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CAP 1
INTRODUZIONE: LE FONTI DEL DIRITTO IN UN ORDINAMENTO COMPLESSO
1. Definizioni e inquadramento di base
Fonti del diritto sono gli atti e i fatti cui l'ordinamento giuridico attribuisce il compito di produrre
nuove norme giuridiche.
Gli atti normativi sono documenti scritti, con forma e nome tipico (nomen juris) frutto di un
procedimento disciplinato da altre norme.
Quindi abbiamo norme sulla produzione o norme di riconoscimento che individuano gli atti e i
procedimenti per produrli.
Gli atti normativi sono posti in posizioni diverse in una gerarchia:
le norme sulla produzione sono su un gradino più elevato rispetto agli atti normativi che esse
disciplinano.
- Nella costituzione troviamo le norme sulla produzione degli atti di legislazione ordinaria;
- nelle leggi ordinarie troviamo le norme sulla produzione degli atti regolamentari.
Più complessa è la definizione dei fatti normativi. La categoria è stata costruita in passato sul
modello della consuetudine: era costituita da fatti, cioè comportamenti ripetuti che
progressivamente venivano percepiti come giuridicamente obbligatori dalla società. Questo modello
disciplinava interi settori della vita sociale.
Sebbene oggi di tutto ciò resta ben poco, nelle definizioni delle fonti-fatto ricorrono espressioni
come “fenomeni normativi non volontari” o “comportamenti sociali”.
Non sono affatto scomparse le altre fonti-fatto. Si tratta di tutte quelle norme giuridiche che
l'ordinamento nazionale importa dalla internazionalizzazione dell'economia, del diritto e della
società; sono fonti-fatto gli atti dell'unione europea ;trattati internazionali, la convenzione europea
dei diritti dell'uomo.
Sono fonti-fatto perché non provengono da organi abilitati dal nostro ordinamento, quindi non sono
annoverate tra le fonti-atto e ciò impedisce ad esempio al giudice italiano di rilevarne eventuali vizi
di legittimità, esclude il ricorso in cassazione per loro violazione e così via.
In realtà questi sono dogmi vacillanti perché non è vero ad esempio che il giudice non possa
rilevare vizi delle fonti-fatto come le norme dell'Unione Europea perché proprio il trattato legittima
il giudice nazionale a investire in via pregiudiziale la corte di giustizia con questioni relative alla
validità, oltre che l'interpretazione degli atti dell'unione europea e della BCE (TFUE = Trattato).
Inoltre con la riforma (legge 218 / 1995) spetta al giudice italiano accertare la legge straniera e
interpretarla secondo i propri criteri di interpretazione e applicazione nel tempo e addirittura
disapplicarla se in contrasto con la costituzione.
La categoria delle fonti-fatto ha ormai perso ogni tenuta concettuale ed è definibile solo in negativo,
come tutto ciò che genera norme giuridiche ma non ascrivibile tra le fonti-atto (fonti-fatto come
categoria residuale).
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
Infatti è uno dei principi dello Stato di diritto la netta separazione tra il momento della scelta
politica che si trasforma in legge e il momento della sua applicazione al caso concreto, nel corso del
giudizio che si svolge davanti a un giudice.
Non solo al giudice è vietato il ricorso al responso del principe, ma è fortemente svalutato persino
l'impiego dell'argomento della volontà del legislatore per interpretare gli atti legislativi e ricavarne
la regola del caso.
Il distacco dell'atto normativo dalla volontà politica segna la condizione perché sia possibile
tracciare la linea di separazione dei poteri, tra legislazione e applicazione delle leggi.
L'interprete deve costruire il significato della disposizione da applicare, e per farlo deve individuare
la ratio legis, il principio: quel che serve è comprendere come la norma si colloca oggettivamente
nel sistema, a quale esigenza di normazione o coerenza sistematica deve rispondere.
Le intenzioni soggettive del legislatore cedono il campo alle finalità oggettive cui assolve la norma
oggi, che possono essere diverse da quelle che aveva ispirato il legislatore a suo tempo (eterogenesi
dei fini è la locuzione che esprime questo mutamento di prospettiva).
ETEROGENESI DEI FINI : UN CASO STORICO
La sentenza della Corte costituzionale rappresenta un caso esplicito di utilizzazione dell’eterogenesi
dei fini.
Oggetto della sentenza era un decreto legislativo che imponeva ai produttori di conferire il risone
all’ammasso, riservandone la distribuzione all’Ente nazionale risi. Una misura, dice la Corte,
chiaramente dettata dalle esigenze alimentari del dopoguerra:” anche se non sussistono quelle
condizioni , ciò non è sufficiente a far considerare illegittima la conservazione per alcuni prodotti
del regime di vincolo e ammasso: ciò perché è da riconoscere al legislatore la possibilità di valutare
se sopravvivono ragioni di interesse generale per la conservazione, nell’ordinamento, di istituti in
esso presenti, indipendentemente dai motivi che dettero loro origine.”
“Estraneazione” dell’atto e divisione dei poteri. È solo grazie a questa estraniazione dell’atto dal
suo autore che la disposizione legislativa può entrare nell'ordinamento giuridico e assumere tutta la
pienezza di significato che il sistema le conferisce.
Spetta ai soggetti dell'interpretazione e dell'applicazione del diritto ricostruire ogni singolo caso
concreto ed elaborare la regola giuridica che ad adesso va applicata.
La completezza, coerenza, razionalità di un legislatore che non può essere ne contraddittorio ne
ridondante, sono spesso richiamate dagli interpreti come caratteristiche necessarie della
legislazione, sulle quali è possibile fondare tutta una serie di argomenti utili all'interpretazione.
In realtà sono qualità che non sono seriamente attribuite al legislatore che è un conglomerato di
corpi politici complessi, che mutano nel tempo. Se guardiamo all'insieme degli atti normativi che
vigono in Italia,
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
sopravvissuti al fascismo, dovremmo accettare una premessa opposta cioè della incoerenza
strutturale, contraddittorietà e ridondanza della legislazione.
Dunque per l'interprete che l’ordinamento sia coerente e completo è solo il presupposto e le
condizioni del proprio lavoro poiché coerenza e completezza sono il risultato dell'opera di
interpretazione e applicazione del diritto.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
Il principio di irretroattività delle leggi (articolo 11 delle preleggi) è un pilastro dello Stato di diritto,
perché costituisce la garanzia minima di certezza dei rapporti giuridici: chi agisce deve poter
conoscere in anticipo quale qualificazione giuridica è data dall'ordinamento al suo comportamento.
L’ irretroattività delle leggi non è però un principio costituzionale: la costituzione lo riconosce solo
per la norma penale (articolo 25 della costituzione);(anche altre norme costituzionali si oppongono
alla retroattività delle leggi:ad es. il principio di uguaglianza,di capacità contributiva eccetera).
LA “NATURALE” RETROATTIVITA’ DELLE LEGGI DI INTERPRETAZIONE
AUTENTICA
Ci sono delle leggi che sono fatte per operare retroattivamente, sono le cd. Leggi “di interpretazione
autentica”. Ad esse il legislatore può ricorrere quando sia necessario chiarire il significato di
qualche disposizione legislativa precedente, in modo da risolvere dubbi interpretativi. Siccome
queste leggi non aggiungerebbero nuove disposizioni, ma semplicemente chiarirebbero il vero
significato di disposizioni già in vigore, i loro effetti retroagiscono alla data di entrata in vigore di
queste ultime. In questi termini la Corte costituzionale non le considera contrarie alla costituzione,
purchè ovviamente non mutino le disposizioni interpretate e non siano direttamente rivolte ad
incidere su giudizi in corso o a sovvertire un giudicato.
Tuttavia una legge che disponga per il passato è sempre soggetta ad un controllo stretto di
legittimità costituzionale.
Per effetto della nuova legge la vecchia norma perde efficacia dal giorno dell'entrata in vigore del
nuovo atto, e questo significa non solo che non sarà più la regola dei rapporti giuridici sorti dopo
quella data, ma anche che tutti i rapporti precedenti restano in piedi e rimangono regolati da essa.
La vecchia norma, benché abrogata, sarà pur sempre la norma che il giudice dovrà applicare ai
vecchi rapporti( salvo disciplina transitoria).
L'effetto abrogativo può essere prodotto da fenomeni assai diversi.
L'articolo 15 delle preleggi elenca tre ipotesi di abrogazione:
-per dichiarazione espressa del legislatore (abrogazione espressa);
-per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti (abrogazione tacita);
-perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore (abrogazione
implicita).
Forme di abrogazione.
L'abrogazione espressa è il contenuto di una disposizione ed opera erga omnes, così come operava
la legge.
L’abrogazione tacita è rilevata dall'interprete, che, di fronte a un’antinomia, deve ritenere che
prevalga la norma successiva: essa quindi opera sul piano dell'interpretazione e vale per ciò solo nel
singolo giudizio (inter partes) non potendo vincolare altri giudici.
L'abrogazione implicita opera anche essa sul piano dell'interpretazione: non essendovi una
disposizione esplicita che dichiari l'abrogazione della legge precedente, l'interprete trae dal fatto che
il legislatore ha riformato la materia, un argomento per sostenere che la vecchia legge debba
ritenersi abrogata e le sue norme non devono più essere applicate.
Non sempre il risultato dell'abrogazione implicita è così netto perché ad esempio la nuova legge può
riformare solo parte della materia disciplinata dalla legge precedente, sicché sta all'interprete
valutare se la vecchia disciplina resti in vigore o sia stata abrogata senza la produzione di nuove
norme.
MI ABROGA O NON MI ABROGA?CASI DI DUBBIA ABROGAZIONE IMPLICITA
Caso di vertenze tra FIAT e i suoi dipendenti: la Fiat pensava che il d.p.r. del 2000 (che aveva
ridisciplinato il procedimento di concessione della cassa integrazione) avesse implicitamente
abrogato anche l’obbligo del datore di lavoro di comunicare in avvio della procedura ai sindacati i
criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere,mentre i sindacati sostenevano il contrario. La
cassazione da ragione ai sindacati in quanto la nuova disciplina attiene solo alla fase amministrativa
del procedimento, mentre l’obbligo di comunicazione è una tutela dei singoli lavoratori nella
gestione della cassa integrazione.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
L'effetto abrogativo.
L'abrogazione non impedisce affatto che la norma abrogata continua ad essere applicata ai rapporti
sorti prima della nuova legge: "l'abrogazione, limitando ai fatti verificatisi fino ad un certo
momento, la sfera di operatività della legge abrogata, incide su questa nel senso che,
originariamente fonte di una norma riferibile ad una serie indefinita di fatti futuri, essa è ormai fonte
di una norma riferibile solo ad una serie definita di fatti passati" (corte costituzionale 1970).
La data di entrata in vigore della nuova legge segna il momento di cambiamento della disciplina: i
rapporti giuridici sorti prima restano soggetti alla vecchia disciplina abrogata, quelli che sorgeranno
in seguito saranno soggetti alla nuova disciplina. In ciò sta la differenza tra l'effetto
dell'abrogazione, che opera solo ex tunc, e gli effetti delle sentenze che dichiarano l'illegittimità
costituzionale di una legge.
Il problema della reviviscenza. L'abrogazione della legge abrogante può produrre reviviscenza
della vecchia disciplina, togliendo il limite che quella aveva posto alla sua operatività.
Che l’ abrogazione della norma abrogatrice faccia rivivere la norma abrogata non è affatto una
conseguenza automatica ne l'effetto normale dell'abrogazione della norma abrogatrice: può essere
solo il risultato di un più o meno complesso processo di interpretazione della nuova legge, in cui
avrà peso l'argomento dell'intenzione del legislatore.
La giurisprudenza è propensa a ritenere che la reviviscenza di norme precedentemente abrogate
possa aversi solo per espresso disposto delle nuove leggi: "il legislatore deve disporre la
reviviscenza in modo espresso e non equivoco”.
La corte costituzionale dubita dell'ammissibilità della reviviscenza di norme abrogate da
disposizioni dichiarate costituzionalmente illegittime e esclude la reviviscenza a seguito di
referendum abrogativo della legge abrogatrice.
DICHIARAZIONE DI INCOSTITUZIONALITA’ E REVIVISCENZA
Un profilo ulteriore rispetto a quello della reviviscenza a seguito di una legge abrogatrice è quello
della reviviscenza della legge abrogata a seguito di dichiarazione di incostituzionalità della
disposizione abrogante.
Sentenza del 1974 dove la Corte dichiara la incostituzionalità di un articolo che abrogava una
precedente disposizione. La Corte dichiarava la incostituzionalità di tale abrogazione e quindi
ridiventano operanti le norme abrogate dalle disposizioni dichiarate illegittime. La Corte però non
afferma che la dichiarazione di incostituzionalità di una disposizione abrogatrice determina sempre
il ritorno di operatività di quella abrogata. Nel nostro caso l’effetto è ricollegato alla circostanza che
l’incostituzionalità riguarda una disposizione meramente abrogatrice di precedente disposizione.
Come ha puntualizzato la dottrina, la parola riviviscenza non è del tutto appropriata. La parola
riviviscenza segnala che in ipotesi del genere una legge per un certo tempo non è stata applicata
perché apparentemente abrogata e torna ad essere applicata perché la presunta abrogazione viene
dichiarata mai accaduta.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
Dunque l'annullamento non opera solo per il futuro, ma anche per il passato, ma solo per i rapporti
pendenti, cioè che possono essere ancora sottoposti ad un giudice.
Prescrizione, decadenza, rinunzia o giudicato impediscono all'annullamento di far sentire i suoi
effetti sul rapporto giuridico.
L’ILLEGGITIMITA’ DELLE LEGGI
L’art. 136.1 cost. dispone che a seguito di dichiarazione di illegittimità costituzionale, lo norma
cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.
L’art. 30.3 della legge 1953 precisa che le norme dichiarate incostituzionali non possono avere
applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione. La dichiarazione di illegittimità si traduce in
un ordine rivolto ai soggetti dell’applicazione di non applicare più la norma illegittima. Ciò
significa che gli effetti della sentenza di accoglimento non riguardano solo i rapporti che sorgono in
futuro, ma anche quelli che sono sorti in passato , purchè non si tratti di rapporti giuridici ormai
chiusi e quindi non più sottoponibili a un giudice.
I rapporti ( cosi come gli atti amministrativi) sorti in precedenza sulla base della legge abrogata non
cadono ipso iure, ma possono essere annullati solo in seguito ad impugnazione.
Un eccezione è per le condanne penali, in applicazione del principio di legalità delle pene, per cui
quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza
irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali.
Il codice civile del 1942 delinea la gerarchia delle fonti all'articolo 1 delle preleggi.
Questa disposizione usa il criterio gerarchico come strumento ordinatore delle relazioni tra legge e
regolamento e tra questi e la consuetudine (assente la costituzione perché il codice civile è
anteriore).
Infatti con l'entrata in vigore della costituzione l'articolo 1 delle preleggi perde la sua capacità di
descrivere l'intero sistema gerarchico.
La neonata corte costituzionale non ha neanche bisogno di ribadire il suo ruolo nel sistema,
riproducendo un nuovo catalogo in cui vengano enumerate le fonti e indicato il loro rispettivo
rango.
Perfettamente assimilato il modello kelseniano, essa si preoccupa esclusivamente di disciplinare i
modi di produzione delle fonti primarie, definendole come una “categoria chiusa” composta dalla
legge formale e dagli atti aventi forza di legge specificamente elencati. E poi istituisce la corte
costituzionale come giudice di legittimità di questa fonte alla costituzione.
Nulla è detto di regolamenti amministrativi e fonti subordinate, disciplinate quindi dalle fonti
primarie.
ABROGAZIONE O ANNULLAMENTO?
Cosa accade se nel conflitto tra due norme il criterio cronologico e quello gerarchico si
sovrappongono, cioè quando la norma superiore è anche la norma più recente?Opera abrogazione o
annullamento?il problema si è avuto quando la Costituzione del 1948 entrò in vigore e si
sovrappose all’ordinamento previgente. La risposta data sia dai giudici amministrativi che dalla
Corte cost. a suo tempo è: dipende. Non vi è un effetto immediato di abrogazione, salvo che la
nuova disciplina, gerarchicamente superiore, non presenti un rapporto di assoluta incompatibilità,
esclusivamente configurabile nell’ipotesi in cui la seconda regoli la medesima situazione
disciplinata dalla prima in modo che il nuovo regime e quello previgente non possano coesistere.
Oppure dovrà operare il criterio gerarchico, con dichiarazione di illegittimità (o disapplicazione) del
regolamento.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
prevede che la legge ordinaria possa disciplinare la materia solo rispettando specifiche limitazioni
di contenuto.
Ad esempio l'articolo 14.3 consente al legislatore di dettare regole speciali per le perquisizioni
domiciliari, meno rigide delle disposizioni generali, ma solo per motivi di sanità e incolumità
pubblica, oppure per fini economici e fiscali.
La ratio è quella di limitare il potere del legislatore che può comprimere la sfera di libertà degli
individui soltanto a condizione che le misure normative siano razionalmente giustificabili in
relazione ai fini o ai criteri indicati dalla costituzione stessa.
Leggi atipiche: vi sono dei casi in cui la costituzione modella determinate leggi in modo così
pervasivo da staccarle dal tipo cui appartengono: formalmente sono legge del Parlamento ma la loro
forza è diversa da quella normale.
Il caso più emblematico di legge atipica è la legge di approvazione del bilancio di previsione (la
legge non può prevedere nuove spese e tributi).
La ratio è di evitare che tipologia e quantum delle tasse, la politica degli investimenti, e così via,
siano occultati dal governo nelle pieghe di un documento molto complesso, rendendo impossibile il
controllo del Parlamento.
La atipicità consiste nel fatto che la sua forza attiva (la sua capacità di innovare le leggi ordinarie) è
azzerata, ma atipica è anche la sua forza passiva: la legge di bilancio ha un'efficacia temporale
limitata all'anno cui si riferisce, nel quale si possono fare variazioni necessarie con apposite leggi,
ma non è possibile abrogarle in toto.
Questa specializzazione degli atti normativi incrina il sistema delle fonti che la dottrina aveva
edificato attorno agli assi della gerarchia e della cronologia: non è più (interamente) vero che tutte
le fonti che rientrano nel gradino gerarchico delle fonti primarie concorrano tra di loro governate
dal solo criterio cronologico: non tutte le leggi formali sono abrogabili e sostituibili dagli atti con
forza di legge (vi si oppone la riserva di legge formale), né tutte le leggi formali sono abrogabili e
sostituibili da qualsiasi altra legge formale (vi si oppone la riserva rinforzata).
Vi sono invece leggi particolari (leggi rinforzate) a cui la costituzione attribuisce una particolare
competenza che è esclusiva sia nel senso che solo esse possono regolare quel particolare oggetto,
sia nel senso che solo quel particolare oggetto può essere disciplinato da esse.
Riserva ai regolamenti parlamentari: la costituzione istituisce una riserva di disciplina che sembra
impenetrabile: è la riserva ai regolamenti interni delle camere, la cui competenza sembra delimitata
quasi fisicamente dai muri perimetrali delle assemblee elettive.
Un caso analogo è quello introdotto dagli statuti delle regioni speciali, che per la propria attuazione
prevedono una fonte particolare, cioè un decreto legislativo predisposto da una commissione
paritetica e emanato dal governo, senza che le camere ne prendano visione.
Sono atti primari ma privi di forza abrogativa nei confronti delle leggi ordinarie e non rischiano di
essere da questa abrogati.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
Si potrebbe supporre che essa operi nel senso di un rapporto di gerarchia strutturale come quello tra
decreto delegato e principi e criteri direttivi della legge di delega; oppure che esso implichi una
netta separazione delle competenze, per cui la legge statale prevale se e solo se pone i principi (e la
legge regionale che li viola sarebbe illegittima perché incompetente), mentre la legge regionale
prevale se e solo se dispone il dettaglio (e la legge statale sarebbe illegittima se invade la
competenza regionale con norme di dettaglio).
La teoria però si inceppa per due motivi:
- non c'è nessun mezzo logico, criterio sostanziale o rimedio pratico che permette di distinguere
concretamente principio e dettaglio per cui la distinzione è impraticabile;
- la prevalenza della legge statale di principio sulla legge regionale di dettaglio non è dotata di
strumenti procedurali che la facciano operare.
Quindi c'è una paralisi della legge di principio di fronte alla legge di dettaglio, in base al criterio di
specialità.
IL CRITERIO DELLA SPECIALITA’
Il criterio della specialità serve anch’esso a risolvere le antinomie , guidando l’interprete nella scelta
della norma da applicare. Esso suggerisce di preferire la norma speciale a quella generale , anche se
questa è successiva. Questo criterio non è ben codificato, perché cosa sia genere e cosa specie è
questione di opinioni: però può essere costruito come il rapporto tra regola generale ed eccezione.
Le norme in conflitto restano entrambe efficaci e valide: l’interprete opera solamente una scelta
circa la norma da applicare ( l’altra norma semplicemente non è applicata) , dando la prevalenza
alla norma speciale, che di conseguenza deroga quella generale.
La deroga è l’effetto tipico della prevalenza della norma speciale su quella generale:essa si
distingue dall’abrogazione perché la norma derogata resta in vigore ed anzi, se la norma speciale
dovesse essere abrogata, riespande il suo ambito di applicazione. È chiaro anzi che la deroga
esclude l’applicazione della abrogazione, cioè del criterio cronologico.
Le norme speciali sono norme dettate per specifici settori o particolari materie, che derogano alla
normativa generale per esigenze legate alla natura stessa dell’ambito disciplinato.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
il loro limite di competenza e si preoccupino invece di dettare l'intera disciplina della materia
considerata, superando la distinzione tra principi e dettagli.
La corte costituzionale spiega questa prassi:
è inevitabile che la legge statale disciplini anche il dettaglio perché così si può imporre sulla
precedente legislazione regionale contrastante, abrogandola; poi spetterà alla regione, se vorrà,
emanare proprie leggi di dettaglio che a loro volta sostituiranno le norme statali contrastanti.
Criterio della competenza e criterio cronologico. È quindi il criterio cronologico l‘asse intorno al
quale il sistema si ricompone. Allo stesso tempo può entrare in gioco anche un rapporto di gerarchia
strutturale tra la norma statale di principio e la norma regionale di dettaglio, secondo una relazione
che opera anche tra altre fonti primarie.
La riforma costituzionale del 2001 ha modificato l'intero impianto dei rapporti tra Stato, regioni e
autonomie locali ma non ha affatto introdotto elementi utili per elaborare un diverso, più coerente e
affidabile sistema delle fonti.
Anzi il quadro è più complesso soprattutto per quanto riguarda le materie di competenza
concorrente previste dal nuovo 117.3 della costituzione.
IL NODO DEI REGOLAMENTI DEGLI ENTI LOCALI
Con la riforma costituzionale è emerso un ulteriore problema: il nuovo titolo V sembra voler
attenuare quegli elementi di supremazia che caratterizzavano la posizione dello Stato e la sua legge
nei confronti di regioni e enti locali; nell’art. 117.6 si riconosce agli enti locali potestà
regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro
attribuite, ponendo quindi la necessità di individuare il loro poso nel sistema delle fonti.
Principio di autonomia e riflesso sul sistema delle fonti. La nuova Costituzione infatti inserisce il
principio di autonomia tra i suoi principi fondamentali e dota gli enti locali di autonomia politica ,
oltre che di un ordinamento democratico- rappresentativo. Quindi come poteva il governo locale
reggere questa soggezione rispetto non solo alle leggi ma anche ai regolamenti dello stato o (della
regione)? La gerarchia degli atti veniva scissa dalla gerarchia dei procedimenti.
Il problema si è acuito con la legge di riforma dell’ordinamento locale , che riconosce il Comune
come ente che rappresenta la propria comunità,e ne cura interessi e sviluppo attribuendogli tutte le
funzioni amministrative che riguardino il territorio e la popolazione comunale….salvo quanto non
sia espressamente attribuito ad altri soggetti statali o regionali, secondo le rispettive competenze.
Quindi come vediamo un ente che assume la rappresentanza della propria comunità, abbia fini
generali, dotato di un ordinamento politico con forte rappresentanza locale, ma esprime la sua
autonomia politica solo nelle forme del regolamento amministrativo ( con posizione gerarchica di
scarso valore) pone una seria sfida al sistema delle fonti.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
Il c.d. “cammino comunitario” della Corte Costituzionale. La corte costituzionale ha mutato nel
tempo l'impostazione del problema giungendo infine ad utilizzare il criterio della competenza: i due
ordinamenti sono visti come distinti e separati, ognuno con un proprio sistema di fonti (teoria
dualistica); per cui il conflitto tra le norme è solo apparente, perché ciascuna norma è valida ed
efficace nel proprio ordinamento secondo le condizioni poste dall'ordinamento stesso; è il trattato ad
assegnare la ripartizione di competenza tra i due ordinamenti per cui (in caso di apparente
contrasto) è il giudice italiano che deve accertare se, in base al trattato, nella materia specifica sia
competente la unione europea o l'Italia e di conseguenza applica la norma dell'ordinamento
competente.
Posizione dei trattai internazionali nel sistema delle fonti. Ciò significa che i trattati
internazionali non possono filtrare nell'ordinamento italiano direttamente, cioè senza un'apposita
disposizione legislativa di trasposizione: sono necessarie delle disposizioni interne che producono
norme interne corrispondenti a quella esterna, norme che quindi hanno il rango gerarchico proprio
dell'atto che le ha immesse.
I trattati internazionali sono perciò fatti estranei al nostro ordinamento e per cui è il legislatore
italiano a trarre norme giuridiche applicabili nel nostro ordinamento: spesso ciò avviene mediante
un ordine di esecuzione.
Come vediamo nei rapporti tra Italia e altri ordinamenti abbiamo ancora un sistema delle fonti
chiuso, dominato dal principio di esclusività; le fonti sono identificate da apposite norme di
riconoscimento poste dal nostro ordinamento (norme costituzionali sulla funzione legislativa, e così
via).
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
Sono fenomeni organizzati nel sistema delle norme attraverso il criterio gerarchico ( sono
comunque sottoposti alle fonti primarie) e a quello di competenza ( è la legge che assegna loro un
determinato spazio di autonomia riservato). In tempi recenti la tradizionale prospettiva
dell'autonomia privata è stata ingigantita e resa complessa dall'imporsi (grazie anche all'unione
europea) della globalizzazione e dell'autonomia del mercato.
Interi segmenti della regolazione pubblica lasciano il passo a fenomeni regolatori non sempre
agevoli da definire:
- regolamenti della Banca d'Italia (in particolare la sua funzione di vigilanza sugli istituti bancari;
potere normativo nei confronti di intermediari bancari; poteri riconosciuti da leggi dello Stato).
Stesso potere normativo alla Banca centrale europea(BCE).
- Poi abbiamo i poteri normativi delle autorità amministrative indipendenti: lo Stato tende a
ritrarsi dall'intervento diretto e dall'esercizio del potere normativo e affida compiti di regolazione a
soggetti che si collocano fuori o ai margini del sistema dell'autorità pubblica.
Sono indipendenti perché sottratti al circuito politico-rappresentativo: se da un lato ciò serve a
garantire neutralità, dall'altro lato si indebolisce la loro legittimazione, si rompe quel rapporto tra
rappresentanza politica, garanzie procedimentali e collocazione degli atti nella gerarchia delle fonti.
Il loro potere normativo trae legittimazione dal basso:
- l'attribuzione di questo potere è finalizzata alle esigenze che emergono dal settore da regolare;
- la regolazione dello specifico segmento di mercato verso cui si rivolge la competenza del soggetto
regolatore è generalmente partecipata e condivisa dagli operatori economici che agiscono in quel
segmento.
Questi atti rientrano nel sistema perché previsti dalla legge e vengono garantiti i meccanismi
ordinari di tutela giurisdizionale.
È anche vero che i poteri regolamentari di queste autorità sono delimitati in modo abbastanza
generico sia per estensione che per grado di discrezionalità esercitabile. Le norme che essi emanano
spesso derivano da regole imposte dagli stessi mercati internazionali.
Vi è quindi un rapporto osmotico tra la regolazione che deriva dall'alto dalla normativa statale
dell'unione europea e la regolazione che viene dal basso dalla normativa tecnica che emerge dal
mercato stesso.
Tutto ciò si manifesta nella moral suasion di cui si dice siano dotate molte delle regolazioni
emanate dalle autorità indipendenti, dai codici di autoregolamentazione prodotti dalle
organizzazioni professionali e recepiti dalle autorità preposte, dalla produzione di normative
tecniche e best practices che in ogni settore alcuni soggetti producono continuamente. Siamo in un
mondo definito soft law, con diversi organismi dotati di potere normativo più o meno intenso.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
autorizzano il ministro ad emanare decreti non aventi valore regolamentare anche se contengono
prescrizioni normative (episodi di truffa delle etichette).
Inoltre sono in corso delle evoluzioni che spingono verso la proliferazione di atti regolativi anomali:
ad esempio si sono rafforzate quelle relazioni impostate su un piano più paritario sia tra pubblico e
privato sia tra Stato e autonomie locali e ciò ha favorito lo sviluppo di accordi, intese, atti e
negoziati tra Stato, regioni, imprenditori; atti frutto di negoziazione politica e normativa e si
collocano nel mezzo tra atti meramente politici e atti giuridici con effetti normativi.
Questo fenomeno va dunque a minare ad esempio la tipicità delle forme, dove però si custodiscono
le garanzie procedurali attraverso le quali si formano decisioni di interesse generale.
Dunque deviare dalle forme tipiche della produzione di norme generali significa smarrire uno dei
capisaldi dello Stato di diritto: la netta separazione tra i documenti che sono abilitati a produrre
regole obbligatorie per la generalità dei consociati e i documenti che sono privi di questa
obbligatorietà.
Lo sfarinamento della sovranità statale va di pari passo con la perdita di riconoscibilità di ciò che è
diritto e ciò che non lo è.
CAP 2
LA COSTITUZIONE COME NORMA SULLE FONTI E COME NORMA
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
DIRETTAMENTE APPLICABILE
1. La costituzione come norma sulle fonti e come norma sostanziale
La costituzione italiana pone le "norme di riconoscimento" delle fonti che costituiscono “diritto” in
Italia. Questo compito viene svolto su due versanti:
da un lato vengono disciplinati gli atti normativi prodotti dalle istituzioni pubbliche italiane (Stato e
enti che lo Stato istituisce e dota di poteri normativi);
dall'altro sono regolati i rapporti tra l'ordinamento alimentato da queste norme e le norme che
provengono da altri ordinamenti, sono cioè prodotte da soggetti che non costituiscono istituzioni
pubbliche italiane, perché stranieri o perchè appartenenti alla società civile.
Per quanto riguarda i rapporti tra l'ordinamento italiano e gli altri ordinamenti, abbiamo una
visione e una concezione dualistica da parte della costituzione, cioè di netta separazione tra
l'ordinamento sovrano dell'Italia e gli altri ordinamenti. Abbiamo però l'articolo 10.1 della
costituzione che dispone l'adeguamento automatico del nostro ordinamento alle consuetudini
internazionali mentre per quanto riguarda il diritto internazionale convenzionale vale il tradizionale
meccanismo dell'articolo 80 della costituzione, che subordina la ratifica dei trattati internazionali
più importanti all'approvazione con legge da parte del Parlamento. Anche l'apertura contenuta
nell'articolo 11 della costituzione, che avrà una straordinaria valorizzazione nella giurisprudenza
costituzionale per legittimare le conseguenze dell'appartenenza all'unione europea, è concepita
come separazione dell'ordinamento interno da quello internazionale : sono ammesse limitazioni di
sovranità per favorire il rafforzamento dell'ordinamento internazionale, ma ciò non significa che i
due ordinamenti non siano separati.
Con la legge costituzionale 3/2001 abbiamo l'introduzione nell'articolo 117. 1 della costituzione di
un espresso riferimento oltre che agli obblighi comunitari, anche agli obblighi derivanti dai trattati
internazionali che di fatto apre un capitolo nuovo nei rapporti tra le norme internazionali e
l'ordinamento interno.
Norme provenienti dall’organizzazione sociale. Non mancano in costituzione riferimenti anche
alla apertura dell'ordinamento italiano a norme importate dall'organizzazione sociale. In alcuni
casi si tratta di una vera e propria incorporazione di norme provenienti dal sociale nell'ordinamento,
in altri casi di norme che lo Stato emana a seguito di accordi con le formazioni sociali, in altri casi è
un semplice riconoscimento di autonomia delle formazioni sociali.
Ben più cospicua invece è l'attenzione della costituzione presta all'esigenza di modellare
l'ordinamento giuridico italiano, disciplinando le forme di produzione normativa. Come in coerenza
con il modello kelseniano, la costituzione si preoccupa di disciplinare soltanto gli atti normativi che
le sono immediatamente inferiori nella gerarchia delle fonti: definire cioè procedure di formazione,
ambiti di competenza e rapporti tra le primarie dello Stato.
La Costituzione come fonte: norme precettive e norme programmatiche. La costituzione
italiana però va ben oltre al modello astratto di costituzione. Tutta la sua prima parte contiene i
Principi fondamentali e l'enunciazione dei diritti che devono conformare l'ordinamento interno.
È noto come nei primi anni della sua applicazione vi sia stata molta resistenza a riconoscere alla
nuova costituzione la possibilità di “applicazione diretta”, cioè non mediata dall'opera di attuazione
svolta dalla legislazione ordinaria. La ben nota distinzione tra norme precettive e norme
programmatiche aveva in qualche modo “sterilizzato” l'innesto della costituzione democratica in un
tessuto normativo caratterizzato dalla completa continuità:codici, leggi ordinarie e regolamenti di
attuazione passarono dal regime fascista a quello repubblicano senza una reale rottura.
I modelli organizzativi della pubblica amministrazione rimasero sostanzialmente gli stessi e la
defascistizzazione dello Stato produsse ben pochi risultati . Come è stato osservato il fatto stesso che
si fosse parlato non di dare alla pubblica amministrazione nuovi criteri di organizzazioni bensì di
epurarla, mostrava già come l'azione antifascista intendesse ridursi ad un'opera di ripristino del
vecchio ordinamento. La nuova costituzione non si poteva fondere armoniosamente con il vecchio
ordinamento, ne giudici abituati a non riconoscere fondi superiori alla legge ordinaria, erano
disposti a mutare radicalmente i loro paradigmi.
L'ordinamento italiano, dunque, si presentava come una sorta di Giano bifronte, in parte rivolto agli
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
assetti e alle norme del passato, in parte proiettato verso concezioni e situazioni affatto nuove.
L'ostruzionismo della maggioranza, stigmatizzato dalla celebre denuncia di Calamandrei, era
ispirato da un'atmosfera di disinteresse generale se non di vero e proprio fastidio o di malcelato
disappunto che la dirigenza politica manifestava nei confronti della formazione di un classico
contropotere.
Nelle prime cause discusse dalla corte costituzionale, il governo, attraverso l'avvocatura dello Stato,
ha assunto la difesa della legislazione repressiva fascista contro le norme costituzionali che
garantivano le libertà, sostenendo che quest'ultime o sono norme precettive che producono
l'abrogazione diretta delle leggi anteriori con esso incompatibili oppure hanno il carattere di norme
programmatiche e non comportano perciò difetto di legittimità di nessuna delle leggi vigenti
anteriori alla costituzione.
La Corte ha sin da subito sconfessato questo teorema, affermando la sua competenza a giudicare
della compatibilità con la costituzione delle leggi ad essa anteriori. Ciò implicava l'affermazione
netta della prevalenza delle norme costituzionali su qualsiasi altra norma vigente
dell'ordinamento.
L’IMPATTO DELLA COSTITUZIONE SULLA LEGISLAZIONE ORDINARIA: LA
PRIMA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Nella sua prima sentenza la Corte costituzionale deve affrontare il problema degli effetti che
l’approvazione della Costituzione produce sulle leggi precedenti:la Corte dice che l’istituto di
illegittimità costituzionale si estende anche alle leggi anteriori non solo perché la costituzione in
merito non fa distinzioni ma poi perché è innegabile, dal lato logico, che il rapporto tra leggi
ordinarie e leggi costituzionali e il grado che spetta loro nella gerarchia delle fonti non cambia
affatto, siano le leggi ordinarie anteriori o posteriori alla costituzione. Inoltre i due istituti della
abrogazione e della illegittimità sono due istituti che si muovono su due piani diversi e con
differenti presupposti.
È un'affermazione di grande portata, perché sta a significare che le norme costituzionali sono a tutti
gli effetti norme giuridiche dell'ordinamento positivo e non semplici direttive rivolte al legislatore.
Abrogazione vs. illegittimità. Talvolta, spiega la corte, la prevalenza delle norme costituzionale
può operare con i meccanismi dell'abrogazione: ma questo può accadere piuttosto di rado, perché i
requisiti dell'abrogazione sono piuttosto stretti richiedendo che la costituzione fornisca non un
semplice “principio”, ma una norma sufficientemente precisa e la cui applicazione in un giudizio
non sia condizionata a successive integrazioni normative. E’ vero però che mai la corte ha
espressamente dichiarato già direttamente abrogata dalla costituzione una norma che le è stata
sottoposta in un giudizio di legittimità; ciò però dipende anche dal fatto che dichiarare l'abrogazione
non sarebbe compito suo ma dei giudici ordinari.
Comunque che le norme costituzionali abroghino tacitamente le disposizioni legislative precedenti
contrastanti è un fenomeno che è stato ritenuto del tutto normale sia a seguito dell'introduzione della
costituzione del 1948 sia in conseguenza dell'entrata in vigore di leggi di revisione costituzionale.
La costituzione e la legislazione non sono dunque sfere separate, sicchè le disposizioni
costituzionali non avrebbero modo di entrare a far parte dell'ordinamento giuridico; va riconosciuto
invece che il testo costituzionale è pienamente “atto normativo” che si affianca al resto del
materiale da interpretare pur mantenendo la potenziale caratteristica della prevalenza in caso di
accertato e ineliminabile conflitto. Se questa prevalenza non può esprimersi in termini di
abrogazioni dovrà comportare un giudizio sulla validità della legge.
Nel nostro sistema però non opera un sindacato diffuso sulla legittimità delle leggi, che
consentirebbe ad ogni giudice di far immediatamente prevalere la forza della costituzione sulla
forza di legge. Il giudice deve perciò trasferire alla corte costituzionale il giudizio sulla legittimità
della legge ordinaria. Ma ciò non significa affatto che le norme costituzionali non abbiano modo di
influenzare direttamente il suo lavoro. Essendo norme dell'ordinamento positivo devono essere
trattate dal giudice come tutte le altre norme, salvo riconoscere il grado gerarchico più elevato che
le pone.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
favore di lesioni che riguardano valori della persona costituzionalmente garantiti. Poco dopo anche
la Corte cost. si adegua alla interpretazione costituzionalmente orientata della Cassazione.
Interpretazione “costituzionalmente orientata”….. Altrettanto spesso però è il giudice ordinario
a procedere all'interpretazione costituzionalmente orientata, senza alcun bisogno di attendere
l'intervento della corte costituzionale: così nel noto caso Dorigo, la cassazione penale raggiunge con
l'utilizzazione del criterio ermeneutico dell'analogia legis un'interpretazione adeguatrice
dell'articolo 625 c.p.p. accreditando la regola della parziale rimozione del giudicato nella parte in
cui esso si è formata nel giudizio di legittimità mediante un vulnus al diritto della difesa.
…..o annullamento della disposizione? Quando invece la saldatura tra le due fonti non è possibile
perché il testo della legge non consente un'interpretazione adeguatrice, l'intervento demolitorio della
corte costituzionale si rende indispensabile: solo con la rimozione della disposizione legislativa
potrà essere consentito al giudice di ottenere una norma del caso che non contraddica la
costituzione: scegliere l'una o l'altra via è un compito che spetta al giudice, l'unico che possa
valutare fino a che punto può spingersi un'interpretazione adeguatrice della disposizione “de qua”
senza violarne la lettera.
4. Le sentenze additive
Tutte le sentenze di accoglimento della corte costituzionale hanno conseguenze normative:
dichiarare illegittima una disposizione di legge modifica il sistema normativo, perché si vieta che
quella disposizione sia applicata in un giudizio.
Sentenze manipolative. Vi sono però sentenze interpretative di accoglimento, dette anche
manipolative, dove l'effetto normativo è particolarmente vistoso. Queste sentenze sono variamente
classificate, per le diversità che presentano i loro dispositivi.
Vi si trovano sentenze di accoglimento parziale dove viene colpita da annullamento solo una
ristretta parte della disposizione; sentenze cosiddette sostitutive dove si dichiara illegittima la
disposizione impugnata nella parte in cui prescrive un determinato comportamento anziché un altro;
infine sentenze additive sulle quali ci soffermiamo.
La caratteristica fondamentale di molte pronunce è di agire sulla norma e non sulla disposizione: è
la disposizione ad essere impugnata e poi dichiarata illegittima; l'impugnazione e la dichiarazione di
illegittimità non toccano però direttamente il testo della disposizione, ma solo un suo possibile
significato, una delle norme che da essa può essere ricavata. Le sentenze additive presentano un
ulteriore aspetto, quello di aggiungere una norma ad un testo che non sembrava capace di
esprimerla. Questo significa che la stessa disposizione di legge può essere dichiarata illegittima
numerose volte, senza che il testo ne venga intaccato, ma con l’addizione incrementale ad esso di
significati, cioè di norme.
FILOSOFIA DELLE SENTENZE ADDITIVE
Per quanto una legge possa essere sensata per i diversi casi, vi è almeno una circostanza in cui è
irragionevole. Un esempio è offerto da quella legge che limitava solo alla madre l’assistenza di un
figlio nei primi mesi di vita solo, permettendole di astenersi al lavoro. Il problema sorgeva nel caso
in cui la madre fosse malata o morta durante il parto, considerato che al padre non spettavano questi
diritti. Da qui l’intervento della Corte, la quale dichiara illegittima la disposizione nella parte in cui
non prevede una disciplina adeguata al caso di specie e per questo motivo incorpora l’eccezione
nella regola generale.
Mentre con le sentenze di accoglimento parziale la corte compie un’ operazione di ablazione, di
demolizione di parte delle disposizioni legislative, con le sentenze additive la corte opera una
vistosa produzione normativa, aggiungendo alla disposizione posta dal legislatore una o più norme
che il legislatore aveva omesso. Questa opera creativa della corte è stata spesso contestata, in
quanto la produzione di norme spetta al potere legislativo, non al giudice. È anche vero che è del
tutto impossibile tracciare una distinzione netta tra la demolizione e la creazione : ciò dipende
esclusivamente dalla scrittura della legge.
L'aspetto forse più interessante delle sentenze additive è che esse rappresentano un meccanismo di
produzione di norme che si basa su un'intensa collaborazione del giudice con la corte costituzionale.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
indicati, ma per elaborare la regola che fissava l'ammontare della retribuzione senza
l'intermediazione di una legge attuativa, nonché l'obiettiva parità delle prestazioni lavorative delle
donne.
- “delega di bilanciamento”: una seconda ipotesi si realizza quando la corte costituzionale dichiara
l'illegittimità di disposizioni in cui il legislatore ha fissato un assetto troppo rigido degli interessi,
impedendo al giudice di comporre il loro conflitto in relazione al caso concreto. Sono casi di delega
di bilanciamento, in cui la corte costituzionale, fissata la topografia degli interessi rilevanti in
gioco, affida al giudice il compito di valutare le circostanze di fatto e di elaborare di conseguenza la
regola di prevalenza con cui giustificare il bilanciamento. È la sentenza della corte ad aprire quindi
lo spazio al giudice, poiché viene interpretato o annullato il meccanismo legislativo ritenuto troppo
rigido nell'assicurare tutela di un unico interesse: la corte non sostituisce l'assetto fissato dal
legislatore con l'indicazione di un punto di equilibrio alternativo, perché ritiene che a ciò non si
possa pervenire se non in considerazione delle concrete e specifiche condizioni di tempo, luogo e
modo: tipico è il caso dei cosiddetti reati di opinione per i quali la corte ha ritenuto che possa
sussistere qualche caso concreto in cui la disposizione restrittiva della libertà possa avere
applicazione legittima per tutelare interessi rilevanti. In questi casi dunque la regola del caso è
fissata dal giudice ordinario con applicazione diretta e bilanciata dei principi costituzionali.
- Costituzione come fonte della “regola del caso” Una terza ipotesi riguarda i casi in cui il giudice
si trova di fronte ad una vera e propria lacuna dell'ordinamento. Forse sono casi piuttosto
eccezionali, forse non sempre è chiaro quando la norma del caso sia tratta direttamente dai principi
costituzionali e quando invece essa sia derivata da un'interpretazione conforme costituzione delle
disposizioni vigenti. Vi sono comunque casi in cui è evidente che il divieto di non liquet impone al
giudice, come indica lo stesso articolo 12 delle preleggi, di ragionare in base ai principi generali
dell'ordinamento giuridico: oggi è perciò inevitabile partire dai principi costituzionali.
Il “Caso Englaro”. Particolare risonanza hanno avuto le sentenze della cassazione civile in merito
al cosiddetto caso Englaro: in esso infatti la corte ha affrontato una delicata opera di ricostruzione
della regola di giudizio nel quadro dei principi costituzionali, in assenza di specifiche norme
legislative, per decidere in merito alla richiesta di interrompere trattamenti sanitari presentata dal
tutore della persona in stato vegetativo persistente e permanente, pur non essendoci una
dichiarazione anticipata di trattamento. D'altra parte era stata la stessa corte costituzionale, in una
decisione richiamata a conforto dalla cassazione, ad indicare questa strada, in casi eticamente
sensibili nei quali il legislatore non sia ancora intervenuto: “nell'attuale situazione di carenza
legislativa, osservava la corte costituzionale, spetta al giudice di cercare nel complessivo sistema
normativo l'interpretazione idonea ad assicurare la protezione degli anzidetti beni costituzionali”.
La corte costituzionale fissa la topografia degli interessi in gioco ma, non essendoci una
disposizione di legge riferibile al caso, si trova nell'impossibilità di decidere nel merito della
questione prospettata dal giudice, a cui rinvia il compito di individuare la regola del caso attraverso
un bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti.
LA CASSAZIONE E IL CASO ENGLARO
Per evitare il non liquet, la Corte di cassazione richiama gli artt. 32.2 , 13 e 2 Cost. affermando che
“il consenso informato permette non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento
medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di
interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale”. Per questa via la Cassazione ha
affermato come “norma del caso” il principio secondo il quale:
“ove il malato giaccia da moltissimi anni…in stato vegetativo permanente, con conseguente
radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un
sondino naso gastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo
rappresenta, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario, unicamente in
presenza di alcuni presupposti:
a) quando la condizione di stato vegetativo sia , in base ad un apprezzamento medico, irreversibile e
non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici, che lasci supporre la minima
possibilità di un qualche recupero della coscienza;
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
b) tale istanza deve risultare chiaramente dalla voce del paziente medesimo, tratta dalle sue
precedenti dichiarazioni o dalla sua personalità , dai suoi convincimenti, prima di cadere in stato di
incoscienza.
Se uno o l’altro presupposto non sussiste, il giudice non può dare l’autorizzazione , dando
prevalenza al diritto alla vita.
Le argomentazioni della corte di cassazione per giungere a queste conclusioni sono articolate: la
norma del caso però è tratta direttamente dalla lettura sistematica e bilanciata delle disposizioni
costituzionali.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
Se si collega strettamente l'articolo 139 al referendum istituzionale, si dovrebbe propendere però per
un'interpretazione restrittiva della locuzione “forma repubblicana”, riducendola cioè a quella scelta
tra Repubblica o monarchia che gli elettori espressero nel 1946. Invece è prevalsa in Italia
interpretazione estensiva, tale da comprendere nella forma repubblicana non solo il carattere
elettivo del capo dello Stato, ma il principio della sovranità popolare, di cui l'elezione del capo dello
Stato è solo un'applicazione. Perciò nell'interpretazione che ha prevalso, l'articolo 139 viene
connesso con l'articolo 1: la forma repubblicana è considerata inscindibile dal carattere democratico
della Repubblica e dall’appartenenza della sovranità al popolo. In questo modo il limite esplicito
della riforma costituzionale si allarga e si arricchisce di molto, perché si pongono al riparo dalla
revisione anche quei principi che sembrano indispensabili per poter definire democratico un
ordinamento politico.
Un'altra via per l'estensione e l'arricchimento dei limiti alla revisione costituzionale è stata elaborata
sulla base dell'interpretazione di altre disposizioni costituzionali: l'articolo 2, che dichiara inviolabili
i diritti dell'uomo, porrebbe al riparo dalla revisione anche tutte quelle libertà che sono elencate
dagli articoli 13 e successivi; l'articolo 5 dichiarando la Repubblica una e indivisibile escluderebbe
invece ogni ipotesi legale di secessione o divisione del paese.
I PROCEDIMENTI DI REVISIONE COSTITUZIONALE
Il procedimento di revisione costituzionale è tra i più “facile” se confrontato con quello previsto da
altre costituzioni rigide.
Esso è una variazione del procedimento legislativo ordinario:prevede due deliberazioni successive
da parte di ciascuna camera, anziché una sola-
- La prima deliberazione in ciascuna camera è a maggioranza relativa: in questa fase si possono
apportare emendamenti al progetto di legge costituzionale;
- Nella seconda deliberazione, che può essere effettuata solo dopo che sia trascorso un intervallo di
tre mesi dalla prima, i regolamenti delle camere vietano che siano apportati emendamenti al testo
votato in precedenza, perché altrimenti il procedimento dovrebbe ripartire dall’inizio.
Per cui si avrà votazione soltanto sul testo finale.
Se in essa non si raggiunge in entrambe le camere la maggioranza qualificata dei 2/3 dei
componenti, la legge non potrà essere promulgata dal Presidente della Repubblica;
Se la legge è approvata almeno con la maggioranza assoluta, il testo approvato dal Parlamento è
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Entro 3 mesi dalla pubblicazione può essere chiesto un
referendum, in modo da sottoporre il testo ad approvazione popolare. Lo possono chiedere
minoranze del corpo elettorale (500.000 elettori) , minoranze territoriali e minoranze politiche.
Per la validità del referendum non è richiesto un quorum minimo di votanti: se i consensi superano i
voti sfavorevoli la legge viene promulgata; altrimenti la volontà della maggioranza parlamentare è
vanificata. Il popolo non partecipa alla formazione del nuovo testo costituzionale, ma ha solo il
potere di respingerlo.
Deroghe al procedimento di cui all’art. 138 Cost. Inoltre in Italia, al contrario di altri paesi
europei, non sono previsti procedimenti differenziati per piccole modifiche del testo costituzionale
o per le riforme di grande rilievo: il procedimento è lo stesso per entrambe le portate delle
modifiche. Per ovviare a questi inconvenienti per ben due volte negli ultimi anni si sono varate
leggi costituzionali di deroga alle procedure stabilite dall'articolo 138 in vista di un ambizioso
progetto di revisione dell'intera seconda parte della costituzione della cui predisposizione era stato
dato l'incarico ad un'apposita commissione bicamerale. Però il tentativo è fallito perché non sono le
procedure, ma le divisioni politiche a rendere difficile le riforme. Comunque a parte queste
procedure derogatorie, qualsiasi legge costituzionale sia che sia di revisione del testo costituzionale
sia che attui una riserva di legge costituzionale o intenda integrare la costituzione deve comunque
seguire lo stesso procedimento così come è disegnato dall'articolo 138 della costituzione.
Eccezioni al procedimento di cui all’art. 138 Cost. Vi sono alcune eccezioni: le leggi
costituzionali che modificano le circoscrizioni regionali, le leggi costituzionali che modificano gli
attuali statuti delle regioni speciali così come previsto dalla legge costituzionale 2/2001. Questa
legge ha previsto inoltre il depotenziamento di alcune sezioni degli statuti speciali che potrebbero
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
essere sostituiti dalla legge statuaria regionale che è una fonte sub- costituzionale.
CAP 3
DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA E DIRITTO INTERNO
1. Il “sistema” delle fonti dell’Unione europea
L'unione europea non conosce ancora un vero e proprio sistema delle fonti: edificarlo sarebbe stata
una delle ambizioni del trattato costituzionale firmato nel 2004 ma fallito in fase di ratifica da parte
degli Stati membri. Il successivo trattato di Lisbona apporta qualche miglioramento al quadro degli
strumenti normativi comunitari, di cui da tempo si avverte l'inadeguatezza e l’eccessiva
complessità.
CHE COSA È IL TRATTATO DI LISBONA
Il Trattato di Lisbona è l’ultima revisione del Trattato istitutivo della Comunità europea, che ha
apportato importanti modifiche sia al trattato istitutivo della UE( introdotta con Trattato di
Maastricht) sia al precedente Trattato istitutivo della Comunità europea, che ora è definitivamente
sostituita dalla UE. Quindi oggi abbiamo il Trattato sull’Unione europea, e il Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea; la Carta dei diritti fondamentali.
Un sistema senza gerarchia e “non chiuso” . Attualmente non esiste un'organizzazione gerarchica
delle fonti dell'unione e queste non consistono in un sistema chiuso.
La distinzione fondamentale da cui muovere è tra il diritto convenzionale e il diritto derivato.
Sono fonti del diritto convenzionale i trattati con cui la comunità e l'unione europea sono state
istituite e successivamente modificate e sviluppate. I trattati istitutivi occupano necessariamente una
posizione gerarchica superiore rispetto agli atti normativi derivati, i quali trovano infatti nel trattato
la loro legittimazione e il loro fondamento.
La comunità nasce come organizzazione internazionale: come tutte le organizzazioni internazionali,
è dominata dal principio di attribuzione, che limita le funzioni dell'organizzazione alle sole
competenze ad essa espressamente attribuite, conformandosi al principio di attribuzione delle
competenze. Quindi gli atti dell'unione devono fondarsi su una espressa base giuridica indicata dal
trattato. Le attribuzioni non sono organizzate per materie, ma attraverso "politiche" che prevedono
anche il tipo di atto utilizzabile e le particolari procedure da seguire.
POTERI IMPLICITI, COMPETENZE TELEOLOGICHE E CLAUSOLA DI
FLESSIBILITÀ
“è consentito applicare una norma interpretativa generalmente ammessa anche in diritto
internazionale quando nel diritto interno e secondo la quale le disposizioni di un trattato
internazionale di una legge comprendono implicitamente anche le norme senza le quali le predette
disposizioni non avrebbero senso o non potrebbero venir applicate in modo ragionevole e utile.” In
questa lontana decisione della corte di giustizia è già contenuta la dottrina dei poteri impliciti,
comunemente accettata nei sistemi federali. La corte nella sentenza Aets afferma che anche in
assenza di attribuzioni esplicite nel trattato, i poteri dell'istituzione dell'unione possono essere
desunti dal trattato nel suo complesso e dagli atti normativi derivati, riconoscendo i poteri che sono
indispensabili all'esercizio efficace delle competenze attribuite.
Mentre la dottrina dei poteri impliciti opera sul piano dell'interpretazione del trattato, questi
contiene due norme esplicite che attenuano la rigidità del principio di attribuzione:
a) il consiglio deliberando all'unanimità, stabilisce direttive volte al ravvicinamento delle
disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che abbiano
un'incidenza dire da restaurazione o funzionamento del mercato interno. È una competenza
generale, di tipo competenza teleologica, cioè non circoscritta dall'indicazione di una materia, di un
oggetto, ma di un obiettivo, rappresentato dalla funzionalità del mercato comune. Sono decisioni
vincolate nella procedura, con la richiesta del unanimità, e nello strumento, che deve essere sempre
la direttiva;
b) se un'azione dell'unione europea appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dei
trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto il
potere di azione di gesti a tal fine, il consiglio, deliberando all'unanimità su proposta del visione di
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
Dio troppo approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate. Questa è una
delle disposizioni finali del trattato e contiene una clausola di flessibilità. Posizioni di questo tipo
sono previste nelle costituzioni federali e rendono flessibile il principio di attribuzione perché
consentono di esercitare i poteri che, anche se non esplicitamente attribuiti, sono però funzionali
agli scopi dell'unione.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
Gli atti del diritto derivato si distinguono anzitutto in atti vincolanti e non vincolanti.
Atti non vincolanti: Raccomandazioni CE e pareri
Degli atti non vincolanti non merita dire molto in questa sede. Tra essi vanno annoverati le
raccomandazioni e i pareri: le raccomandazioni sono inviti rivolti agli Stati a conformarsi ad un
certo comportamento mentre i pareri esprimono il punto di vista di un organo su un determinato
oggetto, un'opinione che ogni organo dell'unione europea può esprimere.
Questi atti non pongono norme vincolanti e sanzionabili, ma si confondono con una varietà di atti e
di documenti prodotti dalle istituzioni, i quali precedono o seguono l'emanazione degli atti
normativi in senso stretto: essi spesso vengono ricompresi nella nozione di soft law.
Atti normativi vincolanti
Per quanto riguarda invece gli atti normativi vincolanti e quindi le vere e proprie fonti del diritto
dell'unione europea bisogna distinguere tre tipologie:
- i regolamenti hanno le caratteristiche simili a quelle della legge nell'ordinamento interno.
Pongono norme generali e astratte che si rivolgono a tutti (come si suol dire hanno portata
generale); vanno applicati integralmente nei territori dei paesi membri e vanno applicati
direttamente, senza che sia necessaria la interposizione di un atto dello Stato che lo recepisce
nell'ordinamento internazionale (il regolamento è direttamente applicabile). La diretta applicabilità
significa dunque che il regolamento si impone per forza propria, e la sua applicazione è
obbligatoria per tutti, compresi giudici e pubblica amministrazione dello Stato membro.
- Le direttive sono strumenti più tradizionali. Sono atti normativi che hanno come destinatario il
solo Stato membro e non si applicano perciò direttamente ai singoli. Vincolano lo Stato per quanto
riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito
alla forma e ai mezzi. Lo Stato ha quindi un obbligo di risultato, da raggiungersi entro il termine
fissato dalla direttiva; invece ha discrezionalità per quanto riguarda la scelta delle forme e dei
mezzi: lo Stato può scegliere, in applicazione delle norme del proprio ordinamento, se dare
attuazione alla direttiva con legge, con regolamento o anche solo con comportamenti
dell'amministrazione pubblica, purché assicura un’attuazione piena, corretta e certa.
ATTI LEGISLATIVI DELEGATI
Il trattato di Lisbona, ha introdotto una norma, l'articolo 290 del TFUE: un atto legislativo può
delegare alla commissione il potere di adottare atti non legislativi di portata generale che integrano
o modificano determinati elementi non essenziali dell'atto legislativo. Gli atti legislativi delimitano
esplicitamente gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega di potere. Gli elementi
essenziali di un settore sono riservati all'atto legislativo e non possono essere pertanto oggetto di
delega di potere.
- Le decisioni invece hanno caratteristiche simili al provvedimento amministrativo. Sono
direttamente applicabili ma hanno portata particolare, cioè si rivolgono a soggetti specifici che
possono essere uno Stato membro ma anche una determinata persona giuridica. Esse non pongono
norme generali e astratte, come è proprio delle fonti normative, ma prescrizioni particolari e
concrete.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
La corte di giustizia ha introdotto la nozione di effetto diretto per garantire la prevalenza del diritto
dell'unione europea sul diritto interno anche nei casi in cui lo Stato membro ritardi l'emanazione
delle norme interne. Può esserci un effetto diretto solo se:
a) le disposizioni comunitarie esprimono una norma chiara, precisa e non condizionata: ossia
quando vi siano gli elementi necessari perché il giudice nazionale la possa applicare direttamente;
b) la norma in questione fondi un diritto che il singolo rivendica di fronte al giudice contro lo Stato;
c) il termine per l'adeguamento sia scaduto.
L'effetto diretto svolge perciò una funzione sanzionatoria nei confronti dello stato negligente e una
funzione di garanzia per gli individui, i quali potranno far valere i propri interessi, tutelati dal diritto
dell'unione europea, anche contro lo Stato inadempiente: "sarebbe infatti inaccettabile che lo Stato
al quale il legislatore comunitario prescrive l'adozione di talune norme volte a disciplinare i suoi
rapporti con i privati e a riconoscere a questi ultimi il godimento di taluni diritti potessero far
valere la mancata esecuzione degli obblighi al fine di privare i singoli del godimento di detti
diritti”.
Qualsiasi atto normativo dell'unione, di conseguenza, può generare norme con effetto diretto,
inclusi i trattati istitutivi e gli accordi internazionali. Il privato che ricorre al giudice nazionale per
chiedere l'applicazione diretta di una norma comunitaria concorre perciò a garantire anche
l'effettività dell'ordinamento dell'unione europea, l'effetto utile di ogni suo atto normativo, che
verrebbe meno se i singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici
nazionali non potessero prenderlo in considerazione come norma di diritto comunitario.
L'EFFETTO UTILE E DEI SUOI STRUMENTI
Il principio dell'effetto utile prescrive che ogni norma debba essere interpretata in modo da favorire
il raggiungimento dell'obiettivo in essa prefissato. Esso quindi è strettamente connesso al principio
del primato del diritto dell'Unione Europea, ossia della prevalenza di questo sul diritto interno in
ogni caso di contrasto: In forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le
disposizioni del trattato degli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno
l'effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo di rendere questo “ipso
jure” inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione
contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche, dell'ordinamento giuridico vigente
nel territorio dei singoli Stati membri, tale da impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi
nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie. Però il principio
dell'effetto utile opera innanzitutto sul piano dell'interpretazione dei trattati e del diritto derivato, nel
senso dell'ampliamento dei poteri attribuiti. Opera inoltre come criterio di interpretazione del diritto
interno (nella cosiddetta interpretazione conforme) nonché come fondamento della responsabilità
degli Stati nei confronti degli individui per il mancato adempimento degli obblighi di attuazione del
diritto dell'unione europea.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
Dalla finalità sanzionatoria che caratterizza il meccanismo degli effetti diretti deriva che esso opera
solo nei rapporti verticali cioè tra cittadino e apparati pubblici, e soltanto a favore del cittadino.
Quindi un organo dello Stato non può applicare direttamente una norma comunitaria non attuata
contro gli interessi del cittadino.
UNO STRANO CASO DI PRETESO EFFETTO DIRETTO A DANNO DEL
CONTRIBUENTE
In alcune decisioni, la cassazione, preso atto che una sentenza della corte di giustizia aveva
dichiarato incompatibile con una direttiva europea un determinato regime di condono fiscale, decide
di disapplicare la legge che lo aveva introdotto, ciò a danno del contribuente. Ciò in che termini è
ammissibile? Appare davvero singolare questa giurisprudenza, dato che la corte di giustizia nel noto
caso Berlusconi, aveva chiaramente riaffermato ciò che ha sempre sostenuto, cioè che una direttiva
non può di per sé creare obblighi in capo ad un soggetto e non può quindi essere fatta valere in
quanto tale nei confronti dello stesso. Come la corte costituzionale ha sempre indicato, se una legge
italiana è in contrasto con la norma di una direttiva priva di effetto diretto, il giudice non può
disapplicarla ma deve sollevare una questione di legittimità costituzionale davanti alla corte
costituzionale stessa.
Effetti “verticali” vs. effetti “orizzontali”. L'obbligo dell'applicazione diretta vale per tutte le
autorità degli Stati membri, quale ne sia la funzione o il livello. Discussa è invece la possibilità che
l’applicazione diretta di una norma comunitaria agisca nei rapporti orizzontali tra soggetti privati.
Le norme del trattato possono produrre effetti diretti orizzontali: la corte di giustizia lo ha affermato
in relazione al divieto di discriminazione oltre che per le regole della concorrenza. Non così per le
direttive. Come la corte di giustizia ha sempre sostenuto, i privati non dovrebbero subire
l'applicazione delle norme con effetto diretto a proprio svantaggio. Può capitare però che una delle
parti reclami l'applicazione di una norma comunitaria non attuata dallo Stato, ma la cui applicazione
andrebbe a svantaggio dell'altra parte privata, ponendo il giudice nazionale, in quanto organo dello
Stato, in una situazione alquanto imbarazzante.
Effetti diretti vs. interpretazione conforme. Ferma nel ribadire il divieto di riconoscere l'effetto
diretto della direttiva nei rapporti orizzontali, la corte però invita il giudice nazionale a fare anche in
quel contesto un uso assai forte degli strumenti della interpretazione per rendere effettiva la norma
comunitaria. L'interpretazione conforme sopperisce peraltro anche nei casi in cui è espressamente
vietato dal trattato di riconoscere effetto diretto alla disposizione dell'unione, secondo quanto la
corte di giustizia ha avuto modo di affermare nella ben nota sentenza Pupino.
Effetto diretto vs. risarcimento del danno. Dove l'effetto diretto non può operare, per mancanza
dei presupposti fissati dalla corte di giustizia, ne il risultato può essere raggiunto attraverso il
procedimento di interpretazione conforme, la giurisprudenza della corte di giustizia ha comunque
individuato il modo per assicurare l'effetto utile delle norme dell'unione anche in mancanza di
un'adeguata trasposizione nell'ordinamento interno. Infatti all'inerzia del legislatore nazionale o
all'attuazione insufficiente della norma comunitaria il giudice non può sopperire con gli strumenti a
sua disposizione ma può rimediare con lo strumento del risarcimento del danno. È quanto la corte
di giustizia ha affermato con la notissima sentenza Francovich, che ha inaugurato un filone di
pronunce tese a definire le condizioni alle quali il soggetto privato che fonda la sua pretesa su una
norma comunitaria, la cui applicazione è però condizionata a scelte affidate alla discrezionalità
dello Stato membro, può ottenere dunque risarcimento del danno dallo Stato inadempiente.
Altrimenti sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe
infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciuti.
Perché sorga il diritto al risarcimento del danno devono ricorrere però alcune condizioni:
- che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l'attribuzione di diritti a favore dei singoli;
- che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva;
- che sussista un nesso di causalità tra la violazione dell'obbligo a carico dello Stato e il danno
subito dal soggetto che agisce.
Il risarcimento è dovuto anche in caso di adempimento parziale, non corretto o tardivo di qualsiasi
obbligo comunitario purché la violazione delle norme dell'unione sia grave e manifesta e non
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
dovuta a un errore scusabile, compiuto in buona fede nell’interpretazione della norma comunitaria.
Il fondamento del diritto al risarcimento sta nella norma comunitaria ma la disciplina delle modalità
è lasciata alla legislazione nazionale alla quale è però richiesto che sia comunque garantito
l'adempimento dell'obbligo comunitario di risarcire il danno così come spetta al giudice nazionale
valutare i presupposti della richiesta del privato, eventualmente rivolgendosi alla corte di giustizia
per accertare in caso di dubbio se ricorrano i requisiti necessari perché insorga la responsabilità
dello Stato e in particolare se la violazione degli obblighi comunitari sia comunque grave e
manifesta.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
significato di una disposizione in Italia, o la dichiari invalida, avrà effetto per tutti i giudici e gli altri
soggetti dell'applicazione del diritto dell'unione europea.
Il rinvio pregiudiziale come strumento del radicamento dell’ordinamento comunitario. Con le
prime sentenze pronunciate la corte di giustizia afferma innanzitutto che nel suo compito di
interpretare il diritto comunitario rientra anche il giudizio su come esso venga applicato in seno agli
ordinamenti interni. Ciò produce una inattesa giuridicizzazione del diritto dell'unione europea:
l'aspetto dell'interpretazione del diritto dell'unione europea si sovrappone al giudizio
sull'applicazione del diritto comunitario nell'ordinamento interno. Dunque il rinvio pregiudiziale
diventa lo strumento con cui il giudice nazionale risolve il contrasto tra diritto interno e diritto
dell'unione europea.
La Comunità europea come “comunità di diritto”…Nella sentenza Van Gend la corte di giustizia
afferma che la comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto
internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai propri
poteri sovrani. Si tratta di un ordinamento giuridico che in seguito avrebbe definito una comunità di
diritto, che si fonda cioè sui principi dello Stato di diritto, e quindi riconosce in primo luogo il
principio di legalità, nel senso che ne gli Stati che ne fanno parte, ne le sue istituzioni sono sottratte
al controllo della conformità dei loro atti alla carta costituzionale di base ,costituita dal trattato.
…che attribuisce diritti ai singoli….Nella sentenza Van Gend la corte afferma per la prima volta
che le norme del trattato possono avere efficacia immediata negli ordinamenti interni degli Stati
membri attribuendo ai singoli dei diritti soggettivi che il giudice nazionale ha il dovere di tutelare;
inoltre si afferma che il diritto comunitario, indipendente dalle norme emanate dagli Stati membri,
nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi.
…tutelabili in via giurisdizionale. La garanzia dei diritti riconosciuti ai singoli non può essere
affidata al meccanismo, tutto politico, della procedura di infrazione, attraverso la quale la
commissione può reagire alla negligenza dello Stato membro: proprio i principi dello Stato di diritto
impongono che sia possibile far valere questi diritti comunitari davanti al giudice nazionale perché
altrimenti resterebbero privi di tutela giurisdizionale diretta.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
La corte costituzionale, più volte chiamata decidere sul contrasto tra le leggi ordinarie e regolamenti
CE, ha applicato in successione diversi criteri di risoluzione delle antinomie.
All'inizio ha suggerito l'applicazione del criterio cronologico: tra norme interne e norma
comunitaria prevale quella più recente, senza dar luogo a questioni di costituzionalità. Questa
soluzione non poteva essere accettata dalla corte di giustizia, poiché contrastava con il principio
della prevalenza del diritto comunitario. Allora la corte costituzionale optò per il criterio gerarchico:
le leggi italiane in contrasto con un precedente regolamento CE (senza dimenticare che il
regolamento CE successivo abrogava le leggi precedenti contrastanti) dovevano essere impugnate
davanti alla corte costituzionale stessa per violazioni indiretta dell'articolo 11 della costituzione,
cioè degli impegni e delle limitazioni che l'Italia aveva assunto ratificando il trattato in attuazione
dell'articolo 11 stesso. Ma anche questa soluzione non era priva di conseguenze, soprattutto a causa
del ritardo con cui la corte era in grado di rispondere all'impugnazione dei giudici di merito, che
dovevano sospendere il loro giudizio in attesa della decisione della corte. Per anni, dunque, il
regolamento CE violato dalla legge italiana restava paralizzato, in attesa che la legge venisse
dichiarata illegittima.
La corte costituzionale approdò solo con la sentenza 170 del 1984 (nota anche come sentenza
Granital) ad una soluzione stabile, che resiste tutt'oggi.
Essa muove da una stabile premessa classica: l’ordinamento dell'unione europea e l’ordinamento
italiano sono due ordinamenti giuridici autonomi e separati, ognuno dotato di un proprio sistema di
fonti: è la cosiddetta teoria dualistica. La normativa comunitaria non entra a far parte del diritto
interno, ne viene per alcun verso soggetta al regime disposto per le leggi e gli atti aventi forza di
legge dello Stato. Perciò tra le fonti interne e quelle dell'unione non è neppure configurabile un vero
e proprio conflitto, perché ognuna è valida ed efficace nel proprio ordinamento secondo le
condizioni stesse poste dall'ordinamento stesso; ratificando il trattato istitutivo, il legislatore italiano
ha riconosciuto la competenza dell'unione europea a emanare norme giuridiche in determinate
materie e che queste norme si impongono direttamente nell'ordinamento italiano per la forza che ad
essa conferisce il trattato. Spetta dunque al trattato fissare la ripartizione di competenze tra i due
ordinamenti e il regime giuridico delle proprie fonti.
Gli apparenti conflitti tra norme che eventualmente sorgano tra le leggi italiane e il diritto dell’
Unione Europea vanno dunque risolte dal giudice italiano applicando il criterio della competenza:
il giudice deve accertare se, in base al trattato, sia competente sulla materia l'ordinamento
dell'unione europea o quello italiano e di conseguenza deve applicare la norma dell'ordinamento
competente. Ovviamente il giudice può risolvere i dubbi solo con un rinvio pregiudiziale alla corte
di giustizia, perché si tratta di un problema di interpretazione del trattato.
Non applicazione vs. disapplicazione. Accertata la competenza del diritto dell'unione europea,
bisogna stabilire se la norma comunitaria abbia o meno effetto diretto: in questo caso la norma
interna contrastante non viene né abrogata né dichiarata illegittima, ma semplicemente non viene
applicata. Essa perciò resta valida ed efficace come disciplina delle questioni che non rilevano per il
diritto dell'unione europea.
Come ha dichiarato la corte costituzionale, la non applicazione della norma interna non implica un
giudizio sulla sua validità (come invece sarebbe implicito nella nozione di disapplicazione).
Trattandosi di leggi ordinarie, il giudizio sulla loro validità sarebbe precluso al giudice ordinario,
essendo riservato alla corte costituzionale; la non-applicazione invece corrisponde alle consuete
operazioni interpretative che competono al giudice, che tra più schemi normativi, tutti astrattamente
adatti a regolare il caso di specie, sceglie quello appartenente all'ordinamento competente a
disciplinare la materia sulla base del riparto di attribuzioni tracciato dal trattato, come detto senza
che ciò implichi un giudizio di validità della legge.
RINVIO PREGIUDIZIALE E LA PRODUZIONE DI NORME AD EFFETTO DIRETTO
Il rinvio pregiudiziale di interpretazione è un potente meccanismo di produzione di norme con
effetto diretto. Il giudice nazionale rivolge un quesito interpretativo alla corte di giustizia in cui deve
descrivere compiutamente la fattispecie di cui si sta occupando. Questa fattispecie è regolata dalla
legge italiana in modo che il giudice ritiene non conforme ad una determinata norma comunitaria.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
La norma che la corte di giustizia ricava dall'interpretazione della disposizione comunitaria, essendo
ricollegata alla fattispecie precisa delineata dal giudice remittente, acquista spesso quei caratteri di
sufficiente precisione necessari a produrre effetti diretti.
Quindi in caso di conflitto di una norma interna con quella comunitaria, la corte di giustizia impone
al giudice nazionale di non applicare più quella fattispecie e di cercare nel proprio ordinamento la
soluzione che gli consenta di farlo. Ma se il dispositivo della sentenza della corte di giustizia
fornisce una norma chiara, precisa e incondizionata, l'effetto diretto allora e la non applicazione
della norma interna contrastante sono conseguenze necessarie.
Pregiudiziale comunitaria e ricorso incidentale alla Corte costituzionale. La corte costituzionale
ritiene che sia compito esclusivo del giudice risolvere questa sequenza di problemi interpretativi,
magari con l'ausilio della corte di giustizia in caso di dubbio: la soluzione di una questione di
compatibilità comunitaria assume priorità logica e giuridica rispetto all'incidente di
costituzionalità. Quindi la corte costituzionale blocca sistematicamente con un'ordinanza di
manifesta inammissibilità ogni tentativo di investirla del problema di compatibilità di una legge
italiana con il diritto dell'unione europea se non sono prima chiariti i profili rilevanti alla
competenza e alla natura self executing o meno della norma comunitaria. Se però si accerta che la
norma comunitaria non ha effetto diretto, al giudice non resta che la strada di impugnare la norma
interna contrastante davanti alla corte costituzionale: violando il diritto dell'unione europea infatti si
viola indirettamente l'articolo 11 della costituzione e oggi con la riforma costituzionale del 2001,
anche l'articolo 117.1 della costituzione,rispetto al quale la norma comunitaria si pone come
“parametro interposto”.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
sulla corte di giustizia non solo del testo della convenzione europea, ma anche della giurisprudenza
della corte di Strasburgo, suo interprete e garante.
La giurisprudenza comunitaria si è sviluppata dunque riguardando i diritti fondamentali più diversi
e in questo modo la corte di giustizia ha cercato di coprire quelle zone d'ombra che si erano create
per effetto del riconoscimento del primato del diritto dell'unione europea: filling the gap era
l'obiettivo e la giustificazione della giurisprudenza comunitaria.
Il riconoscimento dei diritti nel Trattato di Maastricht. Quest'ultima poi ha trovato un
riconoscimento formale con l'entrata in vigore del trattato di Maastricht. L'articolo 6 del trattato
afferma che l'unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi
generali del diritto comunitario. Questa norma è stata poi confermata con il trattato di Amsterdam.
Si è creato un doppio sistema di tutela dei diritti fondamentali. Da una parte i diritti
fondamentali riconosciuti e garantiti dalla corte di giustizia nei confronti degli atti delle istituzioni
dell'unione, attraverso un giudizio in cui si applicano principi elaborati autonomamente a partire
dalle costituzioni nazionali e dalla convenzione europea. Dall'altra parte i diritti fondamentali
garantiti dalle costituzioni nazionali e tutelati dalle corti costituzionali nei confronti degli atti delle
autorità interne. Un sistema quindi basato sulla separazione tra due forme di tutela riguardanti l'una
gli atti delle istituzioni dell'unione e l'altra gli atti delle istituzioni nazionali.
In realtà nel tempo questa linea di separazione è divenuta sempre più evanescente e i due sistemi si
sono sovrapposti.
La dottrina dell’incorporation.
La giurisprudenza comunitaria infatti ha affermato che se in linea di principio la sua tutela riguarda
essenzialmente gli atti delle istituzioni dell'unione nell'esercizio delle loro funzioni, tuttavia essa
può anche interessare gli atti degli Stati membri sulla base della dottrina dell'incorporation.
Secondo questa dottrina la corte europea si è ritenuta competente a valutare la compatibilità di atti
nazionali, oltre a quelli comunitari, con i diritti fondamentali da essa elaborati e protetti. Questa
espansione della giurisdizione della corte di giustizia può avvenire due ipotesi:
a) quando gli Stati membri agiscono per dare attuazione a normative dell'unione;
b) quando gli stati invocano una delle cause di giustificazione previste dai trattati comunitari per
limitare una delle libertà economiche fondamentali garantite dai trattati.
L'unico limite finora certo per la corte di giustizia è il divieto di estendere la sua tutela su atti
dell'autorità statale che si riferiscono a materie estranee al diritto dell'unione europea.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
fungono da norme interposte atte ad integrare il parametro costituzionale dell'articolo 117.1, sia
pure con il limite dell'intangibilità dei diritti inviolabili e i principi fondamentali. La corte aggiunge
che in questo caso, il mancato rinvio lederebbe in modo irreversibile il generale interesse
all'uniforme applicazione del diritto dell'Unione Europea, come interpretato dalla corte di giustizia e
che le conseguenze di una sua eventuale violazione sarebbero interamente imputabili all'organo di
giustizia costituzionale stesso.
Quindi il dialogo con la corte di giustizia continuerebbe ad essere svolto per interposto giudice.
Con riguardo al caso che ha occasionato l'ordinanza 103 del 2008, è pure interessante sottolineare
come la norma regionale che prevedeva l'imposta non creava una discriminazione tra imprese
italiane e imprese straniere, bensì tra imprese domiciliate in Sardegna e imprese, italiane o straniere,
domiciliate altrove. Una sua eventuale incompatibilità con il principio della libera prestazione dei
servizi la renderebbe inapplicabile alle imprese straniere , ma non a quelle italiane, con la possibilità
che si determini un ennesimo caso di discriminazione alla rovescia, cioè di un trattamento
discriminatorio posto in essere da uno Stato a danno dei propri cittadini, che, pure irrilevante per il
diritto dell'unione europea, rappresenta una conseguenza della sua applicazione.
LA SENTENZA PASTA
La corte costituzionale italiana, in una sentenza molto discussa, si è posto un problema delicato.
Il divieto di discriminazione in base alla nazionalità, su cui si fondano le libertà sancite dal trattato
CE, tutela i cittadini di uno Stato contro restrizioni poste dagli altri Stati membri. In linea di
principio, invece, l'unione non si preoccupa di valutare sulle applicazioni del principio di
eguaglianza dei cittadini di uno stesso Stato, essendo questioni interne.
È accaduto però, che in forza della direttiva dell'unione, in Italia sia stata ammessa la
commercializzazione di paste alimentari fabbricate all'estero e conforme agli standard europei,
mentre restavano in vigore limiti assai più severi che le leggi italiane imponevano ai produttori
italiani.
La corte quindi ha riconosciuto che ai danni dei produttori italiani si era prodotta una
discriminazione al rovescio, che urta con il principio di eguaglianza. Quindi il principio di non
discriminazione tra imprese che agiscono nello stesso mercato in rapporto di concorrenza, opera nel
senso di impedire che le imprese nazionali siano gravate di oneri, vincoli e divieti che il legislatore
non potrebbe imporre alla produzione comunitaria: ciò significa che nel giudizio di eguaglianza
affidato alla corte non possono essere ignorati gli effetti discriminatori che l'applicazione del diritto
comunitario è suscettibile di provocare. La corte perciò ha dichiarato la legge impugnata illegittima
nella parte in cui non prevede che alle imprese aventi stabilimento in Italia è consentita, nella
produzione e commercializzazione di paste alimentari, l'utilizzazione di ingredienti legittimamente
impiegati in base al diritto comunitario.
La corte costituzionale quindi nei casi di discriminazione alla rovescia non fronteggiabili altrimenti,
ha ritenuto la dichiarazione di incostituzionalità della norma interna l’unica alternativa praticabile.
CAP 4
DIRITTO INTERNAZIONALE E DIRITTO INTERNO
1. Le clausole costituzionali di apertura dell’ordinamento nazionale al diritto internazionale
L'ordinamento nazionale è influenzato e condizionato oltre che dal diritto europeo anche dal diritto
internazionale: ciò è previsto da alcune clausole costituzionali che comportano diversi livelli di
apertura e di integrazione tra il nostro sistema giuridico e le fonti di diritto internazionale.
Il rinvio ad altri ordinamenti. La tecnica giuridica utilizzata a questo scopo è quella del rinvio.
Attraverso questa tecnica la norma interna sulla produzione giuridica “nazionalizza” la norma di
diritto internazionale richiamata, cioè produce una norma interna di contenuto eguale a quella
prodotta dalla fonte internazionale.
Il rinvio può essere di due tipi: il rinvio fisso o recettivo o materiale; il rinvio mobile o non
recettizio o formale.
Nel primo caso la norma di diritto interno richiama un determinato atto proveniente da un
ordinamento esterno.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
Nel secondo invece viene richiamata una fonte esterna, consentendo così l'adattamento automatico
dell'ordinamento interno a tutte le norme che da questa fonte derivano.
Vi sono differenze sostanziali tra i due meccanismi per quanto riguarda l'applicazione del diritto.
Nel primo caso l'operatore giuridico dovrà applicare le norme ricavabili dalla atto a cui si fa rinvio
come se si trattasse di norme interne. Ciò comporta una duplice conseguenza: ogni successiva
vicenda della norma nell'ordinamento di provenienza (come abrogazione o modifica) è indifferente;
poi i criteri interpretativi applicabili al testo sono quelli dell'ordinamento richiamante, cioè nel
nostro caso l'ordinamento italiano. Invece nel caso del rinvio mobile, l'ordinamento recepisce la
norma come essa vive nell'ordinamento di provenienza. Anche qui abbiamo due ordini di
conseguenze: tutte le vicende modificative che la norma subisce si ripercuotono nell'ordinamento
richiamante; la norma deve essere interpretata alla stregua dei criteri propri dell'ordinamento di
provenienza.
Dunque l’apertura del nostro ordinamento al diritto internazionale si realizza mediante due clausole
costituzionali: la prima è quella secondo cui l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle
norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, così come previsto dall'articolo 10.1
della costituzione. Si tratta di un rinvio mobile alle norme di diritto internazionale generale.
La seconda è la previsione secondo cui la potestà legislativa dello Stato e delle regioni è esercitata
nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento dell'unione europea e dagli obblighi
internazionali, così come previsto dall'articolo 117.1 della costituzione.
Individui come soggetti del diritto internazionale. Vi è poi un terzo fenomeno da prendere in
considerazione. Tradizionalmente il diritto internazionale si riferiva agli Stati. Nell'era presente
invece, molte regole internazionali si riferiscono direttamente gli individui senza l'intermediazione
dei sistemi giuridici nazionali. In questi casi possono essere gli stessi soggetti privati a promuovere
l'attuazione nell'ordinamento nazionale di norme di origine internazionale.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
secondo cui il rinvio opera nei limiti del quadro costituzionale, sicché il conflitto andrebbe risolto a
favore delle norme costituzionali, alla tesi opposta secondo cui le norme di adattamento
prevarrebbero su tutte le norme costituzionali con la sola eccezione dei principi fondamentali, fino
alla tesi che fa leva sull'applicazione del principio di specialità. Quest'ultimo esclude che vi sia un
vero e proprio conflitto di norme, ossia una antinomia, perché è possibile individuare tra più norme,
tutte egualmente valide ed efficaci, l'unica che deve trovare applicazione nella fattispecie concreta.
La corte costituzionale, infatti, in una sentenza fondamentale, ha fatto espresso riferimento proprio
al principio di specialità per armonizzare la norma internazionale sull'immunità dell'agente
diplomatico dalla giurisdizione civile con le norme costituzionali sulla giurisdizione, dichiarando
che il conflitto è solo apparente.
IL DIRITTO INTERNAZIONALE PRIVATO
Lo schema del rinvio mobile trova applicazione anche per il cosiddetto diritto internazionale
privato: questo, in realtà, non è altro che una branca del diritto nazionale che regola l'applicazione
della legge nei rapporti tra privati quando il soggetto o i beni coinvolti sono collegati ad
ordinamenti statali diversi. Il diritto internazionale privato in questi casi sceglie l'ordinamento le cui
norme dovranno trovare applicazione alla fattispecie, utilizzando la tecnica del rinvio mobile. Il
giudice italiano potrà perciò trovarsi ad applicare fonti esterne, provenienti da altri ordinamenti
nazionali: tradizionalmente esse sono concepite nell'ordinamento interno come fonti-fatto, con la
conseguenza che non dovrebbe trovare applicazione il principio iura novit curia. Però con la
riforma del 1995 questa impostazione è cambiata: infatti l'articolo 14 prevede che l'accertamento
della legge straniera è compiuto d'ufficio dal giudice e inoltre la legge straniera è applicata secondo
i propri criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
Prevalenza della Costituzione sulle norme CEDU. Ciò, secondo la corte costituzionale, implica
una condizione, che la norma CEDU sia conforme alla costituzione: non solo conforme ai principi
fondamentali, secondo la dottrina dei controlimiti elaborata in riferimento alle norme dell'unione
europea, ma a qualsiasi norma costituzionale.
LA CEDU E IL RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
Com'è noto, gli Stati che fanno parte del consiglio d'Europa aderiscono alla convenzione europea
dei diritti dell'uomo, entrata in vigore nel 1953.
La convenzione garantisce una molteplicità di diritti che toccano diversi campi: divieto di
discriminazioni, diritto alla vita, divieto alla tortura, divieto di schiavitù e del lavoro forzato e così
via.
La convenzione ha istituito la corte europea dei diritti dell'uomo, cui ha affidato la garanzia dei
diritti dai contemplati.
Il sistema giudiziario così istituito prevede due tipi di ricorso: uno offerto ai singoli Stati nei
confronti degli altri Stati che hanno stipulato la convenzione e che da luogo ai cosiddetti ricorsi
interstatali; l'altro può essere proposto dai singoli individui, dalle organizzazioni non governative e
da gruppi di privati. È richiesta però una condizione di ricevibilità del ricorso: l'esaurimento delle
vie di ricorso interne allo Stato. Pertanto, la competenza della corte ha carattere sussidiario: cioè
può intervenire solo nel caso in cui non sia stato possibile ottenere la rimozione della violazione o
un'adeguata riparazione con l'intervento degli organi giurisdizionali o di altri organi di garanzia
appartenenti allo Stato.
4.L’evoluzione giurisprudenziale
La principale novità introdotta dalla giurisprudenza costituzionale del 2007 è la riconosciuta
prevalenza del diritto internazionale pattizio sul diritto nazionale. Secondo l'impostazione
precedente invece, la corte costituzionale sosteneva che in base al criterio della successione delle
leggi nel tempo, la legge successiva prevale su quella anteriore, per cui il legislatore sarebbe stato
libero di non rispettare le norme internazionali pattizie rese operanti nell'ordinamento interno con
l'atto di recepimento.
L’interpretazione dei trattati. Questa novità però si inserisce nel quadro di alcuni filoni
giurisprudenziali di cui le decisioni del 2007 rappresentano uno sviluppo e un approfondimento.
Il primo filone riguarda le condizioni di efficacia delle norme internazionali nell'ordinamento
interno. La corte ha affermato che l'efficacia interna delle norme internazionali non è subordinata
alla loro riproduzione attraverso un atto normativo di diritto interno, essendo a tal fine sufficiente
l'ordine di esecuzione. Successivamente la corte, da un lato, ha sostenuto che le norme di diritto
internazionale, una volta eseguite, possono essere direttamente applicabili, se produttive di obblighi
a contenuto individuale e, dall'altro, ha precisato che la portata delle norme internazionali va
definita in rapporto ai parametri propri non dell'ordinamento in nazionale, bensì dell'ordinamento
d'origine.
Le due sentenze del 2007 hanno affermato che il diritto internazionale deve essere applicato
nell'ordinamento interno, secondo l'interpretazione fornita dal giudice internazionale competente. Se
già in passato la corte aveva operato dei richiami alle pronunce della corte EDU, ora il
riconoscimento del carattere vincolante dell'interpretazione di quest'ultima è divenuto esplicito. Il
suo fondamento è dato dall'articolo 32 della CEDU, che affida alla corte EDU la funzione di
interpretare le disposizioni della convenzione.
La regola dell’interpretazione conforme. Il secondo filone giurisprudenziale è quello che affida
all'interpretazione del giudice l'integrazione delle norme internazionali nell'ordinamento interno. La
regola è quella secondo cui i giudici devono interpretare il diritto interno in modo conforme al
diritto internazionale al fine di evitare l'inadempimento dello Stato. A partire dal 2007 questo
obbligo di interpretazione conforme viene esteso alle norme della CEDU, così come interpretata
dalla corte di Strasburgo. In questo modo si delinea una divisione dei compiti tra i giudici comuni e
il giudice costituzionale. Ai primi compete di assicurare in via ordinaria il rispetto delle norme
internazionali pattizie tramite lo strumento dell'interpretazione conforme, ma quando le possibilità
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
riconducibile ai caratteri della norma internazionale pattizia non si potrebbe escludere a priori che
altre norme internazionali pattizie abbiano carattere self-executing, lasciando così aperta la strada ad
una diversa ricostruzione dei rapporti tra norma interna e norma internazionale.
Un altro problema è quello della determinazione dell'esatto ambito di applicazione dei principi
ricavabili dall'articolo 117.1 della costituzione. A quali fonti internazionali pattizie si applica il
principio di legalità internazionale?
Il problema degli accordi in forma semplificata….Innanzitutto la questione si pone con riguardo
ai cosiddetti accordi in forma semplificata, cioè quei trattati internazionali conclusi dal governo e
non ratificati dal Parlamento, in deroga all'art. 80 della costituzione. Si può ritenere che la corte
costituzionale neghi il carattere vincolante di questi accordi che impone il limite della compatibilità
delle norme pattizie con la costituzione, espressamente affermato dalle due sentenze citate.
…..e della possibile distinzione tra diversi tipi di trattato. Per quanto riguarda invece gli accordi
oggetto di regolare procedure di adattamento, sono ipotizzabili tre soluzioni diverse. Una prima
soluzione di tipo restrittivo, secondo cui la corte potrebbe restringere la portata dell'articolo 117.1
della costituzione ai soli trattati sui diritti umani; la seconda soluzione opta per la massima apertura
dell'ordinamento, perché, facendo leva sul tenore letterale dell'articolo 117.1, sostiene che la
preminenza deve essere assicurata a tutte le norme di diritto internazionale pattizio; secondo una
terza soluzione, l'efficacia vincolante e preminente sul diritto interno andrebbe attribuita non già alle
sole norme internazionali sui diritti umani bensì a quelle norme internazionali la cui attuazione
avvenga sotto la supervisione di un organo giurisdizionale internazionale deputato alla soluzione
delle controversie sull'applicazione del trattato.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
giustizia, essa dovrebbe assicurare la tutela dei diritti fondamentali solo in riferimento al diritto
dell'unione europea e alle norme nazionali di attuazione, riservandosi invece alle corti costituzionali
la tutela dei diritti costituzionali rispetto alle norme interne. Però, nella concreta esperienza
giuridica, queste linee di demarcazione tendono a diventare nebulose e sempre maggiore è la
tendenza delle corti europee a sindacare scelte nazionali adottate seguendo il procedimento
democratico nazionale. Ecco che sorge il pericolo di una sorta di colonialismo giurisdizionale che
impone le scelte dei “signori del diritto europeo” all'ordinamento nazionale. E di fronte a questo
rischio la corte costituzionale, almeno in linea di principio, sembra voler rivendicare a sé la
funzione di protettrice della specifica tradizione costituzionale nazionale nell'ambito del dialogo
giudiziario europeo.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
aspetto non meno importante è costituito dalla cosiddetta concorrenza tra ordinamenti giuridici:
con quest'espressione si indica la circostanza per cui i singoli operatori possono scegliere di volta in
volta la regola dell'ordinamento statale che ritengono più conveniente ai loro fini. In questo caso lo
Stato mantiene la sua capacità regolatoria ma perde la pretesa ad una sfera esclusiva quanto agli
effetti che discendono dall'esercizio del suo potere normativo.
Nelle ipotesi viste in precedenza il diritto applicato dai giudici è un diritto che trova la sua origine in
fonti extra e sovranazionali. Nell'ultima ipotesi invece lo Stato conserva il potere normativo, ma se
gli operatori scelgono il diritto di un altro Stato non potrà fare nulla per imporre il proprio e dovrà
dare esecutività al diritto così prescelto.
Quando ciò avviene si apre una specie di concorrenza tra ordinamenti statali nel tentativo di
produrre le regole più attraenti da parte degli operatori e tra questi ultimi si determina una specie di
law shopping, che consente loro di scegliere tra diverse offerte normative in concorrenza.
Resta il fatto che i giudici interpretano e applicano un diritto la cui fonte è fuori dall'ordinamento
nazionale.
L’origine comunitaria della “scelta dell’ordinamento giuridico”. In particolare è stata la corte di
giustizia a fondare il diritto, considerato come direttamente discendente dalle norme dell'unione
europea, di scegliere le regole dell'ordinamento che si preferisce.
IL CASO CENTROS
Nel caso Centros, i coniugi Bryde, costituirono una private limited company denominata Centros,
utilizzando il diritto dell'Inghilterra e del Galles, chiedendo poi alla direzione generale del
commercio del regno di Danimarca l’iscrizione di una succursale della società per svolgere la
propria attività in Danimarca. La scelta del diritto inglese è dipesa dal fatto che esso, a differenza
del diritto danese, non prevede l'obbligo per i soci di costituire un capitale sociale minimo ed infatti
la società era stata costituita con un capitale sociale minimo di sole 100 sterline. Però la direzione
danese rifiuta l'iscrizione denunciando la frode alla legge.
Investita della questione pregiudiziale la corte di giustizia afferma che dall'articolo 52 del trattato
CEE, che vieta le restrizioni alle libertà di stabilimento e dall'articolo 58, che equipara nel
trattamento le società costituite conformemente alle norme di uno Stato membro alle persone fisiche
aventi la cittadinanza degli Stati membri, deriva che non può rifiutarsi l'iscrizione della succursale
di una società, anche quando ciò miri ad escludere l'applicazione di norme più severe materie di
capitale sociale
Gli sviluppi giurisprudenziali sono coerenti con i limiti che l'articolo 5, ai paragrafi 2 e 3, del TUE
pone alla competenza delle istituzioni europee. Il primo è il principio di sussidiarietà, che impone
all'azione dell'unione europea di arrestarsi di fronte al potere normativo dei singoli Stati; il secondo
invece richiede la proporzionalità dell'azione regolativa, cui è prescritto di non eccedere quanto
strettamente necessario a conseguire i propri obiettivi.
Dunque l'obiettivo dell'integrazione del mercato unico può essere realizzato anche attraverso il
mutuo riconoscimento delle norme giuridiche di ciascuno degli Stati comunitari: l'orientamento
della giurisprudenza della corte di giustizia permette, in molte circostanze, di superare le regole
poste dal diritto internazionale privato (che è un diritto di fonte nazionale). Una delle conseguenze
del mutuo riconoscimento delle norme della concorrenza tra ordinamenti è l'instaurazione di questo
fenomeno: il destinatario del precetto sceglie la norma che ritiene a se più favorevole, ma il
manifestarsi di questa preferenza si riflette nelle decisioni del regolatore nazionale che modifica il
proprio sistema giuridico adeguandola a quello di maggior successo. Si crea così una sorta di
circolazione di istituti giuridici da un ordinamento all'altro.
43
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
principi maturati nell'esperienza costituzionale di altri paesi o nella giurisprudenza delle corti
ultrastatali. Infatti la trama argomentativa del giudice costituzionale utilizza un materiale normativo
tratto non solo da costituzioni nazionali e da fonti sovranazionali legittimate ad operare
nell'ordinamento nazionale dalla stessa costituzione, ma che deriva da altri ordinamenti
costituzionali e sovranazionali. Certamente questi documenti e giurisprudenze altrui non hanno
valore cogente ma comunque rivestono un certo ruolo “persuasivo”. Quindi si creano degli elementi
comuni tra le diverse tradizioni costituzionali che non si fondano partendo da un centro di
produzione giuridica abilitato formalmente, ma attraverso le argomentazioni delle corti
costituzionali e delle giurisdizioni superiori, che fanno leva sulla tendenza all'apertura delle
disposizioni di principio delle costituzioni.
Questo fenomeno rende evidente come l'apertura all'esterno dell'ordinamento, la comunicazione e
l'integrazione con altri sistemi giuridici, non dipendono solo semplicemente dal testo costituzionale
ma dalla complessiva cultura giuridica e costituzionale che lo vivifica. In questa prospettiva,
l'interpretazione costituzionale può essere considerata anche come un atto di adesione o di rottura
rispetto a tradizioni storico-culturali comprensive, di cui le singole costituzioni sono parti.
CAP 5
LA LEGGE E LE FONTI PRIMARIE
1. Legge formale e riserve di legge
Il sistema delle fonti primarie (ossia della legge formale e degli atti con forza di legge) è tracciato
dalla stessa costituzione: è un sistema chiuso di atti tipici, non modificabile se non attraverso
revisione costituzionale. È vero che l'articolo 117 della costituzione disciplina le leggi regionali,
fonte primaria anche esse: ma è vero anche che, nella visione originale e sino alla riforma
costituzionale del 2001, tali leggi si collocavano su un piano minore, sia per la competenza
specializzata che le caratterizzava, sia per la soggezione alla legge statale. La riforma del titolo V ha
rovesciato entrambi i presupposti, istituendo un assetto delle fonti piuttosto confuso, in cui la legge
parlamentare sembra aver perso il carattere di fonte generale dell'ordinamento, per diventare invece
una fonte specializzata per materia.
La riserva di legge e il concorso tra fonti primarie. Abbiamo anche visto come lo strumento
tecnico impiegato dalla costituzione per regolare il concorso delle fonti primarie sia la riserva di
legge. Il modo di operare delle riserve però è piuttosto complesso.
A)in linea di principio, la legge formale, ossia la legge che si forma in Parlamento secondo le
norme degli articoli 70-74 della costituzione, si pone come la fonte legislativa a competenza
generale, cioè quella a cui è consentito di regolare qualsiasi oggetto. Però vi sono delle eccezioni
(riserve ad atti diversi dalla legge):
- alcune materie sono riservate alla disciplina posta da fonti diverse dalla legge formale: vi sono
riserve di legge costituzionale, riserve di regolamento parlamentare, riserve a favore degli statuti
regionali, riserve a favore dei decreti di attuazione degli statuti speciali. La legge ordinaria che
invade questi ambiti è illegittima per violazione delle norme costituzionali che prevedono la riserva;
- Riserve a leggi rinforzate:amnistia e indulto - per alcune materie il normale procedimento
parlamentare di formazione della legge non è ritenuto sufficiente. Così, per esempio, una particolare
maggioranza è richiesta dall'articolo 79 per votare la legge di amnistia e indulto. Per porre fine ad
una prassi troppo lassista di concessione dei provvedimenti di clemenza collettiva, nel 1992 si
decise di riformare l'articolo 79 introducendo una procedura di eccezionale difficoltà: la legge di
amnistia e indulto (necessariamente una legge formale) deve essere votata a maggioranza dei due
terzi, ma non solo nella votazione finale, ma persino nella votazione dei singoli articoli.
La modifica delle circoscrizioni degli enti territoriali. Altri esempi di procedimenti rinforzati
sono quelli richiesti dagli articoli 132-133 per modificare le circoscrizioni degli enti territoriali.
La ratio in questi casi è di coinvolgere le popolazioni e gli enti interessati nel procedimento di
formazione, non già della legge, ma del disegno di legge che il governo presenterà alle camere.
L’attribuzione a singole Regioni di funzioni ulteriori. Sempre in materia di autonomie, la riforma
del titolo V ha introdotto una nuova ipotesi di legge rinforzata: il nuovo articolo 116.3 prevede che
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
con legge formale, approvata a maggioranza assoluta, su iniziativa della regione interessata, sentiti
gli enti locali, e formata sulla base di intesa tra lo Stato e la regione interessata, si possono
concedere alla singola regione ulteriori forme e condizioni particolari da autonomia, rispetto a
quelle standard, nell'ambito di alcune materie.
La legge sulla formazione del bilancio. La recente riforma costituzionale relativa al bilancio ha
introdotto una nuova riserva rinforzata per la legge che il Parlamento deve emanare per disciplinare
il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio
tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche
amministrazioni. Alla legge costituzionale è riservato il compito di fissare i principi che la legge
sulla formazione del bilancio deve rispettare.
Leggi “concordatarie”. Molto rilevanti sono le particolarità del procedimento di formazione delle
leggi che disciplinano i rapporti con i culti religiosi. L'articolo 7 della costituzione, richiamando
espressamente i patti lateranensi del 1929, tratteggia una disciplina complessa ma non chiaramente
descritta in Costituzione. Essa avviene così ricostruita: posto che i Patti sono atti di diritto
internazionale, la cui modifica deve avvenire attraverso il consenso delle parti ( e per quanto
riguarda l'ordinamento italiano quindi con ratifica autorizzata dalla legge formale), le leggi di
esecuzione sono protette dall'articolo 7 della costituzione. Si pone un principio concordatario che
tutela ogni successiva modificazione di quegli accordi a partire da quelle intervenute nel 1984
(accordi di villa madama).
L’intesa con i culti acattolici. Per i culti acattolici vale invece la garanzia minore dell'intesa
stipulata dalle relative rappresentanze secondo l'articolo 8 della costituzione. È una garanzia minore
solo per il fatto che queste comunità religiose sono formazioni interne alla comunità statale e non
soggetti di diritto internazionale. Anche in questo caso però si rafforza il procedimento di
formazione del disegno di legge.
Procedimenti rinforzati e limiti di oggetto. Sia nel caso dell'articolo 7 che in quello dell'articolo 8,
inoltre, la riserva di competenza non è illimitata, nel senso che non qualsiasi oggetto può essere
sottratto alla disciplina generale, e quindi alla legge ordinaria, solo perché coperto dal patto o dalle
intese. Da un lato sarebbe ammissibile che gli ambiti in cui la trattativa condotta dal governo può
spingersi fossero definiti dalla legge ordinaria; dall'altro è comunque sottoposto al controllo della
corte costituzionale il rispetto dei limiti che, sebbene non ancora fissati dalla legge, devono essere
comunque ricavati in via di interpretazione. La corte costituzionale, mentre da un lato ha opposto
comunque anche alla disciplina concordataria il limite dei principi supremi dell'ordinamento
costituzionale, dall'altro, riferendosi alle intese, ha sottolineato che esse possono disciplinare solo
gli aspetti che si collegano alle specificità delle singole confessioni o che richiedono deroghe al
diritto comune.
RISERVE DI LEGGE RINFORZATE “PER CONTENUTO”
Spesso, accanto alle riserve di legge rinforzate “per procedimento”, vengono poste riserve di legge
rinforzate “per contenuto”.
Così vengono denominati i casi in cui la costituzione prevede che la legge ordinaria a cui è
riservata la disciplina della materia debba rispettare determinati contenuti. Per esempio, l'articolo
14.3 della costituzione consente al legislatore di dettare regole speciali, meno rigide, per le ispezioni
domiciliari ma soltanto per motivi di sanità e di incolumità pubblica, oppure per fini economici e
fiscali.
La ratio di queste riserve è di limitare il potere del legislatore, in modo che le eventuali leggi che
intendessero comprimere la sfera di libertà degli individui potranno essere considerate legittime
soltanto a condizione che siano razionalmente giustificabili in relazione ai fini indicati dalla
costituzione, oppure che non siano ispirate a intenti discriminatori, oppure che siano limitate a casi
specifici e giustificabili (come nel caso dell'articolo 43, che prescrive una vera e propria legge
provvedimento, ossia una legge che non disciplina la materia in modo generale e astratto, ma
costituisce un provvedimento di esproprio puntuale e concreto, assunto con la forma della legge per
garantire il controllo parlamentare).
Queste riserve di legge non istituiscono un ambito riservato di disciplina per determinati atti, mi
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
cambiano la forza dell'atto riservato rispetto alle altre leggi ordinarie, come è per le leggi atipiche.
Esse semplicemente vincolano la discrezionalità legislativa indicando limiti di contenuto che la
corte costituzionale potrà verificare in sede di giudizio di legittimità delle singole leggi: e pongono
il problema di individuare la motivazione della legge.
B) In linea di principio gli atti con forza di legge possono sostituirsi sempre alla legge del
Parlamento, salvo i casi in cui la costituzione non prescrive espressamente che la materia sia trattata
solo con legge formale.
Per alcuni specifici oggetti, il testo costituzionale impiega la formula "le camere con legge" per
indicare esplicitamente la riserva di legge formale. Non si tratta della disciplina di una materia, ma
di leggi particolari attraverso le quali il Parlamento svolge un controllo politico sull'attività del
governo.
Essi sono:
- la legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali (articolo 80). Non tutti i
trattati sono soggetti a questa procedura, ma solo quelli rientranti nelle cinque categorie indicati
dall'articolo 80 e cioè: trattati di natura politica, che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari,
importano variazioni del territorio o oneri alle finanze o modificazioni di leggi.
Va inoltre segnalata la prassi di introdurre nella legge di autorizzazione anche l'ordine di
esecuzione, una formula che ordina i soggetti dell'applicazione del diritto di considerare il trattato
come fonte di norme interne aventi lo stesso grado gerarchico della legge che la contiene. La prassi
parlamentare porta a dichiarare inammissibili gli emendamenti sia della formula di autorizzazione
sia dell'ordine di esecuzione; mentre sono ammesse norme utili all'adattamento del diritto interno
agli obblighi internazionali che si assumono con la ratifica.
- La legge di approvazione dei bilanci e del rendiconto presentati dal governo. La natura di
controllo politico che assumono queste leggi è evidente. La natura meramente formale della legge
di approvazione del rendiconto è in re ipsa: con essa il Parlamento approva il documento
contabile presentato dal governo che riepiloga i risultati dell'esercizio finanziario trascorso. Per la
legge di approvazione del bilancio di previsione essa derivava invece dall'articolo 81.3 della
costituzione, che dispone che con essa non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.
Proprio per consentire di modificare la legislazione vigente nella sessione di bilancio, a partire dal
1978 era stata introdotta una legge sostanziale diretta a modificare le norme tributarie e quelle di
spesa in vista dell'approvazione del bilancio: la legge finanziaria prima e, dopo la riforma del 2009,
la legge di stabilità. Esse però non erano previste in costituzione e quindi non sono coperte da
riserva di legge formale.
LEGGE FINANZIARIA,LEGGE DI STABILITA’ E LEGGE DI BILANCIO
Nel dibattito sulla programmazione degli anni 60 e 70 è emersa l’esigenza di uno strumento di
politica economica e fiscale che permetta il riesame delle decisioni di spesa per conformarle agli
obiettivi di politica economica; a questo fine non si poteva utilizzare la legge di bilancio, visti i
limiti strutturali imposti dalla costituzione.
La contabilità è stata riformata con legge del 1978, che ha introdotto la legge finanziaria: l'obiettivo
era ambizioso: disegnare una legge finanziaria potenzialmente onnicomprensiva, con il compito di
distribuire risorse nuove per il futuro e di razionalizzare scelte passate, libera quindi di produrre
qualunque effetto finanziario modificando la legislazione vigente.
La legge finanziaria, votata subito prima della legge di approvazione del bilancio, era a sua volta
preceduta dalla presentazione alle camere del DPEF (documento di programmazione economica
e finanziaria ) che delineava preventivamente i contenuti essenziali della legge finanziaria e dei
suoi provvedimenti,e altri elementi.
La legge 196 del 2009 aveva però modificato il sistema :il DPEF veniva sostituito dal DEF
(documento di economia e finanza) che il governo deve presentare alle camere entro il 10 aprile di
ciascun anno; e la legge finanziaria veniva sostituita dalla legge di stabilità, che dispone il quadro
di riferimento finanziario, sulla cui base vanno elaborati i bilanci. I disegni di legge collegati alla
manovra di finanza nel (da presentare alle camere entro il gennaio successivo) a legge di
assestamento (il cui disegno va presentato entro il mese di giugno) chiudono la manovra.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
categoria.
Un particolare profilo problematico è quello di determinare la materia su cui è istituita la riserva di
legge. Per esempio, essendovi totale consenso nel ritenere che l'articolo 13 della costituzione pone
una riserva assoluta per i casi e i modi con cui la libertà personale può venire ristretta, essa copre la
sola fattispecie generale dei casi e dei modi o anche ogni specifica modalità di esecuzione? Si tratta
di quesiti cruciali per determinare in quale ambito sia ammessa l'integrazione della fattispecie
attraverso atti sub-legislativi. Su ciò si ritornerà quando parleremo dei regolamenti amministrativi.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
qualsiasi organo o soggetto chiamato a dare applicazione alle leggi. Poi non può essere contestata
l'idoneità delle disposizioni contenute nella legge delega concorrere a formare, quali norme
interposte, il parametro di costituzionalità dei decreti legislativi delegati e quindi l'impugnabilità
della legge di delegazione.
Questo indirizzo giurisprudenziale sembra trovare conferma nell’orientamento dottrinale che
considera la legge di delegazione ed i conseguenti decreti legislativi fonti distinte ma separate,
essendo la prima presupposto giuridico della seconda.
Il collegamento tra questi atti si esprimerebbe nella raccordo tra gli articoli 76 e 77: il primo serve a
vincolare, in prima linea, il Parlamento stesso; mentre al potere esecutivo si riferisce piuttosto
l'articolo 77, primo comma, della costituzione.
3.2. Contenuti della legge di delega
I vincoli imposti dalla costituzione al legislatore parlamentare consistono nella previsione dei
cosiddetti requisiti minimi, o contenuti necessari, all'interno della legge di delega.
L'articolo 76 richiede che la legge di delegazione necessariamente contenga i seguenti requisiti:
a) determinazione di principi e criteri direttivi;
b) tempo limitato;
c) oggetti definiti.
La loro mancanza o la loro indeterminatezza determina la violazione dell'articolo 76 e quindi
l'illegittimità costituzionale della legge di delega.
a) principi e criteri direttivi. Con riferimento ai principi e criteri direttivi è di particolare rilievo
il problema della loro concreta determinazione.
La corte costituzionale ha sempre tenuto a precisare come la determinazione dei principi e criteri
direttivi, richiesti dall'articolo 76 della costituzione per una valida delegazione legislativa, non può
eliminare ogni margine di scelta nell'esercizio della delega; tali elementi servono a circoscrivere il
campo della delega sì da evitare che essa venga esercitata in modo divergente dalle finalità che
l'hanno determinata ma devono anche consentire al potere delegato la possibilità di valutare le
particolari situazioni giuridiche da regolamentare nella fisiologica attività di riempimento che lega i
due livelli normativi.
La stessa corte aveva inteso respingere l'equivoco che la determinazione dei principi e criteri
direttivi elimini ogni discrezionalità nell'esercizio della delega, essendo vero, al contrario, che tale
discrezionalità sussiste in quell'ambito che principi e criteri, proprio perché tali, circoscrivono ma
non eliminano.
Come rilevato dalla dottrina, le tecniche di determinazione dei principi e criteri direttivi elaborate
dalla giurisprudenza costituzionale sono state alquanto vaghe, ancorché tutte sostanzialmente
riconducibili al binomio determinazione espressa-implicita. La prima contenuta nella legge di
delegazione, sia mediante enunciazione esplicita dei parametri (cosiddetta “diretta”) sia mediante
rinvio ad altri atti normativi o alle conoscenze tecnico-scientifiche in materia (cosiddetta
“indiretta”).
La corte costituzionale ha affermato che i criteri direttivi possono essere stabiliti anche per
relationem e che gli stessi sono individuabili attraverso il richiamo ai principi generali
eventualmente stabiliti dalla medesima legge. L'indicazione dei principi e dei criteri direttivi di cui
all'articolo 76 della costituzione non è finalizzata ad eliminare ogni discrezionalità nell'esercizio
della delega ma soltanto a circoscriverla, in modo che resti pur sempre salvo il potere di valutare le
specifiche e complesse situazioni da disciplinare.
La determinazione implicita dei principi e criteri direttivi invece, è deducibile dal legislatore
delegato per via interpretativa, mediante il ricorso ad alcuni parametri d'esercizio della delegazione
stessa, come: la ratio della delega, il dato ordinamentale preesistente, il coerente sviluppo di scelte
già accennate dal legislatore delegante, l'armonizzazione della normativa delegata con la
costituzione, il rispetto degli obblighi internazionali.
Deleghe con scarse norme direttive, scarso potere innovativo delegato. È ammissibile, quindi,
una delega priva di principi e criteri direttivi ad hoc se, rispetto alla materia indicata, le previsioni
orientatrici sono poste comunque in termini generali dalla legge di delega. Nell'ambito di una
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
delega del genere , però, la mancanza di principi e criteri direttivi deve essere intesa nel senso che
ridotto sarà il potere delegato al governo.
La corte costituzionale ha più volte precisato che l'eventuale scarsità di indicazioni nella legge di
delega si tradurrà in una ridotta capacità del decreto delegato di innovare ai principi della
legislazione vigente.
Interpretazione teleologica di principi e criteri direttivi. La corte costituzionale ha inoltre
precisato che i principi e i criteri direttivi della legge di delegazione devono essere interpretati sia
tenendo conto delle finalità ispiratrici della delega, sia verificando, nel silenzio del legislatore
delegante sullo specifico tema, che le scelte operate dal legislatore delegato non siano in contrasto
con gli indirizzi generali della stessa legge-delega e che comunque occorre tener conto delle finalità
che, attraverso i principi ed i criteri enunciati, la legge delega si prefigge con il complessivo
contesto delle norme da essa poste e tenere altresì conto che le norme delegate vanno interpretate
nel significato compatibile con quei principi e criteri.
b)l’oggetto della delega. Per quanto riguarda il requisito dell'oggetto, la corte costituzionale ha
sviluppato un orientamento interpretativo che consente al legislatore delegante di individuare
l'oggetto con una qualche genericità. Per cui si ritengono comunque compatibili con l'articolo 76
anche le cosiddette vaste deleghe (cioè quelle con oggetti di notevole ampiezza e complessità), e
quelle con pluralità di oggetti.
Deleghe vaste o con oggetti plurimi. Sono definite “vaste” le deleghe con oggetti di notevole
ampiezza e complessità o plurimi; a tali deleghe inevitabilmente consegue un maggiore ambito di
manovra del legislatore delegato, laddove si consideri che i confini dell'oggetto delegato alla
normazione del governo possono corrispondere, ipoteticamente, ad una intera materia se non,
addirittura, ad una pluralità di materie disomogenee. In tal senso la corte aveva ritenuto compatibile
con il dettato costituzionale anche una precisazione in negativo dell'oggetto della delega nonché la
delimitazione delle aree di una delega legislativa attraverso l'uso di clausole generali; e ciò sul
presupposto che la definizione costituzionalmente necessaria dell'oggetto della delega non può non
tener conto della natura e dei caratteri dell'oggetto medesimo.
Deleghe accessorie e testi unici. Ciò trova conferma nel fenomeno delle cosiddette deleghe
accessorie e della compilazione dei cosiddetti testi unici: laddove il Parlamento (in sede di
approvazione di una organica legge di riforma) deleghi al governo l'emanazione di norme di
attuazione, di coordinamento o transitorie della stessa, esso non indicherà espressamente i principi e
criteri direttivi della materia, per la deduzione dei quali il legislatore delegato dovrà fare riferimento
dunque a quelli già contenuti nelle leggi precedenti.
Questo fenomeno è particolarmente vistoso nel caso delle leggi comunitarie che oltre a prevedere
l'emanazione di decreti legislativi nelle materie interessate dalle direttive dell'unione europea,
prevedono l'emanazione di un decreto legislativo recante il testo unico delle disposizioni dettate in
attuazione delle deleghe conferite per il recepimento di direttive europee, al fine di coordinare le
medesime con altre norme legislative vigenti, nella stessa materia.
Non possono validamente costituire oggetto di delega, invece, gli atti coperti da riserva di legge
formale.
c) il termine. Un atteggiamento ugualmente elastico è stato adottato dalla corte costituzionale
relativamente alla determinazione del termine per l'esercizio del potere normativo delegato.
Sebbene infatti il termine debba essere certo, sono stati frequenti casi di proroga dello stesso, sia
mediante legge formale sia mediante decreto-legge. Né meno frequenti sono i casi di deleghe
correttive ed integrative adottate a seguito dell'emanazione di decreti legislativi cosiddetti
principali. In questo caso, la legge di delegazione contiene formule del tipo "il governo è delegato
ad adottare entro" un termine certo decorrente dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi
principali, uno o più decreti legislativi correttivi o modificativi dei primi.
d) limiti ulteriori. Oltre ai requisiti necessari la legge di delegazione può contenere dei limiti
ulteriori. L'articolo 76 della costituzione stabilisce, infatti, l'obbligo costituzionale che la legge di
delegazione individui i limiti minimi del decreto delegato, ma non impedisce al Parlamento di
restringere ulteriormente l'ambito di discrezionalità del governo.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
Revocabilità della delega. Il Parlamento, nell'approvare la legge di delegazione, non si priva della
potestà legislativa, con la conseguenza che la delega è revocabile in qualsiasi momento, anche per
implicito, ossia mediante l'approvazione di una legge che disciplina l'oggetto della delega, prima
che siano emanati i decreti legislativi.
Come visto il non rispetto di queste condizioni comporta gravi conseguenze: la loro violazione
integra una violazione dell'articolo 76 della costituzione, con la conseguente illegittimità
costituzionale delle norme del decreto legislativo contrastanti. Tale ricostruzione discende dalla
ricostruzione, operata dalla Corte, delle norme di delegazione come norme interposte tra l’art. 76
Cost. e il decreto legislativo delegato, e cioè norme che pure non avendo grado costituzionale,
condizionano la validità di norme prodotte da fonti legislative ordinarie.
Il sindacato di legittimità costituzionale richiede un duplice processo interpretativo da parte della
corte. Più precisamente, il giudizio di conformità della norma delegata alla norma delegante si
esplica attraverso il confronto tra due processi ermeneutici paralleli, uno relativo alle norme che
determinano l'oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, l'altro relativo alle norme
introdotte dal legislatore delegato. Assunto che quest'ultimo viene completato dall'altro secondo cui:
i principi stabiliti dal legislatore delegante costituiscono non solo il fondamento ed il limite delle
norme delegate, ma anche un criterio interpretativo delle stesse: esse vanno lette nel significato
compatibile con i principi della delega.
I DECRETI LEGISLATIVI IN CASO DI GUERRA
Prevale l'opinione che assimila ai decreti legislativi delegati gli atti legislativi che il governo
potrebbe essere autorizzato a emanare in seguito al conferimento dei poteri necessari in caso di
guerra: il che significa che l'atto di conferimento da parte del Parlamento dovrebbe rivestire la
forma della legge. Naturalmente non è l'unica interpretazione che sia stata fornita, perché è stata
avanzata sia l'ipotesi di assimilare questi atti ai decreti legge, sia di ricostruirli come espressione di
una potestà legislativa propria del governo il cui esercizio è subordinato all'autorizzazione
parlamentare.
Oltre alla qualificazione dell'atto, il nodo più rilevante è la sua forza, ossia se i poteri conferiti al
governo possono giungere a sospendere o derogare alla costituzione: da questo punto di vista, le
ipotesi sugli atti normativi emanati in caso di guerra si confondono con le teorie sullo stato di
emergenza, che costituiscono una delle pagine più complesse del diritto costituzionale.
3.3. Il decreto legislativo delegato
La legge 400 del 1988 ha posto alcuni requisiti redazionali dei decreti legislativi ed ha specificato
e introdotto dei vincoli procedimentali.
L'articolo 14 di questa legge stabilisce che i decreti legislativi adottati ai sensi dell'articolo 76 della
costituzione devono contenere la denominazione di decreto legislativo, con l'indicazione nel
preambolo della legge di delegazione e della delibera del Consiglio dei Ministri e degli altri
adempimenti del procedimento prescritti dalla legge di delegazione.
Procedimento di formazione.
I decreti legislativi devono essere deliberati dal Consiglio dei Ministri e quindi vengono emanati dal
presidente della Repubblica.
È importante sottolineare che l’articolo 14.1 della legge citata, ha precisato che entro il termine
fissato dalla legge di delegazione deve avvenire l'emanazione del decreto ad opera del presidente
della Repubblica. Quindi affinché il termine sia rispettato non è sufficiente la deliberazione del
Consiglio dei Ministri, ma neppure è necessaria la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
Per consentire al capo dello Stato di esercitare la sua funzione di controllo costituzionale, il testo del
decreto legislativo adottato dal Consiglio dei Ministri deve essere trasmesso al presidente della
Repubblica per l'emanazione almeno 20 giorni prima della scadenza.
Se la delega si riferisce ad una pluralità di oggetti distinti suscettibili di separata disciplina, il
governo può esercitarla mediante uno o più decreti legislativi per uno o più degli oggetti predetti, i
quali vanno comunque tutti emanati entro il termine previsto dalla legge di delegazione.
Nel caso in cui il termine per l'esercizio della delega eccede i due anni, il governo è tenuto a
richiedere il parere delle camere sugli schemi dei decreti legislativi. Il parere è espresso dalle
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
dell'urgente necessità. Secondo alcuni interpreti esso dovrebbe intendersi in senso relativo e
soggettivo: il governo, assumendosene la responsabilità politica, decide autonomamente che cosa è
da considerare necessario e urgente in relazione al suo indirizzo politico. Secondo altri, invece, i
requisiti della decretazione dovrebbero assumere un vero e proprio carattere oggettivo: la necessità
e l'urgenza sarebbero elementi costitutivi della fattispecie regolata, che per le sue caratteristiche
intrinseche non consentirebbe il ricorso all'ordine normale delle competenze normative, rendendo
“necessitato” il decreto-legge.
La prassi repubblicana si è ben presto allontanata dal modello di decreto-legge elaborato dagli
studiosi, che ne faceva uno strumento di normazione eccezionale perché derogatorio rispetto
all'ordine normale delle competenze.
La dottrina ha dovuto constatare come la prassi in materia di adozione dei decreti legge si fosse
praticamente sbarazzata del limite dei casi straordinari di necessità ed urgenza, il decreto-legge
essendo impiegato per qualunque genere di intervento normativo. Sotto questo profilo si è notato,
infatti, come il decreto-legge è diventato strumento di co-legislazione, di codeterminazione politica,
di negoziato tra governo, maggioranza e opposizione. Il governo dispone, attraverso il decreto-
legge, di un'iniziativa legislativa rafforzata.
La brevità del termine entro cui deve avvenire la conversione fa sì che il Parlamento sia costretto a
pronunciarsi in un lasso di tempo assai breve; parimenti, però, l'esigenza di evitare la decadenza del
decreto spinge il governo ad accettare, in cambio della deliberazione parlamentare entro il termine
costituzionale di 60 giorni, gli emendamenti presentati in Parlamento.
La prassi della reiterazione del decreto – legge. L'uso estesissimo della decretazione d'urgenza ha
inoltre causato un fenomeno cioè quello della reiterazione del decreto-legge: di fronte ad un
decreto-legge non convertito nei 60 giorni, il governo ne riproduceva i contenuti in uno nuovo e
così via procedendo fino a quando non fosse intervenuta la legge di conversione dell'ultimo decreto
emanato. In questo modo si sono create vere e proprie catene normative fatte da numerosi decreti
legge che creavano un corpo di norme stabili, anche se suscettibili di venire meno in mancanza di
conversione.
Il decreto-legge è stato ampiamente utilizzato anche come strumento di normazione ordinaria. Gli
obiettivi principali che il governo ha perseguito attraverso il suo impiego sono due: da una parte
rende più veloci i tempi della decisione legislativa; dall'altra forza la sua maggioranza affinché resti
composta nel dare seguito legislativo all'indirizzo governativo.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
sostenuto che gli eventuali vizi attinenti ai presupposti della decretazione d'urgenza devono ritenersi
sanati in linea di principio dalla conversione in legge; assunto in parte temperato dalla contestuale
affermazione per cui solo l'evidente mancanza di quei presupposti configura tanto un vizio di
legittimità costituzionale del decreto-legge quanto un vizio in procedendo della stessa legge di
conversione.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
- i presupposti costituzionali della decretazione d'urgenza sono sindacabili dalla corte anche dopo la
conversione da parte del Parlamento;
- la mancanza dei presupposti vizia sia il decreto che la legge di conversione;
- il controllo della corte è diverso da quello del Parlamento, perché colpisce solo i casi di evidente
carenza dei requisiti;
- il sindacato della corte è effettuato mediante indici interni al decreto(epigrafe, preambolo) ed
esterni allo stesso (lavori preparatori);
- la necessità e l'urgenza possono essere valutate anche in un'ottica relativa;
- non è tuttavia sufficiente che la necessità e l'urgenza siano solo affermate apoditticamente, ne
rileva che la disciplina possa risultare in sé ragionevole.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
Di contro, però, può osservarsi quanto segue. In primo luogo che alcuni di questi divieti sembrano
impliciti nella stessa costituzione. Così il decreto-legge non può recare deleghe legislative perché
sarebbe un caso macroscopico di evidente mancanza dell'urgenza, oltre che violazione della riserva
di legge formale. Riprodurre le norme dichiarata incostituzionale dalla corte violerebbe le
attribuzioni costituzionalmente garantite del giudice costituzionale. Rinnovare le disposizioni di un
decreto-legge non convertito incorrerebbe nel divieto di reiterazione. E così via.
Più controverso è il caso della “materia elettorale”, anche perché da una decisione della corte essa
pare un possibile oggetto di decreto-legge e nella prassi il ricorso al decreto-legge per rendere
effettuabili le operazioni elettorali appare piuttosto frequente.
L'articolo 15 della legge 400 del 1988, quindi, può essere impiegato per corroborare
l'interpretazione costituzionale che porta ai divieti che abbiamo elencato.
L’ULTIMO PASSO DELLA CORTE: LA SENTENZA 22/2012
Molta difficoltà hanno incontrato le Regioni nel far valere i vizi formali degli atti legislativi, e dei
decreti legge in particolare.
La sentenza 22 del 2012 però, per la prima volta, accoglie i rilievi di una regione relativi alla
violazione dell'articolo 77 della costituzione e, di conseguenza, dichiara l'illegittimità della legge di
conversione del decreto legge. Infatti le disposizioni oggetto del ricorso sono state introdotte per
effetto di emendamenti approvati in sede di conversione, e regolano i rapporti finanziari tra Stato e
regioni in materia di protezione civile non con riferimento a specifici eventi calamitosi “ma in via
generale e ordinamentale”: si tratta quindi di una normativa “a regime”, del tutto slegata da
contingenze particolari, inserita tuttavia nella legge di conversione di un decreto-legge denominato
"Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e
di sostegno alle imprese alle famiglie".
Si tratta di uno dei tanti decreti “milleproroghe”, di cui si parlerà dopo.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
dispone la conversione del decreto. Quindi il decreto legge mantiene la sua distinta veste formale,
anche dopo l'approvazione della legge di conversione. La legge di conversione si aggiunge al
decreto-legge senza sostituirlo.
Conversione con emendamenti. Le precedenti considerazioni non hanno valore meramente
teorico, ma hanno, invece, precise conseguenze pratiche.
La prima è che la legge di conversione può contenere anche delle modifiche alla disciplina
predisposta dal decreto-legge: in altri termini, il disegno di legge di conversione, che contiene
l'articolo sulla conversione del decreto, può essere modificato dal Parlamento e nonostante qualche
opinione della dottrina che lo negava, questa possibilità è sempre stata confermata dalla prassi.
I DECRETI “MILLEPROROGHE” E I LORO LIMITI COSTITUZIONALI
Nella sentenza 22 del 2012, la corte dichiara l'illegittimità della legge di conversione di un decreto
milleproroghe, ossia di uno dei frequenti decreti-legge omnibus, con cui si modificano decine e
decine di norme vigenti.
Oltre alla questione della impugnabilità da parte delle regioni(come visto nel precedente specchio),
la corte affronta altri due problemi: uno relativo all'omogeneità del decreto-legge; l'altro ai limiti
della sua emendabilità.
Citando i propri precedenti, la corte ribadisce che “la semplice immissione di una disposizione nel
corpo di un decreto-legge oggettivamente unitario non vale a trasmettere, per ciò solo, alla stessa il
carattere di urgenza proprio delle altre disposizioni, legate tra loro dalla comunanza di un oggetto o
di finalità”, perché l'inserimento “di norme eterogenee all'oggetto o alla finalità del decreto spezza il
legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal governo dell'urgenza del provvedere ed i
provvedimenti provvisori con forza di legge”, di cui alla norma costituzionale citata.
Il presupposto del caso straordinario e urgenza inerisce sempre e soltanto al provvedimento inteso
come un tutto unitario, atto normativo fornito di intrinseca coerenza, anche se articolato e
differenziato al suo interno. La scomposizione atomistica della condizione di validità prescritta
dalla costituzione si pone in contrasto con il necessario legame tra il provvedimento legislativo
urgente e il caso che lo ha reso necessario, trasformando il decreto-legge in una congerie di norme
assemblate soltanto da mera casualità temporale.
I cosiddetti decreti “milleproroghe”, che, con cadenza ormai annuale, vengono convertiti in legge
dalle camere, sebbene attengano ad ambiti materiali diversi ed eterogenei, devono obbedire alla
ratio unitaria di intervenire con urgenza sulla scadenza di termini il cui decorso sarebbe dannoso per
interessi ritenuti rilevanti dal governo e dal Parlamento, o di incidere su situazioni esistenti che
richiedono interventi regolatori di natura temporale: altrimenti “le stesse ben potrebbero essere
contenute in atti normativi urgenti del potere esecutivo distinti e separati”.
L'obbligo di coerenza, osserva la corte, si riflette anche sui limiti di ammissibilità degli
emendamenti.
“La necessaria omogeneità del decreto-legge, la cui interna coerenza va valutata in relazione
all'apprezzamento politico, operato dal governo e controllato dal parlamento, del singolo caso
straordinario di necessità e urgenza, deve essere osservata dalla legge di conversione”: e la corte
cita sia le norme regolamentari dirette a bloccare le presentazioni di emendamenti che superano tali
limiti, sia i casi in cui tali limiti sono stati fatti valere dal presidente della Repubblica in sede di
promulgazione della legge di conversione.
È un monito importante anche per la ricaduta che potrebbe avere per i cosiddetti maxi-
emendamenti che sempre più di frequente il governo presenta alle camere (anche al di fuori del
procedimento di conversione dei decreti legge), forzandone l'approvazione ponendo la fiducia sulla
loro approvazione
Si pone però il problema dell'efficacia degli emendamenti. A lungo si è dibattuto se, alcuni di essi,
avessero efficacia retroattiva. Escluso, però, che la legge di conversione si sostituisca fin dall'inizio
al decreto-legge, deve concludersi che per la legge di conversione vale il principio generale per cui
la legge dispone solo per il futuro, salvo espresse previsioni di segno diverso. Conclusione che poi è
stata formalizzata dall'articolo 15 della legge 400 del 1988 secondo cui gli emendamenti hanno
efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione, a meno che
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
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NORME ABROGATE?
La corte costituzionale, con la sentenza 13 del 2012, ha affrontato il problema se un referendum
abrogativo possa determinare la “reviviscenza” di norme abrogate dalla legge oggetto del
referendum.
L'occasione di questa pronuncia è stata data da due richieste di referendum abrogativo secondo cui
l'abrogazione della legge 270 del 2005, totale oppure parziale, avrebbe determinato la reviviscenza
delle precedenti disposizioni delle leggi elettorali del 1993 abrogate alla legge 270 del 2005.
La corte ha richiamato la sua giurisprudenza secondo cui non sono ammissibili referendum
abrogativi di leggi elettorali se dall'abrogazione discende un vuoto che non permetta la
ricostituzione di organi necessari secondo la costituzione (come il Parlamento).
Proprio in base a tale ricostruzione la corte ha ammesso un referendum parziale se la “normativa di
risulta”, dopo aver tolto le disposizioni abrogate, è sufficiente per tenere la consultazione elettorale.
La corte, negando decisamente che possa aversi reviviscenza delle norme precedentemente
abrogate, ha dichiarato inammissibili i due referendum in quanto mancava la cosiddetta
“autoapplicatività della normativa di risulta”.
CAP 6
LE FONTI DELLE AUTONOMIE
1. La potestà legislativa nella Costituzione del 1948: storia di un fallimento
Potere legislativo e autonomia politica. L'invenzione delle regioni da parte del costituente del
1948 era motivata dal desiderio delle maggiori forze politiche di preservarsi, in caso di sconfitta, un
minimo di autonomia politica arroccandosi nei territori in cui ognuna di esse era tradizionalmente
più radicata. Però l'autonomia politica di un'amministrazione pubblica locale sussiste soltanto se e
nella misura in cui essa possa distaccarsi dall'indirizzo politico deciso dalla maggioranza politica
che occupa il Parlamento nazionale e vota le sue leggi: perciò l'autonomia politica postula
l'autonomia legislativa.
Ciò basta a spiegare perché, nel modello tracciato dal titolo V della costituzione del 1948, la
definizione degli ambiti di autonomia legislativa delle regioni e dei condizionamenti che essa
subisce da parte della legislazione statale, acquisti un ruolo centralissimo. E spiega anche perché ci
si ponga il problema di regolare l'eventuale conflitto tra l'indirizzo politico espresso dalla singola
legge regionale e l'indirizzo politico condiviso dalla maggioranza in Parlamento, individuando la
via procedimentale attraverso di cui far prevalere l'interesse nazionale.
LEGITTIMITA’ E MERITO NELLA COSTITUZIONE DEL 1948
Secondo il vecchio titolo V, nell'esercizio della loro potestà legislativa le regioni incontravano limiti
di diverso tipo.
Innanzitutto si doveva distinguere i limiti di legittimità e i limiti di merito: i primi potevano essere
fatti valere dal governo davanti alla corte costituzionale, mentre i secondi di fronte alle camere. I
limiti di legittimità erano in parte generali, validi quindi per ogni tipo di legge locale, in parte
specifici dei vari livelli di potestà, livelli che, proprio in forza di questi limiti specifici, si
distinguono l'uno dall'altro.
I limiti generali erano comuni a tutte le regioni perché connessi in parte alla natura della legge
regionale come fonte primaria (il limite costituzionale), in parte alla natura dell'ente regione come
ente derivato (il limite degli obblighi internazionali), territoriale (limite territoriale), a competenza
limitata (limite delle materie).
I limiti specifici portavano a distinguere, in ragione del minore o maggiore vincolo che il legislatore
regionale trovava nella legge dello Stato, tra la potestà primaria o esclusiva, riservata alle sole
regioni speciali, la potestà concorrente o ripartita e la potestà attuativa o integrativa, legata al
completo rispetto della legge statale.
Il limite di merito avrebbe dovuto essere fatto valere quando la legge regionale risultava in
contrasto con l'interesse nazionale o con quello di altre regioni e trattandosi di un contrasto tra
indirizzi politici avrebbe dovuto essere deciso dal supremo organo politico nazionale, ossia il
Parlamento.
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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO
Il disegno costituzionale del 1948 era chiaro e perfettamente leggibile, ma solo in astratto: nel
concreto dell'esperienza attuativa esso si è dimostrato impraticabile. Perché muoveva dall'idea che
si potessero dividere i campi rispettivi della legge statale e della legge regionale attraverso due
strumenti: l'elencazione delle materie di competenza regionale e la distinzione tra norme di
principio e norme di dettaglio, ricadenti invece nella competenza della regione.
Così definiti i confini dei campi, era poi affidato alla corte