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2 Ricordo anche come, poco prima della pubblicazione della trascrizione del semi-
nario, la rivista Psiche dedicò un numero alla disumanizzazione (1, 2006).
3 Fédida è ripetutamente tornato su questo lavoro freudiano; ricordo un articolo
scritto per L’inactuel, “Compter les morts” (Fédida, 1994b). Sull’espressione “in-
quietante estraneità” come traduzione di “Unheimliche”, rimando a quanto scritto
in altra occasione (Galiani, 2009).
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4 Preferisco il titolo francese, perché “Il buon uso della depressione” sposta l’accen-
to su di un atteggiamento attivo del soggetto che, insomma, dovrebbe anche saper
far buon uso della sua depressione, mentre i Bienfaits sono “gli effetti salutari”,
ma innanzitutto “l’atto di generosità” che qualcosa della depressione può elargire
al soggetto.
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vita”, il che porta anche a chiedersi che relazione ci sia tra “disumano”
e “pulsione di morte”. Si potrebbe dire che la relazione è di “messa in
sicurezza”, dal momento che il disumano come processo può contribui-
re, per Fédida, a evitare i rischi di una “risostanzializzazione” della pul-
sione di morte5. “Inumano” sarebbe allora al di fuori dell’umano, mentre
ciò che occorre è proprio uscire da questo tipo di relazione. La diversa,
drasticamente diversa relazione che si impone è quella che, nella pratica
analitica, si misura con l’esperienza di quanti “vivono o hanno vissuto”
l’orrore dell’annichilimento, il “crollo” che ha preso alle spalle, per così
dire, la capacità rappresentativa dell’Io, non necessariamente provenendo
dal passato; si tratta di una relazione con un processo del disumano, e non
sorprende che un riferimento princeps in questo è per Fédida il Winnicott
di “Fear of Breakdown” (1964). Riprendendo i pensieri di Cynthia, Fédida
(1996, p. 59) dice: “lo stato limite dell’umanità lascia presentire l’inelut-
tabile avvenimento, di una ‘forma che ci è ancora sconosciuta’. L’avveni-
mento non appartiene al passato e non potrebbe essere immaginato come
un evento, come un avvenimento che deve ancora avvenire. Si può ancora
chiamare ‘avvenimento’ (événement), ciò che si vive come una lenta di-
saggregazione del tempo e come una progressione insidiosa, osservabile in
ogni istante, di una scadenza già cominciata?”
Personalmente, ho in mente anche condizioni solo in parte sovrappo-
nibili, come quella di una paziente che da un certo momento della sua
vita si è sentita costantemente a rischio di non essere considerata e di non
considerarsi più autentica – nelle relazioni amorose, nella professione –, a
rischio cioè di vedere la sua immagine (ciò che di sé vedono gli altri e se
stessa riflessa) sgretolarsi, disfarsi. Sentimento che a volte ne lascia traspa-
rire un altro: “in fondo, è sempre stato così”.
Per pensare queste condizioni cliniche, Fédida propone anche il ricorso
– forte, rischioso – a ciò che, seguendo Primo Levi, definisce il “paradigma
antropologico di Auschwitz”. Prima di misurarci con questo paradigma, è
il caso di fare il punto della situazione; le vie che conducono alla questione
del disumano sembrano essere due, convergenti.
6 Sulle quali si veda a esempio l’intero numero 6 della rivista “notes per la psicoa-
nalisi”, dedicato alle “Violenze della classificazione”.
7 Per Widlöcher (2007, p. 215) “si avrebbe certamente torto a leggere il seminario
come la descrizione di un metodo psicoanalitico di trattamento della psicosi, ma
si ha pienamente il diritto di intenderlo come un progetto di sostituire un modello
‘psicotico’ al modello metapsicologico della nevrosi in quanto oggetto del tratta-
mento psicoanalitico”.
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sizione è espressa con maggiore chiarezza (p. 46): “In qualunque momento
l’esperienza analitica ci offre l’occasione di renderci conto che la presenza,
la voce, il gesto, la parola, i termini, lo sguardo, hanno tutti una notevo-
le importanza, soprattutto allorché lo psicoanalista non è di fronte, non è
visto, vale a dire quando l’umanità, ciò che vi è di umanità, non è oggetti-
vabile all’interno di una relazione intersoggettiva, nella comunicazione in-
tersoggettiva”. Si capisce facilmente (e ancora di più se, seguendo il sugge-
rimento di Widlöcher, 2007, sostituiamo interpersonale a intersoggettivo)
quanto questo abbia a che vedere con una precisa lettura della “presenza
in persona dell’analista”, presenza che si fonda sull’essere arretrato dell’a-
nalista come persona8. In questa fenomenologia rientra per Fédida (p. 46)
“tutto ciò che nella cura è scambio sublinguistico. È guardando in questa
direzione che occorrerebbe provare a pensare contemporaneamente al fe-
nomeno dell’umano e al fenomeno del disumano”.
10 Si tratta di porre il perverso in continuità con “Il” male, traiettoria marcata con
insistenza ancora maggiore da Castel (2014).
R. Galiani - Il male, il disumano, l’apparenza 67
ché la testimonianza è stata erosa: qui, per Fédida, più di ogni altro è l’ana-
lista che può giungere in soccorso, perché “il ruolo dell’analista è quello di
immaginare” (2007, p. 52).
Posto che non si tratta di un banale invito a farsi liberamente tutte le fan-
tasie possibili, si ha tutto il diritto di chiedersi di cosa stiamo parlando; cosa
può voler dire che, come segnalavo all’inizio, un discorso del genere per
Fédida ha un valore “operazionale”, ma direi anche, più esplicitamente, un
valore di tecnica psicoanalitica? Lo mostra Corinne Ehrenberg (2007, p.
230), riportando un’indicazione data – un’immagine costruita – da Fédida
nel corso di un lavoro di supervisione: “umanizzarsi è costruire delle labbra a
un buco”. Disegnare, costruire delle labbra sui tratti che delineano un vuoto,
continuare a immaginare davanti a un bianco di immagini, costruire nuove
“angolazioni” che possano inserire in una sequenza ciò che per il paziente
è unicamente un “fermo-immagine”. Nella clinica con i “casi difficili”, l’a-
nalista è spesso chiamato a fare principalmente questo, perché poi, forse, il
paziente possa farlo a sua volta, e non c’è dubbio che l’indicazione di Fédida
a Ehrenberg sia dell’ordine di un autentico squiggle game verbale.
È importante chiarire che la centralità assegnata da Fédida alla “funzione
immaginativa” dell’analista è perduta se ci si lascia prendere la mano
dall’identificazione empatica. Per poter continuare a creare immagini
“malgrado tutto” (Didi-Huberman – 2004 per questo lavoro “manifesto” –
ha costantemente riconosciuto il proprio debito nei confronti della ricerca
condotta da Fédida), per poter passare dall’immaginazione alla costruzione,
occorre non identificarsi. Nella clinica dei pazienti difficili, “se mi identifico
sono fottuto”, diceva senza giri di parole Fédida, e lo stesso Bolognini (2002)
segnala un rischio analogo quando distingue tra empatia e empatismo. L’i-
dentificazione rende impossibile percepire sin dal fluire della parola, soprat-
tutto nel fluire della parola, ciò che Fédida definisce “la dissomiglianza del
simile” (p. 82), ossia quell’esperienza di inquietante estraneità che inaugura
l’analisi. È questo che fa sì che, per inciso, Fédida arrivi anche a individua-
re un processo analitico “umano-disumano” (dall’umano verso il disuma-
no: cfr. p. 82) che comincia con l’esperienza perturbante e che non coincide
con l’identificazione ma con la possibilità dell’ego dell’analista di viversi
frammentato11. Una possibilità che fonda su, o fa il pari con, ciò che Fédida
(1992) ha definito come pathei mathos, l’apprendere psico-pato-logico che
deve contraddistinguere l’analista e la sua esperienza di vita, prima ancora
che la sua formazione. Riassumerei la questione così: nella nostra vita – no-
11 Il titolo completo del lavoro del 1996, sorto intorno al trattamento di Cynthia, è
infatti “L’état limite de l’humanité et l’ego fragmenté de l’analyste”.
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stra di attuali analisti – c’è stato qualcosa che ci ha messo di fronte alla ne-
cessità di postulare un funzionamento psichico dinamicamente determinato e
inconscio, e abbiamo imparato a “credervi” sulla base delle nostre personali
“evidenze empiriche” che sono diventate quelle di una comunità attraverso
le nostre analisi e poi attraverso la nostra attività di analisti che condividono
i risultati delle analisi condotte. L’inconscio – ossia ovviamente i suoi deri-
vati – è (stato) per noi oggetto, oggetto di esperienza “patica”, prima che
concetto o nozione su cui interrogarci.
Di “familiare”, allora, l’analisi può avere solo la familiarità con il per-
turbante, con l’incontro con l’inquietante estraneità –l’estraneo familiare-
che caratterizza la vita delle due persone nella stanza d’analisi. O, come
dice Fédida, la questione è “quanto si può essere sensibili a quel momento,
che può prodursi all’interno di una cura analitica, in cui il soggetto si sente
stranamente minacciato da un annientamento completo, totale, perché in
quel momento è andato perduto quello scambio che costituisce il tessuto
dell’umanità” (2007, p. 46). Essere sensibili a quel momento è ciò che in-
staura il sito dell’estraneo (Fédida, 1995).
“Disumana” è allora l’esperienza (p. 42) – che Fédida invita a imma-
ginare anche attraverso il paradigma Auschwitz – del disfarsi, nel senso
di sfaldarsi, di quella possibilità di percepire la somiglianza e la dissomi-
glianza del simile che è al fondamento della situazione analitica perché
essa, come ricorda nel definire l’argomento del seminario (p. 43), entra
nella costituzione della vita psichica. Questa possibilità di percepire, di
esperire somiglianza e dissomiglianza del simile, è quanto Fédida ha con-
siderato come un elemento costituente della capacità depressiva, ossia la
funzione di protezione al cospetto dell’eccitazione derivante dal vivere in
una condizione umana; protezione che ha a che fare con “la scoperta dei
tempi della soggettività umana”, ossia con la scoperta della sospensione,
dell’attesa, dell’assenza. Parlando di ciò di cui Cynthia appare priva (Fédi-
da, 1996, p. 59), Fédida usa l’espressione “l’umana melanconia”, ma è
una capacità che connota l’umano; la capacità potenziale di “simulare” la
morte psichica: “Quello che intendo chiarire bene è che quanto si chiama
depressione si definisce a partire da una posizione economica che concerne
R. Galiani - Il male, il disumano, l’apparenza 71
di rottura del legame; tutto ciò è detto senza fare il processo alle intenzio-
ni. Il crollo, lo sprofondamento, non è d’altronde un’immagine, né una
semplice metafora: è il fatto che, di colpo, realmente, si disfa un’esperien-
za di umanità. Lo si nota anche nei soggetti depressi, nel sentimento che
essi hanno di una cancellazione dell’apparenza umana: è il sentimento di
un decadimento, quando il volto, le parole, la voce, la stessa possibilità
di riconoscere le reazioni dell’altro, cominciano a disfarsi”. Un’ottica che
rende per altro ragione dell’importanza che Fédida riconosce alla nozione
di informe (Fédida, 1994a).
Queste accentuazioni suggeriscono di fare, prima di chiudere, un’ultima
precisazione. Perché nonostante tutto l’ “umano” potrebbe apparire, in so-
stanza, come il “buono” da far prevalere; ovviamente non è così. L’umano,
la capacità/possibilità di riconoscere la somiglianza del simile, va legato
indissolubilmente, dialetticamente, all’attrazione da parte e verso ciò che
scompone (dis-) la somiglianza e l’apparenza su cui si fonda. Questa ten-
sione fa sì che un soggetto della specie umana sia fatto dell’intreccio tra
umano e disumano.
La domanda all’origine di questo e degli altri scritti del volume, “perché
il male?”, allora, è una domanda che per noi psicoanalisti è lo specchio
della nostra specificità. Se ci chiediamo “perché il male” è sempre perché
non escludiamo che in un soggetto vi possa essere un desiderio diverso dal
“bene” e anche dallo star bene (dal “voler guarire”). Non escludiamo che
in quel soggetto vi sia un desiderio/tensione di sciogliere l’intreccio del
simile che lega il dissimile, desiderio/tensione a riconoscersi stabilmente
nel disumano. Non escludiamo, in fondo, la simpathy for the devil (Rol-
ling Stones, 1968), e non solo perché Freud (in una lettera del 24/10/1897)
scriveva a Fliess di sognare una Teufelreligion, una religione del diavolo
– ossia di quel “Lucifero” che, tre anni più tardi (lettera del 10/07/1900),
avrebbe ancora evocato a Fliess nella sua ibridazione con Amore13.
Tuttavia è facile accorgersi che così facendo il Teufel per cui siamo di-
sposti a ammettere di avere (dis)umana simpatia, il “dis” che possiamo
guardare, fissare, sembra quello intriso di Eros: è il diavolo che se la spas-
sa nelle orge dei gironi infernali, non la forza informe e senza volto che
stringe, fino a stritolarlo, il volto sorridente di un bambino. È il sogno di
una paziente gravemente depressa, al suo settimo anno di analisi: “… ero
una bambina, sorridevo, qualcuno mi abbracciava … la stretta diventava
sempre più forte e la faccia mi scoppiava”.
Bibliografia