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IL NUME DAI RICCIOLI D'ORO

APOLLO

1. L’isoletta vagante. _ Il Dio che personifica la luce sfolgorante del Sole e la che la luce ispira, il protettore
del canto e della poesia, è Apollo, figlio di Giove e della bruna Latona.

Apollo nacque nell’isoletta di Delo, una piccola terra arida e sterile, senza alberi, senza animali e priva di
acque.

La povera Latona, appena giunta in quella desolata isola, si inginocchiò e


disse:

- Arida terra che accogli il mio tu sei stata finora coperta di rocce
inospitali; ma da oggi tu devi essere fertile e bella: sui tuoi prati pascoleranno
le greggi e lo splendore delle tue città sarà celebre nel mondo.

A quelle parole l’isola fu in un momento rallegrata da canti e da mormoríi


di ruscelli, e a mille a mille fiorirono le corolle d’oro per far lieta la culla del
piccolo Dio del sole. Era bellissimo il nuovo Dio: aveva lunghi riccioli d'oro e
volto ròseo e ridente; portava intorno alla vita una cintura d’argento e, ai
piedi, sàndali d’oro. Era nato da qualche ora e già gridava:

- Datemi una lira che io canti!

2. Alla Corte del re Admeto. _ E oltre alla bellezza armoniosa aveva il dono del coraggio e della forza. Non
aveva ancóra quattro giorni quando, avendo saputo che nell’isola il drago Pitone appestava col suo àlito
uomini e greggi, il prodigioso fanciullo corse armato nella caverna del drago per ucciderlo. Il Pitone viveva in
un antro sulle pendici del Parnaso: Apollo, giunto all’imboccatura della caverna, vi gettò dentro una torcia
accesa, che riempi la grotta di fumo. Il mostro allora, per non restar soffocato, uscì fuori e Apollo, rapidissimo,
lo colpì con innumerevoli infallibili frecce. La graziosa isola di Delo era così liberata dal flagello; ma il Dio s’era
macchiato del sangue immondo di una bestia e doveva quindi, secondo la legge divina, purificarsi. Perciò fu
condannato a un esilio di ben nove anni nella Tessaglia ove, al servizio del re Admeto, Apollo avrebbe dovuto
custodire i cavalli come un semplice pastore. E il Dio accettò serenamente il castigo.
3. Il Carro di Apollo. _ Moltissime sono le
leggende che la fantasia greca tessé intorno al
Dio del sole; i Greci lo consideravano come un
Dio viaggiatore che ogni anno, alla stessa
epoca, se ne andava nei lontani Paesi
iperbòrei, dove regnava la primavera eterna e
dove il raggio argènteo del sole inondava
continuamente di luce le cose.

In questi paesi dalla immobile dolce luce,


Apollo passava i mesi invernali cantando melodiose canzoni tra le Muse e le Ore. All'inizio della primavera
egli ritornava ancóra sotto i palmizi di Delo, su di un carro d’0ro tirato da cigni di abbagliante candore.
Arrivava cantando sulla sua lira d’oro: lo salutavano lieti gli uccelli e i fiori, mentre nel cuore degli uomini
ritornava la gioia.

4. Apollo e Dafne. _ Una volta, mentre attraversava un bosco di alloro in Tessaglia, Apollo vide una bianca
ninfa solitaria che passeggiava al lume della luna. Era così bella nei suoi veli vaporosi, e i suoi occhi erano così
puri, che Apollo ne restò incantato e si accostò a lei per parlarle.

Ma la ninfa impaurita fuggi nel folto del bosco, i lunghi capelli fluttuanti al
vento, il bel viso bianco d’irrefrenabile terrore.

_ Férmati, splendida ninfa! _ le gridava Apollo correndo. _ Férmati! Io sono


il Dio della luce e non voglio farti del male!

Ma Dafne, la ninfa spaurita, continuava a fuggire, leggiera come una


nuvola. A un certo punto però le forze le mancarono, ed ella cadde per terra
esausta pregando:

_ Terra, madre mia, salvami!

Le sue membra allora immediatamente si irrigidirono, le sue braccia imploranti si trasformarono in rami
e foglie. Dafne era diventata una pianta di profumato alloro. E Apollo, che assisteva disperato alla
trasformazione, s’inginocchiò dinanzi alla ninfa irrigidita dall’incantesimo e disse:

_ Povera Dafne! Non ti dimenticherò mai. Tu sarai d’ora innanzi la mia pianta prediletta, e le tue foglie
immortali adorneranno i miei capelli e cingeranno il capo glorioso dei guerrieri e dei poeti.

Cosi l’alloro divenne l`albero sacro al Dio del sole e della poesia.
5. La leggenda di Giacinto. – Giacinto era un bellissimo giovinetto, compagno di
Apollo. Insieme i due giovani andavano spesso a lanciare il disco nelle campagne o a
cacciare le belve nei boschi. Un giorno però accadde che Apollo lanciò male il suo disco
e il pesante proiettile andò a colpire Giacinto sul capo ferendolo a morte. A nulla valsero
le erbe medicinali con cui Apollo, angosciato, cercava di risanare la ferita: il fanciullo
reclinò il bellissimo vólto sulla spalla e chiuse gli occhi per sempre. E allora il Dio della
luce disse:

_ Tu muori, ma nel tuo sangue giovane tu rivivrai sotto forma di fiore, ogni anno, quando la primavera
sostituirà l’inverno con le sue corolle nuove.
E da quel giorno, in primavera, nascono nei campi a mille a mille i giacinti vellutati.

6. Il carro di Fetonte. – Un’altra leggenda, che si ricollega all’azione funesta del solleone sulle mèssi e sui
fiori, è quella che ora vi racconto e che si potrebbe chiamare la «storia
del figlio orgoglioso››.

Sentite dunque. Apollo aveva un figliuolo. Fetonte, e un giorno se lo


vide arrivare nel palazzo scintillante dell’Olimpo.

-- I miei compagni - dichiarò irato Fetonte - non credono che tu sia mio
padre. Concedimi di provare che sono figlio del Sole. _ Te lo concedo
-- rispose Apollo.

E allora Fetonte gli chiese di lasciargli guidare per un giorno solo il


carro del Sole, dai quattro cavalli frementi, lungo le strade del cielo.

A quella domanda Apollo impallidí, ma oramai aveva promesso. E,


fatte cento raccomandazioni al figliuolo, diede ordine all’Aurora di
trascinare fuori dalle stalle i cavalli e pose le redini in mano a Fetonte.

Ma tremava nel vederlo salire sul carro e lanciarsi coi focosi cavalli
nel cielo. I bianchi cavalli di Apollo sentirono infatti che quel giorno li guidava l’inesperta e debole mano di
un fanciullo e, con un balzo. Si gettarono al galoppo attraverso il libero cielo. E ora salivano rapidi nelle nubi,
ora precipitavano verso la Terra incendiandone i boschi e bruciandone le montagne. E a nulla serviva che il
povero Fetonte, agghiacciato di terrore, tendesse le redini e il morso.

Giove, dal trono àureo dell’Olimpo, vide tutto quell’immane scompiglio, i fiumi disseccati, le campagne
distrutte e udí alte le grida degli uomini che invocavano pietà. Allora, per salvare il mondo, lanciò una delle
sue fólgori alate sul capo di Fetonte, che giaceva abbandonato in fondo al carro, e il fanciullo precipitò dal
cielo nelle acque dell’Erídano (il Po di oggi).

I cavalli del Sole, resi docili a un tratto, tornarono tranquilli alle stalle celesti e il flagello terribile cessò per
incanto.

Ma sulle rive del Po, dov’era scomparso il corpo dell’infelice Fetonte, le sorelle Eliadi piangevano di un
inconsolabile dolore: esse non si nutrivano più, non dormivano più. Per ben quattro mesi durò il loro pianto
senza conforto; finché Giove, impietosito, le cambiò in alti pioppi frementi e fece nascere grani d’ambra da
tutte le lacrime ch’esse avevano sparse.
7. Le orecchie del re Mida. _ Apollo è il Dio della luce: ma poiché la luce stessa fa nascere in cuore le canzoni
e le gioconde armoníe, egli è pure il Dio della poesia e della musica. Infatti, sulla lira che Mercurio gli aveva
costruito, Apollo sonava incantevoli melodie che nessuno poteva eguagliare e traeva accordi divini che
allietavano tutto il Creato.

Ascoltate, a proposito della lira, come avvenne che, a causa di una gara musicale fra Apollo e il sàtiro Màrsia,
ne andassero di mezzo le orecchie del re Mida.

Anzi, per farvi gustar meglio l'aneddoto, vi racconterò tutta


la storia da principio, da quando cioè Minerva prese da terra
un osso cavo di cervo, vi fece tanti buchini e, accostandolo alle
labbra, ne trasse suoni aggraziati.

Com’era felice del nuovo passatempo la Dea! Il flauto,


giacché quello strumento non era altro che un flauto
rudimentale, fu portato all’Olimpo e la Dea si mise a sonarlo
dinanzi agli Dei.

_ Ma non vedi _ le disse Giunone ridendo _- come sono ridicole


le tue gote così gonfie mentre soffiano nel flauto? Guàrdati
nella fontana.

Infatti, quando Minerva si specchiò, vide che l’ovale


perfetto del suo volto ne era deformato e, stizzita, gettò il
flauto giù sulla Terra. Lo raccolse il sàtiro Màrsia, dalle corna e
dai piedi di capra, e cominciò a sonarlo. E tanto inorgoglì della
sua bravura che osò sfidare Apollo a una gara.

Il Dio della cetra accolse la sfida e chiamò ad assistervi tutte le Ninfe e le Muse e Mida, re di Frigia. La gara
di armonie si svolse in una ridente prateria del Tmolo e tutti dettero la palma della vittoria ad Apollo,
all’infuori di Mida, che ebbe la temeraria idea di esclamare:

Preferisco il sàtiro Màrsia!

E ne ebbe un bel risultato! Ché, se Màrsia scontò l’audacia di aver voluto gareggiare con un Dio con l’essere
scorticato vivo da Apollo. Mida si trovò a un tratto possessore di un bel paio di lunghe, pelose orecchie di
asino che, vergognoso, si affrettò a nascondere sotto un alto turbante.

Nessuno quindi ebbe il tempo di accorgersi delle ridicole orecchie salvo, ahimè, il barbiere che ogni mattina
acconciava la real capigliatura.

_ Se tu ne parli con qualcuno _ gl’impose il re minaccioso _ la tua morte è sicura.

Il barbiere giurò tremando che la sua discrezione sarebbe stata perfetta, ma a lungo andare quel segreto
divenne per il poveretto un tormento. Quel non poter fiatare con anima viva lo faceva impazzire, gli logorava
il cervello. E un giorno, incapace di resistere più a lungo, scavò una buca profonda nel terreno, vi si chinò
sopra con la bocca e confidò alla Terra il grande segreto:

_ Il re Mida ha le orecchie d’asino!

E súbito si sentì sollevato. Ma vicino alla buca nasceva un canneto e la sua voce di sotterra giunse alle canne
e le canne, movendosi nel vento, cantarono:

_ Il re Mida ha le orecchie d’asino!


Lo seppe il Vento e lo ridisse, lo udirono gli uccelli e le Ninfe e lo raccontarono agli uomini. E il segreto del
re Mida non fu più un segreto per nessuno.

Mida aveva avuto, prima d’allora, l’onore di ospitare nel suo palazzo il dio Bacco e. prima di partire, il Dio
volle compensarlo dell’ospitalità e gli chiese che cosa desiderasse.

_ Vorrei _ disse Mida _ che tutto ciò che io tocco si trasformasse in oro.

_ Ti sia concesso! _ rispose il Dio del vino. E se ne andò.

Ma che grossa sciocchezza aveva fatto Mida a chiedere ciò! L’avido re di Frigia se ne accorse ben presto.
Ché, se era bello che la sua reggia fosse diventata tutta d’oro massiccio, non era davvero igienico che tutto
quello che beveva 0 mangiava si trasformasse al suo contatto in àurei massi indigesti.

Una vita così era peggiore della morte e Mida, disperato, implorò Bacco di liberarlo da quel sortilegio che
lui stesso aveva voluto. Per fortuna Bacco lo accontentò e Mida sarebbe stato finalmente felice se, come vi
ho già raccontato, non gli fosse capitata quell’altra disgrazia delle orecchie d’asino.

8. il corteo di Apollo. _ Ma torniamo ora ad Apollo che, come Dio della danza, della poesia, dell’ispirazione,
fu forse il più amato e il più celebrato dio dell’Olimpo.

Tutti ne ascoltavano devoti i responsi, che, dal tempio di Delfo, egli pronunciava con infallibile giustizia
indicando ciò che era scritto nell’oscuro avvenire degli uomini.

Egli, come Dio della poesia e della musica, viveva di preferenza sul Parnaso, una pittoresca montagna in cui
le caverne buie e le gole paurose si alternavano ai verdi boschi di mirto, di ulivo, di alloro, sacri al Dio della
luce.

Con lui, quando l’estate trionfava sul mondo, s’accompagnavano le nove Muse, che danzavano liete nei
vaporosi veli d’argento, mentre Apollo cantava e sonava la cetra.

Le Muse, figlie della Memoria, erano le divinità preposte alle scienze e alle arti. Clio cantava la gloria degli
antichi eroi ed era perciò la musa della Storia; Euterpe amava la poesia lirica; Talía ispirava le commedie che
ridono sui difetti umani; Melpòmene raccontava le tragedie dei grandi eroi greci; Tersícore animava i cori con
le danze più armoniose; Eràto celebrava la gioia della bontà e dell’amore e presiedeva alla mimica; Polinnia,
dea della Memoria e degli inni, ripeteva i bellissimi canti eroici; Urania insegnava i segreti del cielo e
presiedeva all’astronomia; Calliope, infine, ispirava l’Eloquenza e la Poesia èpica.

Esse abitavano anche tra le grotte e i boschetti del monte Elicona, presso le fonti di Castalia e si chiamavano
anche Piêridi.

9. Apollo nell’arte. _ Gli scultori e i pittori greci rappresentavano Apollo come uno splendido Dio dal vólto
sbarbato, i capelli d’oro fluttuanti sulle spalle, l’espressione nobile e fiera spirante dolcezza, la fronte
coronata d’alloro, di mirto e d’olivo e lo sguardo rivolto in alto, quasi a prendere per i suoi canti l’ispirazione
dal cielo. In mano aveva la lira e, qualche volta, l’arco e la faretra.

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