Il dominio politico arabo in Sicilia terminò quando l’isola fu presa di mira da un’altra
orda di conquistatori, proveniente dal nord Europa, i Normanni, discendenti dai
Vichinghi e avi di Federico II. Come osserva il Vitolo, essi non giunsero in Italia
meridionale e in Sicilia come un esercito di conquistatori, ma a piccoli gruppi con la
speranza di farvi fortuna. I primi contatti con l’isola si ebbero così sottoforma di
incursioni così come era accaduto per gli arabi. Dopo questi primi approcci, fu Roberto
il Guiscardo (della famiglia degli Altavilla e il vero artefice delle fortune normanne in
Italia meridionale) che nel 1061 avviò la conquista della Sicilia musulmana. Tale
impresa fu da lui poi affidata (per completare la conquista del Mezzogiorno
continentale) al fratello minore Ruggero, soprannominato successivamente il <<Gran
Conte>>. L’isola era allora in piena fioritura economica e culturale,ma in crisi sul piano
politico a causa delle tendenze autonomistiche delle signorie locali, il che favorirono
la conquista normanna, che tuttavia durò quasi un trentennio. Nel 1130 il figlio del
Gran Conte, Ruggero II fu incoronato dall’antipapa Anacleto II re di Sicilia. Si formava
così un regno (che comprendeva quasi tutta l’Italia meridionale più la Trinacria)
destinato a durare fino al 1860. Così eliminate le ultime resistenze con la conquista di
Napoli nel 1139, Ruggero II poté concentrarsi sull’organizzazione del suo regno, che si
configurò in breve tempo come uno dei meglio organizzati del tempo[11]. Con la
conquista normanna del suolo siciliano, l’Islam (come religione e come cultura) e
Arabi e Berberi (in quanto popolazioni distinte da proprie caratteristiche) furono
oggetto di estirpazione, la quale, tuttavia venne attuata solo perché a lungo andare
parve opportuna ai vari sovrani normanni fino all’imperatore Federico II compreso.
Ma, come evidenziato da Daniel, furono questi stessi sovrani che per ragioni di
opportunità politica sfruttarono l’appoggio delle popolazioni suddette[12]. Infatti
sfruttarono a fondo le strutture di governo ereditate dagli Arabi di Sicilia e dai
Bizantini in Puglia e Calabria , dotando il loro regno di una efficiente amministrazione,
che si articolava in uffici centrali operanti presso la corte di Palermo e in uffici
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periferici. Questo diede loro la capacità di produrre leggi e di procurarsi entrate fiscali
nonché il controllo dell’apparato ecclesiastico, che avvicinava il Regno di Sicilia più agli
Stati del mondo arabo-bizantino che a quelli dell’Europa. In Sicilia si ebbe così un utile
scambio di idee e di modi di vita tra musulmani e cristiani. Quindi nonostante i nuovi
conquistatori avessero adottato una simile politica nei confronti dei ‘figli del profeta’,
la cultura araba sopravvisse e, anzi, fu da loro assimilata insieme agli elementi
ellenici-bizantini ed ebraici per essere poi lasciata in eredità a quello che da molti
studiosi viene considerato l’ultimo sovrano normanno (per ramo materno), ossia
Federico II di Svevia. Ne sono testimonianza gli Arabi che non erano emigrati (come
era accaduto invece per la maggioranza) e che riuscirono bene ad inserirsi sia
nell’apparato amministrativo sia nell’esercito dello Stato normanno e la cultura arabo-
siciliana che continuava a fiorire nella città, e a Palermo in particolare, conferendo alla
corte normanna un carattere del tutto particolare nel panorama politico-culturale
dell’Occidente cristiano. La Sicilia normanna, dato che in essa si trovarono mescolate
le tecniche amministrative arabe, bizantine e normanne, e che vi sorsero chiese
splendide e magnifici edifici in stile misto, e che vi si continuarono a parlare tre lingue
e vi sopravvisse l’onomastica greca e araba, è stata considerata da parecchi storici la
sede dell’unico stato a più culture (legate tra loro da una coesistenza pacifica) e,
dedito alla tolleranza, che abbia avuto vita nel Medioevo. Bisogna ricordare che
questo fu reso possibile dalla <<[…] singolare abilità degli Altavilla di sapersi attorniare di
persone da loro prescelte – (che provenivano dai vari gruppi etnici, Arabi,Bizantini,Ebrei
e Latini, di cui si componeva il tessuto sociale del regno) – perché ne fossero
serviti,mettendo a disposizione della corte le loro qualità ed è a questa loro abilità che
dobbiamo far risalire la lunga permanenza […] a corte di tanti musulmani […]>>[13]. Essi
ricoprivano cariche prettamente amministrative o facevano parte dello stuolo di
servitori. Particolare era la figura dell’eunuco. Esso poteva ricoprire o la carica di
agente di fiducia del sovrano o quella di segretario o talvolta anche quella di
comandante militare. Anche se per ricoprire le massime cariche a livello pubblico era
d’obbligo per i maomettani convertirsi al Cristianesimo, dalle fonti sappiamo che la
piccola ‘comunità musulmana ’ di corte viveva nella piena osservanza delle
prescrizioni dell’Islam-religione. Nonostante i sovrani normanni fossero cristiani,
avevano permesso ai loro servitori di professare la loro fede e spesso fornivano loro
protezione quando venivano ingiuriati da accuse pesanti dagli elementi cristiani della
corte, che vedevano negli Arabi un gruppo sociale concorrente e diverso per cultura e
tradizione, da sospettare che esercitassero un’influenza ostile e sinistra sulle autorità.
Ma tale ostilità contagiò successivamente anche i nobili e i sovrani,per cui le fonti ci
descrivono atti di intolleranza religiosa verso gli Arabi: è il caso dell’eunuco Filippo,
che fu giustiziato nel 1154 (l’ultimo anno di regno di Ruggero II), per essere colpevole
di maiestas (alto tradimento), cioè per aver continuato a coltivare la fede islamica,
nonostante fosse stato battezzato e divenuto un cristiano[14]. Si possono enumerare
ancora altri casi di atti intolleranti come la rivolta del 1161 (sotto il regno di Guglielmo
I) scoppiata nel palazzo reale,dove i rivoltosi trucidarono tutta la gente di stirpe
araba e di fede coranica che riuscirono a trovare. Dopo questi episodi molti arabi
preferirono lasciare la Sicilia,che ritenevano ormai un luogo non più sicuro[15]. Se
sotto gli Altavilla l’Islam-religione subì un duro colpo a causa della politica di
conversione forzata al cristianesimo e degli atti punitivi contro chi continuava a
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professare la fede islamica in segreto, invece l’Islam-pensiero subì un rinvigorimento.
Gli Altavilla furono infatti grandi mecenati del sapere e la loro corte diede contributi
significativi alla cultura del tempo, elaborando la cultura arabo-ellenica insieme a
quella cristiana che avevano conosciuto nell’isola e restituendola sottoforma di opere
letterarie e costruzioni architettoniche, che faranno parte del patrimonio culturale
ereditato dal grande Federico II di Svevia. I sovrani normanni, che più si distinsero a
livello culturale e che si possono considerare come predecessori (a livello
intellettuale) dell’imperatore svevo, furono tre: Ruggero II (1130-1154), Guglielmo I <<il
Malo>> (1154-1166) e Guglielmo II <<il Buono> >(1166-1189). Come scrive Abulafia <<agli
albori del XII secolo, la reggia di Ruggero II era un faro luminoso per i poeti musulmani,
che ne cantavano le lodi in parte perché avidi di ricompensa ma anche perché ammirati
della sua saggezza. […] Sotto Ruggero la corte siciliana si inserì in un più ampio reticolo di
cenacoli sparsi per il Mediterraneo centrale, con connotati prevalentemente musulmani.
Più di uno di questi poeti […] raggiunse fama imperitura>>[16]. Si ricordano Ibn Hamdis,
Ibn Bashrùn , Abd ar-Ramàn Ibn Muhammad al-Buthiiri e Abd ar-Rahmàr il trapanese. I
versi di questi poeti ci sono pervenuti grazie all’antologia di Al-Imàd Al-Ishafani[17].
Ruggero era però soprattutto attratto dal seducente mondo della scienza.
Matematica, fisica, medicina, astronomia, geografia erano gli studi privilegiati a corte.
Famoso fu il geometra e astronomo Moammad Ibn Isà Ibn al-Mun’im, un’autorità in
questo settore scientifico. Ma la figura più importante della corte di Ruggero II fu il
geografo arabo-maghribino Al-Idrisi. La sua fama e la sua venuta presso la corte
normanna di Palermo(avvenuto verso il 1138) è legata al Kittàb Ruggiàr (il <<Libro di
Ruggero>>) [18], opera geografica di cui il sovrano si era fatto iniziatore e la sua
stesura durò circa un quindicennio. All’opera lavorò una vera e propria commissione
scientifica, presieduta verosimilmente dallo stesso Ruggero e visionata da un
segretario coordinatore dei lavori e traduttore, indicato col termine wasità (che
significa intermediario). Non è escluso che il predetto wasità fosse lo stesso Al-Idrisi,
che forse arrivò a Palermo a lavori già avviati. Al-Idrisi ebbe il compito di raccogliere i
dati, controllarli e metterli per iscritto in arabo. Il kittàb Ruggiàr come opera terminata
appare dunque come una mistura di racconti di viaggiatori contemporanei, testi di
geografi arabi, conoscenze personali, e dunque alquanto disomogenea: minuziosa
per quanto concerne la Sicilia e i territori nordafricani, diviene imprecisa man mano
che si spinge al Nord ed è fantasiosa per i territori della Cina e dell’India. Tuttavia, il
<<Libro di Ruggero>> è da considerare il più felice tentativo del medioevo siciliano di
procedere ad una metodica ed oculata revisione delle nozione cartografiche e
geografiche conseguite fino a quell’epoca nello specifico settore. L’arabismo subì
un’accentuata flessione sul piano culturale con la morte di Ruggero e fu un riflesso
diretto di una caotica situazione interna della Sicilia di cui fu protagonista e vittima il
suo successore, Guglielmo I detto <<il Malo>>; ne conseguì una minore originalità della
produzione letteraria di quelle due componenti della cosmopolita società dell’isola
(ossia quella araba-bizantina e quella latina) e all’impegno culturale subentrò, nei
contributi culturali dell’una e dell’altra parte, la tendenza alla trasmissione e alla
divulgazione del sapere antico attraverso le traduzioni. Alla corte normanna di
Guglielmo I era ancora presente Al-Idrisi, dove si trovava impegnato, nonostante i
tumulti in cui furono presi di mira i Musulmani, nella compilazione, su scala ridotta, di
un’altra opera geografica, che le fonti citano col titolo di Rawal-unus wa nuzhat an-
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nafas[19]. Ma la cultura araba alla corte guglielmina è rappresentata da altri
personaggi. Ricordiamo innanzitutto Eugenio L’Emiro, che presiedé
all’amministrazione finanziaria del regno. Dotto nelle lingue classiche e nell’arabo si
dedicò alla traduzione di opere varie. Ma egli si distinse nel settore delle scienze,
matematiche soprattutto. Tale particolare competenza ci è testimoniata dalla sua
traduzione dall’arabo in latino dei libri II-V dell’Ottica di Claudio Tolomeo: la lingua
araba e successivamente latina, assicuravano così la sopravvivenza del testo greco
perduto, grazie all’impegno di quell’erudito, che non nascose le difficoltà incontrate
nel traslare dall’uno all’altro idioma quei testi. Alla conoscenza dell’arabo da parte
dello stesso Eugenio pare debba collegarsi la versione (o revisione) della traduzione
greca del kittàb di Kalila wa Dimna [20]. Si tratta di una raccolta di apologhi o meglio di
favole che, precisa l’Emiro, rappresentano una guida nelle questioni relative
all’amministrazione dello Stato ed alla vita politica in generale. Tra gli altri eruditi e
letterati arabofoni operanti alla corte di Guglielmo I, ricordiamo il saggista e poligrafo
Ibn Zafar (autore del <<Sulwàn al-mutà’>>, del quale l’arabista Amari diede una
traduzione in italiano dal titolo ‘Conforti politici’ [21]) e il lessicografo Abu Hafs Umar
ibn Makki[22]. La situazione socio-culturale dell’epoca di Guglielmo II <<il Buono>> è
descritta nel Rilha (<<Giornale di viaggio>>) di Ibn Giubayr, viaggiatore e letterato
andaluso, capitato in Sicilia intorno al 1184 a causa di un naufragio. Tramite la sua
opera conosciamo la fisionomia che le maggiori città siciliane avevano assunto in
quell’epoca. È egli stesso a narrarci come <<alla corte palermitana il sovrano, che
appare ad Ibn Giubayr non dissimile da un monarca musulmano per le mollezze e gli agi
di cui vive e per il fastoso cerimoniale di palazzo, si circonda di vizìr ciambellani, paggi e
servitori musulmani su cui faceva grande affidamento>>[23]. Ed è proprio Ibn Giubayr
che, per la grande conoscenza della lingua araba, può essere considerato il primo
<<arabista>> dell’isola. Figure arabe-musulmane illustri della seconda corte
guglielmina furono inoltre il poeta ed epistolografo egiziano Ibn Qalaqis e il faqìh
(ossia un giureconsulto con una funzione imprecisa o un qadi,cioè un giudice) Ibn
Fatih[24]. Inoltre il Buono, come i suoi predecessori, mostrò di apprezzare la scienza e
l’esercizio professionale di hakìm (medici) ed astrologi di passaggio dall’isola e forse
anche di stabile dimora siciliana. Clima, dunque, fra i più favorevoli quello della corte
di Guglielmo II per la sopravvivenza di una cultura arabo-islamica di cui era garanzia
ed indispensabile presupposto l’esigenza delle moschee con gli imam e mu’adhdhin:
elementi senza i quali la preghiera della comunità non avrebbe potuto avere il suo
canonico svolgimento, ma anche talvolta buoni conoscitori del Corano e delle scienze
tradizionali, e pertanto chiamati ad insegnare quello e queste proprio in quei luoghi di
culto a cui erano addetti con le ricordate funzioni. Il Buono, seppur cristiano, fu
credente se non nei valori strettamente teologici dell’Islam almeno in quelli della
civiltà di cui i suoi sudditi musulmani erano depositari ed ancora operanti esponenti.
Per cui sulla tolleranza anche di quest’ultimo sovrano normanno verso l’Islamismo
non vi sono dubbi.
Federico II di Svevia arrivò a Palermo alla tenera età di tre anni e un anno dopo fu
incoronato re di Sicilia a soli quattro anni. Alla morte della madre Costanza, avvenuta
nel 1198, Federico II passò sotto la tutela di papa Innocenzo III e il regno cadde così
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nella più totale anarchia dove normanni, tedeschi, arabi e soldati pontifici erano
impegnati in una lotta senza quartiere per conquistare il potere, detenuto solo
ufficialmente da un bambino. Il piccolo sovrano crebbe così in un clima di tensione e
confusione politica e fu lasciato da solo ad assistere alle varie usurpazioni del suo
trono da parte di vari personnaggi. Leggende narrano che il piccolo sovrano vagasse
affamato per le strade palermitane e che i suoi sudditi impietositi lo accogliessero in
casa e lo sfamassero. Leggenda o meno, Federico II crebbe da solo alla corte
palermitana e grazie ad un’indole forte e ad un’intelligenza fuori dal comune, diverrà
un sovrano illuminato e dalla vasta cultura, assimilata per la maggior parte da
autodidatta. Ed è in questa Palermo poliglotta e multietnica ereditata dal nonno
normanno, che lo Svevo si formerà e conoscerà il mondo arabo. Anche se all’arrivo
del piccolo sovrano l’elemento arabo urbano era stato quasi completamente liquidato
(infatti dopo i moti musulmani, avvvenuti alla fine della dinastia normanna, le colonie
arabe cittadine erano state disperse e costrette a rifugiarsi sui monti), alla corte
palermitana erano ancora numerosi i maestri arabi, che seppero influenzare Federico
II e lo iniziarono alla lingua e alla cultura musulmana nonostante i suoi primi
insegnanti fossero degli ecclesiastici cristiani. <<Arabi erano stati i suoi precettori. Araba
la lingua che egli aveva orecchiato nelle stanze della cancelleria. Araba la matrice delle
favole ascoltate: con il Kittàb di Kalila wa Dimna s’era sgranato agli occhi del principino
tutto un fantastico mondo di cose mirabili e animali parlanti. […] Per le sale del Palazzo
Reale, il piccolo re s’era poi edotto ai Conforti politici di Ibn Zafer. E per i cortili e i giardini
palermitani il fanciullo era cresciuto nel vivace cosmopolitismo post-normanno, habitat
più stimolante di un castello sperduto nelle foreste di Svevia o Alsazia>>[25]. Negli anni
della fanciullezza Federico II raccolse così l’eredità intellettuale araba lasciatagli dai
suoi avi normanni. Tuttavia ancora fanciullo, appena quattordicenne, prese l’effettiva
reggenza del suo regno e si lanciò alla conquista dell’impero, divenendo prima re di
Germania e poi imperatore. La conquista del potere lo terrà lontano dalla Sicilia per
ben otto anni. Quando vi fece ritorno fu costretto a punire quel mondo arabo che lo
aveva formato da bambino. Durante la sua assenza, i Saraceni di Sicilia erano
diventati padroni di vaste zone interne dell’isola, sottraendosi al controllo della
monarchia. Lo Svevo fu costretto a combatterli con le armi e attuò una ferrea politica
di trasferimento della popolazione musulmana nelle città distrutte, annullandone la
presenza sul suolo siciliano. Gli scontri, avvenuti tra il 1222 e il 1224, si conclusero con
la sconfitta dei ribelli musulmani, che furono deportati a Lucera (nell’attuale Puglia
settentrionale). Il primo contatto politico con l’arabismo fu dunque aspro e duro.
Proprio questo comportamento sarà uno dei tanti che porterà gli studiosi a giudicare
l’imperatore svevo come una figura contraddittoria. Tuttavia, come evidenziato da
Daniel, la deportazione non è un atto contraddittorio di un sovrano filoarabo che fu
fautore della scomparsa araba in Sicilia, ma un atto di opportunismo sulla scia degli
avi normanni[26]. L’idea di Federico non è quella dello sterminio di massa (egli ama
gli arabi e sa dell’importanza della loro forza militare), ma di isolarli completamente a
Lucera per far dipendere esclusivamente la loro soppravvivenza e sicurezza
dall’imperatore in persona. Quindi non si deve pensare a Lucera come un campo di
concentramento tedesco poichè Federico permise alla popolazione araba di vivere
secondo le loro usanze e di praticare liberamente il credo maomettano senza esser
perseguitati o accusati di tradimento. La deportazione dei Saraceni a Lucera, se in un
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primo momento può fare pensare ad un atto di crudeltà e di lesività dei diritti dei
propri sudditi estirpati dalla terra in cui vivevano da qualche secolo, fu in realtà un
grande atto di tolleranza inconsueto per un sovrano cristiano dell’epoca e anche una
sorta di protezione per quel popolo che ammirava e che era in grado di far vivere
“liberamente” secondo i loro costumi anche nel suo regno. L’episodio di Lucera sarà
uno dei primi fatti ad inasprire i rapporti con il papato, preoccupato da Federico che
iniziava a subire le influenze del mondo arabo, comportandosi più come un sultuno
orientale che come un re cristiano. Come nota lo studioso Scimè egli <<nella vita
privata è più un musulmano che un cristiano[27], nella concezione dello stato è un
pagano>>[28]. <<Nel campo politico e amministrativo preferisce lo stato romano o quello
musulmano dove il capo dello stato […] è insieme capo spirituale e temporale. E sue
presunte asserzioni […] stanno a documentare uno stato di animo di un uomo […] che
voleva essere cristiano […] ma che non riusciva a conciliare il Cristianesimo con la sua
statolatria […] Come in lui non riuscivano a fondersi il germanesimo e il romanesimo […],
così non riusciva a comporre in sintesi la concezione cristiana e pagana dello stato>>[29].
Sulla contraddittorietà dell’imperatore si dibatteranno molti studiosi e alcuni sono
concordi che Federico fosse travogliato da una crisi interiore poichè era un sovrano
cristiano ma viveva come un sultano o meglio un pagano che sembra non credere
nella Chiesa ma che poi ne cerca l’approvazione. Sempre Scimè riassume con efficacia
tale contraddizione:<<Certamente la figura di questo imperatore che da un lato si fa beffe
della scomunica papale che più volte gli viene inflitta e che intanto manda amici
influenzati a Lione per scongiurarla, che fa la crociata per vedere di potere indurre i Papi a
più miti consigli; che chiama Cristo impostore e poi mette a fuoco con accanimento gli
eretici della fede; che dubita dell’immortalità dell’anima […] e poi muore con l’abito da
cistercense, lasciando numerosi beneficiati perchè si preghi per la salvezza dell’anima sua
[…] ci autorizza a chiedere la chiave di volta […] crediamo di averla trovata in quella
mancata fusione […]>>[30]. Per quanto riguarda il mondo arabo in particolare, la
contraddittorietà dello Svevo va spiegata distinguendo tra gli interessi culturali e gli
interessi politici. Nel caso degli ultimi arabi di Sicilia, politica e cultura non coincisero,
e la prima, come sempre, ebbe assoluta precedenza per l’imperatore. In definitiva si
avvalse dei musulmani e nè fu amico o si dimostrò tale solo per i propri interessi
ripercorrendo le orme degli avi normanni, grandi mecenati di studiosi arabi ma anche
loro sfruttatori. Nonostante questo Federico II di Svevia fu l’unico tra i sovrani cristiani
dell’epoca a poter svolgere il ruolo di mediatore fra il mondo orientale e quello
occidentale, instaurando rapporti d’amicizia con i sovrani arabi e i loro intellettuali. E
fu grazie alla cultura araba, assorbita dal sovrano in età puerile a permettere di
stabilire con i monarca orientali un dialogo interculturale, grande passo verso la
modernità e in un certo senso podromo dell’odierna globalizzazione.
Con la Crociata del 1228 – 1229, Federico ebbe la sua personale avventura orientale e
il primo diretto contatto con il mondo arabo – islamico d’Oriente. Essa fu una crociata
diversa in quanto non era stata indetta dal papato, ma fu organizzata dall’imperatore
per riallacciare i rapporti con il papa, che poco tempo prima lo aveva scomunicato. Lo
Svevo voleva consolidare, con il prestigio di liberatore del Santo Sepolcro, la sua
posizione di sommo monarca cristiano. La Crociata non si risolse nel sangue, ma
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divenne un gioco diplomatico dal quale l’imperatore, grazie al dialogo interculturale
instaurato con gli esponenti del mondo orientale, ne uscì vincitore. Infatti con questa
“crociata diplomatica” Federico potè negoziare una tregua decennale, che gli permise
di gingere senza combattere la corona di Gerusalemme, restituendo alla cristianità
Betlemme e Nazareth. <<L’imperatore rientrava in possesso di Gerusalemme, ad
eccezione del recinto di Haran-esh-Sherif, luogo sacro ai musulmani, dove sorgevano la
moschea di Omar e il tempio di salomone; ai cristiani era concesso di entrarvi di pregare,
così com’era lecito ai musulmani recarsi a Betlemme, ceduta a Federico. Il quale ebbe
Nazareth, una striscia di terra della costa di Gerusalemme, Sidone, Cesarea, Acri e altro
ancora. […] Federico II aveva ottenuto quanto era fallito a tutti gli altri crociati dopo la
conquista di Gerusalemme da parte del Saladino: la liberazione cioè della città
santa>>[31]. La “crociata diplomatica”, oltre agli importanti risultati politici, è
importante per illustrare il dialogo interculturale che Federico II riuscì a instaurare
con le autorità arabe, grazie all’immenso bagaglio culturale posseduto dallo stupor
mundi. In particolare strinse amicizia con il sultano d’Egitto Al-Malik Al-Kamil e il suo
emiro Fahr-ed-Din: con il primo discusse di algebra e con il secondo di filosofia e
architettura[32]. Durante questa sua permanenza in Oriente, furono molteplici in cui il
poliglotta imperatore diede prova della sua grande levatura intellettuale e della sua
predisposizione verso una cultura del tutto opposta al mondo che lui rappresentava.
Uno di questi episodi accadde a Gerusalemme, dove Federico risiedeva presso il kadi
Shams-ed-Din. <<Per gentilezza verso il suo amico e per non recare offesa ai suoi
sentimenti religiosi, il sultano aveva espressamente vietato ai muezzin di chiamare i fedeli
alla preghiera per il tempo del soggiorno dell’imperatore. Uno di loro però, dimentico
dell’ordine, salì un mattino in cima al minareto e cominciò a recitare proprio dei versetti
avversi ai cristiani. Richiesto di spiegazioni dal kadi, tralasciò la funzione della seconda
parte della notte. Il mattino seguente, Federico fece chiamare il kadi e gli domandò perchè
il muezzin non avesse lanciato il suo grido; quando seppe dell’ordine del sutano:”O Kadi” si
dice abbia risposto “farei ingiustizia a voi, se, per me, doveste cambiare culto religione
costumi. Neppure se voi foste nella mia terra, dovreste mutare i vostri usi”. E infatti,
quando più tardi un dotto arabo si recò a visitare re Manfredi [figlio di Federico], fu non
poco stupito di udire il muezzin chiamare in arabo i fedeli alla preghiera dall’alto dalle
torri di Lucera>>[33]. Anche dopo il ritorno in Occidente, l’imperatore mantenne vivo il
rapporto epistolare con i musulmani, che conservarono un buon ricordo
dell’imperatore, il quale, come nota Kantorowicz, <<un pò per interesse, un pò per
inclinazione personale, s’era sempre mostrato come uno di loro e, se, aveva una sincera
ammirazione specialmente per la scienza araba, aveva pure ostentato in ogni occasione
un profondo rispetto per la loro religione e i loro costumi>>[34]. Dopo questi mirabili
risultati, sia a livello politico che culturale, Federico II ritornerà nei suoi possedimenti
d’Occidente, dove cercherà di risolvere i problemi e le vicende che attanaglieranno il
suo vasto impero fino alla sua morte.
Conclusioni
Scopo del mio studio era illustrare in breve tutto quello che fece parte dell’eredità
arabo-normanna lasciata allo stupor mundi. Tramite le opere di Abulafia, Daniel,
Kantorowicz e Rizzitano ho analizzato tutti gli elementi che diedero vita al bagaglio
storico e culturale dell’imperatore svevo. Per avere una visione ampia e non solo
soggettiva e univoca, ho preso in considerazioni i suddetti studiosi per le loro
differenti opinioni su Federico II di Svevia. I due più noti, Kantorowicz e Abulafia
hanno scritto due opere monumentali sul sovrano ma completamente opposte.
Kantorowicz, erede della storiografia tedesca ottocentesca, vede in Federico II il
fondatore dello stata laico, ne tesse le lodi e lo giudica come uno dei primi sovrani
moderni sul trono, il cui potere non è più basato solo sulla legittimazione divina ma è
regolata da un apparato legislativo (le Costituzioni di Melfi). Abulafia, invece, ha un
parere negativo e lo qualifica come un imperatore uguale a tanti altri della sua epoca.
Il titolo della sua opera “Federico II. Un imperatore medievale” è già un titolo
programmatico, con il quale sottolinea la figura di un sovrano tradizionalista e
conservatore. Per Abulafia Federico non è il monarca moderno e illuminato di
Kantorowicz, ma è un semplice sovrano medievale, che vuole conservare il potere
ereditato per diritto di nascita. Se Kantorowicz sottolinea il suo ruolo di mecenate e
cultore e protettore della cultura araba, Abulafia descrive la sua corte meno ricca a
livello intellettuale di quella dei suoi antenati normanni e l’imperatore come una
persona poco tollerante dei figli del Profeta. Ed è soprattutto con la Crociata che
Abulafia con grande fervore che Federico II fosse solo un uomo medievale, ancorato
all’idea della liberazione della Terra Santa per volere divino e poichè monarca
cristiano quindi per obbligo verso la Chiesa. Come invece evidenziato da Kantorowicz
e altri studiosi, Federico intraprese la Crociata solo per interesse politico e non perchè
mosso da fervore religioso. Lo studioso Daniel sembra inserirsi sulla scia di Abulafia e
scrive di Federico come di un opportunista alla stregua degli Altavilla. Per quanto
riguarda la sfera culturale giudica il suo mecenatismo come quello di un dilettante e
insinua che alcuni studiosi presenti nella sua corte (come Michele Scoto) non fossero
poi così di alto livello come invece narrano le fonti. Infine Rizzitano torna a descrivere
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l’imperatore come un sovrano di alta levatura intellettuale, amante della cultura araba
e la cui corte fu un cenacolo per i cultori dell’Islam-pensiero. Nonostante la varietà di
pareri contrastanti, a mio avviso (molto soggettivo essendo nata in Sicilia e perciò
avendo insito nel sangue il bagaglio culturale della storia siciliana) Federico II fu un
monarca illuminato e un grande intellettuale, che diede lustro al Regno di Sicilia e che
fu degno erede degli avi normanni e del Barbarossa. Mi piace anche pensare che se
fosse vissuto ancora qualche anno e il fato gli fosse stato propizio, avrebbe di sicuro
sconfitto la Lega Lombarda, i Comuni e il Papato e l’Italia come stato unitario e
nazionale sarebbe sorta già otto secoli fa. Mi piace pensare inoltre che la “questione
meridionale”, il profondo divario tra nord e sud, non sarebbe mai esistito poichè
Federico, che aveva saputo far convivere pacificamente etnie e religioni diverse,
avrebbe portato ricchezza e benessere a tutto il territorio, utilizzando al massimo le
risorse specifiche di ogni regione. Federico II di Svevia si spense però il 13 dicembre
del 1250. Per mancanza di tempo e di eredi che non seppero eguagliarlo, questo
sogno è solo una chimera, un’utopia, che solo un sovrano definito “Meraviglia del
mondo” avrebbe saputo realizzare.
Bibliografia
U. Rizzitano, Storia e cu
[1]Con la definizione di Apulia in quel periodo si indicavano i territori non solo della
Puglia, ma anche della Basilicata attuali, più in generale indicava il Regno di Sicilia.
[2]Cfr. J. Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien, in trad. Ital. Firenze 1921; E.
Kantarowicz, Federico II, Imperatore, Milano 1976.
[8]Gli Arabi recuperarono le opere della filosofia greca in particolare quelle di Platone
e Aristotale, la cui conoscenza era andata perduta nell’Occidente latino nei secoli
dell’Alto Medioevo e la trasmisero in Europa tramite centri cosmopoliti come lo erano
la Sicilia e la Spagna. Particolare importanza avranno i commenti all’opera aristotelica
da parte di filosofi come Averroè, la cui traduzione permetterà il fiorire della cultura
universitaria europea, soprattutto per le facoltà di medicina, arti liberali e teologia.
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[9]Tra gli scienziati furono studiati in particolare il matematico e astronomo Al-
Khwarizmi, il medico Avicenna (autore di una canone di medicina), il fisico Alhazen
(famoso per il suo trattato di ottica).
[10]Cfr. U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo 1976, p. 269.
[11]Cfr. G. Vitolo, Medioevo. I caretteri originali di un’età di transizione, Milano 2000, pp.
312-315.
[12]Cfr. N. Daniel, Gli Arabi e l’Europa nel Medio Evo, Bologna 1998, pp. 242-243.
[13]Cit. N. Daniel, Gli Arabi e l’Europa nel Medio Evo, Bologna 1998, p. 243.
[14]Cfr. N. Daniel, Gli Arabi e l’Europa nel Medioe Evo, Bologna 1998, p. 237.
[17]Cfr. U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo 1975, pp. 276 – 278.
[18] AL-IDRISI, Libro del re Ruggero, trad. ital. a cura di M. Amari e C. Schiaparelli,
Roma 1883.
[19]Cfr. U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo 1975, nota 21 p.
283.
[22]Cfr. U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicila saracena, Palermo 1975, pp. 283-285.
[23]Cit. U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicila saracena, Palermo 1975, p. 287.
[26]Cfr. N. Daniel, Gli Arabi e l’Europa nel Medio Evo, Bologna 1998, pp. 244-245
[30]Cit. Ibidem.
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[32]Cfr. E. Kantorowicz, Federico II, imperatore, Milano 1976, p. 178.
[35]Cfr. Per la figura di Michelo Scoto: D. Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale,
Torino 1990, p. 214; F. Gabrieli, Federico II e la cultura musulmana in Atti del convegno
internazionale di Studi Federiciani, Palermo 1952, p. 443; E. Kantorowicz, Federico II
imperatore, Milano 1976, p. 305; U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena,
Palermo 1975, pp. 321-324.
[36]Cit. U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo 1975, p. 324.
[38]Cfr. Per le figure di Jacob Anatoli e Mosè ben Samuel ibn Tibbon: U. Rizzitano,
Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo 1975, p. 327.
[41] Federico II di Svevia, De arte venandi cum avibus, trad. ital. a cura di A.L. Trombetti
Brudiesi, Bari 2000.
[45]Cit. U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo 1975, p. 328.
[46] I. Sab’In, Libro delle questioni siciliane in Biblioteca arabo-sicula vol.3 di M. Amari,
Milano1942.
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