Toccano l’aria il cibo il
corretto uso del moto e della quiete e la moderazione della per-
sona nella gioia e nell’ira così da farcela a morire sani. Poscia si
gira e scopre l’Orsina cui il confratello guardiano riserva troppe
cerimonie.
“Se lei apre bocca, fa capir subito che non è una vera ve-
dova e neppure una signora così siamo bel e spicci”, pensa.
S’appropinqua e con garbo chiede puntualmente il nome di
quel loro medico, che talvolta si reca di notte nello spedale dei
Renani. Per fingere naturalezza mostra complicità con la dama e
racconta altre storie da confondere pure l’immagine del Cristo,
a grandezza naturale, piagato e sofferente con lo sguardo rivolto
alla prima sala.
La risposta non si fa attender servita con tanto di nome co-
gnome e loco, ove il chirurgo riceve le visite. E i nostri s’allonta-
nano dopo avere dato solenne promessa d’approntar una carta
notaresca con i beni della qui presente nobildonna in lutto, tutti
a favore dello spedale. In sul portico della Morte, vengon ac-
costati dal sublimamente cortese confratello che precisa come
l’esimio Ludovico Levante ami trattare solo con i suoi pari:
«Mica è Zefirele costui!»
«E chi sarebbe?», dimanda il nostro.
«Non conoscete il vecchio buon Bovio, medico de’ disperati
e abbandonati, che sana spiando il cielo e le stelle avanti di far li
salassi… un medico dai metodi d’una volta mentre chi vi dissi
ha idee moderne», e se ne va.

102
Fatti due soli passi, ritorna da loro tutto baldanzoso nello
spiegare come i moderni chirurghi trafficano coi cadaveri… in
Bologna, però, manca il teatro anatomico… e loro sono costret-
ti ad andare ove capiti… rischiano così di trovarsi in stamber-
ghe sudicie con gli inquisitori che gli stanno in sul collo perché
infrangono li divieti…poveretti! Concluso il predicozzo, si di-
legua con il bel cappello che nulla ascoltò, fastidito com’era da
quel ciarliero e da improvvise fitte di dolore a carico dei denti.
E in sulla via lamenta di non saper un iota di medicina, di sba-
gliare sinanco i comuni nomi delle parti del corpo e di come gli
faccia senso vedere lo sangue.
«Eh… adesso che mi ricordo la mia Dorotea disse che di
Giovedì nel palazzo qui vicino… adesso che ci penso non mi
viene il nome… insomma là ci stanno dei medici».
«Però, per esser una contadina di montagna, ne sai di cose
cittadine e le ricordi pure».
«Eh… va ben là, chiodo di carro, che per quanto ci provi
non ficchi la dama nera dentro il sacco».

Anche se quel dì è Giovedì, la lezione d’anatomia nell’aula medi-


ca dello Studio presso il palazzo dell’Archiginnasio non si terrà.
«E per qual cagione?», addimanda il bel cappello al primo
che incontra.
Costui risponde col mento rivolto ai messeri in larghe bra-
ghe rosse e casacca bianca, dritti e sorridenti dietro un lungo
banco rettangolare, posto al centro dell’atrio quadrato a doppio
loggiato.
È in atto la festa della triaca, la salvatrice di noi tutti, l’antido-
to contro i veleni d’ogni natura, tranne quelli concepiti nel cer-
vello degli umani, che sono lì più perniciosi. Gli speziali con gar-
bati cenni invitano le dame a disporsi sotto un padiglione dalla
tettoia di vipere scuoiate, non gravide e graziosamente pendule.
Le elegantissime toccano le polveri i semi le cose umide e quelle
secche, tutti distesi in sul banco, odoran incensi come fossero
nella bottega d’un profumiere, e puntano l’indice inguantato
verso gli albarelli in ceramica blu con sopra i nomi delle essenze.
La più attesa è la preparazione della madre delle teriache,
detta di Andromaco, ove si possono conteggiare ben quarantasei

103
sostanze. Noi tutti sappiamo che ci salva dalle morsicature vele-
nose… ma a che prezzo! Un vile prezzo davvero per la pozione
più antica dell’universo creato mondo, non atta però a contrasta-
re l’arsenico. L’antidoto è in vendita e non sono pochi i compra-
tori mentre il gazzettiere dalla saccoccia vòta s’allontana lungo
i portici del Pavaglione. Arrivato alla ventottesima colonna in
macigno, s’incuccia contro un giovine dalle lenti in sul naso e,
sotto il braccio, porta un plico di scartoffie che rotolan a terra.
Scambiatisi le formule di buona creanza, si presentano e, per
via d’una immediata inclinazione, principiano a colloquiare. La
persona, testè incontrata, porta il nome di Timorato Domenico
Medori, detto Timorato D. per fare prima a pronunziarlo. Lui
nacque, uditori, sotto una tavola da cucina in una casetta che,
quando saliva la piena del Po, parea dimandarsi se il dì vegnen-
te sarebbe rimasta su quelle quattro pietre ruinate o andata via
insieme alle acque. Passò li primi suoi anni girovagando con il
padre lungo le campagne, attorno a Gambulaga, mal nutrito, di-
stratto e nel rischio di finir consumato dalle febbri delle paludi.
La fame e il rischio gli fecero da guida sino a quando incontrò il
proprio mentore nella persona d’un soccorrevole prete. Dentro
la canonica, il buon cristiano gli mise sotto gli occhi un mes-
sale, da cui dovea copiare le lettere dell’alfabeto scrivendole in
una vaschetta di metallo, piena di sabbia. Con il sol indice, il
dodicenne disegnò svolazzi d’una tal grazia e precisione nei con-
fronti dell’originale che…: “In sulla punta delle dita tieni la tua
fortuna!”, esclamò il curato. Una volta intrapreso lo studio del
latino, l’allievo parve cavarsela tanto bene da convincere il mae-
stro e i genitori a mandarlo presso una santa donna vedova, nella
cui dimora si trovava la miglior biblioteca locale. Nel corso dei
cinque anni là trascorsi, dai libri apprese le regole dello stile che
governano la scrittura, dalla padrona la disciplina che mantiene
l’ordine in una vera casa e, come premio, ebbe in dono la sua
prima penna d’oca, conservata al pari d’una reliquia. Dall’oscura
provincia alla luminosa città di Bologna, il passo non fu lungo in
quanto venne trovato il bastone giusto a supportare il di lui in-
gresso nel palazzo dei signori Zambeccari con l’incarco di far da
precettore alla lor figliola Dorotea. Conclusa la carriera di magi-
stro al tempo in cui la giovine si maritò, ora campa in virtù della

104
sua penna di scriba a servizio del conte Pepoli, che fu l’amante
della vittima. Viene considerato il miglior scrivente della città,
anche se il padrone sostiene che non è atto alla conversazione
perché non apre quasi bocca. E questa è una menzogna bella
e buona, se sotto il voltone de’ Banchi il cosiddetto taciturno
intrattiene con una tal girandola di chiacchiere il gazzettiere fa-
cendogli quasi scordare le fitte alla dentina. I due usano parole,
destinate a spezzarsi per via del continuo passaggio di gente tra
la piazza Grande e le strà del mercato. Grandi filosofi, i maschi
bolognesi che discuton attorno alle cose del mondo passeggian-
do fermandosi riprendendo il passo!
Cosa si dicono? In primis, Timorato D. racconta come abbia
avuto contezza del delitto consumatosi nel palazzo del Toiano
pur trovandosi nel feudo della Palada con il suo padrone.
Le voci corsero veloci in sulla galoppata del messo, arrivato
a castello con un’urgente epistola da consegnar al conte Filippo
Pepoli a nome del di lui fratello, Guido. Dopo averla letta, il
signore diede ordine di preparare la carocia in uso per le grandi
distanze e se ne partì, da solo, alla volta di Venezia. Troppo rapi-
da la risoluzione, altrettanto sospettevoli i modi e lo scriba inda-
gò trovando conferma che si trattava d’una fuga dallo scandalo
cittadino a seguito dell’uccisione di donna Dorotea.
Una parola dopo l’altra, eccoli all’altezza della cittadella di
strà Maggiore, sotto le due torri. Alzano lo sguardo verso l’ec-
celsa Asinella, poscia percorrono la mozza Garisenda e…: «Bel
cappello, a proposito delle altezze che prendono l’anima, vedesti
mai la Rupe Bianca al confine con le terre di Francia?»
«Io no e non dirmi che tu, invece…».
«Sai, al presente, vien nomata la Montagna maladetta. Io
reco vanto d’esser stato colà».
E narra che, dopo aver ammirato in su di una carta geogra-
fica il gigante dalle creste di pietra aguzza, lo prese la fregola di
veder l’abisso che sta sotto.
«Ah, sì…»
«Non mi credi perché ancor non mi conosci tutto. Invece,
camminai per quattordici hore tra le nevi, indi venni meno».
«Io, di contro», sorride l’altro, «salii i gradini dell’Asinella
come fossi un marinaio che, stringendo le cosce, s’arrampica

105
lungo l’albero maestro della sua nave sin a toccarne la cima. Mi
parve un viaggio sanza meta».
Lo scriba tace, poscia con in sul volto un’aria furbetta sfiora
l’orecchio del nostro con le labbra e insinua che, dopo l’inteme-
rata della montagna, vagò nel Nord della penisola, scese d’un
po’ e, or fa un anno, fu in Toscana. Ivi s’unii a una carovana di
fiorentini, che avean in animo di compiere nella città di Roma
un’impresa tal da entrare nella Storia.
«Che, però, non portaste a compimento, vero? E al presente,
complice il buio, intendi sciorinarmela per intera».
«Sei curioso d’udirla, bel cappello?»
«Penso che, volente o nolente, mi tocchi».
Uditori, che avventura che rischio che brividi! Pensate… la
banda de’ fiorentini, ch’erano dei grandi felloni pagati dagli spa-
gnoli, volean uccider Alessandro de’ Medici, salito al solio come
il centoquarantesimo sovrano dello stato pontificio e duecen-
totrentaduesimo papa della chiesa cattolica apostolica romana.
Qual fu la culpa di Leone XI a detta di tutti omo modesto e
virtuoso? Quistione complicata da dir in breve. Una riforma
attorno all’elezione papale accese la congiura contro il santo
Padre, poi finita in niente perché a farlo secco ci pensò, pochi
giorni appresso, un diverso destino.
Gli occhi di Timorato D. si fan vivi e, dietro una colonna,
dice: «A quel tempo sentivo un foco nelle viscere da placare con
qualsivoglia atto per il sol gusto d’agire. In processione c’erano
sessanta nobili romani e quaranta signori di Firenze e noi con-
giurati eravam appostati, con le lame nascoste sotto il ferraiuolo
e la capa protetta da uno zuccotto, vicino al ponte Sant’Angelo
quando il papa s’accasciò sotto l’arco di trionfo posticcio, eretto
in suo honore. Di lì a pochi giorni era già tra li santi».

«Ma saranno poi vere tutte ’ste maravigliose storie?», grida il più
sognatore tra quelli del Pradello.

Al gazzettiere in vero, risponde il bresciano, piace messer


Maraviglia forse perché lui è…, beh ascoltiamo le sue parole: «A
tuo confronto, scriba, mi sento un che si corica con le galline».
«Di questi tempi, anch’io non son gallo dacché mi trovo in-

106
cartato con il signor Pepoli, ma vorrei tirar ancora un po’ la
corda da maschio vero».
Uditori, arrivati a questo punto, concedetemi una breve de-
viazione allo scopo d’introdurre una nuova figura del raccon-
to. Attorno all’uccisione della contessa Zambeccari Bolognetti
si sono mosse figure d’omini malvagi nelle persone del marito,
ideatore del crimine, e dei fratelli, complici materiali dell’ese-
cuzione. È stata, questa, una storia condotta da soli maschi ma,
ora, attraverso le parole dello scriba stiamo per fare la conoscenza
d’una femina ruinosa dal core più duro delle pietre del suo pa-
lazzo. Costei, donna Fulgenzia Malvasia, signora zia da parte di
madre della Dorotea, vive nella dimora di strà Maggiore, creden-
dosi la più ammirata tra le dame. Ad appannar ogni credenza, un
bel dì, sorse l’estro amoroso della nipotina per il fascinoso conte
Pepoli, dalla medesma vanamente bramato ma la speranza a ’sto
mondo è sempre l’ultima a morire. E lei, onde trionfar in sulla
rivale, sputò veleno al pari d’un serpente dalla linguetta vibrante.
Intanto che si fingeva confidente, la parente consigliò all’igna-
ra nipote di chiamar a palazzo il conte Filippo, poscia servì in sul
piatto d’argento la notizia al Bolognetti e gli amanti vennero
scoperti. Da parte della famiglia offesa, in luogo di tacere, de-
liberatamente si gridò allo scandalo onde renderlo di publico
dominio. L’adultera venne incarcerata nelle private stanze e la
notte cessò di dormire per non togliere fiato alle murmurazioni
delle nobili dimore cittadine.
“Il vascello è ancor in mare ma sta movendosi verso il suo na-
tural porto”, disse tra sé la zia di fiele che amava sentirsi anche la
più eloquente. E il nocchiero fu il coniuge tradito che, venuto in
possesso della lettera cilestrina scritta dall’appassionata contessa
al di LEI amante, ebbe in mano la seconda prova dell’adulterio.
Come è possibile, uditori, conoscere con tale minuzia li fatti?
Gli scribi di questa città sanno tutto di tutti e portan in giro
le notizie attorno ai domestici affari de’ padroni, nonostante sia-
no tenuti a mantenersi ligi alla regola del silenzio. Ben altro,
invero, è il giuramento, ch’essi sommamente rispettano, noma-
to il patto dell’inchiostro rosso. Un cerimoniale secondo cui,
dopo avere pronunziato formule di reciproca fedeltà, intingono
la penna nell’inchiostro, depongono la goccia come fosse il lor

107
sangue in sul dorso della mano, con cui l’altro scrive, indi sono
parati a darsi reciproco aiuto contro le insolenze dei signori. E lo
scriba della signora Malvasia, scoperte le macchinazioni di casa,
allorché in taverna vidde Timorato D., che gli chiedea a propo-
sito, raccontò l’intera la verità.
Sta per declinare la notte, quando, in silenzio, i due arrivan
inanzi al convento delle Vallombrosane, candido rifugio delle
ricamatrici in bianco. Sono codeste delle vere artiste dell’ago, ca-
paci di perdere gli occhi per fare dono a un prete d’una bella ve-
sta o ai corredi delle promesse spose d’un ricco ornato. Talvolta,
sempre in nome del lor spirito generoso, il refettorio viene con-
cesso a pie dame perché ne facciano un caritatevole mercato nel
tempo del Natale o in quello della Pasqua, a patto di non man-
giare con il troppo chiasso il silenzio e la pace quivi regnanti.
In sul portale tre signore con attorno un nugoletto di per-
sone, sia maschi che femmine gionti in sull’alba per godersi le
prime scelte, son in attesa d’una carocia. Ed ecco un biancore di
bende dal busto sino al collo e il rimanente, che scende, è una
femina con un gran sacco tra le mani.
…Oh Dio!… e viene raccontato l’agguato ai danni della po-
veretta, occorso lungo i vicoli del mercato di Mezzo, in piena
luce, alla presenza di gente solo intenta a fare le robe loro.
«Che tempi, qual brutta faccenda per Voi, cara Calidonia,
guardate come la conciò il miscredente!», intonan in coro le don-
ne mentre gli omini fan intendere un atto di tardiva quanto non
verificabile difesa.
Il nome fa balzare il bel cappello intanto che la medesma
dice: «Parimente sono qua con la mercanzia, pervenutami segre-
tamente da parte di mastro Astorno, il romano di Campo de’
Fiori… e sentirete che prezzi!»
Uditori, la soggetta in questione è la faccendiera più furba
della città e la si può trovar impicciata in ogni losco affare, da
cui sortisce sempre con personale vantaggio. Al presente, fa la
devota mentre introduce tutti nel refettorio per mostrare contro
luce catenelle e coroncine sfarfugliate, vere e false, invitando le
dame a provarle in sulle cape o lungo il collo. Le vendite, però,
non arrivan al dunque.
Il gazzettiere sussurra allo scriba che la Calidonia è l’amante

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di Carlo Zambeccari come del cavaliere Palmieri, indi può esse-
re considerata alla lontana una complice del delitto del Toiano e,
di certo, qualcosa sa a proposito della collana di donna Dorotea,
robbata durante i dì dell’agonia. E fattosi propinquo, insinua:
«Rubino e perle, mia signora, non son una gran fortuna al tem-
po delle leggi contro il lusso!»
«Sono finite da quel mo’ quelle, ma voi chi siete?»
«Un compratore che udì far il vostro nome nei loci giusti.
Sapete, si vocifera che terrete stretto il rubino d’India più raro
della città sino all’arrivo dell’offerta buona».
La medesma, rotati gli occhi all’intorno, si pon in angolo e
con voce ferma: «Dimani, dimani verso il mezzo dì, faremo l’af-
fare in fronte alle aule del Monte di Pietà. Venite così conciato
che vi riconoscerò».
Intanto che s’allontanano, sotto la luce di Giugno, le pie-
tre degli austeri palazzi di strà Maggiore prendon già un tenue
biancore mentre lor si dimandano: “Ha seco il prezioso o se lo
procurerà?”
Gli orioli dentro le case annunciano il mattino, le campane
inseguono ancor la notte in lontananza quando loro ciondo-
lando arrivano nella ca’ dell’Altabella. Alla vista dello scriba,
l’Orsina lancia un grido di gioia e lui complimenta la dama
nera, che si mostra sì compita. Entrambi ricordano gli anni
passati a palazzo Zambeccari e, insieme, versan una lagrima alla
memoria della chiara Dorotea avanti che i due omini s’indor-
mentino con le cape vicine lungo il tavolo.
Il dì vegnente, donna Calidonia li aspetta nel sito convenu-
to. Tratta in modo sollecito l’affare perché il rubino vale quanto
un’ala d’un palazzo cittadino. Guardinga, non mostra l’intera
collana tanto il desiderante già la conosce, indi sia lui per primo
a tirare fora gli scudi d’oro. Non si compra al buio e il monile
dee essere fornito di garanzia e accompagnato dal nome del ven-
ditore, scritto nero su bianco.
Non erano così li patti, e la femina addimanda due giorni di
tempo onde approntare la cosa fissando un novo incontro nel
medesmo loco.
«Pur d’avere la carta, bel cappello, busserà alla porta di don
Ottavio Mazzoni Toselli, l’eccellenza cittadina in materia di
falsi».

109
«Non è codesto il famoso scrittore di delitti?»
«Proprio lui, che si guadagna il companatico col mestiere di
falsario e con qualche altro traffico in combutta con un libraio
di strà Rialto, di cui non ti faccio il nome».
«Ma tu lo conosci di persona don Ottavio o parli per sentito
dire?»
«Potrei rispondere che la più parte degli omini al servizio del
Toselli sono scribi di talento a me non ignoti. La verità, però,
sta da un’altra banda».
«Quale banda?»
«Con nelle vene un po’ dell’antico foco m’adopro, al presen-
te, su di una commessa a me affidata dal medesmo».
E rivela che intende mettere le mani su d’un antico trattato
di geometria sferica in tre libri, ad opera di Menelao d’Alessan-
dria, conservato nella biblioteca dello Studio presso il palazzo
dell’Archiginnasio. Il testo tramite il Toselli, la cui nomea di
trafficone passò le Alpi, giongerà via mare al rettore dell’Uni-
versità di Salamanca, che celatamente lo dimandò al bologne-
se onde far tonda la raccolta ispanica dei manuali di scienze.
L’Alma Mater, però, tiene ben celato il suo tesoro e solo lui, che
conosce a menadito la collocazione dei tomi rari di gran valore,
è in grado di farlo suo a patto d’aver una bella ricompensa in
sonanti scudi.
La spiegata non soddisfa il bel cappello, più che convinto
che sarà la penna dell’amico a falsificare in modo superbo l’ope-
ra da inviar in Spagna mentre il di lui mentore troverà il modo
di vendere l’originale a un collezionista italico di buon fiuto.
«Oh, sei sospettevole alquanto. Però mica accomodammo
niente tra noi e, proprio con tale pretesto, mi presenterò dimani
nella sua dimora di strà Santo Stefano».
Verso la metà della mattina del dì vegnente, Timorato D. ar-
riva giusto in tempo per vedere la Calidonia all’opera, rimanen-
do nascosto nella stanzetta accanto allo studiolo. In sull’uscio,
la femina richiede una falsa garanzia onde metter in sul mercato
un raro gioiello. Poscia fa il nome del legittimo possessore, il
cavalier Palmieri amico di Carlo Zambeccari, e mostra di potere
pagare con quel sacchetto zeppo di baiocchi berlinghe talleri e
tarì d’oro, tirato fora dalla tasca della vesta.

110
«Meritano cura codesti gravi affari», e con un ampio gesto il
vecchio l’introduce nel vestibolo.
Una volta entrata, la formosa vede l’illustre cavarsi la par-
rucca giallina, mostrar un’aria da gufo spennacchiato mentre
le mani volteggiano per il lungo e per il largo. Accidenti! quelle
dita accalorate si sono già infilate tra le pieghe del suo seno e lo
palpano sino a toccar i noccioli di perle e la noce d’un rubino.
«Ah no, messere», sfiata lei, «son ancora buona per pigliarmi
chi m’aggrada!» e gli molla uno schiaffone a cinque dita. Di poi
sortisce dalla dimora. Lo scriba, fatto ritorno nella ca’ dell’Alta-
bella, recando seco l’opera somma del Toselli sui Casi criminali
del foro bolognese, dice che la donna, dopo lo scorno, parea la più
afflitta della città.
«Che faccia mostrerà non avendo tra le mani la carta falsa»,
conclude.
Con le rispettive cape chine in sul volume di don Ottavio,
considerano i fatti delittuosi occorsi in seno delle nobili fami-
glie, le cui cagioni sovente sono dettate dalla brama di possedere
il fondo dote che, in caso di morte della titolare, trasferisce il
proprio onere di beni immobili e liquidità nelle casse del casato
d’origine. E il mezzo, sovente adoprato dai parenti allo scopo
d’impadronirsi di un’eredità, è il veleno che i cinici franzesi
chiamano con il più perfetto dei nomi “polvere da successione”.
Indi, loro devono esaminare l’atto di dote di donna Dorotea,
conservato nello scrigno dello studiolo del palazzo avito, studiar-
ne le clausole, la ripartizione delle sustanze, la trasmissione agli
eredi. La dote d’una sposa, uditori, pare simile a un vero e pro-
prio testamento. In che modo entrarne in possesso? Lo scrivano
dei signori Zambeccari, fedele al patto dell’inchiostro rosso, ne
farà una copia per l’amico Timorato D.
In attesa di metter mano e occhi in sullo scritto notaresco,
ne fanno di congetture insieme all’Orsina, che non sa nulla a
proposito ma, onde non essere da meno, butta lì la cosa più
importante. A palazzo Bolognetti tutti i famigli sapevano delle
visite del conte con il coppiere Lepido presso la fabrica dei vele-
ni a Casalecchio. E, una volta, la donzella vidde il signore nelle
cucine mentre apriva la cassettina, che portava sempre con sé, e
tirata fora la polvere da una delle due scatolette la spruzzò su di

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un cedro candito. Poscia, chiamata una serva, diede lo zuccheri-
no a chi fu tanto contenta per la gentilezza del padrone.
«Orsina, rispondi a due dimande. Quando capitarono ’sti
viaggi?»
Lei mormoricchia: «Eh… al tempo delle castagne».
«Indi tra Ottobre e Novembre. Prima o dopo l’incontro di
donna Dorotea con il suo amante?»
«Eh… prima, prima».
Fu, di fatto, attorno al santo Natale che la contessa incontrò
il fascinoso Pepoli nella chiesa di Santo Stefano durante la festa
d’un beato. In quel mentre, il di LEI marito era ospite a Parma
presso una giovine amica della signora madre, una gran dama
che vivea tra gli specchi e i velluti delle sue sale.
«Rispondi ora alla seconda dimanda: cosa capitò alla serva
che inghiottì il cedro?»
«Eh… adesso che mi ricordo mica morì perché vomitò l’ani-
ma e parea sputare a ogni sforzo un pezzetto di sapone, ma il
padrone continuò a brigare con le polveri biancuzze insieme alla
contessa madre, fora di casa però».
Si viene così a sapere che, su comando del figlio, donna
Sulpizia portava biscotti e marmellate in dono alle donne della
Casa del soccorso di San Paolo, vicina allo spedale de’ Bastardini.
E le poverette più golose finirono tutte con la strozza abbrucciata
dopo tre o cinque dì.
«Eh… a me raccontò la cosa la povera Dorotea e parea stra-
nita intanto che parlava», dice l’Orsina.
Il veleno spruzzato in sulle gallette, uditori, era vetriolo cal-
cinato, quello adoprato anche per far il sapone. Alla luce dei
novi fatti, dunque, dimandiamo al gazzettiere e allo scriba qual
fu, a lor giudicio, la vera cagione dell’assassinamento di don-
na Dorotea. Non è difficile arrivar al dunque, se nel mese di
Novembre il marito cercava veleni avanti di scoprire la moglie
adultera, facea prove di morte su vittime innocenti e, nel con-
tempo, s’intratteneva con una nobil dama.
«Le suspicioni, però, non avranno sustanza di verità, se difet-
tano di prove materiali», risponde Timorato D.
Nella capa d’entrambi, però, s’insinua l’opinione che la don-
na inghiottì l’arsenico fu percossa e strozzata non per l’orbo sen-

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timento della gelosia, non in ragione dell’honore familiare ol-
traggiato, piuttosto onde favorire l’ingresso a palazzo Bolognetti
d’una nuova mogliera, ben accetta dalla signora madre. «Ma
restiam in sui fatti che possiam acclarare con le nostre forze, scri-
ba. Dimani intendo recarmi da messer Ludovico Levante, che di
notte visita presso lo spedale dei Canonici renani, e ho il cappel-
lo un poco lasso con sotto la capa confusa».

Uditori, il dì vegnente il nostro spolvera la giubba ricamata, ad-


drizza la punta del bel cappello e, così parato, si trova inanzi alla
porticciola della dimora del chirurgo. Sta per scotere il batacchio
quando si ricorda del confratello della fabrica della Morte, che
gli indicò questo sito, e di qualche frase spezzata, pronunziata dal
medesmo, ascoltata malaccio perché avea mal di denti. Stringe
le meningi, recupera le parole sui chirurghi dissettori e, in un
amen, tutto diviene chiaro nella mente. A Ludovico Levante,
nel core d’una notte di mezza primavera fu consegnata per or-
dine del conte Bolognetti la salma di donna Dorotea in sulla
soglia dello spedale dei Renani. Pur non potendo ignorare, visti
i feroci segni sopra il corpo, che la donna fosse vittima d’un inu-
mano delitto, non mancò d’incidere con il ferro il LEI ventre.
E tal gesto, a giudicio del nostro indagatore, carica il soggetto
di ben tre colpe. Complice della vendetta del marito esecutore
dello scempio sul cadavere e della dispersione dei resti umani
della contessa. Al presente, quelle povere ossa, orbe della pace
d’una tomba, giaceranno fora dalle mura di Porta, ove si gettano
quelle dei malvissuti, lungo il bordo dei campi attraversati da co-
nigli selvatici in corsa o raschiati da studenti di medicina in cerca
di tibie e femori. Stacca le mani dall’ornamento della porta, il
gazzettiere, provando orrore per quest’omo, i cui occhi lui non
vorrà mai incontrare. Conosce sin troppo l’animo dei complici
di quella dannata storia del Toiano, e s’allontana. I passi, mec-
canicamente, lo portano nella piazzetta della Gabella, ove è sita
la dimora dei signori Bolognetti, e lui solleva lo sguardo come
quel dì in cui contemplò la chiara chioma di donna Dorotea
nella cornice di due semicolonne. Era quello il tempo che s’avvia
all’estate quando i campi attendono di tenere il sole in grembo,
i granari sono sgombri per accoglier il fieno, le api s’infilano nel
calice lungo e stretto della digitale.

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La luce nel Foro dei mercanti è nera sotto il fiorito baldac-
chino, che si spinge sino a coprir uno dei merli a corona del
palazzo della Mercatura e, sopra l’edificio, si mostra la statua
della Giustizia. Un tempo, da qui venivano lette le sentenze del
tribunale e il bel cappello vorrebbe riudir il tocco della campa-
nella annunziante il verdetto di condanna contro la banda del
gran Toiano, ma la verità resta muta di suoni e parole.

S’arresta, il bresciano, non cogliendo l’energia emanata dal


pubblico che tanto aiuta la recita d’un attore. Scruta i presen-
ti quando un di loro, afferrato il tamburo, principia una serie
di percussioni che scatenano tutti ad agitare mani e piè come
i divoti del ballo di San Vito e qualcuno tiene pure la bocca
aperta per ingoiare le vibrazioni. Dalle finestre vengono giù i
richiami di chi non ha più gambe per scendere dabbasso, poscia
arrivano le secchiate con fior di dedica ma i nomi dei destinatari
si perdono tra li suoni. E la festa finisce dentro il collo dei fia-
schi passati di labbro in labbro, fora dall’osteria. In quel mentre
Strufiàn, fattosi largo tra i sudati, s’appropinqua all’amico.
«La gente dovea sfogare li propri humori», dice, «ma voi,
chiusa la recita, filate tutti a manca verso la sortita. Fora, ci sarà
un carro malmesso ma coperto, salite e via di trotto. Buona
sorte e a buon rendere, bresciano!»
Indi, con del bello del buono e gran pazienza, raduna i balle-
rini nel crusèl così il recitante può riprendere la lettura.

Uditori, dopo aver rivolto un ultimo sguardo alla piazzetta della


Gabella, il gazzettiere si move verso ca’. Per non augmentare la
lor pena, non racconterà all’Orsina e all’amico la vera cagione
del mancato incontro con il chirurgo facendo credere che il me-
desmo non fosse presente. Timorato D. con in mano la copia
dell’atto di dote di donna Dorotea mostra premura nel riferire
d’aver notato in sul volto e nei gesti dello scrivano dei signori
Zambeccari un’aura sospettevole avanti di trovare conferma nel-
le di lui frasi perché a palazzo, giusto ieri, si presentò il prete di
Casalacchio. “Oddio!”, pensa il bel cappello.
Avea cura, codesto, di conferire con il capitano Paolo ma lo
scriba di famiglia inventò ch’era alle campagne, così il testardo
fece promessa di ritornare.

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«Quel cacasotto di don Marco Antonio, dopo la mia visita,
da subito alzò li talloni. Povero me, povera dama nera, se non
mettiamo l’ali per mandar a effetto l’impresa, finiamo nella
fossa!»
In gran concitazione, nel corso della notte i due concordano
la restante parte dell’investigazione, che li porterà insieme alla
fida donzella in fronte al Monte della Pietà per l’incontro con
donna Calidonia. All’appuntamento la femina non si presenta
e la cosa sona strana perché tal furba, anche sanza avere la carta
falsa in mano, avrebbe brigato pur di appioppar in sulle spalle
d’altri un rubino che oramai scotta. Addimandano ragione a
destra e a manca sino a che per bocca d’una donna vengon a
sapere d’un grave lutto.
«Eh, signori miei, dopo avere ricevuto la mala nova, don-
na Calidonia s’è accartocciata nel suo alloggio di strà della
Nosadella».
«Andiamo colà», propone il bel cappello, «a vedere li noci».
«Eh… non ci son più da un pezzo».
«Fida, sono rimasti piantati nel nome, Nosa della».
In situ, da un bottegaro apprendono che di lei figliola, mo-
naca presso il convento di San Lorenzo, è d’improvviso morta.
Povera suor Clelia, era sì giovine e la madre geme da fare sudar
anco le pietre! e intanto punta l’indice verso una porticciola rac-
chiusa da un gomito di portico. Che fare? Gli omini son in sul
punto d’andarsene, ma la dama nera sta già bussando all’uscio.
La scarmigliata Calidonia fa entrare la donna e non presta men-
te ai due, lesti a intrufolarsi.
L’Orsina ascolta il dramma di questa mamma, che da sett’an-
ni non vede il sangue del suo sangue sin dal cominciamento
della tresca con Carlo Zambeccari, poscia fu la volta del cavalier
Palmieri, vestito di cervetto. Ora, confessa, è complice delle di
lui brame per il possesso d’un rubino tale da renderli entrambi
prosperi, così almen codesto promise.
«Qual punizione mi fu data per tutto il mal che commisi»,
lamenta. Gli occhi spiritati della mater dolorosa passano sopra
le spalle dei mascoli, ancor fermi in sull’uscio. Chissà se ravvi-
sa in loro i cercatori della collana? Forse sì perché, dopo avere
frugato tra le pieghe della scollatura, scova il monile scaglian-

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dolo con impeto a terra. Lesta, la fida raccoglie il tesoro che in
un amen vien infilato dentro il sacchetto per ago e filo, legato
alla sua cintola. Poscia, abbracciata la pentita, butta un occhio
all’intorno, fruga dentro una cesta accanto al camino e dà vita a
un focherello onde scaldare con una zuppa calda il gelo dentro
le viscere della compassionevole donna.
Una volta sortiti, un passeggero della Nosadella urta la
donzella che, meccanicamente, porta una mano lungo la vita
intanto che il distratto chiede venia con parole un po’ troppo
lunghe. Il bel cappello s’allarma e da subito vorrebbe tenere, lui,
la collana.
«Eh… no e poi no. Sono o non sono io la dama nera di
questa storia?», e s’impunta come un morello lungo la strà dei
mercati mentre i curiosi s’accostano per gustare la scena.
Con le rispettive cape girate per di qua e per di là come a
dire “Non è occorso niente, bella gente” i nostri riescono infin
a portarla via.
«Ma non capisci», non fanno che ripeterle lungo la strà, «se
i Birri rovistano nella saccoccia, t’appenderanno in sulla piazza
Grande con tutte le altre serve a compatirti perché eri tanto
buona. Ladra ma buona».
Una volta gionti a ca’, tiran il letto contro la porta e non
sanno se ridere piangere o allargare le braccia. Chi mai avrebbe
immaginato che potesse cadere nelle lor mani il rubino tanto
bramato da essere una delle cagioni del delitto alle campagne!
Ora sì che possono vagliare con zelo l’atto di dote di don-
na Dorotea, redatto dal notaro Costantino Mattioli nella città di
Bologna correa l’Anno D. 1600.
Confonde le loro cape una distesa di dettati su terreni capi-
tali vivi mobili argenti trattamenti di vario genere e liquidità,
ascendente a sessantaquattromila scudi in moneta corrente, da
assolversi secondo ingarbugliati calcoli di rate promissioni ap-
parati crediti.
Come sarebbe, uditori, la vita se possedessero anche una pic-
ciola porzione di quegli averi!
«Eh», sospira Timorato D., «li darei tutti per l’allegrezza
d’avere sotto i denti un cosciotto d’agnello… ho una fame».
Fanno giubilo con quel che trovano nella madia perché l’Or-

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sina tiene ancor il muso per via della collana e, dispettosa, non
appronta un bel niente. Indi proseguono la disanima dell’atto
sino a quando leggono che “una tal Laura Contrara, nativa di
Crespellano, ha un debito nei confronti della sposa Bolognetti
da saldare entro la fine del mese di Giugno dell’anno D. 1606 a
ragione di duemila quattrocento lire”.
“Toh, la cifra in scadenza è circa la metà del debito contratto
da Carlo Zambeccari coi prestatori ebraici”, pensa il gazzettiere
che il dì vegnente intende recarsi a Crespellano onde sincerarsi
della cosa. Nel corso del cammino teme di subir un agguato da
parte degli sgherri dei Zambeccari come ad opera d’implacati
Birri o d’un qualche bandito. E la paura dà una bella strizza, se
due o tre fitti cespugli vedono le di lui natiche. “Che figura, bel
cappello, qualora tu sia scoperto in sul fatto?” insinua la vocina
dentro la capa per fargli tenere strette le braghe sino alla meta.
In loco, cerca e trova la debitrice, una brava persona dalla bella
faccia gallica ereditata da un avo, habitante un casolare addos-
sato alle mura romane, dentro la pace delle campagne divise in
verdi spazi quadrati. La medesma la fa un po’ lunga avanti di
concludere che Carlo Zambeccari si presentò in anticipo sui
tempi previsti per riscuotere la rata del debito con in pugno
la malleveria della di lui signora madre. Fu di cortesi maniere,
ricorda, tanto che lei gli offrì ciò che tenea in madia.
“Ecco il lupo travestito da agnello!”, commenta il nostro,
una volta sortito. Non potendo avere tra le grinfie il rubino
delle Indie, s’è concesso il soffietto del fondo dote. E il temuto
Barigello lo lascia libero d’apparire come un lampo nel cielo
d’estate. Lamenta d’aver scelto d’essere sanza compagnia, l’in-
dagatore, costretto a isfogarsi tra sé e sé sferrando calci a li sassi.
Perché non volle l’Orsina? Con quel monile alla cintola lei dee
restare serrata a chiave in quella povera ca’ a rimirare la torre.
S’arresta. Osserva in sul ciglio del fosso un uccellino, dagli oc-
chietti neri come perline, che pare avere la fantasia di non dare
pace a un verme rosso sinché l’inghiotte. E chissà per qual mai
cagione gli viene da immaginare che, se il rubino vale quanto
un’ala di palazzo, potrebbe comprarsi una bella casetta lungo
la via degli antichi noci. Svelto, fa i primi due passi. Il terzo
e il quarto lo vedon in pentimento e pieno d’accuse verso la

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dannata pietra che infradicia la mente d’un povero cristo, qual
è lui, inducendolo a fantasticare la bella vita. Mentre i ciotoli
continuano a rotolare lungo il sentiero, prova a volger la mente
a ben diverse cose ma il tarlo del delitto lo lavora. E il conte
Pepoli come si misura in questa storia? S’è tirato in un cantone,
così confirmò il suo scriba. Dopo l’assassinamento dell’aman-
te donna Dorotea, pensò bene di lasciarsi alle spalle il putri-
do stagno dei pettegoli palazzi cittadini per godersi la laguna.
Ora, dicono sia tornato a Bologna onde far atto di presenza alle
esequie di donna Sulpizia Bolognetti, volata d’improvviso nel
mondo dell’aldilà. E quando l’amante della vittima si condoglia
con la famiglia cui recò offesa, gli aristocratici laghetti tornan a
brillare. “Eh, Tutto ciò che è in mostra, non è in bottega nell’antica
Felsina!”
Così vaneggia e sarà perché tiene fame visto che sta entrando
nella prima locanda per gustare due salsicce, di poi si pone in
marcia lungo il ciglio della strà nella speranza di montar in su
qualsiasi cosa si mova pur d’arrivare sino alle mura di Porta.

Nella ca’ dell’Altabella, l’attende lo scriba curioso di conoscere


le nove, che gli vengono riferite per filo e per segno. Oramai
l’investigazione può dirsi conclusa. Dietro le cortine de’ palaz-
zi, scoprirono un complotto di famiglia ma non aveano voce
abbastanza grossa per farsi ascoltare, solo la matita di Lucco fu
la lor arma. Dimani Timorato D. farà ritorno con il padrone al
castello della Palada e questa sarà l’ultima sera da passar insieme.
Come durante il loro primo incontro, scelgono di dirsi addio
passeggiando per le vie della città.
Prendon il portico del Pavaiàn, poscia la strà delle Accuse
tra i banchi tenuti dai giovani notai, che si fanno carco delle
denunzie e richieste di danni da parte dei cittadini. In sulla piaz-
za, tanto grande da ospitarne tre, li accolgono robusti scoppi
provocati da una fionda e accompagnati da voci gridanti, Allah,
allah, allah, hebber, elhemdu, lillahi, la illab, illelach. I suoni fan-
no correre la gente a vedere quelle lunghe catene e li ferri con
cui gli omini, che parlano questa strana lingua, dicono d’essere
stati legati e d’avercela poi fatta a fuggire dalle galere turche.
Per riprova, mostran a un pubblico con il naso all’aria certi se-

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gni, artificiosamente prodotti in sulle carni, dando ad intendere
d’avere ricevuto grossissime bastonate dai loro compatrioti, ne-
mici della fede di Cristo.
Da lì, i due si spostano verso la torre del Publico Palazzo
sotto gli scoppi della frombola d’un qualche allegrone, che al-
larmano gli uccelli, e il bel cappello vorrebbe avere l’ali per volar
a più pacate cose. Un topo s’insinua tra le lor gambe, lo scriba
abbassa la capa mentre l’altro pensa “Trepida cosa, Dorotea, la-
sciare la vita nel fondo d’un pozzo oscuro e non poter rimbal-
zare nelle risate dei turchi truffaldini che, in questo far di sera,
s’allontanano contando le monete degli ingenui”.
Indi, solleva gli occhi verso la statua del Nettuno dalla posa
troppo volubile e aggraziata rispetto alla possanza del dio mari-
no. Conta i zampilli della fonte tra formose sirene e delfini, putti
scherzosi chiocciole piccioli mostri e cartigli, con una donna del
vicino mercato intenta a infilar ortaggi dentro i ferri della can-
cellata per lavarli in una delle quattro piccole vasche in marmo.
Accanto alla piazza, detta Montanara, scoprono il Castellini
cavasangue sonnecchiar in sulla propria carretta, fornita d’una
stanga che termina con un enorme dente di legno dalla radice
dipinta di rosso. Lavora da mane a sera, costui, viste le boc-
che sdentate dei plebei mentre prendon al volo della porchetta,
lanciata giù dal maggiore verone e inghirlandata per la festa di
foglie d’alloro come la poetessa più acclamata di Bologna.
Nell’aria, i suoni sono già spenti anche se il mondo non è
conclusione, mantiene l’eco d’una musica che la spavalda morte
mai potrà spengere.
“Era chèta la tua stanza, Dorotea, i nostri occhi bagnati e li
respiri trattenuti per quell’ultimo assalto”, al gazzettiere vien da
ricordare così.
Il buio discende sopra le nuvole, l’andatura degli altri si fa
rapida mentre loro camminano lenti. Passan i portici passan
i palazzi passa la sera o piuttosto è l’incipiente notte a oltre-
passarli in fronte a una casa, fattasi d’improvviso un’informe
cornice come i contorni del delitto alle campagne. Per l’ultima
volta, i due s’interrogano sulla vera cagione dell’assassinamento
di donna Dorotea. Furon l’honor tradito del legittimo coniu-
ge o il novo amore per la dama parmense a precipitar il con-

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to de’ giorni sino a toccare quello del crimine? Fu la brama di
posseder il rubino che spinse i fratelli a infierir in sul proprio
sangue? E dietro gli esecutori materiali s’agitano come le spire
d’un drago l’invidia e la gelosia della parente Malvasia nei con-
fronti della nipote. L’ultima dimanda tocca le lettere cilestrine
scritte dall’infelice signora al di LEI amante… erano forse una
richiesta di soccorso, rimasta inascoltata, da parte di chi avver-
tiva attorno a sé un’aura di periculo? Impossibile sapere l’intera
verità e guatan un nugoletto di muti gesticolanti attorno a San
Petronio sotto un taglio d’ombre, che opprime come il peso
degli ornamenti del grande tempio.
Anche se l’hora è tarda, vanno verso il borgo della Saragozza
dalle colorate casette in mezzo ai palazzi de’ signori, ove si trova
un largo prato accanto al selvatico della Porta e non distante
dalla via, detta de’ Frassini, con più d’una bottega d’impaglia-
tori di sedie. Assisi in sull’erba, aspettano l’arrivo della notte.
«Se la passano bene le lucciole lungo li campi del castello
della Palada, scriba?»
«Tutti, bel cappello, mirano quella distesa di splendori, pari
a quello dei signori Pepoli, anche se a me paiono le fiammelle
che si sviluppan attorno alle tombe. Li nomano fochi fatui».
«Timorato D. deponi la lirica e vuota lo sacco o, almeno,
racconta in metrica la storia del casato».
E lui principia dall’antica famiglia di mercanti, poscia dive-
nuti prosperi con l’attività di banchieri e famosi nell’Italia tutta
per li feudi e i marchesati. Fioriscono le cariche publiche in sulle
cape degli illustri e, al presente, il conte Guido è un cardinale
cui giongono da mezza Europa le epistole dei potenti. Di con-
tro, in sullo scrittoio di Filippo fanno bella mostra solo amorose
lettere giacché il medesmo s’impennacchia delle amanti, come
fosser ornamenti, per il capriccio d’averne sempre delle nuove.
«Che pensar allora, amico, delle brame della contessa
Bolognetti per la di lui persona?»
«Non ancor nacque chi conosce le cagioni d’un ardore amo-
roso, gazzettiere».
Forse LEI, fu presa dalle forme possenti del signore che,
quando arriva alla Palada, aureolato dalle striature color rosa-
lavanda e dalle spirali arancio-cremisi del tramonto, fa stra-

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mazzare le contadine lungo i bordi de’ campi. Qualunque cosa
durante quel dì avesse fatto, facea ritorno pieno d’orgoglio e
splendore con il sol desiderio d’abbracciare la terra ereditata dal
nonno, di cui porta il nome. Un castello dall’alta torre e due
ali coronate di merli ghibellini, imponente come un guerriero,
coi fianchi rincalzati da un porticato aperto in sui boschi. Chi
sosta sotto lo stemma, uno scaccato d’argento e ferro che pare
un Alt, pronunzia sempre inanzi alla cancellata: “Un Pepoli è un
Pepoli!”. Di grazia, uditori, lungo la campagna che arriva sino
al fiume Po corre una rendita d’ottomila scudi romani, cento
giumente pascolano l’erba, le stalle tengono più d’ottanta caval-
li e i giardini carezzano gli ospiti con vaghe fontane peschiere
uccellagioni. E il padrone si chiude dentro la fortezza dall’am-
pio cortile interno soggiornando più tempo nell’ala sinistra, cui
s’arriva attraverso lo scalone con in sulle pareti i ritratti degli
avi. Quelli di minor gloria, fa notare Timorato D., sloggiati dai
palazzi di città e tra questi campeggia il suo, da giovine. Che
storia, quella, che ancor strina la vanità del signore! Il medesmo
volea, in vero, essere ritratto da messer Lodovico ma, costando
troppo il Carraccio, il di lui padre Pietro appellò un pintore che
non passerà alla storia e il figlio gli tenne il muso per un decen-
nio. Litigano sempre i maschi di famiglia, dopo aver mandato le
femine in convento, contendendosi gli honori le cariche i pos-
sedimenti gli argenti il danaro. Anche sulla saletta delle cacce di
castello, al presente in allestimento, hanno discordie. Il conte
Guido pretenderebbe che quivi fosser allestite le tre sale delle
terme, simili a quelle delle ricche moderne dimore romane, così
per fare correre la novitade di bocca in bocca. Filippo, di suo,
insiste per aver dipinta lungo le pareti la corsa di conigli e lepri e
già visionò i cartoni del frescante. Gli affreschi devono conchiu-
dersi in occasione del suo matrimonio, testè combinato, con
Laura Obizzi da Padova quando tutto il feudo andrà in festa.
Certo che il borgo è florido e vive di proprio, però, se sorgessero
segherie e cartiere sfruttando le acque del fiume e i molini, il
Pepoli sarebbe in gara con i signori Rossi e la loro bellissima vil-
la in quel di Sasso. Circa poi le notabilissime spese per allestire
le fabriche, potrebbe sanarle con la dote della sposa.
«Scriba, a castello fosti tu ad accogliere dalle mani del messo

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le due epistole cilestrine di donna Dorotea? La prima, come già
sai, cadde malauguratamente nelle mani del marito. E adesso
non farmi credere che vincesti la curiosità di leggerle».
«Sì, era mio compito ricevere le missive, indi passarle al
padrone. Lui, però, non apriva le lettere delle amanti quando,
stanco di lor, col silenzio facea intendere l’abbandono. Le carte
giaceano per giorni in sullo scrittoio sino a che arrivava l’ordine
di stracciarle. Quelle di Dorotea, però, le bruciai nel parco ac-
canto al labirinto di verzura dopo averne letto solo qualche frase
appassionata e densa».
Tace, come assalito da un chéto sentimento, indi conclude
che quella sera, dopo il foco, il vento arruffò il mucchietto di
cenere con qualche residuo che non ce la fece a volare via e,
innamoratosi del suolo su cui era rimaso, provò a ricordare qual
intera parola d’amore fosse stata per sussurrarla all’amica terra.
«Che anima gentile racchiusa nel corpo d’un omo avventu-
rato! A proposito scovasti i tre libri di Menalao d’Alessandria
nella biblioteca dello Studio?» L’altro non risponde e, lui, gli
dedica un sorriso sì largo che un nano, postosi accanto a lor per
orecchiare, fa un risolino pure lui avanti che i due s’indormen-
tino in sull’erbetta.
Alle prime luci, il bel cappello trova accanto a sé una pagi-
netta ripiegata, posta sotto un sasso, con il proprio nome scritto
a lettere grandi sì fulgide da parer un dono. Una volta letta,
pronunzia forte: «Così, Timorato Domenico Medori, te ne vai
nella terra dei picari sanza di me!»
È un addio anche se son indicati i siti in quel di Salamanca
ove trovare l’amico, di giorno nella piazzetta d’angolo tra la
cattedrale vieja e quella nova, dopo il vespero lungo il ponte
romano.
A passi lenti, il nostro fa ritorno nella ca’ dell’Altabella e,
d’impronta, dice all’Orsina: «Nel caso vendessimo la collana
con il rubino compartendoci il ricavato, potremmo cangiare le
nostre vite. E non mi dimandare dello scriba che se n’è già an-
dato per li fatti suoi».
La donna lo guata poscia, girate le spalle, rivela che la collana
non l’ha più. «Cosa?», pronunzia lui franando in sulla scranna:
«Non puoi averla perduta, legata com’era alla tua cintola, e poi

122
rimanesti sempre serrata tra ’ste pareti con il letto contro la por-
ta nel timore d’esser assalita, indi…»
«Eh… mentre che tu eri a Crespellano la portai in voto alla
Madonna di San Lucca».
«Alla Vergine bizantina scura dagli occhi tagliati a mandorla?»
«Eh… sì proprio a lei e in cambio la pregai di farmi stare
sempre con te».
«Insieme a me? Io e una contadina di montagna che borbotta
quei tormentosi… Eh… Vedi ben di scordartelo, dama nera!»,
e sorride.
Voi che ancor m’ascoltate, vorreste sapere come s’aggiusteran-
no i due ma in sulla paginetta io leggo, FINE DELLA STORIA.

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Epilogo
Il volo nuziale delle formiche alate

A ridosso della Porta delle navi

Chiusa la recita, il bresciano e i compagni in gran premura rag-


giungon il carro malmesso che li aspetta lungo il confine del
Pradello. Udito il nome di Strufiàn, il birocciaio è lesto a coprir-
li con uno spesso telo, sorretto da asticelle lungo i lati, mentre
Moscatelli dice: «Alla Porta delle navi».
Non lungi, due Birri si guatano sollevando il mento.
Il carro liscia le mure urbane, piglia lo stradello verso il prato
di Magone e la ripa del gesso, costeggia i sostegni in muratura
del Navilio quando Lucco, sollevata una punta del drappo, fa sa-
pere: «Abbiam dietro due cavalli grossi. All’altezza della casa ros-
sa del catenarolo saltiamo giù e via per loci diversi, come capita».
«Sì», replica Moscatelli, «ad occhio e croce dovremmo far-
cela a toccar il canale del Cavaticcio, abbiamo solo da metter
li piè sopra quella pedagna traballante… meglio, meglio, così
i cavalli si spauriscono mentre noi guadagniamo tempo per fi-
lare nell’osteria sempre aperta. Animo che ci rivedremo tutti in
sull’altra sponda sani e salvi!».
Un urto proveniente dal retro ammassa i lor corpi, poscia dal
telo sbucano cinque cape e dieci gambe scavalcano le fiancate con
le suole a toccare terra. Il torcoliere il bresciano lo stampatore,
sanza voltarsi, scappano verso la meta e il birocciaio, d’incanto,

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sparisce in quel nero pesto. Un lembo del gabbanone dell’Orsina
s’impiglia in una rota e Lucco tenta di districarlo tirando sino
a lacerare la stoffa. Accanto, uno de’ Birri lega i cavalli al carro
mentre il compare fissa l’omo rimasto con il brandello in mano
e la donna, che gli arriva alla cintola. Non li finirò qui, pensa.
La misericordia è una lama, che non dà una bella morte, e
i nostri, negli occhi il color del bianco latte, tentano di sfiora-
re l’uno la mano dell’altra con le dita tremule a cercarsi ancora
avanti di scivolare lenti a terra.
Una volta dentro la locanda, i fuggiaschi attendon i restanti
due. Dopo un lasso, Giovanni Paolo apre l’uscio manda un flebi-
le richiamo e «Saran ancor nascosti da qualche parte?», dimanda
alla notte.
Insieme, i tre, li cercano lungo i navigli per quanto dura il
buio. Rifanno il percorso, perlustran il terrapieno delle mura, la
zona vicino alla casa rossa del custode della grada come i gradini
della scala esterna, e in fronte ai depositi di legname del Magone
chiamano piano: “Lucco… Orsina”. Il terrore sale. Ancora non
possono non vogliono credere. Il bresciano, nel rovistare, dà di
botto contro la manovella d’un argano con lo stampatore che
ripete in ogni dove: «Gazzettiere, so che la salvasti la buccia…
salta fora, allor, da ’sto inferno di porto!»
La notte schiara il cielo. Poscia l’urlo del torcoliere e tutti
corrono verso di lui che, a braccia distese, pare un cristo in croce
dentro un paesaggio di neve, tra li fumi della calce arrostita, e
con lo sguardo rivolto alle montagnole di gesso crudo, zolle rosse
perché di sangue due gole squarciate ne fanno scorrere tanto.
I tre s’afflosciano, come la cera attorno al fusto d’una candela
accesa, restando vicini ai corpi ancora stretti nell’ultimo abbrac-
cio. Per primo, Giovanni Paolo sussurra: «In sulla memoria di
mio padre Antonio giuro, Lucco, che troverò un novo torchio e
prometto di stampar il racconto come lo volevi tu».
Sollevato metà busto, il garzone dice: «E io tirerò i fogli con
il core rivolto all’Orsina e a Lucco».
A petto pleno l’attore grida: «In ogni piazza, col sole e sotto
la pioggia, sarete ancor tra noi».
«E il vostro sarà Il volo nuziale delle formiche alate», annunzia
Moscatelli, in piè, alla Bologna delle acque.

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2012
presso Editografica (Rastignano - Bologna)

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