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14/9/2018 Clarice Lispector, divoratrice di interdetti | il manifesto
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Antonio Soares, «Natacha», 1928
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al Cuore Selvaggio. I suoi libri non erano mai risultati di facile collocazione nel panorama
letterario nazionale, tanto che, se proprio si doveva iscriverli in una tradizione, succedeva
che a venire evocati, più che altro per il comune ricorso alla tecnica del flusso di coscienza,
fossero Joyce o Virginia Woolf; mai, comunque, un altro scrittore brasiliano.
Con Acqua Viva, però, da molti considerato il suo capolavoro, Clarice Lispector sembra
consapevole di essersi addentrata in una indeterminatezza ancor più radicale, quasi
pericolosa; prima di tutto perché la trama, sempre leggera, pretestuosa, stavolta è
addirittura assente. In sintesi: un «Io-femmina», che è un’artista e per mestiere dipinge, si
lancia con sbandierata imperizia in una lettera che forse non consegnerà mai, diretta a un
«Tu», in passato suo amante, del quale non sapremo altro. È a Tu che Io reca in dono le sue
stralunate prede linguistico-esistenziali: quegli «istanti-adesso» che, nel loro fluire da un
presente all’altro, trasportano nascosto fra le righe l’«è» della vita, cioè l’atto in sé di vivere.
L’«è» è il verbo dell’«it», che è materia avanzata dalla creazione e vicina all’origine, intesa
come bíos indifferenziato e pre-individuale il quale trova nell’utero e nelle grotte il suo
ambiente naturale: «L’oscurità», dice Io, «è il mio brodo di coltura».
È facile ritrovare questi stessi temi altrove, disseminati nell’opera di Clarice Lispector:
l’ossessione per la fluidità, l’aderenza al sentire che prevale sui fatti narrati; la venerazione
per il mondo animale e vegetale, che conserverebbe intatte le proprie virtù primigenie,
quindi divine; il linguaggio disancorato, ossuto ma allo stesso tempo favolistico, sempre
alogico come può esserlo, folle, la matematica. Tutto questo compone la struttura generale
dell’opera di Clarice Lispector, ma in Acqua Viva l’assenza di un intreccio estremizza queste
costanti: si avanza per profezie, lampi e privazioni.
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iniziazione si fossero già svolti. Non si può non pensare a La Passione secondo G.H., uscito
nel 1964, forse il più sconvolgente fra i romanzi dell’autrice, dove la protagonista, che nutre
un’avversione fortissima per gli scarafaggi, ne trova uno nella stanza della donna di servizio.
Il ribrezzo la spinge a schiacciarlo nell’anta dell’armadio, per subito dopo scoprirsi, scrive
Angelo Morino, a «ricongiungersi all’immondo», cioè a mangiare la vita pastosa: la cremosità
biancastra fuoriuscita dall’addome della bestia.
Se non in maniera altrettanto letterale, la stessa cosa era già successa a Joana in Vicino al
Cuore Selvaggio, quando dice che il dolcetto mangiato insieme al caffè aveva un sapore
strano, di «vino e blatta». Cibarsi dell’interdetto significa annettersi la sacralità del neutro,
incontenibile nei parametri austeri del genere maschile o femminile. Perciò il terrore degli
specchi e l’attrazione verso di essi, che ricorre in tutta l’opera di Clarice Lispector: nel loro
riflesso si teme di vedere un corpo, limite supremo alla propria capacità espansiva.
Suocere africane che arrivano a portarsi via il casco di banane, il ventre dell’alba sempre
«pieno di uccellini», la civetta riluttante ad abbandonare la donna che l’ha allevata: sono le
immagini e gli aneddoti che rendono questo testo, «a-tematico» e antidiscorsivo, vivibile,
anzi respirabile e godibilissimo. Anche grazie al conforto di queste rare boe, lasciarsi andare
all’acqua-viva – espressione che in portoghese significa anche medusa – è un’esperienza
straordinaria, tirati come si è dalla gioia selvaggia di quel principiante assoluto che è Io, il
quale fa cominciare il suo resoconto primitivo con queste parole: «È con un’allegria così
profonda. È una tale alleluia. Alleluia, grido, alleluia».
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