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Riccardo Galiani

Il male, il disumano, l’apparenza


Tracce del disumano

Se il modo che ho scelto per affrontare la questione comune, “perché


il male?”, può essere presentato dai tre termini che compongono il titolo,
è perché il mio discorso avrà come riferimento prevalente, quasi esclusi-
vo, Humain/Déshumain, seminario tenuto da Pierre Fédida per un corso di
maîtrise dell’Università Paris VII una volta la settimana, tra il febbraio del
2001 e il maggio del 2002; un insegnamento orale (è il caso di ricordarlo)
il cui valore testamentario non deriva unicamente dal suo essere diventato
l’ultimo seminario di Fédida1.
Nonostante il ricorrere di riferimenti alla letteratura sulla Shoah, nel se-
minario non troviamo il male, né come termine, né come categoria. Come
intendere allora l’interesse per il “disumano”? Come pensare il “disuma-
no” non ricorrendo direttamente al “male”?
La chiave della risposta, come vedremo, è doppia, perché passa sia attra-
verso una visione “processuale” del disumano, sia attraverso una “equiva-
lenza”, che può essere utile anticipare: l’equivalenza tra la coppia umano/
disumano e quella simile/dissimile, questione che, espressa in questi ter-
mini, rivelerà molteplici correlazioni con quella dell’empatia. Nonostante
questa anticipazione, può ugualmente essere legittimo, all’inizio del mio
discorso, chiedersi anche quale sia la pertinenza dell’interesse per il di-
sumano da una prospettiva, come quella offerta da Fédida nel suo ultimo
seminario, che si vuole soprattutto clinica.
Il primo argomento a favore è un argomento –non a caso, lo vedremo- a
contrario, che parte cioè dall’umano, o meglio dalla sofferenza implicata
dalla stessa condizione umana. Ne La condition humaine, l’autore assegna
al personaggio di Gisors, il “saggio”, il compito di pronunciare questa sorta
di sentenza: “è molto raro che un uomo possa sopportare – come dire?- la

1 Pierre Fédida è scomparso il 1 novembre del 2002. Laddove non diversamente


indicato, i rimandi sono all’edizione italiana del seminario (Borla, 2009).
58 Perché il male

sua condizione d’uomo” (Malraux, 1933, p. 228); riascoltandola oggi è


forte in essa l’eco delle parole di Zaltzman (1979): la psicoanalisi non deve
trattare il soggetto come persona, ma come soggetto della – e alla – con-
dizione umana.
Secondo argomento, discendente dal primo: la presenza del tema dell’u-
mano, opportunamente contestualizzato, nel pensiero freudiano. L’indica-
zione offerta da Fédida per questa contestualizzazione è la seguente: l’area
di esperienza psichica che potrebbe essere utile indicare come “disumano”
si ritrova, in Freud, nella relazione “somiglianza/dissomiglianza”. Nell’o-
pera freudiana la problematica del simile rivela la sua importanza soprat-
tutto a partire da ciò viene segnalato in merito all’animismo (dunque in
Totem e tabù); il senso ultimo della riflessione di Freud sull’animismo con-
siste, per Fédida, nel promuovere l’idea che il fondamento della comunità
umana sta nel poter inferire ciò che l’altro vive a partire da quello che noi
viviamo. Mediante inferenza, a partire da ciò che noi stessi siamo in grado
di vivere, possiamo dedurre ciò che l’altro prova: tristezza, gioia, o un qua-
lunque altro stato affettivo. Dalla prospettiva freudiana, ciò che si chiama
“l’umano”, dice Fédida, si riferisce al riconoscimento di quegli stati che
permettono di pensare la somiglianza e il simile.
La funzione del riconoscimento – e del non riconoscimento – del simile
è però indagata da Freud ben da prima, sin dal Progetto per una psicologia
(Freud, 1895), in termini che evidenziano il rilievo della prospettiva della “so-
miglianza” intesa come riconoscimento della comune umanità. Come ricorda
Balsamo (2006), quell’Altro che è il Nebenmensch, il (primo) prossimo uma-
no, ha “due volti. Il primo, ‘l’altra parte’, è a nostra immagine, lo compren-
do nello stesso modo in cui lui comprende me. Il mio simile sta lì. Un’altra
parte ancora concerne ciò che è al di là di questa somiglianza: è il prossimo
in senso proprio, l’altro innominabile, strano e estraneo, incomprensibile, ra-
dicalmente altro”. Seguendo una pista che Freud ci indica dunque sin dal Pro-
getto, scopriamo che l’al di là del simile, del Nebenmensch, il dissimile, ossia
“das Ding” – questo al di là è das Ding –, è appunto l’estraneo. È tuttavia
nell’Unheimliche che la questione appare, agli occhi di Fédida (2007, p. 81),
ancora più chiaramente: ”Freud è partito proprio dalla questione del simile:
ciò che definisce il processo umano è il processo della somiglianza del simile
… il testo su ‘Il perturbante’, l’inquietante estraneità, è lì per ricordarci che è
proprio nella somiglianza del simile che si gioca la dissomiglianza”.
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La psicoanalisi ha pertanto interesse e “titolo” a misurarsi anche con una


dimensione così ampia, come quella dell’umano2. Ma quanto distante dalla
“realtà clinica” è questo confronto, si potrebbe dire... e si sbaglierebbe,
almeno seguendo Fédida, per il quale “umano” ha comunque una definizio-
ne e un uso, in psicoanalisi, prevalentemente “pratici”, operazionali, anzi
esclusivamente operazionali. Come si stabilisce questa operazionalità?
Nel 1915, in “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte”, Freud
descrive ciò che ne è stato dell’uomo delle origini a seguito di un certo
numero di rinunce primitive, tra cui spicca la rinuncia a uccidere l’altro,
componente maggiore della rinuncia pulsionale, da cui deriva l’esigen-
za etica (cfr. Fédida, 2007, e. it. p. 76)3. Freud ricorda questa rinuncia
per mettere in valore il fatto che l’uomo è divenuto umano attraverso
i suoi progressivi cedimenti (défaillances progressives). “A partire dal
momento della rinuncia all’uccisione dell’altro, l’uomo delle origini ha
cominciato a prendere coscienza dell’altro come colui la cui morte com-
porta un certo numero di pratiche (dal lutto alla credenza nell’anima)”.
La parola “umano” acquisisce così un senso che non poteva avere per
l’uomo delle origini; di conseguenza, dalla prospettiva della psicoanalisi
“umano” dovrebbe quindi implicare (rispetto alla letteratura psicoanali-
tica, Fédida è molto più netto, prescrittivo: “la parola ‘umano’ dovrebbe
uscire dalla penna degli psicoanalisti unicamente per indicare …”, dice)
il riferimento a un insieme di compromesso che allontana l’individuo
dalla primitività dell’uomo. Ma questo compromesso è innanzitutto fatto
di défaillances progressives, del cedere qualcosa di sé, di perdite di sé per
vedere l’altro, potremmo anche dire.
Valutata una legittima pertinenza dell’umano, apriamo al “disumano”:
“Disumano: aggettivo. Privo di ogni senso di umanità, spietato, bestiale,
che non ha e non conserva nulla di umano” (Devoto, Oli). Definizione di
una condizione, di uno stato, privo di tutto ciò che si riconduce all’umano,
dunque apparenza inclusa; nella lingua francese troviamo invece il verbo
deshumaniser e i suoi derivati (Rey, Morvan, 1985 – 2001). Dal canto suo,
come ci introduce a esso Fédida? Invitandoci a considerarlo, sin dalla pre-
sentazione del seminario (tr. it. p. 42), come esperienza psicopatologica:
“La clinica psicopatologica dei casi considerati difficili (personalità limite,

2 Ricordo anche come, poco prima della pubblicazione della trascrizione del semi-
nario, la rivista Psiche dedicò un numero alla disumanizzazione (1, 2006).
3 Fédida è ripetutamente tornato su questo lavoro freudiano; ricordo un articolo
scritto per L’inactuel, “Compter les morts” (Fédida, 1994b). Sull’espressione “in-
quietante estraneità” come traduzione di “Unheimliche”, rimando a quanto scritto
in altra occasione (Galiani, 2009).
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patologie narcisistiche, enclave autistiche nei pazienti nevrotici, depres-


sioni, etc.) ha consentito di lavorare sui fenomeni di annichilimento e di
annientamento psichici. Tuttavia, in maniera più generale ma non meno
specifica, ci era necessario esplorare delle situazioni in cui il soggetto spe-
rimenta il doloroso sentimento della perdita della propria umanità”.
È l’esperienza della perdita progressiva della propria umanità, esperienza
fatta di annichilimento, annientamento; i fenomeni che inducono a ricorrere
alla categoria “disumano”, sono fenomeni processuali che partono dalle
condizioni di umanità. Se fosse uno stato psichico, sarebbe al limite (inter-
no o esterno) dell’umanità, della tenuta della rappresentazione di sé (neces-
sariamente in rapporto all’altro) come umano. Rappresentazione di sé che
deve fondare su elementi costanti nel tempo e nello spazio: qui e là, ora e
allora, cosa mi fa dire che sono la stessa persona? Il vacillamento di una
certezza implicita su questo affaccia sul disumano.
Alla definizione “da dizionario” di disumano va allora aggiunta una “eti-
mologia” clinica, che come clinica psicoanalitica rimanda alla singolarità
di un caso; voglio dire che è stata una paziente di Fédida, Cynthia, a aver
coniato, per riferirsi alla “sofferenza psichica che è la propria carne”, l’e-
spressione stato limite dell’umanità. Uno “stato”, dice Fédida nel lavoro
–anch’esso notevole – in cui ne parla (1996, p. 61), che è un punto di oscil-
lazione, vacillamento tra “le smorfie della normalità anonima, simulante
gli affetti, e la lenta distruzione della loro apparenza”.

Cominciamo dunque a spostarci verso il “processo”. In un testo coevo


alle sedute del seminario, testo da Fédida intitolato proprio Le processus du
déshumain, troviamo scritto: “Parlare di processo del disumano offre dal no-
stro punto di vista l’enorme vantaggio di tentare di esprimere il modo in cui si
disfa il legame umano. …. la clinica ci offre l’opportunità di prendere in con-
siderazione esperienze singolari (personali) in cui il soggetto si rende conto
del suo ritirarsi dalla comunità umana. Non mi sto riferendo semplicemente
a ciò che si potrebbe chiamare solitudine, separazione, abbandono … ciò cui
guardiamo qui sono innanzitutto quelle che si possono definire ‘situazioni
estreme’ o ‘stati limite’. Queste situazioni estreme è possibile incontrarle solo
per brevi momenti, o in modo più durevole nella quotidianità depressiva” (cit.
in Wolf-Fédida, 2007, p. 38). D’altronde, se c’è un testo che può essere con-
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siderato pressoché “gemello”, per il suo concepimento, al seminario Umano/


Disumano, è, ovviamente non a caso, Les Bienfaits de la dépression4. E l’a-
pertura del testo (ed. fr. p. 8) conferma l’attenzione per la processualità e per
la quotidianità depressiva: “… nelle espressioni più anodine della quotidiana
umanità lo stato depressivo è, in fin dei conti, quello del disumano. Questo
stato non si riassume in un isolamento o in un ritiro dalla più semplice comu-
nicazione. È l’esperienza umana stessa che si cancella – un semplice gesto
del viso, la tonalità della voce nelle parole, una semplice impressione di un
sentimento o di un ricordo. La depressione prende l’aspetto, estremamente
violento, dell’annientamento del vivente umano”. L’orizzonte della questione
è allora delineato da esperienze esistenziali che se volessimo “fissare” in uno
stato, una condizione persistente, ritroveremmo, dice Fédida, nella “quotidia-
nità depressiva”.

Mettiamo per il momento da parte questo riferimento alla quotidianità


depressiva, perché se ci facciamo catturare dal “noto” che la accompagna,
dimenticando la puntualizzazione di Fédida (“questo stato non si riassume
…”), potrebbe addirittura risultare fuorviante. Su di essa torneremo tra poco;
seguiamo prima un’altra indicazione fornita da Fédida. Se il “disumano” non
indica prevalentemente una condizione ma un processo, tanto meno fa riferi-
mento a una condizione di per sé opposta all’umano, a una sorta di “ente” o di
caratteristica alternativa, per così dire, posizione in cui troveremmo piuttosto
quell’ “inumano” che, come termine, Fédida (2007, p. 79) invita a “evitare”,
perché è una condizione che annienta e non, come il disumano, un processo
che “ci mette all’opera”. Ciò che Fédida cerca di mettere a fuoco non è quin-
di quanto si potrebbe dire di una sofferenza “inumana” nel senso di psichica-
mente intollerabile; l’inumano si riferisce a un puro stato di annientamento
dell’umano, mentre ciò che più interessa Fédida può essere espresso come
una contropartita dinamicamente intrecciata all’umano (Wolf-Fédida, 2007).
Si tratta in fondo, e potrei anche dire “ancora una volta”, considerata
la frequenza dell’operazione in Fédida, di un ampliamento o dell’ampli-
ficazione di una lezione freudiana, quella per la quale, al di là della più
immediata contrapposizione vita-morte, vi è – si riconoscerà in questo un
modo di leggere la pulsione di morte che accomuna molti autori francesi,
comunque ispirati dalla jouissance lacaniana – “l’anima della morte nella

4 Preferisco il titolo francese, perché “Il buon uso della depressione” sposta l’accen-
to su di un atteggiamento attivo del soggetto che, insomma, dovrebbe anche saper
far buon uso della sua depressione, mentre i Bienfaits sono “gli effetti salutari”,
ma innanzitutto “l’atto di generosità” che qualcosa della depressione può elargire
al soggetto.
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vita”, il che porta anche a chiedersi che relazione ci sia tra “disumano”
e “pulsione di morte”. Si potrebbe dire che la relazione è di “messa in
sicurezza”, dal momento che il disumano come processo può contribui-
re, per Fédida, a evitare i rischi di una “risostanzializzazione” della pul-
sione di morte5. “Inumano” sarebbe allora al di fuori dell’umano, mentre
ciò che occorre è proprio uscire da questo tipo di relazione. La diversa,
drasticamente diversa relazione che si impone è quella che, nella pratica
analitica, si misura con l’esperienza di quanti “vivono o hanno vissuto”
l’orrore dell’annichilimento, il “crollo” che ha preso alle spalle, per così
dire, la capacità rappresentativa dell’Io, non necessariamente provenendo
dal passato; si tratta di una relazione con un processo del disumano, e non
sorprende che un riferimento princeps in questo è per Fédida il Winnicott
di “Fear of Breakdown” (1964). Riprendendo i pensieri di Cynthia, Fédida
(1996, p. 59) dice: “lo stato limite dell’umanità lascia presentire l’inelut-
tabile avvenimento, di una ‘forma che ci è ancora sconosciuta’. L’avveni-
mento non appartiene al passato e non potrebbe essere immaginato come
un evento, come un avvenimento che deve ancora avvenire. Si può ancora
chiamare ‘avvenimento’ (événement), ciò che si vive come una lenta di-
saggregazione del tempo e come una progressione insidiosa, osservabile in
ogni istante, di una scadenza già cominciata?”
Personalmente, ho in mente anche condizioni solo in parte sovrappo-
nibili, come quella di una paziente che da un certo momento della sua
vita si è sentita costantemente a rischio di non essere considerata e di non
considerarsi più autentica – nelle relazioni amorose, nella professione –, a
rischio cioè di vedere la sua immagine (ciò che di sé vedono gli altri e se
stessa riflessa) sgretolarsi, disfarsi. Sentimento che a volte ne lascia traspa-
rire un altro: “in fondo, è sempre stato così”.
Per pensare queste condizioni cliniche, Fédida propone anche il ricorso
– forte, rischioso – a ciò che, seguendo Primo Levi, definisce il “paradigma
antropologico di Auschwitz”. Prima di misurarci con questo paradigma, è
il caso di fare il punto della situazione; le vie che conducono alla questione
del disumano sembrano essere due, convergenti.

La prima di queste due vie per il disumano concerne la rilevanza clinica


della apparenza del simile e della sua scomparsa, la scomparsa di ciò che

5 Nella stessa direzione va ad esempio quanto osservato da O. Pozzi (2013) a pro-


posito dell’uso fatto da un fenomenologo come B. Callieri della nozione di “om-
bra nella psicosi”; per una visione d’insieme del rapporto tra distruttività, pulsione
di morte e rischio di sostanzializzazione cfr. Galiani, 2016.
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consente di riconoscere il simile in sé e nell’altro nella clinica psicoanali-


tica dei “pazienti difficili”. La questione dell’apparenza è centrale. Fédida
era preoccupato da una certa diffidenza psicoanalitica per l’apparenza (che
non è certo il look); ma che cos’è l’apparenza umana nella clinica psico-
analitica dei “casi difficili”? Fédida usa spesso queste formule generiche
– pazienti difficili, casi difficili – per sfuggire quanto più è possibile alle
insidie delle classificazioni6. Di fatto, le condizioni cliniche cui prevalen-
temente fa riferimento sono psicosi e stati limite; Fédida è netto (2007,
p. 58): “stabiliamo che nella nevrosi siamo nel regime di un umano che
è dell’ordine dell’esperienza del simile”7. Affidandosi a questo, una voce
critica potrebbe anche chiedere dove si ritrovi il fondamento freudiano del
riferimento al disumano e al “dissimile”; la risposta potrebbe essere: tutto
dipende da come si legge “Il Perturbante” (Freud, 1919). Se si legge il testo
freudiano accontentandosi del valore edipico del “complesso di evirazione
infantile” che torna nell’esterno nei panni estranei/familiari dell’automa,
del doppio o del sosia, il fondamento difficilmente si trova; se lo si legge
senza accontentarsi (è Freud stesso che per primo non se ne accontenta,
ma forse non ce ne saremmo accorti senza un monito di Lacan), vi si può
invece ritrovare un interesse per i vacillamenti dell’Io nel suo raddoppio, e
il riferimento all’Elisir del diavolo di Hoffmann da parte di Freud è proba-
bilmente la traccia che maggiormente deve suggerire di spingersi in questa
direzione (Lacan, 2004, p. 52; Galiani, 2009). Fédida è tra quelli che non
si accontentano; segue l’indicazione e continua così: “Se Freud pone la
questione del dissimile, specie attraverso quella dell’inquietante estraneità,
del perturbante, la pone sul piano di un raddoppio dell’Io nell’esperienza
dell’inquietante estraneità, in funzione di una morte che non è rappresenta-
ta ma è presente” (Fédida, 2007, p. 58).
Un’altra risposta all’interrogativo sull’apparenza umana nei “casi diffi-
cili”, una risposta questa volta in negativo, è data dal sentimento dei sog-
getti depressi “di una cancellazione dell’apparenza umana: è il sentimento
di un decadimento, quando il volto, le parole, la voce, la stessa possibilità
di riconoscere le reazioni dell’altro, cominciano a disfarsi” (Fédida, 2007,
p. 44). In un altro passaggio dell’incontro di apertura del seminario, la po-

6 Sulle quali si veda a esempio l’intero numero 6 della rivista “notes per la psicoa-
nalisi”, dedicato alle “Violenze della classificazione”.
7 Per Widlöcher (2007, p. 215) “si avrebbe certamente torto a leggere il seminario
come la descrizione di un metodo psicoanalitico di trattamento della psicosi, ma
si ha pienamente il diritto di intenderlo come un progetto di sostituire un modello
‘psicotico’ al modello metapsicologico della nevrosi in quanto oggetto del tratta-
mento psicoanalitico”.
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sizione è espressa con maggiore chiarezza (p. 46): “In qualunque momento
l’esperienza analitica ci offre l’occasione di renderci conto che la presenza,
la voce, il gesto, la parola, i termini, lo sguardo, hanno tutti una notevo-
le importanza, soprattutto allorché lo psicoanalista non è di fronte, non è
visto, vale a dire quando l’umanità, ciò che vi è di umanità, non è oggetti-
vabile all’interno di una relazione intersoggettiva, nella comunicazione in-
tersoggettiva”. Si capisce facilmente (e ancora di più se, seguendo il sugge-
rimento di Widlöcher, 2007, sostituiamo interpersonale a intersoggettivo)
quanto questo abbia a che vedere con una precisa lettura della “presenza
in persona dell’analista”, presenza che si fonda sull’essere arretrato dell’a-
nalista come persona8. In questa fenomenologia rientra per Fédida (p. 46)
“tutto ciò che nella cura è scambio sublinguistico. È guardando in questa
direzione che occorrerebbe provare a pensare contemporaneamente al fe-
nomeno dell’umano e al fenomeno del disumano”.

La seconda via che porta verso il disumano è allora rappresentata da


quel paradigma antropologico racchiuso nella parola Auschwitz: tutto
quanto ha potuto essere scritto sull’ “umano” e sull’esperienza della “disu-
manità” rimanda alla Shoah, dice Fédida. È il modo in cui George Bataille
anticipa (personalmente anche questo l’ho appreso grazie a Fédida) l’idea
di Levi del paradigma antropologico; “è il modo in cui Bataille ci implica
nella Shoah”. Il valore del riferimento a Bataille nella questione del disu-
mano è tutt’altro che secondario, perché George Bataille è stato uno dei
primi a comprendere il potenziale simbolico di “Auschwitz”, parola che,
come scriveva, impone un costante ripensamento dell’immagine dell’uo-
mo. Questo riferimento di Fédida non si legge se non associandolo a ciò
che trae da Maurice Blanchot, e in particolare da una formula de L’Ecriture
du désastre (1980) che riesce a riassumere la radicalità dello sterminio:
“nei campi è l’invisibile che si è per sempre reso visibile”. Fédida la pone
in relazione con un’affermazione di Bataille che è un vero e proprio am-
monimento sulla necessità di raccogliere la sfida di questo inimmaginabile;
scrive Bataille: “Ciò che è sconcertante è che i boia avevano dei bambini,
provavano per le loro mogli dei sentimenti umani, avevano relazioni uma-
ne … provavano senza dubbio quello che proviamo noi … è vano negare
l’incessante pericolo della crudeltà quanto lo sarebbe negare quello dei

8 Nel corso di un convegno organizzato a Napoli dal Dipartimento di Psicologia


della SUN nel 2012 (“Parola e linguaggio nella situazione psicoanalitica. A partire
da Pierre Fédida”), Gianni De Renzis, con il suo abituale acume, disse che in
Fédida c’è una teoria dell’ab-séance, dell’assenza fondatrice della seduta.
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dolori fisici. Non si rimedia ai suoi effetti se piattamente la si attribuisce


a partiti o razze che, si crede, non hanno nulla di umano” (1947, pp. 226-
228). Se Bataille invita a pensare che la cosa più violenta è in fondo proprio
che i nazisti sono dei nostri simili, è il riferimento accoppiato Bataille-
Blanchot a consentire di mettere a fuoco con precisione ciò che preme a
Fédida: se l’impresa nazista è quella di annientare la somiglianza stessa,
cancellando le tracce che rendono il simile riconoscibile come simile, il
lavoro inverso è quello di riporre in relazione con l’umano lo stesso volto
delle SS, di ritrarle fuori in un certo senso dal riparo dell’inumano. L’e-
sperienza concentrazionaria ha a suo modo spinto questa idea all’estremo.
Fédida riprende a sua volta una testimonianza riportata da Primo Levi ne
I sommersi e i salvati (1986, p. 5), in cui un SS dice: “Forse ci saranno
sospetti, discussioni, ricerche di storici, ma non ci saranno certezze, perché
noi distruggeremo le prove insieme con voi. E quando anche qualche prova
dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti
che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti”. Distruggere
con l’eccesso la stessa credibilità equivale a distruggere finanche l’ultima
traccia. Spingere la cancellazione il più lontano possibile, fino all’oblio, ma
non l’oblio di quel che accade sul piano di una relazione umana: il disu-
mano è la distruzione di qualunque forma possibile dell’umano. È questo
che Fédida (p. 59) ritrova in Primo Levi: la Shoah è la demolizione dell’uo-
mo. Se il rendere impossibile l’immaginare, rendere impossibile il ricorso
all’apparenza, è l’asse del “paradigma Auschwitz”, esso è un paradigma
dell’importanza del simile (Fédida, 2007, cfr. pp. 82 sgg).
Questa prospettiva diverge in maniera radicale da quella per la quale
l’idea di Auschwitz è oggetto di memoria, cui poter fare riferimento come
a un oggetto da commemorare: Auschwitz fa quotidianamente parte del
nostro pensiero e, come Fédida ricorda, nelle scienze umane lo si è rimos-
so9. Questo fa di Aushwitz una posizione antropologica fondamentale. Con
Auschwitz è cambiato qualcosa: non è più possibile immaginare che il si-
mile sia il simile-vittima e che il carnefice sia il dissimile. Il riconoscimen-
to della somiglianza è uno dei fondamenti della condizione umana; finché
è possibile distinguere un carnefice da un non-carnefice, finché è ancora
possibile identificare un umano sconosciuto come un semplice “vivant qui
passe”, vivente che passa, secondo l’auto-assolutoria frase/pensiero attri-
buita da Maurice Rossel, ispettore della Croce Rossa, agli “abitanti ebrei”
di Theresienstadt che lo vedevano passare (Lanzmann, 1997, p. 42), si è

9 Molto istruttive, a proposito delle memorie istituite (istituzionalizzate), alcune


pagine di Sur la scène intérieure (Cohen, 2013, pp. 45 sgg).
66 Perché il male

ancora in condizione di ritrovare, riprendendo Antelme (1946), la comune


appartenenza alla specie umana. Tutto cambia quando a essere distrutte, in
modo sistematico, sono le tracce di questa appartenenza (quale apparenza
senza almeno una traccia?); è ciò che, tra le tante –sempre troppe- pagine
possibili, insegnano quelle scritte da Hanna Lévy-Hass (Diario di Bergen-
Belsen: 1944-1945): “qui lo sterminio è lento, vilmente calcolato, tramite
la fame, il terrore, le epidemie scientemente non debellate … gli uomini
muoiono per un trattamento infame, per la fame, per le umiliazioni, per i
vermi … hanno finito per uccidere in noi non solo il diritto alla vita presen-
te e per molti di noi, certo, anche alla vita futura … ma la cosa più tragica
è che, attraverso i loro metodi sadici e perversi, sono riusciti a uccidere in
noi ogni sensazione di una vita umana anteriore, ogni sentimento di essere
normali, dotati di un passato normale, fino alla coscienza stessa di essere
esistiti una volta come esseri umani degni di questo nome” (p. 64, 67, e 52).
La posizione antropologica della Shoah è allora “fondamentale” – come
Fédida dice usando a suo modo la formula che Laplanche conia per la se-
duzione generalizzata – perché l’evento della demolizione dell’uomo (Levi)
attraverso la cancellazione delle tracce di ogni somiglianza, insegna come
la possibilità di riconoscere una somiglianza e vedersi riconosciuti nella so-
miglianza sia ciò che rende possibile immaginare sull’altro e su di sé imma-
ginando anche la dis-somiglianza, la differenza. Se c’è un “male assoluto”,
ossia una forma di esercizio radicale della distruttività, mira a questo: di-
struggere la capacità di inferire il simile nel dissimile e, di riflesso – il riflesso
che fa propriamente psicoanalisi, verrebbe da dire – il dissimile nel simile.
Questa tesi, che sembra richiamare quella di Green (1988, tr. it. p. 333)
sulla disoggettualizzazione (“per spingere abbastanza lontano la distrut-
tività nei confronti dell’altro, quest’ultimo deve essere disogettualizzato,
ossia spogliato delle sue proprietà di oggetto umano”) porterebbe anche a
interrogarsi, in disaccordo con Green (per il quale la disoggettualizzazio-
ne “è incompatibile” con il godimento sadico, che esige l’identificazione
con l’alter ego masochista”; ibidem) sul rapporto tra sadismo, crudeltà e
distruttività, perché, seguendo ad esempio Cupa (2006), la “sadizzazione
dell’oggetto” ad opera di una crudeltà “di morte”, deriva da ciò che, con
Chasseguet Smirgel, l’autore chiama la “hubris”, ossia la pretesa perverso-
onnipotente che conduce a sottrarre all’altro la qualità di “simile”10. Il che
implica, come vedremo tra poco, dover pensare anche a altro, a altri effetti
privativi: non solo privare l’altro della sua qualità di simile, ma privarlo

10 Si tratta di porre il perverso in continuità con “Il” male, traiettoria marcata con
insistenza ancora maggiore da Castel (2014).
R. Galiani - Il male, il disumano, l’apparenza 67

della possibilità di riconoscere egli stesso nell’altro umano un simile. Per


riprendere un esempio precedente: a partire da quale punto di riferimento
a se stessi gli “abitanti ebrei” di Theresienstadt avrebbero potuto ancora
riconoscere nella silhouette dell’ispettore Rossel un vivente?
Quale che sia la coloritura (sadica/non sadica) della pretesa disoggettua-
lizzante, è la perdita – ripetuta, inarrestabile, emorragica – della possibilità
del riconoscimento del simile in sé e nell’altro che, all’interno dell’umano,
fa il disumano. La paziente chiamata Cynthia, che definisce la sua soffe-
renza come stato limite dell’umanità, lo fa, scrive Fédida, certamente “fa-
cendo anche allusione, nella sua storia genealogica, allo sterminio nazista
di cui i nonni paterni e materni sono stati vittime e a cui la madre, nata in
un campo di concentramento, è miracolosamente scappata. Ma tutto questo
accade oggi per lei come se l’olocausto non fosse né passato né a venire;
accade piuttosto in un tempo ineluttabile, che il quotidiano non trattiene
più” (Fédida, 1996, pp. 59-60).
Ancora una volta, quello proposto da Fédida non è pertanto un paradig-
ma che cala dall’alto. L’indicazione, l’apprendimento dal singolo caso di-
viene poi apprendimento dall’ascolto, dai diversi ascolti, che nel seminario
(2007, p. 59) concernono essenzialmente, lo abbiamo ricordato, l’ascolto
del paziente psicotico o limite. Essere umani con un paziente “difficile”
significa questo: “poter accogliere e prendere le misure, nell’ascolto, di ciò
che nel simile diviene dissimile”. Il disfarsi di quel tessuto di apparenza
umana –questione, come visto, di grande importanza – fa uscire dall’or-
dine del simile e precipita in un “orrore” che tocca lo psicoanalista, o for-
se meglio che tocca allo psicoanalista, gli spetta: “cosa ci viene chiesto
quando accediamo all’orrore? Ci viene chiesto di ammettere che ‘io’ sono
nauseante, che ‘io’, umano, sono nauseante, che sono ‘io’ a portare que-
sta ripugnanza. … Non andrei lontano se dicessi: di là i nazisti, di qua
gli ebrei. Questo è il problema: evitare di fare questa bipartizione fallace”
(Fédida, 2007, p. 56).
L’orrore come “uscita dall’ordine del simile”; intendo questo: il sentire
venir meno quello che dovrebbe essere un automatismo, cioè il riconoscere
l’altro come un simile e viceversa. Non solo in Totem e tabù, ma anche nel
cuore stesso della metapsicologia Freud (1915) scriveva che nell’inconscio
fondamentalmente funzioniamo così, l’inferenza di base è quella di attri-
buire all’altro il mio modo di funzionare; questa prima forma inferenziale
è la nostra prima conoscenza dell’altro: io penso che tu sei un “io” perché
ti presto il mio modo di funzionare e così posso farmi una rappresentazione
di te. Ma cosa mantiene nell’ordine del simile?
68 Perché il male

In un poscritto a “Il linguaggio esce dal buio”, George Steiner (1967,


p. 174) commentava un brano del discusso Treblinka (J.F. Steiner, 1966),
attirando l’attenzione su un aspetto singolare, apparentemente secondario:
“Una delle cose che non riesco a afferrare … è il rapporto temporale. In un
momento precedente del tempo razionale, il professor Mehring [la vittima
dei nazisti al centro del racconto – Mehring è noto perché, messo dai suoi
estimatori nella condizione di fuggire, scelse di restare nel ghetto di Lodz,
da dove fu deportato] era seduto nel proprio studio, giocava con i propri
figli …. Scorticato vivo, era, in un certo senso, lo stesso essere umano …?
Ma in che senso? … È qui che la mia immaginazione si rifiuta di prosegui-
re. I due ordini di esperienza simultanei sono così diversi, così irriducibili
a una qualche norma comune di valori umani, la loro coesistenza è un
paradosso spaventoso …”. Ciò di fronte a cui l’immaginazione di George
Steiner si rifiuta di proseguire è l’indicibile prossimità, l’irrappresentabi-
lità della successione (un attimo prima era lo stimato professor Mehring e
giocava con i suoi figli, un attimo dopo è un tronco scorticato); attraverso
il riferimento temporale, questo “blocco” rimanda a un interrogativo: che
cos’è che rende umano l’umano? O meglio: che cos’è che, venendo meno,
scomparendo, pone a confronto un umano – un simile – con la possibi-
lità – tragica – di fare l’esperienza di restare bloccato per sempre in ciò
che dovrebbe essere unicamente una possibilità percepita, essere il proprio
disumano? “Fare l’esperienza”: ossia la paradossale messa in rappresenta-
zione di quelle defaillances progressives ricordate all’inizio, la paradossale
messa in rappresentazione dei cedimenti progressivi dell’io; messa in rap-
presentazione paradossale che diviene però pensabile ricorrendo all’ana-
logia con l’opera di cancellazione delle tracce, delle testimonianze sulla
continuità dell’esperienza: “ … la cosa più tragica è che sono riusciti a
uccidere in noi ogni sensazione di una vita umana anteriore”.
Ciò che Fédida pone in primo piano dell’azione disumanizzante del na-
zismo è il far venire meno la possibilità della testimonianza, che è anche la
possibilità che un altro possa aiutare a riconoscere che a essere lì e allora e
qui e ora è la stessa persona, lo stesso vivente membro della stessa specie
umana di colui che osserva. Fédida lega la questione della testimonianza e
della cancellazione delle tracce a un tentativo di riflettere nuovamente sulla
funzione della costruzione dell’immaginazione in analisi. È a questi inter-
rogativi, che fanno supporre all’interno di quel “rapporto temporale” come
unico continuum un continuum negativo, perché fatto di oblio, cancellazio-
ne delle tracce, sradicamento soggettivo, scomparsa, che si rivolge allora
l’immaginazione analitica (ossimoro solo in apparenza) di Pierre Fédida.
Costruire l’immagine dell’uomo laddove non si può più immaginare per-
R. Galiani - Il male, il disumano, l’apparenza 69

ché la testimonianza è stata erosa: qui, per Fédida, più di ogni altro è l’ana-
lista che può giungere in soccorso, perché “il ruolo dell’analista è quello di
immaginare” (2007, p. 52).
Posto che non si tratta di un banale invito a farsi liberamente tutte le fan-
tasie possibili, si ha tutto il diritto di chiedersi di cosa stiamo parlando; cosa
può voler dire che, come segnalavo all’inizio, un discorso del genere per
Fédida ha un valore “operazionale”, ma direi anche, più esplicitamente, un
valore di tecnica psicoanalitica? Lo mostra Corinne Ehrenberg (2007, p.
230), riportando un’indicazione data – un’immagine costruita – da Fédida
nel corso di un lavoro di supervisione: “umanizzarsi è costruire delle labbra a
un buco”. Disegnare, costruire delle labbra sui tratti che delineano un vuoto,
continuare a immaginare davanti a un bianco di immagini, costruire nuove
“angolazioni” che possano inserire in una sequenza ciò che per il paziente
è unicamente un “fermo-immagine”. Nella clinica con i “casi difficili”, l’a-
nalista è spesso chiamato a fare principalmente questo, perché poi, forse, il
paziente possa farlo a sua volta, e non c’è dubbio che l’indicazione di Fédida
a Ehrenberg sia dell’ordine di un autentico squiggle game verbale.
È importante chiarire che la centralità assegnata da Fédida alla “funzione
immaginativa” dell’analista è perduta se ci si lascia prendere la mano
dall’identificazione empatica. Per poter continuare a creare immagini
“malgrado tutto” (Didi-Huberman – 2004 per questo lavoro “manifesto” –
ha costantemente riconosciuto il proprio debito nei confronti della ricerca
condotta da Fédida), per poter passare dall’immaginazione alla costruzione,
occorre non identificarsi. Nella clinica dei pazienti difficili, “se mi identifico
sono fottuto”, diceva senza giri di parole Fédida, e lo stesso Bolognini (2002)
segnala un rischio analogo quando distingue tra empatia e empatismo. L’i-
dentificazione rende impossibile percepire sin dal fluire della parola, soprat-
tutto nel fluire della parola, ciò che Fédida definisce “la dissomiglianza del
simile” (p. 82), ossia quell’esperienza di inquietante estraneità che inaugura
l’analisi. È questo che fa sì che, per inciso, Fédida arrivi anche a individua-
re un processo analitico “umano-disumano” (dall’umano verso il disuma-
no: cfr. p. 82) che comincia con l’esperienza perturbante e che non coincide
con l’identificazione ma con la possibilità dell’ego dell’analista di viversi
frammentato11. Una possibilità che fonda su, o fa il pari con, ciò che Fédida
(1992) ha definito come pathei mathos, l’apprendere psico-pato-logico che
deve contraddistinguere l’analista e la sua esperienza di vita, prima ancora
che la sua formazione. Riassumerei la questione così: nella nostra vita – no-

11 Il titolo completo del lavoro del 1996, sorto intorno al trattamento di Cynthia, è
infatti “L’état limite de l’humanité et l’ego fragmenté de l’analyste”.
70 Perché il male

stra di attuali analisti – c’è stato qualcosa che ci ha messo di fronte alla ne-
cessità di postulare un funzionamento psichico dinamicamente determinato e
inconscio, e abbiamo imparato a “credervi” sulla base delle nostre personali
“evidenze empiriche” che sono diventate quelle di una comunità attraverso
le nostre analisi e poi attraverso la nostra attività di analisti che condividono
i risultati delle analisi condotte. L’inconscio – ossia ovviamente i suoi deri-
vati – è (stato) per noi oggetto, oggetto di esperienza “patica”, prima che
concetto o nozione su cui interrogarci.
Di “familiare”, allora, l’analisi può avere solo la familiarità con il per-
turbante, con l’incontro con l’inquietante estraneità –l’estraneo familiare-
che caratterizza la vita delle due persone nella stanza d’analisi. O, come
dice Fédida, la questione è “quanto si può essere sensibili a quel momento,
che può prodursi all’interno di una cura analitica, in cui il soggetto si sente
stranamente minacciato da un annientamento completo, totale, perché in
quel momento è andato perduto quello scambio che costituisce il tessuto
dell’umanità” (2007, p. 46). Essere sensibili a quel momento è ciò che in-
staura il sito dell’estraneo (Fédida, 1995).
“Disumana” è allora l’esperienza (p. 42) – che Fédida invita a imma-
ginare anche attraverso il paradigma Auschwitz – del disfarsi, nel senso
di sfaldarsi, di quella possibilità di percepire la somiglianza e la dissomi-
glianza del simile che è al fondamento della situazione analitica perché
essa, come ricorda nel definire l’argomento del seminario (p. 43), entra
nella costituzione della vita psichica. Questa possibilità di percepire, di
esperire somiglianza e dissomiglianza del simile, è quanto Fédida ha con-
siderato come un elemento costituente della capacità depressiva, ossia la
funzione di protezione al cospetto dell’eccitazione derivante dal vivere in
una condizione umana; protezione che ha a che fare con “la scoperta dei
tempi della soggettività umana”, ossia con la scoperta della sospensione,
dell’attesa, dell’assenza. Parlando di ciò di cui Cynthia appare priva (Fédi-
da, 1996, p. 59), Fédida usa l’espressione “l’umana melanconia”, ma è
una capacità che connota l’umano; la capacità potenziale di “simulare” la
morte psichica: “Quello che intendo chiarire bene è che quanto si chiama
depressione si definisce a partire da una posizione economica che concerne
R. Galiani - Il male, il disumano, l’apparenza 71

una organizzazione narcisistica del vuoto … somigliante a una ‘simulazio-


ne’ della morte al fine di proteggersi dalla morte” (Fédida, 1976, p. 71)12.

Siamo stati invitati a partire da “il male”; la pista di Fédida ci ha ricon-


dotto, riconducendovi il male, alla psicopatologia “quotidiana”. Ciò che
a “il male” si avvicina è lo smarrimento progressivo di quella capacità
depressiva che consente di conservarsi nell’apparenza umana, è il processo
del disumano, che in quanto processo si scioglie dall’umano solo asintoti-
camente. Ma l’esperienza di alcune vite umane, suggerisce Fédida, realizza
nella sofferenza questo impossibile: raggiunge l’asintoto, si ferma nel disu-
mano, e vive il male (ma il processo del disumano, aggiungerei comunque,
non è il male). In questo modo, Fédida fa infatti rientrare nel campo di
esercizio della psicoanalisi qualcosa – l’annichilimento del vivente – che
si può essere tentati di considerare come “non pertinente” e fuori portata.
Non pensiamolo come un ente – l’inumano, il male –, sembra dire Fédida;
pensiamolo invece come un processo e lo ritroveremo nella quotidianità
depressiva.
In quest’ottica, come ricorda lo stesso Fédida, non va sottovalutato il
sottotitolo del seminario, di cui Fédida discute a seminario ben avviato,
durante il primo incontro successivo all’undici settembre 2001 (p. 79); con
la prospettiva aperta, quella del disumano come processo di dissoluzione
della possibilità della somiglianza, Fédida invita a ripensare l’esperienza
della perdita, della scomparsa, cui una certa letteratura (l’ideologia dell’og-
getto, la definisce) può aver reso difficile guardare: “L’esperienza della
scomparsa, in ognuno, è l’esperienza soggettiva per eccellenza. Dobbiamo
interrogarci sulla stabilità di un certo numero di concetti, diciamo su quelli
che costituiscono la doxa psicoanalitica: la separazione, il lutto, la perdita
… Questi termini veicolano un’ideologia dell’oggetto, vale a dire tentano
di pensare mettendo avanti il modello principale del lutto. Quando parlo
di ideologia la intendo nel senso della domanda ‘cosa è successo nell’e-
sperienza precoce del bambino?’. Una separazione precoce dalla madre,
una morte … vale a dire un pensiero in cui si conserva un’oggettualità
dell’oggetto, pensato in termini di perdita, e dunque in termini di legame,

12 La depressività, nell’accezione proposta da Fédida, non è quindi una difesa di


natura secondaria, come p. e. appare nella considerazione di Marty (1968) e altri;
è una generale funzione di protezione. Questa funzione di protezione al cospetto
dell’eccitazione fa pensare alle ipotesi freudiane sulla funzione di para-eccitazio-
ne riprese poi nella costruzione di un’etiologia della nevrosi traumatica. Secondo
Fédida, la capacità depressiva può invece essere avvicinata alla “posizione de-
pressiva” di Melanie Klein.
72 Perché il male

di rottura del legame; tutto ciò è detto senza fare il processo alle intenzio-
ni. Il crollo, lo sprofondamento, non è d’altronde un’immagine, né una
semplice metafora: è il fatto che, di colpo, realmente, si disfa un’esperien-
za di umanità. Lo si nota anche nei soggetti depressi, nel sentimento che
essi hanno di una cancellazione dell’apparenza umana: è il sentimento di
un decadimento, quando il volto, le parole, la voce, la stessa possibilità
di riconoscere le reazioni dell’altro, cominciano a disfarsi”. Un’ottica che
rende per altro ragione dell’importanza che Fédida riconosce alla nozione
di informe (Fédida, 1994a).
Queste accentuazioni suggeriscono di fare, prima di chiudere, un’ultima
precisazione. Perché nonostante tutto l’ “umano” potrebbe apparire, in so-
stanza, come il “buono” da far prevalere; ovviamente non è così. L’umano,
la capacità/possibilità di riconoscere la somiglianza del simile, va legato
indissolubilmente, dialetticamente, all’attrazione da parte e verso ciò che
scompone (dis-) la somiglianza e l’apparenza su cui si fonda. Questa ten-
sione fa sì che un soggetto della specie umana sia fatto dell’intreccio tra
umano e disumano.
La domanda all’origine di questo e degli altri scritti del volume, “perché
il male?”, allora, è una domanda che per noi psicoanalisti è lo specchio
della nostra specificità. Se ci chiediamo “perché il male” è sempre perché
non escludiamo che in un soggetto vi possa essere un desiderio diverso dal
“bene” e anche dallo star bene (dal “voler guarire”). Non escludiamo che
in quel soggetto vi sia un desiderio/tensione di sciogliere l’intreccio del
simile che lega il dissimile, desiderio/tensione a riconoscersi stabilmente
nel disumano. Non escludiamo, in fondo, la simpathy for the devil (Rol-
ling Stones, 1968), e non solo perché Freud (in una lettera del 24/10/1897)
scriveva a Fliess di sognare una Teufelreligion, una religione del diavolo
– ossia di quel “Lucifero” che, tre anni più tardi (lettera del 10/07/1900),
avrebbe ancora evocato a Fliess nella sua ibridazione con Amore13.
Tuttavia è facile accorgersi che così facendo il Teufel per cui siamo di-
sposti a ammettere di avere (dis)umana simpatia, il “dis” che possiamo
guardare, fissare, sembra quello intriso di Eros: è il diavolo che se la spas-
sa nelle orge dei gironi infernali, non la forza informe e senza volto che
stringe, fino a stritolarlo, il volto sorridente di un bambino. È il sogno di
una paziente gravemente depressa, al suo settimo anno di analisi: “… ero
una bambina, sorridevo, qualcuno mi abbracciava … la stretta diventava
sempre più forte e la faccia mi scoppiava”.

13 Devo questi riferimenti a Barreau, 2012.


R. Galiani - Il male, il disumano, l’apparenza 73

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