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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

CAP 1
INTRODUZIONE: LE FONTI DEL DIRITTO IN UN ORDINAMENTO COMPLESSO
1. Definizioni e inquadramento di base
Fonti del diritto sono gli atti e i fatti cui l'ordinamento giuridico attribuisce il compito di produrre
nuove norme giuridiche.
Gli atti normativi sono documenti scritti, con forma e nome tipico (nomen juris) frutto di un
procedimento disciplinato da altre norme.
Quindi abbiamo norme sulla produzione o norme di riconoscimento che individuano gli atti e i
procedimenti per produrli.
Gli atti normativi sono posti in posizioni diverse in una gerarchia:
le norme sulla produzione sono su un gradino più elevato rispetto agli atti normativi che esse
disciplinano.
- Nella costituzione troviamo le norme sulla produzione degli atti di legislazione ordinaria;
- nelle leggi ordinarie troviamo le norme sulla produzione degli atti regolamentari.
Più complessa è la definizione dei fatti normativi. La categoria è stata costruita in passato sul
modello della consuetudine: era costituita da fatti, cioè comportamenti ripetuti che
progressivamente venivano percepiti come giuridicamente obbligatori dalla società. Questo modello
disciplinava interi settori della vita sociale.
Sebbene oggi di tutto ciò resta ben poco, nelle definizioni delle fonti-fatto ricorrono espressioni
come “fenomeni normativi non volontari” o “comportamenti sociali”.
Non sono affatto scomparse le altre fonti-fatto. Si tratta di tutte quelle norme giuridiche che
l'ordinamento nazionale importa dalla internazionalizzazione dell'economia, del diritto e della
società; sono fonti-fatto gli atti dell'unione europea ;trattati internazionali, la convenzione europea
dei diritti dell'uomo.
Sono fonti-fatto perché non provengono da organi abilitati dal nostro ordinamento, quindi non sono
annoverate tra le fonti-atto e ciò impedisce ad esempio al giudice italiano di rilevarne eventuali vizi
di legittimità, esclude il ricorso in cassazione per loro violazione e così via.
In realtà questi sono dogmi vacillanti perché non è vero ad esempio che il giudice non possa
rilevare vizi delle fonti-fatto come le norme dell'Unione Europea perché proprio il trattato legittima
il giudice nazionale a investire in via pregiudiziale la corte di giustizia con questioni relative alla
validità, oltre che l'interpretazione degli atti dell'unione europea e della BCE (TFUE = Trattato).
Inoltre con la riforma (legge 218 / 1995) spetta al giudice italiano accertare la legge straniera e
interpretarla secondo i propri criteri di interpretazione e applicazione nel tempo e addirittura
disapplicarla se in contrasto con la costituzione.
La categoria delle fonti-fatto ha ormai perso ogni tenuta concettuale ed è definibile solo in negativo,
come tutto ciò che genera norme giuridiche ma non ascrivibile tra le fonti-atto (fonti-fatto come
categoria residuale).

2. “Ordinamento giuridico” e “sistema delle fonti” come esigenze dell’interprete


Per parlare di ordinamento giuridico partiamo dal concetto di fonte: le fonti generano norme
giuridiche, le quali concorrono a formare l'ordinamento giuridico.
L'ordinamento giuridico è coerente quando non esistono norme incompatibili ed è completo
quando esiste una norma o la norma con questo incompatibile (Bobbio).
È evidente che in natura non esistono ordinamenti giuridici privi di incoerenza e lacune normative.
Tuttavia i miti della coerenza e completezza appartengono ai presupposti con cui opera il giurista,
chiamato ad interpretare e applicare il diritto ai casi concreti.
Anzi si potrebbe sostenere che tanto più un ordinamento è complesso e mutevole, tanto più forti si
fanno sentire le esigenze di coerenza e completezza: infatti negli ordinamenti moderni di fronte a
lacune e contrasti tra norme non è ammesso denegare giustizia, ossia rinunziare al giudizio per
mancanza della regola da applicare (il cosiddetto non liquet) né tanto meno è ammesso rivolgersi al
principe per ottenere chiarimento o integrazione della norma (il cosiddetto rescriptum principis).

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Infatti è uno dei principi dello Stato di diritto la netta separazione tra il momento della scelta
politica che si trasforma in legge e il momento della sua applicazione al caso concreto, nel corso del
giudizio che si svolge davanti a un giudice.
Non solo al giudice è vietato il ricorso al responso del principe, ma è fortemente svalutato persino
l'impiego dell'argomento della volontà del legislatore per interpretare gli atti legislativi e ricavarne
la regola del caso.
Il distacco dell'atto normativo dalla volontà politica segna la condizione perché sia possibile
tracciare la linea di separazione dei poteri, tra legislazione e applicazione delle leggi.
L'interprete deve costruire il significato della disposizione da applicare, e per farlo deve individuare
la ratio legis, il principio: quel che serve è comprendere come la norma si colloca oggettivamente
nel sistema, a quale esigenza di normazione o coerenza sistematica deve rispondere.
Le intenzioni soggettive del legislatore cedono il campo alle finalità oggettive cui assolve la norma
oggi, che possono essere diverse da quelle che aveva ispirato il legislatore a suo tempo (eterogenesi
dei fini è la locuzione che esprime questo mutamento di prospettiva).
ETEROGENESI DEI FINI : UN CASO STORICO
La sentenza della Corte costituzionale rappresenta un caso esplicito di utilizzazione dell’eterogenesi
dei fini.
Oggetto della sentenza era un decreto legislativo che imponeva ai produttori di conferire il risone
all’ammasso, riservandone la distribuzione all’Ente nazionale risi. Una misura, dice la Corte,
chiaramente dettata dalle esigenze alimentari del dopoguerra:” anche se non sussistono quelle
condizioni , ciò non è sufficiente a far considerare illegittima la conservazione per alcuni prodotti
del regime di vincolo e ammasso: ciò perché è da riconoscere al legislatore la possibilità di valutare
se sopravvivono ragioni di interesse generale per la conservazione, nell’ordinamento, di istituti in
esso presenti, indipendentemente dai motivi che dettero loro origine.”
“Estraneazione” dell’atto e divisione dei poteri. È solo grazie a questa estraniazione dell’atto dal
suo autore che la disposizione legislativa può entrare nell'ordinamento giuridico e assumere tutta la
pienezza di significato che il sistema le conferisce.
Spetta ai soggetti dell'interpretazione e dell'applicazione del diritto ricostruire ogni singolo caso
concreto ed elaborare la regola giuridica che ad adesso va applicata.
La completezza, coerenza, razionalità di un legislatore che non può essere ne contraddittorio ne
ridondante, sono spesso richiamate dagli interpreti come caratteristiche necessarie della
legislazione, sulle quali è possibile fondare tutta una serie di argomenti utili all'interpretazione.
In realtà sono qualità che non sono seriamente attribuite al legislatore che è un conglomerato di
corpi politici complessi, che mutano nel tempo. Se guardiamo all'insieme degli atti normativi che
vigono in Italia,

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sopravvissuti al fascismo, dovremmo accettare una premessa opposta cioè della incoerenza
strutturale, contraddittorietà e ridondanza della legislazione.
Dunque per l'interprete che l’ordinamento sia coerente e completo è solo il presupposto e le
condizioni del proprio lavoro poiché coerenza e completezza sono il risultato dell'opera di
interpretazione e applicazione del diritto.

3. I criteri di soluzione delle antinomie


Il sistema delle fonti non è dunque il punto di partenza, ma il risultato del lavoro dell'interprete, che
per raggiungerlo impiega una vasta gamma di strumenti usati per ricavare dalla disposizione( il
testo normativo) il significato normativo ossia la norma, cioè la regola da applicare al caso
concreto.
DISPOSIZIONE E NORMA: UNA DISTINZIONE BASILARE
Disposizione: proposizione scritta dal legislatore , il testo normativo licenziato da chi detiene il
potere legislativo
Norma: è il significato ricavato mediante interpretazione del testo.
Il testo normativo può essere interpretato in astratto, come quando si legge un atto normativo
appena pubblicato per coglierne la portata innovativa. Ma l’interpretazione giuridica guarda
soprattutto all’applicazione della legge al caso concreto: significa ricavare dalla disposizione la
norma del caso, cioè la regola generale sotto la quale il caso particolare è sussumibile. Ogni
applicazione di una norma richiede l’interpretazione di un testo, e cioè la formulazione della norma.
Antinomie e criteri di soluzione. Quando i testi normativi in vigore sono incoerenti (cioè
producono norme incompatibili tra loro) allora si ricorre ad un complesso di argomenti predisposto
alla soluzione delle cd. antinomie, ossia la scelta da privilegiare nel caso specifico:
-criterio cronologico: la sua applicazione porta a dichiarare l'abrogazione della legge meno recente;
-criterio gerarchico: porta a dichiarare l'invalidità della norma di grado inferiore;
-criterio della specialità: porta a privilegiare nel contrasto la norma particolare rispetto a quella più
generale;
-criterio della competenza: porta a risolvere il contrasto normativo decidendo quale sia l’atto o
l’ordinamento competente a disciplinare la materia.
Si tratta di criteri frutto del lavoro di riflessione soprattutto della dottrina attorno alle modalità con
cui il sistema si costruisce.
Preleggi. Si potrebbe obiettare che sono le norme positive a costruire il sistema giuridico, a partire
dalle cosiddette preleggi, le disposizioni sulla legge in generale che precedono il codice civile, che
si occupano di disciplinare sia le modalità con cui la legge va interpretata sia gli stessi criteri di
soluzione delle antinomie. Ma in realtà non è così. Esse riprendono le stesse disposizioni
sull'interpretazione e l'abrogazione contenute nel codice del 1865 e delle quali si sono avuti dubbi
sul mantenerle perché soprattutto le regole sull'interpretazione erano più un danno che un'utilità,
visto che erano incomplete, eccessivamente dottrinali, ed erano più un consiglio che un comando.

4. Il criterio cronologico e l’abrogazione


Il criterio cronologico è lo strumento di composizione delle antinomie che si è consolidato da più
tempo: nel nostro ordinamento trova nell'articolo 15 delle preleggi una formulazione conforme a
tradizione.
È un criterio tipico degli ordinamenti in cui le fonti-atto prevalgono sulla consuetudine: è ovvio che
la legge non possa essere immutabile, ma può variare nel tempo.
Il criterio cronologico dice che in caso di contrasto tra due norme si deve preferire quella più
recente a quella più antica (lex posterior derogat priori).
La prevalenza della nuova norma si esprime attraverso l'abrogazione della vecchia norma:
l'abrogazione è l'effetto che consiste nella cessazione dell'efficacia della norma giuridica precedente,
che non sarà più idonea a produrre effetti giuridici.
Il principio di irretroattività. Per il principio di irretroattività degli atti normativi, l'abrogazione
opera solo per il futuro, ex nunc (da ora).

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Il principio di irretroattività delle leggi (articolo 11 delle preleggi) è un pilastro dello Stato di diritto,
perché costituisce la garanzia minima di certezza dei rapporti giuridici: chi agisce deve poter
conoscere in anticipo quale qualificazione giuridica è data dall'ordinamento al suo comportamento.
L’ irretroattività delle leggi non è però un principio costituzionale: la costituzione lo riconosce solo
per la norma penale (articolo 25 della costituzione);(anche altre norme costituzionali si oppongono
alla retroattività delle leggi:ad es. il principio di uguaglianza,di capacità contributiva eccetera).
LA “NATURALE” RETROATTIVITA’ DELLE LEGGI DI INTERPRETAZIONE
AUTENTICA
Ci sono delle leggi che sono fatte per operare retroattivamente, sono le cd. Leggi “di interpretazione
autentica”. Ad esse il legislatore può ricorrere quando sia necessario chiarire il significato di
qualche disposizione legislativa precedente, in modo da risolvere dubbi interpretativi. Siccome
queste leggi non aggiungerebbero nuove disposizioni, ma semplicemente chiarirebbero il vero
significato di disposizioni già in vigore, i loro effetti retroagiscono alla data di entrata in vigore di
queste ultime. In questi termini la Corte costituzionale non le considera contrarie alla costituzione,
purchè ovviamente non mutino le disposizioni interpretate e non siano direttamente rivolte ad
incidere su giudizi in corso o a sovvertire un giudicato.
Tuttavia una legge che disponga per il passato è sempre soggetta ad un controllo stretto di
legittimità costituzionale.
Per effetto della nuova legge la vecchia norma perde efficacia dal giorno dell'entrata in vigore del
nuovo atto, e questo significa non solo che non sarà più la regola dei rapporti giuridici sorti dopo
quella data, ma anche che tutti i rapporti precedenti restano in piedi e rimangono regolati da essa.
La vecchia norma, benché abrogata, sarà pur sempre la norma che il giudice dovrà applicare ai
vecchi rapporti( salvo disciplina transitoria).
L'effetto abrogativo può essere prodotto da fenomeni assai diversi.
L'articolo 15 delle preleggi elenca tre ipotesi di abrogazione:
-per dichiarazione espressa del legislatore (abrogazione espressa);
-per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti (abrogazione tacita);
-perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore (abrogazione
implicita).

Forme di abrogazione.
L'abrogazione espressa è il contenuto di una disposizione ed opera erga omnes, così come operava
la legge.
L’abrogazione tacita è rilevata dall'interprete, che, di fronte a un’antinomia, deve ritenere che
prevalga la norma successiva: essa quindi opera sul piano dell'interpretazione e vale per ciò solo nel
singolo giudizio (inter partes) non potendo vincolare altri giudici.
L'abrogazione implicita opera anche essa sul piano dell'interpretazione: non essendovi una
disposizione esplicita che dichiari l'abrogazione della legge precedente, l'interprete trae dal fatto che
il legislatore ha riformato la materia, un argomento per sostenere che la vecchia legge debba
ritenersi abrogata e le sue norme non devono più essere applicate.
Non sempre il risultato dell'abrogazione implicita è così netto perché ad esempio la nuova legge può
riformare solo parte della materia disciplinata dalla legge precedente, sicché sta all'interprete
valutare se la vecchia disciplina resti in vigore o sia stata abrogata senza la produzione di nuove
norme.
MI ABROGA O NON MI ABROGA?CASI DI DUBBIA ABROGAZIONE IMPLICITA
Caso di vertenze tra FIAT e i suoi dipendenti: la Fiat pensava che il d.p.r. del 2000 (che aveva
ridisciplinato il procedimento di concessione della cassa integrazione) avesse implicitamente
abrogato anche l’obbligo del datore di lavoro di comunicare in avvio della procedura ai sindacati i
criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere,mentre i sindacati sostenevano il contrario. La
cassazione da ragione ai sindacati in quanto la nuova disciplina attiene solo alla fase amministrativa
del procedimento, mentre l’obbligo di comunicazione è una tutela dei singoli lavoratori nella
gestione della cassa integrazione.

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L'effetto abrogativo.
L'abrogazione non impedisce affatto che la norma abrogata continua ad essere applicata ai rapporti
sorti prima della nuova legge: "l'abrogazione, limitando ai fatti verificatisi fino ad un certo
momento, la sfera di operatività della legge abrogata, incide su questa nel senso che,
originariamente fonte di una norma riferibile ad una serie indefinita di fatti futuri, essa è ormai fonte
di una norma riferibile solo ad una serie definita di fatti passati" (corte costituzionale 1970).
La data di entrata in vigore della nuova legge segna il momento di cambiamento della disciplina: i
rapporti giuridici sorti prima restano soggetti alla vecchia disciplina abrogata, quelli che sorgeranno
in seguito saranno soggetti alla nuova disciplina. In ciò sta la differenza tra l'effetto
dell'abrogazione, che opera solo ex tunc, e gli effetti delle sentenze che dichiarano l'illegittimità
costituzionale di una legge.
Il problema della reviviscenza. L'abrogazione della legge abrogante può produrre reviviscenza
della vecchia disciplina, togliendo il limite che quella aveva posto alla sua operatività.
Che l’ abrogazione della norma abrogatrice faccia rivivere la norma abrogata non è affatto una
conseguenza automatica ne l'effetto normale dell'abrogazione della norma abrogatrice: può essere
solo il risultato di un più o meno complesso processo di interpretazione della nuova legge, in cui
avrà peso l'argomento dell'intenzione del legislatore.
La giurisprudenza è propensa a ritenere che la reviviscenza di norme precedentemente abrogate
possa aversi solo per espresso disposto delle nuove leggi: "il legislatore deve disporre la
reviviscenza in modo espresso e non equivoco”.
La corte costituzionale dubita dell'ammissibilità della reviviscenza di norme abrogate da
disposizioni dichiarate costituzionalmente illegittime e esclude la reviviscenza a seguito di
referendum abrogativo della legge abrogatrice.
DICHIARAZIONE DI INCOSTITUZIONALITA’ E REVIVISCENZA
Un profilo ulteriore rispetto a quello della reviviscenza a seguito di una legge abrogatrice è quello
della reviviscenza della legge abrogata a seguito di dichiarazione di incostituzionalità della
disposizione abrogante.
Sentenza del 1974 dove la Corte dichiara la incostituzionalità di un articolo che abrogava una
precedente disposizione. La Corte dichiarava la incostituzionalità di tale abrogazione e quindi
ridiventano operanti le norme abrogate dalle disposizioni dichiarate illegittime. La Corte però non
afferma che la dichiarazione di incostituzionalità di una disposizione abrogatrice determina sempre
il ritorno di operatività di quella abrogata. Nel nostro caso l’effetto è ricollegato alla circostanza che
l’incostituzionalità riguarda una disposizione meramente abrogatrice di precedente disposizione.
Come ha puntualizzato la dottrina, la parola riviviscenza non è del tutto appropriata. La parola
riviviscenza segnala che in ipotesi del genere una legge per un certo tempo non è stata applicata
perché apparentemente abrogata e torna ad essere applicata perché la presunta abrogazione viene
dichiarata mai accaduta.

5.Il criterio gerarchico e l’annullamento


Il criterio gerarchico è più recente: esso afferma che in caso di contrasto tra due norme si deve
preferire quella che nella gerarchia delle fonti occupa il posto più elevato. Anche questo è un
criterio indiscutibile, almeno negli ordinamenti interni basati su una pluralità di fonti
gerarchicamente disposte.
Costituzione > leggi ordinarie > regolamenti > consuetudini.
L’annullamento. La prevalenza della norma superiore su quella inferiore si esprime attraverso
l'annullamento: è l'effetto di una dichiarazione di illegittimità che un giudice pronuncia nei
confronti di un atto, di una disposizione o di una norma. A seguito della dichiarazione l'atto, la
disposizione o la norma perdono validità.
L'atto invalido è un atto viziato che va rimosso ripristinando la legalità dell'ordinamento:
l'annullamento perciò è erga omnes e tende ad operare ex tunc (da allora = retroattivamente).
L'atto annullato non può più essere applicato ad alcun rapporto giuridico, anche sorto in precedenza
all'annullamento.

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Dunque l'annullamento non opera solo per il futuro, ma anche per il passato, ma solo per i rapporti
pendenti, cioè che possono essere ancora sottoposti ad un giudice.
Prescrizione, decadenza, rinunzia o giudicato impediscono all'annullamento di far sentire i suoi
effetti sul rapporto giuridico.
L’ILLEGGITIMITA’ DELLE LEGGI
L’art. 136.1 cost. dispone che a seguito di dichiarazione di illegittimità costituzionale, lo norma
cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.
L’art. 30.3 della legge 1953 precisa che le norme dichiarate incostituzionali non possono avere
applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione. La dichiarazione di illegittimità si traduce in
un ordine rivolto ai soggetti dell’applicazione di non applicare più la norma illegittima. Ciò
significa che gli effetti della sentenza di accoglimento non riguardano solo i rapporti che sorgono in
futuro, ma anche quelli che sono sorti in passato , purchè non si tratti di rapporti giuridici ormai
chiusi e quindi non più sottoponibili a un giudice.
I rapporti ( cosi come gli atti amministrativi) sorti in precedenza sulla base della legge abrogata non
cadono ipso iure, ma possono essere annullati solo in seguito ad impugnazione.
Un eccezione è per le condanne penali, in applicazione del principio di legalità delle pene, per cui
quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza
irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali.
Il codice civile del 1942 delinea la gerarchia delle fonti all'articolo 1 delle preleggi.
Questa disposizione usa il criterio gerarchico come strumento ordinatore delle relazioni tra legge e
regolamento e tra questi e la consuetudine (assente la costituzione perché il codice civile è
anteriore).
Infatti con l'entrata in vigore della costituzione l'articolo 1 delle preleggi perde la sua capacità di
descrivere l'intero sistema gerarchico.
La neonata corte costituzionale non ha neanche bisogno di ribadire il suo ruolo nel sistema,
riproducendo un nuovo catalogo in cui vengano enumerate le fonti e indicato il loro rispettivo
rango.
Perfettamente assimilato il modello kelseniano, essa si preoccupa esclusivamente di disciplinare i
modi di produzione delle fonti primarie, definendole come una “categoria chiusa” composta dalla
legge formale e dagli atti aventi forza di legge specificamente elencati. E poi istituisce la corte
costituzionale come giudice di legittimità di questa fonte alla costituzione.
Nulla è detto di regolamenti amministrativi e fonti subordinate, disciplinate quindi dalle fonti
primarie.
ABROGAZIONE O ANNULLAMENTO?
Cosa accade se nel conflitto tra due norme il criterio cronologico e quello gerarchico si
sovrappongono, cioè quando la norma superiore è anche la norma più recente?Opera abrogazione o
annullamento?il problema si è avuto quando la Costituzione del 1948 entrò in vigore e si
sovrappose all’ordinamento previgente. La risposta data sia dai giudici amministrativi che dalla
Corte cost. a suo tempo è: dipende. Non vi è un effetto immediato di abrogazione, salvo che la
nuova disciplina, gerarchicamente superiore, non presenti un rapporto di assoluta incompatibilità,
esclusivamente configurabile nell’ipotesi in cui la seconda regoli la medesima situazione
disciplinata dalla prima in modo che il nuovo regime e quello previgente non possano coesistere.
Oppure dovrà operare il criterio gerarchico, con dichiarazione di illegittimità (o disapplicazione) del
regolamento.

6. La costituzione come fattore di crisi del “sistema delle fonti”


6.1. Riserva di legge e “specializzazione” degli atti normativi
La gerarchia delle fonti è dunque il presupposto implicito che caratterizza il sistema delle fonti al
momento dell'introduzione della nuova costituzione; ma essa ne segna però anche la crisi.
La gerarchia degli atti normativi si regge su due presupposti:
- unicità dell'ordinamento;
- perfetto parallelismo tra gerarchia di atti, di procedimenti di produzione normativa e di organi

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dotati di potere normativo.


Il sistema gerarchico rispecchiato dall'articolo 11 delle preleggi è un sistema monolitico: alla base
c’è l'idea della sovranità indivisa dello Stato e il suo corollario, cioè il principio di esclusività
(esclusione dal territorio nazionale di ogni altra autorità dotata di potere normativo, sia interna che
esterna).
SOVRANITA’ E PRINCIPIO DI ESCLUSIVITA’
Il principio di esclusività è espressione della sovranità dello Stato perché attribuisce a questo il
potere esclusivo di riconoscere le proprie fonti, cioè indicare i fatti e gli atti che possono produrre
norme dell’ordinamento. Le norme di altri ordinamenti ( sia interni che esterni ) possono valere
all’interno dell’ordinamento dello Stato solo se le disposizioni di questo lo consentono e ciò avviene
tramite la tecnica del rinvio
Nella visione tradizionale, l'ordinamento ha una struttura piramidale, con al vertice la legge (in
memoria del mito ottocentesco della sovranità del Parlamento): la legge è il vertice perchè prodotto
del consenso delle camere e del capo dello Stato; essa prevale sul regolamento governativo perché il
re in Parlamento prevale sul suo governo.
Questa relazione viene recepita dalla costituzione, ma il rapporto gerarchico si esaurisce qui, perché
tutti gli altri presupposti della concezione piramidale dell'ordinamento vengono messi in crisi dalle
stesse norme costituzionali.
Rottura della unitarietà della legge. Viene ad incrinarsi innanzitutto l'unitarietà della legge: essa
perde la caratteristica di fonte normativa per eccellenza, espressione diretta della sovranità.
Infatti la costituzione italiana è chiara:
l'art. 70 attribuisce alle camere la funzione legislativa, intesa come generica potestà di legiferare.
Gli articoli successivi individuano gli altri atti che (derogando alla generale attribuzione legislativa
alle camere) concorrono con la legge, avendo la sua stessa forza:
- referendum abrogativo (art. 75 cost.)
- decreto delegato (art. 76 cost.)
- decreto legge (art. 77 cost.)
- atti del governo in caso di guerra (art. 78 cost.).
La forza di legge comporta che questi atti siano posti sullo stesso piano gerarchico della legge
formale. La loro concorrenza non è totale perché la costituzione introduce un meccanismo che la
limita e la regola: la riserva di legge.
La Riserva di legge è lo strumento con cui la costituzione regola il concorso delle fonti nella
disciplina di una determinata materia: è una regola circa l'esercizio della funzione legislativa.
La sua funzione tradizionale è di evitare che, in materie delicate, manchi una disciplina capace di
vincolare il comportamento del potere esecutivo e quindi vuole tutelare le prerogative parlamentari
dall'invadenza di atti normativi provenienti dall'esecutivo.
La riserva di legge impone che la disciplina di una materia sia riservata totalmente (riserva
assoluta) o almeno per le norme di principio (riserva relativa) alla legge ordinaria (sia legge
formale che atti con forza di legge), escludendo o limitando la possibilità che la disciplina sia
integrata da atti regolamentari del governo.
Per certi particolari argomenti che devono essere riservati al Parlamento, la costituzione richiede
che siano le camere, con legge formale, a provvedere (riserva formale), togliendo al governo la
possibilità di intervenire con regolamenti o atti con forza di legge.
Infine in certi casi la costituzione introduce riserve di legge particolari che specializzano le fonti
primarie: riserve rinforzate per procedimento e riserve rinforzate per contenuto.
"Specializzazione delle leggi"
Leggi rinforzate per procedimento: vi sono materie che possono essere regolate solo con un
procedimento particolare (accordi concordatari ad es.).
La ratio è quella di limitare il potere della maggioranza politica di regolare argomenti sensibili per
le minoranze: la maggioranza potrà fare la legge solo se acquisisce il consenso della volontà
particolare espressa dai rappresentanti delle specifiche minoranze.
Leggi rinforzate per contenuto: vi sono casi (riserve rinforzate per contenuto) in cui la costituzione

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prevede che la legge ordinaria possa disciplinare la materia solo rispettando specifiche limitazioni
di contenuto.
Ad esempio l'articolo 14.3 consente al legislatore di dettare regole speciali per le perquisizioni
domiciliari, meno rigide delle disposizioni generali, ma solo per motivi di sanità e incolumità
pubblica, oppure per fini economici e fiscali.
La ratio è quella di limitare il potere del legislatore che può comprimere la sfera di libertà degli
individui soltanto a condizione che le misure normative siano razionalmente giustificabili in
relazione ai fini o ai criteri indicati dalla costituzione stessa.
Leggi atipiche: vi sono dei casi in cui la costituzione modella determinate leggi in modo così
pervasivo da staccarle dal tipo cui appartengono: formalmente sono legge del Parlamento ma la loro
forza è diversa da quella normale.
Il caso più emblematico di legge atipica è la legge di approvazione del bilancio di previsione (la
legge non può prevedere nuove spese e tributi).
La ratio è di evitare che tipologia e quantum delle tasse, la politica degli investimenti, e così via,
siano occultati dal governo nelle pieghe di un documento molto complesso, rendendo impossibile il
controllo del Parlamento.
La atipicità consiste nel fatto che la sua forza attiva (la sua capacità di innovare le leggi ordinarie) è
azzerata, ma atipica è anche la sua forza passiva: la legge di bilancio ha un'efficacia temporale
limitata all'anno cui si riferisce, nel quale si possono fare variazioni necessarie con apposite leggi,
ma non è possibile abrogarle in toto.
Questa specializzazione degli atti normativi incrina il sistema delle fonti che la dottrina aveva
edificato attorno agli assi della gerarchia e della cronologia: non è più (interamente) vero che tutte
le fonti che rientrano nel gradino gerarchico delle fonti primarie concorrano tra di loro governate
dal solo criterio cronologico: non tutte le leggi formali sono abrogabili e sostituibili dagli atti con
forza di legge (vi si oppone la riserva di legge formale), né tutte le leggi formali sono abrogabili e
sostituibili da qualsiasi altra legge formale (vi si oppone la riserva rinforzata).
Vi sono invece leggi particolari (leggi rinforzate) a cui la costituzione attribuisce una particolare
competenza che è esclusiva sia nel senso che solo esse possono regolare quel particolare oggetto,
sia nel senso che solo quel particolare oggetto può essere disciplinato da esse.
Riserva ai regolamenti parlamentari: la costituzione istituisce una riserva di disciplina che sembra
impenetrabile: è la riserva ai regolamenti interni delle camere, la cui competenza sembra delimitata
quasi fisicamente dai muri perimetrali delle assemblee elettive.
Un caso analogo è quello introdotto dagli statuti delle regioni speciali, che per la propria attuazione
prevedono una fonte particolare, cioè un decreto legislativo predisposto da una commissione
paritetica e emanato dal governo, senza che le camere ne prendano visione.
Sono atti primari ma privi di forza abrogativa nei confronti delle leggi ordinarie e non rischiano di
essere da questa abrogati.

6.2. Il pluricentrismo “interno” e le “fonti delle autonomie”


Ancora più vistoso è l'effetto sul sistema delle fonti con l'introduzione dell'autonomia regionale.
Autonomia legislativa e autonomia politica delle regioni. L'invenzione delle regioni è stata
stimolata dal desiderio dei costituenti di creare un livello di governo locale, dotato di autonomia di
indirizzo politico, che rafforzasse la divisione dei poteri. Però per garantire l'autonomia politica dei
nuovi enti, bisognava consentire loro di fare ciò che ai tradizionali enti locali non era permesso:
derogare alla legge del Parlamento.
Non si tratta più soltanto di specializzare la legge del Parlamento o di istituire piccole porzioni di
competenza riservata ad atti diversi: ci si trova di fronte ad una serie di legislatori totalmente
indipendenti e potenzialmente divergenti o conflittuali con il Parlamento nazionale.
Concorrenza tra legge statale e legge regionale: la costituzione prevede per le regioni ordinarie
una competenza legislativa concorrente con quella dello Stato (articolo 117.3 della costituzione).
La concorrenza tra legge statale e regionale è regolata dalla distinzione tra principi e dettaglio: non
è chiaro però come opera questa distinzione.

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Si potrebbe supporre che essa operi nel senso di un rapporto di gerarchia strutturale come quello tra
decreto delegato e principi e criteri direttivi della legge di delega; oppure che esso implichi una
netta separazione delle competenze, per cui la legge statale prevale se e solo se pone i principi (e la
legge regionale che li viola sarebbe illegittima perché incompetente), mentre la legge regionale
prevale se e solo se dispone il dettaglio (e la legge statale sarebbe illegittima se invade la
competenza regionale con norme di dettaglio).
La teoria però si inceppa per due motivi:
- non c'è nessun mezzo logico, criterio sostanziale o rimedio pratico che permette di distinguere
concretamente principio e dettaglio per cui la distinzione è impraticabile;
- la prevalenza della legge statale di principio sulla legge regionale di dettaglio non è dotata di
strumenti procedurali che la facciano operare.
Quindi c'è una paralisi della legge di principio di fronte alla legge di dettaglio, in base al criterio di
specialità.
IL CRITERIO DELLA SPECIALITA’
Il criterio della specialità serve anch’esso a risolvere le antinomie , guidando l’interprete nella scelta
della norma da applicare. Esso suggerisce di preferire la norma speciale a quella generale , anche se
questa è successiva. Questo criterio non è ben codificato, perché cosa sia genere e cosa specie è
questione di opinioni: però può essere costruito come il rapporto tra regola generale ed eccezione.
Le norme in conflitto restano entrambe efficaci e valide: l’interprete opera solamente una scelta
circa la norma da applicare ( l’altra norma semplicemente non è applicata) , dando la prevalenza
alla norma speciale, che di conseguenza deroga quella generale.
La deroga è l’effetto tipico della prevalenza della norma speciale su quella generale:essa si
distingue dall’abrogazione perché la norma derogata resta in vigore ed anzi, se la norma speciale
dovesse essere abrogata, riespande il suo ambito di applicazione. È chiaro anzi che la deroga
esclude l’applicazione della abrogazione, cioè del criterio cronologico.
Le norme speciali sono norme dettate per specifici settori o particolari materie, che derogano alla
normativa generale per esigenze legate alla natura stessa dell’ambito disciplinato.

6.3. Il criterio della competenza e gli altri criteri


Il criterio della competenza non si presta ad una definizione stringente in forma di regola per
l'interprete; questo perché esso non è un criterio prescrittivo ma svolge funzioni esplicative: serve
cioè a descrivere come è organizzato attualmente il sistema delle fonti, ma non indica all'interprete
come risolvere le antinomie.
Esso ci spiega che la gerarchia delle fonti non basta più a darci il quadro esatto del sistema, perché
all'interno dello stesso grado gerarchico, cioè tra atti che hanno la stessa posizione gerarchica, la
stessa forza, vi sono suddivisioni basate sull'assegnazione di ambiti di competenza diversi.
Criterio della competenza e criterio di gerarchia. Quando si cerca di utilizzare il criterio di
competenza come regola di risoluzione dei conflitti tra norme, si finisce per lo più con ricadere nel
criterio della gerarchia ad esempio: se una legge ordinaria disciplinasse alcuni aspetti della vita
interna delle camere, potrebbe essere impugnata perché, violando la competenza della camera,
violerebbe allo stesso tempo la norma costituzionale che quella competenza garantisce.
Il criterio di competenza può servire però quando si tratti di distinguere tra ordinamenti
(nell'esempio fatto: distinzione tra norme dell'ordinamento della camera e norme dell'ordinamento
esterno).
Oppure esso è utilizzato dalla corte costituzionale come guida nei contrasti tra norme
dell'ordinamento italiano e norma dell'unione europea.
In questi casi non si ha annullamento o abrogazione ma semplicemente la non applicazione della
norma.
La successione nel tempo di leggi statali e leggi regionali. La dottrina aveva elaborato il criterio
della competenza per sistemare le fonti in un ordinamento con più centri di legislazione ordinaria,
soprattutto il rapporto tra legge statale e legge regionale. Però con il tempo si è avuto un rapporto
tra legge statale e legge regionale diverso da quello previsto: è usuale che leggi dello Stato ignorino

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

il loro limite di competenza e si preoccupino invece di dettare l'intera disciplina della materia
considerata, superando la distinzione tra principi e dettagli.
La corte costituzionale spiega questa prassi:
è inevitabile che la legge statale disciplini anche il dettaglio perché così si può imporre sulla
precedente legislazione regionale contrastante, abrogandola; poi spetterà alla regione, se vorrà,
emanare proprie leggi di dettaglio che a loro volta sostituiranno le norme statali contrastanti.
Criterio della competenza e criterio cronologico. È quindi il criterio cronologico l‘asse intorno al
quale il sistema si ricompone. Allo stesso tempo può entrare in gioco anche un rapporto di gerarchia
strutturale tra la norma statale di principio e la norma regionale di dettaglio, secondo una relazione
che opera anche tra altre fonti primarie.
La riforma costituzionale del 2001 ha modificato l'intero impianto dei rapporti tra Stato, regioni e
autonomie locali ma non ha affatto introdotto elementi utili per elaborare un diverso, più coerente e
affidabile sistema delle fonti.
Anzi il quadro è più complesso soprattutto per quanto riguarda le materie di competenza
concorrente previste dal nuovo 117.3 della costituzione.
IL NODO DEI REGOLAMENTI DEGLI ENTI LOCALI
Con la riforma costituzionale è emerso un ulteriore problema: il nuovo titolo V sembra voler
attenuare quegli elementi di supremazia che caratterizzavano la posizione dello Stato e la sua legge
nei confronti di regioni e enti locali; nell’art. 117.6 si riconosce agli enti locali potestà
regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro
attribuite, ponendo quindi la necessità di individuare il loro poso nel sistema delle fonti.
Principio di autonomia e riflesso sul sistema delle fonti. La nuova Costituzione infatti inserisce il
principio di autonomia tra i suoi principi fondamentali e dota gli enti locali di autonomia politica ,
oltre che di un ordinamento democratico- rappresentativo. Quindi come poteva il governo locale
reggere questa soggezione rispetto non solo alle leggi ma anche ai regolamenti dello stato o (della
regione)? La gerarchia degli atti veniva scissa dalla gerarchia dei procedimenti.
Il problema si è acuito con la legge di riforma dell’ordinamento locale , che riconosce il Comune
come ente che rappresenta la propria comunità,e ne cura interessi e sviluppo attribuendogli tutte le
funzioni amministrative che riguardino il territorio e la popolazione comunale….salvo quanto non
sia espressamente attribuito ad altri soggetti statali o regionali, secondo le rispettive competenze.
Quindi come vediamo un ente che assume la rappresentanza della propria comunità, abbia fini
generali, dotato di un ordinamento politico con forte rappresentanza locale, ma esprime la sua
autonomia politica solo nelle forme del regolamento amministrativo ( con posizione gerarchica di
scarso valore) pone una seria sfida al sistema delle fonti.

6.4. Il pluricentrismo “esterno”


Il criterio della competenza è diventato l'asse portante dei rapporti tra ordinamento italiano e
ordinamento dell'unione europea.
La pressione che le fonti derivanti da ordinamenti esterni esercitano su quello italiano non è causata
dalla costituzione repubblicana. Essa ha tratto ispirazione dalla tradizionale visione dualista, basata
sulla impermeabilità dell'ordinamento nazionale rispetto gli ordinamenti esterni, aspetto che è un
tratto caratteristico del concetto stesso di sovranità.
Due sono le porte lasciate aperte dalla costituzione :
-il rinvio automatico alle norme internazionali consuetudinarie;
-la previsione di una possibile parziale cessione di sovranità per consentire all'Italia di far parte
di una riedizione della Società delle nazioni (articolo 11 della costituzione).
Come sappiamo si è introdotto invece l'ampia normativa delle istituzioni europee.
Il trattato istitutivo ha sancito il principio di prevalenza del diritto dell'unione europea sul diritto
interno: sarà compito del singolo ordinamento interno a determinare come debba operare questo
principio. Il legislatore italiano non si è mai preoccupato di dettare norme guida per i soggetti cui
spetta applicare il diritto ; per cui l'onere incombe su dottrina e giurisprudenza costituzionali
chiamate a decidere sul contrasto tra leggi interne e leggi dell'unione europea.

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

Il c.d. “cammino comunitario” della Corte Costituzionale. La corte costituzionale ha mutato nel
tempo l'impostazione del problema giungendo infine ad utilizzare il criterio della competenza: i due
ordinamenti sono visti come distinti e separati, ognuno con un proprio sistema di fonti (teoria
dualistica); per cui il conflitto tra le norme è solo apparente, perché ciascuna norma è valida ed
efficace nel proprio ordinamento secondo le condizioni poste dall'ordinamento stesso; è il trattato ad
assegnare la ripartizione di competenza tra i due ordinamenti per cui (in caso di apparente
contrasto) è il giudice italiano che deve accertare se, in base al trattato, nella materia specifica sia
competente la unione europea o l'Italia e di conseguenza applica la norma dell'ordinamento
competente.
Posizione dei trattai internazionali nel sistema delle fonti. Ciò significa che i trattati
internazionali non possono filtrare nell'ordinamento italiano direttamente, cioè senza un'apposita
disposizione legislativa di trasposizione: sono necessarie delle disposizioni interne che producono
norme interne corrispondenti a quella esterna, norme che quindi hanno il rango gerarchico proprio
dell'atto che le ha immesse.
I trattati internazionali sono perciò fatti estranei al nostro ordinamento e per cui è il legislatore
italiano a trarre norme giuridiche applicabili nel nostro ordinamento: spesso ciò avviene mediante
un ordine di esecuzione.
Come vediamo nei rapporti tra Italia e altri ordinamenti abbiamo ancora un sistema delle fonti
chiuso, dominato dal principio di esclusività; le fonti sono identificate da apposite norme di
riconoscimento poste dal nostro ordinamento (norme costituzionali sulla funzione legislativa, e così
via).

6.5. La giurisprudenza delle Corti costituzionale, comunitaria e CEDU


Se la giurisprudenza sia o meno fonte del diritto è una questione tanto antica quanto oziosa.
In particolare va analizzato il ruolo assunto dalla corte costituzionale, dalla corte dell'unione
europea e dalla corte EDU(convenzione europea dei diritti dell'uomo).
Esse detengono il monopolio dell'interpretazione dell'atto che le ha istituite (costituzione, trattato
istitutivo e il diritto derivato da esso, la convenzione).
Esse hanno il potere di produrre norme nel senso di dichiarare, con effetti essenzialmente erga
omnes, il significato normativo delle singole disposizioni interpretate. Queste norme interagiscono
con le altre componenti del sistema normativo, suscitando molti interrogativi e dubbi sugli effetti
delle loro sentenze.
Si tratta di questioni che non possono essere risolte neanche grazie all'intervento del legislatore,
poiché qui ormai siamo lontani dalla teoria degli atti normativi e penetrati invece nella teoria
dell'interpretazione.
La costituzione e le leggi di attuazione ci dicono quali sono gli effetti delle sentenze della corte
costituzionale che dichiarano l'illegittimità di una legge: ma nulla dicono della interpretazione
conforme, delle sentenze additive o additive di principio e così via.
Il peso di ricostruire il sistema delle fonti è affidato alla responsabilità degli interpreti.

6.6. La produzione “sociale” di norme


Le teorie classiche spesso riservano nel sistema delle fonti uno spazio agli atti di autonomia
privata.
Si tratta delle norme prodotte da chi, pur non essendo investito di pubbliche funzioni, esercita poteri
normativi per disciplinare i rapporti giuridici destinati a svolgersi tra loro o con soggetti a
qualunque titolo tenuti ad uniformarsi alle loro disposizioni.
Si tratta dunque o di rapporti giuridici che attengono al diritto di proprietà o di particolari prodotti
dell'autonomia negoziale (ad esempio statuto degli enti).
Inserire o meno questo tipo di fonti nel sistema normativo dipende essenzialmente dal gusto estetico
di chi sta elaborando il modello e dall'estensione teorica di questo.
Può accadere che gli atti che formano i rispettivi ordinamenti acquistino a loro volta un carattere
normativo rilevante per l'ordinamento generale (si pensi agli ordinamenti professionali).

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

Sono fenomeni organizzati nel sistema delle norme attraverso il criterio gerarchico ( sono
comunque sottoposti alle fonti primarie) e a quello di competenza ( è la legge che assegna loro un
determinato spazio di autonomia riservato). In tempi recenti la tradizionale prospettiva
dell'autonomia privata è stata ingigantita e resa complessa dall'imporsi (grazie anche all'unione
europea) della globalizzazione e dell'autonomia del mercato.
Interi segmenti della regolazione pubblica lasciano il passo a fenomeni regolatori non sempre
agevoli da definire:
- regolamenti della Banca d'Italia (in particolare la sua funzione di vigilanza sugli istituti bancari;
potere normativo nei confronti di intermediari bancari; poteri riconosciuti da leggi dello Stato).
Stesso potere normativo alla Banca centrale europea(BCE).
- Poi abbiamo i poteri normativi delle autorità amministrative indipendenti: lo Stato tende a
ritrarsi dall'intervento diretto e dall'esercizio del potere normativo e affida compiti di regolazione a
soggetti che si collocano fuori o ai margini del sistema dell'autorità pubblica.
Sono indipendenti perché sottratti al circuito politico-rappresentativo: se da un lato ciò serve a
garantire neutralità, dall'altro lato si indebolisce la loro legittimazione, si rompe quel rapporto tra
rappresentanza politica, garanzie procedimentali e collocazione degli atti nella gerarchia delle fonti.
Il loro potere normativo trae legittimazione dal basso:
- l'attribuzione di questo potere è finalizzata alle esigenze che emergono dal settore da regolare;
- la regolazione dello specifico segmento di mercato verso cui si rivolge la competenza del soggetto
regolatore è generalmente partecipata e condivisa dagli operatori economici che agiscono in quel
segmento.
Questi atti rientrano nel sistema perché previsti dalla legge e vengono garantiti i meccanismi
ordinari di tutela giurisdizionale.
È anche vero che i poteri regolamentari di queste autorità sono delimitati in modo abbastanza
generico sia per estensione che per grado di discrezionalità esercitabile. Le norme che essi emanano
spesso derivano da regole imposte dagli stessi mercati internazionali.
Vi è quindi un rapporto osmotico tra la regolazione che deriva dall'alto dalla normativa statale
dell'unione europea e la regolazione che viene dal basso dalla normativa tecnica che emerge dal
mercato stesso.
Tutto ciò si manifesta nella moral suasion di cui si dice siano dotate molte delle regolazioni
emanate dalle autorità indipendenti, dai codici di autoregolamentazione prodotti dalle
organizzazioni professionali e recepiti dalle autorità preposte, dalla produzione di normative
tecniche e best practices che in ogni settore alcuni soggetti producono continuamente. Siamo in un
mondo definito soft law, con diversi organismi dotati di potere normativo più o meno intenso.

7. Qual è il “diritto” dello Stato di diritto?


Per ricostruire il sistema delle fonti dobbiamo definire cosa sta dentro e che cosa sta fuori dalla
nozione di fonte.
Atti di indirizzo politico e direttive amministrative. In passato il problema era la difficile
distinzione tra gli atti normativi e quelli variamente attribuibili alla funzione di indirizzo politico e
al rapporto di direzione amministrativa.
Il sistema delle fonti sembra assestato su un presupposto: solo le fonti primarie costituiscono un
novero chiuso e predefinito dalla costituzione, mentre le fonti secondarie sono liberamente
plasmabili dalle leggi ordinarie.
Le stesse leggi generali in materia di produzione normativa se, in quanto fonti primarie, si
impongono all'esecutivo e ne disciplinano i comportamenti anche normativi, non sono accreditate
dalla forza passiva necessaria per imporsi alle altre leggi che quindi potranno istituire atti con
contenuti di tipo normativo.
Le fonti secondarie hanno sempre dimostrato una certa tendenza alla fuga dalla forma, soprattutto
quando sono le norme costituzionali a porre limiti o vincoli: con il nuovo articolo 117 della
costituzione nonostante la severa delimitazione costituzionale del potere regolamentare dello Stato
alle sole materie esclusive, esso viene evaso ad esempio attraverso la curiosa prassi delle leggi che

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

autorizzano il ministro ad emanare decreti non aventi valore regolamentare anche se contengono
prescrizioni normative (episodi di truffa delle etichette).
Inoltre sono in corso delle evoluzioni che spingono verso la proliferazione di atti regolativi anomali:
ad esempio si sono rafforzate quelle relazioni impostate su un piano più paritario sia tra pubblico e
privato sia tra Stato e autonomie locali e ciò ha favorito lo sviluppo di accordi, intese, atti e
negoziati tra Stato, regioni, imprenditori; atti frutto di negoziazione politica e normativa e si
collocano nel mezzo tra atti meramente politici e atti giuridici con effetti normativi.
Questo fenomeno va dunque a minare ad esempio la tipicità delle forme, dove però si custodiscono
le garanzie procedurali attraverso le quali si formano decisioni di interesse generale.
Dunque deviare dalle forme tipiche della produzione di norme generali significa smarrire uno dei
capisaldi dello Stato di diritto: la netta separazione tra i documenti che sono abilitati a produrre
regole obbligatorie per la generalità dei consociati e i documenti che sono privi di questa
obbligatorietà.
Lo sfarinamento della sovranità statale va di pari passo con la perdita di riconoscibilità di ciò che è
diritto e ciò che non lo è.

8. Teoria delle fonti e loro “falsicabilità”


Dunque sempre per ricostruire il sistema delle fonti, dobbiamo analizzare anche le conseguenze
pratiche delle delimitazioni teoriche di ciò che è diritto e ciò che non lo è e nelle pronunce
giurisprudenziali sono notevoli gli esempi.
Anche se però si supera questo ostacolo (cioè stabilire quali atti hanno natura normativa) bisogna
verificare la loro collocazione nel sistema delle fonti. Si tratta di una operazione teorica complessa.
Separazione tra legislazione e interpretazione. Bisogna tenere comunque in considerazione il
dato normativo e inoltre la separazione tra momento legislativo e momento di interpretazione è la
premessa da cui l'interprete parte per svolgere l'opera di ricondurre a sistema atti che sono
manifestazioni del potere politico e quindi non gravati dall'obbligo della coerenza. Ogni ingerenza
del legislatore viene respinta come se fosse un'invasione di campo anche se ciò che favorisce
l'evoluzione è il dialogo tra questi due mondi.
Modelli teorici ed evoluzione dell’ordinamento. I modelli teorici elaborati dalla dottrina fanno
comunque riferimento alle continue evoluzioni dell'ordinamento: prima dell'avvento della
costituzione la dottrina basava i rapporti tra legge e regolamenti sullo schema della gerarchia: chi,
come Carlo Esposito, provava ad allontanarsi da questo schema, proponendo invece un sistema
delle fonti circolare dove ogni atto normativo contiene la regola della propria validità e efficacia,
non ebbe seguito e vide falsificata la propria teoria dalla prassi giurisprudenziale e dalla stessa
legislazione.
L'introduzione della costituzione mutava i riferimenti empirici e permetteva a Crisafulli di guardare
al criterio della competenza come rappresentazione del rapporto tra atti normativi. Anche questa
teoria si rivela poco produttiva come criterio normativo per risolvere le antinomie che si creavano
ad esempio tra legge statale di principio e legge regionale di dettaglio.
Per cui anche questa teoria è stata falsificata dalla prassi della giurisprudenza costituzionale che ha
avvalorato la prassi del legislatore statale di emanare norme di dettaglio auto-applicative, con una
retrocessione del legislatore regionale.
Invece il criterio della competenza si è imposto (grazie alla corte costituzionale) come criterio
normativo per la risoluzione di conflitti tra ordinamenti, quando tale conflitto oppone leggi italiane
e norme dell'unione europea.
Esso inoltre permette di coordinare gli atti normativi degli enti locali con le leggi dello Stato,
rapporti che in precedenza venivano risolti con lo schema della gerarchia. La cassazione ha stabilito
che lo statuto del Comune non è più subordinato alle leggi (con la riforma del titolo quinto della
costituzione).

CAP 2
LA COSTITUZIONE COME NORMA SULLE FONTI E COME NORMA

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

DIRETTAMENTE APPLICABILE
1. La costituzione come norma sulle fonti e come norma sostanziale
La costituzione italiana pone le "norme di riconoscimento" delle fonti che costituiscono “diritto” in
Italia. Questo compito viene svolto su due versanti:
da un lato vengono disciplinati gli atti normativi prodotti dalle istituzioni pubbliche italiane (Stato e
enti che lo Stato istituisce e dota di poteri normativi);
dall'altro sono regolati i rapporti tra l'ordinamento alimentato da queste norme e le norme che
provengono da altri ordinamenti, sono cioè prodotte da soggetti che non costituiscono istituzioni
pubbliche italiane, perché stranieri o perchè appartenenti alla società civile.
Per quanto riguarda i rapporti tra l'ordinamento italiano e gli altri ordinamenti, abbiamo una
visione e una concezione dualistica da parte della costituzione, cioè di netta separazione tra
l'ordinamento sovrano dell'Italia e gli altri ordinamenti. Abbiamo però l'articolo 10.1 della
costituzione che dispone l'adeguamento automatico del nostro ordinamento alle consuetudini
internazionali mentre per quanto riguarda il diritto internazionale convenzionale vale il tradizionale
meccanismo dell'articolo 80 della costituzione, che subordina la ratifica dei trattati internazionali
più importanti all'approvazione con legge da parte del Parlamento. Anche l'apertura contenuta
nell'articolo 11 della costituzione, che avrà una straordinaria valorizzazione nella giurisprudenza
costituzionale per legittimare le conseguenze dell'appartenenza all'unione europea, è concepita
come separazione dell'ordinamento interno da quello internazionale : sono ammesse limitazioni di
sovranità per favorire il rafforzamento dell'ordinamento internazionale, ma ciò non significa che i
due ordinamenti non siano separati.
Con la legge costituzionale 3/2001 abbiamo l'introduzione nell'articolo 117. 1 della costituzione di
un espresso riferimento oltre che agli obblighi comunitari, anche agli obblighi derivanti dai trattati
internazionali che di fatto apre un capitolo nuovo nei rapporti tra le norme internazionali e
l'ordinamento interno.
Norme provenienti dall’organizzazione sociale. Non mancano in costituzione riferimenti anche
alla apertura dell'ordinamento italiano a norme importate dall'organizzazione sociale. In alcuni
casi si tratta di una vera e propria incorporazione di norme provenienti dal sociale nell'ordinamento,
in altri casi di norme che lo Stato emana a seguito di accordi con le formazioni sociali, in altri casi è
un semplice riconoscimento di autonomia delle formazioni sociali.
Ben più cospicua invece è l'attenzione della costituzione presta all'esigenza di modellare
l'ordinamento giuridico italiano, disciplinando le forme di produzione normativa. Come in coerenza
con il modello kelseniano, la costituzione si preoccupa di disciplinare soltanto gli atti normativi che
le sono immediatamente inferiori nella gerarchia delle fonti: definire cioè procedure di formazione,
ambiti di competenza e rapporti tra le primarie dello Stato.
La Costituzione come fonte: norme precettive e norme programmatiche. La costituzione
italiana però va ben oltre al modello astratto di costituzione. Tutta la sua prima parte contiene i
Principi fondamentali e l'enunciazione dei diritti che devono conformare l'ordinamento interno.
È noto come nei primi anni della sua applicazione vi sia stata molta resistenza a riconoscere alla
nuova costituzione la possibilità di “applicazione diretta”, cioè non mediata dall'opera di attuazione
svolta dalla legislazione ordinaria. La ben nota distinzione tra norme precettive e norme
programmatiche aveva in qualche modo “sterilizzato” l'innesto della costituzione democratica in un
tessuto normativo caratterizzato dalla completa continuità:codici, leggi ordinarie e regolamenti di
attuazione passarono dal regime fascista a quello repubblicano senza una reale rottura.
I modelli organizzativi della pubblica amministrazione rimasero sostanzialmente gli stessi e la
defascistizzazione dello Stato produsse ben pochi risultati . Come è stato osservato il fatto stesso che
si fosse parlato non di dare alla pubblica amministrazione nuovi criteri di organizzazioni bensì di
epurarla, mostrava già come l'azione antifascista intendesse ridursi ad un'opera di ripristino del
vecchio ordinamento. La nuova costituzione non si poteva fondere armoniosamente con il vecchio
ordinamento, ne giudici abituati a non riconoscere fondi superiori alla legge ordinaria, erano
disposti a mutare radicalmente i loro paradigmi.
L'ordinamento italiano, dunque, si presentava come una sorta di Giano bifronte, in parte rivolto agli

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

assetti e alle norme del passato, in parte proiettato verso concezioni e situazioni affatto nuove.
L'ostruzionismo della maggioranza, stigmatizzato dalla celebre denuncia di Calamandrei, era
ispirato da un'atmosfera di disinteresse generale se non di vero e proprio fastidio o di malcelato
disappunto che la dirigenza politica manifestava nei confronti della formazione di un classico
contropotere.
Nelle prime cause discusse dalla corte costituzionale, il governo, attraverso l'avvocatura dello Stato,
ha assunto la difesa della legislazione repressiva fascista contro le norme costituzionali che
garantivano le libertà, sostenendo che quest'ultime o sono norme precettive che producono
l'abrogazione diretta delle leggi anteriori con esso incompatibili oppure hanno il carattere di norme
programmatiche e non comportano perciò difetto di legittimità di nessuna delle leggi vigenti
anteriori alla costituzione.
La Corte ha sin da subito sconfessato questo teorema, affermando la sua competenza a giudicare
della compatibilità con la costituzione delle leggi ad essa anteriori. Ciò implicava l'affermazione
netta della prevalenza delle norme costituzionali su qualsiasi altra norma vigente
dell'ordinamento.
L’IMPATTO DELLA COSTITUZIONE SULLA LEGISLAZIONE ORDINARIA: LA
PRIMA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Nella sua prima sentenza la Corte costituzionale deve affrontare il problema degli effetti che
l’approvazione della Costituzione produce sulle leggi precedenti:la Corte dice che l’istituto di
illegittimità costituzionale si estende anche alle leggi anteriori non solo perché la costituzione in
merito non fa distinzioni ma poi perché è innegabile, dal lato logico, che il rapporto tra leggi
ordinarie e leggi costituzionali e il grado che spetta loro nella gerarchia delle fonti non cambia
affatto, siano le leggi ordinarie anteriori o posteriori alla costituzione. Inoltre i due istituti della
abrogazione e della illegittimità sono due istituti che si muovono su due piani diversi e con
differenti presupposti.
È un'affermazione di grande portata, perché sta a significare che le norme costituzionali sono a tutti
gli effetti norme giuridiche dell'ordinamento positivo e non semplici direttive rivolte al legislatore.
Abrogazione vs. illegittimità. Talvolta, spiega la corte, la prevalenza delle norme costituzionale
può operare con i meccanismi dell'abrogazione: ma questo può accadere piuttosto di rado, perché i
requisiti dell'abrogazione sono piuttosto stretti richiedendo che la costituzione fornisca non un
semplice “principio”, ma una norma sufficientemente precisa e la cui applicazione in un giudizio
non sia condizionata a successive integrazioni normative. E’ vero però che mai la corte ha
espressamente dichiarato già direttamente abrogata dalla costituzione una norma che le è stata
sottoposta in un giudizio di legittimità; ciò però dipende anche dal fatto che dichiarare l'abrogazione
non sarebbe compito suo ma dei giudici ordinari.
Comunque che le norme costituzionali abroghino tacitamente le disposizioni legislative precedenti
contrastanti è un fenomeno che è stato ritenuto del tutto normale sia a seguito dell'introduzione della
costituzione del 1948 sia in conseguenza dell'entrata in vigore di leggi di revisione costituzionale.
La costituzione e la legislazione non sono dunque sfere separate, sicchè le disposizioni
costituzionali non avrebbero modo di entrare a far parte dell'ordinamento giuridico; va riconosciuto
invece che il testo costituzionale è pienamente “atto normativo” che si affianca al resto del
materiale da interpretare pur mantenendo la potenziale caratteristica della prevalenza in caso di
accertato e ineliminabile conflitto. Se questa prevalenza non può esprimersi in termini di
abrogazioni dovrà comportare un giudizio sulla validità della legge.
Nel nostro sistema però non opera un sindacato diffuso sulla legittimità delle leggi, che
consentirebbe ad ogni giudice di far immediatamente prevalere la forza della costituzione sulla
forza di legge. Il giudice deve perciò trasferire alla corte costituzionale il giudizio sulla legittimità
della legge ordinaria. Ma ciò non significa affatto che le norme costituzionali non abbiano modo di
influenzare direttamente il suo lavoro. Essendo norme dell'ordinamento positivo devono essere
trattate dal giudice come tutte le altre norme, salvo riconoscere il grado gerarchico più elevato che
le pone.

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

2. La Costituzione come norma sostanziale “direttamente applicabile”


Quando è che una norma è direttamente applicabile in un giudizio? È un problema che riguarda “la
teoria delle norme”.
Ancora su “disposizione” e “norma”. Abbiamo già visto che il giudice nel suo giudizio non
applica “disposizioni”, ossia le formulazioni scritte dal legislatore, ma “norme”, cioè le regole che
egli trae dalle disposizioni attraverso l'interpretazione. Le disposizioni che deve considerare sono
tutte quelle ritenute attualmente in vigore e tra queste vi possono essere anche disposizioni
costituzionali. La Costituzione è l’atto che gode della posizione gerarchica più elevata, ma molto
spesso le norme che se ne ricavano hanno la struttura "aperta" tipica dei principi molto generali.
Non sono costruite attraverso l'indicazione di una fattispecie definita per intero, ma attraverso
l'affermazione di valori, di interessi e diritti in termini assoluti. Può capitare che le norme ordinarie
"di dettaglio" appaiono in contrasto con il principio costituzionale.
Modi di risolvere il conflitto tra legge ordinaria e Costituzione
Abbiamo diversi modi con cui si possono risolvere i conflitti tra la legge ordinaria e la costituzione:
- l’interpretazione conforme a Costituzione: spesso il conflitto può essere risolto in via di
interpretazione: la disposizione legislativa o regolamentare viene interpretata in modo da ricavarne
norme conformi alla costituzione : se si raggiunge questo risultato la norma che proviene dall'atto di
grado inferiore fa corpo con quella costituzionale e ne diventa uno strumento di concretizzazione.
La corte costituzionale ha reso questo tentativo di conciliazione obbligatoria per l'interprete.
- l’impugnazione della legge di fronte alla Corte Costituzionale: Se però la conciliazione si
dimostra impossibile, cioè se la lettera della disposizione non consente di adeguarne il significato al
principio costituzionale senza farle violenza, il giudice dovrà sospendere il giudizio e porre alla
corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale della legge in questione. Egli infatti
non può disapplicare la legge né tantomeno disapplicare la Costituzione. L'articolo 134 della
costituzione concentra sulla corte costituzionale la giurisdizione sulla legittimità delle leggi; ciò
innesca un dialogo necessario tra i giudici e la corte, la quale è chiamata ad aiutare il giudice a
svolgere la sua attività professionale, ossia di portare l'ordinamento a coerenza e ricavare la norma
da applicare al suo caso.
Rigetto della questione. Il dialogo può concludersi in diversi modi.
Può essere che la corte dissolve il dubbio sollevato dal giudice attraverso una diversa
interpretazione della disposizione costituzionale, tale per cui l'antinomia rilevata dal giudice si
dimostri inconsistente. In questo caso la pronuncia della corte sarà di infondatezza della questione e
quindi il giudizio principale potrà riprendere.
Invece può essere che la corte risolva la questione operando l'interpretazione adeguatrice della
legge in modo da ricavarne una norma conforme a costituzione: in questo caso emana una sentenza
interpretativa di rigetto, con un dispositivo che rinvia alla motivazione per leggervi
l'interpretazione della disposizione impugnata che la corte ritiene corretta.
Infine può essere che la corte riconosca il fondamento della questione sollevata dal giudice,
pronuciando una sentenza di accoglimento: questa può comportare la dichiarazione di illegittimità
di un intero atto, di una sua disposizione o anche di una norma ricavabile dalla disposizione. La
disposizione può essere dichiarata illegittima non solo per la norma che esprime, ma anche per la
norma che non esprime, ossia per il fatto di essere fraseggiata in modo da non consentire
all’interprete di ricavare quella norma che renderebbe compatibile la disposizione stessa con la
costituzione.
Sarà la sentenza della corte ad aggiungere questa norma per cui si parla di sentenza additiva. Essa
è il frutto di una collaborazione tra il giudice che investe la corte, e la corte stessa.
- applicazione diretta di norme costituzionali: Se per questa via il giudice può raggiungere la
necessaria coerenza dell'ordinamento, in un numero molto meno elevato di casi la costituzione può
consentirgli di risolvere anche il problema della incompletezza. Ciò accade quando,in assenza di
una disposizione precisa di legge rilevante per il caso in giudizio, sia possibile ricavare direttamente
dai principi costituzionali la regola da applicare: quindi si evita il non liquet, cioè il denegare
giustizia.

16
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

APPLICAZIONE DIRETTA DELLA COSTITUZIONE DA PARTE DELLA PUBBLICA


AMMINISTRAZIONE?
È diffusa l’opinione per cui l’applicazione diretta della Costituzione da parte della P.A. potrebbe
realizzarsi solo laddove l’attività amministrativa non sia vincolata dalla legge, perché altrimenti
invalidare l’atto amministrativo per contrasto con la Costituzione significherebbe dichiarare
implicitamente illegittima la stessa, violando la riserva di giurisdizione a favore della Corte
Costituzionale. Ecco perché il piu delle volte la Costituzione viene applicata attraverso il
meccanismo dell’interpretazione costituzionalmente orientata della legge. In realtà i casi di
applicazione diretta sono molto rari e limitati a quelle norme sufficientemente precise e vincolanti(
il diritto delle ferie retribuite, imparzialità della amministrazione, ecc.) oppure alle norme che
garantiscono l’autonomia dei soggetti pubblici come le università. Dunque la discrezionalità
amministrativa non ha gli strumenti operativi per assicurare direttamente la legalità costituzionale.

3. L’interpretazione “conforme a Costituzione”


L'interpretazione conforme alle norme di grado superiore è un canone interpretativo molto
accreditato in tutti i sistemi giuridici.
Questo canone è stato sin da subito accolto dalla corte costituzionale. Già nella sua terza decisione,
la corte delinea per la prima volta il modello delle sentenze interpretative di rigetto, modello che ha
suscitato le reazioni critiche di vasta parte della dottrina e la reazione spesso aspra di giudici e della
corte di cassazione: è apparso che questo tipo di pronunce segnasse l'abdicazione della corte dal
ruolo di “interprete monopolista” della costituzione: infatti la corte fissa questo canone non soltanto
per giustificare le proprie sentenze interpretative di rigetto, che sconfessano l'interpretazione non
adeguata proposta dal giudice a quo: non è meno frequente che la corte dichiari l'inammissibilità
della questione sottopostale se il giudice remittente non si è sforzato di elaborare un'interpretazione
adeguatrice e di motivare le ragioni del fallimento del suo tentativo, oppure la corte avverte il
sospetto che la questione di costituzionalità proposta tende a configurarsi come un improprio
tentativo per ottenere dalla corte costituzionale l'avallo a favore di un'interpretazione contro un'altra
interpretazione.
L’interpretazione conforme come “cooperazione” tra giudice e corte. La corte insomma mostra
di non considerarsi affatto la detentrice monopolista dell'interpretazione costituzionale, ritenendo
viceversa che spetti innanzitutto al giudice ordinario il compito di interpretare la costituzione
utilizzandola come fonte dell'ordinamento, dotata della stessa produttività normativa delle altre
fonti (ferma restando la superiorità gerarchica della costituzione).
Si fissano così due punti essenziali: innanzitutto non c'è separazione tra l'ordine costituzionale e
l’ordine legislativo, né tra gli interpreti del primo e gli interpreti del secondo; in secondo luogo la
collaborazione tra la corte costituzionale e i giudici ordinari intercorre tra due soggetti che si
distinguono per i loro specifici compiti, non per la diversa natura della rispettiva funzione: essi sono
entrambi interpreti del diritto positivo (ferma restando che la corte costituzionale ha il compito
esclusivo di rimuovere le disposizioni che impediscono al giudice di svolgere il suo compito). La
corte costituzionale non può imporre al giudice la corretta interpretazione della legge, ma il giudice
non può sottrarsi al compito di svolgere la corretta interpretazione delle disposizioni vigenti,
comprese quelle costituzionali, cercando invece di scaricare questo compito sulla corte.
Il risultato è che la norma del caso che il giudice applica nel suo giudizio potrà avere un'origine
complessa, cioè potrà essere formata da significati desunti sia dalla legge ordinaria che dalla
costituzione .
UN ESEMPIO CELEBRE DI “DIALOGO TRA GIUDICI”
Abbiamo il caso delle cd. “sentenze gemelle” della Cassazione che sfruttando gli argomenti della
decisione della Corte Costituzionale sulla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 2059
del c.c. nella parte in cui prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale per lesione del diritto
alla salute come solo in conseguenza di reato e ha previsto in connessione con l’art. 32 cost. la
risarcibilità del danno biologico,in ogni caso, la Cassazione va oltre con una lettura
costituzionalmente orientata della norma che impone di superare il limite della risarcibilità, in

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

favore di lesioni che riguardano valori della persona costituzionalmente garantiti. Poco dopo anche
la Corte cost. si adegua alla interpretazione costituzionalmente orientata della Cassazione.
Interpretazione “costituzionalmente orientata”….. Altrettanto spesso però è il giudice ordinario
a procedere all'interpretazione costituzionalmente orientata, senza alcun bisogno di attendere
l'intervento della corte costituzionale: così nel noto caso Dorigo, la cassazione penale raggiunge con
l'utilizzazione del criterio ermeneutico dell'analogia legis un'interpretazione adeguatrice
dell'articolo 625 c.p.p. accreditando la regola della parziale rimozione del giudicato nella parte in
cui esso si è formata nel giudizio di legittimità mediante un vulnus al diritto della difesa.
…..o annullamento della disposizione? Quando invece la saldatura tra le due fonti non è possibile
perché il testo della legge non consente un'interpretazione adeguatrice, l'intervento demolitorio della
corte costituzionale si rende indispensabile: solo con la rimozione della disposizione legislativa
potrà essere consentito al giudice di ottenere una norma del caso che non contraddica la
costituzione: scegliere l'una o l'altra via è un compito che spetta al giudice, l'unico che possa
valutare fino a che punto può spingersi un'interpretazione adeguatrice della disposizione “de qua”
senza violarne la lettera.

4. Le sentenze additive
Tutte le sentenze di accoglimento della corte costituzionale hanno conseguenze normative:
dichiarare illegittima una disposizione di legge modifica il sistema normativo, perché si vieta che
quella disposizione sia applicata in un giudizio.
Sentenze manipolative. Vi sono però sentenze interpretative di accoglimento, dette anche
manipolative, dove l'effetto normativo è particolarmente vistoso. Queste sentenze sono variamente
classificate, per le diversità che presentano i loro dispositivi.
Vi si trovano sentenze di accoglimento parziale dove viene colpita da annullamento solo una
ristretta parte della disposizione; sentenze cosiddette sostitutive dove si dichiara illegittima la
disposizione impugnata nella parte in cui prescrive un determinato comportamento anziché un altro;
infine sentenze additive sulle quali ci soffermiamo.
La caratteristica fondamentale di molte pronunce è di agire sulla norma e non sulla disposizione: è
la disposizione ad essere impugnata e poi dichiarata illegittima; l'impugnazione e la dichiarazione di
illegittimità non toccano però direttamente il testo della disposizione, ma solo un suo possibile
significato, una delle norme che da essa può essere ricavata. Le sentenze additive presentano un
ulteriore aspetto, quello di aggiungere una norma ad un testo che non sembrava capace di
esprimerla. Questo significa che la stessa disposizione di legge può essere dichiarata illegittima
numerose volte, senza che il testo ne venga intaccato, ma con l’addizione incrementale ad esso di
significati, cioè di norme.
FILOSOFIA DELLE SENTENZE ADDITIVE
Per quanto una legge possa essere sensata per i diversi casi, vi è almeno una circostanza in cui è
irragionevole. Un esempio è offerto da quella legge che limitava solo alla madre l’assistenza di un
figlio nei primi mesi di vita solo, permettendole di astenersi al lavoro. Il problema sorgeva nel caso
in cui la madre fosse malata o morta durante il parto, considerato che al padre non spettavano questi
diritti. Da qui l’intervento della Corte, la quale dichiara illegittima la disposizione nella parte in cui
non prevede una disciplina adeguata al caso di specie e per questo motivo incorpora l’eccezione
nella regola generale.
Mentre con le sentenze di accoglimento parziale la corte compie un’ operazione di ablazione, di
demolizione di parte delle disposizioni legislative, con le sentenze additive la corte opera una
vistosa produzione normativa, aggiungendo alla disposizione posta dal legislatore una o più norme
che il legislatore aveva omesso. Questa opera creativa della corte è stata spesso contestata, in
quanto la produzione di norme spetta al potere legislativo, non al giudice. È anche vero che è del
tutto impossibile tracciare una distinzione netta tra la demolizione e la creazione : ciò dipende
esclusivamente dalla scrittura della legge.
L'aspetto forse più interessante delle sentenze additive è che esse rappresentano un meccanismo di
produzione di norme che si basa su un'intensa collaborazione del giudice con la corte costituzionale.

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

Questa infatti ha posto alcune condizioni all'ammissibilità di pronunce additive, avvertendo


l'esigenza di arginare il ruolo creativo della sua stessa giurisprudenza. Le sentenze additive nascono
di solito dalla richiesta del giudice di estendere le prestazioni o le garanzie previste dalla legge alla
situazione di cui si trova a trattare, ritenendo che l'esclusione di essa non sia ragionevole; il che
significa che in generale le sentenze additive sono la conseguenza di un giudizio di ragionevolezza
basato di regola sul principio di eguaglianza.
SENTENZE ADDITIVE E STRUTTURA DEL GIUDIZIO DI RAGIONEVOLEZZA.
Il giudizio di ragionevolezza ha una struttura complessa, con varie fasi ( ossia giudizi) specifiche.
La Corte procede attraverso un ragionamento trilaterale , molto simile nella struttura a quello per
analogia: essa pone a confronto due norme, la norma impugnata e la norma assunta a confronto,
che si chiama in gergo tertium comparationis. Per effettuare il confronto la Corte deve rifarsi alla
ratio della legge assunta a confronto, cioè l’interesse che essa intende proteggere al fine di valutare
se sia giustificabile la diversa disciplina normativa. Anche un’equiparazione di trattamento può
risultare irragionevole e comportare una violazione del principio di eguaglianza( che non è
direttamente coinvolto, ma resta sullo sfondo).
Il giudizio di ragionevolezza si basa come visto sul principio di eguaglianza e quindi il giudice per
provocarlo deve formulare con molta cura il petitum: l'ordinanza di remissione non potrà indicare
genericamente il contrasto della disposizione impugnata con il principio di eguaglianza, ma dovrà
fissare il profilo e i termini di questo contrasto, pena l'inammissibilità della questione.
“Verso” dell’addizione…La corte infatti non si ritiene libera di inventare la norma da aggiungere
al significato normativo della disposizione, ma pretende che sia il giudice remittente ad indicare con
precisione il verso della addizione, ossia la norma da aggiungere alla disposizione impugnata.
Questa norma non può essere formulata liberamente, perché il giudice deve delimitare la questione
di legittimità nei termini rigorosi della rilevanza.
Il giudice formula la questione rispettando la regola della pregiudizialità, cioè legando i termini
generali e astratti del quesito che propone alla corte alle caratteristiche particolari e concrete del
caso che sta giudicando;
la corte, controllato il rispetto della regola della rilevanza, deve pronunciarsi nel rispetto del thema
decidendum, ossia del quesito tracciato dall'ordinanza del giudice a quo.
La corte non può pronunciarsi extra petitum; procede a sua volta, com'è usuale dire con una
metafora poetica, per rime obbligate: cioè integra il testo legislativo completando il verso scritto
dal legislatore aggiungendo quella parola, suggerita dal giudice a quo, che sola può ripristinare la
coerenza sistematica dell'ordinamento.
Quindi la corte per un principio di economicità e di conservazione interviene per aggiustare il
significato normativo della disposizione impugnata aggiungendovi la norma specifica che manca e
per evitare che il suo intervento di addizione sia limitato cerca di introdurre la norma in maniera più
circostanziata possibile.

5. Applicazione diretta di principi costituzionali


Come abbiamo visto, l'applicazione dei principi costituzionali ai rapporti giuridici si compie in via
indiretta, o attraverso l'interpretazione adeguatrice della legge o attraverso la dichiarazione di
illegittimità di una disposizione legislativa. La norma prodotta, dunque, si riconnette all'atto
legislativo ed è attraverso l'applicazione di questo, interpretato o integrato, che i principi
costituzionali vengono applicati dal giudice di merito. Però vi sono casi in cui al giudice ordinario
accade di applicare direttamente i principi costituzionali, trovando in questi e non nella legge
ordinaria la regola del caso. Ciò si verifica soprattutto in alcune ipotesi:
- Casi storici di applicazione diretta: è inevitabile ricordare casi in cui le norme costituzionali
vengono applicate direttamente dai giudici nel periodo di transizione tra l’entrata in vigore della
costituzione repubblicana e l'inizio dell'attività della corte costituzionale. Il caso più noto è
senz'altro l'applicazione degli articoli 36 e 37 in ordine all'entità della retribuzione sufficiente del
lavoratore e della parità dei diritti della donna lavoratrice. La norma costituzionale non è stata
impiegata soltanto per dichiarare la nullità della clausola contrattuale non corrispondente ai criteri

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

indicati, ma per elaborare la regola che fissava l'ammontare della retribuzione senza
l'intermediazione di una legge attuativa, nonché l'obiettiva parità delle prestazioni lavorative delle
donne.
- “delega di bilanciamento”: una seconda ipotesi si realizza quando la corte costituzionale dichiara
l'illegittimità di disposizioni in cui il legislatore ha fissato un assetto troppo rigido degli interessi,
impedendo al giudice di comporre il loro conflitto in relazione al caso concreto. Sono casi di delega
di bilanciamento, in cui la corte costituzionale, fissata la topografia degli interessi rilevanti in
gioco, affida al giudice il compito di valutare le circostanze di fatto e di elaborare di conseguenza la
regola di prevalenza con cui giustificare il bilanciamento. È la sentenza della corte ad aprire quindi
lo spazio al giudice, poiché viene interpretato o annullato il meccanismo legislativo ritenuto troppo
rigido nell'assicurare tutela di un unico interesse: la corte non sostituisce l'assetto fissato dal
legislatore con l'indicazione di un punto di equilibrio alternativo, perché ritiene che a ciò non si
possa pervenire se non in considerazione delle concrete e specifiche condizioni di tempo, luogo e
modo: tipico è il caso dei cosiddetti reati di opinione per i quali la corte ha ritenuto che possa
sussistere qualche caso concreto in cui la disposizione restrittiva della libertà possa avere
applicazione legittima per tutelare interessi rilevanti. In questi casi dunque la regola del caso è
fissata dal giudice ordinario con applicazione diretta e bilanciata dei principi costituzionali.
- Costituzione come fonte della “regola del caso” Una terza ipotesi riguarda i casi in cui il giudice
si trova di fronte ad una vera e propria lacuna dell'ordinamento. Forse sono casi piuttosto
eccezionali, forse non sempre è chiaro quando la norma del caso sia tratta direttamente dai principi
costituzionali e quando invece essa sia derivata da un'interpretazione conforme costituzione delle
disposizioni vigenti. Vi sono comunque casi in cui è evidente che il divieto di non liquet impone al
giudice, come indica lo stesso articolo 12 delle preleggi, di ragionare in base ai principi generali
dell'ordinamento giuridico: oggi è perciò inevitabile partire dai principi costituzionali.
Il “Caso Englaro”. Particolare risonanza hanno avuto le sentenze della cassazione civile in merito
al cosiddetto caso Englaro: in esso infatti la corte ha affrontato una delicata opera di ricostruzione
della regola di giudizio nel quadro dei principi costituzionali, in assenza di specifiche norme
legislative, per decidere in merito alla richiesta di interrompere trattamenti sanitari presentata dal
tutore della persona in stato vegetativo persistente e permanente, pur non essendoci una
dichiarazione anticipata di trattamento. D'altra parte era stata la stessa corte costituzionale, in una
decisione richiamata a conforto dalla cassazione, ad indicare questa strada, in casi eticamente
sensibili nei quali il legislatore non sia ancora intervenuto: “nell'attuale situazione di carenza
legislativa, osservava la corte costituzionale, spetta al giudice di cercare nel complessivo sistema
normativo l'interpretazione idonea ad assicurare la protezione degli anzidetti beni costituzionali”.
La corte costituzionale fissa la topografia degli interessi in gioco ma, non essendoci una
disposizione di legge riferibile al caso, si trova nell'impossibilità di decidere nel merito della
questione prospettata dal giudice, a cui rinvia il compito di individuare la regola del caso attraverso
un bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti.
LA CASSAZIONE E IL CASO ENGLARO
Per evitare il non liquet, la Corte di cassazione richiama gli artt. 32.2 , 13 e 2 Cost. affermando che
“il consenso informato permette non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento
medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di
interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale”. Per questa via la Cassazione ha
affermato come “norma del caso” il principio secondo il quale:
“ove il malato giaccia da moltissimi anni…in stato vegetativo permanente, con conseguente
radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un
sondino naso gastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo
rappresenta, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario, unicamente in
presenza di alcuni presupposti:
a) quando la condizione di stato vegetativo sia , in base ad un apprezzamento medico, irreversibile e
non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici, che lasci supporre la minima
possibilità di un qualche recupero della coscienza;

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

b) tale istanza deve risultare chiaramente dalla voce del paziente medesimo, tratta dalle sue
precedenti dichiarazioni o dalla sua personalità , dai suoi convincimenti, prima di cadere in stato di
incoscienza.
Se uno o l’altro presupposto non sussiste, il giudice non può dare l’autorizzazione , dando
prevalenza al diritto alla vita.
Le argomentazioni della corte di cassazione per giungere a queste conclusioni sono articolate: la
norma del caso però è tratta direttamente dalla lettura sistematica e bilanciata delle disposizioni
costituzionali.

6. Principi costituzionali come “collante” dell’ordinamento


Dunque vediamo ora come la costituzione funge da collante dell'ordinamento,e il suo ruolo quindi
nella costruzione del sistema delle fonti.
La manutenzione dell'ordinamento. Ad un primo livello, agendo attraverso il principio di
eguaglianza, la costituzione giustifica un'opera incessante di manutenzione dell'ordinamento e
delle sue singole sezioni, smussandone le incoerenze e inglobandovi le eccezioni. Si tratta di
verificare, su impulso del giudice che tratta ogni singolo caso concreto, la ragionevolezza delle
classificazioni tracciate in astratto dal legislatore, eventualmente integrandole con pronunce di tipo
additivo o depurandole con sentenze di illegittimità parziale.
Ad un secondo livello, come si è appena visto, i principi costituzionali costituiscono dei punti di
riferimento costante per il giudice, sia come chiave di interpretazione delle disposizioni
costituzionali sia per il completamento dell'ordinamento. Essi sono per lo più norme a fattispecie
aperta o senza alcuna fattispecie, cioè delle enunciazioni assolute di “favor” o “valori” per
determinati interessi. Ciò significa che poi il giudice dovrà effettuare un'opera di bilanciamento tra
interessi concorrenti per poter individuare la regola del caso.
Interpretazione conforme ai principi costituzionali vs. intenzioni del legislatore. Sotto questo
profilo il rinvio ai principi generali operato dall'articolo 12 delle preleggi assume oggi un significato
ben più pregnante, perché essi non sono più da ricavare per processo induttivo dalle norme poste dal
legislatore, poiché la costituzione offre riferimenti positivi. Ma anche la precedenza, fissata nello
stesso articolo 12, dell'intenzione del legislatore sul ragionamento per principi appare oggi invertita.
Principi supremi come limite all’importazione delle norme. C'è poi un terzo livello, in cui i
principi costituzionali mostrano di operare sul piano della identità dell'ordinamento. Così come le
norme costituzionali si impongono e danno coerenza alle disposizioni legislative, i principi
costituzionali si impongono e danno coerenza alle norme importate da altri ordinamenti.
Ogniqualvolta la corte costituzionale è stata indotta ad occuparsi dell'ingresso nel nostro
ordinamento di norme provenienti da ordinamenti estranei, è stato richiamato il limite dei principi
supremi, di quei principi costituzionali ai quali non si può ammettere deroghe o eccezioni: dalle
lontane pronunce sulla norma di derivazione concordataria, a quelle provenienti dall'ordinamento
internazionale consuetudinario, sino alle ben più rilevanti affermazioni della dottrina dei contro
limiti nell'importazione delle norme dell'unione europea e più di recente dei più penetranti vincoli
cui sono sottoposte le norme di derivazione CEDU.

7. La revisione della Costituzione e le leggi costituzionali


Con il richiamo ai principi supremi la corte costituzionale ha voluto indicare che la revisione della
costituzione, prevista e disciplinata dall'articolo 138, incontra dei limiti che vanno ben oltre a quello
esplicito dell'articolo 139: "La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione
costituzionale".
Limiti espressi e limiti impliciti alla revisione costituzionale. L'intangibilità della scelta a favore
della Repubblica dipende dalle circostanze storiche in cui ha preso forma la costituzione. Si
potrebbe dire dunque che l'articolo 139 è dichiarativo di un limite imposto dallo stesso referendum
istituzionale: infatti questa scelta era stata compiuta dal corpo elettorale già prima che la assemblea
costituente si fosse insediata. L'assemblea costituente ha ricevuto un mandato ampio però era
vincolata dalla scelta popolare per la Repubblica.

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

Se si collega strettamente l'articolo 139 al referendum istituzionale, si dovrebbe propendere però per
un'interpretazione restrittiva della locuzione “forma repubblicana”, riducendola cioè a quella scelta
tra Repubblica o monarchia che gli elettori espressero nel 1946. Invece è prevalsa in Italia
interpretazione estensiva, tale da comprendere nella forma repubblicana non solo il carattere
elettivo del capo dello Stato, ma il principio della sovranità popolare, di cui l'elezione del capo dello
Stato è solo un'applicazione. Perciò nell'interpretazione che ha prevalso, l'articolo 139 viene
connesso con l'articolo 1: la forma repubblicana è considerata inscindibile dal carattere democratico
della Repubblica e dall’appartenenza della sovranità al popolo. In questo modo il limite esplicito
della riforma costituzionale si allarga e si arricchisce di molto, perché si pongono al riparo dalla
revisione anche quei principi che sembrano indispensabili per poter definire democratico un
ordinamento politico.
Un'altra via per l'estensione e l'arricchimento dei limiti alla revisione costituzionale è stata elaborata
sulla base dell'interpretazione di altre disposizioni costituzionali: l'articolo 2, che dichiara inviolabili
i diritti dell'uomo, porrebbe al riparo dalla revisione anche tutte quelle libertà che sono elencate
dagli articoli 13 e successivi; l'articolo 5 dichiarando la Repubblica una e indivisibile escluderebbe
invece ogni ipotesi legale di secessione o divisione del paese.
I PROCEDIMENTI DI REVISIONE COSTITUZIONALE
Il procedimento di revisione costituzionale è tra i più “facile” se confrontato con quello previsto da
altre costituzioni rigide.
Esso è una variazione del procedimento legislativo ordinario:prevede due deliberazioni successive
da parte di ciascuna camera, anziché una sola-
- La prima deliberazione in ciascuna camera è a maggioranza relativa: in questa fase si possono
apportare emendamenti al progetto di legge costituzionale;
- Nella seconda deliberazione, che può essere effettuata solo dopo che sia trascorso un intervallo di
tre mesi dalla prima, i regolamenti delle camere vietano che siano apportati emendamenti al testo
votato in precedenza, perché altrimenti il procedimento dovrebbe ripartire dall’inizio.
Per cui si avrà votazione soltanto sul testo finale.
Se in essa non si raggiunge in entrambe le camere la maggioranza qualificata dei 2/3 dei
componenti, la legge non potrà essere promulgata dal Presidente della Repubblica;
Se la legge è approvata almeno con la maggioranza assoluta, il testo approvato dal Parlamento è
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Entro 3 mesi dalla pubblicazione può essere chiesto un
referendum, in modo da sottoporre il testo ad approvazione popolare. Lo possono chiedere
minoranze del corpo elettorale (500.000 elettori) , minoranze territoriali e minoranze politiche.
Per la validità del referendum non è richiesto un quorum minimo di votanti: se i consensi superano i
voti sfavorevoli la legge viene promulgata; altrimenti la volontà della maggioranza parlamentare è
vanificata. Il popolo non partecipa alla formazione del nuovo testo costituzionale, ma ha solo il
potere di respingerlo.
Deroghe al procedimento di cui all’art. 138 Cost. Inoltre in Italia, al contrario di altri paesi
europei, non sono previsti procedimenti differenziati per piccole modifiche del testo costituzionale
o per le riforme di grande rilievo: il procedimento è lo stesso per entrambe le portate delle
modifiche. Per ovviare a questi inconvenienti per ben due volte negli ultimi anni si sono varate
leggi costituzionali di deroga alle procedure stabilite dall'articolo 138 in vista di un ambizioso
progetto di revisione dell'intera seconda parte della costituzione della cui predisposizione era stato
dato l'incarico ad un'apposita commissione bicamerale. Però il tentativo è fallito perché non sono le
procedure, ma le divisioni politiche a rendere difficile le riforme. Comunque a parte queste
procedure derogatorie, qualsiasi legge costituzionale sia che sia di revisione del testo costituzionale
sia che attui una riserva di legge costituzionale o intenda integrare la costituzione deve comunque
seguire lo stesso procedimento così come è disegnato dall'articolo 138 della costituzione.
Eccezioni al procedimento di cui all’art. 138 Cost. Vi sono alcune eccezioni: le leggi
costituzionali che modificano le circoscrizioni regionali, le leggi costituzionali che modificano gli
attuali statuti delle regioni speciali così come previsto dalla legge costituzionale 2/2001. Questa
legge ha previsto inoltre il depotenziamento di alcune sezioni degli statuti speciali che potrebbero

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

essere sostituiti dalla legge statuaria regionale che è una fonte sub- costituzionale.

CAP 3
DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA E DIRITTO INTERNO
1. Il “sistema” delle fonti dell’Unione europea
L'unione europea non conosce ancora un vero e proprio sistema delle fonti: edificarlo sarebbe stata
una delle ambizioni del trattato costituzionale firmato nel 2004 ma fallito in fase di ratifica da parte
degli Stati membri. Il successivo trattato di Lisbona apporta qualche miglioramento al quadro degli
strumenti normativi comunitari, di cui da tempo si avverte l'inadeguatezza e l’eccessiva
complessità.
CHE COSA È IL TRATTATO DI LISBONA
Il Trattato di Lisbona è l’ultima revisione del Trattato istitutivo della Comunità europea, che ha
apportato importanti modifiche sia al trattato istitutivo della UE( introdotta con Trattato di
Maastricht) sia al precedente Trattato istitutivo della Comunità europea, che ora è definitivamente
sostituita dalla UE. Quindi oggi abbiamo il Trattato sull’Unione europea, e il Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea; la Carta dei diritti fondamentali.
Un sistema senza gerarchia e “non chiuso” . Attualmente non esiste un'organizzazione gerarchica
delle fonti dell'unione e queste non consistono in un sistema chiuso.
La distinzione fondamentale da cui muovere è tra il diritto convenzionale e il diritto derivato.
Sono fonti del diritto convenzionale i trattati con cui la comunità e l'unione europea sono state
istituite e successivamente modificate e sviluppate. I trattati istitutivi occupano necessariamente una
posizione gerarchica superiore rispetto agli atti normativi derivati, i quali trovano infatti nel trattato
la loro legittimazione e il loro fondamento.
La comunità nasce come organizzazione internazionale: come tutte le organizzazioni internazionali,
è dominata dal principio di attribuzione, che limita le funzioni dell'organizzazione alle sole
competenze ad essa espressamente attribuite, conformandosi al principio di attribuzione delle
competenze. Quindi gli atti dell'unione devono fondarsi su una espressa base giuridica indicata dal
trattato. Le attribuzioni non sono organizzate per materie, ma attraverso "politiche" che prevedono
anche il tipo di atto utilizzabile e le particolari procedure da seguire.
POTERI IMPLICITI, COMPETENZE TELEOLOGICHE E CLAUSOLA DI
FLESSIBILITÀ
“è consentito applicare una norma interpretativa generalmente ammessa anche in diritto
internazionale quando nel diritto interno e secondo la quale le disposizioni di un trattato
internazionale di una legge comprendono implicitamente anche le norme senza le quali le predette
disposizioni non avrebbero senso o non potrebbero venir applicate in modo ragionevole e utile.” In
questa lontana decisione della corte di giustizia è già contenuta la dottrina dei poteri impliciti,
comunemente accettata nei sistemi federali. La corte nella sentenza Aets afferma che anche in
assenza di attribuzioni esplicite nel trattato, i poteri dell'istituzione dell'unione possono essere
desunti dal trattato nel suo complesso e dagli atti normativi derivati, riconoscendo i poteri che sono
indispensabili all'esercizio efficace delle competenze attribuite.
Mentre la dottrina dei poteri impliciti opera sul piano dell'interpretazione del trattato, questi
contiene due norme esplicite che attenuano la rigidità del principio di attribuzione:
a) il consiglio deliberando all'unanimità, stabilisce direttive volte al ravvicinamento delle
disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che abbiano
un'incidenza dire da restaurazione o funzionamento del mercato interno. È una competenza
generale, di tipo competenza teleologica, cioè non circoscritta dall'indicazione di una materia, di un
oggetto, ma di un obiettivo, rappresentato dalla funzionalità del mercato comune. Sono decisioni
vincolate nella procedura, con la richiesta del unanimità, e nello strumento, che deve essere sempre
la direttiva;
b) se un'azione dell'unione europea appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dei
trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto il
potere di azione di gesti a tal fine, il consiglio, deliberando all'unanimità su proposta del visione di

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

Dio troppo approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate. Questa è una
delle disposizioni finali del trattato e contiene una clausola di flessibilità. Posizioni di questo tipo
sono previste nelle costituzioni federali e rendono flessibile il principio di attribuzione perché
consentono di esercitare i poteri che, anche se non esplicitamente attribuiti, sono però funzionali
agli scopi dell'unione.

24
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

Gli atti del diritto derivato si distinguono anzitutto in atti vincolanti e non vincolanti.
Atti non vincolanti: Raccomandazioni CE e pareri
Degli atti non vincolanti non merita dire molto in questa sede. Tra essi vanno annoverati le
raccomandazioni e i pareri: le raccomandazioni sono inviti rivolti agli Stati a conformarsi ad un
certo comportamento mentre i pareri esprimono il punto di vista di un organo su un determinato
oggetto, un'opinione che ogni organo dell'unione europea può esprimere.
Questi atti non pongono norme vincolanti e sanzionabili, ma si confondono con una varietà di atti e
di documenti prodotti dalle istituzioni, i quali precedono o seguono l'emanazione degli atti
normativi in senso stretto: essi spesso vengono ricompresi nella nozione di soft law.
Atti normativi vincolanti
Per quanto riguarda invece gli atti normativi vincolanti e quindi le vere e proprie fonti del diritto
dell'unione europea bisogna distinguere tre tipologie:
- i regolamenti hanno le caratteristiche simili a quelle della legge nell'ordinamento interno.
Pongono norme generali e astratte che si rivolgono a tutti (come si suol dire hanno portata
generale); vanno applicati integralmente nei territori dei paesi membri e vanno applicati
direttamente, senza che sia necessaria la interposizione di un atto dello Stato che lo recepisce
nell'ordinamento internazionale (il regolamento è direttamente applicabile). La diretta applicabilità
significa dunque che il regolamento si impone per forza propria, e la sua applicazione è
obbligatoria per tutti, compresi giudici e pubblica amministrazione dello Stato membro.
- Le direttive sono strumenti più tradizionali. Sono atti normativi che hanno come destinatario il
solo Stato membro e non si applicano perciò direttamente ai singoli. Vincolano lo Stato per quanto
riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito
alla forma e ai mezzi. Lo Stato ha quindi un obbligo di risultato, da raggiungersi entro il termine
fissato dalla direttiva; invece ha discrezionalità per quanto riguarda la scelta delle forme e dei
mezzi: lo Stato può scegliere, in applicazione delle norme del proprio ordinamento, se dare
attuazione alla direttiva con legge, con regolamento o anche solo con comportamenti
dell'amministrazione pubblica, purché assicura un’attuazione piena, corretta e certa.
ATTI LEGISLATIVI DELEGATI
Il trattato di Lisbona, ha introdotto una norma, l'articolo 290 del TFUE: un atto legislativo può
delegare alla commissione il potere di adottare atti non legislativi di portata generale che integrano
o modificano determinati elementi non essenziali dell'atto legislativo. Gli atti legislativi delimitano
esplicitamente gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega di potere. Gli elementi
essenziali di un settore sono riservati all'atto legislativo e non possono essere pertanto oggetto di
delega di potere.
- Le decisioni invece hanno caratteristiche simili al provvedimento amministrativo. Sono
direttamente applicabili ma hanno portata particolare, cioè si rivolgono a soggetti specifici che
possono essere uno Stato membro ma anche una determinata persona giuridica. Esse non pongono
norme generali e astratte, come è proprio delle fonti normative, ma prescrizioni particolari e
concrete.

2. Diretta applicabilità e effetti diretti


Il trattato marca con nettezza la differenza tra regolamenti e direttive, ma nella prassi essa è andata
attenuandosi. Ciò anche a causa del fatto che il trattato indica spesso con quale tipo di atto può
essere perseguita una determinata politica, non lasciando gli organi comunitari liberi di scegliere lo
strumento più adeguato.
L'aspetto più interessante messo in luce dalla giurisprudenza della corte di giustizia è che, quando
ricorrano alcune circostanze, anche singole disposizioni delle direttive possono acquistare effetto
diretto. L'effetto diretto è la capacità di una norma dell'unione europea di creare diritti direttamente
in campo ai singoli, anche senza l'intermediazione dell'atto normativo statale: questa capacità non
discende dalla tipologia dell'atto, ma dalla struttura della singola disposizione e della norma che può
esserne ricavata. Sarà l’interprete, insomma, a riconoscere le norme che hanno effetto diretto, ossia
che sono applicabili senza l'intermediazione di ulteriori atti (cosiddette norme self-executing).

25
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

La corte di giustizia ha introdotto la nozione di effetto diretto per garantire la prevalenza del diritto
dell'unione europea sul diritto interno anche nei casi in cui lo Stato membro ritardi l'emanazione
delle norme interne. Può esserci un effetto diretto solo se:
a) le disposizioni comunitarie esprimono una norma chiara, precisa e non condizionata: ossia
quando vi siano gli elementi necessari perché il giudice nazionale la possa applicare direttamente;
b) la norma in questione fondi un diritto che il singolo rivendica di fronte al giudice contro lo Stato;
c) il termine per l'adeguamento sia scaduto.
L'effetto diretto svolge perciò una funzione sanzionatoria nei confronti dello stato negligente e una
funzione di garanzia per gli individui, i quali potranno far valere i propri interessi, tutelati dal diritto
dell'unione europea, anche contro lo Stato inadempiente: "sarebbe infatti inaccettabile che lo Stato
al quale il legislatore comunitario prescrive l'adozione di talune norme volte a disciplinare i suoi
rapporti con i privati e a riconoscere a questi ultimi il godimento di taluni diritti potessero far
valere la mancata esecuzione degli obblighi al fine di privare i singoli del godimento di detti
diritti”.
Qualsiasi atto normativo dell'unione, di conseguenza, può generare norme con effetto diretto,
inclusi i trattati istitutivi e gli accordi internazionali. Il privato che ricorre al giudice nazionale per
chiedere l'applicazione diretta di una norma comunitaria concorre perciò a garantire anche
l'effettività dell'ordinamento dell'unione europea, l'effetto utile di ogni suo atto normativo, che
verrebbe meno se i singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici
nazionali non potessero prenderlo in considerazione come norma di diritto comunitario.
L'EFFETTO UTILE E DEI SUOI STRUMENTI
Il principio dell'effetto utile prescrive che ogni norma debba essere interpretata in modo da favorire
il raggiungimento dell'obiettivo in essa prefissato. Esso quindi è strettamente connesso al principio
del primato del diritto dell'Unione Europea, ossia della prevalenza di questo sul diritto interno in
ogni caso di contrasto: In forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le
disposizioni del trattato degli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno
l'effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo di rendere questo “ipso
jure” inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione
contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche, dell'ordinamento giuridico vigente
nel territorio dei singoli Stati membri, tale da impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi
nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie. Però il principio
dell'effetto utile opera innanzitutto sul piano dell'interpretazione dei trattati e del diritto derivato, nel
senso dell'ampliamento dei poteri attribuiti. Opera inoltre come criterio di interpretazione del diritto
interno (nella cosiddetta interpretazione conforme) nonché come fondamento della responsabilità
degli Stati nei confronti degli individui per il mancato adempimento degli obblighi di attuazione del
diritto dell'unione europea.

26
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

Dalla finalità sanzionatoria che caratterizza il meccanismo degli effetti diretti deriva che esso opera
solo nei rapporti verticali cioè tra cittadino e apparati pubblici, e soltanto a favore del cittadino.
Quindi un organo dello Stato non può applicare direttamente una norma comunitaria non attuata
contro gli interessi del cittadino.
UNO STRANO CASO DI PRETESO EFFETTO DIRETTO A DANNO DEL
CONTRIBUENTE
In alcune decisioni, la cassazione, preso atto che una sentenza della corte di giustizia aveva
dichiarato incompatibile con una direttiva europea un determinato regime di condono fiscale, decide
di disapplicare la legge che lo aveva introdotto, ciò a danno del contribuente. Ciò in che termini è
ammissibile? Appare davvero singolare questa giurisprudenza, dato che la corte di giustizia nel noto
caso Berlusconi, aveva chiaramente riaffermato ciò che ha sempre sostenuto, cioè che una direttiva
non può di per sé creare obblighi in capo ad un soggetto e non può quindi essere fatta valere in
quanto tale nei confronti dello stesso. Come la corte costituzionale ha sempre indicato, se una legge
italiana è in contrasto con la norma di una direttiva priva di effetto diretto, il giudice non può
disapplicarla ma deve sollevare una questione di legittimità costituzionale davanti alla corte
costituzionale stessa.
Effetti “verticali” vs. effetti “orizzontali”. L'obbligo dell'applicazione diretta vale per tutte le
autorità degli Stati membri, quale ne sia la funzione o il livello. Discussa è invece la possibilità che
l’applicazione diretta di una norma comunitaria agisca nei rapporti orizzontali tra soggetti privati.
Le norme del trattato possono produrre effetti diretti orizzontali: la corte di giustizia lo ha affermato
in relazione al divieto di discriminazione oltre che per le regole della concorrenza. Non così per le
direttive. Come la corte di giustizia ha sempre sostenuto, i privati non dovrebbero subire
l'applicazione delle norme con effetto diretto a proprio svantaggio. Può capitare però che una delle
parti reclami l'applicazione di una norma comunitaria non attuata dallo Stato, ma la cui applicazione
andrebbe a svantaggio dell'altra parte privata, ponendo il giudice nazionale, in quanto organo dello
Stato, in una situazione alquanto imbarazzante.
Effetti diretti vs. interpretazione conforme. Ferma nel ribadire il divieto di riconoscere l'effetto
diretto della direttiva nei rapporti orizzontali, la corte però invita il giudice nazionale a fare anche in
quel contesto un uso assai forte degli strumenti della interpretazione per rendere effettiva la norma
comunitaria. L'interpretazione conforme sopperisce peraltro anche nei casi in cui è espressamente
vietato dal trattato di riconoscere effetto diretto alla disposizione dell'unione, secondo quanto la
corte di giustizia ha avuto modo di affermare nella ben nota sentenza Pupino.
Effetto diretto vs. risarcimento del danno. Dove l'effetto diretto non può operare, per mancanza
dei presupposti fissati dalla corte di giustizia, ne il risultato può essere raggiunto attraverso il
procedimento di interpretazione conforme, la giurisprudenza della corte di giustizia ha comunque
individuato il modo per assicurare l'effetto utile delle norme dell'unione anche in mancanza di
un'adeguata trasposizione nell'ordinamento interno. Infatti all'inerzia del legislatore nazionale o
all'attuazione insufficiente della norma comunitaria il giudice non può sopperire con gli strumenti a
sua disposizione ma può rimediare con lo strumento del risarcimento del danno. È quanto la corte
di giustizia ha affermato con la notissima sentenza Francovich, che ha inaugurato un filone di
pronunce tese a definire le condizioni alle quali il soggetto privato che fonda la sua pretesa su una
norma comunitaria, la cui applicazione è però condizionata a scelte affidate alla discrezionalità
dello Stato membro, può ottenere dunque risarcimento del danno dallo Stato inadempiente.
Altrimenti sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe
infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciuti.
Perché sorga il diritto al risarcimento del danno devono ricorrere però alcune condizioni:
- che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l'attribuzione di diritti a favore dei singoli;
- che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva;
- che sussista un nesso di causalità tra la violazione dell'obbligo a carico dello Stato e il danno
subito dal soggetto che agisce.
Il risarcimento è dovuto anche in caso di adempimento parziale, non corretto o tardivo di qualsiasi
obbligo comunitario purché la violazione delle norme dell'unione sia grave e manifesta e non

27
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

dovuta a un errore scusabile, compiuto in buona fede nell’interpretazione della norma comunitaria.
Il fondamento del diritto al risarcimento sta nella norma comunitaria ma la disciplina delle modalità
è lasciata alla legislazione nazionale alla quale è però richiesto che sia comunque garantito
l'adempimento dell'obbligo comunitario di risarcire il danno così come spetta al giudice nazionale
valutare i presupposti della richiesta del privato, eventualmente rivolgendosi alla corte di giustizia
per accertare in caso di dubbio se ricorrano i requisiti necessari perché insorga la responsabilità
dello Stato e in particolare se la violazione degli obblighi comunitari sia comunque grave e
manifesta.

3. I rapporti tra ordinamento dell’Unione Europea e diritto interno


3.1. Il radicamento dell’ordinamento comunitario
Fino alla riforma costituzionale del 2001, la costituzione italiana non conteneva disposizioni
specificamente rivolte a disciplinare l'integrazione dell'Italia nell'ordinamento unitario. L'articolo 11
cost. si limitava ad affermare che l'Italia consente alle limitazioni di sovranità necessaria ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni;promuove e favorisce le
organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Nella giurisprudenza costituzionale questa
previsione è diventata una European clause (nella costituzione italiana) che ha permesso di
inquadrare il rapporto tra il diritto dell'Unione Europea e il diritto nazionale.
All'inizio del processo di integrazione europea mancava dunque uno schema in cui inquadrare il
rapporto tra il sistema giuridico nazionale e quello dell'unione europea.
È stata la corte di giustizia a colmare questo vuoto, disegnando, un sistema giuridico sovrapposto ai
sistemi giuridici nazionali e posto in comunicazione diretta con i cittadini dei singoli Stati membri.
Questa giurisprudenza è nata sotto l'impulso dei giudici nazionali che hanno utilizzato lo strumento
del rinvio pregiudiziale, dando vita ad un dialogo costante tra corti nazionali e giudici europei. Il
diritto dell'unione europea viene applicato negli Stati membri attraverso i loro apparati legislativi,
amministrativi e giudiziari; in particolare questi ultimi sono chiamati a dirimere le controversie che
possono insorgere sull'applicazione o l'attuazione delle norme dell'unione.
IL RINVIO PREGIUDIZIALE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA
Il rinvio pregiudiziale è un'eccezione processuale che può essere sollevata, anche d'ufficio, nel
corso di giudizio che si svolge davanti a una giurisdizione nazionale.
Può sorgere su questioni di legittimità degli atti dell'unione (rinvio pregiudiziale di validità) o di
interpretazione dei trattati o del diritto derivato (rinvio pregiudiziale di interpretazione). Solo il
giudice di ultima istanza è tenuto a sollevare la questione pregiudiziale, mentre gli altri giudici ne
hanno facoltà, ma non l'obbligo.
Il rinvio pregiudiziale è preordinato infatti all'obiettivo di evitare che la stessa disposizione
comunitaria riceve interpretazioni diverse da paese a paese. Quindi la corte di giustizia assume la
funzione di garantire l'uniformità dell'interpretazione delle disposizioni dell'unione.
Il rinvio pregiudiziale per interpretazione non ha natura contenziosa, ne riguarda la legittimità degli
atti normativi nazionali in riferimento alle norme dell'unione. Tuttavia il dubbio interpretativo sorge
per il giudice nel momento dell'applicazione della norma comunitaria (se è direttamente applicabile
o ha effetto diretto) o della norma interna (se dubita della compatibilità di essa con il diritto
dell'unione europea). Come nel giudizio incidentale sulla legittimità costituzionale delle leggi, il
giudice remittente deve valutare la rilevanza della questione e la consistenza del dubbio
interpretativo; come nel giudizio davanti alla corte costituzionale, le parti del processo principale
sono eventuali. Di solito il giudice interroga la corte circa la compatibilità comunitaria di una norma
interna: ma la corte di giustizia non si pronuncia sulla legittimità delle norme nazionali, perciò
l'ordinanza di rinvio deve formulare il quesito in termini di interpretazione del diritto dell'unione
europea, chiedendo se la norma nazionale sia o meno compatibile con la corretta interpretazione di
una determinata disposizione comunitaria. La corte di giustizia risolve il quesito dichiarando che
osta o non osta con la norma comunitaria richiamata la disposizione nazionale che preveda la
fattispecie astratta descritta dal giudice. La pronuncia della corte ha natura dichiarativa: essa vincola
solo il giudice del rinvio per il processo a quo, ma è evidente che la sentenza che si esprime sul vero

28
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

significato di una disposizione in Italia, o la dichiari invalida, avrà effetto per tutti i giudici e gli altri
soggetti dell'applicazione del diritto dell'unione europea.
Il rinvio pregiudiziale come strumento del radicamento dell’ordinamento comunitario. Con le
prime sentenze pronunciate la corte di giustizia afferma innanzitutto che nel suo compito di
interpretare il diritto comunitario rientra anche il giudizio su come esso venga applicato in seno agli
ordinamenti interni. Ciò produce una inattesa giuridicizzazione del diritto dell'unione europea:
l'aspetto dell'interpretazione del diritto dell'unione europea si sovrappone al giudizio
sull'applicazione del diritto comunitario nell'ordinamento interno. Dunque il rinvio pregiudiziale
diventa lo strumento con cui il giudice nazionale risolve il contrasto tra diritto interno e diritto
dell'unione europea.
La Comunità europea come “comunità di diritto”…Nella sentenza Van Gend la corte di giustizia
afferma che la comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto
internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai propri
poteri sovrani. Si tratta di un ordinamento giuridico che in seguito avrebbe definito una comunità di
diritto, che si fonda cioè sui principi dello Stato di diritto, e quindi riconosce in primo luogo il
principio di legalità, nel senso che ne gli Stati che ne fanno parte, ne le sue istituzioni sono sottratte
al controllo della conformità dei loro atti alla carta costituzionale di base ,costituita dal trattato.
…che attribuisce diritti ai singoli….Nella sentenza Van Gend la corte afferma per la prima volta
che le norme del trattato possono avere efficacia immediata negli ordinamenti interni degli Stati
membri attribuendo ai singoli dei diritti soggettivi che il giudice nazionale ha il dovere di tutelare;
inoltre si afferma che il diritto comunitario, indipendente dalle norme emanate dagli Stati membri,
nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi.
…tutelabili in via giurisdizionale. La garanzia dei diritti riconosciuti ai singoli non può essere
affidata al meccanismo, tutto politico, della procedura di infrazione, attraverso la quale la
commissione può reagire alla negligenza dello Stato membro: proprio i principi dello Stato di diritto
impongono che sia possibile far valere questi diritti comunitari davanti al giudice nazionale perché
altrimenti resterebbero privi di tutela giurisdizionale diretta.

3.2. L’apertura giurisprudenziale dell’ordinamento italiano al diritto dell’Unione europea


L'evoluzione del diritto comunitario come ordinamento giuridico e la grande estensione della sua
legislazione non è stata accompagnata da alcuna disciplina legislativa italiana capace di agevolare il
compito dei giudici interni. Man mano che si dilatava il campo della legislazione europea, si
rendevano più frequenti i casi di contrasto tra questa e la legislazione nazionale, anche a causa del
ritardo con cui le istituzioni italiane attuavano gli obblighi comunitari. Solo nel 1989, con la
cosiddetta legge La pergola, si è messo appunto un meccanismo stabile di adeguamento
dell'ordinamento italiano al diritto dell'unione europea.
LA LEGGE LA PERGOLA
La legge 86 del 1989 introduce un meccanismo legislativo annuale (la legge comunitaria) che ha il
compito di adeguare l'ordinamento italiano agli obblighi comunitari che derivano dalle norme della
comunità, dalla giurisprudenza della corte di giustizia e dalle procedure di infrazione avviate dalla
commissione. Questi obblighi possono essere attuati non solo tramite l'applicazione diretta delle
disposizioni che modificano o abrogano leggi vigenti, ma anche con delega legislativa oppure in via
regolamentare. Inoltre la legge 86 regolava anche i rapporti tra Stato e regioni nell'attuazione degli
obblighi comunitari e gli obblighi di informazione che gravano sul governo nei confronti del
Parlamento.
Nel 2005 la legge La pergola è stata sostituita dalla legge Bottiglione che non na ha ha modificato
l'impianto di fondo.
È spettato invece alla corte costituzionale il compito di mettere progressivamente a fuoco il quadro
dei rapporti tra norme dell'unione europea e norme interne,fornendo ai giudici gli strumenti per
risolvere eventuali conflitti.
LE PRIME TAPPE DEL CAMMINO COMUNITARIO DELLA CORTE
COSTITUZIONALE

29
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

La corte costituzionale, più volte chiamata decidere sul contrasto tra le leggi ordinarie e regolamenti
CE, ha applicato in successione diversi criteri di risoluzione delle antinomie.
All'inizio ha suggerito l'applicazione del criterio cronologico: tra norme interne e norma
comunitaria prevale quella più recente, senza dar luogo a questioni di costituzionalità. Questa
soluzione non poteva essere accettata dalla corte di giustizia, poiché contrastava con il principio
della prevalenza del diritto comunitario. Allora la corte costituzionale optò per il criterio gerarchico:
le leggi italiane in contrasto con un precedente regolamento CE (senza dimenticare che il
regolamento CE successivo abrogava le leggi precedenti contrastanti) dovevano essere impugnate
davanti alla corte costituzionale stessa per violazioni indiretta dell'articolo 11 della costituzione,
cioè degli impegni e delle limitazioni che l'Italia aveva assunto ratificando il trattato in attuazione
dell'articolo 11 stesso. Ma anche questa soluzione non era priva di conseguenze, soprattutto a causa
del ritardo con cui la corte era in grado di rispondere all'impugnazione dei giudici di merito, che
dovevano sospendere il loro giudizio in attesa della decisione della corte. Per anni, dunque, il
regolamento CE violato dalla legge italiana restava paralizzato, in attesa che la legge venisse
dichiarata illegittima.
La corte costituzionale approdò solo con la sentenza 170 del 1984 (nota anche come sentenza
Granital) ad una soluzione stabile, che resiste tutt'oggi.
Essa muove da una stabile premessa classica: l’ordinamento dell'unione europea e l’ordinamento
italiano sono due ordinamenti giuridici autonomi e separati, ognuno dotato di un proprio sistema di
fonti: è la cosiddetta teoria dualistica. La normativa comunitaria non entra a far parte del diritto
interno, ne viene per alcun verso soggetta al regime disposto per le leggi e gli atti aventi forza di
legge dello Stato. Perciò tra le fonti interne e quelle dell'unione non è neppure configurabile un vero
e proprio conflitto, perché ognuna è valida ed efficace nel proprio ordinamento secondo le
condizioni stesse poste dall'ordinamento stesso; ratificando il trattato istitutivo, il legislatore italiano
ha riconosciuto la competenza dell'unione europea a emanare norme giuridiche in determinate
materie e che queste norme si impongono direttamente nell'ordinamento italiano per la forza che ad
essa conferisce il trattato. Spetta dunque al trattato fissare la ripartizione di competenze tra i due
ordinamenti e il regime giuridico delle proprie fonti.
Gli apparenti conflitti tra norme che eventualmente sorgano tra le leggi italiane e il diritto dell’
Unione Europea vanno dunque risolte dal giudice italiano applicando il criterio della competenza:
il giudice deve accertare se, in base al trattato, sia competente sulla materia l'ordinamento
dell'unione europea o quello italiano e di conseguenza deve applicare la norma dell'ordinamento
competente. Ovviamente il giudice può risolvere i dubbi solo con un rinvio pregiudiziale alla corte
di giustizia, perché si tratta di un problema di interpretazione del trattato.
Non applicazione vs. disapplicazione. Accertata la competenza del diritto dell'unione europea,
bisogna stabilire se la norma comunitaria abbia o meno effetto diretto: in questo caso la norma
interna contrastante non viene né abrogata né dichiarata illegittima, ma semplicemente non viene
applicata. Essa perciò resta valida ed efficace come disciplina delle questioni che non rilevano per il
diritto dell'unione europea.
Come ha dichiarato la corte costituzionale, la non applicazione della norma interna non implica un
giudizio sulla sua validità (come invece sarebbe implicito nella nozione di disapplicazione).
Trattandosi di leggi ordinarie, il giudizio sulla loro validità sarebbe precluso al giudice ordinario,
essendo riservato alla corte costituzionale; la non-applicazione invece corrisponde alle consuete
operazioni interpretative che competono al giudice, che tra più schemi normativi, tutti astrattamente
adatti a regolare il caso di specie, sceglie quello appartenente all'ordinamento competente a
disciplinare la materia sulla base del riparto di attribuzioni tracciato dal trattato, come detto senza
che ciò implichi un giudizio di validità della legge.
RINVIO PREGIUDIZIALE E LA PRODUZIONE DI NORME AD EFFETTO DIRETTO
Il rinvio pregiudiziale di interpretazione è un potente meccanismo di produzione di norme con
effetto diretto. Il giudice nazionale rivolge un quesito interpretativo alla corte di giustizia in cui deve
descrivere compiutamente la fattispecie di cui si sta occupando. Questa fattispecie è regolata dalla
legge italiana in modo che il giudice ritiene non conforme ad una determinata norma comunitaria.

30
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

La norma che la corte di giustizia ricava dall'interpretazione della disposizione comunitaria, essendo
ricollegata alla fattispecie precisa delineata dal giudice remittente, acquista spesso quei caratteri di
sufficiente precisione necessari a produrre effetti diretti.
Quindi in caso di conflitto di una norma interna con quella comunitaria, la corte di giustizia impone
al giudice nazionale di non applicare più quella fattispecie e di cercare nel proprio ordinamento la
soluzione che gli consenta di farlo. Ma se il dispositivo della sentenza della corte di giustizia
fornisce una norma chiara, precisa e incondizionata, l'effetto diretto allora e la non applicazione
della norma interna contrastante sono conseguenze necessarie.
Pregiudiziale comunitaria e ricorso incidentale alla Corte costituzionale. La corte costituzionale
ritiene che sia compito esclusivo del giudice risolvere questa sequenza di problemi interpretativi,
magari con l'ausilio della corte di giustizia in caso di dubbio: la soluzione di una questione di
compatibilità comunitaria assume priorità logica e giuridica rispetto all'incidente di
costituzionalità. Quindi la corte costituzionale blocca sistematicamente con un'ordinanza di
manifesta inammissibilità ogni tentativo di investirla del problema di compatibilità di una legge
italiana con il diritto dell'unione europea se non sono prima chiariti i profili rilevanti alla
competenza e alla natura self executing o meno della norma comunitaria. Se però si accerta che la
norma comunitaria non ha effetto diretto, al giudice non resta che la strada di impugnare la norma
interna contrastante davanti alla corte costituzionale: violando il diritto dell'unione europea infatti si
viola indirettamente l'articolo 11 della costituzione e oggi con la riforma costituzionale del 2001,
anche l'articolo 117.1 della costituzione,rispetto al quale la norma comunitaria si pone come
“parametro interposto”.

4. La tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’Unione europea


4.1. La tutela dei diritti nella giurisprudenza della Corte di giustizia
L'espansione del diritto dell'unione europea su materie prima regolate dalle fonti del diritto
internazionale è accresciuta dal fatto che il primo ormai contiene anche una complessa disciplina
dei diritti fondamentali.
I trattati istitutivi non contemplavano alcuna forma di tutela dei diritti fondamentali. Ne derivava
una netta ripartizione di compiti tra la corte di giustizia e le corti costituzionali nazionali. La corte di
giustizia si occupava di garantire l'interpretazione e l'osservanza del diritto comunitario da parte
delle istituzioni dell'unione e degli Stati, mentre sarebbero state le costituzioni nazionali e le
rispettive corti costituzionali a garantire la tutela dei diritti fondamentali sia nei confronti delle
autorità nazionali che delle istituzioni dell'unione.
Questo semplice schema di riparto è entrato però presto in crisi soprattutto come conseguenza
dell'affermazione del primato del diritto dell'unione europea sulle norme nazionali, anche su
quelle di diritto costituzionale. Agli atti comunitari era riconosciuta la possibilità di derogare alle
costituzioni nazionali e ai diritti in esse iscritti. Così già a partire dagli anni 50 del secolo scorso,
cominciarono ad arrivare alla corte di giustizia richieste di riesame di atti emanati dalle istituzioni
dell’unione, per violazione dei diritti fondamentali. Queste richieste ebbero risposte negative, anche
perché esse invocavano quale parametro per la valutazione della legittimità degli atti comunitari
norme di diritto interno, quali sono le norme delle costituzioni nazionali.
La tutela dei diritti fondamentali nella giurisprudenza comunitaria. Questo orientamento però
venne rapidamente abbandonato con la sentenza Stauder del 1969. A partire da quel momento la
corte di giustizia ha sempre affermato che il rispetto dei diritti fondamentali costituisce parte
integrante dei principi generali del diritto: la salvaguardia di quei diritti, che deve ispirarsi alle
tradizioni costituzionali comuni agli stati membri, deve essere assicurata nel quadro degli obiettivi
e della struttura dell'unione europea.
La CEDU come fonte dei diritti. In seguito, a partire dalla sentenza Nold del 1974, la corte ha
annoverato tra le sue fonti d'ispirazione anche i trattati internazionali cui hanno aderito gli Stati
membri e in particolare la convenzione europea dei diritti dell'uomo. Quest'ultima ha svolto un
ruolo sempre più rilevante nella giurisprudenza successiva, mettendo persino in ombra le tradizioni
costituzionali comuni, fino ad arrivare agli anni più recenti in cui si assiste ad un'influenza chiara

31
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

sulla corte di giustizia non solo del testo della convenzione europea, ma anche della giurisprudenza
della corte di Strasburgo, suo interprete e garante.
La giurisprudenza comunitaria si è sviluppata dunque riguardando i diritti fondamentali più diversi
e in questo modo la corte di giustizia ha cercato di coprire quelle zone d'ombra che si erano create
per effetto del riconoscimento del primato del diritto dell'unione europea: filling the gap era
l'obiettivo e la giustificazione della giurisprudenza comunitaria.
Il riconoscimento dei diritti nel Trattato di Maastricht. Quest'ultima poi ha trovato un
riconoscimento formale con l'entrata in vigore del trattato di Maastricht. L'articolo 6 del trattato
afferma che l'unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi
generali del diritto comunitario. Questa norma è stata poi confermata con il trattato di Amsterdam.
Si è creato un doppio sistema di tutela dei diritti fondamentali. Da una parte i diritti
fondamentali riconosciuti e garantiti dalla corte di giustizia nei confronti degli atti delle istituzioni
dell'unione, attraverso un giudizio in cui si applicano principi elaborati autonomamente a partire
dalle costituzioni nazionali e dalla convenzione europea. Dall'altra parte i diritti fondamentali
garantiti dalle costituzioni nazionali e tutelati dalle corti costituzionali nei confronti degli atti delle
autorità interne. Un sistema quindi basato sulla separazione tra due forme di tutela riguardanti l'una
gli atti delle istituzioni dell'unione e l'altra gli atti delle istituzioni nazionali.
In realtà nel tempo questa linea di separazione è divenuta sempre più evanescente e i due sistemi si
sono sovrapposti.
La dottrina dell’incorporation.
La giurisprudenza comunitaria infatti ha affermato che se in linea di principio la sua tutela riguarda
essenzialmente gli atti delle istituzioni dell'unione nell'esercizio delle loro funzioni, tuttavia essa
può anche interessare gli atti degli Stati membri sulla base della dottrina dell'incorporation.
Secondo questa dottrina la corte europea si è ritenuta competente a valutare la compatibilità di atti
nazionali, oltre a quelli comunitari, con i diritti fondamentali da essa elaborati e protetti. Questa
espansione della giurisdizione della corte di giustizia può avvenire due ipotesi:
a) quando gli Stati membri agiscono per dare attuazione a normative dell'unione;
b) quando gli stati invocano una delle cause di giustificazione previste dai trattati comunitari per
limitare una delle libertà economiche fondamentali garantite dai trattati.
L'unico limite finora certo per la corte di giustizia è il divieto di estendere la sua tutela su atti
dell'autorità statale che si riferiscono a materie estranee al diritto dell'unione europea.

4.2. La Carta di Nizza


L'espansione della tutela comunitaria e dei diritti fondamentali è ulteriormente accresciuta per
effetto della Carta europea dei diritti: proclamata a Nizza nel 2000, solo con il trattato di Lisbona
ha acquistato lo stesso valore giuridico dei trattati.
Ciò segna un salto qualitativo nella garanzia dei diritti in Europa.
In primo luogo, c'è da osservare che nella carta compaiono diritti che non erano emersi nella
precedente giurisprudenza comunitaria, nè trovano riconoscimento nelle costituzioni nazionali o
nella convenzione europea dei diritti dell'uomo. Inoltre alcuni dei diritti previsti dalla carta
assumono connotati nuovi rispetto a quelli loro attribuiti dalle costituzioni, così come è altrettanto
importante sottolineare l'assenza di previsioni con riguardo a quelle formazioni sociali o a quei
gruppi intermedi che invece assumono rilievo nei documenti costituzionali.
I CONTENUTI DELLA CARTA DEI DIRITTI
Nella carta di Nizza trovano riconoscimento nuovi diritti che non erano mai stati codificati.
Vanno ricordati il Titolo 1 sulla dignità umana, in particolare l'articolo 3 che prevede il divieto di
pratiche eugenetiche, il divieto della clonazione umana, il divieto della compravendita di organi
umani; l'articolo 6 disciplina il diritto alla libertà e sicurezza; l'articolo 8 tutela la protezione dei dati
di carattere personale, gli articoli 24,25 26 i diritti del bambino, degli anziani e disabili.
Non sono invece previsti diritti a favore delle formazioni sociali e dei gruppi intermedi. Dunque

32
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

essa ha un'impronta individualistica.


Le conseguenze della Carta sulla tutela dei diritti. In secondo luogo vanno adeguatamente
considerate le conseguenze della cosiddetta scrittura dei diritti: la disponibilità di un catalogo scritto
di diritti fondamentali contribuisce ad esaltare il ruolo della corte di giustizia come corte
costituzionale dell'unione europea. Il punto centrale è che la scrittura ha prodotto un effetto
legittimante della corte di giustizia ed un effetto ermeneutico. L'approvazione della carta ha dato
legittimazione e fondamento più forte alla costruzione giurisdizionale della tutela dei diritti. La
carta è invocata nelle decisioni dei giudici europei e dei tribunali nazionali, comprese le corti
costituzionali, con la conseguenza che si è ulteriormente legittimata la giurisprudenza comunitaria
sui diritti fondamentali.
Inoltre va precisato come la carta dei diritti si inserisce in un sistema multilivello, in cui operano
una molteplicità di fonti del diritto: essa si affianca alle costituzioni nazionali degli Stati membri,
alla convenzione europea dei diritti dell'uomo, alla giurisprudenza costituzionale delle corti
nazionali e a quella della corte di Lussemburgo.
Inoltre va ricordato che la stessa carta circoscrive con attenzione l'ambito della sua applicazione
esclusivamente nell'attuazione del diritto dell'unione, precisando che essa non estende l'ambito di
applicazione del diritto dell'unione oltre le competenze dell'unione, ne introduce nuove competenze
o compiti nuovi per l'unione, ne modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati.

4.3. L’evoluzione più recente della giurisprudenza della Corte di giustizia


L'influenza della carta sulla giurisprudenza della corte di giustizia in materia di diritti fondamentali
supera di gran lunga i richiami formali nelle sue pronunce ed è attestata da un notevole attivismo
della corte in materia con pronunce che interferiscono con la stessa disciplina costituzionale dei
diritti fondamentali.
DIRITTI EUROPEI VS DIRITTI COSTITUZIONALI: IL CASO KREIL
La sentenza Kreil del 2000 ha visto la luce nel clima di euforia sul futuro dell'integrazione europea
che ha accompagnato i lavori della convenzione e la scrittura della carta dei diritti. Con essa la corte
di giustizia che ha obbligato uno Stato membro, la Germania, addirittura a modificare la propria
costituzione nazionale per adeguarsi ad un principio del trattato europeo. Il principio fatto valere
dalla corte di giustizia era uno dei principi fondamentali del trattato, quello che pone il divieto di
discriminazioni sulla base del sesso: questo principio entrava in conflitto con l'ordinamento tedesco
secondo cui le donne non potevano essere ammesse a svolgere un servizio nelle forze armate che
comportasse l'uso delle armi, una limitazione che derivava da una interpretazione consolidata
dell'articolo 12 della costituzione tedesca. La corte europea, ha rilevato il contrasto tra il diritto
tedesco e il diritto comunitario, come sviluppato da una direttiva del 1976.
Quest'ultima, secondo la corte, osta all'applicazione di norme nazionali, come quella del diritto
tedesco, di cui abbiamo parlato.
La giurisprudenza comunitaria ha però avuto difficoltà ad allargare l'ambito di tutela dei diritti
fondamentali andando oltre le libertà economiche del mercato comune: spesso ha provato ad
elaborare complesse operazioni di bilanciamento tra queste e i diritti fondamentali di altra natura,
come la libertà di espressione o la dignità umana.
L’allargamento della “incorporation”. Più recentemente poi la corte di giustizia ha allargato i
confini dell’incorporation. Secondo la versione iniziale l'ambito di applicazione dei diritti
fondamentali ricomprende, oltre agli atti delle istituzioni comunitarie, anche gli atti delle istituzioni
degli Stati membri che rientrano nel campo del diritto europeo, e ciò avviene in due ipotesi: quando
gli atti statali costituiscono un'applicazione del diritto dell'unione europea e quando gli Stati
agiscono in deroga ad una delle libertà fondamentali del trattato.
In due pronunce, la corte è andata oltre queste ipotesi inaugurando quindi una nuova linea
giurisprudenziale che affianca le ipotesi tradizionali, dove si applicano i diritti fondamentali europei
in relazione ad atti dell'autorità statale e anche quegli atti nazionali che costituiscono condizioni
preliminari per il godimento di un diritto dell'unione europea.

33
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

5. Tutela comunitaria e tutela costituzionale dei diritti


5.1. La teoria dei contro limiti
Di fronte all'espansione del diritto dell'unione europea e all'invasione da parte sua dell'ordinamento
nazionale, le corti costituzionali italiane e tedesche hanno elaborato la teoria dei controlimiti.
In sintesi questa teoria afferma che le norme dell'unione europea non possono violare i principi
fondamentali e i diritti inviolabili sanciti dalle costituzioni nazionali. È affidato alle corti
costituzionali il compito di assicurare il rispetto, da parte degli atti delle istituzioni dell’unione, dei
principi fondamentali e dei diritti fondamentali, come interpretati negli ordinamenti nazionali.
L’evoluzione dei “contro limiti” nella giurisprudenza tedesca…..La corte costituzionale tedesca
è intervenuta dapprima dichiarando la propria competenza a verificare la compatibilità di tutto il
diritto dell'unione europea con i diritti costituzionali nazionali. Poi ha temperato la propria
posizione e ha rinunciato ad esercitare il sindacato sul diritto comunitario fin tanto che la corte di
giustizia assicuri in via generale, un'efficace tutela dei diritti in ambito comunitario (Sentenza
Solange 2). Successivamente si è riservata di esercitare il proprio sindacato ove risulti che l'unione
non rassicuri quel livello di tutela considerato irrinunciabile (sentenza Maastricht).
Più di recente, con la sentenza sul trattato di Lisbona, la corte tedesca ha ribadito che l'unificazione
europea non può realizzarsi in modo tale da lasciare agli Stati membri uno spazio insufficiente per
la determinazione politica delle condizioni di vita economiche, culturali e sociali, di cui sono parte
essenziale i diritti fondamentali ribadendo che, in ambiti sensibili per i diritti fondamentali, devono
essere conservati gli spazi sostanziali di libertà d'azione degli Stati membri.
….e nella giurisprudenza italiana. Per quanto riguarda la giurisprudenza della corte costituzionale
italiana, la corte costituzionale italiana ha affermato che le limitazioni di sovranità non possono
comportare un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento
costituzionale o i diritti inalienabili della persona umana. Infine la corte ha anche chiarito che
l'impostazione del rapporto tra fonti interne e fonti europee non implica che l'intero settore del
rapporto tra ordinamento nazionale e ordinamento dell'unione europea sia sottratto al controllo della
stessa corte: infatti essa si è riservato il potere di sindacare la legge di esecuzione del trattato in
riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento e i diritti inalienabili della persona
umana.
COME SI FANNO VALERE I CONTROLIMITI?
In caso di violazione della costituzione da parte di una norma comunitaria, quest'ultima non
potrebbe essere impugnata davanti alla corte costituzionale, perché essa sindaca la legittimità di
leggi e di atti con forza di legge dello Stato e delle regioni e non può giudicare anche font-fatto,
come sono considerate nel nostro ordinamento le norme comunitarie. Il trattato CE riserva la
giurisdizione sulla legittimità degli atti normativi comunitari alla corte di giustizia, la quale non usa
la nostra costituzione come parametro di giudizio. Perciò la corte costituzionale può solo impugnare
l'ordine di esecuzione del trattato, nella parte in cui consente l'immissione nel nostro ordinamento
della specifica norma comunitaria in questione. Esso è infatti l'unica disposizione interna che
collega l'ordinamento italiano è quello unitario. Questo sistema però a una giovane più teorica e
pratica.
La teoria dei controlimiti è stata invocata in alcuni giudizi di costituzionalità, ma la corte ha sempre
respinto la questione di costituzionalità. La corte costituzionale ha sottolineato che il giudice non
può censurare disposizioni dell'unione senza richiedere alla stessa corte di giustizia il controllo di
validità di questa norma in relazione ai diritti fondamentali che pure fanno parte del diritto
comunitario. Perciò secondo la corte costituzionale l'esercizio del controllo di costituzionalità in
relazione ad una norma comunitaria è subordinato al preventivo esperimento dei mezzi di tutela
comunitaria, cioè alla sottoposizione da parte del giudice nazionale della questione di validità della
norma comunitaria alla corte di giustizia. La pregiudiziale comunitaria di validità si configura
quindi come un presupposto di ammissibilità della questione costituzionale sulla legge di
esecuzione del trattato.
E solo dove la risposta dei giudici di Lussemburgo non fosse ritenuta soddisfacente resterebbe poi
aperta la via per una pronuncia di incostituzionalità della legge di esecuzione del trattato

34
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

limitatamente alla parte in cui ha consentito l'introduzione nell'ordinamento della norma


comunitaria lesiva di principi fondamentali dell'ordinamento o di diritti inalienabili della persona.
Abbiamo inoltre una isolata pronuncia del Consiglio di Stato che ha dato la sua versione della
teoria dei controlimiti: il giudice amministrativo ha escluso la disapplicazione di una norma interna
in contrasto con il trattato ma anche il rinvio pregiudiziale alla corte di giustizia perché la norma
interna, prodotto di una sentenza additiva della corte costituzionale ed espressione del diritto
costituzionale alla salute, non potrebbe mai cedere di fronte al trattato. Il Consiglio di Stato infatti
ha ritenuto che la tutela dei diritti fondamentale è un contro-limite alle limitazioni spontaneamente
accettate con il trattato e quindi non è consentito al giudice nazionale di presentare alla corte di
giustizia una questione pregiudiziale della cui soluzione comunque non potrà tenere conto perché
riguarda la tutela dei diritti riservati appunto alle decisioni della corte italiana. Quindi il Consiglio di
Stato ha utilizzato la dottrina dei contro-limiti direttamente, cioè senza passare per un'eccezione alla
corte costituzionale.

5.2. La Corte costituzionale e il rinvio pregiudiziale


Sulla base della giurisprudenza costituzionale richiamata, il presupposto di ammissibilità della
questione di costituzionalità sorta sulla legge di esecuzione dei trattati, è costituito dal pregiudiziale
controllo della corte di giustizia sulla validità della norma comunitaria. Quindi prima di attivare le
garanzie costituzionali interne è necessario consentire il controllo nell'ambito dell'ordinamento
dell'unione europea.
La Corte costituzionale non è giudice di rinvio….Legittimato al rinvio pregiudiziale è il giudice
del processo principale. Però se quest'ultimo non propone il rinvio, potrebbe ritenersi legittimata la
corte costituzionale. Tuttavia secondo un orientamento seguito costantemente dalla corte
costituzionale il compito di attivare il controllo della corte di giustizia veniva riservato
esclusivamente al giudice a quo, attraverso lo strumento del rinvio pregiudiziale. Infatti la corte si è
dichiarata non legittimata ad adire la corte di giustizia(essa stessa si è negata la qualità di “giudice
nazionale” che per il trattato è presupposto essenziale per l’accesso in via pregiudiziale).
L'orientamento della corte costituzionale ha incontrato forti critiche. Sul piano dell'argomentazione
giuridica, esso pare contrastare con i parametri elaborati in materia dalla corte di giustizia, che ha
sempre osservato come la valutazione della legittimazione del giudice di rinvio sia questione
unicamente di diritto comunitario.
La giurisprudenza citata ha suscitato perplessità ancora maggiori sul piano della politica
istituzionale. Infatti è stato osservato che la corte costituzionale potrebbe operare un determinante
influsso sull'evoluzione dell'orientamento della corte di giustizia in materia di tutela dei diritti
fondamentali.
….sino alla svolta del 2008. Nel 2008 però la corte costituzionale ha superato la sua precedente
giurisprudenza decidendo di sollevare il rinvio pregiudiziale alla corte di giustizia. Ma ciò è
avvenuto solo nell'ambito di un giudizio in via principale, promosso dallo Stato contro una legge
regionale.
LA TASSA SUL LUSSO: LA CORTE GIUDICE DI RINVIO NEI SOLITI GIUDIZI
PRINCIPALI?
L'occasione è stata offerta dai ricorsi del governo contro la legge della regione Sardegna che
istituiva le cosiddette tasse sul lusso a carico dei soggetti non residenti sul territorio regionale.
Dopo aver esaminato e risolto direttamente la maggior parte delle questioni sollevate dal governo,
la corte costituzionale ha sollevato rinvio pregiudiziale in relazione alla sola imposta sullo scalo
degli aeromobili e delle unità da diporto e quindi ha sospeso il giudizio in attesa della decisione
della corte di giustizia.
Con questa ordinanza la corte costituzionale è giunta a una conclusione diametralmente opposta a
quella delle sue decisioni precedenti, anche se la portata innovativa della stessa norma non va
enfatizzata. Infatti la corte ha circoscritto espressamente il suo potere di rinvio alle sole ipotesi di
giudizio di legittimità costituzionale in via principale, ove essa è l'unico giudice chiamato a
pronunciarsi sulla controversia e ove, ancor di più dopo la riforma del titolo V, le norme dell'unione

35
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

fungono da norme interposte atte ad integrare il parametro costituzionale dell'articolo 117.1, sia
pure con il limite dell'intangibilità dei diritti inviolabili e i principi fondamentali. La corte aggiunge
che in questo caso, il mancato rinvio lederebbe in modo irreversibile il generale interesse
all'uniforme applicazione del diritto dell'Unione Europea, come interpretato dalla corte di giustizia e
che le conseguenze di una sua eventuale violazione sarebbero interamente imputabili all'organo di
giustizia costituzionale stesso.
Quindi il dialogo con la corte di giustizia continuerebbe ad essere svolto per interposto giudice.
Con riguardo al caso che ha occasionato l'ordinanza 103 del 2008, è pure interessante sottolineare
come la norma regionale che prevedeva l'imposta non creava una discriminazione tra imprese
italiane e imprese straniere, bensì tra imprese domiciliate in Sardegna e imprese, italiane o straniere,
domiciliate altrove. Una sua eventuale incompatibilità con il principio della libera prestazione dei
servizi la renderebbe inapplicabile alle imprese straniere , ma non a quelle italiane, con la possibilità
che si determini un ennesimo caso di discriminazione alla rovescia, cioè di un trattamento
discriminatorio posto in essere da uno Stato a danno dei propri cittadini, che, pure irrilevante per il
diritto dell'unione europea, rappresenta una conseguenza della sua applicazione.
LA SENTENZA PASTA
La corte costituzionale italiana, in una sentenza molto discussa, si è posto un problema delicato.
Il divieto di discriminazione in base alla nazionalità, su cui si fondano le libertà sancite dal trattato
CE, tutela i cittadini di uno Stato contro restrizioni poste dagli altri Stati membri. In linea di
principio, invece, l'unione non si preoccupa di valutare sulle applicazioni del principio di
eguaglianza dei cittadini di uno stesso Stato, essendo questioni interne.
È accaduto però, che in forza della direttiva dell'unione, in Italia sia stata ammessa la
commercializzazione di paste alimentari fabbricate all'estero e conforme agli standard europei,
mentre restavano in vigore limiti assai più severi che le leggi italiane imponevano ai produttori
italiani.
La corte quindi ha riconosciuto che ai danni dei produttori italiani si era prodotta una
discriminazione al rovescio, che urta con il principio di eguaglianza. Quindi il principio di non
discriminazione tra imprese che agiscono nello stesso mercato in rapporto di concorrenza, opera nel
senso di impedire che le imprese nazionali siano gravate di oneri, vincoli e divieti che il legislatore
non potrebbe imporre alla produzione comunitaria: ciò significa che nel giudizio di eguaglianza
affidato alla corte non possono essere ignorati gli effetti discriminatori che l'applicazione del diritto
comunitario è suscettibile di provocare. La corte perciò ha dichiarato la legge impugnata illegittima
nella parte in cui non prevede che alle imprese aventi stabilimento in Italia è consentita, nella
produzione e commercializzazione di paste alimentari, l'utilizzazione di ingredienti legittimamente
impiegati in base al diritto comunitario.
La corte costituzionale quindi nei casi di discriminazione alla rovescia non fronteggiabili altrimenti,
ha ritenuto la dichiarazione di incostituzionalità della norma interna l’unica alternativa praticabile.

CAP 4
DIRITTO INTERNAZIONALE E DIRITTO INTERNO
1. Le clausole costituzionali di apertura dell’ordinamento nazionale al diritto internazionale
L'ordinamento nazionale è influenzato e condizionato oltre che dal diritto europeo anche dal diritto
internazionale: ciò è previsto da alcune clausole costituzionali che comportano diversi livelli di
apertura e di integrazione tra il nostro sistema giuridico e le fonti di diritto internazionale.
Il rinvio ad altri ordinamenti. La tecnica giuridica utilizzata a questo scopo è quella del rinvio.
Attraverso questa tecnica la norma interna sulla produzione giuridica “nazionalizza” la norma di
diritto internazionale richiamata, cioè produce una norma interna di contenuto eguale a quella
prodotta dalla fonte internazionale.
Il rinvio può essere di due tipi: il rinvio fisso o recettivo o materiale; il rinvio mobile o non
recettizio o formale.
Nel primo caso la norma di diritto interno richiama un determinato atto proveniente da un
ordinamento esterno.

36
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

Nel secondo invece viene richiamata una fonte esterna, consentendo così l'adattamento automatico
dell'ordinamento interno a tutte le norme che da questa fonte derivano.
Vi sono differenze sostanziali tra i due meccanismi per quanto riguarda l'applicazione del diritto.
Nel primo caso l'operatore giuridico dovrà applicare le norme ricavabili dalla atto a cui si fa rinvio
come se si trattasse di norme interne. Ciò comporta una duplice conseguenza: ogni successiva
vicenda della norma nell'ordinamento di provenienza (come abrogazione o modifica) è indifferente;
poi i criteri interpretativi applicabili al testo sono quelli dell'ordinamento richiamante, cioè nel
nostro caso l'ordinamento italiano. Invece nel caso del rinvio mobile, l'ordinamento recepisce la
norma come essa vive nell'ordinamento di provenienza. Anche qui abbiamo due ordini di
conseguenze: tutte le vicende modificative che la norma subisce si ripercuotono nell'ordinamento
richiamante; la norma deve essere interpretata alla stregua dei criteri propri dell'ordinamento di
provenienza.
Dunque l’apertura del nostro ordinamento al diritto internazionale si realizza mediante due clausole
costituzionali: la prima è quella secondo cui l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle
norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, così come previsto dall'articolo 10.1
della costituzione. Si tratta di un rinvio mobile alle norme di diritto internazionale generale.
La seconda è la previsione secondo cui la potestà legislativa dello Stato e delle regioni è esercitata
nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento dell'unione europea e dagli obblighi
internazionali, così come previsto dall'articolo 117.1 della costituzione.
Individui come soggetti del diritto internazionale. Vi è poi un terzo fenomeno da prendere in
considerazione. Tradizionalmente il diritto internazionale si riferiva agli Stati. Nell'era presente
invece, molte regole internazionali si riferiscono direttamente gli individui senza l'intermediazione
dei sistemi giuridici nazionali. In questi casi possono essere gli stessi soggetti privati a promuovere
l'attuazione nell'ordinamento nazionale di norme di origine internazionale.

2. L’adattamento automatico al diritto internazionale generalmente riconosciuto


L'articolo 10.1 della costituzione prevede l'adattamento automatico dell'ordinamento nazionale
alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
L'adattamento automatico riguarda le sole norme generali dell'ordinamento internazionale, vale
a dire le consuetudini universali e i principi generali del diritto internazionale.
Come si individuano le norme generalmente riconosciute?.Affinché operi l'adattamento bisogna
accertare che si tratti di norme generalmente accettate cioè ricercare quei “fatti-prova” che
permettono di verificare se vi sia una prassi nella società internazionale e che essa sia considerata
obbligatoria. A questo scopo la corte costituzionale ha adottato tecniche diverse. In particolare, tra i
criteri per individuare questo tipo di norme vengono indicati i seguenti: “la concorde dottrina
internazionalistica, numerosi atti di legislazione dei singoli ordinamenti statali, la giurisprudenza
consolidata dei giudici interni e soprattutto la consuetudine più che secolare che gli Stati, nelle loro
reciproche relazioni”. In un altro caso, la corte ha richiamato l'unanime consenso sulla norma per
cui la potestà dello Stato sui propri cittadini segue costoro anche nei trasferimenti all'estero.
Rango costituzionale delle norme di diritto internazionale generale. Attraverso il meccanismo
dell'adattamento automatico si realizza la produzione nell'ordinamento interno di norme di
contenuto analogo a quello delle norme internazionali richiamate. Rispetto a tali norme occorre
stabilire il rango da attribuire loro nel sistema delle fonti. La soluzione delle antinomie tra norme
interne di rango primario e norme generali dell'ordinamento internazionale vede prevalere queste
ultime. Le leggi in contrasto con il diritto internazionale generale violano all'articolo 10.1 della
costituzione e pertanto la corte le può annullare. Tuttavia raramente la corte ha utilizzato questo
potere: del resto i giudici preferiscono utilizzare la tecnica dell'interpretazione adeguatrice, cioè le
leggi devono essere interpretate nel modo più conforme possibile al diritto internazionale, in modo
da evitare conflitti.
Il limite dei “principi fondamentali nell’ordinamento costituzionale”. Un altro problema
riguarda la soluzione dell'eventuale contrasto tra norme internazionali generalmente riconosciute e
norme costituzionali. Sulla questione esistono diverse posizioni dottrinali, che vanno dalla tesi

37
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

secondo cui il rinvio opera nei limiti del quadro costituzionale, sicché il conflitto andrebbe risolto a
favore delle norme costituzionali, alla tesi opposta secondo cui le norme di adattamento
prevarrebbero su tutte le norme costituzionali con la sola eccezione dei principi fondamentali, fino
alla tesi che fa leva sull'applicazione del principio di specialità. Quest'ultimo esclude che vi sia un
vero e proprio conflitto di norme, ossia una antinomia, perché è possibile individuare tra più norme,
tutte egualmente valide ed efficaci, l'unica che deve trovare applicazione nella fattispecie concreta.
La corte costituzionale, infatti, in una sentenza fondamentale, ha fatto espresso riferimento proprio
al principio di specialità per armonizzare la norma internazionale sull'immunità dell'agente
diplomatico dalla giurisdizione civile con le norme costituzionali sulla giurisdizione, dichiarando
che il conflitto è solo apparente.
IL DIRITTO INTERNAZIONALE PRIVATO
Lo schema del rinvio mobile trova applicazione anche per il cosiddetto diritto internazionale
privato: questo, in realtà, non è altro che una branca del diritto nazionale che regola l'applicazione
della legge nei rapporti tra privati quando il soggetto o i beni coinvolti sono collegati ad
ordinamenti statali diversi. Il diritto internazionale privato in questi casi sceglie l'ordinamento le cui
norme dovranno trovare applicazione alla fattispecie, utilizzando la tecnica del rinvio mobile. Il
giudice italiano potrà perciò trovarsi ad applicare fonti esterne, provenienti da altri ordinamenti
nazionali: tradizionalmente esse sono concepite nell'ordinamento interno come fonti-fatto, con la
conseguenza che non dovrebbe trovare applicazione il principio iura novit curia. Però con la
riforma del 1995 questa impostazione è cambiata: infatti l'articolo 14 prevede che l'accertamento
della legge straniera è compiuto d'ufficio dal giudice e inoltre la legge straniera è applicata secondo
i propri criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo.

3. Diritto internazionale pattizio e diritto interno


Le norme di diritto internazionale convenzionale, una volta adottato l'ordine di esecuzione del
trattato, acquistano efficacia nell'ordinamento italiano: esse prevalgono sulle norme interne, ma con
modalità diverse rispetto a quelle proprie del diritto dell'unione europea.
Con le sentenze della corte costituzionale 348 e 349 del 2007, la giurisprudenza costituzionale ha
affermato due principi destinati a regolare il processo di osmosi tra ordinamento interno e
ordinamento internazionale: il principio di legalità internazionale, che comporta la prevalenza delle
norme internazionali sulle leggi interne; il principio di supremazia costituzionale, che subordina
l'efficacia vincolante delle norme internazionali al rispetto della costituzione.
Nel caso di conflitto tra diritto sovranazionale e diritto nazionale non opera il meccanismo della
disapplicazione della norma nazionale da parte del singolo giudice, ma sarà la corte costituzionale,
investita dal giudice, a dichiarare l'illegittimità costituzionale della norma interna per violazione
dell'articolo 117.1 della costituzione. In questo modo viene assicurata la prevalenza della norma
internazionale pattizia sulla legge interna.
Tale prevalenza però si esprime ancor prima sul piano dell'interpretazione, poichè il giudice comune
è tenuto ad interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione
internazionale(obbligo di interpretazione conforme al trattato), entro i limiti nei quali ciò sia
permesso dai testi normativi. Quindi sui giudici grava l'obbligo di procedere ad una interpretazione
conforme al diritto internazionale convenzionale e solo ove tale interpretazione sia preclusa dal
testo normativo ed il giudice dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione
internazionale convenzionale deve sollevare questione di legittimità costituzionale della norma per
contrasto con l'articolo 117.1 della costituzione.
Gli obblighi derivanti dalla giurisprudenza della Corte EDU. Per quanto riguarda la CEDU, la
corte costituzionale ha affermato che il mancato rispetto delle sue disposizioni, nell'interpretazione
fornita dalla corte di Strasburgo (corte EDU), determina una violazione diretta dell'articolo 117.1
della costituzione e quindi l'incostituzionalità della normativa nazionale. Almeno secondo la
sentenza 348 del 2007, le norme convenzionali andrebbero qualificate come norme interposte, tra la
costituzione e la legge ordinaria, alle quali integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur
sempre ad un livello sub-costituzionale.

38
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

Prevalenza della Costituzione sulle norme CEDU. Ciò, secondo la corte costituzionale, implica
una condizione, che la norma CEDU sia conforme alla costituzione: non solo conforme ai principi
fondamentali, secondo la dottrina dei controlimiti elaborata in riferimento alle norme dell'unione
europea, ma a qualsiasi norma costituzionale.
LA CEDU E IL RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
Com'è noto, gli Stati che fanno parte del consiglio d'Europa aderiscono alla convenzione europea
dei diritti dell'uomo, entrata in vigore nel 1953.
La convenzione garantisce una molteplicità di diritti che toccano diversi campi: divieto di
discriminazioni, diritto alla vita, divieto alla tortura, divieto di schiavitù e del lavoro forzato e così
via.
La convenzione ha istituito la corte europea dei diritti dell'uomo, cui ha affidato la garanzia dei
diritti dai contemplati.
Il sistema giudiziario così istituito prevede due tipi di ricorso: uno offerto ai singoli Stati nei
confronti degli altri Stati che hanno stipulato la convenzione e che da luogo ai cosiddetti ricorsi
interstatali; l'altro può essere proposto dai singoli individui, dalle organizzazioni non governative e
da gruppi di privati. È richiesta però una condizione di ricevibilità del ricorso: l'esaurimento delle
vie di ricorso interne allo Stato. Pertanto, la competenza della corte ha carattere sussidiario: cioè
può intervenire solo nel caso in cui non sia stato possibile ottenere la rimozione della violazione o
un'adeguata riparazione con l'intervento degli organi giurisdizionali o di altri organi di garanzia
appartenenti allo Stato.

4.L’evoluzione giurisprudenziale
La principale novità introdotta dalla giurisprudenza costituzionale del 2007 è la riconosciuta
prevalenza del diritto internazionale pattizio sul diritto nazionale. Secondo l'impostazione
precedente invece, la corte costituzionale sosteneva che in base al criterio della successione delle
leggi nel tempo, la legge successiva prevale su quella anteriore, per cui il legislatore sarebbe stato
libero di non rispettare le norme internazionali pattizie rese operanti nell'ordinamento interno con
l'atto di recepimento.
L’interpretazione dei trattati. Questa novità però si inserisce nel quadro di alcuni filoni
giurisprudenziali di cui le decisioni del 2007 rappresentano uno sviluppo e un approfondimento.
Il primo filone riguarda le condizioni di efficacia delle norme internazionali nell'ordinamento
interno. La corte ha affermato che l'efficacia interna delle norme internazionali non è subordinata
alla loro riproduzione attraverso un atto normativo di diritto interno, essendo a tal fine sufficiente
l'ordine di esecuzione. Successivamente la corte, da un lato, ha sostenuto che le norme di diritto
internazionale, una volta eseguite, possono essere direttamente applicabili, se produttive di obblighi
a contenuto individuale e, dall'altro, ha precisato che la portata delle norme internazionali va
definita in rapporto ai parametri propri non dell'ordinamento in nazionale, bensì dell'ordinamento
d'origine.
Le due sentenze del 2007 hanno affermato che il diritto internazionale deve essere applicato
nell'ordinamento interno, secondo l'interpretazione fornita dal giudice internazionale competente. Se
già in passato la corte aveva operato dei richiami alle pronunce della corte EDU, ora il
riconoscimento del carattere vincolante dell'interpretazione di quest'ultima è divenuto esplicito. Il
suo fondamento è dato dall'articolo 32 della CEDU, che affida alla corte EDU la funzione di
interpretare le disposizioni della convenzione.
La regola dell’interpretazione conforme. Il secondo filone giurisprudenziale è quello che affida
all'interpretazione del giudice l'integrazione delle norme internazionali nell'ordinamento interno. La
regola è quella secondo cui i giudici devono interpretare il diritto interno in modo conforme al
diritto internazionale al fine di evitare l'inadempimento dello Stato. A partire dal 2007 questo
obbligo di interpretazione conforme viene esteso alle norme della CEDU, così come interpretata
dalla corte di Strasburgo. In questo modo si delinea una divisione dei compiti tra i giudici comuni e
il giudice costituzionale. Ai primi compete di assicurare in via ordinaria il rispetto delle norme
internazionali pattizie tramite lo strumento dell'interpretazione conforme, ma quando le possibilità

39
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

semantiche del testo normativo domestico non consentono quest'armonizzazione e quindi lo


strumento interpretativo si riveli insufficiente, essi devono sollevare la questione di costituzionalità
con riguardo alla norma interna incompatibile.
La posizione sistematica delle norme derivanti dai trattati. Il terzo filone giurisprudenziale
riguarda la posizione delle norme internazionali pattizie nel sistema delle fonti. Si tratta di quelle
decisioni che hanno assegnato al diritto ultrastatale un valore superiore alla legge. Nel caso delle
norme internazionali generalmente riconosciute, la sovraordinazione rispetto alla legge era già
espressamente previsto dal testo costituzionale all'articolo 10.1.
La corte quindi ha potuto agevolmente qualificarle come norme di rango costituzionale,
sottoponendole al limite del rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento. Le norme
dell'Unione Europea si collocano al di sopra della legge grazie all'opera della giurisprudenza
costituzionale.
Per quanto riguarda, invece, le norme internazionali pattizie, in un primo momento la corte
sembrava voler giungere ad una collocazione analoga, con espresso riferimento alla CEDU, ma
questa apertura è stata abbandonata dalle decisioni successive che hanno escluso la possibilità che le
norme CEDU integrassero il parametro di costituzionalità. Il superamento di questo orientamento è
stato reso possibile dal nuovo articolo 117.1 della costituzione.
Con la giurisprudenza del 2007 la corte, da un parte ha negato la possibilità di fondare la
supremazia del diritto CEDU su altre disposizioni costituzionali, come l'articolo 2, l'articolo 10 e
l'articolo 11; dall'altra parte, ha utilizzato l'articolo 117.1 per fondare la preminenza del diritto
internazionale pattizio, affidando però esclusivamente alla corte costituzionale il potere di annullare
la norma domestica incompatibile.

5. Le modalità e i limiti della preminenza del diritto internazionale pattizio


Con l'evoluzione giurisprudenziale che abbiamo visto, si è garantita la preminenza delle norme
internazionali sulle norme nazionali, assicurando così l'operatività del principio di legalità
internazionale.
Sulle modalità attraverso le quali si realizza questa preminenza bisogna prestare una particolare
attenzione.
Prima delle pronunce del 2007, alcuni giudici di merito, a fronte dell'indisponibilità della corte
costituzionale a riconoscere piena efficacia vincolante alla CEDU, avevano cominciato a
disapplicare la norma interna contrastante con questa convenzione. La conseguenza dell'interazione
tra il judicial minimalism della corte costituzionale e l'attivismo dei giudici di merito sarebbe stata
l'emarginazione della corte costituzionale dal dialogo giudiziale europeo sui diritti fondamentali, a
vantaggio del circuito diretto tra giudici comuni e corte EDU. Con la rilettura internazionalistica
dell'articolo 117.1 della costituzione, la corte costituzionale ha recuperato un importante ruolo sia
nei confronti dei giudici comuni sia nei confronti della corte EDU. (La funzione dell’art. 117.1
Cost.)
Nella sentenza 348 del 2007 è chiarissima l'esclusione della tecnica della disapplicazione. In essa
infatti si afferma che le norme della CEDU rivestono, in virtù del rinvio contenuto nell'articolo
117.1, rango sub-costituzionale, fungendo da norme interposte. La conseguenza è che la tecnica
della disapplicazione è inutilizzabile: "il giudice comune non ha il potere di disapplicare la norma
legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l'asserita incompatibilità si
presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell'articolo
117.1 della costituzione, di esclusiva competenza del giudice delle leggi".
Questo tipo di argomentazioni invece non è emerge nella sentenza 349 del 2007, in cui manca
un'espressa qualificazione delle norme CEDU come norme di rango sub-costituzionale. La
inutilizzabilità della tecnica della disapplicazione è ricondotta piuttosto ai caratteri delle norme
CEDU, i quali non consentono di ritenere che la posizione giuridica dei singoli possa esserne
immediatamente e direttamente qualificata, indipendentemente dall'intervento normativo dei singoli
Stati. Con la conseguenza che i giudici non potrebbero procedere alla disapplicazione della norma
interna confliggente. Ma, allora, se l'inutilizzabilità della tecnica della disapplicazione è

40
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

riconducibile ai caratteri della norma internazionale pattizia non si potrebbe escludere a priori che
altre norme internazionali pattizie abbiano carattere self-executing, lasciando così aperta la strada ad
una diversa ricostruzione dei rapporti tra norma interna e norma internazionale.
Un altro problema è quello della determinazione dell'esatto ambito di applicazione dei principi
ricavabili dall'articolo 117.1 della costituzione. A quali fonti internazionali pattizie si applica il
principio di legalità internazionale?
Il problema degli accordi in forma semplificata….Innanzitutto la questione si pone con riguardo
ai cosiddetti accordi in forma semplificata, cioè quei trattati internazionali conclusi dal governo e
non ratificati dal Parlamento, in deroga all'art. 80 della costituzione. Si può ritenere che la corte
costituzionale neghi il carattere vincolante di questi accordi che impone il limite della compatibilità
delle norme pattizie con la costituzione, espressamente affermato dalle due sentenze citate.
…..e della possibile distinzione tra diversi tipi di trattato. Per quanto riguarda invece gli accordi
oggetto di regolare procedure di adattamento, sono ipotizzabili tre soluzioni diverse. Una prima
soluzione di tipo restrittivo, secondo cui la corte potrebbe restringere la portata dell'articolo 117.1
della costituzione ai soli trattati sui diritti umani; la seconda soluzione opta per la massima apertura
dell'ordinamento, perché, facendo leva sul tenore letterale dell'articolo 117.1, sostiene che la
preminenza deve essere assicurata a tutte le norme di diritto internazionale pattizio; secondo una
terza soluzione, l'efficacia vincolante e preminente sul diritto interno andrebbe attribuita non già alle
sole norme internazionali sui diritti umani bensì a quelle norme internazionali la cui attuazione
avvenga sotto la supervisione di un organo giurisdizionale internazionale deputato alla soluzione
delle controversie sull'applicazione del trattato.

6. Il dialogo tra la Corte costituzionale ed i giudici ultrastatali


L'evoluzione della giurisprudenza costituzionale avvenuta sia in ordine all'efficacia delle norme di
diritto internazionale pattizio, sia in ordine all'uso della pregiudizialità comunitaria, avvia una
nuova tecnica di dialogo tra la corte e i giudici ultrastatali.
I limiti costituzionali che si oppongono all’ingresso di norme internazionali. La corte, nel
realizzare l'apertura dell'ordinamento nazionale al diritto dell'unione europea e al diritto
internazionale consuetudinario ha individuato un punto di equilibrio tra l'esigenza dell'integrazione
e quello della salvaguardia dei valori nazionali già delineata nella teoria dei "contro-limiti".
Quest'ultima richiede la conformità delle norme dell'unione europea ai soli principi fondamentali
dell'ordinamento. Invece, le norme internazionali pattizie, per poter prevalere sul diritto interno
domestico, sono assoggettate al più ampio vincolo di conformità all'intero dettato costituzionale.
Ecco ciò che dice la sentenza 348 del 2007: "in occasione di ogni questione nascente da pretesi
contrasti tra norme interposte e norme legislative interne occorre verificare congiuntamente la
conformità a costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la
costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta. Nell'ipotesi
di una norma interposta contrastante con una norma costituzionale, questa corte ha il dovere di
dichiarare l'inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad
espungerla dall'ordinamento giuridico italiano". Quali possono essere questi "modi rituali" però non
è precisato, ma c'è da supporre che, qualora ciò non possa avvenire sul piano della pura
interpretazione dovrà essere dichiarato illegittimo in parte qua l'ordine di esecuzione del trattato,
secondo lo schema tracciato dalla teoria dei controlimiti. Questa soluzione, dal punto di vista
formale, può appoggiarsi sulla qualificazione delle fonti CEDU quali fonti sub-costituzionali e
quindi necessariamente vincolate al rispetto della fonte sovraordinata, cioè la costituzione. Dal
punto di vista sostanziale invece potrebbe aggiungersi che il principio di supremazia costituzionale
rappresenta una tecnica da utilizzare nel dialogo della corte con i giudici ultrastatali.
Il Rapporto tra Corti. Per quanto riguarda poi il rapporto tra la Corte costituzionale e le corti di
Strasburgo e Lussemburgo possiamo dire che in teoria la giurisprudenza di entrambe le corti
europee sarebbe limitata, in quanto la prima dovrebbe verificare se gli Stati rispettino lo standard
minimo di protezione dei diritti fondamentali, così come definito nella CEDU, lasciando ai singoli
Stati la possibilità di prevedere un livello di tutela più elevato; per quanto riguarda la corte di

41
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

giustizia, essa dovrebbe assicurare la tutela dei diritti fondamentali solo in riferimento al diritto
dell'unione europea e alle norme nazionali di attuazione, riservandosi invece alle corti costituzionali
la tutela dei diritti costituzionali rispetto alle norme interne. Però, nella concreta esperienza
giuridica, queste linee di demarcazione tendono a diventare nebulose e sempre maggiore è la
tendenza delle corti europee a sindacare scelte nazionali adottate seguendo il procedimento
democratico nazionale. Ecco che sorge il pericolo di una sorta di colonialismo giurisdizionale che
impone le scelte dei “signori del diritto europeo” all'ordinamento nazionale. E di fronte a questo
rischio la corte costituzionale, almeno in linea di principio, sembra voler rivendicare a sé la
funzione di protettrice della specifica tradizione costituzionale nazionale nell'ambito del dialogo
giudiziario europeo.

7. La globalizzazione giuridica e la nuova lex mercatoria


Integrazione giuridica europea e globalizzazione giuridica portano alla elaborazione di regole
omogenee applicabili anche nell'ambito di una molteplicità di ordinamenti nazionali.
In particolare, è la globalizzazione economica a reclamare una regolazione uniforme dei traffici
internazionali. Essa quindi sollecita una nuova universalità del diritto. Tale tendenza prende corpo
attraverso gli accordi internazionali che riguardano il commercio internazionale. Di fondamentale
importanza sono gli accordi conclusi nell'ambito del WTO (organizzazione mondiale del
commercio).
Vecchia e nuova lex mercatoria. Però la globalizzazione giuridica non passa solo attraverso gli
accordi internazionali conclusi tra gli Stati. La società globale si è data un proprio diritto non
statuale, al quale si è attribuito il nome di nuova lex mercatoria. L'espressione allude alla rinascita
di un diritto altrettanto universale quanto fu universale il diritto dei mercanti. Questo era stata la lex
mercatoria non soltanto perché riguardava i rapporti mercantili ma soprattutto perché era un diritto
creato dai mercanti e infatti le sue fonti erano gli statuti delle corporazioni mercantili, le
consuetudini mercantili, la giurisprudenza delle curiae mercatorum. Allo stesso modo nell'era
presente, per nuova lex mercatoria si intende un diritto creato dal ceto imprenditoriale senza
l'intermediazione del potere legislativo degli Stati e destinato a disciplinare in maniera uniforme i
rapporti commerciali che si svolgono in un mercato transnazionale.
La creazione di regole uniformi trae alimento soprattutto dalle seguenti tendenze:
-La diffusione delle pratiche contrattuali nel mondo degli affari. Molteplici tipi contrattuali, come i
contratti in uso nelle borse, sono creati dagli operatori economici di un paese e presto si diffondono
negli altri paesi sotto lo stimolo della globalizzazione economica e finanziaria;
-la creazione da parte delle grandi società multinazionali di condizioni generali di contratto
uniformi che poi vengono applicate in tutti i diversi mercati in cui esse operano;
-la giurisprudenza degli arbitrati internazionali che costituisce un precedente, cui altri arbitri sono
soliti uniformarsi;
-la diffusione di usi del commercio internazionale, ossia la ripetuta e uniforme osservanza di
particolari pratiche da parte degli operatori di determinati settori economici nella convinzione di
osservare un precetto giuridico. Questi usi commerciali, al pari di qualsiasi consuetudine (come ha
stabilito la cassazione) sono considerati fonte di diritto , ma di un diritto oggettivo non statuale ma
sovranazionale, di un diritto della societas mercatorum, che costituisce un vero e proprio
ordinamento giuridico originario. Ma poiché quest'ordinamento non ha propri organi di coercizione
si avvale degli organi giurisdizionali degli stati di volta in volta territorialmente competenti.
La consuetudine come fonte del diritto dei mercanti. La consuetudine così mentre diventa molto
marginale come fonte dell'ordinamento nazionale, ritrova un suo ruolo importante come fonte di
diritto della nuova società dei mercanti. Del resto gli usi del commercio internazionale hanno una
forza maggiore delle consuetudini interne , poiché una volta accertata la natura internazionale del
contratto, si applica la lex mercatoria,anche se infliggente con le norme dello Stato.

8. Concorrenza tra ordinamenti e mutuo riconoscimento delle norme


L'economia globale però non si è manifestata solamente nella creazione di regole uniformi. Un altro

42
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

aspetto non meno importante è costituito dalla cosiddetta concorrenza tra ordinamenti giuridici:
con quest'espressione si indica la circostanza per cui i singoli operatori possono scegliere di volta in
volta la regola dell'ordinamento statale che ritengono più conveniente ai loro fini. In questo caso lo
Stato mantiene la sua capacità regolatoria ma perde la pretesa ad una sfera esclusiva quanto agli
effetti che discendono dall'esercizio del suo potere normativo.
Nelle ipotesi viste in precedenza il diritto applicato dai giudici è un diritto che trova la sua origine in
fonti extra e sovranazionali. Nell'ultima ipotesi invece lo Stato conserva il potere normativo, ma se
gli operatori scelgono il diritto di un altro Stato non potrà fare nulla per imporre il proprio e dovrà
dare esecutività al diritto così prescelto.
Quando ciò avviene si apre una specie di concorrenza tra ordinamenti statali nel tentativo di
produrre le regole più attraenti da parte degli operatori e tra questi ultimi si determina una specie di
law shopping, che consente loro di scegliere tra diverse offerte normative in concorrenza.
Resta il fatto che i giudici interpretano e applicano un diritto la cui fonte è fuori dall'ordinamento
nazionale.
L’origine comunitaria della “scelta dell’ordinamento giuridico”. In particolare è stata la corte di
giustizia a fondare il diritto, considerato come direttamente discendente dalle norme dell'unione
europea, di scegliere le regole dell'ordinamento che si preferisce.
IL CASO CENTROS
Nel caso Centros, i coniugi Bryde, costituirono una private limited company denominata Centros,
utilizzando il diritto dell'Inghilterra e del Galles, chiedendo poi alla direzione generale del
commercio del regno di Danimarca l’iscrizione di una succursale della società per svolgere la
propria attività in Danimarca. La scelta del diritto inglese è dipesa dal fatto che esso, a differenza
del diritto danese, non prevede l'obbligo per i soci di costituire un capitale sociale minimo ed infatti
la società era stata costituita con un capitale sociale minimo di sole 100 sterline. Però la direzione
danese rifiuta l'iscrizione denunciando la frode alla legge.
Investita della questione pregiudiziale la corte di giustizia afferma che dall'articolo 52 del trattato
CEE, che vieta le restrizioni alle libertà di stabilimento e dall'articolo 58, che equipara nel
trattamento le società costituite conformemente alle norme di uno Stato membro alle persone fisiche
aventi la cittadinanza degli Stati membri, deriva che non può rifiutarsi l'iscrizione della succursale
di una società, anche quando ciò miri ad escludere l'applicazione di norme più severe materie di
capitale sociale
Gli sviluppi giurisprudenziali sono coerenti con i limiti che l'articolo 5, ai paragrafi 2 e 3, del TUE
pone alla competenza delle istituzioni europee. Il primo è il principio di sussidiarietà, che impone
all'azione dell'unione europea di arrestarsi di fronte al potere normativo dei singoli Stati; il secondo
invece richiede la proporzionalità dell'azione regolativa, cui è prescritto di non eccedere quanto
strettamente necessario a conseguire i propri obiettivi.
Dunque l'obiettivo dell'integrazione del mercato unico può essere realizzato anche attraverso il
mutuo riconoscimento delle norme giuridiche di ciascuno degli Stati comunitari: l'orientamento
della giurisprudenza della corte di giustizia permette, in molte circostanze, di superare le regole
poste dal diritto internazionale privato (che è un diritto di fonte nazionale). Una delle conseguenze
del mutuo riconoscimento delle norme della concorrenza tra ordinamenti è l'instaurazione di questo
fenomeno: il destinatario del precetto sceglie la norma che ritiene a se più favorevole, ma il
manifestarsi di questa preferenza si riflette nelle decisioni del regolatore nazionale che modifica il
proprio sistema giuridico adeguandola a quello di maggior successo. Si crea così una sorta di
circolazione di istituti giuridici da un ordinamento all'altro.

9. Profili problematici dello “Stato costituzionale aperto”


Si parla di uno “Stato costituzionale aperto” perché la costituzione è impiegata per legittimare
l'apertura dell'ordinamento statale ad altri ordinamenti e dove vi è crescente integrazione giuridica
con ordinamenti di altri Stati e con ordinamenti sovrastatali.
La “circolazione dei modelli giuridici”. Un altro aspetto dell'apertura costituzionale è costituito
dal crescente impiego da parte del giudice costituzionale di schemi argomentativi, di modelli e

43
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

principi maturati nell'esperienza costituzionale di altri paesi o nella giurisprudenza delle corti
ultrastatali. Infatti la trama argomentativa del giudice costituzionale utilizza un materiale normativo
tratto non solo da costituzioni nazionali e da fonti sovranazionali legittimate ad operare
nell'ordinamento nazionale dalla stessa costituzione, ma che deriva da altri ordinamenti
costituzionali e sovranazionali. Certamente questi documenti e giurisprudenze altrui non hanno
valore cogente ma comunque rivestono un certo ruolo “persuasivo”. Quindi si creano degli elementi
comuni tra le diverse tradizioni costituzionali che non si fondano partendo da un centro di
produzione giuridica abilitato formalmente, ma attraverso le argomentazioni delle corti
costituzionali e delle giurisdizioni superiori, che fanno leva sulla tendenza all'apertura delle
disposizioni di principio delle costituzioni.
Questo fenomeno rende evidente come l'apertura all'esterno dell'ordinamento, la comunicazione e
l'integrazione con altri sistemi giuridici, non dipendono solo semplicemente dal testo costituzionale
ma dalla complessiva cultura giuridica e costituzionale che lo vivifica. In questa prospettiva,
l'interpretazione costituzionale può essere considerata anche come un atto di adesione o di rottura
rispetto a tradizioni storico-culturali comprensive, di cui le singole costituzioni sono parti.

CAP 5
LA LEGGE E LE FONTI PRIMARIE
1. Legge formale e riserve di legge
Il sistema delle fonti primarie (ossia della legge formale e degli atti con forza di legge) è tracciato
dalla stessa costituzione: è un sistema chiuso di atti tipici, non modificabile se non attraverso
revisione costituzionale. È vero che l'articolo 117 della costituzione disciplina le leggi regionali,
fonte primaria anche esse: ma è vero anche che, nella visione originale e sino alla riforma
costituzionale del 2001, tali leggi si collocavano su un piano minore, sia per la competenza
specializzata che le caratterizzava, sia per la soggezione alla legge statale. La riforma del titolo V ha
rovesciato entrambi i presupposti, istituendo un assetto delle fonti piuttosto confuso, in cui la legge
parlamentare sembra aver perso il carattere di fonte generale dell'ordinamento, per diventare invece
una fonte specializzata per materia.
La riserva di legge e il concorso tra fonti primarie. Abbiamo anche visto come lo strumento
tecnico impiegato dalla costituzione per regolare il concorso delle fonti primarie sia la riserva di
legge. Il modo di operare delle riserve però è piuttosto complesso.
A)in linea di principio, la legge formale, ossia la legge che si forma in Parlamento secondo le
norme degli articoli 70-74 della costituzione, si pone come la fonte legislativa a competenza
generale, cioè quella a cui è consentito di regolare qualsiasi oggetto. Però vi sono delle eccezioni
(riserve ad atti diversi dalla legge):
- alcune materie sono riservate alla disciplina posta da fonti diverse dalla legge formale: vi sono
riserve di legge costituzionale, riserve di regolamento parlamentare, riserve a favore degli statuti
regionali, riserve a favore dei decreti di attuazione degli statuti speciali. La legge ordinaria che
invade questi ambiti è illegittima per violazione delle norme costituzionali che prevedono la riserva;
- Riserve a leggi rinforzate:amnistia e indulto - per alcune materie il normale procedimento
parlamentare di formazione della legge non è ritenuto sufficiente. Così, per esempio, una particolare
maggioranza è richiesta dall'articolo 79 per votare la legge di amnistia e indulto. Per porre fine ad
una prassi troppo lassista di concessione dei provvedimenti di clemenza collettiva, nel 1992 si
decise di riformare l'articolo 79 introducendo una procedura di eccezionale difficoltà: la legge di
amnistia e indulto (necessariamente una legge formale) deve essere votata a maggioranza dei due
terzi, ma non solo nella votazione finale, ma persino nella votazione dei singoli articoli.
La modifica delle circoscrizioni degli enti territoriali. Altri esempi di procedimenti rinforzati
sono quelli richiesti dagli articoli 132-133 per modificare le circoscrizioni degli enti territoriali.
La ratio in questi casi è di coinvolgere le popolazioni e gli enti interessati nel procedimento di
formazione, non già della legge, ma del disegno di legge che il governo presenterà alle camere.
L’attribuzione a singole Regioni di funzioni ulteriori. Sempre in materia di autonomie, la riforma
del titolo V ha introdotto una nuova ipotesi di legge rinforzata: il nuovo articolo 116.3 prevede che

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

con legge formale, approvata a maggioranza assoluta, su iniziativa della regione interessata, sentiti
gli enti locali, e formata sulla base di intesa tra lo Stato e la regione interessata, si possono
concedere alla singola regione ulteriori forme e condizioni particolari da autonomia, rispetto a
quelle standard, nell'ambito di alcune materie.
La legge sulla formazione del bilancio. La recente riforma costituzionale relativa al bilancio ha
introdotto una nuova riserva rinforzata per la legge che il Parlamento deve emanare per disciplinare
il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio
tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche
amministrazioni. Alla legge costituzionale è riservato il compito di fissare i principi che la legge
sulla formazione del bilancio deve rispettare.
Leggi “concordatarie”. Molto rilevanti sono le particolarità del procedimento di formazione delle
leggi che disciplinano i rapporti con i culti religiosi. L'articolo 7 della costituzione, richiamando
espressamente i patti lateranensi del 1929, tratteggia una disciplina complessa ma non chiaramente
descritta in Costituzione. Essa avviene così ricostruita: posto che i Patti sono atti di diritto
internazionale, la cui modifica deve avvenire attraverso il consenso delle parti ( e per quanto
riguarda l'ordinamento italiano quindi con ratifica autorizzata dalla legge formale), le leggi di
esecuzione sono protette dall'articolo 7 della costituzione. Si pone un principio concordatario che
tutela ogni successiva modificazione di quegli accordi a partire da quelle intervenute nel 1984
(accordi di villa madama).
L’intesa con i culti acattolici. Per i culti acattolici vale invece la garanzia minore dell'intesa
stipulata dalle relative rappresentanze secondo l'articolo 8 della costituzione. È una garanzia minore
solo per il fatto che queste comunità religiose sono formazioni interne alla comunità statale e non
soggetti di diritto internazionale. Anche in questo caso però si rafforza il procedimento di
formazione del disegno di legge.
Procedimenti rinforzati e limiti di oggetto. Sia nel caso dell'articolo 7 che in quello dell'articolo 8,
inoltre, la riserva di competenza non è illimitata, nel senso che non qualsiasi oggetto può essere
sottratto alla disciplina generale, e quindi alla legge ordinaria, solo perché coperto dal patto o dalle
intese. Da un lato sarebbe ammissibile che gli ambiti in cui la trattativa condotta dal governo può
spingersi fossero definiti dalla legge ordinaria; dall'altro è comunque sottoposto al controllo della
corte costituzionale il rispetto dei limiti che, sebbene non ancora fissati dalla legge, devono essere
comunque ricavati in via di interpretazione. La corte costituzionale, mentre da un lato ha opposto
comunque anche alla disciplina concordataria il limite dei principi supremi dell'ordinamento
costituzionale, dall'altro, riferendosi alle intese, ha sottolineato che esse possono disciplinare solo
gli aspetti che si collegano alle specificità delle singole confessioni o che richiedono deroghe al
diritto comune.
RISERVE DI LEGGE RINFORZATE “PER CONTENUTO”
Spesso, accanto alle riserve di legge rinforzate “per procedimento”, vengono poste riserve di legge
rinforzate “per contenuto”.
Così vengono denominati i casi in cui la costituzione prevede che la legge ordinaria a cui è
riservata la disciplina della materia debba rispettare determinati contenuti. Per esempio, l'articolo
14.3 della costituzione consente al legislatore di dettare regole speciali, meno rigide, per le ispezioni
domiciliari ma soltanto per motivi di sanità e di incolumità pubblica, oppure per fini economici e
fiscali.
La ratio di queste riserve è di limitare il potere del legislatore, in modo che le eventuali leggi che
intendessero comprimere la sfera di libertà degli individui potranno essere considerate legittime
soltanto a condizione che siano razionalmente giustificabili in relazione ai fini indicati dalla
costituzione, oppure che non siano ispirate a intenti discriminatori, oppure che siano limitate a casi
specifici e giustificabili (come nel caso dell'articolo 43, che prescrive una vera e propria legge
provvedimento, ossia una legge che non disciplina la materia in modo generale e astratto, ma
costituisce un provvedimento di esproprio puntuale e concreto, assunto con la forma della legge per
garantire il controllo parlamentare).
Queste riserve di legge non istituiscono un ambito riservato di disciplina per determinati atti, mi

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

cambiano la forza dell'atto riservato rispetto alle altre leggi ordinarie, come è per le leggi atipiche.
Esse semplicemente vincolano la discrezionalità legislativa indicando limiti di contenuto che la
corte costituzionale potrà verificare in sede di giudizio di legittimità delle singole leggi: e pongono
il problema di individuare la motivazione della legge.
B) In linea di principio gli atti con forza di legge possono sostituirsi sempre alla legge del
Parlamento, salvo i casi in cui la costituzione non prescrive espressamente che la materia sia trattata
solo con legge formale.
Per alcuni specifici oggetti, il testo costituzionale impiega la formula "le camere con legge" per
indicare esplicitamente la riserva di legge formale. Non si tratta della disciplina di una materia, ma
di leggi particolari attraverso le quali il Parlamento svolge un controllo politico sull'attività del
governo.
Essi sono:
- la legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali (articolo 80). Non tutti i
trattati sono soggetti a questa procedura, ma solo quelli rientranti nelle cinque categorie indicati
dall'articolo 80 e cioè: trattati di natura politica, che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari,
importano variazioni del territorio o oneri alle finanze o modificazioni di leggi.
Va inoltre segnalata la prassi di introdurre nella legge di autorizzazione anche l'ordine di
esecuzione, una formula che ordina i soggetti dell'applicazione del diritto di considerare il trattato
come fonte di norme interne aventi lo stesso grado gerarchico della legge che la contiene. La prassi
parlamentare porta a dichiarare inammissibili gli emendamenti sia della formula di autorizzazione
sia dell'ordine di esecuzione; mentre sono ammesse norme utili all'adattamento del diritto interno
agli obblighi internazionali che si assumono con la ratifica.
- La legge di approvazione dei bilanci e del rendiconto presentati dal governo. La natura di
controllo politico che assumono queste leggi è evidente. La natura meramente formale della legge
di approvazione del rendiconto è in re ipsa: con essa il Parlamento approva il documento
contabile presentato dal governo che riepiloga i risultati dell'esercizio finanziario trascorso. Per la
legge di approvazione del bilancio di previsione essa derivava invece dall'articolo 81.3 della
costituzione, che dispone che con essa non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.
Proprio per consentire di modificare la legislazione vigente nella sessione di bilancio, a partire dal
1978 era stata introdotta una legge sostanziale diretta a modificare le norme tributarie e quelle di
spesa in vista dell'approvazione del bilancio: la legge finanziaria prima e, dopo la riforma del 2009,
la legge di stabilità. Esse però non erano previste in costituzione e quindi non sono coperte da
riserva di legge formale.
LEGGE FINANZIARIA,LEGGE DI STABILITA’ E LEGGE DI BILANCIO
Nel dibattito sulla programmazione degli anni 60 e 70 è emersa l’esigenza di uno strumento di
politica economica e fiscale che permetta il riesame delle decisioni di spesa per conformarle agli
obiettivi di politica economica; a questo fine non si poteva utilizzare la legge di bilancio, visti i
limiti strutturali imposti dalla costituzione.
La contabilità è stata riformata con legge del 1978, che ha introdotto la legge finanziaria: l'obiettivo
era ambizioso: disegnare una legge finanziaria potenzialmente onnicomprensiva, con il compito di
distribuire risorse nuove per il futuro e di razionalizzare scelte passate, libera quindi di produrre
qualunque effetto finanziario modificando la legislazione vigente.
La legge finanziaria, votata subito prima della legge di approvazione del bilancio, era a sua volta
preceduta dalla presentazione alle camere del DPEF (documento di programmazione economica
e finanziaria ) che delineava preventivamente i contenuti essenziali della legge finanziaria e dei
suoi provvedimenti,e altri elementi.
La legge 196 del 2009 aveva però modificato il sistema :il DPEF veniva sostituito dal DEF
(documento di economia e finanza) che il governo deve presentare alle camere entro il 10 aprile di
ciascun anno; e la legge finanziaria veniva sostituita dalla legge di stabilità, che dispone il quadro
di riferimento finanziario, sulla cui base vanno elaborati i bilanci. I disegni di legge collegati alla
manovra di finanza nel (da presentare alle camere entro il gennaio successivo) a legge di
assestamento (il cui disegno va presentato entro il mese di giugno) chiudono la manovra.

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

La recente riforma dell'articolo 81 della costituzione ha modificato il quadro costituzionale di


riferimento. È stato abrogato il comma 3, e di conseguenza è caduto il vincolo di contenuto della
legge di approvazione del bilancio;
- riserva di legge formale è prevista anche per assicurare l'intervento del Parlamento in relazione
all'emanazione dei decreti con forza di legge da parte del governo: in via successiva, nella
conversione dei decreti-legge o nella cd. sanatoria degli effetti prodotti dal decreto decaduto;in via
preventiva nella delegazione legislativa e nel conferimento dei poteri normativi al Governo in caso
di guerra;
- inoltre riserve di legge formale si trovano nei casi in cui la costituzione prevede maggioranze
rinforzate per l'approvazione della disciplina di determinate materie come abbiamo visto in
precedenza(amnistia,indulto,ecc.).
C) in linea di principio tutte le leggi e gli atti con forza di legge sono sottoponibili a referendum
abrogativo, ma con alcune eccezioni:
- l'articolo 75.2 della costituzione elenca alcune leggi che sono escluse dal referendum: le leggi
tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
La Corte costituzionale ha fornito però un'interpretazione “generosa” di queste materie applicando
un criterio logico-sistematico delle cause di inammissibilità, così da negare che il referendum possa
essere proposto: sulle leggi di esecuzione dei trattati, sulle leggi connesse all'adempimento degli
obblighi comunitari, sulle leggi che disciplinano il rapporto tributario nel suo insieme, sulla legge
finanziarie e tutte le leggi collegate essenziali per gli equilibri finanziari della manovra;
- oltre alle materie escluse con riferimento all'articolo 75, la corte costituzionale ritiene
inammissibile il referendum sulle leggi costituzionalmente vincolate e quelle essenziali per il
funzionamento dell'ordinamento democratico.
La successiva giurisprudenza ha esteso queste categorie fino a comprendere nelle cause di
inammissibilità da un lato quei quesiti la cui approvazione comporterebbe la paralisi degli organi
costituzionali(ad esempio le leggi elettorali sono sottoponibili a referendum solo se, in caso di
abrogazione, la normativa che resta in vigore garantisce il rinnovo dell’organo e la sua funzionalità,
cioè sia garantita la “autoapplicatività” della normativa “di risulta”); dall’altro lato quei quesiti che
mirano ad abrogare la legge che rappresenta l’attuazione di un necessario bilanciamento tra principi
costituzionali;
- le leggi ordinarie con “forza passiva peculiare” (cioè insuscettibili di essere validamente abrogate
da leggi ordinarie successive), dizione nella quale sono comprese anche le leggi di esecuzione dei
Patti lateranensi.
2. Riserve assolute e relative
Illustriamo ora la distinzione tra riserve di legge assolute e relative. La distinzione opera all'interno
della categoria delle riserve disposte a favore della legge ordinaria (quindi non solo della legge
formale).
La ratio comune è di assicurare che la disciplina di materie particolarmente delicate venga decisa
con la garanzia tipica insita nel procedimento parlamentare: è vero che, operando la riserva a favore
della legge ordinaria, essa ammette non solo la legge formale ma anche gli atti con forza di legge,
ma è anche vero che l'emanazione dell'atto con forza di legge da parte del governo è sempre
preceduta o seguita da una legge formale.
La distinzione tra i due tipi di riserva non opera in base a indici certi, ma è affidata
all'interpretazione del testo costituzionale.
La distinzione tra le due categorie dunque è di origine dottrinale: secondo la definizione corrente, la
riserva assoluta esclude qualsiasi intervento di fonti sub-legislative dalla disciplina della materia,
che, pertanto, dovrà essere integralmente regolata dalla legge formale ordinaria o da atti ad essa
equiparata; la riserva relativa non esclude che alla disciplina della materia concorra anche il
regolamento amministrativo, ma richiede che la legge disciplini preventivamente almeno i principi
a cui il regolamento deve attenersi.
Possiamo vedere come la distinzione fra i due tipi di riserva di legge è nettamente in teoria, mentre
in pratica non sempre è facile decidere se il rinvio alla legge sia classificabile nell'una o nell'altra

47
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

categoria.
Un particolare profilo problematico è quello di determinare la materia su cui è istituita la riserva di
legge. Per esempio, essendovi totale consenso nel ritenere che l'articolo 13 della costituzione pone
una riserva assoluta per i casi e i modi con cui la libertà personale può venire ristretta, essa copre la
sola fattispecie generale dei casi e dei modi o anche ogni specifica modalità di esecuzione? Si tratta
di quesiti cruciali per determinare in quale ambito sia ammessa l'integrazione della fattispecie
attraverso atti sub-legislativi. Su ciò si ritornerà quando parleremo dei regolamenti amministrativi.

3. Legge di delega e decreti legislativi


3.1. Natura e efficacia della legge di delega
La disciplina costituzionale. Se si escludono i riferimenti normativi relativi all'entrata in vigore e
al controllo di costituzionalità la disciplina di diritto costituzionale positivo in tema di delegazione
legislativa e di decreti delegati si unisce nel solo combinato disposto degli articoli 76 e 77.1 della
costituzione.
La prima disposizione stabilisce che l'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato
al governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e
per oggetti definiti. La seconda disposizione prevede che il governo non può, senza delegazione
delle camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria.
Con la sentenza 3 del 1957, la corte costituzionale osservava:
"La funzione legislativa può essere esercitata, in via eccezionale, dal governo con modalità
legislativamente stabilite(artt. 76 e77). La legge delegata è una delle due forme eccezionali con cui
si esercita il potere normativo del governo. Il relativo procedimento è composto di due momenti:
nella prima fase il Parlamento con una norma di delegazione prescrive i requisiti e determina la
sfera entro cui deve essere contenuto l'esercizio della funzione legislativa delegata;
successivamente, in virtù di questa delega, il potere esecutivo emana i decreti che hanno forza di
legge ordinaria. La norma dell'articolo 76 non rimane estranea alla disciplina del rapporto tra
organo delegante e organo delegato, ma è un elemento del rapporto di delegazione, in quanto sia il
precetto costituzionale dell'articolo 76, sia la norma delegante costituiscono la fonte da cui trae
legittimazione costituzionale la legge delegata. La necessità di questi due momenti si evince anche
dall’art. 77.1 secondo cui si nega al Governo il potere normativo, se non sia intervenuta la
delegazione delle Camere”.
Per quanto riguarda la natura della legge delega, inizialmente la corte aveva sostenuto come la
legge di delegazione legislativa è soltanto fonte di un potere governativo. Anche se indubbiamente
con la legge di delega il Parlamento delibera ed esprime una indicazione di preferenze, di interessi,
indirizzi, una legge del genere è soltanto fonte di un potere governativo, ha valore preliminare e
necessita di essere integrata dall'atto di esercizio della delegazione.
In origine, dunque, la legge di delegazione era considerata essenzialmente come una “fonte sulla
produzione” (di decreti legislativi) priva di alcuna immediata efficacia erga omnes. Solo
successivamente, alla luce di un più recente indirizzo interpretativo, la corte rivedeva le proprie
posizioni in virtù di una lettura coordinata degli articoli 72 e 76 della costituzione.
La corte infatti rilevava come:
"sotto il profilo formale la legge delega è il prodotto di un procedimento di legiferazione ordinaria
a sé stante e in sé compiuto e, pertanto, non è legata ai decreti legislativi da un vincolo strutturale
che possa indurre a collocarla entro una medesima ed unitaria fattispecie procedimentale. Sotto il
profilo del contenuto, essa è un vero e proprio atto normativo, nel senso che è un atto diretto a
porre, con efficacia erga omnes, norme costitutive dell'ordinamento giuridico”.
Efficacia immediata della legge di delega. Queste considerazioni hanno concorso a definire la
natura tipica della legge delega: per la parte in cui la legge è di delega (cioè contiene principi, criteri
e indirizzi) vincola solo il governo; per la parte in cui invece, essa disciplina direttamente e con
immediata efficacia la materia deleganda la legge è vincolante erga omnes.
Da queste considerazioni ne derivano ulteriori conseguenze.
Le norme contenute nella legge delega possono comunque essere utilizzate, a fini interpretativi, da

48
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

qualsiasi organo o soggetto chiamato a dare applicazione alle leggi. Poi non può essere contestata
l'idoneità delle disposizioni contenute nella legge delega concorrere a formare, quali norme
interposte, il parametro di costituzionalità dei decreti legislativi delegati e quindi l'impugnabilità
della legge di delegazione.
Questo indirizzo giurisprudenziale sembra trovare conferma nell’orientamento dottrinale che
considera la legge di delegazione ed i conseguenti decreti legislativi fonti distinte ma separate,
essendo la prima presupposto giuridico della seconda.
Il collegamento tra questi atti si esprimerebbe nella raccordo tra gli articoli 76 e 77: il primo serve a
vincolare, in prima linea, il Parlamento stesso; mentre al potere esecutivo si riferisce piuttosto
l'articolo 77, primo comma, della costituzione.
3.2. Contenuti della legge di delega
I vincoli imposti dalla costituzione al legislatore parlamentare consistono nella previsione dei
cosiddetti requisiti minimi, o contenuti necessari, all'interno della legge di delega.
L'articolo 76 richiede che la legge di delegazione necessariamente contenga i seguenti requisiti:
a) determinazione di principi e criteri direttivi;
b) tempo limitato;
c) oggetti definiti.
La loro mancanza o la loro indeterminatezza determina la violazione dell'articolo 76 e quindi
l'illegittimità costituzionale della legge di delega.
a) principi e criteri direttivi. Con riferimento ai principi e criteri direttivi è di particolare rilievo
il problema della loro concreta determinazione.
La corte costituzionale ha sempre tenuto a precisare come la determinazione dei principi e criteri
direttivi, richiesti dall'articolo 76 della costituzione per una valida delegazione legislativa, non può
eliminare ogni margine di scelta nell'esercizio della delega; tali elementi servono a circoscrivere il
campo della delega sì da evitare che essa venga esercitata in modo divergente dalle finalità che
l'hanno determinata ma devono anche consentire al potere delegato la possibilità di valutare le
particolari situazioni giuridiche da regolamentare nella fisiologica attività di riempimento che lega i
due livelli normativi.
La stessa corte aveva inteso respingere l'equivoco che la determinazione dei principi e criteri
direttivi elimini ogni discrezionalità nell'esercizio della delega, essendo vero, al contrario, che tale
discrezionalità sussiste in quell'ambito che principi e criteri, proprio perché tali, circoscrivono ma
non eliminano.
Come rilevato dalla dottrina, le tecniche di determinazione dei principi e criteri direttivi elaborate
dalla giurisprudenza costituzionale sono state alquanto vaghe, ancorché tutte sostanzialmente
riconducibili al binomio determinazione espressa-implicita. La prima contenuta nella legge di
delegazione, sia mediante enunciazione esplicita dei parametri (cosiddetta “diretta”) sia mediante
rinvio ad altri atti normativi o alle conoscenze tecnico-scientifiche in materia (cosiddetta
“indiretta”).
La corte costituzionale ha affermato che i criteri direttivi possono essere stabiliti anche per
relationem e che gli stessi sono individuabili attraverso il richiamo ai principi generali
eventualmente stabiliti dalla medesima legge. L'indicazione dei principi e dei criteri direttivi di cui
all'articolo 76 della costituzione non è finalizzata ad eliminare ogni discrezionalità nell'esercizio
della delega ma soltanto a circoscriverla, in modo che resti pur sempre salvo il potere di valutare le
specifiche e complesse situazioni da disciplinare.
La determinazione implicita dei principi e criteri direttivi invece, è deducibile dal legislatore
delegato per via interpretativa, mediante il ricorso ad alcuni parametri d'esercizio della delegazione
stessa, come: la ratio della delega, il dato ordinamentale preesistente, il coerente sviluppo di scelte
già accennate dal legislatore delegante, l'armonizzazione della normativa delegata con la
costituzione, il rispetto degli obblighi internazionali.
Deleghe con scarse norme direttive, scarso potere innovativo delegato. È ammissibile, quindi,
una delega priva di principi e criteri direttivi ad hoc se, rispetto alla materia indicata, le previsioni
orientatrici sono poste comunque in termini generali dalla legge di delega. Nell'ambito di una

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

delega del genere , però, la mancanza di principi e criteri direttivi deve essere intesa nel senso che
ridotto sarà il potere delegato al governo.
La corte costituzionale ha più volte precisato che l'eventuale scarsità di indicazioni nella legge di
delega si tradurrà in una ridotta capacità del decreto delegato di innovare ai principi della
legislazione vigente.
Interpretazione teleologica di principi e criteri direttivi. La corte costituzionale ha inoltre
precisato che i principi e i criteri direttivi della legge di delegazione devono essere interpretati sia
tenendo conto delle finalità ispiratrici della delega, sia verificando, nel silenzio del legislatore
delegante sullo specifico tema, che le scelte operate dal legislatore delegato non siano in contrasto
con gli indirizzi generali della stessa legge-delega e che comunque occorre tener conto delle finalità
che, attraverso i principi ed i criteri enunciati, la legge delega si prefigge con il complessivo
contesto delle norme da essa poste e tenere altresì conto che le norme delegate vanno interpretate
nel significato compatibile con quei principi e criteri.
b)l’oggetto della delega. Per quanto riguarda il requisito dell'oggetto, la corte costituzionale ha
sviluppato un orientamento interpretativo che consente al legislatore delegante di individuare
l'oggetto con una qualche genericità. Per cui si ritengono comunque compatibili con l'articolo 76
anche le cosiddette vaste deleghe (cioè quelle con oggetti di notevole ampiezza e complessità), e
quelle con pluralità di oggetti.
Deleghe vaste o con oggetti plurimi. Sono definite “vaste” le deleghe con oggetti di notevole
ampiezza e complessità o plurimi; a tali deleghe inevitabilmente consegue un maggiore ambito di
manovra del legislatore delegato, laddove si consideri che i confini dell'oggetto delegato alla
normazione del governo possono corrispondere, ipoteticamente, ad una intera materia se non,
addirittura, ad una pluralità di materie disomogenee. In tal senso la corte aveva ritenuto compatibile
con il dettato costituzionale anche una precisazione in negativo dell'oggetto della delega nonché la
delimitazione delle aree di una delega legislativa attraverso l'uso di clausole generali; e ciò sul
presupposto che la definizione costituzionalmente necessaria dell'oggetto della delega non può non
tener conto della natura e dei caratteri dell'oggetto medesimo.
Deleghe accessorie e testi unici. Ciò trova conferma nel fenomeno delle cosiddette deleghe
accessorie e della compilazione dei cosiddetti testi unici: laddove il Parlamento (in sede di
approvazione di una organica legge di riforma) deleghi al governo l'emanazione di norme di
attuazione, di coordinamento o transitorie della stessa, esso non indicherà espressamente i principi e
criteri direttivi della materia, per la deduzione dei quali il legislatore delegato dovrà fare riferimento
dunque a quelli già contenuti nelle leggi precedenti.
Questo fenomeno è particolarmente vistoso nel caso delle leggi comunitarie che oltre a prevedere
l'emanazione di decreti legislativi nelle materie interessate dalle direttive dell'unione europea,
prevedono l'emanazione di un decreto legislativo recante il testo unico delle disposizioni dettate in
attuazione delle deleghe conferite per il recepimento di direttive europee, al fine di coordinare le
medesime con altre norme legislative vigenti, nella stessa materia.
Non possono validamente costituire oggetto di delega, invece, gli atti coperti da riserva di legge
formale.
c) il termine. Un atteggiamento ugualmente elastico è stato adottato dalla corte costituzionale
relativamente alla determinazione del termine per l'esercizio del potere normativo delegato.
Sebbene infatti il termine debba essere certo, sono stati frequenti casi di proroga dello stesso, sia
mediante legge formale sia mediante decreto-legge. Né meno frequenti sono i casi di deleghe
correttive ed integrative adottate a seguito dell'emanazione di decreti legislativi cosiddetti
principali. In questo caso, la legge di delegazione contiene formule del tipo "il governo è delegato
ad adottare entro" un termine certo decorrente dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi
principali, uno o più decreti legislativi correttivi o modificativi dei primi.
d) limiti ulteriori. Oltre ai requisiti necessari la legge di delegazione può contenere dei limiti
ulteriori. L'articolo 76 della costituzione stabilisce, infatti, l'obbligo costituzionale che la legge di
delegazione individui i limiti minimi del decreto delegato, ma non impedisce al Parlamento di
restringere ulteriormente l'ambito di discrezionalità del governo.

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

Revocabilità della delega. Il Parlamento, nell'approvare la legge di delegazione, non si priva della
potestà legislativa, con la conseguenza che la delega è revocabile in qualsiasi momento, anche per
implicito, ossia mediante l'approvazione di una legge che disciplina l'oggetto della delega, prima
che siano emanati i decreti legislativi.
Come visto il non rispetto di queste condizioni comporta gravi conseguenze: la loro violazione
integra una violazione dell'articolo 76 della costituzione, con la conseguente illegittimità
costituzionale delle norme del decreto legislativo contrastanti. Tale ricostruzione discende dalla
ricostruzione, operata dalla Corte, delle norme di delegazione come norme interposte tra l’art. 76
Cost. e il decreto legislativo delegato, e cioè norme che pure non avendo grado costituzionale,
condizionano la validità di norme prodotte da fonti legislative ordinarie.
Il sindacato di legittimità costituzionale richiede un duplice processo interpretativo da parte della
corte. Più precisamente, il giudizio di conformità della norma delegata alla norma delegante si
esplica attraverso il confronto tra due processi ermeneutici paralleli, uno relativo alle norme che
determinano l'oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, l'altro relativo alle norme
introdotte dal legislatore delegato. Assunto che quest'ultimo viene completato dall'altro secondo cui:
i principi stabiliti dal legislatore delegante costituiscono non solo il fondamento ed il limite delle
norme delegate, ma anche un criterio interpretativo delle stesse: esse vanno lette nel significato
compatibile con i principi della delega.
I DECRETI LEGISLATIVI IN CASO DI GUERRA
Prevale l'opinione che assimila ai decreti legislativi delegati gli atti legislativi che il governo
potrebbe essere autorizzato a emanare in seguito al conferimento dei poteri necessari in caso di
guerra: il che significa che l'atto di conferimento da parte del Parlamento dovrebbe rivestire la
forma della legge. Naturalmente non è l'unica interpretazione che sia stata fornita, perché è stata
avanzata sia l'ipotesi di assimilare questi atti ai decreti legge, sia di ricostruirli come espressione di
una potestà legislativa propria del governo il cui esercizio è subordinato all'autorizzazione
parlamentare.
Oltre alla qualificazione dell'atto, il nodo più rilevante è la sua forza, ossia se i poteri conferiti al
governo possono giungere a sospendere o derogare alla costituzione: da questo punto di vista, le
ipotesi sugli atti normativi emanati in caso di guerra si confondono con le teorie sullo stato di
emergenza, che costituiscono una delle pagine più complesse del diritto costituzionale.
3.3. Il decreto legislativo delegato
La legge 400 del 1988 ha posto alcuni requisiti redazionali dei decreti legislativi ed ha specificato
e introdotto dei vincoli procedimentali.
L'articolo 14 di questa legge stabilisce che i decreti legislativi adottati ai sensi dell'articolo 76 della
costituzione devono contenere la denominazione di decreto legislativo, con l'indicazione nel
preambolo della legge di delegazione e della delibera del Consiglio dei Ministri e degli altri
adempimenti del procedimento prescritti dalla legge di delegazione.
Procedimento di formazione.
I decreti legislativi devono essere deliberati dal Consiglio dei Ministri e quindi vengono emanati dal
presidente della Repubblica.
È importante sottolineare che l’articolo 14.1 della legge citata, ha precisato che entro il termine
fissato dalla legge di delegazione deve avvenire l'emanazione del decreto ad opera del presidente
della Repubblica. Quindi affinché il termine sia rispettato non è sufficiente la deliberazione del
Consiglio dei Ministri, ma neppure è necessaria la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
Per consentire al capo dello Stato di esercitare la sua funzione di controllo costituzionale, il testo del
decreto legislativo adottato dal Consiglio dei Ministri deve essere trasmesso al presidente della
Repubblica per l'emanazione almeno 20 giorni prima della scadenza.
Se la delega si riferisce ad una pluralità di oggetti distinti suscettibili di separata disciplina, il
governo può esercitarla mediante uno o più decreti legislativi per uno o più degli oggetti predetti, i
quali vanno comunque tutti emanati entro il termine previsto dalla legge di delegazione.
Nel caso in cui il termine per l'esercizio della delega eccede i due anni, il governo è tenuto a
richiedere il parere delle camere sugli schemi dei decreti legislativi. Il parere è espresso dalle

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

commissioni permanenti competenti per materia entro 60 giorni, indicando specificamente le


eventuali disposizioni non ritenute corrispondenti alle direttive della legge di delegazione. Il
governo, nei 30 giorni successivi, ritrasmette, con le sue osservazioni e modificazioni, i testi alle
commissioni per il parere definitivo.
Il parere delle commissioni competenti per materia deve essere richiesto per i decreti legislativi di
riassetto normativo. Inoltre, nella maggior parte delle leggi di delegazione, il parere delle
commissioni viene richiesto indipendentemente dalla durata della delega o dal suo oggetto.
Altri pareri obbligatori. Alcune leggi di delegazione prevedono il parere della conferenza Stato-
regioni-province autonome o quelle della conferenza unificata.
USO E ABUSO DELLA DELEGAZIONE LEGISLATIVA
In linea con la generale diffidenza manifestata in assemblea costituente per il conferimento della
funzione legislativa al governo, il decreto legislativo avrebbe dovuto caratterizzarsi come fonte
destinata a disciplinare materie tecnicamente molto complesse, per le quali fosse richiesta una
specifica competenza materiale, alla quale il governo avrebbe potuto far fronte ricorrendo alle
professionalità incardinate nei ruoli della pubblica amministrazione.
Invece, il fenomeno della legislazione delegata, si è espanso tanto da sopravanzare il numero delle
leggi ordinarie.
Tale prassi è espressione del processo di trasformazione della forma di governo italiana e del
conseguente riequilibrio dei poteri a favore del governo: questa trasformazione è dovuta
dall'evoluzione bipolare del sistema politico, dall'affermazione dell'investitura popolare diretta del
presidente del consiglio e dal crescente sviluppo dell'integrazione europea che privilegia il governo
come interlocutore nazionale delle istituzioni dell'unione europea.
Per quanto riguarda la corte costituzionale essa ancora non ha posto un argine alla proliferazione
delle deroghe, ammettendo che questo strumento consenta di intervenire per disciplinare le più
diverse materie senza però indicare robusti limiti di merito e metodo normativo.

4. I decreti legislativi di attuazione statuaria


I decreti legislativi di attuazione statuaria previsti dagli statuti delle regioni speciali sono fonti
dotate di un regime e di una funzione totalmente diversi rispetto ai decreti legislativi contemplati
dall'articolo 76 della costituzione.
Gli statuti speciali, infatti, prevedono apposite commissioni paritetiche, composte da
rappresentanti del governo della Repubblica e delle rispettive regioni, aventi funzioni descritte dagli
statuti con formule diverse, ma comunque collegate all'elaborazione e all'adozione di quelle
particolari fonti normative definite decreti legislativi di attuazione statuaria o più semplicemente
norme di attuazione.
Lo statuto siciliano, per esempio, prevede che la commissione paritetica determini le norme di
attuazione. Per cui, in presenza delle norme determinate dalla commissione, nulla può aggiungere il
governo, dovendosi limitare ad approvare o meno in blocco il testo determinato in commissione.
Invece, lo statuto sardo prevede una funzione propositiva in capo alla commissione paritetica;
invece ad esempio gli statuti del Trentino Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia prevedono una
funzione delle commissioni paritetiche che corrisponde all'emissione di pareri sulle norme di
attuazione.
Natura e funzione delle norme di attuazione. Le norme di attuazione statuarie elaborate dalle
commissioni paritetiche regolano il trasferimento delle funzioni amministrative dallo Stato alla
singola regione speciale e definiscono l'assetto delle relazioni tra lo Stato e le regioni.
Abbiamo una serie di principi:
a) la competenza riservata: i decreti legislativi di attuazione statuaria sono espressione di una
competenza separata e riservata rispetto a quella esercitata con le leggi statali ordinarie. Ne deriva
che le norme così prodotte si pongono con rango non sott’ordinato a quello delle leggi ordinarie e
con la possibilità quindi di derogarvi nell'ambito della loro specifica competenza. Più precisamente,
le norme di attuazione sono dotate di forza prevalente rispetto alle leggi ordinarie e possono
configurarsi come norme interposte tra lo statuto dotato di forza costituzionale e la legge, statale o

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

regionale che sia;


b) carattere permanente dell’attribuzione: le norme di attuazione statuaria non sono espressione
di una competenza transitoria. Gli statuti consentono al governo di adottare norme di attuazione
ogniqualvolta sia ritenuto necessario. Quindi l'esercizio di questa competenza è attribuito in via
permanente;
c) funzione integrativa dello Statuto: le norme di attuazione non sono norme di mera esecuzione
dello statuto. Esse, oltre ad avere un contenuto secondum legem, quando sono esecuzione diretta
dello statuto possono avere anche contenuto praeter legem, ossia, come afferma testualmente la
corte, possono integrare le norme statuarie, anche aggiungendo ad esse qualche cosa che le
medesime non contenevano.
Da ciò emerge come la corte abbia consolidato il principio pattizio, come supremo principio
regolatore dei rapporti tra Stato e la singola regione speciale: in base a questo principio l'assetto
delle relazioni dovrà essere definito, sulla base dello statuto, mediante un accordo tra le due parti.
Il principio pattizio, certamente valido in ordine a tutto quanto attiene al trasferimento di funzioni e
di mezzi dello Stato alla regione speciale, nonché alla regolazione dell'assetto delle rispettive
competenze, vale altresì per quanto riguarda la disciplina delle loro relazioni finanziarie.
Quindi il regime dei rapporti finanziari tra Stato e regioni speciali, come affermato dalla
giurisprudenza costituzionale, è dominato dal principio dell'accordo: da ciò ne deriva una
significativa differenza tra le fonti di disciplina dell'autonomia finanziaria delle regioni speciali
rispetto a quelle delle regioni ordinarie. Mentre per queste ultime la definizione dell'autonomia di
entrata e di spesa è affidata alla legge ordinaria, per le regioni speciali lo statuto speciale e le norme
di attuazione sono le uniche fonti competenti a determinare e dettare modifiche e integrazioni
riguardanti la misura dell'autonomia finanziaria. Quindi le regioni speciali hanno un regime
finanziario differenziato rispetto alle regioni ordinarie, così come previsto per queste ultime
dall'articolo 119 della costituzione.

5. Decreto-legge e legge di conversione


5.1. Il decreto-legge e i suoi presupposti
La disciplina costituzionale. L'articolo 77.2 della costituzione stabilisce che: "quando in casi
straordinari di necessità ed urgenza, il governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti
provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle camere che,
anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni".
Il comma successivo aggiunge: "i decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in
legge entro 60 giorni dalla loro pubblicazione. Le camere possono tuttavia regolare con legge i
rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti".
Dunque la costituzione riconosce una fonte del diritto ( il decreto-legge )che nell'ordinamento
statuario si era fermato al di fuori di qualsiasi espressa disciplina normativa e che era stata, di
regola, giustificata facendo riferimento alla necessità quale fonte del diritto.
La costituzione ha ancorato l'adozione del decreto-legge alla sussistenza dei requisiti della
straordinaria necessità ed urgenza, ed ha previsto che la legge di conversione debba essere
approvata dal Parlamento entro 60 giorni dalla pubblicazione del decreto, pena la perdita di
efficacia dello stesso sin dall'inizio (ex tunc).
La prevalente dottrina continua a qualificare il decreto-legge come espressione di un potere di tipo
derogatorio rispetto alla norma generale sulla produzione legislativa che attribuisce il relativo potere
alle camere. Coerentemente con questa impostazione, la legge di conversione è stata generalmente
qualificata come novazione delle fonti, ossia sostituzione del decreto legge con la legge del
Parlamento.
Requisiti costituzionali. Al fine di rendere effettivo il carattere eccezionale del decreto-legge, è sui
requisiti costituzionali della sua emanazione che occorre far leva. Si tratta, cioè, di stabilire in che
misura il riferimento testuale ai casi straordinari di necessità ed urgenza possa servire a
circoscrivere l'ambito della potestà legislativa affidata all'esecutivo.
A questo riguardo assume rilievo il significato che si attribuisce al requisito della straordinarietà e

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

dell'urgente necessità. Secondo alcuni interpreti esso dovrebbe intendersi in senso relativo e
soggettivo: il governo, assumendosene la responsabilità politica, decide autonomamente che cosa è
da considerare necessario e urgente in relazione al suo indirizzo politico. Secondo altri, invece, i
requisiti della decretazione dovrebbero assumere un vero e proprio carattere oggettivo: la necessità
e l'urgenza sarebbero elementi costitutivi della fattispecie regolata, che per le sue caratteristiche
intrinseche non consentirebbe il ricorso all'ordine normale delle competenze normative, rendendo
“necessitato” il decreto-legge.
La prassi repubblicana si è ben presto allontanata dal modello di decreto-legge elaborato dagli
studiosi, che ne faceva uno strumento di normazione eccezionale perché derogatorio rispetto
all'ordine normale delle competenze.
La dottrina ha dovuto constatare come la prassi in materia di adozione dei decreti legge si fosse
praticamente sbarazzata del limite dei casi straordinari di necessità ed urgenza, il decreto-legge
essendo impiegato per qualunque genere di intervento normativo. Sotto questo profilo si è notato,
infatti, come il decreto-legge è diventato strumento di co-legislazione, di codeterminazione politica,
di negoziato tra governo, maggioranza e opposizione. Il governo dispone, attraverso il decreto-
legge, di un'iniziativa legislativa rafforzata.
La brevità del termine entro cui deve avvenire la conversione fa sì che il Parlamento sia costretto a
pronunciarsi in un lasso di tempo assai breve; parimenti, però, l'esigenza di evitare la decadenza del
decreto spinge il governo ad accettare, in cambio della deliberazione parlamentare entro il termine
costituzionale di 60 giorni, gli emendamenti presentati in Parlamento.
La prassi della reiterazione del decreto – legge. L'uso estesissimo della decretazione d'urgenza ha
inoltre causato un fenomeno cioè quello della reiterazione del decreto-legge: di fronte ad un
decreto-legge non convertito nei 60 giorni, il governo ne riproduceva i contenuti in uno nuovo e
così via procedendo fino a quando non fosse intervenuta la legge di conversione dell'ultimo decreto
emanato. In questo modo si sono create vere e proprie catene normative fatte da numerosi decreti
legge che creavano un corpo di norme stabili, anche se suscettibili di venire meno in mancanza di
conversione.
Il decreto-legge è stato ampiamente utilizzato anche come strumento di normazione ordinaria. Gli
obiettivi principali che il governo ha perseguito attraverso il suo impiego sono due: da una parte
rende più veloci i tempi della decisione legislativa; dall'altra forza la sua maggioranza affinché resti
composta nel dare seguito legislativo all'indirizzo governativo.

5.2. L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale sui presupposti e la prassi della


decretazione d’urgenza
Tale evoluzione del decreto-legge nella prassi repubblicana per lungo tempo non ha trovato alcun
argine nella giurisprudenza costituzionale e solo recentemente si è sviluppato un controllo più
incisivo dei presupposti costituzionali del decreto-legge.
Il primo e più risalente indirizzo giurisprudenziale escludeva la sindacabilità di qualunque vizio
proprio del decreto-legge, laddove lo stesso fosse stato ritualmente convertito in legge dal
Parlamento.
Questo indirizzo giurisprudenziale sarebbe stato espressione della tradizionale ritrosia della corte
costituzionale ad intervenire sui gangli nodali del rapporto Parlamento - governo in tema di fonti
preferendo non intervenire su questo profilo del circuito politico.
Però al riguardo è possibile ritenere che la corte abbia inteso attribuire prevalenza alla funzione di
controllo parlamentare (attraverso la forma della legge di conversione) che avrebbe consentito di
apporre comunque un sigillo di legittimità all'attività normativa del governo.
La sentenza 29/1995. Un primo importante mutamento avviene nella giurisprudenza costituzionale
nel pieno degli abusi da reiterazione, con la storica sentenza 29 del 1995. Essa ammetteva, per la
prima volta, la possibilità di dichiarare costituzionalmente illegittimo un decreto-legge a causa del
vizio di evidente mancanza dei suoi presupposti costituzionali.
In questa sentenza la corte costituzionale individuava due principi alla luce dei quali articolare il
sindacato di legittimità sui decreti legge.

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

In primo luogo essa riteneva comunque inammissibile la questione di legittimità costituzionale


sollevata relativamente a disposizioni di un decreto-legge non ricomprese nella legge di
conversione.
In secondo luogo, essa affermava il proprio potere di accertare la sussistenza in concreto dei
presupposti della necessità ed urgenza previsti dall'articolo 77 della costituzione per l'adozione dei
decreti legge, posto che la preesistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e
l'urgenza di provvedere tramite l'utilizzazione di uno strumento eccezionale , qual è il decreto-legge,
costituisce un requisito di validità costituzionale dell'adozione del predetto atto.
In questo modo la corte non solo riconosceva a se stessa la competenza di sottoporre a scrutinio di
costituzionalità la ricorrenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, ma altresì
puntualizzava che il vizio sarebbe rimasto censurabile quand'anche il decreto fosse già stato
convertito in legge, ritenuta altresì la estrema difficoltà del giudizio costituzionale ad intervenire
prima della conversione del decreto.
Successive sentenze hanno ulteriormente esteso l'ambito del sindacato esercitato dalla corte sul
decreto-legge.
La corte osservava, in particolare, come una norma contenuta in un decreto-legge potesse
comunque continuare ad essere oggetto dello scrutinio alla stessa corte affidato, quando quella
medesima norma permanga tuttora nell'ordinamento in quanto riprodotta, nella sua espressione
testuale o, comunque, nella sua identità precettiva essenziale, da altra disposizione successiva, per
esempio dal nuovo decreto-legge, alla quale ultima dovrà, dunque, referirsi la pronuncia.
Illegittimità costituzionale della reiterazione del decreto-legge. Con un'altra storica decisione la
corte sanciva l'illegittimità costituzionale della reiterazione del decreto-legge.
Più precisamente, secondo la corte, sarebbe incostituzionale un decreto-legge che non risultasse
fondato su autonomi e pur sempre straordinari motivi di necessità e urgenza, in ogni caso non
riconducibile al solo fatto del ritardo conseguente alla mancata conversione del precedente decreto.
La corte precisava infatti che
“il decreto legge reiterato lede la previsione costituzionale sotto più profili, altera la natura
provvisoria della decretazione d'urgenza procrastinando di fatto il termine invalicabile previsto
dalla costituzione per la conversione in legge e toglie valore al carattere straordinario dei requisiti
della necessità e dell'urgenza, dal momento che la reiterazione viene a stabilizzare e a prolungare
nel tempo il richiamo ai motivi già posti a fondamento del primo decreto e attenua la sanzione della
perdita retroattiva di efficacia del decreto non convertito, venendo il ricorso ripetuto alla
reiterazione a suscitare nell'ordinamento un'aspettativa circa la possibilità di consolidare gli effetti
determinati dal decreto legge”.
Tuttavia, la corte ha ritenuto il vizio da reiterazione comunque sanato quando le camere, attraverso
la legge di conversione abbiano assunto come propri i contenuti o gli effetti della disciplina adottata
dal governo in sede di decretazione d'urgenza, restando così salvi gli effetti dei decreti reiterati già
convertiti in legge.
Abuso di decretazione e forma di governo. Come rilevato dalla stessa corte, l'abuso della
decretazione d'urgenza è suscettibile di incidere sugli equilibri istituzionali nonché di alterare i
caratteri della stessa forma di governo e l'attribuzione della funzione legislativa ordinaria al
Parlamento.
In particolare la corte costituzionale insisteva nel ribadire che il vizio di costituzionalità derivante
dalla reiterazione attiene, in senso lato, al procedimento di formazione del decreto-legge in quanto
provvedimento provvisorio fondato su presupposti straordinari di necessità ed urgenza: la
conseguenza è che questo vizio può ritenersi sanato quando le camere attraverso legge di
conversione abbiano assunto come propri i contenuti o gli effetti della disciplina adottata dal
governo con il decreto d'urgenza, escludendo peraltro ogni rilievo dei presupposti di necessità e di
urgenza, posto che l'efficacia retroattiva della norma convertita in legge è tale da coprire anche il
periodo che intercorre tra la l'emanazione del decreto e la sua conversione.
Il problema della sindacabilità dei presupposti del decreto – legge. La corte ha cercato di evitare
di sindacare il mancato rispetto dei requisiti costituzionali della decretazione d'urgenza. Infatti, ha

55
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

sostenuto che gli eventuali vizi attinenti ai presupposti della decretazione d'urgenza devono ritenersi
sanati in linea di principio dalla conversione in legge; assunto in parte temperato dalla contestuale
affermazione per cui solo l'evidente mancanza di quei presupposti configura tanto un vizio di
legittimità costituzionale del decreto-legge quanto un vizio in procedendo della stessa legge di
conversione.

5.3. Le sentenze 171/2007 e 128/2008


Recentemente però la giurisprudenza costituzionale ha assunto una posizione più severa in ordine al
controllo sui presupposti straordinari di necessità ed urgenza, nelle sentenze 171 del 2007 e 128 del
2008.
Sentenza 171/2007: interconnessione tra fonti e forma di governo.
Il primo dato che la corte sottolinea è l'interconnessione tra sistema delle fonti e forma di governo.
In particolare si sottolinea come l'assetto delle fonti normative sia uno dei principali elementi che
caratterizzano la forma di governo nel sistema costituzionale. Esso è correlato alla tutela dei valori
e diritti fondamentali. La nostra costituzione in particolare stabilisce che la funzione legislativa è
esercitata collettivamente dalle due camere ma in determinate situazioni o per particolari materie,
attesi i tempi tecnici che il normale svolgimento della funzione legislativa comporta, o in
considerazione della complessità della disciplina di alcuni settori, l'intervento del legislatore può
essere posticipato.
Emerge così il legame tra previsioni contenute negli articoli 70 e 77.2 e 3 della costituzione: è nel
prevedere e regolare l'ipotesi che il governo, in casi straordinari di necessità e di urgenza, possa
adottare provvedimenti provvisori con forza di legge che si evidenzia, infatti, il carattere
derogatorio della relativa disciplina rispetto all'essenziale attribuzione al Parlamento della funzione
di porre le norme primarie nell'ambito delle competenze dello Stato centrale.
“semplice” mancanza vs. “evidente” mancanza dei requisiti. Nella sentenza 171 del 2007 trova
conferma quella giurisprudenza costituzionale alla stregua della quale la corte aveva elaborato due
diversi tipi di vizi: quello relativo alla semplice mancanza dei requisiti costituzionali e quello della
evidente mancanza che è invece sindacabile da parte del giudice costituzionale anche dopo
l'avvenuta conversione del decreto, mentre il primo può essere fatto valere unicamente solo
nell'ambito del rapporto di responsabilità politica tra governo e Parlamento.
Comunque è la stessa corte a dare atto della già richiamata scarsa tenuta della disciplina
costituzionale dei presupposti del decreto-legge.
È per questa elasticità intrinseca alla norma, dunque, che la corte è stata indotta a considerare
censurabile il vizio della mancanza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza di un
decreto già convertito in legge solo allorquando questa mancanza risulti ,appunto, evidente.
Il vulnus alle prerogative del Parlamento non è sanabile. Questo orientamento è ribadito ed
arricchito dalla corte nella successiva sentenza 128 del 2008 in cui si precisa che la conversione del
decreto-legge non può avere un'efficacia sanante, perché ciò significherebbe attribuire al legislatore
ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del
governo quanto alla produzione legislativa.
La corte, tuttavia, ha avuto cura di precisare che il suo controllo si limita agli aspetti di evidente
carenza dei requisiti e deve basarsi su indici testuali, interni o esterni al decreto, quali: l'epigrafe e
il preambolo del decreto; la relazione illustrativa del disegno di legge di conversione; il resoconto
del dibattito parlamentare.
Infine la corte ha affermato che l’urgenza può essere anche solo relativa. In questo modo la corte
sembra evocare quell’orientamento dottrinale secondo cui necessità e urgenza sono dipendenti da
una valutazione politica espressa dal governo in ordine alla riconducibilità di determinati interventi
al proprio indirizzo politico. Quindi il requisito assumerebbe una caratterizzazione soggettiva e
relativa: cioè è urgente e necessario ciò che così appare al governo.
I PRINCIPI FISSATI DALLA CORTE COSTITUZIONALE: UN QAUDRO D’INSIEME
Riassumendo, alla luce dell'attuale giurisprudenza costituzionale, sembrano operare i seguenti
principi:

56
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

- i presupposti costituzionali della decretazione d'urgenza sono sindacabili dalla corte anche dopo la
conversione da parte del Parlamento;
- la mancanza dei presupposti vizia sia il decreto che la legge di conversione;
- il controllo della corte è diverso da quello del Parlamento, perché colpisce solo i casi di evidente
carenza dei requisiti;
- il sindacato della corte è effettuato mediante indici interni al decreto(epigrafe, preambolo) ed
esterni allo stesso (lavori preparatori);
- la necessità e l'urgenza possono essere valutate anche in un'ottica relativa;
- non è tuttavia sufficiente che la necessità e l'urgenza siano solo affermate apoditticamente, ne
rileva che la disciplina possa risultare in sé ragionevole.

5.4 I limiti della decretazione d’urgenza tra diritto e rapporti politici


“Evidenza” dei presupposti e “omogeneità” delle norme. Parte della dottrina ha dato atto alla
corte costituzionale di aver infranto il tabù del controllo sul decreto-legge. La dichiarazione di
illegittimità costituzionale di una disposizione di un decreto-legge già convertito, per carenza di
presupposti, manifesta un nuovo orientamento della Corte su un profilo assai delicato del circuito
Parlamento-governo. Potrebbe osservarsi, però, come la corte faccia discendere l’annullamento
delle norme del decreto “dal previo accertamento della evidente mancanza dei presupposti
suddetti”, così collocandosi su un crinale sottilissimo tra lo sconfinare in valutazioni di merito
politico e la rinuncia a far valere i limiti costituzionali. Questo crinale legge sul requisito della
evidenza, che àncora il giudizio della corte a dati normativi esteriori; però l'evidenza indica
l'ulteriore requisito della omogeneità delle norme, l'indice più sicuro cui fare capo al fine del
riconoscimento suddetto.
In questo modo, però, la corte si imbatte in non poche difficoltà teoriche e pratiche.
Il punto centrale sembra essere che dietro un sistema di poteri formali espressi nell'organizzazione
delle fonti normative deve necessariamente esistere un equilibrio di poteri reali,sicchè i poteri
formali tenderanno a spostarsi ed il sistema delle fonti a ridimensionarsi ogniqualvolta si spostano e
si ridimensionano i suddetti equilibri esistenti tra le forze reali del sistema costituzionale.
L’art. 15 della legge 400/1988. Ciò può valere anche per il tentativo esperito dell'articolo 15 della
legge 400 del 1988, di disciplinare la decretazione d'urgenza, introducendo vincoli e limiti:
a) i decreti legge sono presentati per l'emanazione al presidente della repubblica, con la
denominazione “decreto legge” e con l'indicazione, nel preambolo, delle circostanze straordinarie di
necessità e di urgenza che ne giustificano l'adozione;
b) i decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere
specifico, omogeneo e corrispondente al titolo;
c) le modifiche eventualmente apportate al decreto legge in sede di conversione hanno efficacia dal
giorno successivo alla pubblicazione della legge di conversione;
d) il ministro di Grazia e giustizia cura che del rifiuto di conversione o della conversione parziale,
purché definitiva, nonché della mancata conversione per decorrenza del termine sia data immediata
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
Inoltre, lo stesso articolo pone il divieto di ricorrere alla decretazione d'urgenza in determinate
materie.
Il governo non può, con decreto-legge, conferire deleghe legislative, provvedere alle materie in cui
c'è riserva d'assemblea (cioè in base all'articolo 72 della costituzione, la materia costituzionale ed
elettorale, la delegificazione legislativa, l'autorizzazione a ratificare trattati internazionali,
l'approvazione di bilanci e consuntivi). Il governo non può rinnovare le disposizioni di decreti legge
dei quali sia stata negata la conversione in legge con il voto di una delle due camere, né può
regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti-legge non convertiti e ripristinare l'efficacia
di disposizioni dichiarate illegittime dalla corte costituzionale.
Qual è il valore giuridico di questi divieti? Essi sono posti con legge ordinaria, con la conseguenza
che potrebbe sostenersi che il decreto-legge possa benissimo derogarvi. I divieti quindi sarebbero
privi di reale operatività giuridica, una mera dichiarazione di intenti e nulla di più.

57
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

Di contro, però, può osservarsi quanto segue. In primo luogo che alcuni di questi divieti sembrano
impliciti nella stessa costituzione. Così il decreto-legge non può recare deleghe legislative perché
sarebbe un caso macroscopico di evidente mancanza dell'urgenza, oltre che violazione della riserva
di legge formale. Riprodurre le norme dichiarata incostituzionale dalla corte violerebbe le
attribuzioni costituzionalmente garantite del giudice costituzionale. Rinnovare le disposizioni di un
decreto-legge non convertito incorrerebbe nel divieto di reiterazione. E così via.
Più controverso è il caso della “materia elettorale”, anche perché da una decisione della corte essa
pare un possibile oggetto di decreto-legge e nella prassi il ricorso al decreto-legge per rendere
effettuabili le operazioni elettorali appare piuttosto frequente.
L'articolo 15 della legge 400 del 1988, quindi, può essere impiegato per corroborare
l'interpretazione costituzionale che porta ai divieti che abbiamo elencato.
L’ULTIMO PASSO DELLA CORTE: LA SENTENZA 22/2012
Molta difficoltà hanno incontrato le Regioni nel far valere i vizi formali degli atti legislativi, e dei
decreti legge in particolare.
La sentenza 22 del 2012 però, per la prima volta, accoglie i rilievi di una regione relativi alla
violazione dell'articolo 77 della costituzione e, di conseguenza, dichiara l'illegittimità della legge di
conversione del decreto legge. Infatti le disposizioni oggetto del ricorso sono state introdotte per
effetto di emendamenti approvati in sede di conversione, e regolano i rapporti finanziari tra Stato e
regioni in materia di protezione civile non con riferimento a specifici eventi calamitosi “ma in via
generale e ordinamentale”: si tratta quindi di una normativa “a regime”, del tutto slegata da
contingenze particolari, inserita tuttavia nella legge di conversione di un decreto-legge denominato
"Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e
di sostegno alle imprese alle famiglie".
Si tratta di uno dei tanti decreti “milleproroghe”, di cui si parlerà dopo.

5.5. La legge di conversione


La legge di conversione come novazione della fonte: critica. Il decreto-legge perde efficacia fin
dall'inizio se non è convertito in legge entro 60 giorni dalla sua pubblicazione. La legge di
conversione è stata configurata dalla prevalente dottrina come una vera e propria novazione della
fonte: quindi essa sostituirebbe il decreto legge con la legge nel disciplinare l'oggetto già regolato
dal decreto.
Questa ricostruzione, però, suscita più di una perplessità.
In primo luogo, perché utilizza una nozione eminentemente privatistica che ha esclusivo riferimento
ai rapporti obbligatori. La novazione infatti, è un modo di estinzione di un'obbligazione cui si
accompagna la costituzione di un'obbligazione nuova che si sostituisce all'originaria.
In secondo luogo, perché la legge di conversione più che un effetto innovativo ha un effetto
conservativo, stabilizza cioè nell'ordinamento la disciplina che vi ha introdotto il decreto-legge.
In terzo luogo, perché l'idea della novazione pare muovere dal presupposto del decreto-legge come
fattore di alterazione dell'ordine naturale delle competenze legislative, che non sembra del tutto in
linea con la complessiva crescita dei poteri normativi del governo.
La legge di conversione come sanatoria di un atto invalido: critica. A maggior ragione
criticabile è la tesi di chi ritiene che la legge di conversione vada qualificata come vera e propria
conversione di un atto invalido. Tesi che muove dal presupposto che il decreto-legge sia atto
invalido, fin dalla sua emanazione e che, perciò, debba essere sostituito fin dall'inizio dalla legge di
conversione. In realtà questa impostazione non ha trovato seguito nella giurisprudenza
costituzionale e nella prassi, e poi trova ostacolo nella circostanza che il decreto-legge è previsto
dalla costituzione.
La legge di conversione come “tipo” a sé stante di legge. In realtà la legge di conversione rientra
tra le leggi del Parlamento dotate di caratteristiche particolari. Si tratta quindi di un tipo di legge,
che produce effetti peculiari e che incontra precisi limiti alla sua portata normativa.
Si tratta di una legge il cui effetto principale è quello di stabilizzare gli effetti del decreto-legge.
Il che è rispecchiato dalla prassi secondo cui la legge di conversione reca un solo articolo che

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

dispone la conversione del decreto. Quindi il decreto legge mantiene la sua distinta veste formale,
anche dopo l'approvazione della legge di conversione. La legge di conversione si aggiunge al
decreto-legge senza sostituirlo.
Conversione con emendamenti. Le precedenti considerazioni non hanno valore meramente
teorico, ma hanno, invece, precise conseguenze pratiche.
La prima è che la legge di conversione può contenere anche delle modifiche alla disciplina
predisposta dal decreto-legge: in altri termini, il disegno di legge di conversione, che contiene
l'articolo sulla conversione del decreto, può essere modificato dal Parlamento e nonostante qualche
opinione della dottrina che lo negava, questa possibilità è sempre stata confermata dalla prassi.
I DECRETI “MILLEPROROGHE” E I LORO LIMITI COSTITUZIONALI
Nella sentenza 22 del 2012, la corte dichiara l'illegittimità della legge di conversione di un decreto
milleproroghe, ossia di uno dei frequenti decreti-legge omnibus, con cui si modificano decine e
decine di norme vigenti.
Oltre alla questione della impugnabilità da parte delle regioni(come visto nel precedente specchio),
la corte affronta altri due problemi: uno relativo all'omogeneità del decreto-legge; l'altro ai limiti
della sua emendabilità.
Citando i propri precedenti, la corte ribadisce che “la semplice immissione di una disposizione nel
corpo di un decreto-legge oggettivamente unitario non vale a trasmettere, per ciò solo, alla stessa il
carattere di urgenza proprio delle altre disposizioni, legate tra loro dalla comunanza di un oggetto o
di finalità”, perché l'inserimento “di norme eterogenee all'oggetto o alla finalità del decreto spezza il
legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal governo dell'urgenza del provvedere ed i
provvedimenti provvisori con forza di legge”, di cui alla norma costituzionale citata.
Il presupposto del caso straordinario e urgenza inerisce sempre e soltanto al provvedimento inteso
come un tutto unitario, atto normativo fornito di intrinseca coerenza, anche se articolato e
differenziato al suo interno. La scomposizione atomistica della condizione di validità prescritta
dalla costituzione si pone in contrasto con il necessario legame tra il provvedimento legislativo
urgente e il caso che lo ha reso necessario, trasformando il decreto-legge in una congerie di norme
assemblate soltanto da mera casualità temporale.
I cosiddetti decreti “milleproroghe”, che, con cadenza ormai annuale, vengono convertiti in legge
dalle camere, sebbene attengano ad ambiti materiali diversi ed eterogenei, devono obbedire alla
ratio unitaria di intervenire con urgenza sulla scadenza di termini il cui decorso sarebbe dannoso per
interessi ritenuti rilevanti dal governo e dal Parlamento, o di incidere su situazioni esistenti che
richiedono interventi regolatori di natura temporale: altrimenti “le stesse ben potrebbero essere
contenute in atti normativi urgenti del potere esecutivo distinti e separati”.
L'obbligo di coerenza, osserva la corte, si riflette anche sui limiti di ammissibilità degli
emendamenti.
“La necessaria omogeneità del decreto-legge, la cui interna coerenza va valutata in relazione
all'apprezzamento politico, operato dal governo e controllato dal parlamento, del singolo caso
straordinario di necessità e urgenza, deve essere osservata dalla legge di conversione”: e la corte
cita sia le norme regolamentari dirette a bloccare le presentazioni di emendamenti che superano tali
limiti, sia i casi in cui tali limiti sono stati fatti valere dal presidente della Repubblica in sede di
promulgazione della legge di conversione.
È un monito importante anche per la ricaduta che potrebbe avere per i cosiddetti maxi-
emendamenti che sempre più di frequente il governo presenta alle camere (anche al di fuori del
procedimento di conversione dei decreti legge), forzandone l'approvazione ponendo la fiducia sulla
loro approvazione
Si pone però il problema dell'efficacia degli emendamenti. A lungo si è dibattuto se, alcuni di essi,
avessero efficacia retroattiva. Escluso, però, che la legge di conversione si sostituisca fin dall'inizio
al decreto-legge, deve concludersi che per la legge di conversione vale il principio generale per cui
la legge dispone solo per il futuro, salvo espresse previsioni di segno diverso. Conclusione che poi è
stata formalizzata dall'articolo 15 della legge 400 del 1988 secondo cui gli emendamenti hanno
efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione, a meno che

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

questa non disponga diversamente.


Tutto ciò sembra certamente applicarsi agli emendamenti aggiuntivi, modificativi e sostitutivi.
Un ragionamento diverso va fatto per gli emendamenti soppressivi, perché essi equivalgono alla
parziale mancata conversione del decreto legge per cui essi non potrebbero avere efficacia
retroattiva ai sensi dell'articolo 77 della costituzione.
La legge di conversione non sana i vizi del decreto-legge. La legge di conversione poi incontra i
limiti che derivano dalla sua intima connessione al decreto-legge, nell'ambito del complessivo
meccanismo di produzione normativa delineato dall'articolo 77 della costituzione.
Quindi la legge di conversione non può sanare i vizi del decreto-legge nel caso di reiterazione non
giustificata e di evidente mancanza dei requisiti costituzionali e ove il decreto-legge riguardi oggetti
ad esso costituzionalmente preclusi.

5.6. La decadenza del decreto-legge


Ove la legge di conversione non venga approvata entro il termine costituzionale il decreto perde
efficacia sin dall'inizio.
Il ministro della giustizia cura che del rifiuto di conversione o della conversione parziale, nonchè
della mancata conversione per decorrenza del termine, sia andata immediatamente pubblicazione
sulla gazzetta ufficiale.
Effetti della mancata conversione. La mancata conversione fa si che le norme del decreto-legge
non potranno più trovare applicazione, anche con riguardo a fatti verificatesi durante la vigenza del
decreto. Al riguardo la corte ha sostenuto che l'articolo 77 in nessun caso considera la norma dettata
con decreto-legge non convertito come norma in vigore nel tratto di tempo che va dalla data iniziale
del decreto-legge a quella dell'evento implicante la mancata conversione.
Se nel periodo di vigenza, prima della mancata conversione, sulla base del decreto-legge saranno
stati compiuti degli atti questi dovranno essere rimossi e sarà onere degli interessati agire per
ottenerne la rimozione dal circuito giuridico.
Infine l'articolo 77 prevede che, nel caso di mancata conversione, il Parlamento possa regolare con
legge i rapporti sulla base del decreto non convertito.
La cd. la legge di sanatoria è però ben diversa dalla legge di conversione, in quanto essa ha per
presupposto proprio la mancata conversione. Essa , dunque, non ha il compito di confermare e
stabilizzare la disciplina da essa dettata per il futuro, ma si rivolge essenzialmente al passato, per
porre rimedio alle conseguenze della decadenza del decreto-legge rispetto ai rapporti giuridici sorti
sulla sua base.
La corte costituzionale ha fermato anche che la sanatoria provvede soltanto a cristallizzare, una
volta per tutte, gli effetti prodotti a suo tempo dai decreti decaduti ma non può disporre in ordine a
rapporti futuri.
Naturalmente gli spazi entro cui la legge di conversione può muoversi sono strettamente delimitati
dalle norme costituzionali: specialmente dal principio di eguaglianza, che vieterebbe al legislatore
di procede alla semplice “convalida” degli effetti prodotti dal decreto decaduto con la conseguenza
di produrre un trattamento deteriore per i soggetti che li hanno subiti rispetto al resto degli
individui.

6. Il referendum abrogativo come fonte primaria


Classificare il referendum abrogativo tra gli atti con forza di legge non è da tutti accettato, anche se
la corte costituzionale non ha esitato a qualificarlo “atto-fonte dell'ordinamento”.
Il referendum va citato nella trattazione delle fonti non solo perché esso ha la funzione di abrogare
le leggi e gli atti equiparati e quindi svolge una funzione di “legislazione negativa”, come si diceva
un tempo.
I referendum manipolativi. La corte stessa ha sollecitato i promotori dei referendum a proporre
quesiti manipolativi in tutte quelle circostanze in cui un'abrogazione secca della legge o di sue
disposizioni non sarebbe stata ammessa, perché avrebbe causato la paralisi di organi costituzionali o
il venir meno di delicati e necessari bilanciamenti tra interessi costituzionali. Inoltre al fine di

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

rendere omogeneo il quesito referendario, la giurisprudenza costituzionale impone ai promotori di


incamminarsi lungo la via di una legislazione “in positivo”, cioè di non limitarsi a cercare di
demolire il testo legislativo, ma di inciderlo strategicamente, in modo da ricavarne una disciplina
del tutto nuova.
Decorrenza dell’effetto abrogativo. L'effetto abrogativo non consegue direttamente dal voto
popolare. Se il risultato è favorevole all'abrogazione, il presidente della Repubblica, con proprio
decreto, dichiara l'avvenuta abrogazione della legge, dell'atto o della disposizione.
Il decreto del presidente della Repubblica è pubblicato immediatamente in Gazzetta Ufficiale e
l'abrogazione ha effetto dal giorno successivo alla data di pubblicazione; tuttavia il presidente della
Repubblica, su proposta del governo, può ritardare l'entrata in vigore dell'abrogazione per un
termine non superiore a 60 giorni dalla data di pubblicazione.
Così si rischierebbe però di vanificare il risultato del referendum stesso, il che non potrebbe
considerarsi costituzionalmente ammissibile: la Corte costituzionale, di fronte all'ipotesi di un atto
legislativo che procrastinava il termine di decorrenza dell'abrogazione decisa dal referendum, ha
avuto modo di sottolineare che non sarebbe consentito al legislatore “la scelta politica di far
rivivere la normativa ivi contenuta a titolo transitorio”, per cui è evidente che una norma del
genere sarebbe senz'altro destinata ad essere censurata per illegittimità.
Vincolo giuridico conseguente all’abrogazione referendaria. Molto più complesso è determinare
però come possa essere configurato il vincolo giuridico derivante dall'esito favorevole del
referendum.
Pur essendo chiaro che un referendum che ha ricevuto il consenso della maggioranza del corpo
elettorale esercita un peso politico di assoluta rilevanza, appare molto difficile trasporre questa
considerazione sul piano dell'efficacia degli atti.
La corte ritiene che a seguito dell'abrogazione referendaria, l'intervento del legislatore sia consentito
e talvolta opportuno per migliorare il funzionamento della normativa di risulta, poiché “egli
conserva il potere di intervenire nella materia oggetto di referendum senza limiti particolari che
non siano quelli connessi al divieto di far rivivere la normativa abrogata”. Inoltre la corte ritiene
che “la normativa successivamente emanata dal legislatore è pur sempre soggetta all'ordinario
sindacato di legittimità costituzionale, e quindi permane comunque la possibilità di un controllo di
questa corte in ordine all'osservanza dei limiti relativi alla dedotto divieto di formale o sostanziale
ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare”.
La dottrina appare in larga parte favorevole ad accettare questo divieto. Tuttavia il giudizio di
legittimità sull'eventuale nuova legge dovrà instaurarsi per le vie ordinarie, avendo la corte negato
che il comitato dei promotori mantenga la legittimazione al conflitto di attribuzione oltre la
conclusione del procedimento referendario, sino al punto di “interferire direttamente sulla volontà
del Parlamento a garanzia di un corretto rapporto tra i risultati del referendum e gli ulteriori
sviluppi legislativi”.
Resta però un altro difficile quesito: fino a quando vale il divieto per il legislatore di ripristinare la
normativa data? “La preclusione non potrebbe di certo protrarsi in eterno”, ed infatti la corte ha
osservato che il legislatore, “pur dopo l'accoglimento della proposta referendaria, conserva il potere
di intervenire nella materia oggetto di referendum senza limiti particolari che non siano quelli
connessi al divieto di far rivivere la normativa abrogata”; su questo punto resta quindi da capire
quando la preclusione possa ritenersi cessata e la dottrina è particolarmente divisa.
L'unico spunto che la corte costituzionale suggerisce è un criterio assai vago quando nega che il
ripristino della norma abrogata possa trovare una giustificazione, cioè che “sussistano condizioni
tali da giustificare il superamento del predetto divieto di ripristino, tenuto conto del brevissimo
lasso di tempo intercorso tra la pubblicazione dell'esito della consultazione referendaria e
l'adozione della nuova normativa, ora oggetto di giudizio, nel quale peraltro non si è verificato
nessun mutamento idoneo a legittimare là e reintroduzione della disciplina abrogata”.
Il divieto di ripristinare la norma abrogata per referendum non è dunque assoluto ma la sua deroga
sarà comunque sottoposta ad una verifica particolarmente severa della corte costituzionale.
PUO’ UN REFERENDUM ABROGATIVO DETERMINARE LA “REVIVISCENZA” DI

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

NORME ABROGATE?
La corte costituzionale, con la sentenza 13 del 2012, ha affrontato il problema se un referendum
abrogativo possa determinare la “reviviscenza” di norme abrogate dalla legge oggetto del
referendum.
L'occasione di questa pronuncia è stata data da due richieste di referendum abrogativo secondo cui
l'abrogazione della legge 270 del 2005, totale oppure parziale, avrebbe determinato la reviviscenza
delle precedenti disposizioni delle leggi elettorali del 1993 abrogate alla legge 270 del 2005.
La corte ha richiamato la sua giurisprudenza secondo cui non sono ammissibili referendum
abrogativi di leggi elettorali se dall'abrogazione discende un vuoto che non permetta la
ricostituzione di organi necessari secondo la costituzione (come il Parlamento).
Proprio in base a tale ricostruzione la corte ha ammesso un referendum parziale se la “normativa di
risulta”, dopo aver tolto le disposizioni abrogate, è sufficiente per tenere la consultazione elettorale.
La corte, negando decisamente che possa aversi reviviscenza delle norme precedentemente
abrogate, ha dichiarato inammissibili i due referendum in quanto mancava la cosiddetta
“autoapplicatività della normativa di risulta”.

CAP 6
LE FONTI DELLE AUTONOMIE
1. La potestà legislativa nella Costituzione del 1948: storia di un fallimento
Potere legislativo e autonomia politica. L'invenzione delle regioni da parte del costituente del
1948 era motivata dal desiderio delle maggiori forze politiche di preservarsi, in caso di sconfitta, un
minimo di autonomia politica arroccandosi nei territori in cui ognuna di esse era tradizionalmente
più radicata. Però l'autonomia politica di un'amministrazione pubblica locale sussiste soltanto se e
nella misura in cui essa possa distaccarsi dall'indirizzo politico deciso dalla maggioranza politica
che occupa il Parlamento nazionale e vota le sue leggi: perciò l'autonomia politica postula
l'autonomia legislativa.
Ciò basta a spiegare perché, nel modello tracciato dal titolo V della costituzione del 1948, la
definizione degli ambiti di autonomia legislativa delle regioni e dei condizionamenti che essa
subisce da parte della legislazione statale, acquisti un ruolo centralissimo. E spiega anche perché ci
si ponga il problema di regolare l'eventuale conflitto tra l'indirizzo politico espresso dalla singola
legge regionale e l'indirizzo politico condiviso dalla maggioranza in Parlamento, individuando la
via procedimentale attraverso di cui far prevalere l'interesse nazionale.
LEGITTIMITA’ E MERITO NELLA COSTITUZIONE DEL 1948
Secondo il vecchio titolo V, nell'esercizio della loro potestà legislativa le regioni incontravano limiti
di diverso tipo.
Innanzitutto si doveva distinguere i limiti di legittimità e i limiti di merito: i primi potevano essere
fatti valere dal governo davanti alla corte costituzionale, mentre i secondi di fronte alle camere. I
limiti di legittimità erano in parte generali, validi quindi per ogni tipo di legge locale, in parte
specifici dei vari livelli di potestà, livelli che, proprio in forza di questi limiti specifici, si
distinguono l'uno dall'altro.
I limiti generali erano comuni a tutte le regioni perché connessi in parte alla natura della legge
regionale come fonte primaria (il limite costituzionale), in parte alla natura dell'ente regione come
ente derivato (il limite degli obblighi internazionali), territoriale (limite territoriale), a competenza
limitata (limite delle materie).
I limiti specifici portavano a distinguere, in ragione del minore o maggiore vincolo che il legislatore
regionale trovava nella legge dello Stato, tra la potestà primaria o esclusiva, riservata alle sole
regioni speciali, la potestà concorrente o ripartita e la potestà attuativa o integrativa, legata al
completo rispetto della legge statale.
Il limite di merito avrebbe dovuto essere fatto valere quando la legge regionale risultava in
contrasto con l'interesse nazionale o con quello di altre regioni e trattandosi di un contrasto tra
indirizzi politici avrebbe dovuto essere deciso dal supremo organo politico nazionale, ossia il
Parlamento.

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

Il disegno costituzionale del 1948 era chiaro e perfettamente leggibile, ma solo in astratto: nel
concreto dell'esperienza attuativa esso si è dimostrato impraticabile. Perché muoveva dall'idea che
si potessero dividere i campi rispettivi della legge statale e della legge regionale attraverso due
strumenti: l'elencazione delle materie di competenza regionale e la distinzione tra norme di
principio e norme di dettaglio, ricadenti invece nella competenza della regione.
Così definiti i confini dei campi, era poi affidato alla corte costituzionale il compito di vigilare sugli
eventuali sconfinamenti, attraverso giudizi condotti in termini di pura legittimità.
L'elenco delle materie contenute nell'articolo 117 nel suo testo originario hanno però registrato un
evidente fallimento nella loro funzione di strumenti di delimitazione delle competenze. Le materie
erano indicate attraverso etichette, le quali però dicono poco o niente, sono una "pagina bianca"
che ha bisogno di essere scritta, ma senza indicazioni circa le modalità e le procedure della scrittura
di contenuti, la quale è una attività ad elevato tasso di discrezionalità politica, cioè legislativa.
Il trasferimento delle funzioni amministrative. Il legislatore statale ha riempito di contenuti le
materie di competenza regionale soprattutto attraverso i decreti di trasferimento delle funzioni
amministrative.
I DECRETI DI TRASFERIMENTO DELLE FUNZIONI
I decreti di trasferimento delle funzioni, degli uffici e del personale sono atti con forza di legge
deliberati dal governo.
Il trasferimento alle regioni ordinarie si compie con il normale meccanismo della delega legislativa;
per cui il procedimento si apre con una legge di delega votata dalle camere, la quale detta principi e
regole procedurali per la sua attuazione.
Diverso è il meccanismo con cui si trasferiscono le funzioni alle regioni speciali: i loro rispettivi
statuti prevedono che le norme di attuazione dello statuto siano emanate con decreto legislativo
deliberato dal Consiglio dei Ministri ma predisposto da una commissione paritetica composta da
membri designati dalla regione e dal governo. Sono quindi atti contrattati tra governo e regione,
senza un (necessario) passaggio in Parlamento.
Per quanto riguarda le regioni ordinarie, sia i trasferimenti delle funzioni del 1972, sia quelli del
decreto legislativo 616 del 1977, sia i più recenti decreti Bassanini, hanno operato “ritagli” nelle
materie elencate dal vecchio articolo 117 della costituzione, escludendo dal trasferimento settori,
funzioni, compiti che lo Stato ha trattenuto a sé.
La giustificazione di questi “ritagli” è stata sempre ispirata dall'esigenza di preservare l'interesse
nazionale. Di volta in volta la corte costituzionale era chiamata valutare se l'affermazione che una
determinata funzione è di “interesse nazionale” (e richiede quindi una disciplina unitaria) fosse o
meno ragionevole: un giudizio svolto alla stregua del “variabile livello degli interessi” (quello
nazionale, quello regionale, e quello esclusivamente locale) che costituiva l'antesignano dell'attuale
criterio di sussidiarietà.
Principi e interessi. Ma anche l'altro strumento di ripartizione di competenze fra la legge statale e
quella regionale non si sottrae alla considerazione degli interessi: ciò che è “principio” (“principio
fondamentale”” per le materie di competenza concorrente; ma anche “principio generale
dell'ordinamento” o “norma fondamentale delle grandi riforme” per le materie su cui le regioni
speciali hanno competenza esclusiva) può essere distinto da ciò che invece è norma “di dettaglio”
solo in base a valutazioni svolte sul filo dell'opportunità che una determinata norma sia applicata su
tutto il territorio nazionale oppure tolleri variazioni territoriali.
Dunque l'interesse nazionale, previsto dal costituente come un limite di natura prettamente politica
da far valere di fronte al Parlamento in reazione a singole leggi regionali gravemente lesive
dell'indirizzo politico nazionale, si è trasformato in un elemento indispensabile e decisivo per la
definizione di limiti preventivi, generali e astratti che determinano la legittimità di ogni legge
regionale e che possono essere fatti valere dal giudice delle leggi.
Come ha stabilito la corte nella fondamentale sentenza 177 del 1998 inoltre sempre in
considerazione dell'interesse nazionale, “lo Stato può legittimamente adottare una disciplina
legislativa di dettaglio anche nell'ambito di materie attribuite in via generale alla competenza
regionale (o provinciale)”. Inoltre aggiunge che “l’interesse nazionale è un concetto dal contenuto

63
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

elastico e relativo, che non si può racchiudere in una definizione generale dai confini netti e chiari.
Esso quindi può giustificare interventi del legislatore statale di ordine tanto generale e astratto
quanto dettagliato e concreto”.

2. La riforma del 2001 e le sue contraddizioni


Necessità della riforma costituzionale. Il generale consenso sull'urgenza di una riforma del titolo
V della costituzione nasceva dalla constatazione del fallimento del progetto originario: infatti la
confusione tra legittimità e merito che si era venuta producendo era data dalla fragilità degli
elementi fissati nel testo costituzionale per la distinzione delle attribuzioni rispettive dello Stato e
delle regioni.
La riforma introdotta dalla legge costituzionale 3 del 2001 però, pur innovando profondamente il
complesso dei rapporti tra Stato, regioni ed enti locali, sembra ignorare le cause dell'insuccesso
dell'assetto costituzionale originario. Difatti non vengono rimosse le cause della debolezza del
disegno originale. Consideriamo i seguenti aspetti:
a) la perdurante centralità delle “materie”: gli elenchi delle materie costituiscono ancora lo
strumento essenziale con cui si pretende di delimitare le sfere di attribuzione legislativa. Ora le
materie elencate indicano non più le competenze regionali, ma quelle assegnate allo Stato come
potestà legislativa esclusiva o concorrente; le cosiddette etichette usate in larghissima parte sono
inedite, dato che le materie elencate dal vecchio articolo 117 sono ormai tutti o quasi da ritenersi
assorbite nel novero indefinito delle competenze attribuite in via residuale alle regioni.
All'intrinseca indeterminatezza delle etichette si aggiunge così anche l'ulteriore incertezza derivante
dalla novità delle denominazioni che impedisce di sfruttare ciò che nei decenni passati si era
consolidato tanto in via giurisprudenziale che legislativa.
b) principio e dettaglio nelle materie concorrenti: La distinzione tra norma di principio e norma
di dettaglio resta l'unico strumento con cui si possono distinguere le competenze dello Stato e delle
regioni nelle materie concorrenti.
c) la cancellazione della supremazia dell’interesse nazionale e l’assenza di meccanismi di
coordinamento:
La cancellazione di qualsiasi accenno all'interesse nazionale dal testo costituzionale non cancella
però il fondamento più profondo della prevalenza delle esigenze unitarie sulle ragioni
dell'autonomia, cioè di quelle esigenze di carattere unitario, che trovano formale e solenne
riconoscimento nell’articolo 5 della costituzione. Siccome questo articolo non è stato toccato dalla
riforma, i principi che esso incorpora restano accreditati. La cura delle esigenze unitarie, secondo
gli insegnamenti della corte, si attua anzitutto attraverso l'esplicita enunciazione dei principi
fondamentali, di cui allo stesso articolo 117. Ma, a prescindere dall'ambiguità insita in ogni rinvio
alla definizione in via legislativa dei principi fondamentali, di cui già si è detto, va comunque
osservato che, dopo la riforma, lo strumento dei principi fondamentali resta disponibile solo per le
materie di potestà legislativa concorrente.
Per quanto riguarda invece la potestà legislativa residuale, le esigenze unitarie non possono più
essere assicurate per questa via, dato che, a prendere alla lettera la legge di riforma, su queste
materie lo Stato avrebbe perso competenza legislativa.
Il desiderio della riforma costituzionale di disegnare una svolta nei rapporti tra Stato, regioni e
autonomie locali non può giustificare che si ignorino i problemi che l'organizzazione di tali rapporti
ha rilevato, lasciandoli privi di una soluzione. Il nuovo titolo V ha dimenticato il problema del
coordinamento e della collaborazione; del dittico supremazia-collaborazione ha preso in
considerazione solo la prima parte, per attenuarne la portata, e ha del tutto trascurato la seconda.
Inoltre aver tolto ogni menzione dell'interesse nazionale e aver dimenticato ogni accenno alla
collaborazione e al coordinamento non aiuta a risolvere giuridicamente il problema e scarica
nuovamente sulla corte costituzionale il peso di scrivere i troppi tratti mancanti al disegno
costituzionale.

3. La potestà esclusiva dello Stato rivista dalla giurisprudenza costituzionale

64
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

…e “materie trasversali”. La riscrittura intrapresa dalla corte costituzionale ha iniziato dalle


materie esclusive dell'articolo 117.2. Come la dottrina aveva anticipato, era necessario distinguere
tra materie e non materie, con riferimento a quelle etichette che in realtà indicano un obiettivo,
compiti, scopi, punti di vista da cui considerare le tematiche sociali. La corte costituzionale ha
affermato chiaramente che non tutte le materie sono realmente delle materie: “non tutti gli ambiti
materiali specificati nel secondo comma dell'articolo 117 possono, in quanto tali, configurarsi
come materia in senso stretto”.
La distinzione tra “ambito materiale” e “materia” separa le etichette vuote da quelle che indicano
contenuti tangibili, hanno un perimetro almeno astrattamente tracciabile, sono contenitori rispetto ai
quali è dichiarabile se una determinata competenza stia dentro o fuori.
“Materie” e “non materie”. Già nella prima sentenza della serie, la sentenza 282 del 2002, la corte
ha immediatamente segnato la strada, spiegando che i livelli essenziali delle prestazioni non
indicano una materia in senso stretto, ma una competenza del legislatore statale idonea ad investire
tutte le materie, quindi una materia trasversale.
In una ulteriore sentenza la corte inoltre ha spiegato che “l'ambiente è una non materia, negando
che possa identificarsi una materia in senso tecnico, qualificabile come tutela dell'ambiente, dal
momento che non sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente
circoscritta e delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri
interessi e competenze”.
Sulla stessa falsariga è stata ricostruita la tutela della concorrenza, intesa nella sua accezione
dinamica, che attribuisce allo Stato il titolo per disporre tutti gli interventi che abbiano rilevanza
macroeconomica; la tutela dei beni culturali, il coordinamento informativo statistico e informatico
dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale e forse persino la difesa, se intesa come
servizio civile.
Rilevanza della prospettiva finalistica nell’individuazione della materia. L'aspetto di maggior
interesse è che la corte abbia adottato una prospettiva finalistica per individuare la materia in cui
ricade la disposizione legislativa in discussione: l'inquadramento in una materia piuttosto che in
un'altra deve riguardare la ratio dell'intervento legislativo nel suo complesso e nei suoi aspetti
fondamentali.
Le conseguenze sono diverse:
a) innanzitutto, se è attraverso la prospettiva teleologica, finalistica, degli interessi che si procede
dalla legge impugnata verso la materia d'impugnazione, è chiaro che diviene assai probabile
scoprire in pressoché ogni materia il suo contenuto finalistico. È inevitabile perciò che siano riletti
in termini di materia-funzione o materia-obiettivo tante materie elencate tra quelle esclusive come
pure tra quelle concorrenti;
b) in secondo luogo, se la materia viene individuata in base al fine, alla ratio della disposizione
contestata, la legittimità della disposizione stessa finisce con dipendere dal nesso di strumentalità di
essa con il suo fine, ossia dal giudizio di ragionevolezza, congruità e proporzionalità.
Difficile poi che una legge o una disposizione sia ispirata da un unico obiettivo. Come la corte
sottolinea nella gran maggioranza delle sue decisioni, le disposizioni sottoposte al suo giudizio si
collocano per lo più in una zona in cui si intrecciano più interessi e quindi si sovrappongono più
competenze.
Il criterio finalistico può concorrere però ad individuare la materia più direttamente coinvolta,
attraverso l'impiego di un criterio di prevalenza, di cui la corte tende a fare un uso sempre più
frequente. Si tratta di valutare se il nucleo essenziale delle disposizioni in questione, ovviamente
concepito in termini di interessi e di finalità perseguiti, ricada o meno in una determinata materia.
Se la risposta è positiva, può trattarsi di un argomento assorbente, nel senso che si potrà applicare
integralmente la disciplina costituzionale di quel tipo di competenza: così, se la prevalenza è data ad
una materia esclusiva dello Stato, questo potrà esercitare su di essa anche il potere regolamentare o
istituire e gestire fondi finanziari.
Ma non sempre l'intreccio delle competenze può consentire di individuare un interesse dominante e
quindi la materia prevalente. In questi casi anche la competenza esclusiva dello Stato deve subire

65
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

dei temperamenti. Due sono le vie indicate dalla corte costituzionale:


- La prima è la leale collaborazione. Essa però è prescritta come reciproco coinvolgimento
istituzionale e necessario coordinamento dei livelli di governo statale e regionale sul piano delle
attività amministrative previste dalle leggi.
- Quando la legge statale affronta oggetti su cui si registra un'interferenza tra più interessi, è perciò
una sovrapposizione di competenze statali e regionali, senza che sia possibile determinare quale sia
la competenza prevalente, la legge statale e la legge regionale si trovano in una situazione di
oggettiva concorrenza. Ciò è particolarmente evidente quando entrano in gioco le materie
trasversali: muovendo da una sua competenza esclusiva, la legge dello Stato detta norme che si
proiettano su materie concorrenti o anche residuali, ma non possono paralizzare la legislazione
regionale o sottoporla ad una disciplina marcatamente dettagliata. Le regioni potranno emanare la
propria disciplina legislativa trovando nella legge dello Stato il solo limite dei principi
fondamentali. Anzi non è escluso che le regioni, partendo dalle proprie competenze, dettino norme
che ricadono anche nelle materie esclusive dello Stato.
Ciò accade con particolare evidenza quando le materie esclusive richiamino valori costituzionali
che non impegnano solo lo Stato, ma ogni componente della Repubblica, e quindi anche le Regioni.
Se l'ambiente, la tutela della concorrenza, la tutela dei beni culturali, la ricerca scientifica sono
valori costituzionali, essi si impongono e debbono essere perseguiti anche dalla legislazione
regionale. Le materie trasversali portano lo Stato a invadere ambiti materiali regionali, ma
consentono altresì alle regioni di emanare leggi che oltrepassano la membrana che avvolge le
competenze statali, anche se sono definite esclusive. Il che semplicemente vuol dire che quelle
competenze non sono più esclusive.
Ma anche quando non ci si trovi di fronte a materie-valore, la normale situazione di intreccio di
competenze consente ampie zone di sovrapposizione tra norme statali e norme regionali. Lo si può
riscontrare in materie apparentemente solide come l'immigrazione e la difesa: nel primo caso va
tenuto conto del fatto che l'intervento pubblico non può limitarsi al controllo dell'ingresso e
soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale ma deve considerare anche altri ambiti, come
l'assistenza sociale, l'istruzione e la salute, che quindi coinvolgono competenze normative, alcune
attribuite allo Stato e altre attribuite alle regioni; nel secondo caso la riserva allo Stato della
competenza a disciplinare il servizio civile nazionale non comporta però che ogni aspetto
dell'attività dei cittadini che svolgono questo servizio ricada nella competenza statale.
Ferma restando il nucleo duro della competenza esclusiva dello Stato, su cui la legge regionale non
può interferire e lo Stato invece ha piena competenza, anche regolamentare, nelle zone più a
margine, nelle quali la legge dello Stato si sovrappone alla legislazione regionale, la seconda deve
rispettare i principi fondamentali stabiliti dalla prima: è lo schema della concorrenza.
La corte costituzionale ha individuato come sicuro principio non modificabile dalla legge regionale
nelle norme che fissano punto di equilibrio tra interessi costituzionalmente rilevanti. Quando la
legge statale intervenga fissando standard, limiti o valori di riferimento, al fine di assicurare il
bilanciamento tra diversi interessi costituzionali, lo spazio entro il quale può muoversi la legge
regionale ne resta definitivamente delimitato. La giurisprudenza costituzionale più recente è sempre
più propensa a riconoscere che la prevalenza della competenza dello Stato sposti la disciplina
dell'intera materia in questione nell'ambito della sua potestà esclusiva, sicché si attenuano sia i
vincoli di leale collaborazione che le possibilità di concorrenza con la legislazione regionale.
Ovviamente nella lacunosità della disciplina costituzionale, il delicato compito di regolare i rapporti
tra i due livelli di legislazione finisce con gravare per intero sui criteri piuttosto oscillanti elaborati e
applicati dalla corte costituzionale.

4. La potestà concorrente e l’attuazione delle norme dell’Unione Europea


Norma di principio vs. norme di dettaglio. La riforma del 2001 non ha cambiato la struttura della
potestà concorrente, che resta basata sull'equivoca distinzione tra norma di principio e norma di
dettaglio.
Il nuovo articolo 117.3 elenca le materie espressamente definite di legislazione concorrente,

66
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

precisando che in esse spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei
principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Naturalmente spetta alla corte
costituzionale chiarire quando ci si trovi di fronte ad una norma di principio e quando la disciplina
sia invece di dettaglio.
Divieto di norme autoapplicative. Confermato che la disciplina di principio può essere
legittimamente contenuta anche in un decreto-legge o in un decreto legislativo delegato, la corte ha
negato la natura di principio a norme di dettaglio autoapplicative e intrinsecamente non suscettibili
di essere sostituite dalle regioni, mentre ha riconosciuto che il principio può essere rappresentato
anche da un tetto massimo di spesa, ma non da un precetto specifico e puntuale che non si limiti a
fissare obiettivi ma imponga nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli
obiettivi. Ad esempio è riconosciuta come principio la norma procedurale che contenga una
delimitazione di ordine generale, preordinata alla tutela di interessi superiori, oppure la nozione
definita dalla legge dello Stato.
Poi nella fase di attuazione del diritto dell'unione europea le maglie della legislazione statale si
possono ulteriormente stringere, potendosi di fatto richiedere una peculiare articolazione del
rapporto norme di principio-norme di dettaglio, per esempio al fine di garantire l'esistenza di un
unitario procedimento sull'intero territorio nazionale, caratterizzato, inoltre, da regole che ne
consentano una conclusione in tempi brevi.
L’ATTUAZIONE REGIONALE DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA
L’originaria natura internazionalistica della comunità europea ha comportato a lungo l'esclusione
delle regioni dall'attuazione degli obblighi comunitari, riservata allo Stato in quanto unico soggetto
responsabile sul piano europeo di eventuali inadempimenti.
La corte costituzionale suggerì però la via di introdurre strumenti idonei a contrastare le eventuali
inadempienze dell'omissione delle regioni, via seguita dal legislatore con l'introduzione del potere
sostitutivo dello Stato in caso di inadempimento da parte delle regioni, cui veniva concesso di dare
immediata attuazione alle norme dell'unione europea ricadenti nelle materie di loro competenza.
Dopo la riforma del 2001, l'articolo 117.5 della costituzione attribuisce espressamente alle regioni il
diritto-dovere di attuare direttamente, nelle materie di propria competenza,le norme dell'unione
europea nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalla legge dello Stato.
Attua tale previsione la legge 11 del 2005 (che riforma la disciplina della legge comunitaria)
prevedendo che:
a) nelle materie di competenza concorrente la legge comunitaria indica i principi fondamentali non
derogabili dalla legge regionale o provinciale sopravvenuta e prevalenti sulle contrarie disposizioni
eventualmente già emanate dalle regioni e dalle province autonome;
b) nelle materie di competenza residuale lo Stato, al fine di porre rimedio all'eventuale inerzia delle
regioni, può emanare atti normativi anche regolamentari che si applicano nelle sole regioni che non
hanno adottato la normativa di attuazione;
c) nelle materie di competenza esclusiva dello Stato, il governo esercita un potere di indirizzo e
coordinamento, previa intesa con la Conferenza Stato-regioni.
Proprio la disciplina dei rapporti tra fonti statali e fonti regionali mostra come nel nostro
ordinamento permanga anche dopo la riforma, il principio di cedevolezza e di preferenza per la
legge regionale. Non c'è da stupirsene, perché quei principi sono stati delineati dalla giurisprudenza
costituzionale in risposta ad un problema che la riforma non ha affrontato: come garantire allo Stato
che proprie leggi di riforma si applichino anche laddove le regioni non adeguino ad esse il proprio
ordinamento. La soluzione, al solito, è stata elaborata dalla corte costituzionale: essa ha giustificato
la prassi che si era venuta stabilendo nella legislazione statale, di corredare le leggi di riforma,
operanti nelle materie concorrenti, con norme di dettaglio: queste possono abrogare le precedenti
norme regionali di dettaglio; spetterà poi alle regioni, se lo vogliono, sostituire le norme statali di
dettaglio (che si presentano come norme cedevoli) con proprie leggi, sulle quali il governo potrà
esercitare il controllo di legittimità.
Così si è offerto un modo di operare concretamente alla previsione della legge Scelba per cui le
leggi della Repubblica che modificano i principi fondamentali di cui al primo comma dell'articolo

67
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

precedente abrogano le norme regionali che siano in contrasto con esse.


La norma della legge Scelba è considerata ancora in vigore; la legislazione ha riaffermato il
principio di cedevolezza delle norme statali di dettaglio nelle materie di competenza residuale delle
regioni laddove esse siano emanate per assicurare attuazione delle norme dell'unione europea.

5. L’interpretazione delle materie e la potestà residuale


L'interpretazione delle etichette delle materie concorrenti non è certo meno arduo della
ricostruzione delle materie esclusive.
La corte costituzionale si è mossa utilizzando appieno la ricognizione delle funzioni amministrative
già trasferite in passato alle regioni e agli enti locali, sul presupposto che la riforma costituzionale
non possa essere interpretata nel senso di revocare le attribuzioni già conferite alle regioni in
precedenza. Ma soprattutto la corte ha privilegiato le materie nominate rispetto a quelle innominate,
a tutto svantaggio per la potestà legislativa residuale delle regioni.
La premessa è che non ogni oggetto che non sia espressamente elencato tra le materie esclusive o
concorrenti è di per sé attribuibile alla potestà legislativa residuale delle regioni: la corte ha
proceduto dilatando l'area di riferimento sia delle materie esclusive che di quelle concorrenti ed
applicando anche a queste seconde dei criteri di interpretazione teleologica e di prevalenza di un
interesse sull'altro che abbiamo già visto applicati alle prime.
Etichette “nuove” e vecchie materie: il “governo del territorio”. Il risultato è stato innanzitutto il
rigonfiamento della portata di etichette nuove come il governo del territorio sino a ricomprendervi
materie vecchie come l'urbanistica e l'edilizia residenziale.
Anche alcune materie del vecchio articolo 117 sono state derubricate a non materie: è ciò che è
accaduto ai lavori pubblici, che la corte ridefinisce come ambiti di legislazione che non integrano
una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell'oggetto al quale afferiscono e pertanto
possono essere ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà
legislative concorrenti.
Si affaccia la categoria delle materie strumentali, ossia di quelle competenze che non
costituiscono un autonomo titolo di competenza ma sono serventi rispetto agli interventi legislativi
intrapresi nelle vere e proprie materie.
Comunque il tentativo di elencare materie di competenza residuale delle regioni è di ben scarsa
utilità. La residualità rappresenta, più che un determinato novero di materie, una tecnica di
individuazione dei livelli e degli ambiti di competenza: solo attraverso una progressiva restrizione
dell'incidenza di altri interessi (e perciò di altre materie) sull'oggetto in discussione si può arrivare
ad affermare che sussista una materia di competenza residuale delle regioni.
Nessuna di queste materie però rappresenta un ambito di intervento legislativo riservato alle regioni
per tre motivi: innanzitutto a ciò si oppone la frequente sovrapposizione di interessi e quindi di
competenze concorrenti o esclusive dello Stato; in secondo luogo, l'esercizio della potestà
legislativa delle regioni deve sempre fare i conti con le competenze trasversali dello Stato; in terzo
luogo, quando non soccorrano altri possibili titoli di intervento dello Stato, questi può intervenire
“attraendo in sussidiarietà” le funzioni che possono evocare esigenze di disciplina unitaria.

6. Gli effetti del principio di sussidiarietà


La chiamata in sussidiarietà è una possibilità riconosciuta allo Stato dalla nota sentenza 303 del
2003. Decidendo dei ricorsi di molte regioni contro le cosiddette legge-obiettivo, che disciplinava le
procedure per la pianificazione e la progettazione delle grandi infrastrutture, la corte costituzionale
introduce uno strumento di tutela delle esigenze unitarie legandolo strettamente al principio di
sussidiarietà.
Questo strumento è appunto individuato dalla corte ed è affermato dall'articolo 118 con riferimento
alle sole funzioni amministrative, e consente allo Stato di attrarre compiti che non siano
adeguatamente (principio di adeguatezza) esercitabili a livello regionale; ma il principio di legalità
impone che le funzioni amministrative debbono fondarsi su un'apposita norma di legge, che
attribuisca e regoli la funzione stessa; per cui il principio di sussidiarietà autorizza lo Stato a

68
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

emanare norme legislative che attribuiscano allo Stato stesso e disciplini lo svolgimento di quelle
competenze amministrative che altrimenti non gli spetterebbero, in base al riparto costituzionale
delle funzioni; ciò è tollerabile se e soltanto se le funzioni attratte siano proporzionate alle esigenze
unitarie che ispirano la legge (principio di proporzionalità) e se la legge statale coinvolga le regioni
o la regione interessata nella co-decisione degli interventi, attraverso procedure di intesa (principio
di leale cooperazione).
Funzioni attratte e controllo costituzionale. Si è aperta così una porta che consente allo Stato di
attrarre a sé una pluralità di funzioni amministrative, inclusa l'istituzione di organismi, la gestione di
fondi e l'emanazione di regolamenti.
Bisogna inoltre aggiungere che la chiamata in sussidiarietà si pone a sua volta come strumento
residuale: entra in gioco quando la riserva statale di funzioni amministrative non sia giustificabile in
nome di materie trasversali come la tutela della concorrenza, l'ordinamento civile e la
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni.

7. La ripartizione della potestà regolamentare e l’autonomia regolamentare degli enti


locali(rinvio)
L'articolo 117.6 della costituzione ha disegnato un parallelismo tra la potestà legislativa e quella
regolamentare. (paragrafo VII.3)
L'articolo 117.6 introduce però un'ulteriore complicazione per l'interprete, che si annida nella
clausola "salva delega alle regioni" con cui si limita il parallelo tra la potestà legislativa esclusiva e
la potestà regolamentare dello Stato.
La lettura prevalente in dottrina interpreta la clausola nel senso che essa alluderebbe all'ipotesi di
una legge dello Stato che, in materia di competenza esclusiva, delega alle regioni il compito di
attuarla in via regolamentare. Sulla base di questa lettura, larga parte degli statuti delle regioni
ordinarie hanno introdotto norme apposite volte a garantire che l'assemblea legislativa non venga
pretermessa, ma mantenga una qualche competenza almeno in merito all'emanazione dei
regolamenti delegati dallo Stato.
In realtà è estremamente frequente ancora oggi che in settori come la tutela dell'ambiente operi una
delega di funzioni amministrative secondo lo schema previsto dall'articolo 118 della costituzione
del 1948 (oggi non più in vigore, ma sostituito dal meccanismo del conferimento di funzioni
amministrative previsto dall'attuale 117.2 della costituzione).
Il problema del concorso tra regolamenti statali e leggi regionali. Il problema delicato che si
pone in questi casi è come conciliare la competenza delle diverse fonti.
Se lo Stato conferisce alla regione una determinata funzione amministrativa, questa probabilmente
ha bisogno di essere disciplinata dalla legge regionale; sicché la legge regionale potrebbe trovarsi in
concorso non solo con la legge statale che le conferisce la funzione, ma anche con il regolamento
statale eventualmente emanato per integrarne la disciplina.
Uno degli intenti ispiratori del nuovo titolo V della costituzione è stato proprio quello di evitare la
sovrapposizione di atti amministrativi statali alle leggi regionali. Ecco che allora il salva delega
dell'articolo 117.6 della costituzione assumerebbe una precisa funzione regolatrice del concorso tra
le fonti: se lo Stato conferisce alle regioni determinate funzioni amministrative in materie di una sua
competenza esclusiva, allora su di esse perde il potere di disciplinare con regolamento, perché ciò
che non è già regolato dalla legge dello Stato resta necessariamente affidata alla disciplina della
regione. Ma questa è solo una possibile interpretazione.

8. Gli statuti delle Regioni ordinarie e il loro rapporto con le altre fonti
I vecchi Statuti regionali. La legge costituzionale 1 del 1999 ha attribuito alle regioni ordinarie
un'inedita potestà statuaria. In precedenza lo statuto regionale era approvato (e modificato) con
legge dello Stato: si trattava di una legge ordinaria rinforzata che iniziava il suo procedimento con
la discussione e approvazione in consiglio regionale, a maggioranza assoluta, e quindi veniva
trasmessa al governo, che la trasformava in una vera e propria iniziativa legislativa, senza poter
intervenire nel merito; spettava poi alle camere l'approvazione della legge, che veniva infine

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

promulgata dal presidente della Repubblica e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale.


I nuovi statuti, a seguito della legge cost. 1/1999. Il nuovo articolo 123 della costituzione dispone
invece che lo statuto sia approvato e modificato dal consiglio regionale con legge approvata a
maggioranza assoluta dei suoi componenti, con due deliberazioni successive adottate ad intervallo
non minore di due mesi. Dopo la doppia approvazione, lo statuto è soggetto ad una pubblicazione
notiziale, a partire dalla quale il governo ha la possibilità di impugnarlo preventivamente dinanzi
alla corte costituzionale entro 30 giorni, mentre entro tre mesi dalla pubblicazione stessa, 1/50esimo
degli elettori della regione o un quinto dei componenti del consiglio regionale può proporre un
referendum. Si tratta di un'ipotesi di referendum approvativo o sospensivo.
Decorsi i termini per l'impugnazione o per la richiesta di referendum, seguirà la promulgazione da
parte del presidente della regione e la pubblicazione sul bollettino ufficiale regionale.
Gli statuti delle regioni ordinarie dunque sono ora leggi regionali rinforzate .
L'articolo 123 della costituzione riserva ad essi la disciplina di alcuni importanti aspetti: la forma di
governo regionale, i principi fondamentali di organizzazione e di funzionamento, il diritto di
iniziativa legislativa e di referendum su leggi e provvedimenti amministrativi regionali, la
pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali.
La legge dello Stato non può incidere nella materia riservata agli statuti, anche se invece spetta ad
essa fissare i principi del sistema elettorale regionale.
Lo statuto quindi funge da limite sia per le leggi dello Stato che non possono invadere la
competenza riservata alla costituzione a questa particolare legge sia per le leggi regionali.
La riserva di competenza della legge elettorale regionale. Un limite esplicito alla competenza
dello statuto è stato individuato in particolare nell'articolo 122 della costituzione, che riserva
espressamente alla legge regionale, nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della
Repubblica, la determinazione delle norme relative al sistema di elezione e ai casi di ineleggibilità e
di incompatibilità del presidente e degli altri componenti della giunta regionale nonché dei
consiglieri regionali.
Inoltre la corte ha sottolineato che la potestà legislativa elettorale è stata attribuita ad organi e a
procedure diverse da quelle preposti all'adozione dello statuto regionale e che quindi lo statuto
regionale non può disciplinare direttamente la materia elettorale o addirittura contraddire la
disposizione costituzionale che prevede questa speciale competenza legislativa: in materia elettorale
la legge regionale deve rispettare i principi fondamentali stabiliti dalla legge dello Stato.
Non è vietato allo statuto, invece, di disciplinare altri argomenti rispetto a quelli indicati
dall'articolo 123 della costituzione, contenuti eventuali, ulteriori rispetto a quelli necessari. In
particolare, la corte ha fatto salve le previsioni di organi di garanzia statuaria, riservandosi di
valutare nel merito i poteri ad essi attribuiti; così come non si è affatto opposta all'introduzione nello
statuto di norme relative al rapporto tra la regione e gli enti locali o il diritto d'accesso agli atti
amministrativi.
Le norme degli statuti sulle fonti. Tra gli oggetti che l'articolo 123 della costituzione attribuisce
allo statuto rientra anche la disciplina della formazione degli atti normativi della regione.
Sotto questo profilo lo statuto si propone quindi come parametro di legittimità delle leggi regionali,
oltre che dei regolamenti.

9. L’ordinamento differenziato delle Regioni speciali ed i decreti legislativi di attuazione


statuaria
Anche l'ordinamento delle regioni ad autonomia speciale ha risentito delle riforme costituzionali del
titolo V, benché la disciplina del loro assetto istituzionale e delle loro competenze sia scritta nei
rispettivi Statuti speciali.
La “decostituzionalizzazione” della forma di governo. La legge costituzionale 2 del 2001 ha
modificato i cinque statuti speciali per riconoscere anche alle regioni speciali un'autonomia nella
scelta della propria forma di governo.
Per raggiungere questo obiettivo la legge costituzionale ha previsto un processo di
decostituzionalizzazione delle norme statuarie sulla forma di governo, prevedendo che con una

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

legge regionale rinforzata la regione possa definire le modalità di elezione del consiglio, del
presidente della regione e dei componenti della giunta, i rapporti tra gli organi, l'iniziativa
legislativa popolare e i referendum, le condizioni di parità di accesso alle consultazioni elettorali.
La legge costituzionale 2 del 2001 ha così introdotto una nuova fonte legislativa rinforzata, la
cosiddetta legge statuaria, la cui competenza è riservata, nel senso che nessun altra fonte può
regolare quei contenuti derogando alle disposizioni dello statuto, ma è anche limitata, nel senso che
si può dubitare che la regione possa introdurre altri contenuti eventuali in quella particolare legge
rinforzata, così da metterli al riparo dalla possibile erosione da parte della legislazione regionale
ordinaria.
Il particolare procedimento di revisione degli statuti speciali. La legge costituzionale 2 del 2001
ha prodotto anche un altro effetto sul sistema delle fonti: infatti ha previsto che le future riforme
degli statuti speciali possono essere effettuate con una procedura diversa da quella che l'articolo 138
della costituzione dispone per la revisione costituzionale e per le altre leggi costituzionali: la
regione è coinvolta all'inizio del procedimento di riforma dello statuto perché o l'iniziativa
legislativa parte dall'assemblea regionale oppure, se il procedimento è avviato per iniziativa
governativa parlamentare, è necessario che venga acquisito il parere obbligatorio ma non vincolante
dell'assemblea regionale stessa. Comunque la legge costituzionale di revisione dello statuto, anche
se approvata dalle camere con la maggioranza assoluta, non è sottoposta a referendum.
Conseguenze molto rilevanti derivano dalla riforma del titolo V anche per le regioni speciali.
L'articolo 10 della legge costituzionale 3 del 2001 introduce la cosiddetta clausola di maggior
favore: fino all'adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale
si applicano anche alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e Bolzano per
le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampia rispetto a quelle già attribuite.
Questa disposizione trascrive un principio cioè che di fronte ai decreti di trasferimento delle
funzioni amministrative alle regioni ordinarie, aveva ritenuto non accettabile che le regioni a statuto
speciale, nell'assenza di una espressa disposizione in contrario, restino prive delle attribuzioni
conferite alle regioni a statuto ordinario; ad esse pertanto vanno estese le disposizioni più
favorevoli, sempre che siano compatibili.
La corte costituzionale ha precisato che la clausola di maggior favore comporta che la regione
speciale possa giovarsi della riforma del titolo V tutte le volte in cui essa preveda che la potestà
legislativa regionale su una determinata materia sia più ampia di quella prevista dallo statuto
speciale: se sulla materia in questione è riconosciuta la potestà residuale della regione ordinaria,
questa norma prevale sull'eventuale inclusione di quella materia nell'elenco delle competenze
concorrenti o esclusive della regione speciale.
LE POTESTA’ LEGISLATIVE DELLE REGIONI SPECIALI:UN QUADRO SINOTTICO
Gli statuti speciali prevedono tre livelli di potestà legislativa, ognuna riferita ad un particolare
elenco di materie (che varia da statuto a statuto).
1. La potestà esclusiva, piena o primaria, è caratterizzata da un legame con la legislazione statale
rappresentato da due limiti specifici:
a) il limite dei principi generali dell'ordinamento giuridico;
b) il limite delle norme fondamentali delle riforme economico sociali.
2. La potestà concorrente che incontra gli stessi limiti della omologa competenza delle regioni
ordinarie;
3. La potestà integrativa o attuativa che consente alla regione speciale di emanare norme, in alcune
specifiche materie, per adeguare la legislazione dello Stato alle particolari esigenze regionali.
La clausola di maggior favore richiede un giudizio di preferenza tra diversi sistemi di autonomia:
occorre perciò che vengano considerati i due termini della comparazione, in quanto soltanto all'esito
di una disamina complessiva dei sistemi posti a raffronto è possibile ritenere che l'uno garantisca
una forma di autonomia eventualmente più ampia rispetto all'altro. Si tratta di una valutazione non
sempre agevole come dimostra il caso del controllo di legittimità sulle leggi regionali siciliane.
IL CASO DEL CONTROLLO DI LEGITTIMITA’ SULLE LEGGI REGIONALI
SICILIANE

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

Lo statuto siciliano prevede una particolare forma di controllo preventivo sulle leggi regionali: esso
è esercitato dal commissario dello Stato, il quale entro un termine molto breve può impugnare la
legge alla corte costituzionale. Scaduto il termine o se la corte non si pronuncia entro 30 giorni, la
legge può essere promulgata. Si tratta quindi di un controllo preventivo, ma senza che debba essere
necessariamente preventiva la pronuncia della corte costituzionale, potendo questa intervenire al
legge promulgata e pubblicata; un controllo non preceduto dal rinvio all'assemblea legislativa e
quindi da una seconda deliberazione di questa; un controllo che si svolge in termini particolarmente
brevi.
L’adeguamento automatico non si applica agli enti locali. La corte costituzionale ha poi
affermato che la clausola di maggior favore opera soltanto a favore delle regioni, non anche degli
enti locali minori. Altrimenti come argomenta la corte, si potrebbe verificare il caso per cui ad una
ipotetica maggior autonomia dell'ente locale corrisponda una minore autonomia dell'ente regionale.
Questo perché la clausola di adeguamento automatico presuppone una comparazione tra grandezze
omogenee, ossia esclusivamente tra regioni (ordinarie e speciali).
La clausola di maggior favore opera transitoriamente, in attesa della revisione degli statuti speciali o
dell'emanazione di decreti di attuazione degli Statuti speciali e di trasferimento delle funzioni
amministrative: questi particolarissimi atti sono gli unici aventi forza di legge e che non hanno,
prima o dopo la loro emanazione, un controllo da parte del Parlamento.
Sono previsti negli statuti speciali come fonti a competenza separata e riservata: infatti è preclusa
alla legge e agli atti aventi forza di legge di trasferire funzioni amministrative alle regioni speciali o
di regolarne l'esercizio senza rispettare il particolare procedimento previsto.
Gli statuti dispongono che queste norme siano emanate dal governo dietro parere obbligatorio della
commissione paritetica, costituita da rappresentanti nominati dal governo e dalla regione: questa
procedura di collaborazione sostituisce il controllo parlamentare sull’atto finale, che è un decreto
legislativo, emanato dal presidente della Repubblica senza alcun intervento delle camere.

CAP 7
I REGOLAMENTI
1.Fondamento,natura e limiti dei regolamenti
I regolamenti vengono usualmente definiti come atti normativi secondari adottati dal governo.
Questa semplice definizione nasconde, però, una realtà molto complessa. I problemi più rilevanti
sono riconducibili a tre ambiti principali: la questione del rapporto tra il regolamento e la legge; la
questione del fondamento della potestà regolamentare; la questione della natura del regolamento.
Il rapporto tra regolamento e legge è collegato all'operare del principio gerarchico, per cui il
regolamento in quanto fonte secondaria è ritenuto subordinato alla legge. Ciò significa che la norma
regolamentare non può essere in contrasto con la norma di legge e se tale contrasto si verifica essa è
invalida; viceversa, se la norma di legge successiva è in contrasto con una norma regolamentare, ne
determina l'abrogazione.
La subordinazione del regolamento alla legge permane e pare rafforzarsi con l'avvento dello Stato
costituzionale di democrazia pluralista, perché si è per lungo tempo pensato che, almeno nella
versione italiana, il Parlamento fosse dotato della più ampia legittimazione democratica, in quanto
rappresentativo di tutte le forze politiche. La ripercussione di questo ruolo istituzionale del
Parlamento sul terreno delle fonti sarebbe appunto il riconoscimento alla legge parlamentare di una
forza o efficacia formale maggiore rispetto agli atti normativi adottati dal governo e privi di un
qualunque concorso parlamentare alla loro formazione. La procedura parlamentare, infatti, offre
garanzie di pubblicità e di dibattito plurale, che coinvolge le forze di opposizione oltre che la
maggioranza politica, non offerte invece dalle procedure di approvazione degli atti governativi.
Ecco perché si dice comunemente che le fonti normative primarie sono un “numero chiuso”, sono
cioè solo quelle individuate dalla costituzione. Di conseguenza i regolamenti sarebbero fonti
secondarie, subordinate alla legge.
Però l'assetto del potere regolamentare nella concreta esperienza giuridica è molto più complicato.
Da una parte, si sono affermati tipi di regolamento che possono sembrare parificati alla legge (i

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

regolamenti di delegificazione e i regolamenti di organizzazione dei ministeri). Dall'altra parte, la


stessa costituzione, soprattutto dopo la riforma del titolo V, ha previsto, accanto ai regolamenti dello
Stato e delle regioni, quelli degli enti locali, dotati di una sfera di competenza riservata. Il principio
gerarchico, quindi, sembra incontrare deroghe o almeno attenuazioni, nel primo caso e, nel secondo,
è affiancato dal principio di competenza.
Di fronte a questi sviluppi, oggi è fortemente dubbio che si possa ricostruire in termini unitari la
figura dei regolamenti, che assumono regimi giuridici differenti a seconda che si tratti di
regolamenti statali, regionali o degli enti locali.
Per quanto riguarda il fondamento del potere regolamentare, la dottrina liberale era divisa tra chi
lo individuava nella discrezionalità amministrativa e chi invece lo riconduceva alla legge. Nella
prima prospettiva, il regolamento è uno strumento di autolimitazione del potere discrezionale, che
fissa regole generali e astratte per guidare l'attività provvedimentale; nella seconda, invece,
l'espresso fondamento nella legge del potere regolamentare si collega alla competenza originaria
che spetta al potere esecutivo di esercitare l'attività amministrativa.
Dopo l'entrata in vigore della costituzione repubblicana, la tesi della necessaria autorizzazione
legislativa è stata riproposta, ora facendo riferimento al carattere monistico del sistema
parlamentare italiano, ora valorizzando il Parlamento come centro del processo di integrazione
politica.
Da parte di altri, però, la tesi è stata contestata e si è sostenuto che l'esercizio del potere
regolamentare derivi direttamente dalla posizione istituzionale che la costituzione riserva al
governo: il potere regolamentare sarebbe radicato nella posizione costituzionale del governo in
quanto titolare della funzione di indirizzo politico.
Le diverse configurazioni del fondamento del potere regolamentare determinano la risposta da dare
al quesito sull'ammissibilità dei regolamenti indipendenti, cioè di quei regolamenti che operano su
oggetti privi di una precedente disciplina legislativa. Essi sono ritenuti ammissibili da chi ritiene
che il potere regolamentare abbia un fondamento costituzionale nel ruolo istituzionale del governo,
mentre altri ritengono comunque necessaria una previa autorizzazione legislativa.
I limiti del potere regolamentare: I problemi sin qui analizzati si complicano ulteriormente a
seconda del significato che si dà al principio di legalità. A lungo si è dibattuto su quale debba
essere il contenuto minimo costituzionalmente necessario della legge.
Qui si confrontano diverse accezioni del principio di legalità:
a) il principio della preferenza della legge;
b) il principio di legalità in senso formale;
c) il principio di legalità in senso sostanziale.
Secondo il principio della preferenza della legge, il principio di legalità è soddisfatto se il
regolamento non contiene atti contrari alla legge, perché quest'ultima è comunque dotata di efficacia
superiore. Nell'eventuale conflitto è sempre la legge a prevalere. Questo principio nasce
dall'esperienza della monarchia costituzionale, basata su due centri di potere dotati di propria
distinta legittimazione: il re (con il suo governo) e il Parlamento.
Il principio di legalità in senso formale non si accontenta più della non contrarietà alla legge, ma
esige una base legale per l'esercizio del potere regolamentare. Gli organi del governo non sono
semplicemente tenuti al rispetto della legge, ma sono condizionati dalle esistenza di quest'ultima,
nel senso che possono esercitare solo i poteri dalla stessa conferiti.
Il principio di legalità in senso sostanziale, non ritiene sufficiente una clausola legislativa che
autorizzi il potere regolamentare, ma richiede altresì che la legge detti i contenuti essenziali della
disciplina normativa. In questa prospettiva la secondarietà del regolamento sul piano formale altro
non sarebbe che l'espressione della secondarietà del regolamento sul piano dei contenuti. Il potere
regolamentare, dunque, non solo deve trovare il suo fondamento in un'espressa autorizzazione
legislativa, ma deve essere condizionato dalle indicazioni di fondo contenute nella legge alle cui
scelte di ordine sostanziale sarebbe tenuto ad attenersi.
Dal significato del principio di legalità che si vuole ricavare dalla costituzione, ne derivano
conseguenze pratiche importanti. Innanzitutto sul regime dei regolamenti indipendenti: essi sono

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

ammessi se dotati di espressa autorizzazione legislativa se si segue la legalità formale; sono invece
del tutto inammissibili se si segue il principio di legalità sostanziale, che esclude in radice la
configurabilità di un regolamento che non sia condizionato da una preventiva disciplina sostanziale
del medesimo oggetto. Poi anche sulla configurabilità dei regolamenti delegati o di
delegificazione, cioè di quei regolamenti abilitati dalla stessa legge a intervenire su materie per
l'innanzi disciplinate da leggi formali, regolandole diversamente.
Attraverso i regolamenti di delegificazione la fonte di disciplina di un determinato oggetto viene
trasferita dalla legge al regolamento. Il che comporta, nel momento in cui la disciplina di fonte
regolamentare prende il posto di quella di fonte legislativa, l'abrogazione di quest'ultima ad opera
della prima. I regolamenti di delegificazione pongono, pertanto, il problema della loro compatibilità
con il quadro costituzionale se si ritiene che esso abbia sancito la necessaria subordinazione del
regolamento alla legge.
Problemi che sono stati superati da un autorevole ricostruzione dottrinale che distingue gli effetti
del regolamento delegato o di delegificazione dagli effetti della legge che prevede il regolamento
medesimo. Si è sostenuto che l'effetto abrogativo delle norme legislative sarebbe da ricondurre non
già al regolamento, ma alla stessa legge. Questa abrogazione sarebbe, però, subordinata all'entrata
in vigore del regolamento; quest'ultima, quindi, sarebbe il fatto al cui verificarsi è condizionata
l'abrogazione. In questo modo verrebbe salvato il principio della preferenza della legge e della
legalità formale.
Ma non appena si accetta il più impegnativo principio della legalità sostanziale, bisogna aggiungere
qualcos'altro. Il potere normativo del governo andrebbe comunque ricondotto alla sua caratteristica
di secondarietà anche di tipo contenutistico, che lo diversificherebbe dal potere legislativo, libero
nel fine. Perciò, secondo questa impostazione, i regolamenti di delegificazione potrebbero essere
compatibili con la costituzione solamente se la legge disciplina la materia su cui poi opererà la fonte
regolamentare. La legge che prevede il regolamento delegato o di delegificazione, quindi, dovrebbe
stabilire le linee fondamentali della disciplina della materia, su cui si esplicherà il potere
regolamentare anche sostituendosi ad altre norme di legge.
Legalità e riserva di legge. Quale che sia però la accezione accolta del principio di legalità, è
comunque certo che il potere regolamentare incontra un ulteriore limite nelle numerose riserve di
legge previste dalla costituzione.
Nel caso di riserva assoluta, dovendo la legge disciplinare l'intera materia, i regolamenti potranno
essere solamente quelli meramente esecutivi della legge, mentre nel caso di riserva relativa sarà
comunque necessario che la legge detti la disciplina fondamentale lasciando al regolamento la
possibilità di completarla. Questo è il dibattito dottrinale.
Per quanto riguarda la giurisprudenza costituzionale: da una parte, vi sono alcune pronunce della
corte in cui vi è un esplicito riferimento alla legalità in senso sostanziale; dall'altra, però, l'assetto
delle fonti nel suo concreto operare ha visto una notevole dilatazione dell'ambito di applicazione dei
regolamenti delegati che ha relegato in un ruolo marginale il principio di legalità.
In una recente sentenza la corte costituzionale ha dato una più forte base costituzionale al principio
di legalità sostanziale. Essa è stata individuata nell'articolo 23 della costituzione, che tutela la sfera
generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, nell'ambito della quale, i cittadini sono
tenuti, secondo un principio supremo dello Stato di diritto, a sottostare soltanto agli obblighi di fare,
di non fare o di dare previsti in via generale dalla legge. Pertanto, la libertà dei cittadini può essere
incisa solo dalle determinazioni di un atto legislativo, direttamente o indirettamente riconducibile al
Parlamento, espressivo della sovranità popolare.
Il punto centrale è che la legge che incide su tale libertà non deve limitarsi ad una formale
attribuzione di potere: è vietata la assoluta indeterminatezza del potere conferito
all'amministrazione e non è sufficiente la finalizzazione del potere attribuito alla tutela di un bene o
di un valore; piuttosto è necessario che il suo esercizio sia determinato nel contenuto e nelle
modalità, in modo da mantenere costantemente una, sia pur elastica, copertura legislativa
dell'azione amministrativa.
La conclusione di questo ragionamento è la costituzionalizzazione del principio di legalità

74
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

sostanziale.
Criteri di individuazione dei regolamenti. Il regolamento tradizionalmente è stato qualificato
come un atto avente doppia natura: norma giuridica sotto il punto di vista sostanziale ed atto
amministrativo sotto il punto di vista formale.
Regolamenti e atti amministrativi generali. Riconosciuta la natura normativa dell'atto è rimasto
aperto il problema di come differenziare il regolamento rispetto agli atti amministrativi generali.
Un problema che si pone in quanto il regolamento, a differenza della legge, è privo di una forma
codificata a livello costituzionale. Anche questo è un problema di grande rilevanza pratica, perché
qualificare un atto come regolamento invece che come atto amministrativo generale significa
applicare il regime delle fonti del diritto che è nettamente diverso da quello di un qualsiasi atto
amministrativo. Infatti solo per i regolamenti valgono le regole valide per le fonti del diritto.
L'impiego di un criterio formale, come quello della denominazione impiegata dall'atto e del
procedimento seguito per la sua adozione è difficile, perché, come si osservava, la costituzione non
ha individuato alcun indice formale della natura regolamentare del potere esercitato. La
conseguenza è che la giurisprudenza ha fatto prevalere il ricorso a criteri di tipo sostanziale,
riguardanti il contenuto dell'atto, che dovrebbe essere una disciplina di carattere generale, astratto e
innovativo.
Così, secondo la cassazione, i caratteri che, sul piano del contenuto sostanziale, valgono a
differenziare i regolamenti dagli atti e provvedimenti amministrativi generali, vanno individuati in
ciò, che questi ultimi costituiscono espressione di una semplice potestà amministrativa e sono diretti
alla cura concreta di interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari
non necessariamente determinati nel provvedimento, ma determinabili; i regolamenti, invece, sono
espressione di una potestà normativa attribuita all'amministrazione, secondaria rispetto alla potestà
legislativa, e disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione attuativa o
integrativa della legge, ma comunque egualmente innovativa rispetto all'ordinamento giuridico
esistente, con precetti che presentano appunto i caratteri della generalità e dell'astrattezza.

2. I regolamenti del Governo


I regolamenti nella Costituzione. La costituzione menziona i regolamenti del governo soltanto
incidentalmente allorché si occupa dei poteri del presidente della Repubblica, limitandosi a dire che
quest'ultimo emana i regolamenti.
Per circa quarant'anni il potere regolamentare è stato esercitato dal governo in assenza di una
disciplina costituzionale e legislativa. Si è riproposto il conflitto tra l'impostazione
anacronisticamente garantista accolta dalla costituzione per tutto ciò che riguarda i rapporti tra
governo e Parlamento… e le esigenze del mondo contemporaneo, che sempre più reclamano agilità
e prontezza di intervento nei più diversi settori.
Solamente quando l'evoluzione politica ha reso possibile un rafforzamento del governo e la sua
maggiore istituzionalizzazione è stata approvata la più volte menzionata legge 400 del 1988 che, nel
disciplinare il potere normativo del governo, si occupa anche dei regolamenti: la disciplina è
contenuta nell'articolo 17, più volte modificato.
Tipologia dei regolamenti governativi. L'articolo 17 ha individuato una precisa tipologia dei
regolamenti del governo, definendo per ciascuno tipo, contenuto e limiti.
Esso infatti distingue:
a) regolamenti esecutivi che servono a dare esecuzione alle leggi, ai decreti legislativi e ai
regolamenti dell'unione europea;
b) regolamenti di attuazione e integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di
principio;
c) regolamenti indipendenti, diretti a disciplinare le materie in cui manchi la disciplina da parte di
leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie coperte da riserva di legge;
d) regolamenti di organizzazione, che disciplinano l'organizzazione e il funzionamento delle
amministrazioni pubbliche, secondo le disposizioni dettate dalla legge.
In seguito la legge 59 del 1997 ha aggiunto un ulteriore tipo di regolamento, quello per la disciplina

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

degli uffici dei ministeri.


L'articolo 17 detta altresì una disciplina compiuta dei regolamenti delegati o di delegificazione che
in sostanza accoglie quei suggerimenti che erano stati avanzati dalla dottrina per rendere questo tipo
di regolamento compatibile con le accezioni più rigorose del principio di legalità.
L'articolo 17.2 dispone infatti che:
a) questi regolamenti possono essere adottati per la disciplina di materie non coperte da riserva
assoluta di legge;
b) la legge deve autorizzarli espressamente;
c) la legge deve individuare inoltre le norme generali regolatrici della materia;
d) la legge deve stabilire l'abrogazione delle norme vigenti con effetto dalla data di entrata in vigore
del regolamento.
L'articolo 17 ha poi riconosciuto la categoria dei regolamenti ministeriali ed interministeriali, nelle
materie di competenza del ministro dove è la legge che conferisce espressamente al ministro il
potere regolamentare e tali regolamenti non possono contenere norme contrarie ai regolamenti del
governo.
Il medesimo articolo 17 ha dettato anche una compiuta disciplina formale dei regolamenti del
governo, stabilendo che: a) essi sono adottati con decreto del presidente della Repubblica; b) su
deliberazione del Consiglio dei Ministri; c) previo parere del Consiglio di Stato.
Inoltre i regolamenti ministeriali ed interministeriali devono ricevere il parere preventivo del
Consiglio di Stato e prima della loro emanazione devono essere comunicati al presidente del
Consiglio dei Ministri.
Tanto i regolamenti governativi che quelli ministeriali devono recare nel titolo la denominazione di
regolamento. Così si vuole risolvere il problema di distinguere i regolamenti dagli atti
amministrativi generali.
Le successive modifiche legislative alla disciplina della legge 400/88. La portata razionalizzatrice
dell'articolo 17 della legge 400 del 1988 è stata attenuata da successivi interventi legislativi che vi
hanno apportato modifiche o deroghe occasionali. La fragilità della disciplina è una conseguenza
del fatto che essa è contenuta in una fonte normativa primaria e quindi è modificabile da altri atti
normativi dotati della stessa efficacia.
Per quanto riguarda il parere del Consiglio di Stato, le innovazioni successive al 1988 riguardano:
a) l'istituzione di una nuova sezione consultiva del Consiglio di Stato per l'esame degli schemi di
atti normativi per i quali il parere del Consiglio di Stato è prescritto per legge o è comunque
richiesto dall'amministrazione;
b) il parere è espresso nel termine di 45 giorni dal ricevimento della richiesta; c) decorso questo
termine, l'amministrazione può procedere indipendentemente dall'acquisizione del parere.
Per quanto riguarda il controllo della corte dei conti, va segnalato che:
a) gli atti trasmessi alla corte per il controllo preventivo di legittimità divengono in ogni caso
esecutivi trascorsi 60 giorni dalla loro ricezione, senza che sia intervenuta una pronuncia della
sezione di controllo;
b) sono esclusi dal controllo preventivo di legittimità gli atti emanati nelle materie monetaria,
creditizia, monetaria mobiliare e valutaria.
Abbiamo ulteriori innovazioni procedimentali: in particolare, si moltiplicano i casi di intervento nel
procedimento di formazione dei regolamenti del sistema delle conferenze. La conferenza Stato-
Regioni deve essere sentita obbligatoriamente in ordine agli schemi di regolamento che riguardano
materie di competenza regionale.
La notifica alla Commissione UE. Un'altra integrazione procedimentale riguarda quei regolamenti
che contengono aiuti di Stato. In virtù del diritto dell'unione europea, è imposta la preventiva
comunicazione del regolamento alla commissione affinché ne verifichi la compatibilità con la
disciplina dell'unione europea sugli aiuti di Stato posta a presidio dei principi di libera concorrenza
e di libera circolazione del mercato interno. In mancanza di comunicazione vi è la illegittimità
dell'atto, anche se l'aiuto è compatibile con la disciplina dell'unione europea.
Numerose leggi prevedono il parere della commissione parlamentare competente, che interviene

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

alla fine dell'iter procedimentale.


Il risultato è un procedimento di adozione lungo e farraginoso dove abbiamo controlli di organi
diversi come il Consiglio di Stato e la corte dei conti.
Maggiori sono le deviazioni rispetto al modello previsto dall'articolo 17 con riferimento ai tipi di
regolamento e ai rispettivi limiti.
Innanzitutto va segnalato come nella prassi il preambolo dei regolamenti governativi raramente
individua il tipo esatto cui il regolamento appartiene. In pratica, nel medesimo atto regolamentare vi
sono norme di mera esecuzione e norme di attuazione-integrazione.
Inoltre, non infrequentemente i regolamenti d'attuazione non risultano espressamente autorizzati
dalla legge, superando nei fatti così quelle tesi dottrinali secondo cui, in assenza di un'espressa
autorizzazione legislativa, sarebbero ammissibili i soli regolamenti di esecuzione non già quelli di
attuazione e integrazione.
Quanto ai regolamenti indipendenti, nonostante la grande attenzione che essi hanno suscitato da
parte della dottrina, essi hanno avuto assai limitata applicazione, anche perché è difficile trovare
spazi ordinamentali in cui manca qualsiasi regolazione legislativa.
Il superamento del modello delineato dalla legge 400 è stato particolarmente vistoso con riguardo
alle leggi che hanno previsto i regolamenti di delegificazione.
LE STAGIONI DELLA DELEGIFICAZIONE
Il regolamento di delegificazione è stato ampiamente utilizzato a partire dalla legge del 1993.
Una prima ondata ha riguardato la disciplina dei procedimenti amministrativi, per semplificarli: la
legge autorizzava il Governo a emanare regolamenti di delegificazione per la semplificazione di
molti procedimenti amministrativi, realizzandosi cosi una connessione tra riforma della pubblica
amministrazione e delegificazione, con l’obiettivo di ridurre la complessità del procedimento e la
riduzione del rango della sua disciplina, passando al livello secondario.
In una seconda fase poi si è estesa la semplificazione alle competenze, autorizzando i regolamenti
ad accorpare funzioni per settori omogenei, a sopprimere organi superflui e ridurre gli organi
collegiali ai casi strettamente necessari.
La tendenza a estendere la semplificazione amministrativa agli aspetti organizzati è continuata con
la legge Bassanini che ha previsto
A) semplificazione di procedimenti elencati in un apposito allegato e semplificazione di alcune
materie richiamate in cinque lettere;
B) alcuni criteri e principi della semplificazione da valere quali norme generali regolatrici;
C) alcuni di questi criteri riguardano anche il riordino delle competenze degli uffici interessati,
D) la previsione di una legge di semplificazione ( a cadenza annuale) finalizzata a realizzare la
costante opera di delegificazione e semplificazione dei procedimenti amministrativi.
La prassi della delegificazione avviata con le leggi fin qui citate e continuate con le leggi annuali di
semplificazione ha operato una deviazione dal modello della legge 400 del 1988 soprattutto sotto
due profili: l'assoluta genericità e vaghezza delle norme generali regolatrici della materia; la
mancata indicazione da parte della legge delle norme abrogate.
Le leggi che hanno previsto i regolamenti di delegificazione si sono caratterizzate per la sostanziale
assenza di norme generali regolatrici della materia, visto che tali leggi si sono limitate alla
enunciazione di generici obiettivi da raggiungere e di finalità da perseguire. E’ mancata inoltre nelle
leggi che prevedono la delegificazione l'indicazione delle norme da considerare abrogate a seguito
dell'entrata in vigore dei regolamenti. Tali norme, invece, sono state direttamente individuate dagli
stessi regolamenti di delegificazione.
La prassi finora descritta si è consolidata e ha trovato l'avallo del Consiglio di Stato. Quest'ultimo,
infatti, ha affermato che quel che conta è che intervenga un’abrogazione espressa delle norme
oggetto di delegificazione; perciò quando queste non siano individuate dalla legge, è necessario che
sia il regolamento a farlo.
Inoltre, secondo lo stesso consiglio di Stato, le amministrazioni che predispongono il regolamento
di delegificazione sono le sedi più attrezzate per individuare le norme abrogate, rispetto alle quali la
concreta stesura del regolamento costituisce logico presupposto.

77
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

Nuove tipologie di regolamento. L'allontanamento dal modello di delegificazione immaginato dal


legislatore del 1988 si è realizzato anche attraverso l'affermazione di tipologie di regolamento
ulteriori e diverse rispetto a quelle previste dall'articolo 17.
La legge annuale di semplificazione(e regolamenti conseguenti): questo strumento è stato
inizialmente introdotto dall'articolo 20 della legge 59 del 1997. Questa legge ha operato come una
fonte sulla produzione di un'altra legge, secondo una dinamica che è stata chiamata legge madre-
legge figlia, già conosciuta con riguardo alla legge finanziaria e alla legge comunitaria.
LE LEGGI DI SEMPLIFICAZIONE
E’ una legge annuale per la semplificazione e il riassetto normativo.
Entro il 31 gennaio di ogni anno il Governo deve presentare il disegno di legge di semplificazione,
che prevede l’adozione di decreti legislativi, relativamente alle norme legislative e procedimentali,
nonché regolamenti, ove permanga la competenza dello Stato. Questi regolamenti hanno portata
delegificante e con la loro entrata in vigore sono abrogate le norme , anche di legge, regolatrici dei
procedimenti.
Le leggi di semplificazione sono costruite come leggi di delega che prevedono i decreti legislativi e
li autorizzano a ricorrere alla delegificazione. Nella sostanza, quindi, sono i decreti legislativi che
prevedono l'uso del regolamento di delegificazione. La legge di semplificazione per il 2001 ha poi
introdotto un altro strumento di semplificazione ,ossia i codici di settore , che dovrebbero operare
un riassetto della normativa vigente. Lo schema formale resta,comunque, quello della delegazione
legislativa.
L'organizzazione amministrativa si è confermata il terreno privilegiato dei regolamenti di
delegificazione. Già l'articolo 17 della legge 400 del 1988 aveva previsto i regolamenti per
l'organizzazione e il funzionamento delle pubbliche amministrazioni secondo le disposizioni
dettate dalla legge.
In questo modo la disciplina di riferimento per l'organizzazione del governo doveva essere costituita
dalla legge.
Un importante cambiamento si è verificato con la già citata legge 59 del 1997, che ha introdotto il
comma 4-bis dell'articolo 17 della legge 400 del 1988. Tale norma autorizza in via definitiva il
governo a disciplinare con propri regolamenti emanati ai sensi del comma 2 l'organizzazione e la
disciplina interna degli uffici di diretta collaborazione dei ministri e gli uffici dirigenziali generali,
mentre la definizione dei compiti delle unità dirigenziali non generali può essere fatta con decreti
ministeriali di natura non regolamentare.
La nuova disciplina dei regolamenti di organizzazione dei ministeri, avrebbe introdotto una specie
di riserva di regolamento a favore del governo, senza che il Parlamento abbia la possibilità di fissare
i principi e i criteri che vincolino il contenuto di tali regolamenti. A ciò si aggiunge la circostanza
per cui le norme abrogate vengono individuate non già dalla legge bensì dallo stesso regolamento.
Alla legge sfugge, insomma, sia l'individuazione delle norme generali regolatrici della materia con
riguardo ai singoli regolamenti, sia l'individuazione delle norme abrogate. Tutto ciò ha suscitato
perplessità sul terreno della compatibilità delle figure con le riserve di legge stabilite dall'articolo 95
e dall'articolo 97 della costituzione. Però non si può parlare di riserva di regolamento, in quanto il
Parlamento è sempre libero, così come è in concreto avvenuto, di rilegificare in ogni momento
l'organizzazione di un ministero.
Un'ulteriore espansione della delegificazione e l'allontanamento dal modello previsto dalla legge
400 del 1988 si sono avuti per effetto della legge 86 del 1989, che ha introdotto la figura dei
regolamenti per l'attuazione delle direttive dell'unione europea. Viene così introdotto un nuovo
modello di delegificazione, applicabile nei casi in cui sia la legge comunitaria annuale ad
autorizzarlo.
La novità consiste:
a) in alcune varianti procedurali rispetto all'articolo 17 della legge 400;
b) nel prescindere dalla necessità della previa indicazione nella legge comunitaria annuale delle
norme generali regolatrici della materia, le quali possono essere determinate attraverso l'invio ai
principi e alle disposizioni contenute nelle direttive da attuare, nonché attraverso il riferimento ad

78
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

alcuni principi generalissimi e generici indicati dallo stesso articolo 11.3.


Inoltre deve essere sottolineato come la delegificazione viene estesa, dal citato articolo 11, anche
alle materie coperte da riserva relativa di legge. Inoltre a causa della vaghezza delle norme generali
individuate dall'articolo 11, la salvaguardia della riserva di legge è solo apparente. Inoltre, nelle
materie non coperte da riserva di legge e non già disciplinate dalla legge o da un regolamento
governativo, è ammesso che le direttive siano attuate con regolamento ministeriale o
interministeriale, ovvero con atto amministrativo generale.
Nonostante la riforma dell'articolo 117 della costituzione che sembrava limitare la competenza dei
regolamenti statali, il ricorso ai regolamenti di delegificazione continua ad essere abbastanza
intenso.
Atti con forza di legge che autorizzano la delegificazione. L'autorizzazione all'emanazione dei
regolamenti di delegificazione frequentemente è contenuta non solo nelle leggi del Parlamento ma
anche in decreti legislativi ed in decreti legge.
Completamente al di fuori della razionalizzazione operata dall'articolo 17 della legge 400 del 1988,
sono proliferati atti sostanzialmente normativi del governo non riconducibili, neppure a grandi
linee, alla tipologia tracciata da tale legge.
Il fenomeno più diffuso è quello dei decreti ministeriali previsti da varie leggi ed espressamente
qualificati come decreti di natura non regolamentare. Essi sono utilizzati per aggirare il
complesso procedimento di adozione dei regolamenti del governo e talora persino per tentare di
aggirare la ripartizione del potere regolamentare tra Stato e regioni operata dall'articolo 117 della
costituzione. In quest'ultimo caso ci troviamo sicuramente in un'ipotesi di contrasto con la
costituzione e la stessa corte costituzionale, sia pure incidentalmente, ha valutato la potenzialità
lesiva di tali atti nei confronti del riparto costituzionale delle competenze.
Nell'altra ipotesi, invece, c'è una fuga dal modello delineato dall'articolo 17 della legge 400 del
1988, che accresce il novero degli atti normativi atipici che si vanno diffondendo nell'esperienza
repubblicana.
Conclusione: i regolamenti del Governo nel sistema delle fonti. La dottrina prevalente si è
sforzata di mantenere ben ferma la subordinazione del regolamento alla legge, cui veniva affidato il
ruolo di fissare le linee generali di disciplina della materia. Così anche con riferimento alla figura
che appariva più difficile da imbrigliare entro questi schemi, cioè quella dei regolamenti di
delegificazione, è stato elaborato un modello che tentava di salvare la purezza del modello stesso.
Il modello dottrinale ha influenzato la produzione legislativa visto che, è stato recepito dall'articolo
17 della legge 400 del 1988. Il modello, però, è stato falsificato dalla dinamica concreta delle fonti.
Non solo vi sono regolamenti che mancano di una esplicita preventiva autorizzazione legislativa,
ma la prassi della delegificazione ha dato largo spazio a regolamenti, che nella sostanza, operano
sullo stesso livello della legge.
Se si guarda all'uso effettivo che è stato fatto dalla potestà regolamentare del governo e dei rapporti
che si sono instaurati tra il regolamento e la legge, sembra uscire particolarmente ridimensionato il
ruolo del criterio gerarchico e le accezioni più forti del principio di legalità.
Di fronte a tutto ciò, si possono avere due atteggiamenti.
Si può muovere una critica radicale alla realtà delle fonti, accusando l'assetto del potere
regolamentare del governo di andare contro la costituzione.
Oppure si può prospettare un modello diverso da quello teorico dominante, che sia sensibile nei
confronti dei dati provenienti dalla prassi, la quale, peraltro, riflette un nuovo equilibrio dei rapporti
tra governo e Parlamento, che vede preminente la funzione di indirizzo politico del governo.
In questo quadro istituzionale sembra avvalorata quella ricostruzione che fonde il potere
regolamentare del governo direttamente nella costituzione e più precisamente nella funzione di
indirizzo politico e amministrativo che la stessa costituzione attribuisce al governo.
C'è però da aggiungere che anche in questa prospettiva, favorevole ad una espansione del potere
regolamentare del governo, bisognerebbe comunque tenere fermi alcuni limiti che si ricavano
direttamente dalla costituzione. In primo luogo vi è l'espressa previsione costituzionale degli atti cui
viene conferita la forza di legge, che impedisce quindi una piena equiparazione del regolamento alla

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

legge e agli atti del governo con forza di legge. Così come non va dimenticato che, nella forma di
governo italiana, il ruolo di guida politica del governo non esclude la sua dipendenza dal
Parlamento dovuta proprio dal rapporto di fiducia.
Tutto ciò implica l'irrinunciabilità del principio di legalità almeno nella sua accezione più debole,
quella cioè di preferenza della legge.
Quest’ultima resta padrona di regolare le materie affidate alla sua competenza dall’art. 117 cost.,
anche però affidando al governo la disciplina, attraverso una legge che autorizzi la delegificazione.
Però anche in questo caso non vi è una competenza esclusiva del governo perché può intervenire
una nuova disciplina legislativa che abroghi la fonte regolamentare.
Mentre i regolamenti diversi da quelli di delegificazione è necessario che siano conformi alla
normativa legislativa, pena l’invalidità del regolamento.

3.I regolamenti delle regioni e degli enti locali


La ripartizione della potestà regolamentare tra Stato e Regioni. La posizione dei regolamenti
nel sistema si è ulteriormente modificata per effetto della riforma del titolo V della parte seconda
della costituzione. Il nuovo testo dell'articolo 117.6 stabilisce che la potestà regolamentare spetta
allo stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle regioni. La potestà
regolamentare spetta alle regioni in ogni altra materia. I comuni, le province e le città
metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello
svolgimento delle funzioni loro attribuite.
Con questa previsione la costituzione ha disegnato un parallelismo tra potestà legislativa e potestà
regolamentare. In particolare, per lo Stato il parallelismo vale per le sole materie di competenza
esclusiva, mentre per le Regioni vale in tutte le altre materie (residuali regionali e concorrenti). In
questo modo, entra in gioco il criterio della competenza.
Gerarchia e competenza nei regolamenti. Da una parte, vi è la delimitazione della sfera di
competenza che riguarda i rapporti tra i diversi livelli di governo. Per cui in una materia concorrente
deve escludersi la possibilità per lo Stato di intervenire in tale materia con atti normativi di rango
sub - legislativo.
Dall'altra parte, però, nei rapporti tra la legge e il regolamento continua ad operare il principio
gerarchico, visto che la riforma del titolo V non ha certamente intaccato il valore del principio di
legalità.
La sfera di competenza è opponibile rispetto alle intromissioni dei regolamenti degli altri livelli di
governo. Ciò può avvenire in sede di giudizio di costituzionalità su una legge che prevede un
regolamento che invade la sfera di competenza di un altro livello oppure in sede di conflitto di
attribuzioni avverso regolamenti che invadono la sfera di competenza riservata all'altro livello di
governo.
Separazione di competenze tra reg. statali e reg. regionali e clausole di flessibilità. La regola di
base nei rapporti tra fonti statali e fonti regionali è quella della separazione delle competenze; essa
vale anche nel rapporto tra regolamenti statali e leggi regionali da una parte, e nei rapporti tra
regolamenti statali e regolamenti regionali, dall'altra. La regola però ammette alcune eccezioni. La
linea di confine è caratterizzata da un notevole grado di flessibilità.
Il potere regolamentare statale ha assunto una specie di configurazione a fisarmonica, perché in
grado di estendersi impiegando una delle diverse clausole di flessibilità della separazione delle
competenze individuate dalla corte costituzionale.
Per quanto riguarda i rapporti tra regolamenti statali e leggi regionali, la corte costituzionale
inizialmente ha affermato che alla fonte secondaria statale è inibita in radice la possibilità di
vincolare l'esercizio della potestà legislativa regionale o di incidere su disposizioni regionali
preesistenti. Quindi neppure i principio di sussidiarietà e adeguatezza possono conferire ai
regolamenti una capacità estranea al loro valore, cioè quella di modificare gli ordinamenti regionali
a livello primario.
Ne deriva una conseguenza precisa: l'esclusione della possibilità di utilizzare lo strumento della
delegificazione in materie di competenza regionale. I regolamenti statali di delegificazione

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

vedevano notevolmente ridotti i margini di legittimo intervento. Lo stesso giudice delle leggi ha
sostenuto che questi regolamenti di delegificazione non possono produrre alcun effetto abrogativo
nei confronti delle leggi regionali in vigore, limitandosi ad abrogare esclusivamente le norme
statali.
Così viene negata in radice la possibilità di conflitto tra regolamento di delegificazione e leggi
regionali, rinviando all'interprete il compito di ricostruire la norma statale di delegificazione nel
senso di limitarne la portata alla quota di materia statale.

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

Nei casi in cui la legge statale non può essere interpretata in alcun modo nel senso di escludere il
conflitto, la corte ne dichiara l'incostituzionalità. Ove poi, in concreto il regolamento di
delegificazione venisse ad invadere la sfera di competenza regionale rimane aperta la strada del
conflitto di attribuzioni e del suo annullamento da parte della corte costituzionale.
I Regolamenti cedevoli. Quindi dovrebbe darsi una soluzione negativa al problema
dell'ammissibilità dei regolamenti statali contenenti norme cedevoli in materia di competenza
regionale: norme regolamentari statali destinate, cioè, a venire meno a seguito dell'effettivo
esercizio della potestà normativa regionale (regolamenti cedevoli). Però va osservato che quando
la corte con la citata sentenza 303 del 2003, ha annullato la legge obiettivo nel punto in cui
autorizzava il governo a modificare il regolamento di attuazione della legge quadro sui lavori
pubblici, non ha fatto alcun cenno alla questione della cedevolezza. La decisione, quindi, ha
lasciato aperta la possibilità che in un'altra occasione la corte ammetta regolamenti cedevoli.
Regolamenti cedevoli nell’attuazione degli obblighi comunitari. Sul fronte legislativo, poi, c'è
stata l'espressa previsione di norme regolamentari statali cedevoli da parte della legge 11 del 2005
che ha modificato la cosiddetta legge La pergola. Essa, infatti, autorizza il governo ad adottare
regolamenti nelle materie di competenza delle regioni al fine di porre rimedio all'eventuale inerzia
dei suddetti enti nel dare attuazione a norme comunitarie. Quindi il regolamento statale può entrare
per primo nelle materie di competenza regionale ogni qualvolta vi sia l'esigenza di attuare norme
dell'unione europea.
Chiamata in sussidiarietà e potere regolamentare. La successiva giurisprudenza costituzionale è
arrivata ad ammettere proprio ciò che nella sentenza 303 del 2003 era stato chiaramente escluso,
ossia l’attrazione in via sussidiaria allo stato anche della competenza regolamentare. Secondo la
corte, infatti, l'assunzione diretta di una funzione amministrativa da parte dello Stato, nella forma
dell'erogazione di un contributo economico in favore degli utenti, con l'adozione di un regolamento
che stabilisca criteri e modalità di attribuzione di questo contributo, appare nella specie giustificata
da un'evidente esigenza di esercizio unitario della funzione stessa, non potendo un siffatto
intervento a sostegno del pluralismo informativo non essere uniforme sull'intero territorio
nazionale.
La corte ha così coinvolto nella attrazione sussidiaria anche la potestà regolamentare con la sola
spiegazione della esigenza dell'esercizio unitario della funzione. Così la corte ha consentito a fonti
secondarie statali di condizionare l'esercizio della potestà legislativa regionale. La corte ha
giustificato l'intervento regolamentare pure in assenza di un'intesa con la regione, con la
conseguenza che quest'ultima viene spogliata con atto unilaterale della possibilità di opporsi alla
sottrazione di materie costituzionalmente previste. Inoltre l’assenza dell'accordo tra Stato e regione
priva la stessa corte costituzionale di parametri valutativi dotati di oggettività e controllabilità
giuridica.
In una pronuncia successiva la corte ha ritenuto che la chiamata in sussidiarietà può applicarsi
anche al regolamento statale di delegificazione nei confronti delle leggi regionali, ma tra i criteri
che ne condizionano la legittimità costituzionale ha ricompreso la previsione dell'intesa tra Stato e
regione.
La corte costituzionale ha ripreso la sua giurisprudenza sulla chiamata in sussidiarietà, basata
sull'articolo 118 della costituzione, affermando che nelle materie di cui all'articolo 117.3 e .4 della
costituzione, una legge può legittimamente attribuire funzioni amministrative a livello centrale e al
tempo stesso regolarne l'esercizio, se, e in quanto, siano soddisfatti i requisiti di proporzionalità,
ragionevolezza e leale collaborazione.
Differenze operative tra principio di sussidiarietà e principio di cedevolezza. L'operare della
sussidiarietà ha conseguenze diverse dal riferimento alle norme cedevoli.
La cedevolezza delle norme, infatti, presuppone la possibilità del successivo intervento della fonte
regionale nella stessa materia. La sussidiarietà, invece, implica la sostituzione di un livello di
governo a un altro nell'esercizio della funzione amministrativa e della corrispondente funzione
normativa. Tale conclusione è certamente valida nel caso in cui la chiamata in sussidiarietà riguardi
i rapporti tra legge statale e legge regionale. Il problema si pone nel caso di una legge regionale che

82
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

intervenga a disciplinare una materia già attratta nell'orbita della normativa statale, oppure nel caso
di un regolamento di delegificazione che intervenga in materia già disciplinata con legge regionale.
Sembrerebbe possibile considerare la legge regionale nel primo caso illegittima e nel secondo caso
abrogata.
La separazione di competenze nell’esercizio del potere regolamentare… Per quanto riguarda lo
specifico profilo dei rapporti tra regolamento statale e regolamento regionale, il sistema è ispirato
alla separazione delle competenze. Così il giudice delle leggi ha annullato quelle disposizioni che
autorizzavano l'intervento del regolamento statale in materie regionali.
Tuttavia, la rigidità del criterio di separazione delle competenze viene attuata mediante le
operazioni di ricostruzione delle materie, che, possono portare all'espansione delle cosiddette
competenze trasversali, come sovente avviene con quella riguardante la tutela della concorrenza. In
questi casi la corte nega che vi sia stata una violazione della sfera di competenza delle regioni, in
base all'assunto secondo cui la disposizione impugnata rientrerebbe in una materia di competenza
statale.
La suddetta clausola di flessibilità è stata utilizzata particolarmente con riguardo al settore dei
contratti pubblici. La più recente giurisprudenza costituzionale ha escluso l'esistenza di una materia
"lavori pubblici", riducendo la disciplina dei contratti pubblici alle materie tutela della concorrenza
e ordinamento civile.
Un ulteriore causa di flessibilità nella ripartizione delle competenze è stata giustificata in nome del
principio di continuità.
Vi sono decisioni della corte costituzionale in cui il principio di continuità viene invocato non per il
mantenimento in vita di una disposizione antecedente alla riforma costituzionale, ma per consentire
la sopravvivenza di una normativa successiva a tale riforma che viene ad integrare una normativa ad
essa preesistente. In questo modo si riconosce l'ammissibilità di una normativa di dettaglio di tipo
regolamentare in materie di competenza concorrente in forza del carattere temporaneo della
disciplina e della necessità di garantire alcuni valori di rilievo costituzionale anche nella fase
transitoria tra la vecchia disciplina costituzionale e l'attuazione concreta della nuova.
Gli orientamenti della giurisprudenza amministrativa sono ora limitativi e ora permissivi.
Da un lato vi è l'affermazione che lo Stato non può approvare regolamenti in una materia che dopo
la riforma del titolo V spetta alle regioni e si precisa che l'intesa nell'ambito della conferenza Stato
regioni non può valere di per sé a fondare l'esercizio della potestà regolamentare dello Stato su
materie non riservate alla sua competenza legislativa esclusiva. Invece in un altro parere il
Consiglio di Stato ha escluso che lo Stato possa adottare norme regolamentari cedevoli in materie di
competenza regionale, ammettendo delle eccezioni per l'attuazione della normativa dell'unione
europea. Nelle materie concorrenti e residuali le regioni sono competenti a dare attuazione alle
direttive dell'unione europea.
Dall'altro lato esistono alcuni orientamenti permissivi. In particolare, il Consiglio di Stato ha
ammesso che possa essere approvato un regolamento statale in materia concorrente quando vi siano
ragioni di necessità e di urgenza, mentre in un altro caso ha ammesso un regolamento statale
relativo alla disciplina del fondo per la promozione del libro e dei prodotti editoriali, in
considerazione del carattere nazionale del fondo e del parere positivo espresso dalla conferenza
unificata, pur trattandosi di una materia di competenza regionale.
In ordine ai rapporti tra regolamenti statali e leggi e regolamenti regionali, il diritto vivente sembra
spingere verso un modello di integrazione in cui il principio di competenza conosce importanti
eccezioni per opera di alcune clausole di flessibilità.
L’autonomia regolamentare degli enti locali: Diverso sembra invece l'orientamento per ciò che
riguarda i regolamenti degli enti locali: in almeno una pronuncia della corte costituzionale si può
scorgere l'effetto per cui l'autonomia di comuni e province, nei loro rapporti con fonti di livello
superiore, viene a godere di una tutela ancora più efficace di quella spettante all'autonomia
regionale nei suoi rapporti con le fonti statali.
a) nei confronti di regolamenti. Come abbiamo visto all'inizio, l'articolo 117.6 attribuisce agli enti
locali la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento

83
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

delle funzioni loro attribuite. Da ciò la corte ha ricavato un'interpretazione rigida del principio di
competenza: infatti, ha sostenuto che il conferimento di una determinata funzione amministrativa ad
un dato anello istituzionale comporta la traslazione verso lo stesso della corrispondente potestà
regolamentare. Un’eventuale inerzia dell'ente destinatario della predetta funzione non può essere
prevenuta, dall'ente che ha effettuato il conferimento, con norme sostitutive prodotte da una fonte di
pari livello (cioè un regolamento) benché provviste di efficacia cedevole. Se legislatore regionale
nell'ambito delle proprie materie legislative dispone discrezionalmente delle attribuzioni di funzioni
amministrative agli enti locali… non può contestualmente pretendere di affidare ad un organo della
regione la potestà regolamentare propria dei comuni o delle province in riferimento a quanto
attribuito loro dalla legge regionale medesima. Infatti nei limiti delle funzioni attribuite dalla legge
regionale agli enti locali, solo questi ultimi possono adottare i regolamenti relativi
all'organizzazione e all'esercizio delle funzioni loro affidate dalle regioni.
Con questa decisione la corte ha suffragato la tesi secondo cui la riforma costituzionale del 2001
avrebbe introdotto una vera e propria riserva di regolamento a favore degli enti locali: ma il
principio di competenza non opera in astratto, bensì solamente dopo che una determinata funzione
amministrativa sia stata conferita all'ente locale.
b) nei confronti delle leggi. La decisione della corte, però, riguarda espressamente il rapporto tra
regolamento locale e regolamento regionale. Per quanto riguarda, invece, i rapporti tra legge e
regolamento locale la dottrina si è sostanzialmente divisa secondo due orientamenti: uno ha letto
l'articolo 117.6 della costituzione nel senso che esso avrebbe previsto una vera e propria riserva di
competenza; un altro, invece, ha ricostruito il rapporto regolamento locale-legge secondo il
tradizionale principio gerarchico. Secondo quest'ultima impostazione, il rapporto tra le due fonti
non sarebbe molto diverso dalla logica legge-regolamento statale di esecuzione. Viceversa, qualora
si ricava dall'articolo 117.6, una riserva di competenza, dovrebbe ritenersi costituzionalmente
illegittima la legge che, dopo aver allocato una funzione amministrativa in capo all'ente locale,
occupasse uno spazio relativo alla disciplina organizzativo-procedurale delle funzioni
amministrative conferite.
Quest'ultimo orientamento pare uscire rafforzato in seguito alla giurisprudenza costituzionale
appena citata. C'è però chi mitiga gli effetti della riserva di regolamento locale, escludendo che
possa essere annullata una legge solamente perché detta una disciplina dei profili organizzativo-
procedurali delle funzioni amministrative conferite agli enti locali. Tale conclusione viene
suffragata da due ragioni: una di opportunità e un'altra di carattere teorico legata all'assimilazione
della riserva secondo l'articolo 117.6 alla forzata coesistenza tra legge statale e regionale nelle
materie di competenza concorrente.
Vale il principio di preferenza di regolamento locale?In questo modo opererebbe un principio di
preferenza di regolamento locale, per cui la legge continua a disciplinare la materia fino a quando
non intervenga il regolamento locale a derogare la legge. Perciò quest'ultima conterrebbe norme
cedevoli nella parte in cui disciplina i profili organizzativo-procedurali delle funzioni conferite.
La suddetta interpretazione fuoriesce però, dalla nozione di competenza in senso forte, perché
assicura un certo grado di flessibilità nei rapporti tra legge e regolamento locale. Questa flessibilità
è accentuata da parte di chi osserva che la competenza di cui all'articolo 117.6, è una competenza
funzionale: essa, infatti, segue le sorti della funzione amministrativa conferita all'ente locale dalla
legge. Il conferimento di tale funzione amministrativa sulla base dell'articolo 118 della costituzione,
deve seguire una logica sussidiaria, sicchè lo stesso potere regolamentare locale dovrà ubbidire a
tale logica. Questo significa che, in ordine ai profili organizzativi e procedurali delle funzioni
amministrative conferite agli enti locali, ci sarebbe una presunzione relativa di competenza dei
regolamenti locali, i quali cioè solamente in linea tendenziale avrebbero riservato il potere di
disciplinare questi profili.
Ma col sopraggiungere di esigenze unitarie, questa presunzione di competenza sarebbe destinata
cedere di fronte alla legge che potrebbe disporre del criterio di riparto in due modi diversi:
a) spostando la titolarità della funzione amministrativa in capo ad un ente di livello più
comprensivo;

84
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

b) oppure mantenendo la titolarità della funzione amministrativa in capo all'ente locale attraendo
però alla legge la sola disciplina degli aspetti organizzativo-procedurali della funzione.
Comunque, alla luce del principio di legalità sostanziale che la corte costituzionale ha ancorato
soprattutto all'articolo 23 della costituzione, l'autonomia normativa degli enti locali non dovrebbe
spingersi fino a imporre regole di condotta ai privati non previste dalla legge.
Il regime dei regolamenti delle regioni speciali si differenzia da quello fin qui ricostruito per
pochi profili.
Il primo profilo riguarda il titolare della relativa competenza. Sono gli statuti speciali a individuare
direttamente l'organo titolare del potere regolamentare e, di regola, attribuiscono tale titolarità alla
giunta regionale.
Ne scaturiscono due conseguenze importanti:
a) l'inammissibilità dei regolamenti dei singoli assessori;
b) l'illegittimità degli atti a contenuto normativo emanati senza delibera di giunta o comunque
violando le suddette formalità.
Il secondo profilo riguarda l'ambito di competenza. Anche per i regolamenti delle regioni speciali
dovrebbe operare la clausola della previsione più favorevole, con la conseguenza che il regime
riguardante i rapporti tra regolamenti statali e regolamenti regionali previsto dall'articolo 117.6 della
costituzione dovrebbe essere esteso anche alle regioni speciali.
Il terzo profilo riguarda le materie in cui le regioni speciali possono adottare regolamenti. Operando
il parallelismo tra potestà legislativa e potestà regolamentare, occorrerà fare riferimento alle materie
che ciascun statuto affida alle competenze della singola regione speciale.

4. La tutela giurisdizionale nei confronti dei regolamenti


Inizialmente, la giurisprudenza tendeva ad assimilare il regolamento al provvedimento
amministrativo con riguardo ai mezzi di tutela, dando così luogo a difficoltà applicative e ad un
grave deficit di tutela.
L’insufficienza dei rimedi giurisdizionali. In primo luogo, ciò comportava la sottoposizione anche
del regolamento alla regola dell'impugnazione entro il termine di decadenza. Una norma
regolamentare contraria alla legge o alla costituzione sarebbe rimasta efficace per il solo fatto di non
essere stata impugnata entro il termine ordinario di decadenza: ciò portava all'inversione dell'ordine
gerarchico delle fonti, con la prevalenza del regolamento, una volta divenuto inoppugnabile, sulla
legge.
La carenza di controllo di legittimità del regolamento. Più di recente, a fronte dell'espansione
della potestà regolamentare, il regolamento si è emancipato dalla legge, essendo questa troppo
spesso del tutto indeterminata sia nei principi che nella definizione della materia: viene meno di
conseguenza il criterio alla stregua del quale effettuare il controllo di legittimità del regolamento.
L'inadeguatezza del sindacato sui regolamenti deriverebbe anche dal fatto che il giudice
amministrativo opera sui regolamenti un riscontro meramente formale, diretto ad individuare il
fondamento legale del potere regolamentare. Nel giudizio sui regolamenti mancano sia le
caratteristiche del controllo del giudice amministrativo sui provvedimenti, sia quelle del controllo
della corte costituzionale sugli atti aventi forza di legge, in cui esiste lo strumento del sindacato
della ragionevolezza.
Le proposte di….Costantino Mortati, negli anni 60 del novecento, aveva prospettato un sindacato
di costituzionalità sui regolamenti, muovendo dalla premessa che il potere regolamentare fosse
fondato non già sull'autorizzazione contenuta nella legge, bensì direttamente sulla posizione
conferita dalla costituzione agli organi che esercitano questo potere: ciò significa che il regolamento
poteva talvolta rientrare anche tra gli atti aventi forza di legge.
…e quelle di Carlo Esposito. Tuttavia questa suggestiva ricostruzione non ha avuto alcun seguito
nella giurisprudenza della corte costituzionale. Quest'ultima ha ripreso l'idea di Esposito secondo
cui il giudice costituzionale sempre e solo di legge dovrebbe occuparsi. Però Esposito aveva anche
affermato che la corte deve giudicare della costituzionalità delle disposizioni giuridiche legislative
nella significazione che esse assumono, oltre che nel complesso delle disposizioni di legge o di atti

85
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

aventi forza di legge, anche in quelle che esse possono aver assunto nella concreta totalità
dell'ordinamento. E quindi affermava che non è consentito, in sede di controllo della legittimità
costituzionale della legge, porre le disposizioni regolamentari di esecuzione fuori dalla legge cui
accedono e di cui abbiano determinato o specificato l'effettiva significazione.
Nel giudicare della costituzionalità di una legge, dunque, la corte deve riferirsi al diritto vivente, per
la cui comprensione insieme agli indirizzi giurisprudenziali e alle prassi amministrative, va tenuto
conto di tutti i regolamenti di esecuzione. Questa impostazione è seguita da due sentenze della corte
costituzionale le quali, da una parte hanno ribadito l'inammissibilità di un sindacato di
costituzionalità del regolamento, dall'altra parte hanno configurato un controllo di costituzionalità
della legge così come in concreto applicata attraverso le specificazioni operate dalla fonte
regolamentare.
Rimedi individuati dalla Corte costituzionale. La corte non vuole abbandonare la tradizionale
interpretazione dell'articolo 134, anche se è andata alla ricerca di più incisive forme di tutela. In
particolare, la corte ha osservato che l'articolo 134 non pregiudica il pieno esplicarsi della garanzia
della costituzione nel sistema delle fonti, in particolare con riferimento a quelle di valore
regolamentare adottate in sede di delegificazione.
Secondo la corte permangono due forme di tutela:
a) la questione di costituzionalità sulla legge abilitante il governo alla adozione del regolamento,
ove il vizio sia a essa riconducibile oppure
b) il controllo di legittimità sul regolamento, nell'ambito dei poteri spettanti ai giudici ordinari o
amministrativi, ove il vizio sia proprio ed esclusivo del regolamento stesso.
In base a questa impostazione, la corte, quando le è stato sottoposto il caso di un regolamento di
delegificazione sospettato di aver oltrepassato i confini della materia e dei criteri definiti dalla
legge, ha rifiutato di esercitare il suo sindacato sul regolamento e ha precisato che in questi casi il
regolamento resta inefficace in parte qua, perché non riesce ad esplicare l'effetto abrogativo della
legge.
Muovendo proprio da questa decisione si è superata l'impostazione tradizionale che vuole
l'invalidità del regolamento riconducibile alla specie dell'annullabilità. Piuttosto, un difetto così
radicale del fondamento legislativo del regolamento non imporrebbe più l'impugnazione tempestiva
del regolamento, e si aprirebbe così il varco ad una forma di tutela assimilabile a quella classica
della disapplicazione.
La disapplicazione giudiziale del regolamento illegittimo. Di disapplicazione del regolamento
illegittimo ha parlato già precedentemente il Consiglio di Stato. A partire dalla sentenza 154 del
1992 è stato abbandonato il principio che vietava al giudice amministrativo di disapplicare i
regolamenti, analogamente a quanto avviene per i provvedimenti amministrativi. Nel caso
esaminato dal consiglio di Stato, il ricorrente sosteneva l'illegittimità di un provvedimento per via
del contrasto con un regolamento. Ma il giudice ha rilevato d'ufficio che il regolamento era in
contrasto con la legge e che quindi il provvedimento impugnato era difforme dalla norma
secondaria, ma conforme alla norma primaria.
L’ opzione che si opponeva al giudice può essere così sintetizzata: applicare il regolamento,
nonostante la sua illegittimità, ed annullare il provvedimento impugnato; oppure disapplicare il
regolamento, sebbene non impugnato entro i termini di decadenza, e quindi riconoscere la
legittimità del provvedimento, rigettando il ricorso.
Il Consiglio di Stato ha scelto la seconda soluzione. Per giustificarla ha invocato il principio
secondo cui nel conflitto tra due norme di rango diverso deve darsi comunque prevalenza a quella di
livello superiore. Più specificamente, il giudice amministrativo ha fatto leva sul principio di
gerarchia delle fonti, sul principio iura novit curia e sulla necessità di rinvenire un qualche
meccanismo che consentisse di far valere l'invalidità della norma di rango inferiore per contrasto
con quella di rango superiore.
Gli argomenti a favore della disapplicazione del regolamento in contrasto con la legge, superano
decisamente l'ambito operativo della giurisdizione esclusiva: dalla motivazione emerge con
chiarezza la specialità della cognizione che si connette alla qualità normativa dei regolamenti e che

86
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

impone al giudice la ricerca della tecnica utile ad assicurare la coerenza del sistema normativo.
Quindi si difende l’inoppugnabilità del provvedimento amministrativo escludendone perciò la sua
disapplicazione, anche se illegittimo, allorché siano trascorsi i termini per l'impugnazione, ma ha
continuato a fare uso della tecnica della disapplicazione del regolamento in contrasto con la legge.
Non solo quando il ricorrente impugna un provvedimento perché ne assume il contrasto con un
regolamento, che però viola una legge, ma altresì nell'ipotesi in cui il ricorrente assuma la
illegittimità del regolamento. E in questa ultima ipotesi ha superato il problema di verificare se vi
fosse stata l'affettiva

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

impugnazione congiunta del regolamento insieme al provvedimento amministrativo, facendo


applicazione del principio iura novit curia.
La disapplicazione del regolamento illegittimo è stata qualificata come strumento di risoluzione
delle antinomie normative.
Disapplicazione del regolamento dopo la riforma del titolo V. Questa tecnica potrebbe risultare
di grande utilità pratica anche in seguito alle trasformazioni dell'ordine delle fonti realizzate con la
riforma costituzionale del titolo V. Quest'ultima ha rafforzato il criterio di competenza e ha
circoscritto l'area del regolamento statale alle materie di competenza esclusiva. Però l'esperienza ha
subito dimostrato la difficoltà di tracciare linee di confine tra le materie e l'emersione di alcune
materie trasversali, che esprimono una finalità o un valore e sono perciò in grado di viaggiare
orizzontalmente nell'ordinamento.
Per risolvere i conflitti di competenza frequenti in un assetto policentrico di produzione normativa
bisogna ricorrere a tutte quelle tecniche preventive di tipo negoziale (intese, accordi, eccetera) che
possono servire a specificare o a coordinare le competenze, quando vi è una situazione di
incertezza.
Inoltre quando l'antinomia tra norme regolamentari statali e regionali dovesse porsi nell'arena
giudiziaria, la disapplicazione potrebbe confermarsi una valida tecnica di soluzione delle antinomie.
La doppia tutela: disapplicazione oppure illegittimità e irragionevolezza. La giurisprudenza
amministrativa sembra adottare un sistema di tutela mista nei confronti dei regolamenti: di
disapplicazione quando il giudice accerti che, per provvedere sulla domanda, il regolamento debba
soccombere nei confronti di un'altra norma per ragioni di gerarchia o di competenza; di
annullamento, quando il regolamento abbia un effetto immediatamente lesivo, ovvero quando il
ricorrente abbia impugnato congiuntamente il provvedimento lesivo e il regolamento, e comunque
allorché manca un conflitto puntuale tra norme, ma si possa parlare di quel vizio particolare che è
l'irragionevolezza.
Quindi il controllo giudiziale guarda ai limiti del potere regolamentare, limiti che posono derivare
non solo dalla legge attributiva del potere, ma da qualsiasi altra fonte primaria, inducendo il giudice
a considerare l’intero sistema delle fonti.
Una volta adottata quest'ampia prospettiva, il passaggio successivo che già emerge in alcune
decisioni, è l'esperimento di un sindacato di ragionevolezza della norma regolamentare. È stato
notato che si tratta di un controllo che non consiste in un'evoluzione dello sviamento di potere e in
un bilanciamento di interessi divergenti. Di fronte a regolamento, lo scrutinio del giudice
amministrativo si fa carico della qualità normativa dell’atto: la ratio della disposizione
regolamentare è confrontata con la ratio della disposizione che ha attribuito il potere, e poi con i
principi generali e con le norme costituzionali, ricorrendo talora all'uso di un tertium comparationis.

CAP 8
ZONE D’OMBRA
1.Senza conclusione
Il sistema delle fonti è il frutto di un complesso lavoro svolto giorno dopo giorno dalla comunità
degli interpreti. Risponde all'esigenza di coerenza e completezza che informano la deontologia dei
giuristi basato su principi e regole con una base legislativa o costituzionale.
Il sistema si costruisce dunque via di interpretazione, laddove l'oggetto critico dell'attività degli
interpreti sono soprattutto i nuovi fenomeni normativi che emergono nella realtà sociale e
reclamano una qualificazione giuridica.
Come sempre avviene nelle questioni di interpretazione, anche per l'inserimento dei fenomeni
emersi dall'esperienza nel sistema delle fonti le opinioni divergono, e divergono spesso nettamente.
Il dissenso non si colloca soltanto negli interstizi del sistema, cioè nella valutazione di specifici
aspetti delle singole fonti e dei meccanismi con cui esse si pongono in relazione, ma nella stessa
delimitazione del sistema delle fonti, in merito alla possibilità di qualificare o meno un determinato
fenomeno come fonte del diritto.
Rilevanza pratica del riconoscimento delle fonti. Non sempre si tratta di problemi dell'immediata

88
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

rilevanza pratica. Per esempio, la questione delle consuetudini costituzionali a una grande rilevanza
per i profili teorici, assai meno per quelli operativi.
Non così invece per altre tematiche, come è il caso degli atti delle autorità amministrative
indipendenti o delle ordinanze amministrative. Ma negli uni come negli altri casi la qualificazione
di una determinata norma come appartenente al sistema delle fonti ha effetti determinati: solo le
fonti del diritto sono soggetti al principio iura novit curia; solo per la loro violazione sorge l'ipotesi
di violazione di legge per cui è sempre ammesso il ricorso in cassazione che deve assicurarne
l'esatta osservanza e l’uniforme interpretazione da parte del giudice; solo per esse valgono i criteri
di interpretazione indicati dalle preleggi; solo esse sono parametro per valutare la legittimità dei
provvedimenti amministrativi, e così via.

2.Convenzioni e consuetudini costituzionali


Le consuetudini costituzionali rappresentano da sempre un ostacolo difficile per chi si accinga a
ordinare in sistema le fonti del diritto. Nel sistema gerarchico delle fonti di diritto che la cultura
giuridica prevalente ha accreditato, la consuetudine in quanto tale si colloca nel gradino più basso,
in corrispondenza ad un'ideologia che premia le fonti volontarie provenienti dagli organi
rappresentativi su quelle spontanee derivanti dalla società. Ma in quanto costituzionale, la
consuetudine si trasferirebbe al vertice del sistema, sicuramente sopra la legge stessa.
Usiamo il condizionale perché è tutto da dimostrare che le consuetudini costituzionali esistano
davvero nel nostro ordinamento. L'argomento è infatti reso complicato dal sovrapporsi di
prospettive assai diverse.
La consuetudine e l’instaurazione dell’ordinamento costituzionale. Una prima prospettiva,
prettamente teorica, collega la consuetudine all'instaurazione di un ordinamento costituzionale e a
fondamento della sua effettività: la consuetudine è una delle risposte possibili attraverso cui si
istaura un regime politico e perché il suo ordinamento è rispettato dalla collettività, proprio perché
ad essa si è soliti far risalire la legittimazione stessa degli ordinamenti giuridici e la loro tenuta sul
piano della effettività
Diverso è il discorso se lo riportiamo al nostro diritto costituzionale: infatti, nel nostro ordinamento
è assai difficile individuare con un minimo di sicurezza esempi di consuetudine costituzionale, cioè
di fenomeni generativi di norme costituzionali che non siano spiegabili ricorrendo ad altri più
convincenti schemi esplicativi.
L'ipotesi a cui si fa riferimento più spesso riguarda il procedimento di formazione del governo e, in
particolare, l’istituto delle consultazioni. Che la prassi delle consultazioni sia quasi sempre stata
seguita dal presidente della Repubblica è un dato non contestabile, anche se, il suo significato è
radicalmente cambiato dall'epoca in cui i governi si generavano dopo una lunga trattativa tra le
forze politiche, rispetto all'epoca moderna odierna, in cui l'individuazione del presidente del
Consiglio dei Ministri e della coalizione è di solito il prodotto diretto delle elezioni. Però qualificare
questa prassi, ormai diventata un puro rito, come consuetudine, significa conferire ad essa i caratteri
dell'obbligatorietà, propri della fonte del diritto: ciò significa che non si può non giungere al punto
di ritenere illegittima l'eventuale legge che escludesse le consultazioni dal procedimento di
formazione del governo.
Vi sono poi numerosi fenomeni che taluno qualifica come consuetudine ma sono comunemente
considerati invece pure interpretazioni del testo costituzionale: ad esempio la tendenza del
presidente della Repubblica a liberarsi della proposta ministeriale per numerosi atti. Allo stesso
modo possono essere risolti rinviando all'interpretazione altri fenomeni talvolta rubricati come
consuetudini, come il principio di insindacabilità degli interna corporis, la regola della discontinuità
dei lavori parlamentari, l'introduzione dei cosiddetti accordi internazionali in forma semplificata e
così via.
Le cd. consuetudini interpretative. Ovviamente la casistica esploderebbe se si accettassero anche,
come esempi di consuetudine, quelle consuetudini interpretative, che altro non sono che prassi
applicative o precedenti giudiziari, ossia modi con cui giudici e istituzioni politiche applicano la
costituzione: avremmo così conseguito il risultato di dilatare enormemente ciò che è il diritto

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

costituzionale vigente, e quindi di inspessire la stessa normativa derivante dal testo costituzionale.
Le consuetudini e la cd. costituzione materiale. Un risultato analogo si ottiene attraverso il
richiamo della cosiddetta costituzione materiale: non è un caso che la conformità ad essa sia stata
riconosciuta come un criterio valido per riconoscere l'esistenza di una consuetudine costituzionale.
Nozione usata con significati e per finalità diverse, il concetto di costituzione materiale deve servire
ad agganciare l'interpretazione alla realtà della vita costituzionale e politica. Essa è introdotta,
proprio come le consuetudini costituzionali, per orientare l'interprete a scegliere, tra le diverse
soluzioni ermeneutiche, quella alternativa di significato normativo che garantisca la possibilità di un
più elevato rispetto dei valori che si esprimono nella costituzione materiale.
Per questa via però l'interprete della costituzione estende l'area di ciò che risulta vincolato dal diritto
costituzionale, sottratto perciò alle scelte libere che i soggetti dell'applicazione possono compiere.
Così, anche laddove i costituenti hanno avuto l'apprezzabile prudenza di non irrigidire in gabbie
precostituite la futura vita istituzionale, le gabbie vengono erette dagli interpreti, imputandole non
alle proprie scelte, ma a norme oggettive che l'interprete trova nel dato fattuale. Esse si offrono
all'interprete come dato per una possibile constatazione oggettiva, ma al prezzo di rassegnarsi a
veder dissolversi la linea di demarcazione tra regole e regolarità tra quello che la costituzione
prescrive e come la costituzione è applicata e fatta vivere, tra la norma che qualifica i
comportamenti e i comportamenti da qualificare attraverso la norma.
Le cd. convenzioni costituzionali. Considerazioni in parte diversa meritano invece le cosiddette
convenzioni costituzionali. L'espressione, tratta dal diritto costituzionale britannico, è riferita agli
accordi stretti esplicitamente o meno dalle istituzioni o tra le forze politiche per decidere quali
comportamenti tenere nei casi non direttamente regolati dal diritto. Il ricorso alle convenzioni non è
però privo di ambiguità. Essa deriva dalla difficoltà di definire la natura delle convenzioni, che
talvolta sono assunte come pura descrizione di eventi storici che condizionano di fatto il
comportamento dei protagonisti istituzionali a cui carico pongono oneri politici, oppure come
regola tecnica che suggeriscono come raggiungere certi risultati in presenza di determinati contesti
istituzionali, oppure come strumenti di interpretazioni; ma altre volte vengono assunte invece come
vere e proprie norme giuridiche.
Naturalmente il problema della giuridicità delle convenzioni è in larga parte nominalistico, perché
la risposta dipende dalla nozione di giuridicità che si accoglie. Certo è comunque che le
convenzioni costituzionali non possono essere fatte valere davanti al giudice e valgono sin che le
parti contraenti sono d'accordo di farle valere.
Ma, a ben vede,forse questo vale anche per le consuetudini costituzionali. Che talvolta la stessa
corte costituzionale le abbia espressamente richiamate non sembra però un dato decisivo per
riconoscere la loro normatività.
Ci sono due casi in cui la corte fa uso esplicito delle consuetudini costituzionali come fonte.
Il primo è la sentenza 129 del 1981, in cui si fa risalire a vere e proprie consuetudini costituzionali i
principi di autonomia contabile degli organi costituzionali. È la stessa corte però a sovrapporre i
principi alle consuetudini dimostrando però che l'accreditamento della norma giuridica è frutto
dell'attività di interpretazione del sistema costituzionale, non una mera pretesa di normatività dei
fatti storici.
Il secondo caso è il caso Mancuso (sentenza 7 del 1996), in cui si ritrova un impegnativo rinvio a
prassi che contribuiscono ad integrare le norme costituzionali scritte e a definire la posizione degli
organi costituzionali, alla stregua di principi e regole non scritti, manifestatisi e consolidatisi
attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi: vale a dire, nella forma di vere e
proprie consuetudini costituzionali. Però anche in questo caso la corte dà rilievo a questi elementi
solo quando siano in armonia con il sistema costituzionale.
Ciò significa che il richiamo alla consuetudine non serve a generare la norma del caso, che sarebbe
stata elaborata anche ragionando sul sistema: infatti, attribuire la qualità di consuetudine ad un
determinato comportamento può significare o che nessuna legge può più vietarlo o, addirittura, che
esso sarebbe legittimo anche se la costituzione lo vietasse (consuetudini contra costituzionem).
I fatti e l’interpretazione. Del resto è evidente che l'interprete non può non tenere conto nella sua

90
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

attività di tutta una serie di fenomeni fattuali, cioè formalmente estranei al dato legislativo, che
definiscono la situazione di fatto in cui deve calare la regola del caso che va elaborando.
L'interprete non opera in un ambiente asettico: applica sistemi colturali complessi che non
appartengono all'oggetto dell'interpretazione, ma al contesto. Dunque il diritto vivente è un fatto che
segna il contesto interpretativo e applicativo di una determinata proposizione legislativa; così pure
le consuetudini costituzionali, le convenzioni o la costituzione materiale segnano il contesto in cui
gli organi costituzionali agiscono e definiscono il quadro fattuale dei loro equilibri reciproci. È
inevitabile quindi che l'interprete ne tenga conto, per la stessa ricerca del necessario equilibrio tra
gli interessi in gioco o per valutare in concreto la ragionevolezza delle leggi. Però non ha molto
senso di riconoscere a questi fenomeni la natura di fonte del diritto.
Infine è quasi inevitabile registrare i mutamenti di fatto della costituzione, i quali, se non fossero
semplicemente nuove interpretazioni e nuove prassi, più adeguate al mutato equilibrio politico,
andrebbero non registrati, ma denunciati come infrazioni della costituzione e come tali contestati
davanti alla corte costituzionale.

3.Il principio di irretroattività e le leggi di interpretazione autentica


Natura non costituzionale del principio di irretroattività. Il principio di irretroattività delle
leggi è enunciato dall'articolo 11 delle Preleggi: la legge non dispone che per l’avvenire: essa cioè
non ha effetto retroattivo.
Questo principio è posto da una legge ordinaria, quindi, non lo si ritiene capace di vincolare le leggi
e gli atti aventi forza di legge successivi: la giurisprudenza costituzionale è chiara, il principio
dell'articolo 11 non ha vigore costituzionale e comunque non ha carattere assoluto. Per gli atti
normativi sub-legislativi, invece, il principio di irretroattività potrà essere fatto valere, visto che è
fissato da una fonte primaria. Sempre che la legge che li prevede non consenta loro di retroagire.
Il divieto costituzionale di retroattività delle norme penali. Le leggi ordinarie, dunque, possono
disporre la retroattività dei propri effetti, ma incontrando due limiti: il primo è il divieto specifico
posto dall'articolo 25.2 della costituzione alla retroattività delle norme penali (nessuno può essere
punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso), a cui si
ricollega il divieto di ultrattività delle norme penali, una volta abrogate; il secondo è il generale
sindacato di ragionevolezza a cui sono sottoposte tutte le leggi e gli ulteriori limiti che la
giurisprudenza costituzionale ha individuato per le leggi retroattive.
Per quanto riguarda il divieto di irretroattività in campo penale, esso è interpretato dalla corte
costituzionale in modo molto restrittivo:
a) il divieto riguarda esclusivamente le norme penali incriminatrici o introduttive di nuove pene
ovvero incrementative delle pene stesse; al contrario le norme penali più favorevoli al reo
(cosiddette norme penali di favore) sono di regola retroattive, anche se la corte ha affermato che
questo principio non ha valore costituzionale, ma di legge ordinaria, essendo posto dall'articolo 2
del codice penale;
b) il divieto riguarda esclusivamente le norme penali sostanziali e non anche quelle processuali, alle
quali si applica il principio del tempus regit actum;
c)il divieto costituzionale non si estende alle misure di sicurezza, né alle sanzioni amministrative,
anche se la legge sulla depenalizzazione ha introdotto la regola della irretroattività delle sanzioni
amministrative, regola che però non gode di uno statuto costituzionale.
Controllo “stretto” di costituzionalità delle leggi retroattive. Per altro verso, la corte
costituzionale sottopone a strict scrutiny le leggi che dispongono la propria retroattività.
Sin dalla sentenza 118 del 1957, la corte, premesso che il principio di irretroattività rappresenta
un'antica conquista della nostra civiltà giuridica, ammette che lo si possa derogare per prudente
valutazione del legislatore solo in caso di estrema necessità, poiché la certezza dei rapporti preteriti
rappresenta uno dei cardini della tranquillità sociale e del vivere civile. Ciò significa che le leggi,
fuori dal campo penale, che derogano al principio di retroattività rischiano invece di scontrarsi con
una serie di principi costituzionali: tutela del legittimo affidamento, tutela dei diritti quesiti,
principio di eguaglianza e ragionevolezza e così via. Si tratta di principi che la corte costituzionale

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

richiama costantemente, ma non sempre fa valere come limite insuperabile delle singole leggi
retroattive.
LIMITI COSTITUZIONALI ALLA RETROATTIVITA’ DELLE LEGGI: DUE ESEMPI
La sentenza 271/2011 dichiara illegittima la legge regionale calabrese che modificava
retroattivamente l’incentivo per il prepensionamento volontario dei dipendenti regionali perché
incide in modo irragionevole sul legittimo affidamento nella sicurezza giuridica, che è elemento
fondamentale dello stato di diritto.
In altri casi invece la Corte ha ritenuto che il principio di capacità contributiva limiti l’efficacia
retroattiva della norma impositiva, perché occorre verificare , di volta in volta, se la legge stessa
spezzi il rapporto tra imposizione e capacità contributiva stessa.
Retroattività delle leggi regionali. In un primo momento, dottrina e giurisprudenza della
Cassazione, avevano eretto il principio contenuto nell'articolo 11 delle Preleggi a principio generale
dell'ordinamento, come tale capace di vincolare tutte le leggi regionali, anche quelle emanate dalle
regioni speciali nell'esercizio della loro competenza esclusiva; questa opinione trovava conforto in
qualche lontanissima decisione della corte costituzionale, poi rapidamente superata dalla
giurisprudenza successiva.
Infatti non è possibile accreditare come principio generale dell'ordinamento giuridico una norma
fatta valere solo per leggi regionali e non anche per norme statali che possono liberamente
derogarvi. Per cui la corte costituzionale si è assestata su una giurisprudenza che parifichi i limiti
che la legge regionale retroattiva incontra a quelli che vengono fatti valere per le leggi statali ma
con un limite in più: infatti non è ammissibile che per la regione regoli con una sua norma,
retroattiva, situazioni già disciplinate da una legge statale. In questo caso viene fatto valere il
principio di unità dell'ordinamento giuridico dello Stato.
“Naturale” retroattività delle leggi di sanatoria e dei decreti-legge decaduti. Vi sono leggi che
agiscono retroattivamente per loro stessa natura. È il caso della cosiddetta legge di sanatoria degli
effetti del decreto-legge decaduto che si rivolge essenzialmente al passato, per cristallizzare, una
volta per tutte, gli effetti prodotti a suo tempo dai decreti decaduti, ma non può, in quanto tale,
disporre in ordine ai rapporti futuri. Ma è soprattutto il caso della contestata categoria delle leggi di
interpretazione autentica.
L’ambigua categoria delle leggi di interpretazione autentica. Le leggi di interpretazione
autentica costituiscono una categoria piuttosto ambigua caratterizzata dal fatto che il legislatore
emana una disposizione di legge rivolta a precisare il significato di una disposizione legislativa
precedente: è autentica solo perché si richiama un'idea astratta di legislatore, ed è di interpretazione
solo perché incide sul significato da attribuire ad una certa disposizione.
Benché si tratti visibilmente di una legge nuova, che attraverso disposizioni nuove intende
modificare il significato normativo di una disposizione vecchia, la giurisprudenza è da sempre
ferma nel ritenere che esse retroagisca al momento dell'entrata in vigore di quest’ultima. Prevale
una diversa lettura delle leggi interpretative, che ne riconosce la natura decisoria atipica dell'attività
legislativa: con esse il legislatore non dichiara il significato autentico della disposizione interpretata,
ma sceglie uno dei significati possibili. Ciò significa, dato il carattere innovativo di questa legge,
che la sua pretesa di retroagire deve essere oggetto di particolare giustificazione.
Quando le leggi di interpretazione autentica sono effettivamente interpretative? Le leggi
interpretative costituiscono nel nostro ordinamento l'esempio assolutamente più frequente di legge
retroattiva, tant’è che quasi tutta la giurisprudenza costituzionale citata in precedenza circa i limiti
della retroattività delle leggi, è stata elaborata ragionando su leggi di interpretazione autentica.
Qualificare una disposizione come interpretazione autentica inoltre significa attribuirne la
caratteristica della retroattività per cui le leggi interpretative subiscono tutti i limiti visti in materia
di retroattività, quindi validi in linea di principio per tutte le norme che innovano retroattivamente
l'ordinamento giuridico.
Tipicità della legge di interpretazione autentica. Si potrebbe inoltre aggiungere che la tipicità
della legge di interpretazione autentica ne giustifichi in linea di principio la ragionevolezza: questa
tipicità consiste nel fatto di essere una legge non autonoma, essendo le sue disposizioni riferite a

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

disposizioni già in vigore. Ma allora è evidente che le leggi di interpretazione autentica sono
giustificate dalla corte costituzionale solo se non modificano le disposizioni interpretate e
intervengono esclusivamente sul significato normativo di queste ultime (senza perciò intaccare o
modificare o integrare il dato costituzionale), chiarendone o esplicitandone il senso ovvero
escludendone o enucleandone uno dei sensi ritenuti possibili, al fine di imporre all'interprete un
determinato significato normativo della disposizione interpretata.
Irrilevanza dell’autoqualificazione della legge. Infine non è la autoqualificazione della legge
come interpretazione autentica ciò che conta, ma l'esistenza di dubbi interpretativi, sorti
specialmente nei giudizi, che della norma hanno fatto applicazione nella fattispecie di volta in volta
esaminate. Però ciò non implica, come osserva la corte, che queste leggi siano ammesse solo in
situazioni di incertezza nell'applicazione del diritto o di conflitto di interpretazioni: questo
strumento può essere usato dal legislatore anche per rimediare a un'opzione interpretativa
consolidata nella giurisprudenza in un senso divergente dalla linea di politica del diritto da lui
giudicata più opportuna. Infatti è chiaro che la “scelta” interpretativa compiuta dal legislatore non
rientra tra le varianti di senso che possono essere ragionevolmente ascritte alla legge anteriore, per
cui la nuova legge muterebbe la stessa disposizione della legge interpretata.
LA CEDU E LE LEGGI RETROATTIVE: IL “CASO AGRATI”
La corte costituzionale aveva dichiarato infondate le questioni di legittimità sollevate contro una
legge di interpretazione autentica che interpretava restrittivamente l’inquadramento salariale di una
determinata categoria di dipendenti pubblici. I dubbi di incostituzionalità vengono risollevati dalla
Cassazione e altri giudici che si richiamano alla CEDU e alla sua giurisprudenza. La Corte
costituzionale però , richiamata la propria giurisprudenza sull’efficacia delle norme CEDU nega
assolutamente che vi sia conflitto tra la legge italiana e l’art. 6 CEDU. Ma la corte EDU è di parere
opposto e con la sentenza Agrati sconfessa la Corte costituzionale: la legge contestata turba i
processi in corso perché rende inutile la prosecuzione del processo e impone un onere eccessivo ai
ricorrenti e il pregiudizio alla loro proprietà ha rotto il giusto equilibrio tra le esigenze di interesse
pubblico e la tutela dei diritti fondamentali individuali.

4.Le norme transitorie


Uno dei problemi che deve risolvere qualsiasi ordinamento giuridico è quello del regime giuridico
da applicarsi alle fattispecie che si concretizzano nelle fasi di transizione tra una disciplina abrogata
e una nuova.
Il principio di irretroattività della legge e il connesso regime dell'abrogazione sono tra le principali
tecniche impiegate per risolvere questi problemi. Di questi principi si occupano le preleggi: le
norme che li prevedono costituiscono il diritto intertemporale, da cui vanno tenute distinte le
disposizioni transitorie.
Il diritto intertemporale…Sono disposizioni di diritto intertemporale le norme di principio volte
a comporre in via preventiva e generale le antinomie temporali tra le leggi: sono disposizioni di
portata generale, destinate ad operare in via permanente, salvo la possibilità di deroga ad opera di
leggi successive. La qualifica di tali disposizioni come norme di diritto intertemporale sottolinea la
loro peculiare attitudine a risolvere i conflitti intertemporali tra le fonti, o meglio le contraddizioni
che insorgono nel passaggio tra regimi giuridici adottati in momenti diversi.
…e le disposizioni transitorie. Disposizioni transitorie sono invece le norme posta in chiusura di
specifiche riforme legislative, dirette espressamente allo scioglimento delle antinomie che si
verificano nel passaggio dalla legge precedente a quella successiva e a rendere più graduale il
suddetto passaggio. Questa disciplina può introdurre deroghe temporanee alla generale applicabilità
della nuova legge o fissare una disciplina apposita per le fattispecie che si sviluppano medio
tempore.
Le disposizioni di diritto intertemporale sono destinate ad operare in via generale regolando la
successione temporale tra le fonti. Esse, pertanto, sono delle meta-norme, ossia norme che hanno
per oggetto altre norme, regolando in via generale il modo di atteggiarsi del diritto nel tempo. Di
contro, le disposizioni poste in chiusura delle riforme legislative sono norme di diritto materiale

93
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

destinate a risolvere questioni di diritto intertemporale relativamente alla vicenda in corso. Perciò
esse operano in relazione a fatti e circostanze destinate ad esaurirsi nel tempo.
La corte costituzionale ha riconosciuto la rilevanza delle esigenze di gradualità che assistono le
trasformazioni degli assetti giuridici, al fine di temperare le conseguenze dell'impatto di una nuova
disciplina. Ciò significa che il legislatore può legittimamente adottare una disciplina ad hoc per i
rapporti sorti sotto la reggenza della vecchia disciplina e non ancora definitivamente esauriti dopo
l'entrata in vigore della nuova.
La tutela dell’affidamento come limite. E qui entrano in gioco due esigenze diverse:
da una parte c'è l'esigenza di consentire l'innovazione del diritto in ossequio agli obiettivi politici
che gli organi della democrazia rappresentativa intendono realizzare con le leggi;
dall'altra parte, però, c'è l'esigenza di stabilità e di certezza dei rapporti giuridici.
Quest'ultima, in particolare, vede come un disvalore ogni mutamento legislativo che incide sui
rapporti rispetto ai quali l'affidamento dei destinatari della legge nel godimento di determinati diritti
o comunque nel mantenimento di un dato regime giuridico sia pervenuto ad un elevato livello di
consolidamento.
Ovviamente il problema per l'interprete è valutare quando l’affidamento sia giunto ad un livello tale
di consolidamento da tramutarsi in valore meritevole di tutela; mentre certamente la posizione di
mera aspettativa non può rappresentare oggetto di tutela davanti ad una legge che la sacrifichi ma lo
sarà per l'affidamento per il cittadino non vedersi privato in via ragionevole della situazione che
abbia conseguito in base alla normativa anteriore.
Al riguardo la corte ha fatto riferimento alla tutela dell'affidamento soprattutto per censurare la
retroattività di certe leggi, allorché la scelta operata dal legislatore non sia proporzionata rispetto
agli scopi che devono essere perseguiti: l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica non può
essere leso da disposizioni retroattive, che trasmodano in regolamento irrazionale di situazioni
sostanziali fondate su leggi anteriori.
Dunque in linea di principio, la corte ha, finora, escluso che ci sia l'obbligo del legislatore di dettare
norme transitorie, pena la illegittimità costituzionale della legge che ne fosse priva. Infatti la scelta
di introdurre specifiche disposizioni con la finalità di regolare il passaggio ai nuovi assetti normativi
è rimessa alla discrezionalità legislativa.
Sulla ragionevolezza delle norme che modificano sfavorevolmente i rapporti di durata. In ogni
caso, però, sebbene non sia vietato al legislatore di adottare discipline che modifichino
sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche quando il loro oggetto sia costituito da
diritti soggettivi, tali disposizioni non possono trasmodare in un regolamento irrazionale, né
arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustando
così anche l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica che costituisce elemento
fondamentale dello Stato di diritto.
In definitiva se si sostiene che spetta alla discrezionalità del legislatore di scegliere se adottare
disposizioni transitorie, vi è tuttavia un margine di intervento per la corte costituzionale, nell'ambito
del giudizio sulle leggi, dato dall'esigenza di salvaguardare la razionalità normativa e il bisogno di
assicurare le aspettative degli interessati contro mutamenti arbitrari e ingiustificati del trattamento
giuridico previsto per loro fino a quel momento.
Esistono almeno due casi in cui la corte ha inserito una clausola di diritto transitorio all'interno di
una legge statale servendosi di una sentenza additiva e di una sentenza manipolativa di
accoglimento:
nel primo caso prevedendo una vera e propria norma di diritto transitorio e, nel secondo caso,
ripristinando la regola già prevista dal legislatore, per prevenire eventuali lesioni a discapito di
soggetti che si sono trovati parti di rapporti non ancora esauriti nella fase di passaggio al trattamento
meno favorevole.

5.Gli atti delle Autorità amministrative indipendenti


Le autorità indipendenti sono titolari di rilevanti poteri normativi, che costituiscono espressione
della posizione che esse occupano nel complessivo sistema istituzionale.

94
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

Autorità indipendenti: le origini… In linea generale questo modello organizzativo comporta lo


spostamento di funzioni tipicamente amministrative (di controllo e di vigilanza, ma anche di
amministrazione attiva) di poteri normativi dagli organi normalmente titolari di tali funzioni a
strutture costituite ad hoc e tendenzialmente separate e dipendenti dai tradizionali circuiti della
democrazia rappresentativa, e cioè principalmente dal governo e dal Parlamento.
Esse hanno origine nell'esperienza giuridica anglosassone e sono particolarmente diffuse negli Stati
Uniti.
In Italia le autorità indipendenti si affermano in tempi relativamente recenti in relazione alla
trasformazione del ruolo dello Stato e sotto l'influenza del diritto dell'unione europea. Infatti, alla
crisi dello Stato imprenditore, che assumeva direttamente determinate attività economiche, ha fatto
seguito l'affermazione di uno Stato regolatore, cioè di uno stato che all'intervento diretto sostituisce
la regolazione in determinati settori dell'economia di mercato.
…e gli obiettivi. Con il termine regolazione si intende l'uso di una disciplina pubblicistica non più
finalizzata alla pianificazione delle attività degli operatori economici, bensì al condizionamento
indiretto di essa: deve garantire il rispetto delle regole del gioco concorrenziale, la circolazione
delle informazioni, la trasparenza dei mercati e il contenimento tariffario, la soddisfazione dei
bisogni ritenuti meritevoli mediante l'erogazione di prestazioni con determinate caratteristiche di
continuità, diffusione sul territorio, e così via.
Gli atti normativi delle Autorità: diverse tipologie. Le leggi istitutive delle diverse autorità
indipendenti talora qualificano espressamente determinati atti delle autorità come regolamenti,
esplicitando così che esse sono titolari di poteri normativi. In altri casi, invece, vengono usati
termini differenti, ma la natura dell'atto ha comunque carattere normativo. Qualche volta invece non
ci sono atti dotati fino in fondo dei caratteri delle fonti del diritto, di cui mancano alcuni aspetti
come l'obbligo del giudice di conoscerle e applicarle (iura novit curia) la ricorribilità in Cassazione
in caso di violazioni e così via.
Infine, vi sono i cosiddetti codici di autoregolamentazione, adottati direttamente dai soggetti
interessati e vincolanti gli stessi anche giuridicamente, i quali sono elaborati grazie allo stimolo e al
concorso dell'autorità di settore.
Tra eteronormazione e autonomia normativa. In tutti questi casi si crea comunque un intreccio
tra eteronormazione e autonomia normativa. Cosa che in ambito europeo è ormai strutturale.
Infatti il protocollo numero 7 del trattato di Amsterdam richiede alla commissione europea di dar
corso a consultazioni preventive in concomitanza con l'avvio dei procedimenti normativi. Numerose
direttive settoriali dell'unione europea impongono questo meccanismo partecipativo. Ma anche a
prescindere dagli obblighi comunitari, le autorità indipendenti hanno introdotto nei propri
regolamenti o in via di prassi forme di consultazione preventiva riferita agli atti normativi e agli atti
generali.
La partecipazione sotto forma di consultazione preventiva può essere considerata come una sorta di
gioco cooperativo tra il regolatore e i soggetti regolati.
I regolamenti CONSOB. Scendendo un poco di più nel dettaglio, come esempio di atti qualificati
espressamente come regolamenti possono essere citati i regolamenti adottati dalla commissione
nazionale per le società e la borsa (i regolamenti Consob), che tendenzialmente riguardano due
settori: quello dell'informazione al mercato finanziario e quello delle regole di condotta rivolte agli
intermediari, regole volte a garantire la trasparenza e l'ordinato svolgimento delle negoziazioni
finanziarie.
Gli atti dell’A.G.COM. L'autorità per le garanzie nelle comunicazioni (a.g.com) adotta numerosi
atti di portata regolamentare. Vengono considerati normalmente atti normativi le numerose delibere
A.G.COM. recanti disposizioni di attuazione della disciplina in materia di comunicazione politica e
di parità di accesso a i mezzi di informazione nei periodi di competizione elettorale e referendaria, a
prescindere dal carattere territorialmente o temporalmente circoscritto. In realtà questa autorità è
stata oggetto di numerosi interventi legislativi che hanno esteso le sue funzioni in numerosi settori:
in questi ambiti l'autorità opera con atti di natura provvedimentale e regolamenti.
L'autorità per l'energia elettrica e il gas e i suoi atti: essa è nata per la soddisfazione di interessi

95
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

come la promozione della concorrenza e dell'efficienza nel settore dei servizi di pubblica utilità,
adeguati livelli di qualità nei servizi medesimi in condizioni di economicità e di redditività, la loro
fruibilità e la divisione in modo omogeneo in tutto il territorio nazionale, la certezza e la trasparenza
delle tariffe che devono essere tali da armonizzare gli obiettivi economico-finanziari di soggetti
esercenti il servizio con gli obiettivi generali di carattere sociale, di tutela ambientale e tutela degli
interessi dei consumatori.
L'autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) e i suoi atti: essa è investita dalla
legge di compiti di tipo prevalentemente aggiudicatorio: lo scopo dell'autorità è quello di assicurare
il rispetto della legge istitutiva e del principio comunitario di concorrenza, vigilando affinché non si
producano nel mercato fenomeni di intesa o di concentrazione o di abuso di posizione dominante.
L'autorità, pertanto, opera prevalentemente seguendo moduli di matrice contenziosa e con atti di
natura provvedimentale in relazione a situazioni particolari e predeterminate. L'unico potere
normativo previsto dalla legge riguarda il regolamento con cui l'autorità delibera le norme
concernenti la propria organizzazione e il proprio funzionamento. Invece, il regolamento sulle
procedure da seguire davanti l'autorità è adottato dal governo.
In applicazione di quest'ultima fonte, l'autorità non si limita a formulare modelli schematici.
Piuttosto, ha interpretato questo potere come l'occasione per individuare preventivamente alcuni
aspetti di carattere interpretativo delle norme legislative che essa applica allo svolgimento della sua
attività.
Le autorizzazioni generali del Garante della privacy. Uno degli atti normativi che meglio
esprimono la labilità della linea di confine tra atti amministrativi e atti normativi, nelle esperienze
delle autorità indipendenti, nonché l’irrilevanza del nome usato per indicare l'atto, è costituito dalle
autorizzazioni generali dell'autorità garante per il trattamento dei dati personali.
Il garante ha inventato una nuova categoria di atti sostanzialmente normativi, autorizzando il
trattamento dei dati in via generale e preventiva rispetto alle singole richieste dei titolari e
suddividendo le autorizzazioni in base alla categoria economica e professionale dei titolari stessi.
Prassi che poi ha ritrovato un espresso riconoscimento legislativo.
I codici di deontologia e di buona condotta. L'esperienza, però, più significativa del garante della
privacy è costituita dalla promozione dei codici di deontologia e di buona condotta. Il garante era
stato investito del potere di incoraggiare l'adozione da parte delle categorie interessate di alcuni
codici di autoregolamentazione, di controllarne la conformità alle fonti eteronome durante la stesura
e di verificarne il rispetto in fase esecutiva, divenendo così l'autorità pubblica legittimante il loro
uso quale vera e propria fonte normativa. In questo modo determinati settori, interessati
dall'applicazione delle regole sulla privacy, partecipavano alla fissazione delle regole, che
acquistavano pieno valore giuridicamente vincolante con la ratifica da parte del garante.
La Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici
essenziali. Una vicenda analoga è quella che riguarda la commissione di garanzia per l'attuazione
della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Per il settore dei servizi pubblici essenziali
sono previsti appositi accordi collettivi che devono prevedere le prestazioni indispensabili da
rendere anche in caso di sciopero nonché apposite procedure di raffreddamento e di conciliazione.
Deve essere anche previsto un intervallo minimo tra un'azione di sciopero e la successiva. E su
questo accordo si esercita una valutazione di idoneità che è necessaria a conferire effetti legali alla
determinazione degli attori sociali. La commissione inoltre deve sentire le organizzazioni di
consumatori prima di emettere la valutazione. Se non c’è accordo si adotta una regolamentazione
provvisoria.
Problemi normativi delle Autorità e principio di legalità. Il principale problema che
l'affermazione dei poteri normativi delle autorità indipendenti pone è quello della compatibilità con
il principio di legalità e con le riserve di legge previste dalla costituzione.
Infatti, gran parte dei poteri normativi sono esercitati senza che esistano norme di legge che ne
indirizzino il contenuto. La legge si limita ad autorizzare l'esercizio dei poteri regolatori delle
autorità delegando ad esse la disciplina sostanziale.
Sul fondamento comunitario. Al riguardo, c'è chi ricorre alla prevalenza del diritto dell’unione

96
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

europea per giustificare l'attribuzione di poteri normativi sostanzialmente primari alle autorità
indipendenti. Sarebbero state le direttive comunitarie che hanno liberalizzato certi mercati, che
hanno previsto la regolazione pubblica degli interessi, che hanno garantito la tutela dei dati
personali, e così via, a fondare il potere normativo delle autorità indipendenti e la loro sostanziale
equiordinazione alla legge. Questi ragionamenti però non riescono a dare una complessiva
giustificazione dei poteri normativi delle autorità indipendenti: infatti è stato osservato come il
diritto dell'unione europea lasci alla giurisdizione domestica di ciascun stato la questione del
rapporto tra le sue fonti interne, il quale può condizionare anche pesantemente l'evoluzione
materiale dell'ordinamento nazionale ma rimette ovviamente al diritto costituzionale dello Stato la
definizione del sistema delle fonti.
Bisogna aggiungere che il diritto dell'unione europea può concorrere, insieme ad altre
considerazioni, a rendere compatibile l'esercizio di poteri normativi attribuiti dalla legge all'autorità
se esso ne delimita anche i contenuti e i possibili svolgimenti. Inoltre in presenza di direttive, le
norme ivi contenute, operando congiuntamente con i principi generali dell'ordinamento e con i
principi della legislazione di settore, possono servire ad orientare l'esercizio dei poteri normativi da
parte delle autorità indipendenti.
Sulla “legittimazione dal basso”. Secondo un'altra ricostruzione il fondamento ultimo dei poteri
normativi in esame sarebbe da rintracciare nella partecipazione dei soggetti destinatari dell'atto alla
sua formazione. Quindi la partecipazione assume il ruolo di correttivo della perdita di legalità
sostanziale e del deficit di legittimazione democratica delle autorità indipendenti.
Le autorità indipendenti sono state istituite per regolare fenomeni e settori soggetti ad una
evoluzione tecnologica e di mercato rapidissima, tale da rendere difficile, se non addirittura
impossibile, al legislatore il compito di porre una disciplina compiuta immune al rischio della
obsolescenza, ed è pertanto inevitabile una caduta del valore della legalità sostanziale. La perdita di
quest'ultima è compensata da un rafforzamento della legalità procedurale, sotto forma di garanzia
della partecipazione dei soggetti interessati al procedimento decisionale.
Necessità del contraddittorio secondo la giurisprudenza amministrativa. La giurisprudenza
amministrativa, in relazione all'impugnazione di atti di determinazione delle tariffe da parte
dell'autorità per l'energia elettrica e il gas, ha messo in evidenza l'essenzialità del contraddittorio,
ritenuto necessario, anche se non previsto per gli atti normativi dall'articolo 7 della legge 241 del
1990 e successive modifiche. Infatti il Consiglio di Stato ha affermato che una regolazione senza
contraddittorio con i soggetti interessati è una regolazione viziata.
Lo stesso Consiglio di Stato più recentemente ha riconosciuto che l'attribuzione di potere normativo
alle autorità indipendenti è compatibile con il nostro sistema costituzionale, e ha affermato la
necessità che le autorità prevedano idonee garanzie partecipative e si dotino di sistemi di
consultazione preventiva, con lo scopo di raccogliere il contributo informativo e valutativo dei
soggetti interessati.
La tesi della “costituzionalizzazione” dell’autonomia normativa. Inoltre una parte della dottrina
ha sostenuto che il potere normativo delle autorità indipendenti non potrebbe essere vanificato dalle
leggi. In altre parole, vi sarebbe una sfera di autonomia loro riconosciuta che sarebbe intangibile
dalla legge.
Il presupposto di questa ricostruzione è dato dal pluralismo istituzionale previsto dalla costituzione
che ha come conseguenza l'esistenza di enti dotati di autonomia normativa e la limitazione delle
possibilità normative della legge del Parlamento, in ossequio al principio di competenza di cui la
costituzione fa largo impiego.
Ovviamente la potestà regolamentare comunque dovrebbe essere attribuita dalla legge.
Più precisamente la legge ordinaria incontrerebbe però dei limiti:
a) positivo, giacché il legislatore deve intervenire per attribuire alle diverse autorità i poteri
normativi necessari per l'esplicazione della rispettiva funzione;
b) negativo, nel senso che la legge dovrebbe porre una legislazione soltanto di principio, non
potendo invadere l'ambito di autonomia riservato al soggetto titolare del relativo potere.
Quindi, l'attribuzione di potere normativo operato dalla legge istitutiva dell'autorità, insieme al

97
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

fondamento costituzionale degli interessi tutelati determinerebbero una riduzione permanente e


stabile di competenza, alla quale il legislatore stesso dovrebbe adeguarsi almeno fino a quando non
adotti una legge che ridisciplini organicamente la materia.
In questa prospettiva, la legge che intervenisse a disciplinare un singolo aspetto del settore affidato
all’Autorità indipendente potrebbe essere sottoposta al giudizio della Corte costituzionale sotto il
profilo della ragionevolezza e della tutela dei valori costituzionali alla cui cura è preposta l’Autorità
indipendente.

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

6.Le ordinanze di necessità e urgenza


Le ordinanze di necessità e di urgenza sono provvedimenti assunti dal potere esecutivo in deroga
al diritto vigente e all'ordine normale delle competenze per fronteggiare situazioni eccezionali e
destinate a produrre effetti nei limiti che ne legittimano l'adozione.
Definizione e differenza dagli atti necessitati. Esse si differenziano dagli atti necessitati, perché
questi ultimi sono previsti e regolati dalla legge, che li disciplina nei presupposti, nei fini, nelle
modalità di svolgimento, nei contenuti essenziali. Diversamente le ordinanze di necessità e di
urgenza hanno un contenuto non predeterminabile per via legislativa.
La situazione di emergenza, per fronteggiare la quale sono adottate, da una parte impedisce di
definire in via preventiva le linee essenziali delle misure necessarie per affrontarla, e, dall'altra parte
rende insufficiente la legislazione vigente e richiede una deroga della stessa. L'indeterminabilità a
priori del contenuto della deroga alle norme legislative e all'ordine normale delle competenze,
hanno da sempre posto il problema della compatibilità delle ordinanze di necessità e di urgenza con
il principio di legalità.
L’originaria giustificazione in base a necessità … Se la dottrina del periodo liberale poteva
giustificarne l'adozione invocando la necessità come fonte del diritto e la connessa esigenza di
salvaguardare comunque l'interesse alla sopravvivenza dell'ordinamento statale di fronte alle
situazioni di emergenza, la tematica del fondamento e dei limiti delle ordinanze di necessità e di
urgenza ha assunto aspetti nuovi dopo l'entrata in vigore della costituzione repubblicana. Infatti
rigidità della costituzione, esistenza di un numero chiuso di fonti primarie, presenza di riserve di
legge per la tutela di diritti costituzionalmente riconosciuti, hanno richiesto un forte impegno da
parte della dottrina e della giurisprudenza per rimodellare l'istituto in maniera compatibile con la
costituzione.
Piuttosto che far leva sulla raffrontabilità dell'ordinanza al preventivo parametro legislativo la
elaborazione giurisprudenziale ha insistito sull'esistenza di alcuni requisiti di legittimità
dell'ordinanza e sulla loro giustiziabilità.
… e gli attuali requisiti di legittimità. Questi requisiti sono: il rispetto dei principi fondamentali
dell'ordinamento; l'osservanza dei vincoli dell'unione europea; il divieto di derogare a disposizioni o
atti normativi che non siano previamente individuati; la corrispondenza a materie, fini, competenze
individuate dalle norme attributive del potere di ordinanza; l'esistenza di un’urgenza qualificata; il
carattere necessariamente residuale del potere di ordinanza; la temporaneità della misura; la
proporzionalità tra mezzo e fine (nel senso triplice di idoneità, necessarietà e adeguatezza).
Le ordinanze nella giurisprudenza costituzionale. Nel delineare il regime giuridico
dell'ordinanza di necessità e urgenza fondamentale è stata l'opera del giudice costituzionale.
I primi spunti sono stati dati dalla giurisprudenza costituzionale dall'articolo 2 del Testo unico delle
leggi di pubblica sicurezza del 1931: questa disposizione assegnava al prefetto il potere di adottare
in caso di urgenza o per grave necessità pubblica, provvedimenti indispensabili per l'ordine
pubblico e la sicurezza pubblica. In un primo momento la corte adottava una sentenza interpretativa
di rigetto, sulla base del presupposto secondo cui il potere del prefetto andava interpretato non nel
sistema in cui ebbe origine, bensì nell'attuale sistema nel quale vive. In questo sistema la
giurisprudenza ordinaria e amministrativa erano costanti nel ritenere le ordinanze di necessità e di
urgenza atti amministrativi adottati dal prefetto nell'esercizio dei compiti del suo ufficio, limitati nel
tempo e nel territorio e vincolati ai presupposti dell'ordinamento giuridico.
Il carattere amministrativo dei provvedimenti prefettizi d’urgenza. Questa sentenza offriva
inoltre alla corte l'occasione per esplicitare alcuni canoni derivanti dal carattere amministrativo dei
provvedimenti del prefetto d'urgenza: efficacia limitata nel tempo in relazione ai dettami della
necessità e dell'urgenza, adeguata motivazione, efficace pubblicazione nei casi in cui il
provvedimento non abbia carattere individuale, conformità del provvedimento ai principi
dell'ordinamento giuridico.
Tuttavia il perdurare di una prassi contraria all'interpretazione accolta dalla corte, giustificò, tre anni
dopo, il riesame della questione e l'adozione di una sentenza interpretativa di accoglimento.
Quest'ultima decisione conteneva due importantissime precisazioni: in primo luogo, veniva

99
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

precisato che i principi dell'ordinamento giuridico costituiscono un limite invalicabile dovunque tali
principi siano espressi o comunque risultino, e tali sono i precetti della costituzione che non
permettono alcuna possibilità di deroga nemmeno ad opera della legge ordinaria; le riserve di legge
come limite: in secondo luogo era operata una fondamentale distinzione tra le materie riservate alla
legge. Le riserve assolute escludono qualsiasi provvedimento eccezionale, non potendo concepirsi
che nella materia stessa l'articolo 2 permetta l'emanazione di atti amministrativi che dispongano in
difformità alla legge prevista dalla costituzione. Le riserve relative, invece, ammettono che la legge
ordinaria attribuisca all'amministrazione l'emanazione di atti anche normativi, purché legge indichi
criteri idonei a delimitare la discrezionalità dell'organo a cui il potere attribuito.
Alla fine di questo ragionamento, la corte dichiarava l'illegittimità costituzionale dell'articolo 2 del
testo unico, nei limiti in cui esso attribuisce ai prefetti il potere di emettere ordinanze senza il
rispetto dei principi dell'ordinamento giuridico.
Le ordinanze di necessità non sono fonti del diritto. L'indirizzo è stato confermato dalla
successiva giurisprudenza costituzionale che ha precisato che le ordinanze di necessità e di urgenza
non sono da ricomprendere tra le fonti del nostro ordinamento giuridico; esse infatti operano una
deroga provvisoria al diritto vigente, ma non lo innovano né tanto meno sono equiparabili ad atti
aventi forza di legge; le ordinanze, pertanto, sono provvedimenti amministrativi soggetti a controlli
giurisdizionali esperibili nei confronti di tutti gli atti amministrativi.
Inoltre, la corte costituzionale ha ribadito che le ordinanze di necessità e di urgenza devono
rispettare puntuali limiti. Affinché il potere di ordinanza sia limitato nell'effetto di deroga e non dia
invece luogo ad abrogazione o modifica, la corte ha chiarito la necessità di una specifica
autorizzazione legislativa, che indichi presupposto, materia e finalità dell'intervento e l'autorità
legittimata.
Dal carattere non normativo delle ordinanze di necessità e urgenza si fanno discendere alcuni
principi:
1) l'efficacia limitata nel tempo in relazione ai dettami della necessità e dell'urgenza;
2) la adeguata motivazione;
3) l'efficace pubblicazione ove il provvedimento non abbia carattere individuale;
4) la conformità del provvedimento alla costituzione e ai principi dell'ordinamento giuridico.
In altre pronunce la corte ha effettuato sulle ordinanze un sindacato di ragionevolezza, verificando
il bilanciamento dei diversi interessi di rilevanza costituzionale toccati dalla disciplina derogatoria.
Abbiamo poi le ordinanze della protezione civile previste dalla legge 225 del 1992.
Ai fini dell'attività di protezione civile gli eventi si distinguono in:
a) eventi naturali o connessi con l'attività dell'uomo che possono essere fronteggiati mediante
interventi attuabili da singoli enti e amministrazioni competenti in via ordinaria;
b) eventi naturali o connessi con l'attività dell'uomo che per la loro natura ed estensione comportano
l'intervento coordinato di più enti e amministrazioni competenti in via ordinaria;
c) calamità naturali, catastrofi o altri eventi, che per intensità ed estensione, devono essere
fronteggiati con mezzi e poteri straordinari.
Con riguardo a quest’ultima ipotesi, la legge prevede che, al verificarsi degli eventi previsti, il
Consiglio dei Ministri delibera lo stato di emergenza, indicando la durata e l'estensione territoriale.
Le ordinanze “in deroga”. Per l'attuazione degli interventi di emergenza consequenziali rispetto
alla suddetta dichiarazione si provvede anche a mezzo di ordinanze in deroga ad ogni disposizione
vigente e inoltre il presidente del Consiglio dei Ministri può emanare ordinanze finalizzate ad
evitare situazioni di pericolo a persone o a cose.
Le ordinanze in deroga devono contenere l'indicazione delle principali norme a cui si intende
derogare e devono essere motivate. Tutte le ordinanze sono pubblicate in Gazzetta Ufficiale e
devono essere comunicate ai sindaci interessati affinché vengano pubblicate.
Ordinanze regionali. La legge sul servizio della protezione civile ha previsto un'organizzazione
diffusa a carattere policentrico, per cui le regioni provvedono in via ordinaria, tenendo conto degli
indirizzi del presidente del consiglio; invece lo Stato interviene per i soli eventi di natura
straordinaria, ove l'intensità degli eventi calamitosi sia tale da superare la capacità di risposta

100
Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

operativa delle regioni e degli enti locali. Mentre il potere di ordinanza del governo riguarda i casi
straordinari, l'eventuale potere di ordinanza previsto da leggi regionali in capo al governo regionale
attiene a quegli eventi che possono essere fronteggiati dalle amministrazioni competenti in via
ordinaria. Quindi la regione non ha potere derogatorio della legislazione vigente né tanto meno può
paralizzare gli effetti di provvedimenti adottati dal governo in relazione a situazioni di emergenza.
La giurisprudenza costituzionale sulle ordinanze di protezione civile e l’autonomia regionale
… La disciplina introdotta dalla legge 225 del 1992 ha superato favorevolmente il sindacato della
corte costituzionale. La corte ha affermato che l'emergenza non può comportare il sacrificio
dell'autonomia regionale. Semmai il potere di ordinanza deve essere esercitato e adeguatamente
limitato in modo da non compromettere il nucleo essenziale delle attribuzioni regionali.
Nel caso in cui l'ordinanza deroghi alla normativa statale sul riparto di attribuzioni e alla
legislazione regionale, la corte dovrà fare uno stretto scrutinio di costituzionalità: deve verificare
approfonditamente il contenuto degli atti legislativi regionali derogati e la tecnica di individuazione
delle disposizioni derogabili.
… dopo la riforma del titolo V. Il modello delineato dalla legge 225 del 1992 ha mantenuto il suo
valore anche dopo la riforma costituzionale del titolo V, che colloca la protezione civile tra le
materie di competenza concorrente.
Infatti, secondo la giurisprudenza costituzionale, le previsioni contenute nella citata legge sono
qualificabili principi fondamentali della materia che vincolano la legislazione regionale. Quindi
l'autonomia regionale non rappresenta un limite generale al potere di ordinanza del governo, ma
deve estrinsecarsi in misure proporzionate e rispettose del principio di leale collaborazione, che
impone all'ordinanza di prevedere forme di concertazione e di raccordo con la regione.
Il “limite comunitario”. Nella prassi, ormai, le ordinanze di necessità e di urgenza contengono
l'elencazione puntuale delle disposizioni che possono essere derogate. Inoltre va sottolineato
l'affermarsi, in modo definitivo, dei principi e delle direttive dell'unione europea come limiti al
potere di ordinanza, che vengono espressamente qualificati come inderogabili, insieme ai principi
generali dell'ordinamento giuridico italiano, nel testo delle ordinanze.
Le ordinanze nella giurisprudenza amministrativa. La giurisprudenza amministrativa ha seguito
l'impostazione generale tracciata dal giudice costituzionale. Essa ha precisato, tra l'altro, che
l'ordinanza deve essere adeguatamente motivata, sulla base di un'approfondita istruttoria che accerti
l'impossibilità di utilizzare, in relazione alla situazione di emergenza, le procedure valevoli per gli
ordinari procedimenti amministrativi.
Sono stati stabiliti altri limiti al potere dell'ordinanza:
- la necessità di intervenire nella materia interessata dal provvedimento;
- l'attualità o l'imminenza di rimuovere un fatto eccezionale, quale causa da fronteggiare con
urgenza;
- il preventivo accertamento, da parte degli organi competenti, della situazione di pericolo;
- la mancanza di strumenti alternativi previsti dall'ordinamento.
Il principio di proporzionalità. È essenziale poi il richiamo all'adeguatezza del provvedimento,
che porta il giudice a scrutinare la portata dispositiva dello stesso alla luce del principio di
proporzionalità, onde verificare se sono stati imposti obblighi o limitazioni alle libertà del soggetto
privato. Impostato in questi termini il sindacato sull'ordinanza, il giudice passa a valutare la
congruità del provvedimento rispetto all'obiettivo perseguito e la sua capacità di porsi come l'unico
efficace e meno negativamente incidente sulle posizioni soggettive. Comunque deve essere fatto
salvo il rispetto dei principi dell'unione europea.
La prassi e la legislazione più recente però hanno visto degli allontanamenti dal modello di
ordinanza tratteggiato dalla legge sulla protezione civile e dalla giurisprudenza.
Ordinanze in deroga per i “grandi eventi”… In primo luogo c'è stato un uso espansivo della
clausola residuale degli altri eventi, come presupposto legittimante la dichiarazione di emergenza.
Su questa base sono state adottate numerose ordinanze che hanno disposto un regime eccezionale
per la gestione dell'emergenza rifiuti, dell'emergenza idrica, di situazioni di criticità di carattere
economico - sociale.

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Riassunto: LE FONTI DEL DIRITTO

In questi casi l'uso delle ordinanze in deroga alla legge finisce per creare dei veri e propri
ordinamenti speciali, permanenti e niente affatto transitori, che non rappresentano più eccezioni
limitate e temporanee, ma vere e proprie fughe dal diritto vigente.
Interpretazione espansiva degli “altri eventi”. In secondo luogo ci sono state alcune modifiche
legislative del testo della legge 225 del 1992, che hanno allargato l'ambito del ricorso alle ordinanze
in deroga. In particolare, si è stabilito che le previsioni della legge si applicano anche con
riferimento alla dichiarazione dei grandi eventi rientranti nella competenza del Dipartimento della
Protezione civile e diversi da quelli per i quali si rende necessaria la delibera dello stato di
emergenza.
Ovviamente si tratta di una previsione che affida esclusivamente a valutazioni politiche la scelta di
ricorrere alle ordinanze in deroga. La casistica dimostra un uso estensivo e nei campi più disparati
di questo strumento come la regata della 22ª coppa America, i mondiali di nuoto Roma 2009, giochi
olimpici invernali Torino 2006 e così via.
… per l’emergenza internazionale … In terzo luogo c'è stato il ricorso alle ordinanze in deroga
per affrontare situazioni di emergenza internazionale, soprattutto dopo l'espansione del terrorismo
internazionale o al crescente ricorso a forme di cooperazione internazionale.
… e ordinanze omnibus. Infine numerosi sono i casi di ordinanze omnibus, recanti discipline
derogatorie in ambiti materiali assai diversi, in relazione a situazioni disparate ritenute, nonostante
il decorso del tempo, di straordinaria emergenza.
Le ordinanze dei sindaci per la sicurezza urbana. Un 'ulteriore espansione del potere di
ordinanza si è avuto a livello locale per effetto delle modifiche apportate al testo unico delle
autonomie locali, che ha introdotto nuove ipotesi di ordinanze sindacali.
In virtù della nuova norma, il sindaco adotta con atto motivato provvedimenti al fine di prevenire ed
eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana. Per specificare
l'ambito di applicazione della disposizione è previsto l'intervento di un decreto del ministro
dell'interno che opera la seguente distinzione: per incolumità pubblica indichiamo l'integrità fisica
della persona, la sicurezza urbana riguarda un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a
difesa del rispetto delle norme che regolano la vita civile per migliorare le condizioni di vivibilità
dei centri urbani, la convivenza civile e sociale.
I provvedimenti sindacali sono preventivamente comunicati al prefetto anche ai fini della
predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione, mentre in caso di inerzia del
sindaco il prefetto può intervenire con proprio provvedimento.
In dottrina in realtà sono stati formulati dubbi sulla costituzionalità di quest'ultima disciplina in
relazione al principio di ragionevolezza: prima di tutto per l'indeterminatezza dei poteri di ordinanza
riconosciuti al sindaco; poi per l'assoluta libertà affidata al titolare di scegliere tra ordinanze
contingibili e urgenti; infine per la sproporzione tra la previsione di provvedimenti così configurati
e i valori che così si vorrebbe proteggere.
Una soluzione sarebbe un'interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina legislativa in
esame in particolare distinguendo tra casi normali e casi effettivamente straordinari, i quali questi
ultimi soltanto potrebbero giustificare le ordinanze necessarie e urgenti.
La corte costituzionale in un primo momento ha circoscritto notevolmente l'area di intervento di
queste ordinanze, precisando che non avrebbero potuto derogare a disposizioni legislative e
regolamenti vigenti. Successivamente ha dichiarato incostituzionale la disposizione in questione
nella parte in cui consentiva al sindaco, nella veste di ufficiale di governo, di adottare
provvedimenti a contenuto normativo ed efficace a tempo indeterminato , anche al di fuori dei casi
di urgenza, al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli per l'incolumità pubblica e la sicurezza
urbana. Questa disposizione è stata ritenuta contrastante con il principio di legalità in senso
sostanziale ricavato essenzialmente dall'articolo 23 della costituzione: quest'ultimo infatti secondo
la corte impone che qualsiasi potere amministrativo che incida nella sfera di libertà dei cittadini
deve essere predeterminato dalla legge. E ciò riguarda non solo prestazioni positive ma anche le
prestazioni negative, e perciò i divieti (i quali sostanzialmente sono la maggior parte delle norme

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