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sileno

direttori
michele r. cataudella (resp.)
casimiro nicolosi
giovanni salanitro

comitato scientifico
géza alföldi†
filippo di benedetto
enrico flores
hans-joachim gehrke
gian franco gianotti
didier marcotte

redazione
serena bianchetti, adalberto magnelli,
carmela mandolfo, gabriele marasco†,
giuseppe mariotta, ida mastrorosa, vincenzo ortoleva,
annamaria pavano, maria rosaria petringa,
anna quartarone salanitro

Direzione
Prof. Michele R. Cataudella
Università di Firenze - Dipartimento di Storia
via San Gallo 10 - 50129 Firenze
Tel. 055 2757902/3/4/5

Redazione
Dott.ssa Anna Quartarone Salanitro
via Andrea Costa 8 - 95129 Catania
Tel. 095 532591
sileno
rivista semestrale
di studi classici e cristiani
fondata da quintino cataudella

anno xxxviii
1-2/2012

Agorà & Co.


Laborem saepe Fortuna facilis sequitur
Sileno è una pubblicazione semestrale
Condizioni di abbonamento: € 75,00
Costo di un numero (due fascicoli): € 80,00
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I-50125 Firenze
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Volume pubblicato con il concorso del Consiglio Nazionale delle Ricerche


e dell’Università degli Studi di Catania

«Sileno» is an International Peer-Reviewed Journal

©2012 agorà & co.


Lugano

E-mail: infoagoraco@gmail.com

proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i paesi


È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica,
la riproduzione totale e parziale, con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico

issn 1128-2118
SOMMARIO

Articoli

Ilenia Achilli
Diod. Sic. 20,43,7. Percorsi polibiani nella Biblioteca Storica 1

Carmen Arcidiacono
Il contributo dei Versus ad gratiam Domini alla ricostruzione
dell’ipotesto virgiliano 21

Sergio Audano
I signa del giudizio nel centone De ecclesia (AL 16 R2):
testo ed esegesi dei vv. 89-91 55

Silvia Canton
Cultura classica e ascetismo cristiano in san Girolamo: incontro o scontro? 89

Alessandra Coppola
Diodoro 16.91-93: la morte di Filippo II 109

Claudio Faustinelli
Sul valore semantico di depilati in Non. 36, 26 = Lucil. 845 M. 125

Carmela Mandolfo
Sulla Praefatio programmatica delle Formulae spiritalis intellegentiae
e sulla terminologia esegetica di Eucherio di Lione 151

Francesco Mari
La destra del Re 181

Note

Ilenia Achilli
Sullo scrittoio dello storico: in margine a D. Pausch (ed.),
Stimmen der Geschichte. Funktionen von Reden
in der antiken Historiographie 205

Carmen Arcidiacono
Il tema della fides nei Versus ad gratiam Domini 213

VII
sommario

Sergio Audano
Le molte strade del centone virgiliano cristiano:
in margine a tre recenti edizioni 225

Manuela Callipo
Nota a Τέχνη γραμματική, GG 1/1 32, 1: il nome dell’accusativo 257

Carmelo Crimi
Nazianzenica XVIII. Le donne di Massimo il Cinico 265

Paolo Fedeli
L’inno ad Ercole nella chiusa di Prop. 4,9 273

Silvia Fenoglio
Omero, l’Oceano fonte del sapere: i proemi ai commentari all’Iliade
e all’Odissea di Eustazio di Tessalonica 283

Lellida Todini
Mostri, ninfe ed elefanti a Samo: Euagon e le Neidi 297

Pietro Zaccaria
Plu. mor. 734 b e le Efemeridi di Alessandro 313

Cronache

Sergio Audano
Presentazione del centone Versus ad gratiam Domini.
(Chiavari, 13 febbraio 2012) 319

Ricordi

Umberto Bultrighini
Racconto di un Maestro: Domenico Musti (1934-2010) 325

Didier Marcotte
André Laronde (1940-2011) 351

Giovanni Salanitro
Mario Geymonat (Torino 1941 - Venezia 2012) 355

VIII
sommario

Recensioni

Menandro, Lo scudo, cura di P. Ingrosso (P. Cipolla) 359

M. Paladini, Lucrezio e l’epicureismo tra Riforma


e Controriforma, (C. Mandolfo) 366

Lucio Anneo Seneca, La clemenza, Apocolocyntosis, Epigrammi,


Frammenti, a cura di L. De Biasi et alii (A. A. Raschieri) 372

AA.VV., Lo spazio letterario di Roma antica. I testi: la poesia,


vol. VI, Direttore P. Parroni (G. Salanitro) 377

F. Feraco, Ammiano geografo. Nuovi Studi (V. Sineri) 379

M. Callipo, Dionisio Trace e la tradizione grammaticale (L. Spina) 383

Ricordo di Delfino Ambaglio, a cura di M. T. Zambianchi (R. Trevisan) 386

Notiziario bibliografico 391

IX
LE MOLTE STRADE DEL CENTONE VIRGILIANO CRISTIANO:
IN MARGINE A TRE RECENTI EDIZIONI

sergio audano

Opprobria litterarum. Questo fu il giudizio, insindacabile nella sua peren-


torietà, con cui Shackleton Bailey motivò nel 1982 la scelta di non inclu-
dere i Centones Vergiliani nella sua edizione dell’Anthologia Latina. Per
fortuna la filologia non conosce sentenze definitive, soprattutto quando
a formularle è stato uno studioso indiscutibilmente autorevole, ma con
la tendenza a dir poco eccessiva verso la facile congettura, come, tra gli
altri, mise in giusto rilievo Sebastiano Timpanaro1. Si trattava, in realtà, di
una valutazione tanto ingiusta quanto miope, derivata dall’incapacità di
misurarsi criticamente con una forma poetica, come il centone, così radi-
calmente diversa da quelle consuete, di cui si voleva scorgere solo la natura
bizzarra e compilatoria, ma anche dall’insofferenza verso una prospettiva
storica che pone al centro la trasmissione dei testi e il loro dialogo nel tem-
po con le diverse espressioni culturali incontrate lungo il loro percorso,

1
«Supercongetturatore». Questo emblematico epiteto fu coniato da Timpanaro nei con-
fronti di Shackleton Bailey nello splendido ritratto di Scevola Mariotti in «Belfagor» 58/3,
1993, 319; in questo articolo sono discusse, e spesso contestate per il loro eccesso di arbi-
trarietà, diverse proposte testuali relative all’Anthologia Latina (307-313). Timpanaro, pur
nel dissenso, espresse sempre rispetto e ammirazione verso lo studioso anglo-americano,
definito, ad esempio, «dotto e geniale» in S. Timpanaro, Contributi di filologia greca e latina
(a cura di E. Narducci), Firenze 2005, 257; sempre in Contributi cit., 301, a proposito delle
Notes on Velleius di Shackleton Bailey scrive: «anche qui, come sempre, questo studioso
geniale ma intemperante congetturò troppo».

225
sergio audano

secondo la lezione metodologica di Pasquali e, nel caso virgiliano, anche


di Comparetti.
Sono passati trent’anni da allora e un primo bilancio di questo arco
temporale dimostra come la prospettiva sia radicalmente mutata: la poesia
centonaria non è più considerata alla stregua di una stravaganza bizzarra,
ma, al contrario, appare in tutta la sua complessità, come un fenomeno
che, mediante il fil rouge della poesia, congiunge direttamente la cultura
pagana con quella cristiana, per di più globalmente, tanto in àmbito greco
quanto latino. E rivela molto bene, inoltre, la problematicità del confronto
tra le due culture, in particolare sul versante cristiano dove non erano rare
le reazioni diffidenti, se non addirittura ostili (valga per tutte la celebre
polemica di Girolamo contro il centone di Proba), verso questa particolare
tipologia poetica che indubbiamente legava strettamente, nel nome della
forma poetica, i versanti moderati, e quindi maggiormente alieni dalle fa-
ziosità esasperate, di entrambe le parti. In conclusione, il centone non si
manifesta più nei panni scontati di un banale lusus per modesti intellettua-
li di provincia, smaniosi di gareggiare con i poeti più emblematici della tra-
dizione classica mediante astruse tecniche combinatorie, ma, soprattutto
sul versante latino, si rivela anche un documento prezioso che offre nuovi
elementi alla tradizione indiretta del testo virgiliano.
Merito non piccolo della filologia italiana del Novecento è aver contri-
buito in maniera determinante a questa inversione di rotta, fornendo le
basi per il rinnovato fervore di interesse che si è ulteriormente sviluppato
nell’ultimo decennio2. Dopo le edizioni storiche di Baehrens, di Schenkl
(che per primo mise insieme i centoni virgiliani cristiani) e di Riese, le voci
che offrirono nel secolo scorso un rilevante contributo critico alla poesia
centonaria, relativo sia al rapporto testuale col modello sia all’analisi inter-
na di singoli componimenti, furono in larga misura italiane, dai pionieri-

2
Nell’ultimo decennio, oltre alle edizioni di Salanitro che saranno in seguito menzio-
nate, sono da ricordare, per limitarci all’àmbito italiano, quelle del centone De alea di G.
Carbone, Napoli 2002; dell’Hippodamia a cura di P. Paolucci, Hildesheim 2006 (importan-
te per tutta una serie di notazioni di tecnica centonaria, in particolare l’elaborazione del
fenomeno combinatorio della uox propinqua) e, contemporaneamente a Sineri, un’altra
edizione di Proba, a cura di A. Badini e A. Rizzi (Proba, Il centone, Bologna 2011), un testo
purtroppo poco interessato a problemi filologici, ma con un taglio di carattere teologico e
pastorale, settore nel quale non mancano osservazioni lucide e molto pertinenti. Consta
che siano attualmente in preparazione un’edizione dell’Alcesta, a cura ancora di Paolucci,
e, per quel che riguarda i centoni cristiani, una del De ecclesia a opera di F. Formica.

226
le molte strade del centone virgiliano cristiano

stici lavori di Francesco Ermini su Proba nei primi del Novecento (il suo
Il centone di Proba e la poesia centonaria latina risale al 1909), agli studi
indubbiamente più solidi filologicamente di Rosa Lamacchia, di Marialisa
Ricci e di Giovanni Salanitro3. A quest’ultimo si deve la realizzazione di un
organico progetto di ricerca, che, iniziato con le sue edizioni dei centoni
«pagani»4, trova ora il suo pieno completamento con la recentissima pub-
blicazione, preceduta nel 2010 dal De ecclesia a cura di Adriana Damico5,
dei rimanenti tre centoni cristiani6, i Versus ad gratiam Domini (o Tityrus,
come poi lo denomineremo) di Carmen Arcidiacono, il De Verbi incarna-
tione di Eleonora Giampiccolo e il Centone di Proba di Valentina Sineri7.

3
Al fine di evitare elenchi tediosi (e inevitabilmente incompleti), mi sono limitato a
menzionare gli studiosi che hanno dimostrato una continuità di ricerca sui centoni nel
corso del tempo, soprattutto in anni nei quali il giudizio critico su questa tipologia lette-
raria non era dissimile da quello così ferocemente «epigrammatico» di Shackleton Bailey;
ovviamente non mancano contributi rilevanti di altri studiosi, seppure più episodici sull’ar-
gomento specifici, in particolare l’ottima voce I centoni di G. Polara in G. Cavallo - P. Fedeli
- A. Giardina (curr.), Lo spazio letterario di Roma antica. 3. La ricezione del testo, Roma
1990, 245-275. Tutte e tre le edizioni che saranno discusse contengono ottimi e aggiornati
repertori bibliografici ai quali ovviamente rimando.
4
Della gran messe di contributi sulla poesia centonaria di G. Salanitro, in più di un tren-
tennio di ricerche sul tema, è opportuno ricordare, per continuità di metodo con i lavori
delle sue allieve, almeno le edizioni della Medea di Osidio Geta (Roma 1981), contempora-
nea a quella teubneriana di R. Lamacchia (Leipzig 1981), dell’Alcesta (Acireale-Roma 2007)
e la Silloge dei Vergiliocentones minores (Acireale-Roma 2009): questi due ultimi volumi
appartengono alla collana Multa Paucis dell’Editore Bonanno, diretta sempre da Salanitro,
in cui sono stati pubblicati prima il De ecclesia di A. Damico nel 2010 e ora il centone di
Proba e il De Verbi incarnatione (ne costituiscono rispettivamente i voll. 6, 10 e 11).
5
A. Damico, De ecclesia. Cento Vergilianus, Acireale-Roma 2010; l’edizione ha già ri-
cevuto numerose recensioni (oltre a quella del sottoscritto in «Sileno» 37, 2011, 266-274):
S. Condorelli in «BSL» 40/2, 2010, 812-814; P. Tempone in «AL Riv» 1, 2010, 371-377; E.
Bona in «Eikasmos» 22, 2011, 473-476, e l’ampio e dotto articolo/recensione di F. Formica,
Il centone virgiliano cristiano De ecclesia, «Vichiana» 13/2, 2011, 284-303.
6
Sui centoni virgiliani cristiani è d’obbligo il rinvio al recente studio complessivo di M.
Bažil, Centones Christiani. Métamorphoses d’une forme intertextuelle dans la poésie latine
chrétienne de l’Antiquité tardive, Paris 2009, ampiamente discusso dalle tre autrici. Di qual-
che anno prima è un altro importante lavoro, incentrato sull’analisi della tecnica composi-
tiva della poesia centonaria cristiana: S. McGill, Vergil recomposed, Oxford 2005.
7
C. Arcidiacono, Il centone virgiliano cristiano «Versus ad gratiam Domini». Introdu-
zione, edizione critica, traduzione e commento, Alessandria 2011; E. Giampiccolo, De Verbi
incarnatione. Cento Vergilianus, Acireale-Roma 2011; V. Sineri, Il centone di Proba, Aci-
reale-Roma 2011.

227
sergio audano

Cercherò successivamente di illustrare in dettaglio le caratteristiche più


salienti, e peculiari, di ciascuno di questi volumi: ora, invece, vorrei met-
tere in luce una serie di elementi in comune, che derivano in larga misura
da una serie di indicazioni di metodo fornite dallo stesso Salanitro e che
contribuiscono a fornire a queste edizioni una loro omogeneità di fondo
nell’impostazione del lavoro di ricerca. Si tratta, in particolare, di definire
la specificità artistica della poesia centonaria, ma anche di valutarne l’ap-
porto ai fini della constitutio textus virgiliana8: l’antichità di questi testi,
tutti e tre databili tra IV e V secolo (solo per Proba sono possibili infor-
mazioni più puntuali), offre, infatti, la possibile di accostarci a uno stadio
della trasmissione virgiliana coevo, se non addirittura anteriore, rispetto
alle più vetuste testimonianze manoscritte.

Le tre studiose hanno condotto un’approfondita opera di verifica sulla na-


tura dei propri testi, ma hanno, in varia misura, allargato la prospettiva di
indagine collocando questa tipologia di produzione nel delicato trapasso
culturale tra paganesimo e cristianesimo. Il centonario cristiano ha, infat-
ti, l’esigenza di procedere a una risemantizzazione plausibile dell’ipotesto
virgiliano, in grado di dialogare con le Sacre Scritture evitando per giun-
ta il rischio di scivolare in pericolosi errori dottrinali. Ma i centoni sono
davvero «tutti» uguali? Il primo merito di questi nuovi lavori consiste, a
mio parere, nell’aver capovolto il punto di vista dell’analisi: non più una
semplice presa d’atto del «prodotto finale», col rischio di giudizi unilaterali
alla Shackleton Bailey derivati dalla percezione di una scadente uniformità
esteriore, ma, al contrario, la verifica a monte dell’intero processo compo-
sitivo, delle sue modalità tecniche, e, di conseguenza, delle caratteristiche
specifiche di ciascun componimento.
Ne emerge un quadro più variegato del previsto, che ridimensiona anche
alcuni tradizionali luoghi comuni della critica, come l’esclusivo legame tra
produzione centonaria e ambiente scolastico: indubbiamente la fruizione
scolastica di Virgilio riveste la sua importanza decisiva, come ribadisce ad
esempio Giampiccolo, secondo cui gli autori di questi centoni sarebbero
dei «grammatici, nutriti di cultura scolastica, con una non indifferente abi-
lità mnemonica»9. La matrice scolastica, tuttavia, da semplice strumento
«passivo», di mero approccio mnemonico al testo, si tramuta in elemen-

8
Queste priorità critiche sono state formulate da Salanitro in Silloge cit., 13-14.
9
Giampiccolo, op. cit., 18.

228
le molte strade del centone virgiliano cristiano

to «attivo» proprio perché contribuisce a formare un tipo di pubblico in


grado di apprezzare e valutare le capacità artistiche del centonario. Molto
opportunamente, Arcidiacono rileva come «i Vergiliocentones, infatti, lun-
gi dall’essere meri esercizi di ‘scuola’, frutto di memoria e non di poesia,
vantano innegabilmente una loro originalità, in virtù della quale possono
definirsi un autentico esempio di ‘imitazione creativa’»10.
Non si tratta di una contraddizione: la scuola continua naturalmente a
offrire il proprio decisivo imprinting, mediante l’acquisizione di una tec-
nica approfondita di lettura di Virgilio, ma non si presenta più come uno
spazio chiuso, aristocraticamente isolato dal contesto sociale. Al contrario,
si propone come un soggetto capace di creare intorno all’opera virgiliana
la condivisione di una memoria culturale, in grado, a sua volta, di superare
le barriere religiose e ideologiche, nonostante, come accennato, i sempre
concreti rischi del fanatismo11: una funzione, quindi, davvero moderna, di
«intercultura», indubbiamente ancora rivolta a una élite, ma meno rigida
di quanto si ipotizzasse in passato. E in questo contesto così articolato,
come ha ben argomentato Sineri, l’operazione di composizione dei cento-
ni non mira «a sostituire Virgilio, a destrutturarlo facendolo sparire dietro
il nuovo testo», ma acquisisce il suo pieno apprezzamento nel momento
in cui interviene «nella mente del lettore (o ascoltatore) l’agnizione dei
corrispondenti passi virgiliani»12. E questa competenza attiva da parte del
fruitore è rimarcata anche da Giampiccolo, la quale pone l’ascoltatore/let-
tore nel ruolo di vero e proprio «interlocutore», delle cui competenze in
materia virgiliana, oltre che più generale del suo orizzonte d’attesa (quindi
dei possibili collegamenti con le dottrine cristiane), l’autore si dimostra
pienamente consapevole13.
Ne consegue, quindi, che la tecnica centonaria è indubbiamente ricono-
scibile dalla sua caratteristica modalità compositiva, disciplinata secondo
regole precise (ma come vedremo forse meno tassative di quanto si rite-
nesse), ma si rende utilizzabile non tanto in vista di un esercizio ripetitivo

10
Arcidiacono, op. cit., 7-8.
11
Mi pare condivisibile l’equilibrata posizione di Arcidiacono, op. cit., 46, la quale parla
di «ricerca di un compromesso tra cultura cristiana e cultura pagana, a condizione che
quest’ultima si limiti a fungere da semplice ornamento dei contenuti di fede».
12
Sineri, op. cit., 27.
13
Giampiccolo, op. cit., 24, la quale nella n. 61 richiama l’inquadramento teorico offerto
dagli studi di M. G. Bonanno, L’allusione necessaria. Ricerche intertestuali sulla poesia greca
e latina, Roma 1990.

229
sergio audano

nella fattura e uniforme nei contenuti, come troppo a lungo si è pensato,


quanto piuttosto per la realizzazione di forme letterarie diverse: dall’epos
biblico di Proba, che divenne ben presto un testo esemplare, forse un vero
e proprio «filtro» rispetto agli altri centoni cristiani14, si passa all’ ‘ecloga
cristiana’ del Tityrus e ai componimenti didattici sulla verità della fede,
come il De Verbi incarnatione e il De ecclesia. Dall’analisi fornita dalle tre
studiose trova, quindi, conferma il presupposto che il centone non rappre-
senta un vero e proprio «genere» a sé stante, dotato di conseguenza di una
sua «grammatica» ben identificabile, ma piuttosto la «veste» esteriore che
ammanta generi diversi, accomunati dalla medesima struttura formale no-
nostante la loro specificità tematica15. La tecnica centonaria non è, in con-
clusione, esclusivamente un «fine» (anche se rimane, come vedremo, ben
presente la tensione agonistica col modello, soprattutto al fine della sua
risemantizzazione cristiana), ma un «mezzo» formale che non impedisce
di collocare i diversi componimenti centonari a noi sopraggiunti nel solco
della tradizionale produzione classica, come l’epica, la bucolica, la poesia
didascalica (non a caso i tre generi virgiliani), talora procedendo anche a
forme di contaminazione di genere, ad esempio la presenza del modello
didascalico delle Georgiche nella tessitura della sezione veterotestamenta-
ria di Proba, che si viene così a intrecciare con l’ispirazione epicheggiante
dell’intero centone16.
Le parole di Sineri aprono anche un’altra interessante prospettiva: pos-
siamo parlare per i centoni di una fruizione esclusivamente scritta, magari
per un ristretto manipolo di esperti? In altre parole, questi componimenti
erano concepiti e finalizzati solo per una dotta lettura individuale oppure
è possibile ipotizzare ulteriori contesti per il loro utilizzo? Emergono, a

14
Arcidiacono, op. cit., 51.
15
L’ipotesi di considerare il centone come un genere letterario autonomo era stata avan-
zata da Carbone, op. cit., 25-30, la quale ne sottolinea la caratteristica della «trasversalità»;
tuttavia questa possibilità non è stata recepita dalle curatrici che parlano comunemente
di «tecnica centonaria». Una decisa presa posizione negativa, invece, in Bažil, op. cit., 12,
il quale, a proposito del centone, ritiene che «ce terme ne désigne pas un simple genre
littéraire, mais une technique d’écriture particulière, et éventuellement aussi un corpus de
textus, unis par un semblable mode de naissance (à partir de citations) plutôt que par des
parallèles au niveau du contenu, du mode de narration, etc)».
16
La rilevanza della funzione delle Georgiche è stata individuata da M. L. Ricci, Motivi
arcadici in alcuni centoni virgiliani cristiani, in Atti del Convegno virgiliano sul bimillenario
delle Georgiche, Napoli 1977, 489-496, e, più di recente, da Bažil, op. cit., 144-147.

230
le molte strade del centone virgiliano cristiano

mio avviso, interessanti indizi in questa direzione: in alcuni manoscritti il


centone di Proba è preceduto da un anonimo epigramma dedicatorio (AL
719d R.2) 17, che si conclude con un invito al destinatario affinché salda-
mente custodisca i contenuti del poema, insegnandoli e tramandandoli ai
propri eredi e discendenti18. Il testo probiano aspira, quindi, a rivestire la
funzione di vettore per la conservazione dell’ideologia dell’optimus prin-
ceps secondo parametri cristiani: le parole non sembrano solo un auspicio
di maniera, poiché è plausibile ipotizzare un’ampia e diffusa circolazio-
ne dei versi di Proba negli ambienti della corte e dell’alto clero al punto
da provocare una vera e propria «moda» centonaria, come appare con-
fermato dall’interesse verso questo tipologia da parte di alcuni esponen-
ti della stessa famiglia imperiale, come Eudocia moglie di Teodosio II19.
Pur rimanendo nel campo delle ipotesi, non possiamo a priori escludere
che ci fossero anche letture pubbliche del centone, magari con modalità
declamatoria per gruppi ristretti di personaggi che, legati alla corte per
varie ragioni, ne condividevano, in modo convinto o per mera piaggeria,
le manifestazioni ideologiche20. La possibilità di una diffusione pubblica

17
Su tutta la problematica relativa all’interpretazione di questo testo, con ampia e ar-
gomentata discussione di larga parte della bibliografia precedente, rimando a Sineri, op.
cit., 13-15 (in particolare 15, n. 9): come noto, alcuni studiosi (come Sivan, Mastandrea e
Corsaro) ritengono che il destinatario sia da identificare con Arcadio, datando il carme tra
il 395 e il 397, mentre Cameron posticipa al 430, ritenendo, invece, che il testo sia indiriz-
zato a Teodosio II.
18
Vv. 12-15: haec relegas seruesque diu tradasque minori / Arcadio, haec ille suo semini,
haec tua semper / accipiat doceatque suos augusta propago.
19
La notorietà del testo di Proba in Oriente «può ben far supporre che la composizione
dei centoni omerici, in parte attribuibili all’imperatrice Eudocia, moglie di Teodosio II,
sia stata ispirata proprio dal modello di Proba» (Sineri, op. cit., 16, n. 10). La vivacità di
scambi letterari tra le diverse parti dell’impero è evidenziata opportunamente anche da
P. Mastandrea, L’epigramma dedicatorio del Cento Vergilianus di Proba (AL 719d Riese):
analisi del testo, ipotesi di datazione e identificazione dell’autore, «BSL» 31, 2001, 579. Su
affinità e differenze tra i centoni di Proba e di Eudocia cfr. C. Mazzucco, Donne e Bibbia nel
cristianesimo tra II e V secolo, in A. Valerio (cur.), Donne e Bibbia: storia ed esegesi, Bologna
2006, 23-49 (soprattutto 40-47).
20
L’ipotesi di una fruizione anche ascoltata, e non solo letta, del centone di Proba (ma è
congettura estendibile a tutti i centoni cristiani) mi pare evincibile anche dal v. 55: matres
atque uiri, pueri innuptaeque puellae. Un’osservazione interessante, che offre argomenti
per un utilizzo più ampio (anche «para-liturgico») del centone di Proba (che forse si può
estendere a tutti i centoni), proviene dal commento di Badini e Rizzi (op. cit., 155), secon-
do le quali «è chiaro che comunque Proba si rivolge a un pubblico di laici e in particolare,

231
sergio audano

del testo di Proba è desumibile anche dall’intervento censorio del cosid-


detto Decreto pseudogelasiano, forse databile alla fine del V secolo, in cui
il nostro centone, come testimonia Isidoro di Siviglia nel De uiris illustri-
bus, è collocato inter apocryphas Scripturas21: sicuramente a monte ci sono
motivazioni di ordine teologico, ma la preoccupazione della Chiesa può
essere anche dovuta a una circolazione più ampia del nostro centone, di
natura forse «para-liturgica», e al fatto che probabilmente esso si leggeva
non solo privatamente ma anche in pubbliche adunanze di fedeli. E per il
loro livello di cultura è probabile che si trattasse di fedeli a vario titolo lega-
ti alla tradizione classica, forse neofiti della fede cristiana, ai quali si voleva
magari offrire un passaggio alla nuova religione privo di eccessivi traumi
intellettuali, forse personaggi dell’establishment politico (come si è sopra
accennato) più attenti, per formazione e mentalità, alle forme letterarie del
passato e meno interessati ai risvolti teologici più specialistici. L’occhiuta
reazione delle istituzioni ecclesiastiche si spiega forse con l’intento di sor-
vegliare un fenomeno ormai diffuso, ma potenzialmente non controllabile
nei suoi effetti: questa può essere la ragione per cui, dopo Proba, gli altri
centonari cristiani sembrano maggiormente attenti, persino nei dettagli, a
dimostrare la propria ortodossia dottrinale, anche a costo di qualche for-
zatura nella risemantizzazione dell’ipotesto virgiliano.
Dalle pagine di queste nuove edizioni emergono interessanti stimoli di
riflessione sulle modalità del rapporto dialettico tra i centoni cristiani e il
modello: si può parlare, ad esempio, esclusivamente di «allusività», ricor-
rendo all’accezione pasqualiana che già Lamacchia aveva trasposto negli
studi sulla poesia centonaria, oppure è plausibile l’apertura a categorie cri-
tiche più attente alla dimensione strutturale del testo, come l’ «intertestua-
lità»? Le tre studiose si confrontano con le teorizzazioni formulate nel suo
recente libro da M. Bažil che, come noto, ricorre proprio all’intertestualità
come strumento ermeneutico per determinare la cifra specifica del cento-
ne cristiano: si tratta, indubbiamente, di una prospettiva molto interessan-
te, che potrà offrire risultati innovativi in vista di una piena riabilitazione

in quanto matres familias, ad un pubblico femminile composte da madri e da ragazze da


marito, non da vergini consacrate».
21
Sull’argomento cfr. Sineri, op. cit., 20-21 n. 20; e anche Badini-Rizzi in Il centone cit.,
52-53, secondo cui «questo, tuttavia, non comportava una totale condanna degli autori o
dei possessori delle opere», in una prospettiva, non del tutto condivisibile a parere di chi
scrive, che pare attenuare il ruolo di controllo che attraverso questo decreto la Chiesa in-
tendeva compiere.

232
le molte strade del centone virgiliano cristiano

critica di questa tipologia poetica, purché il legame intertestuale non sog-


giaccia a schemi strutturali definiti ab initio con eccesso di astrattezza, ma,
al contrario, dimostri la propria reale pertinenza col sostrato storico su cui
si colloca ogni esperienza letteraria. In questo caso la nozione di «allusi-
vità» risultava pienamente soddisfacente: come ha ben rimarcato Giam-
piccolo, questa modalità assume pienezza di senso nel momento in cui «il
centonario non può non esigere che il destinatario della sua opera sia ben
a conoscenza del testo utilizzato»22. Compito del critico, però, non è solo
l’individuazione passiva della «fonte», ma anche quello di valutare la por-
tata effettiva della valenza allusiva in rapporto alla dimensione diacronica
della ricezione del testo modello. In altre parole, il grado di intensità della
pratica allusiva può variare anche a seconda della diversa prospettiva stori-
co-culturale con cui si recepisce l’ipotesto: le allusioni virgiliane di Ovidio
sono, ad esempio, altro dall’imitatio sistematica dell’Eneide da parte degli
epici di età flavia, così come il riuso cristiano da parte dei centonari è a
sua volta un fenomeno radicalmente diverso. Naturalmente per ognuna di
queste modalità è imprescindibile il ruolo attivo del destinatario: il senso
profondo di tali operazioni si realizza nel momento in cui il dialogo tra te-
sti non rimane confinato esclusivamente nello specifico dell’analisi lettera-
ria, ma viene collocato (e valutato) nel suo effettivo significato storico. Nel
caso dei centoni siamo di fronte a un evento indubbiamente estremo, dove
sussiste tra testo di partenza e di arrivo il «massimo di identità formale»23:
in un contesto del genere la collaborazione tra autore e lettore non può
realizzarsi nella prospettiva tradizionale e, di conseguenza, l’allusività, per
realizzarsi compiutamente, necessita di «molte vie», come ha acutamente
rilevato Sineri24. Il centonario viene a creare, in questo modo, una serie va-
riegata di riprese col modello che, grazie al processo di risemantizzazione
in senso cristiano del testo, provocano a loro volta effetti di similitudine
o di contrasto. La prassi allusiva si fa veicolo privilegiato del confronto
tra cultura pagana e religione cristiana: l’operazione, quindi, si tramuta
in qualcosa di più complesso rispetto al semplice gusto imitativo nei con-
fronti di singoli versi o di episodi ben definiti, come accade sovente in Ovi-
dio, oppure, in prospettiva più ampia, alla scelta di collocarsi in sequenza

22
Giampiccolo, op. cit., 20 n. 36.
23
Polara, I centoni cit., 268.
24
Mi riferisco al titolo del par. 4 dell’Introduzione, Osservazioni sulla tecnica centonaria
di Proba: le molte vie dell’allusione, 26.

233
sergio audano

rispetto a un preciso modello di genere letterario, come capita agli epici


di età flavia. E tale effetto si coglie in maniera più visibile nel momento in
cui il rapporto tra centoni e ipotesto si valuta non più solo in termini di
«citazioni» e quindi di «significante», come tipico dell’approccio allusivo,
ma anche di intenzionale ripresa di «strutture», portatrici di «significato»
secondo la modalità intertestuale. Il risultato, a mio parere, più origina-
le della ricerca di Bažil consiste nell’aver dato solido fondamento critico
alla nozione di «réminiscenze conductrice»25: i centonari possono richia-
marsi a sequenze precise del testo virgiliano, in grado di evocare paralleli
facilmente intuibili con le Sacre Scritture. Sineri, pur non menzionando
espressamente il concetto di intertestualità, richiama espressamente la for-
mulazione di Bažil, parlando a sua volta di «reminiscenze guida»26: Proba,
nel caso specifico, si richiama a un preciso brano virgiliano, da cui desume
la maggior parte delle citazioni, talora intercalandovi versi ed emistichi, ad
esempio con funzione formulare (indicazione di tempo o di inizio e fine di
un discorso). Ma la studiosa sa cogliere con finezza la capacità della cen-
tonaria di saper adattare anche questa modalità alle esigenze del proprio
componimento, evitando il rischio di applicazioni troppo meccaniche. A
titolo di esempio, riporto come abbia notato che la ripresa di una breve
sequenza proemiale dal I libro delle Georgiche (vv. 40-42) sia utilizzata da
Proba scomponendo questa «reminiscenza guida», che richiamava l’invo-
cazione a Ottaviano, in due parti. Il primo verso è ripreso al v. 30 del cento-
ne mantenendo la stessa funzione strutturale del modello, ma trasforman-
dosi nell’invocazione a Dio all’interno del proemio veterotestamentario;
i restanti vv. 41-42 sono ripresi ai vv. 411-412 all’interno del discorso del
Padre al Figlio dopo il battesimo nel Giordano. Appare, quindi, evidente,
nel gioco della risemantizzazione cristiana dell’intera scena, il mutato or-
dine culturale e religioso, non esente, a mio giudizio, anche da significative
implicazioni di ordine ideologico e politico: è vero che Dio, nella completa
prospettiva del Padre (Antico Testamento) e del Figlio (Nuovo Testamen-
to), sostituisce nell’invocazione l’imperatore, con piena trasformazione
cristiana del modello, ma rimane facilmente percepibile per il destinatario
come proprio la figura del sovrano sia l’unica, tra tutti gli uomini, a essere
considerata degna di tale interscambiabilità di funzioni. La stessa tecnica è
stata osservata da Arcidiacono per il testo del Tityrus che, però, adottando

25
Bažil, op. cit., 178, dopo aver fornito la definizione di questa modalità a 116.
26
Sineri, op. cit., 27.

234
le molte strade del centone virgiliano cristiano

una terminologia divergente, l’ha definita come riuso di unità virgiliane «a


contenuto autonomo»27. La studiosa offre una gamma di esempi che sono
accomunati dall’utilizzo di sezioni dell’ipotesto dotate di una propria auto-
nomia tematica che al centonario «appaiono facilmente reinterpretabili in
chiave cristiana»28: ne emerge la valorizzazione dell’abilità del centonario
Pomponio, autore del Tityrus (l’unico centonario, oltre a Proba, per cui
l’identità sia suffragabile con un margine di certezza), in grado di ricorrere
all’intertestualità, sul piano della tecnica compositiva, in maniera variega-
ta e mai banalmente ripetitiva, sempre armonizzata, inoltre, dalla conso-
nanza profonda, sul piano dei «significati», tra le specifiche sequenze del
modello e l’ortodossia dei dettami cristiani. A titolo di esempio, mi limito
a menzionare la ripresa di un passo significativo del VI libro dell’Eneide
(vv. 719-732), tratto dalla conversazione tra Anchise ed Enea nel regno
infernale. Anche in questo caso, come precedentemente in Proba, la se-
quenza (qui, tuttavia, più corposa per numero di versi) è trasferita in due
luoghi distinti del centone: il primo ai vv. 32-45 dove Titiro discute sulla
natura dell’anima e sul destino trascendente dell’uomo prima di ricevere
richieste di chiarimento da parte di Melibeo, mentre il secondo si colloca ai
successivi vv. 88-98, dove i versi virgiliani di più chiara matrice cosmogo-
nica sono riutilizzati nel canto di Titiro sulla creazione dell’universo, che
facilmente rievoca il libro biblico della Genesi. L’espediente intertestuale,
proprio perché non si limita al piano della pura ripresa verbale, consente,
di conseguenza, di valorizzare, rispetto al modello pagano, dove gli ele-
menti naturali erano preesistenti alla creazione del cosmo, «il fatto stesso
che la Creazione è stata determinata dall’opera pienamente libera del Si-
gnore Onnipotente»29: lo scarto letterario permette, quindi, al centonario
di mantenersi saldamente nel solco della dottrina cristiana.
Mi pare indubbio che, tra gli elementi che le tre studiose offrono per
argomentare gli spazi di originalità dei centoni cristiani rientri, anche,
un’attenta rivisitazione delle modalità della tecnica compositiva. In tutte e
tre le edizioni sono abbondanti le riflessioni su questo aspetto così caratte-
ristico della poesia centonaria: mentre, tuttavia, Sineri tende a conglobare
le osservazioni all’interno del commento, Arcidiacono e Giampiccolo of-

27
Si tratta dell’intero par. 3 della Parte seconda in Arcidiacono, op. cit., 63-75, che ha
come titolo Il riuso delle unità virgiliane a contenuto autonomo: la ‘tecnica dell’impronta’.
28
Arcidiacono, op. cit., 63.
29
Arcidiacono, op. cit., 73.

235
sergio audano

frono, invece, un quadro più sistematico in apposite sezioni delle rispettive


Introduzioni, che meritano qualche notazione di approfondimento30. Per
quanto riguarda il De Verbi incarnatione la sua curatrice è attenta a valuta-
re la tecnica del centonario in rapporto alle regole compositive che Auso-
nio espone nella celebre epistola ad Assio Paolo, che precede il suo Cento
nuptialis: mi pare opportuna la prudenza di Giampiccolo che, anche sulla
scorta di alcune osservazioni di Polara, valuta le norme ausoniane non
come «lo standard della prassi centonaria quanto piuttosto la sua
teorizzazione»31. E questo atteggiamento mi pare trovi la sua giustificazio-
ne da un recente studio le cui conclusioni innovative sono state opportu-
namente valorizzate da Sineri: si tratta di un recente articolo di P. F. Mo-
retti, la quale, dopo una serie di puntuali confronti testuali, arriva alla con-
clusione che il centone di Proba è anteriore rispetto a quello di Ausonio32,
il quale forse potrebbe addirittura essere una sorta di voluta degradazione
parodica proprio del «Virgilio nobilitato in chiave cristiana da Proba»33. Se
la tesi di Moretti è plausibile, il testo ausoniano conserverebbe con un gra-
do maggiore di incertezza l’auctoritas esemplare finora riconosciutagli, su
cui si fondavano non solo le regole intrinseche della tecnica centonaria, ma
anche il criterio per valutare l’abilità dei singoli autori in rapporto al loro
discostarsi o meno dalle norme indicate. Proprio sulla base di questa argo-
mentazione considero troppo severo il giudizio di Giampiccolo che non
riconosce al proprio centonario elevate capacità compositiva visto che il
suo testo «appare per certi aspetti veramente lontano dalla teorizzazione
ausoniana»34. Il De Verbi incarnatione presenta, infatti, a causa del tema
più strettamente teologico rispetto agli altri centoni, un’intrinseca difficol-
tà ad adattare pienamente il modello all’argomento, a cui si deve aggiunge-
re l’attenzione a evitare ogni possibile inquinamento ereticale: non è un
caso che alcune infrazioni, ad esempio l’utilizzo di tre frustula virgiliani
per la realizzazione di un esametro, siano comuni al De ecclesia, altro cen-

30
Arcidiacono, op. cit., dedica l’intera Parte seconda (57-127) alla tecnica compositiva
del suo centone; Giampiccolo il secondo capitolo (16-36) dal titolo Aspetti di tecnica cento-
naria nel De Verbi incarnatione.
31
Giampiccolo, op. cit., 25.
32
P. F. Moretti, Proba e il Cento nuptialis di Ausonio, in P. F. Moretti – C. Torre – G.
Zanetto (curr.), Debita dona. Studi in onore di Isabella Gualandri, Napoli 2008, 317-347.
33
Sineri, op. cit., 25-26.
34
Giampiccolo, op. cit., 37.

236
le molte strade del centone virgiliano cristiano

tone che dimostra uguale attenzione all’ortodossia dottrinaria. Un esem-


pio mi pare significativo: i vv. 35-37, come Giampiccolo giustamente ricor-
da nel commento35, si riferiscono in maniera esplicita al dogma della con-
sustanzialità tra Padre e Figlio, che era stato affermato nel concilio di Nicea
(nate, meae uires, mea magna potentia solus / nate, mihi quem nulla dies ab
origine rerum / dissimilem arguerit, comitem complector in omnis). Trala-
sciando i problemi testuali del v. 37 (la studiosa recupera giustamente la
lezione omnis del codex unicus P, il Parisinus Latinus 13047, variamente
emendata dai pochi editori moderni)36, proprio il centrale v. 36 scaturisce
dall’aggregazione di tre frammenti virgiliani, con alcune modifiche37, in
palese violazione, pertanto, delle regole di Ausonio: la curatrice ha, tutta-
via, notato che il nesso nulla dies, ricavato da Aen. 9.281 e che funge da
soggetto, si lega per enjambement al suo predicato arguerit, mutuato dal
consecutivo v. 28238. La tecnica centonaria è messa, in questo caso, a dura
prova dalla necessità di esprimere in maniera ineccepibile il concetto
dell’eternità dell’uguaglianza tra Padre e Figlio, un tema molto delicato, sul
quale le eresie proliferavano con virulenza, per di più di difficoltosa conso-
nanza con l’ipotesto virgiliano. Non mancano, tuttavia, i casi nei quali il
centonario dimostra di operare con una certa eleganza, costruendo i suoi
versi nel solco di regole più consolidate: si prenda l’esempio del v. 14, in cui
allude all’amore con cui Maria custodiva la propria condizione verginale
(casta pudicitiam miro seruabat amore). Questo verso, infatti, sfrutta abil-
mente la tecnica della uox propinqua, suggerita molto probabilmente dalla
parte omessa del primo emistichio, che il centonario mutua da Georg.

35
Giampiccolo, op. cit., 83.
36
Non comprendo, però, come mai la studiosa abbia tradotto l’espressione comitem
complector in omnis con «ti voglio compagno per ogni cosa» (Giampiccolo, op. cit., 53),
lasciando presumere di leggere la variante in omnia di Schenkl. La studiosa nel commento
(op. cit., 83) pensa che si debba «sottintendere il sostantivo mancante», ovvero casus
(ricavato, come tutto il secondo emistichio del v. 37, da Aen. 9.277): tuttavia mi domando
se non sia più intuitivo ipotizzare una ripresa del dies del precedente v. 36, giocando sulla
somiglianza formale tra nominativo singolare e accusativo plurale e, quindi, interpretando
nel senso di «ti stringo come compagno per tutti i tempi», a conferma dell’eterna identità
tra le persone del Padre e del Figlio.
37
Aen. 1.665 nate [patris summi qui tela Typhoia temnis] + Aen. 9.281 [Euryalus me]
nulla dies [tam fortibus ausis] + Aen. 1.642 [per tot ducta uiros antiquae] ab origine gentis: le
modifiche riguardono l’aggiunta di mihi quem e la sostituzione di rerum a gentis; per tutto
lo status quaestionis cfr. Giampiccolo, op. cit., 82.
38
Giampiccolo, op. cit., 30.

237
sergio audano

2.524 (casta pudicitiam [seruat domus, ubera uaccae])39. Anche Arcidiaco-


no assegna alle regole di Ausonio una valenza prescrittiva40, ma il focus
della sua analisi non riguarda tanto la dipendenza di Pomponio da queste
norme (a cui, peraltro, si attiene con maggior costanza rispetto al prece-
dente centonario), quanto piuttosto la valutazione delle anomalie di cui
Pomponio si rende responsabile nei confronti dell’ipotesto virgiliano, che
la studiosa attentamente cataloga in tre gruppi, di natura semantica, mor-
fo-sintattica e metrico-prosodica. Per ognuna di queste classificazioni
sono offerte numerose esemplificazioni, le quali, nel loro insieme, rappre-
sentano un ricco dossier che dimostra l’alto grado di consapevolezza con
cui il centonario operava la sua ripresa dal modello, e quindi anche le scel-
te di differenziazione. A titolo di esempio, ricordo alcuni passi caratteriz-
zati dal fenomeno dello slittamento semantico, nella consapevolezza, come
giustamente osserva la curatrice, che «la risemantizzazione dei materiali
virgiliani può considerarsi lo strumento essenziale attraverso cui l’autore
abbatte le frontiere religiose esistenti fra due culture contrapposte, quella
pagana e quella cristiana»41. Arcidiacono individua ben tre livelli di una
tale operazione, a conferma della complessità culturale che sottende la
composizione di un centone cristiano, ben lungi dall’essere un mero lusus
intellettuale. Il primo è più superficiale, poiché si attua mantenendo il si-
gnificato originario dell’ipotesto, ma in relazione a un diverso referente,
come accade, ad esempio, in Tit. 73 (urgentur poenis. Quam uellent aethere
in alto), dove il sintagma aethere in alto indica la dimora celeste contrap-
posta al regno infernale ed è mutuato da Aen. 6.436 (proiecere animas.
Quam uellent aethere in alto), dove rimanda al mondo dei superi contrap-
posto a quello degli inferi. Il secondo livello è più complesso poiché lo
slittamento fa assumere al lessema o al sintagma coinvolto nella riseman-
tizzazione un’accezione diversa od opposta rispetto all’ipotesto, talora
sfruttando alcune ambiguità semantiche presenti già nel modello; partico-
larmente interessante è l’esempio di Tit. 82 (accipio agnoscoque libens ut

39
Il commento ad loc. di Giampiccolo (op. cit., 69) è interessante perché offre anche una
serie di spunti di contatto, proprio grazie all’uso di castus in riferimento alla Vergine, con
altri poeti coevi, come Paolino da Nola (carm. 6.112: seruabat casta pudorem) o Giovenco
(euang. 1.55: abdita uirgineis caste pubescere tectis).
40
«Le norme tecniche preposte alla stesura di un carme centonario sono fissate da
Ausonio nella lettera proemiale al Cento nuptialis» (Arcidiacono, op. cit., 4).
41
Arcidiacono, op. cit., 114.

238
le molte strade del centone virgiliano cristiano

uerba Parentis): l’intero verso ricalca Aen. 8.155, ma nel contesto d’arrivo
la formula accipio agnoscoque indica l’atto di comprensione mentale che
Melibeo compie verso le parole di Titiro, assimilate a quelle divine, mentre
nell’ipotesto esprime il gesto dell’accoglienza fisica di Evandro nei con-
fronti di Enea, provocato anche dalla somiglianza fisica di quest’ultimo col
padre Anchise. Ma l’operazione compiuta da Pomponio è più sofisticata,
come ben messo in luce da Arcidiacono42, la quale ricorda in che modo il
centonario, nel suo processo di risemantizzazione, abbia molto probabil-
mente tenuto presente un altro luogo virgiliano, Aen. 12.260 (accipio agno-
scoque deos; me, me duce ferrum), dove la medesima formula appare già
variata nel senso di «riconoscere il volere divino». Si tratta, quindi, di un
interessante esempio in cui il centonario modifica Virgilio con Virgilio, un
aspetto che, più avanti, richiederà qualche ulteriore osservazione43. Il terzo
livello, infine, quello forse più radicale, presenta vocaboli risemantizzati
secondo un’accezione già riscontrabile nel latino cristiano; il caso più em-
blematico tra quelli addotti dalla studiosa mi pare quello di Tit. 64 (prae-
mia digna ferunt. Freti pietate per ignem), dove il secondo emistichio è ri-
cavato da Aen. 11.787 (pascitur et medium freti pietate per ignem): la ben
nota valenza classica di pietas appare, ormai, pienamente declinata nel suo
valore cristiano, al tempo del centonario largamente diffuso e riscontrabile
fin dalle origini cristiane, come conferma l’esempio portato dalla studiosa
di un passo della paolina Prima lettera a Timoteo (4.7-8)44.

42
Arcidiacono, op. cit. 118.
43
La medesima operazione ritorna anche nel De Verbi incarnatione, dove al v. 29 si ri-
trova lo stesso emistichio (accipio agnoscoque libens: sequor omina tanta), con riferimento
all’accettazione da parte di Maria delle parole di Gabriele. In questo caso la modalità dell’u-
tilizzo di «Virgilio con Virgilio» appare declinata in maniera decisa sul versante teologico:
la Vergine col suo atto accoglie intellettualmente i dicta divini, grazie a cui si farà concre-
tamente sarx il Verbum di Cristo. La doppia prospettiva virgiliana (accoglienza fisica di un
figlio simile al padre e riconoscimento del valore divino) trova, quindi, un’ulteriore ap-
plicazione anche in questo centone. Dal punto di vista testuale tanto Giampiccolo quanto
Arcidiacono stampano giustamente agnosco e non l’adgnosco dell’ipotesto: come si vedrà in
seguito più in dettaglio, le due studiose non si lasciano tentare dal facile gioco di adeguare il
testo dei loro centoni alla vulgata virgiliana, ma, al contrario, dimostrano di saper valutare,
in maniera ponderata, il riflesso della tradizione virgiliana sulla lexis dei loro autori (la va-
riante agnosco, come conferma l’apparato di Geymonat2 ad loc., è del resto attestata in au-
torevoli testimoni di Virgilio, come il Vaticanus Latinus 3867, detto «romano» e siglato R).
44
Arcidiacono, op. cit., 241.

239
sergio audano

Si è fatto sopra cenno all’utilizzo di «Virgilio con Virgilio»: si tratta di una


prospettiva interessante che, sul versante della tecnica compositiva, può, a
mio avviso, fornire ulteriori spunti di riflessione, poiché, come vedremo,
deriva da una modalità praticata dal medesimo Virgilio che, con un po’ di
paradosso, si potrebbe definire il primo centonario di se stesso45. In questa
direzione è utile discutere un verso (matres atque uiri, pueri innuptaeque
puellae), che si ritrova, nella medesima forma, in tre centoni cristiani, pre-
cisamente al v. 55 di Proba, al v. 14 del De ecclesia e al v. 108 del De Verbi
incarnatione. Le tre curatrici hanno ben rimarcato come il verso derivi
dalla riunione di due emistichi, che però nel modello risalgono a segmenti
testuali che ricorrono identici sia in Georg. 4.475-477 sia in Aen. 6.306-
308 (matres atque uiri defunctaque corpora uita / magnanimum heroum,
pueri innuptaeque puellae / impositique rogis iuuenes ante ora parentum)46.
Probabilmente è stata Proba ad aver realizzato per prima l’intreccio, che
si distingue stilisticamente anche dalla presenza di un elegante chiasmo
(l’alternanza di donne e uomini adulti, seguiti da ragazzi e ragazze: ai poli
opposti si trovano le donne sposate e le fanciulle in età da marito, ma non
destinate alla vita consacrata)47. In tutti e tre i centoni il verso assume una
funzione radicalmente diversa rispetto all’ipotesto: in Proba e nel De eccle-
sia la sequenza di nomi è posta al vocativo (e non più al nominativo), poi-
ché sintetizza la pluralità dei destinatari del centone, esortati ad ascoltare
con attenzione i contenuti salvifici che saranno enunciati. L’autore del De
ecclesia attua, però, rispetto a Proba una doppia innovazione: il monito è
rivolto non direttamente dal centonario, ma da un sacerdos, che si appresta
a pronunciare un articolato sermo incentrato sulla vicenda umana e divina
di Cristo, e l’intera scena è collocata all’interno di una cerimonia liturgica.
Nel De Verbi incarnatione, invece, il verso si trova quasi alla conclusione
del componimento: come nel De ecclesia, anche qui si avverte il richiamo
alla prassi liturgica, col riferimento alla celebrazione annuale dei riti pa-
squali da parte di tutto il popolo cristiano senza alcuna distinzione, ma il

45
Per un esempio virgiliano (Aen. 6.823) di riuso di precedenti materiali per la conia-
zione di un nuovo verso mi permetto di rimandare al mio contributo Agostino tra Bruto,
Livio e Virgilio (civ. 3,16; 5,18), in F. Gasti – M. Neri (curr.), Agostino a scuola: letteratura
e didattica, Pisa 2009, 105-109.
46
Per Proba cfr. Sineri, op. cit., 127; per il De ecclesia cfr. Damico, op. cit., 63-64; per il
De Verbi incarnatione cfr. Giampiccolo, op. cit., 106.
47
La struttura a chiasmo del verso è stata notata da Giampiccolo, op. cit., 106.

240
le molte strade del centone virgiliano cristiano

centonario recupera la valenza sintattica del modello, tornando ad attri-


buire alla serie di nomi il valore originario di nominativi. Tentando di ap-
profondire la questione, quale rapporto interno tra i centoni cristiani può
rivelare il verso in esame? E quale ruolo può ricoprire in questa dialettica
testuale il modello virgiliano che, come detto, compare sdoppiato in due
fontes, contemporaneamente diversi per contesto, ma uguali per forma?
Naturalmente ogni tentativo di risposta ha in sé un margine di reversibili-
tà: l’elegante fattura del verso, tuttavia, lascia presumere che la coniazione
sia ascrivibile a Proba, il cui centone, divenuto subito «esemplare», si pone
come modello anche per gli altri due. Mi trovo d’accordo con Sineri, la
quale nel suo commento identifica nelle Georgiche il riferimento virgiliano
per la poetessa48: l’immagine delle anime dell’Erebo che seguono incantate
il suono melodioso di Orfeo si presta a essere risemantizzata in chiave cri-
stiana assegnando alla centonaria il ruolo simbolico dell’eroe mitologico.
La bellezza, quindi anche sul piano formale, del canto poetico, non a caso,
è ricordata anche nel precedente v. 54 col richiamo al piacere suscitato
dall’ascolto attento che viene invocato (ore fauete omnes laetasque aduer-
tite mentes): sull’aggettivo laetus si concentra, quindi, una doppia tensione
semantica, da un lato il valore di matrice classica legato al piacere intellet-
tuale della fruizione letteraria, dall’altro il nuovo senso cristiano che si lega
alla gioia che scaturisce dal possesso della verità della fede. L’autore del
De ecclesia, forse memore delle invettive di Girolamo contro i centonari
che, a suo dire, presumevano in maniera puerile di insegnare ciò che non
sapevano, trasferisce al sacerdos il ruolo poetico che Proba assegnava a se
stessa, a riprova, come sopra si è accennato, di una più stretta sorveglianza
ecclesiale del fenomeno dei centoni cristiani. Diventa, quindi, l’educatore
dei suoi fedeli all’interno del luogo che è di per sé il garante della dottrina,
ovvero l’ecclesia, senza troppe concessioni alla dolcezza del canto poetico.
Il sacerdos è, pertanto, la guida del suo popolo verso la salvezza: mi pare, di
conseguenza, poco probabile che l’autore di questo centone continuasse a
guardare alle Georgiche e a Orfeo, con il rischio di alludere al poco apprez-
zato «piacere» letterario, ma corregge la rotta utilizzando la prospettiva of-
ferta dall’omologo segmento del sesto dell’Eneide, ovvero ancora una volta
ricorrendo a «Virgilio con Virgilio», in ciò maggiormente autorizzato dal
fatto che, in questo caso, è lo stesso Mantovano a comportarsi alla stregua
di un vero e proprio poeta centonario. Nell’Eneide il riferimento è alla folla

48
Sineri, op. cit., 127.

241
sergio audano

che accorre sulle rive dell’Acheronte in attesa di essere traghettata da Ca-


ronte, ma l’autore del De ecclesia capovolge in positivo la cupa descrizione
virgiliana, proiettando sul sacerdos il ruolo di «traghettatore» delle anime
verso l’approdo della salvezza eterna. Il rovesciamento attuato da questo
centonario trova, in seguito, ulteriore conferma nel De Verbi incarnatione:
qui assistiamo al pieno adeguamento liturgico del verso di Proba dove il
richiamo alla ricorrenza del rito pasquale elimina in radice ogni possibile
riferimento al coinvolgimento dell’uditorio in una pratica di tipo lettera-
rio, come l’ascolto del centone epicheggiante della poetessa o anche quello,
già più controllato, del sermo cristologico del sacerdote nel De ecclesia. E
il centonario dà prova del suo intento normalizzatore col ricorso, ancora
una volta, a Virgilio: a mio avviso, non attua, né pare intenzionato a farlo,
una scelta tra le due opzioni, ma vuole rimarcare la sua distanza rispetto ai
precedenti centoni recuperando dal modello la puntualità del dato sintat-
tico, tra l’altro presente in entrambi i segmenti, ovvero, come detto, l’uso
delle varie sequenze di nomi con funzione di nominativo49.

Da questa prima rassegna emerge con chiarezza gli spunti che le tre stu-
diose hanno saputo ricavare al fine di dimostrare il grado di originalità di
ciascuno degli autori affidato alle loro cure. Come visto, si sono mosse spa-
ziando con ampiezza di prospettiva su vari versanti, alcuni dei quali non
esenti da implicazioni di natura teorica, come la riflessione sul tema dell’al-
lusività e della intertestualità; uguale attenzione è stata riservata a problemi
di ordine squisitamente tecnico, ad esempio la modalità compositiva nel
rapporto col modello virgiliano, su cui, come visto, sono stati forniti ele-
menti innovativi e sistematici, che permettono di entrare con maggior no-
zione di causa all’interno dell’ «officina» poetica di ciascun centonario, che
viene così individuato, se non nella sua sfuggente dimensione biografica,
almeno nella specificità della sua tecnica artistica. Ma un contributo rile-
vante è offerto anche all’altro punto di criticità che era stato sollevato da
Salanitro, ovvero la valutazione dell’apporto fornito dai centoni cristiani

49
Anche da Giampiccolo (op. cit. soprattutto 63-64) è sostenuta la dipendenza del De
Verbi incarnatione dal più noto centone probiano, da cui ricava non solo un blocco di versi
della parte finale, ma anche la stessa propositio materiae. Tuttavia a me pare plausibile l’ipo-
tesi di una mediazione intermedia del De ecclesia dove si assiste al ridimensionamento della
figura dell’autore nella sua specificità artistica: non è un caso che egli si manifesti alla prima
persona solo al penultimo verso (a meno che non si intenda recuperare, secondo l’ipotesi
formulata dalla studiosa, al v. 6 incipiam), solo per domandare la ricompensa celeste.

242
le molte strade del centone virgiliano cristiano

alla tradizione indiretta virgiliana e alla stessa constitutio textus del poeta.
Ciò spiega una delle motivazioni di queste nuove edizioni: la ricostruzione
in maniera scientifica dei Vergiliocentones, di fatto trascurati da quasi un
secolo dagli studiosi, permetterà agli editori di Virgilio di poterli «legitti-
mamente utilizzare per contribuire a fissare il testo virgiliano»50, ma anche
consentirà di disporre di edizioni aggiornate e affidabili, depauperate final-
mente da approcci critici quanto meno discutibili, come il gusto di emen-
dare meccanicamente il testo dei centoni sulla base della vulgata virgiliana
(in particolare, ma non solo, per correggere presunte infrazioni di ordine
metrico-prosodico, che in realtà rispondono a uno stadio linguistico di-
verso da quello dell’età classica).
Mi pare molto interessante la prospettiva ancora più «a monte» da cui
parte Giampiccolo e che unisce bene, a mio parere, proprio nel nome della
ricezione virgiliana, la questione dell’originalità artistica dei centoni al giu-
dizio del loro valore come documento filologico: la studiosa, prendendo
spunto dalla metafora ausoniana, definisce la composizione centonaria un
negotium memoriae, che richiede al poeta «l’abilità a dividere mentalmente
il testo virgiliano in membra»51. Un ruolo decisivo viene, quindi, affidato
alla mnemotecnica, anche se appare altrettanto verosimile, come del resto
viene ammesso dalla stessa curatrice, che un testo scritto di Virgilio possa
aver rappresentato un supporto altrettanto significativo. Sarebbe interes-
sante poter almeno ipotizzare la forma di questo testo: non è da escludere
che fosse un esemplare virgiliano già corredato di varianti, come anche re-
centemente è stato sostenuto52. Memoria e testo scritto, quindi, agiscono in
compresenza se non talora pure in concorrenza: la tecnica combinatoria,
infatti, presuppone, almeno in prima battuta, l’abilità mnemotecnica del
centonario, in questo agevolato, come sopra detto, dalla stessa prassi com-
positiva di Virgilio il quale molte volte ama praticare una modalità di tipo
combinatorio, assimilabile alla «formularità» dell’epos omerico, che molto
probabilmente già i centonari, senza disporre di strumenti moderni come
le concordanze, avevano pienamente individuato (e forse anche collocato
tra le forme stesse della loro imitatio).

50
Salanitro, Silloge dei Vergiliocentones minori, cit., 13-14.
51
Giampiccolo, op. cit., 19.
52
P. F. Moretti, Proba e la tradizione di Virgilio. Qualche riflessione, «Acme» 61/1, 2008,
61-86.

243
sergio audano

Con quale criterio devono, però, essere valutate le varianti? È chiaro che
non tutte le lezioni hanno lo stesso valore e, di conseguenza, è opportuna
una loro scrematura: nel caso specifico della centonaria cristiana mi sem-
brano ragionevoli le posizioni di Sineri, secondo cui «laddove la variante
non appaia funzionale al mutato contesto si può supporre che essa derivi
direttamente dall’esemplare virgiliano noto al centonario»53. Naturalmen-
te il vaglio deve presupporre vari passaggi: la genesi dell’errore può collo-
carsi a valle ed essere dunque attribuibile alla socordia del copista oppure
situarsi a monte, ad esempio sotto forma di lapsus di memoria dell’autore.
In ogni modo è necessario disporre di una visione storicamente ampia,
che deve necessariamente fondarsi sull’uso linguistico, ma anche sull’inte-
ro contesto culturale.
Mai come in casi del genere la prudenza è d’obbligo, virtù di cui, ad
esempio, dà prova Giampiccolo discutendo il v. 16 del De Verbi incarna-
tione, che nella sua edizione suona così: spiritus intus alit et casto se cor-
pore miscet. Si tratta un verso molto problematico che si caratterizza per
la presenza di una sillaba in più: Giampiccolo segue, sulla scorta anche di
un lavoro di La Bua54, la prima edizione di Riese, che a sua volta si attiene
alla paradosi dell’unico testimone, mentre altri editori hanno variamente
emendato, in particolare eliminando la congiunzione et. Ma, a prescindere
dall’ipermetria più o meno giustificabile, ai fini del rapporto con la tra-
dizione virgiliana risulta difficoltosa la presenza di casto. Si tratta, infatti,
dell’unica modifica che il centonario adotta rispetto al modello: il verso
deriva dalla sommatoria del primo emistichio di Aen. 6.726 unito al se-
condo emistichio del verso seguente, ma con la variazione in questo punto
di magno dell’ipotesto in casto. Geymonat, nella seconda edizione, ha ipo-
tizzato che questa lezione potesse avere titolo per rientrare nell’elenco di
addenda et corrigenda del suo apparato critico, ma prudentemente Giam-
piccolo osserva, col conforto di numerosi esempi (da Paolino di Nola a
Prudenzio), come castus sia un aggettivo ricorrente nella poesia cristiana
in associazione alla Madonna, ragion per cui è forse più prudente supporre
un influsso, o meglio un adeguamento del centonario al lessico poetico
ormai affermato.

53
Sineri, op. cit., 31.
54
G. La Bua, Revisione al testo dei centoni cristiani, «GIF» 43, 1991, 105-118 (sul punto
cfr. 115).

244
le molte strade del centone virgiliano cristiano

Altro esempio di discussione prudente, nel medesimo centone, riguarda


il v. 85, che Giampiccolo stampa in questa forma: nusquam abero et tutos
patrio uos limine sistam55. Il centonario desume il verso da Aen. 2.620, mu-
tando però l’originario te in uos (e quindi anche tutum in tutos), al fine di
adattarlo al nuovo contesto in cui Cristo promette agli uomini di accom-
pagnarli fino alla soglia dei cieli: tuttavia, il codex unicus del centone, il già
menzionato P, riporta la lezione limite, che è stata corretta in limine già
dagli editori precedenti. Limite al posto di limine è attestato anche, come
variante minoritaria, nella tradizione virgiliana e compare nel recenziore
n, ma in questo caso, giustamente, la studiosa si adegua alla scelta dei pre-
decessori poiché la derivazione da limes non risulta congruente col conte-
sto. Si tratta, quindi, di un errore forse ascrivibile al copista per omofonia:
in questo caso la tradizione «recenziore» si dimostra davvero «deteriore».
Un esempio linguisticamente affine riguarda il v. 160 di Proba (ecce au-
tem primi sub limina solis et ortus), che deriva da Aen. 6.255: la tradizione
virgiliana si ripartisce tra limina, accolto dalla totalità degli editori dell’E-
neide, e lumina che vanta anche una diffusa tradizione indiretta (tra cui
Carisio e Servio). Stando ai principali apparati virgiliani, il testo di Proba
rappresenta uno dei pochissimi esempi indiretti di limina, e contribuisce,
quindi, a offrire un ulteriore argomento a sostegno di questa lezione che è
attestata da FMah. Sono numerosi i casi in cui Proba si accorda in errore
col Mediceo M di Virgilio, ma non mancano gli esempi in cui, invece, il
centone concorda col Palatino P: si prenda il v. 334 (maius opus moueo:
uatum praedicta priorum) dove la lezione priorum è comune con FPpωγ,
mentre M attesta in questo caso la variante piorum56. Sono stati molti, nel

55
Per la discussione del verso rimando al commento: cfr. Giampiccolo, op. cit., 99.
56
L’emistichio finale è attestato concordemente con priorum in tutti e quattro i centoni
cristiani: oltre che in Proba, ricorre nel De ecclesia (v. 27), nel De Verbi incarnatione (v.
44) e nel Tityrus (v. 7). A proposito di quest’ultimo, la posizione di Arcidiacono in merito
appare più articolata: la studiosa nota, ovviamente, l’afferenza del testo al filone del Pala-
tino, ma questo non indica come unica conseguenza il fatto che Pomponio disponesse di
un esemplare virgiliano ricavato da questa fonte, poiché si potrebbe «anche implicare che il
poeta conoscesse entrambe le varianti tradite, tra le quali avrebbe scelto quella a lui più con-
veniente» (Arcidiacono, op. cit., 162). Merita, inoltre, attenzione l’ipotesi di Sineri (op. cit.
208) secondo cui la variante del Mediceo avrebbe giocato la sua influenza sulla tradizione
del centone, dal momento che il codice P (un manoscritto del XII secolo, ora conservato a
Parigi) riporta piorum che «potrebbe esser frutto di una correzione virgilianizzante basata
sulla tradizione del Mediceo».

245
sergio audano

passato, gli studiosi che hanno preteso di poter individuare il «Virgilio di


Proba», identificando l’antigrafo o nel Mediceo M o nel Palatino P. Sineri,
al contrario, proprio per la coincidenza del centone con ora l’uno ora l’al-
tro dei testimoni antichi, propende per l’autonomia del codice virgiliano
utilizzato da Proba, elemento che «confermerebbe l’opportunità di valersi
del centone come testimonianza di tradizione indiretta»57.
Ho sopra riportato alcuni esempi della necessaria prudenza critica,
sempre indispensabile in operazioni del genere, ma che le nostre editrici
hanno saputo utilizzare in maniera ponderata nelle loro scelte ecdotiche;
naturalmente non mancano altre dimostrazioni interessanti della concreta
possibilità di un utilizzo dei centoni cristiani ai fini della constitutio textus
virgiliana. Tra i vari campioni che l’acribia delle studiose ha individuato
(ciascuna delle tre edizioni è corredata al termine da un prezioso Index
fontium, dove sono riportate tutte le fonti virgiliano per ciascun verso;
quelli reputati più interessanti ai fini di un rapporto con la tradizione vir-
giliana sono evidenziati da un asterisco) vorrei discutere più in dettaglio
due casi che accomunano il centone di Proba e il Tityrus.
Nel primo si tratta rispettivamente del v. 64 (tum pater omnipotens, re-
rum cui summa potestas) e del v. 11 (omnipotens genitor, rerum cui summa
potestas). Come si evince chiaramente, siamo di fronte a due versi di fatto
simili, accomunati dal secondo emistichio: sebbene l’autore del Tityrus ab-
bia sicuramente tenuto molto presente Proba, questo caso non è probante
in sé ai fini della loro pur stretta relazione, poiché il verso è di chiara na-
tura formulare. Il fons virgiliano del secondo emistichio è da identificare
in Aen. 10.100, ripreso integralmente da Proba, mentre l’altro centonario
ricava la prima parte del verso da Aen. 10.668. La lezione summa che i due
centoni tramandano concordemente (né Sineri né Arcidiacono segnala-
no varianti sul punto nei rispettivi apparati) coincide con un ramo ben
documentato della tradizione virgiliana, sia diretta (il gruppo M2Pωγ) sia
indiretta, in particolare Macrobio (Sat. 6.2.26) e Agostino (Cons. evang.
1.12.18; Ench. 3.11), di contro alla variante prima, anch’essa largamente
presente (nel gruppo MRaeuγ1, ma anche nel commento di Claudio Do-
nato) e solitamente preferita dagli editori virgiliani. L’attestazione di sum-
ma già nella Medea di Osidio Geta (v. 25: rerum cui summa potestas) forse
ridimensiona l’idea, ribadita recentemente da Moretti58, di una più mar-

57
Sineri, op. cit., 32.
58
Moretti, Proba e la tradizione cit., 76.

246
le molte strade del centone virgiliano cristiano

cata diffusione di questa variante in un àmbito preferibilmente cristiano.


Tanto Sineri quanto Arcidiacono ribadiscono la piena congruenza della
variante sotto l’aspetto sia semantico sia metrico: forse la sua preferenza
da parte dei cristiani si motiva con la maggiore incisività che il superlativo
summa conferisce alla potestas in rapporto all’onnipotenza divina, o forse
perché il nesso prima potestas rischiava di richiamare un principio di natu-
ra immanente, come il primum mouens aristotelico, troppo distante dalla
trascendenza del Dio cristiano. In ogni caso entrambi i centoni ci offrono
ulteriore garanzia della diffusione della tradizione indiretta della lezione
summa.
Un secondo esempio interessante accomuna ancora il centone di Proba
e il Tityrus: si tratta rispettivamente del v. 158 (conposuit, legesque dedit
camposque nitentis) e del v. 103 (composuit Legemque dedit; dicione te-
nebat), che condividono il primo emistichio fino alla cesura eftemimera,
mutuato da Aen. 8.322. Nel poema della centonaria il verso si colloca nella
scena in cui Dio, dopo aver composto ogni cosa, assegna ai progenitori le
leggi, mostrando dall’alto l’Eden, mentre nel Tityrus si allude alla consegna
delle tavole della Legge a Mosè; nell’ipotesto il verso si riferisce alla raccol-
ta degli antichi popoli del Lazio da parte di Saturno che diede loro anche
le leggi, instaurando l’età dell’oro: come ha ben notato Sineri «ancora una
volta in Proba un riferimento virgiliano alla mitica età dell’oro serve a de-
scrivere la vita dei progenitori nell’Eden»59, dimostrando in questo caso la
piena risemantizzazione cristiana dell’ipotesto. Sul versante testuale avan-
zerei con cautela l’ipotesi che conposuit possa rappresentare una variante
di tradizione indiretta: è vero che non sono registrate lezioni del genere per
il verso in esame, ma questa forma verbale è attestata in tutta l’opera vir-
giliana solo due volte e nell’altra occorrenza, Aen. 1.698, conposuit ricorre
negli Scholia in Terentium Bembina (Adelphoe 285). Per quanto riguarda,
invece, il Tityrus, la presenza del singolare si motiva, come giustamente
argomenta Arcidiacono, non per un lapsus mnemonico del centonario né
per una variante virgiliana antica, ma «per una scelta intenzionale del po-
eta, ascrivibile a ragioni di natura semantica»60. Sulla scia di un recente
contributo di F. Ragni, di cui sono accolte alcune conclusioni61, la studiosa

59
Sineri, op. cit., 158.
60
Arcidiacono, op. cit., 285, ma per l’intero commento al v. 103 cfr. 285-286.
61
F. Ragni, Due lievi ‘ritocchi’ alla lezione virgiliana nel centone ‘Versus ad gratiam
Domini’ (719a Riese), in «AL Riv» 1, 2010, 181-188.

247
sergio audano

non solo adotta il singolare, ma, ritenendo quella mosaica la «Legge» per
antonomasia, impiega l’iniziale maiuscola, suffragando la sua interpreta-
zione con una serie di occorrenze bibliche dove lex designa appunto la
Legge di Mosè.
Non mancano, infine, esempi in cui sono formulate nuove proposte di
variante virgiliana antica: mi pare interessante quello fornito dal v. 53 del
Tityrus (quam minime re<ris> fato Prudentia maior): si tratta di uno dei
versi più oscuri e tormentanti del centone, anche a causa del pessimo stato
della tradizione manoscritta (il codex unicus tramanda quam minime re-
fato, cui fa seguito prima uno spazio di circa quattro lettere e poi il nesso
prudentia maior). Naturalmente le proposte di correzioni sono state mol-
teplici e si sono fondate, in primo luogo, sul ricorso all’ipotesto che, nel
caso del primo emistichio, è stato identificato in Aen. 6.97 (quod minime
reris Graia pandetur ab urbe): alcuni editori, come Bursian e Riese, hanno
recepito la vulgata virgiliana, inserendo quod al posto di quam, ma Schenkl
ripristina quest’ultima lezione, motivando la scelta col fatto che si tratta di
una lectio singularis tramandata in un codice Guelpherbytanus di Servio
(ad Aen. 8.131), anche se in apparato non si esime dall’avanzare un’ulte-
riore ipotesi, l’avverbio qua. Arcidiacono discute in maniera molto esau-
riente lo status quaestionis, accettando alla fine la proposta di Schenkl, pur
variando leggermente, rispetto a quest’ultimo, il sistema di punteggiatura.
Ma è del tutto condivisibile l’impostazione metodologica che enuncia nel
commento: da un lato la studiosa dichiara il suo scetticismo sull’uso indi-
scriminato della correzione su base virgiliana, contestando gli interventi
normalizzatori di scarti sintattici o di costrutti forzati che sono tipici della
prassi compositiva, ma anche del processo di risemantizzazione cristiana
dell’ipotesto; dall’altro, nel caso di merito, «non può assolutamente igno-
rarsi che la lezione del Palatinus risulta attestata nella tradizione indiretta
di Aen. 6.97, così da potersi ricondurre a variante virgiliana antica, piutto-
sto che a fallo del copista o ad un lapsus memoriae dell’imitatore»62.

Questi esempi dimostrano bene la ricchezza di materiali che le studiose


offrono in merito al rapporto tra la poesia centonaria e la tradizione vir-
giliana: dalla discussione sopra proposta emerge come il metodo di anali-
si che hanno condotto, pur applicato a centoni diversi per condizione di
tradizione manoscritta e tra loro intrecciati in una selva di relazioni in-

62
Arcidiacono, op. cit., 224 (per la discussione completa del v. 53 cfr. 221-225).

248
le molte strade del centone virgiliano cristiano

tercomunicanti, risponde fondamentalmente alla salvaguardia della spe-


cifica facies testuale di ogni centone. Non si tratta, però, come si è visto,
di un criterio meramente conservatore né tanto meno applicato in modo
meccanico: la valutazione critica si muove nella singolarità di ogni caso,
nel solco della piena consapevolezza storica delle varie problematiche, che
intrecciano competenze diverse, dalla pratica filologica stricto sensu alla
conoscenza approfondita del contesto culturale dell’età tardo-antica, alla
capacità di muoversi in maniera disinvolta anche sul versante cristiano. In
alcuni punti sarebbe stato forse auspicabile un più deciso approfondimen-
to in questo àmbito63, ma, come si è visto in alcuni degli esempi precedenti,
non mancano in tal senso spunti di notevole interesse. E lo stesso vale per
la ricognizione delle varianti virgiliane antiche: ciascuna delle curatrici ha
ponderato con estrema prudenza ogni soluzione, evitando il doppio estre-
mismo di chi normalizza senza motivo i testi centonari sul fondamento
della vulgata virgiliana, ma anche di quanti perseguono, come erano soliti
fare taluni grammatici antichi, una caccia furiosa alla variante a ogni co-
sto, anche in presenza di banali fenomeni grafici che non hanno un valore
discriminante nella relazione tra testimoni.
Anche se i tre volumi non sono stati pubblicati dal medesimo editore,
queste edizioni presentano numerosi elementi in comune: ricche intro-
duzioni (dove si affrontano problemi di tecnica compositiva, di rapporti
con Virgilio, di attribuzione e di datazione di ogni centone, di valutazione
critica delle precedenti edizioni), testo critico con traduzione a fronte (nel
caso del Tityrus e del De Verbi incarnatione la prima in assoluto in lingua
italiana), approfondito commento scandito verso per verso (e spesso con
richiami alle discussioni affrontate nell’introduzione). Per quanto riguar-
da gli apparati critici la scelta è diversificata: Giampiccolo e Arcidiacono,
poiché entrambi i loro centoni sono tramandati da un solo testimone,
preferiscono adottare un apparato positivo, anche se alleggerito da errori
meccanici di trasmissione e da varianti ortografiche; Sineri, invece, a fron-
te della più complessa realtà testuale di Proba, fa riferimento all’edizione di
Schenkl del 1888, proponendo uno snello apparato quasi sempre negativo.
Gli interventi sul testo interessano spesso la punteggiatura: questo pro-
cedimento poco invasivo consente, ad esempio, a Sineri di evitare la crux
di Schenkl al v. 38 (omnia et ipse tener mundi concreuerit orbis), che, a det-

63
Un sintetico Index locorum Scripturarum (inteso però solo come «una sorta di
‘canovaccio’», come la studiosa precisa a 10) si trova solo in Sineri, op. cit., 325.

249
sergio audano

ta della studiosa, «non è guasto, semmai, è accostato un po’ forzatamen-


te al precedente verso centonario». Eliminando il punto fermo del verso
precedente, è possibile, per la frequenza di costrutti ellittici nella poesia
centonaria, far dipendere il congiuntivo concreuerit dal verbo reggente
cecinisse del v. 36, sottintendendo un pronome interrogativo come quo
modo. Anche per il v. 42 (et liquidi simul ignis et caeli mobilis umor) la stu-
diosa stampa senza la crux di Schenkl, il quale aveva non solo riscontrato
un’anomalia metrica nel verso, ma, partendo dall’ipotesi che, proprio a
causa di questa anomalia, sia in realtà composto da due versi mutilati, lo
sdoppia nell’incompleto 42 (…….et liquidi simul ignis) e nel 42a (<semina
terrarumque> et caeli mobilis umor), dove il primo emistichio è ricavato da
Buc. 6.32. Schenkl, inoltre, propone un nuovo ordine per l’intera sequen-
za dei vv. 38-42, a suo dire più aderente al modello virgiliano del canto
cosmogonico di Sileno nella menzione degli elementi naturali. A queste
proposte, variamente discusse da altri studiosi, Sineri replica difendendo la
genuinità del testo tramandato: l’anomalia metrica si motiva per «la forza-
ta giustapposizione di emistichi di diversa provenienza, non perfettamen-
te combacianti»64, mentre la ristrutturazione di Schenkl viene contestata
sulla base del giusto principio dell’autonomia compositiva della centona-
ria, la quale deve menzionare necessariamente tutti e quattro gli elementi
naturali «soltanto perché così avviene nel canto di Sileno»65. Per quanto
riguarda, invece, la dimensione più specificamente letteraria, meritano
grande attenzione le lucide considerazioni che Sineri dedica alla sezione
iniziale del centone, i vv. 1-8, tuttavia non costruiti ancora more centonario
(tecnica che inizierà a utilizzare solo a partire dal v. 24): si tratta di una re-
cusatio che Proba compie, quasi fosse una confessione (lo conferma l’inci-
dentale, ma emblematico, confiteor, al v. 8, proprio in chiusura di sezione),
nei confronti di un suo precedente componimento, molto probabilmente
un poema epico che avrebbe avuto per tema un episodio di guerra civile
(forse la sanguinosa vittoria di Costanzo II sull’usurpatore Magnenzio a
Mursa)66, fortemente deprecato dalla poetessa per il coinvolgimento di co-

64
Sineri, op. cit., 121.
65
Sineri, op. cit., 121.
66
Merita di essere riportata la motivazione avanzata da F. Ermini, Il centone di Proba e la
poesia centonaria latina, Roma 1909, 15: la rinuncia sarebbe dovuta al fatto che la poetessa
comprende che «quella guerra di tradimenti e d’inganni dell’ambizioso Magnenzio contro
i figli di Costantino non meritava l’onore dell’epopea».

250
le molte strade del centone virgiliano cristiano

gnatas acies (v. 4), con gli scudi contaminati dalla caede parentum (vv. 4-5)
e le città svuotate di innumeris ciuibus (v. 7). Tutta la critica è concorde
nell’individuare in filigrana l’adozione del modello di Lucano: oltre alla
puntuale ripresa di alcune iuncturae dalla Pharsalia (ad esempio i foedera
pacis del v. 1 che hanno un doppio puntuale corrispettivo nel IV libro luca-
neo, precisamente al v. 205 e al v. 365)67, Sineri dimostra come Proba abbia
«ricalcato esattamente il proemio di Lucano», ponendo al centro (ovvero
al v. 4, elemento comune tra i due testi, anche per posizione metrica) il
nesso cognatas acies. Ma la studiosa intreccia questo elemento con la fattu-
ra virgiliana di alcuni versi: in particolare al v. 3 il sintagma diuersas neces
potrebbe alludere alle caedes diuersas di Aen. 12.500; non è forse un caso, si
potrebbe aggiungere, che si tratta di versi, a loro volta, dal colore «lucaneo»
poiché inseriti in una invocazione a un generico deus (vv. 500-503), affin-
ché esponga coi versi le innumerevoli stragi provocate, nell’imminenza del
loro duello decisivo, tanto da Turno quanto da Enea68.
Anche nel Tityrus gli interventi della curatrice sono finalizzati a una di-
versa sistemazione della punteggiatura che permette (ad esempio al v. 5,
con l’inserzione di una virgola dopo la cesura pentemimera) di ottenere
una maggiore pienezza di senso col minimo di intervento sul testo. Più di
rado Arcidiacono suggerisce in apparato (e largamente discute nel com-
mento) delle proposte alternative senza, tuttavia, accoglierle direttamente:
si prenda il caso del v. 12 (quem qui scire uelit, diuinum aspiret amorem),
dove il secondo emistichio è mutuato da Aen. 8.373, nel quale però com-
pare l’indicativo adspirat. Nota la studiosa che la variazione è probabil-
mente dovuta a un’innovazione consapevole di Pomponio, il quale «avreb-
be impresso alle parole di Titiro una sfumatura esortativa piuttosto che
descrittiva»69, ma riscontra come l’indicativo in questa sede troverebbe, in
realtà, pieno significato poiché l’intera sezione del centone descrive Dio

67
Per un puntuale commento di questi versi rimando al commento di P. Esposito in
Marco Anneo Lucano, Bellum civile (Pharsalia). Libro IV, Napoli 2009, 135 (per il v. 205)
e 189 (per il v. 365).
68
A commento di questi versi, che si concludono con l’interrogazione del narratore (vv.
503-504: tanton placuit concorrere motu, / Iuppiter, aeterna gentis in pace futuras?), E. Nar-
ducci (Lucano. Un’epica contro l’impero, Roma-Bari 2002, 33) nota acutamente come «la
guerra tra troiani e latini (con i loro alleati italici) evocava senza dubbio nel lettore romano
il ricordo del recentissimo conflitto civile», sottolineando come sia proprio Virgilio con
questi versi a suggerire «esplicitamente l’accostamento».
69
Arcidiacono, op. cit., 168.

251
sergio audano

mediante l’elencazione oggettiva delle prerogative divine. Per questa ra-


gione non sarebbe «fuori luogo proporre di emendare su base virgiliana
il tradito aspiret in aspirat», motivando l’errore su uno scambio di suoni
vocali in fase di copiatura. Personalmente sono del parere che la proposta
della studiosa abbia un suo fondamento, legato anche al fatto che Titiro è il
depositario della verità della fede che intende cantare, come ribadisce nello
spazio ravvicinato del v. 7 (non incerta cano) e del v. 13 (haut ignota lo-
quor): l’uso dell’indicativo garantisce in maniera oggettiva la sacralità della
sua ispirazione poetica, elemento che rende ancora più forte il ruolo dida-
scalico di Titiro nei confronti del più giovane «neofita» Melibeo, poiché
rinsalda la veridicità dei contenuti del suo canto poetico. Altra proposta
congetturale avanzata da Arcidiacono si ritrova nello spinosissimo v. 127,
che la studiosa stampa con le cruces nella parte centrale (interpres † moni-
tum spirantumque † adfore uerbis): si tratta di un verso che molto proba-
bilmente deriva dalla sommatoria di tre, o forse quattro, diversi segmenti
virgiliani e che si dimostra assai problematico sia in monitum, che tutti gli
editori ritengono guasto, sia in spirantumque, participio dalla desinenza
molto improbabile, forte esito di una corruttela del corretto spirantemque.
La studiosa, dopo aver discusso con doviziosa precisione tutte le ipotesi
precedenti, avanza la sua proposta: mantiene monitum e corregge spiran-
tumque nel supino attivo con valore finale spiratumque. Il costrutto non è
attestato in Pomponio ed è questo l’argomento più solido contro una simi-
le ricostruzione: forse sarebbe necessaria una verifica nell’usus scribendi di
Virgilio per poter disporre di alcuni paralleli che permettano la plausibilità
di questa operazione che, tuttavia, ha in sé il merito di richiedere un inter-
vento davvero minimo sul testo. Anche Arcidiacono fornisce significativi
elementi di riflessione in merito allo spessore letterario del suo centone, di
cui sottolinea la peculiarità di essere, tra i centoni cristiani, l’unico ad avere
una struttura dialogica. La studiosa rimarca la natura fondamentalmen-
te didascalica dell’opera che, sotto il richiamo formale alla prima Ecloga
virgiliana (reso evidente fin dalla scelta dei nomi dei protagonisti, Titiro
e Melibeo), dialoga in realtà con l’intera produzione del modello (tra le
altre ecloghe in particolare la quinta, per la facile sovrapposizione tra la
figura di Dafni e Cristo, ma anche con l’Eneide, soprattutto i libri I e VI), a
livello sia di riprese testuale sia anche di caratterizzazione dei personaggi.
Su quest’ultimo punto la curatrice propone osservazioni molto eleganti:
nonostante la fissità convenzionale, quasi da ‘maschera’, del ruolo di pa-
store cui abitualmente si associava al nome di Titiro e di Melibeo, Pom-
ponio riesce a creare dei personaggi dotati di una loro autonomia rispetto

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le molte strade del centone virgiliano cristiano

alla tradizione del genere bucolico, proprio grazie all’utilizzo variegato dei
materiali che impediscono il rischio di una monotona uniformità. Titiro,
quindi, si presenta nelle vesti del vecchio saggio, portatore delle verità della
fede, che assomma al ruolo tradizionale quello del maestro dell’anima; a
lui si rivolge Melibeo, che desidera ardentemente intraprendere un per-
corso di perfezionamento spirituale: pur continuando a rivestire il ruolo di
«spalla» che già aveva nel modello, il Melibeo di Pomponio diverge dall’o-
monimo personaggio virgiliano per «la progressiva conoscenza in materia
di fede, acquisita nel corso del dialogo, e l’incontenibile gioia per la con-
dizione raggiunta»70, elementi che lo contrappongono, come argomenta
persuasivamente Arcidiacono, all’«ingenuo pastore» della prima Ecloga.
Il riflesso del retaggio bucolico sull’esigenza di un approfondimento in-
teriore della fede induce la studiosa a vedere nel centone il primo esem-
pio di «ecloga spirituale», un genere che godrà poi di larga fortuna in età
carolingia. Un altro elemento, a mio avviso, significativo che emerge da
questa edizione è l’analisi puntuale che lega il Tityrus agli altri due cento-
ni. Per quanto riguarda il rapporto con Proba, le strette consonanze tra i
due testi erano state notate già da tempo dagli studiosi, che hanno spesso
accusato Pomponio di aver pesantemente emulato la poetessa, arrivando
quasi a «saccheggiarne» i materiali: finora l’accusa era motivata con l’in-
capacità artistica del nostro autore, ma più di recente, grazie in particolare
agli studi di McGill e di Bažil, ma con conferme ulteriori fornite proprio
da Arcidiacono, ha messo in luce come Proba funga in realtà da «filtro»
per il nostro centonario nel rapporto col modello virgiliano. Il centone
della poetessa, in virtù della sua ormai acclarata valenza esemplare, pote-
va offrire la garanzia della compiuta risemantizzazione cristiana dell’ipo-
testo virgiliano: questo peculiare utilizzo, che non è quindi un mediocre
riciclo, spiega, ad esempio, la ragione per cui i paralleli tra i due centoni
aumentino nelle parti in cui Titiro si addentra maggiormente nel racconto
della storia sacra. Non sono, inoltre, mancate osservazioni circa lo stretto
rapporto che intercorre tra il Tityrus e il De Verbi incarnatione: lo stato
d’incompiutezza del primo, che termina nel monco v. 132 costituito dalla
singola parola Omnipotens, il fatto che il De Verbi incarnatione cominci
con questa stessa parola, la presenza del tema dell’incarnazione, che è il
suo argomento specifico, anche alla conclusione del Tityrus sono indizi di
un rapporto tra i due centoni che però sfugge a una precisa definizione.

70
Arcidiacono, op. cit., 37.

253
sergio audano

Gli elementi sopra esposti lascerebbero presumere una dipendenza del De


Verbi incarnatione dal Tityrus, ma non sono mancati gli studiosi, come il
primo editore Bursian, che, al contrario, hanno visto in quest’ultimo una
sorta di prologo del precedente. Arcidiacono, con prudenza, ritiene che gli
elementi in nostro possesso, pur rivelando un indubbio rapporto tra i testi,
non siano tali «per stabilire esattamente se il primo abbia funto da modello
al secondo o viceversa»71.
A posizione prudente sul tema si attiene anche Giampiccolo, la qua-
le, però, nel commento adduce una vasta serie di esempi che dimostrano
l’ampia circolazione, oltre che nei centoni (come sopra si è visto), anche
nella coeva poesia cristiana della formula incipitaria omnipotens genitor72,
ragion per cui (facile conclusione a cui implicitamente arriva il lettore)
non è affatto scontato postulare la dipendenza del De Verbi incarnatione
dal centone di Pomponio. La studiosa, con coerenza critica, ritiene che le
infrazioni metriche del testo si motivino per la difficoltà di sutura dei vari
segmenti virgiliani, oltre che per la crescente difformità prosodica tra il la-
tino di questo periodo e l’età di Virgilio: per queste ragioni, per cinque vol-
te (vv. 16, 25, 73, 76 e 87), annota in apparato nihil mutandum, preferendo
quindi la paradosi del codex unicus agli interventi congetturali volti a nor-
malizzare il testo. Una proposta più decisa riguarda, invece, il v. 5, dove,
sempre in apparato, Giampiccolo suggerisce di leggere ornare et canere
incipiam, ipotizzando che il verso risulti in realtà composto da tre elemen-
ti, di cui un frustulo, derivato da Georg. 1.5 (hinc canere incipiam), sarebbe
poi caduto, lasciando poi come traccia della sua presenza nel manoscritto
un incomprensibile piã al v. 6, variamente interpretato dagli studiosi.
In conclusione, i centoni virgiliani cristiani offrono una prospettiva in-
teressante sul rapporto complesso tra cultura cristiana e tradizione cristia-
na e possono fornire elementi utili alla storia della tradizione virgiliana.
È un rapporto che ha punti indubbi di contatto reciproco, il più solido
dei quali è rappresentato dal comune riconoscimento del ruolo cardine di
Virgilio (che perdurerà per tutto il Medioevo), ma anche momenti di con-
trasto, anche all’interno dei singoli gruppi, come si evince chiaramente, sul
versante cristiano, dalla polemica di Girolamo e dal decreto di Gelasio, che
dimostrano l’insofferenza verso questi strumenti di poesia che rischiano

71
Arcidiacono, op. cit., 34.
72
Giampiccolo, op. cit., 59-60: gli esempi addotti spaziano da Prudenzio a Paolino di
Pella e a Prospero d’Aquitania.

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le molte strade del centone virgiliano cristiano

di diventare poco controllabili strumenti di dialogo. Queste nuove edi-


zioni dimostrano, ancora una volta, che i pregiudizi critici, quantunque
autorevoli, alla lunga non pagano e sono controproducenti; in tempi assai
poco propizi per i talenti più giovani, come gli attuali, piace sottolineare
come il merito di una più puntuale valutazione di questi testi così a lungo
bistrattati derivi dal lavoro attento di giovani studiose che, a prescindere
dal giudizio critico su singoli punti (la discussione è l’anima del progresso
scientifico), hanno dimostrato come la filologia sia ancora una volta uno
strumento fondamentale nella strada verso la verità.

SVMMARIVM – Nouae trium Vergiliocentonum Christianorum editiones (quas Carmen


Arcidiacono, Æleonora Giampiccolo et Valentina Sineri doctrina ac studio nuper confecerunt)
explanantur, maxime de arte poetica in serendis uersibus et de lectionibus quae ad Vergiliani
textus historiam afferunt.

255
questo volume è stato composto con i caratteri minion
disegnati da robert slimbach nel 1990 per adobe systems
e stampato presso la tipografia digital print service s.r.l. di milano
nel mese di novembre del 2011

Autorizzazione del Tribunale di Catania n. 435 del 14 gennaio 1975


Direttore responsabile Michele R. Cataudella

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