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CARLO ZOLI

Ordinario di diritto del lavoro nell’Università di Bologna

I licenziamenti per giustificato motivo oggettivo

dalla legge n. 604 del 1966 al d. lgs. n. 23 del 2015*

Sommario: 1. L’evoluzione legislativa e l’applicabilità della reintegra nel posto di lavoro. – 2. Il

giustificato motivo oggettivo: nozione ed estensione del sindacato giudiziale. – 3. La legge n. 183 del

2010: l’introduzione di limiti al sindacato giudiziale e di termini di decadenza per l’impugnazione del

licenziamento. – 4. La riduzione delle tutele contro i licenziamenti: la legge n. 92 del 2012,

l’ingiustificatezza qualificata e l’ambito di applicazione della tutela reale. – 5. Il d. lgs. n. 23 del 2015

ed il superamento della tutela reintegratoria. – 6. Segue: l’inidoneità e le altre ragioni concernenti la

persona del lavoratore oggettivamente considerata. – 7. Segue: l’applicabilità della tutela reintegratoria

ai licenziamenti oggettivi illeciti o non qualificabili come tali.

1. La disciplina dei licenziamenti ha conosciuto una serie di interventi legislativi che hanno

nel tempo progressivamente aumentato le garanzie dei lavoratori privilegiando in qualche

modo il loro interesse alla continuità e stabilità del rapporto rispetto alle esigenze

dell’impresa, nel passaggio dal combinato disposto degli artt. 2118 e 2119 c.c. alla legge n.

604/1966, all’art. 18, l. n. 300/1970 ed alla sua riforma operata dalla l. n. 108/1990, alla legge

n. 223/1991. Si è assistito all’introduzione di limiti di carattere sostanziale, formale e

procedurale, nonché di meccanismi sanzionatori tra cui quello della tutela reale ha finito per

assurgere a regola mediante l’estensione del relativo ambito di applicazione con riguardo alle

dimensioni (più di 60 dipendenti nel complesso anche se le unità produttive situate nello

stesso Comune non superano i 15) e alla natura del datore di lavoro (anche non imprenditore,

*
Il presente contributo è destinato agli “Studi in onore di Raffaele De Luca Tamajo”.
1
con la sola circoscritta esclusione delle organizzazioni di tendenza, fino a ricomprendere le

pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti da esse occupati), alle

categorie di lavoratori tutelati (persino ai dirigenti, qualora si accerti la nullità del

licenziamento nel settore privato, senza limiti nel settore pubblico), nonché alle fattispecie di

licenziamento interessate (ricomprendendosi il licenziamento collettivo).

2. Relativamente ai licenziamenti per ragioni economico-organizzative, pur non accogliendo

le tesi più garantiste inizialmente sostenute da alcuni giudici di merito in ordine alla

necessaria opportunità sociale o alla razionalità tecnica delle scelte organizzative del datore di

lavoro, dichiarate insindacabili nel merito, la giurisprudenza ha comunque ricostruito il

giustificato motivo oggettivo quale limite esterno al potere unilaterale del datore di recedere

dal rapporto di lavoro, presupposto che legittima l’esercizio di tale potere ( 1): un presupposto

che la giurisprudenza ha ricostruito richiedendo la sussistenza di una determinata misura

organizzativa, del nesso di causalità con le ragioni addotte, dell’impossibilità di utilizzare il

dipendente licenziato in altre mansioni, non necessariamente equivalenti (2), di una selezione

giustificata e corretta in ordine al lavoratore da licenziare, specie quando vengano in rilievo

mansioni e/o posti di lavoro fungibili.

In altre parole, con riguardo alla prima delle due fattispecie di giustificato motivo

oggettivo, quella cioè dovuta a ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del

lavoro, in definitiva riconducibile alla soppressione di uno o più posti di lavoro, il sindacato

giudiziale è chiamato a soffermarsi su diversi e molteplici piani e profili, che consistono in

circostanze di fatto ed in necessarie valutazioni giuridiche: “una serie causale che include fatti
1
() Sul punto sia consentito rinviare a C. ZOLI, I licenziamenti per ragioni organizzative: unicità della causale e
sindacato giudiziale, in Arg. Dir. Lav., 2008, pag. 39 e segg.
2
() Invero, sulla possibilità di estendere l’obbligo di reimpiego anche alle mansioni inferiori eventualmente
disponibili in azienda la giurisprudenza è divisa: propendono per tale possibilità, tra le altre, Cass. 3 maggio
2005, n. 9122, in Guida Dir., 2005, 24, pag. 78; Cass. 13 agosto 2008, n. 21579, in Mass. Giur. Lav., 2009, pag.
159, nt. PISANI; Cass. 18 febbraio 2011, n. 3968, in Questione Lavoro, www.jurismaster.it, 2011, n. 5, pag. 59, nt.
BUSSOLARO.
2
(ad esempio, il fallimento di uno dei principali committenti), dati (la conseguente riduzione

delle commesse e del fatturato), valutazioni, anche di natura prognostica (possibilità di

reperire nuovi clienti, di effettuare nuovi investimenti in relazione all’andamento del mercato)

e decisioni dell’imprenditore (necessità di riduzione dei costi e di contrazione del personale,

soppressione di uno o più posti di lavoro)” ( 3). Tale serie assume quale punto di partenza il

presupposto di fatto che comporta la soppressione di uno o più posti di lavoro, ovvero la

misura organizzativa adottata: quest’ultima è legittima qualora consista tanto in una modifica

della struttura produttiva, quanto in innovazioni che lascino inalterato l’apparato strutturale

incidendo soltanto sull’organizzazione del personale, ma a condizione che la suddetta misura

si riveli effettiva o reale, id est seria, attuale e non meramente temporanea, nonché

eziologicamente collegata alle ragioni addotte. A valle di tale misura organizzativa il

sindacato giudiziale deve soffermarsi sugli ultimi due aspetti ricordati, quali il repêchage e la

scelta del lavoratore da licenziare.

Si tratta di un orientamento per tanti aspetti assestato, se si esclude, sovente più nelle

affermazioni di principio che nelle concrete ricadute (4), la rilevanza da attribuire al controllo

sulle ragioni ultime delle modifiche organizzative adottate, ed in particolare sulla ricerca di un

mero incremento dei profitti o comunque di una più economica gestione da parte

dell’impresa. Al di là del fatto che tali finalità rientrano nella sfera più intima delle

prerogative imprenditoriali, sono ultronee rispetto alle ragioni tecnico-organizzative del

licenziamento e attengono a valutazioni di opportunità o di merito, una diversa soluzione

comporterebbe l’ingiustificatezza di qualunque licenziamento per ragioni tecnico-

organizzative adottato da un’impresa dotata di bilanci non in passivo. In realtà, a ben vedere,

se si va oltre le affermazioni di principio contenute tralatiziamente in numerose sentenze, la

3
() Così C. PONTERIO, Il licenziamento per motivi economici, in Arg. Dir. Lav., 2013, pag. 76.
4
() Cfr. spec. V. NUZZO, La norma oltre la legge. Causali e forma del licenziamento nell’interpretazione del
giudice, Napoli, 2012, pag. 100 e segg.
3
Suprema Corte perviene a sancire l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo soltanto

quando manchino i presupposti in precedenza richiamati, non certo a seguito della verifica

delle suddette finalità e delle condizioni economiche del datore di lavoro. Ma la

giurisprudenza di merito si è sovente spinta ben oltre (5).

Emerge al riguardo un problema che nella sostanza non si pone nel caso del licenziamento

collettivo, allorquando comunque viene in rilievo una causale del tutto identica a quella del

giustificato motivo oggettivo per soppressione del posto, dato che analogamente il recesso si

giustifica quando il datore di lavoro realizza tanto una modifica della struttura produttiva,

quanto innovazioni che incidono solamente sull’organizzazione del personale. La piena

coincidenza delle due causali è addirittura normativamente sancita dall’art. 4, comma 1, l. n.

5
() La giurisprudenza sembra, invero, divisa in ordine alla irrilevanza o meno delle finalità perseguite, ovvero
alla legittimità anche di modifiche organizzative esclusivamente finalizzate all'incremento dei profitti o al
risparmio dei costi. Per la prima soluzione, cfr. Cass. 14 giugno 2005, n. 12769, in Impresa, 2006, 3, pag. 503;
Cass. 10 maggio 2007, n. 10672, in Guida Lav., 2007, 27, pag. 42; Cass. 17 dicembre 2007, n. 26563, in Dir.
Prat. Lav., 2008, 39, pag. 2243; Cass. 24 maggio 2007, n. 12094, secondo la quale “Opinare diversamente
significherebbe affermare il principio, contrastante con quello sancito dal richiamato art. 41, per il quale
l’organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisca un dato non modificabile se non in presenza di un
andamento negativo e non anche ai fini di una più proficua configurazione dell’apparato produttivo, del quale il
datore di lavoro ha il <<naturale>> interesse ad ottimizzare l’efficienza e la competitività”; Cass. 24 maggio
2011, n. 11356, secondo cui la “reale sussistenza” della modifica organizzativa giustifica “da sola il
licenziamento, quali ne siano le finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento
dei profitti”; Cass. 21 novembre 2011, n. 24502, secondo cui non esula “dal concetto di giustificato motivo
oggettivo l’esigenza di una miglior redditività dell’impresa”; Cass. 15 novembre 2012, n. 20016, in Prat. Lav.,
2013, 5, pag. 243; Cass. 11 gennaio 2013, n. 579; Cass. 13 marzo 2013, n. 6333: “la riscontrata effettività della
riorganizzazione aziendale è sufficiente a concretizzare il giustificato motivo oggettivo e rende superflua ogni
ulteriore indagine circa le ragioni che hanno determinato la scelta imprenditoriale”. Per la soluzione contraria
propendono, fra le altre, Cass. 17 maggio 2003, n. 7750, in Not. Giur. Lav., 2003, pag. 747; Cass. 7 luglio 2004,
n. 12514, in Riv. It. Dir. Lav., 2004, II, pag. 838 e segg., nt. ICHINO; Cass. 2 ottobre 2006, n. 21282, in Dir. Prat.
Lav., 2008, 39, pag. 2243; infine, cfr., altresì, Cass. 28 ottobre 2009, n. 22824, in Giust. Civ. Mass., 2009, 10,
pag. 1506, che seppure incidentalmente (in quanto riguardante un caso di licenziamento collettivo, ritenuto non
controllabile dal punto di vista dei presupposti sostanziali), dopo aver affermato che non è necessaria una “crisi
aziendale piena”, chiama in causa la circostanza che l’impresa versava in “difficoltà riferibili ad un solo settore,
quello produttivo”, ritenute pericolose per “l’efficienza e la competitività” dell’impresa sul mercato. In dottrina,
nel primo senso si esprime M.T. CARINCI, Il giustificato motivo oggettivo nel rapporto di lavoro subordinato, in
Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. GALGANO, Padova, 2005, pag.
107 e segg.; contra A. PERULLI, Razionalità e proporzionalità nel diritto del lavoro, in Dir. Lav. Rel. Ind., 2005,
pag. 28; ID., Fatto e valutazione giuridica del fatto nella nuova disciplina dell’art. 18 St. lav. Ratio e aporie dei
concetti normativi, in Arg. Dir. Lav., 2012, pagg. 801-802; P. ALLEVA, Presente e futuro dei licenziamenti per
ragioni economico-produttive, in Riv. Giur. Lav., 2006, I, pag. 67 e segg. e in P. ALLEVA e altri, I licenziamenti
per motivi economico-produttivi e la responsabilità d’impresa, Roma, 2007, pag. 26; A. ANDREONI, Razionalità
e proporzionalità nei licenziamenti “oggettivi”, ivi, pag. 58 e segg. Per un sintetico, ma chiaro quadro
giurisprudenziale sul punto cfr. G. M. MASCARELLO, I dilemmi della giurisprudenza, ivi, pag. 113 e segg.
4
236/1993 (6) nella misura in cui il “giustificato motivo oggettivo connesso a riduzione,

trasformazione o cessazione di attività o di lavoro” consente l’iscrizione dei lavoratori

licenziati nelle liste di mobilità, a differenza del giustificato motivo connesso a fatti relativi

alla persona del lavoratore oggettivamente considerata. Le due fattispecie, in definitiva,

restano distinte soltanto in virtù dei requisiti spazio-temporali e dimensionali richiesti dall’art.

24, l. n. 223/1991. Tuttavia, alla descritta e riconosciuta coincidenza delle causali consegue

l’unicità strutturale della fattispecie del licenziamento per riduzione di personale (7): una

conclusione dalla quale, peraltro, non vengono tratte le dovute conseguenze dalla

giurisprudenza tanto in tema di sindacato sulle scelte organizzative, quanto relativamente ad

alcuni profili di disciplina dei due istituti (si pensi, ad esempio, alla questione dei criteri di

scelta e, soprattutto, all’obbligo di repêchage).

A tale soluzione essa è pervenuta trasferendo sul piano collettivo della procedura di

mobilità il controllo sulla legittimità e coerenza della scelta imprenditoriale, a differenza di

quanto accade per i licenziamenti individuali e plurimi per giustificato motivo oggettivo, una

volta che non è stata valorizzata l’opportunità offerta dal d. lgs. 6 febbraio 2007, n. 25, il cui

art. 4, terzo comma, lett. b) e c) sembra estendere, nelle imprese con almeno 50 dipendenti, a

6
() Cfr. analogamente R. DEL PUNTA, Disciplina del licenziamento e modelli organizzativi delle imprese, in Dir.
Lav. Rel. Ind., 1998, pag. 704.
7
() Per una conclusione in tal senso cfr. spec. L. MONTUSCHI, Mobilità e licenziamenti: primi appunti
ricostruttivi ed esegetici in margine alla l. n. 223 del 23 luglio 1991, in Riv. It. Dir. Lav., 1991, I, pag. 438 ss.; G.
PERA, I licenziamenti collettivi, in M. CINELLI (a cura di), Il fattore occupazionale nelle crisi d'impresa, Torino,
1993, pag. 95; F. SCARPELLI, La nozione e il controllo del giudice, in Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., 1997, n. 19, I
licenziamenti collettivi, pag. 46; U. CARABELLI, licenziamenti per riduzione di personale in Italia, in I
licenziamenti per riduzione di personale in Europa, Bari, 2001, pagg. 156 e segg. e 201 e segg., che sottolinea sì
l’autonomia delle due fattispecie, ma soltanto in virtù degli indicati “requisiti ulteriori rispetto al mero
presupposto causale” (pag. 203); M.T. CARINCI, op. cit., pag. 30 e segg.; E. GRAGNOLI, La riduzione del
personale fra licenziamenti individuali e collettivi, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico
dell’economia, diretto da F. Galgano, Padova, 2006, passim ma spec. pagg. 5 e 157 e segg.; P. ALLEVA, op. cit.,
pag. 67 e segg.; E. BALLETTI, I licenziamenti per motivi economico-produttivi, in P. ALLEVA e altri, I
licenziamenti per motivi economico-produttivi e la responsabilità d’impresa, op. cit., pag. 81 e segg.; O.
MAZZOTTA, Licenziamento collettivo e licenziamento individuale per motivi economici: tornare a Tolomeo?, ivi,
pag. 129 e segg.
5
tutti i licenziamenti per ragioni organizzative l’onere per il datore di lavoro di procedere

all’informazione ed alla consultazione (8).

Anche con riguardo alla seconda fattispecie di licenziamento per giustificato motivo

oggettivo, cui sono ricondotte le ragioni attinenti al regolare funzionamento

dell’organizzazione del lavoro, ovvero le vicende relative alla persona del lavoratore “ma che

non costituiscono una forma di inadempimento” ( 9), le quali non presuppongono

necessariamente una riduzione di personale, la giurisprudenza si preoccupa di verificare se il

fatto oggettivo evocato produca un impatto significativo sull’organizzazione aziendale atto a

giustificare il licenziamento. E’ quanto emerge, in particolare, con riguardo ai casi della

carcerazione o degli arresti domiciliari del lavoratore ( 10) e della perdita di un’autorizzazione

amministrativa o di una licenza (11). Analogamente, qualora si prospetti un’inidoneità fisica o

psichica, viene richiesta la dimostrazione che essa sia permanente ed assoluta, accertata in

concreto e senza che sia prospettabile l’assegnazione a mansioni diverse, persino di livello

inferiore, sia pur secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dal datore di

lavoro (12). Allo stesso modo, allorquando è ritenuto configurabile in termini oggettivi,

anziché soggettivi, in quanto prescinde dalla colpa del lavoratore, lo scarso rendimento

integra gli estremi del giustificato motivo “solo ove cagioni la perdita totale dell’interesse del

datore alla prestazione, all’esito di un’indagine condotta alla stregua di tutte le circostanze

8
() Cfr. C. ZOLI, I licenziamenti per ragioni organizzative: unicità della causale e sindacato giudiziale, in Arg.
Dir. Lav., 2008, pag. 33; L. NOGLER, La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento tra
i “principi” costituzionali, in Dir. Lav. Rel. Ind., 2009, pag. 655.
9
() Così Cass., 11 agosto 1998, n. 7904, in Not. Giur. Lav., 1998, pag. 731. In dottrina cfr. L. Calcaterra, La
giustificazione oggettiva del licenziamento. Tra impossibilità sopravvenuta ed eccessiva onerosità, Napoli, 2008.
10
() Cfr. Cass., 1 giugno 2009, n. 12721, in Giust. civ. Mass., 2009, 6, pag. 863; Cass., 28 luglio 1994, n. 7048, in
Orient. Giur. Lav., 1995, I, pag. 185.
11
() Cfr. Cass., 19 aprile 2003, n. 6378, in Dir. Prat. Lav., 2008, 30, pag. 1759; Cass., 19 dicembre 1998, n.
12719, in Notiz. Giur. Lav., 1999, pag. 212; Cass., 28 luglio 1994, n. 7048, in Orient. Giur. Lav., 1995, I, pag.
185.
12
() Cfr. in giurisprudenza cfr. Cass. 23 aprile 2010, n. 9700, in Arg. Dir. Lav., 2011, pag. 146 e segg., nt. di
CORSO; Cass. 29 marzo 2010, n. 7531, in Prat. Lav., 2010, 29, pag. 1231; Cass., 27 giugno 2003, n. 10272, in
Mass. Giur. Lav., 2004, pag. 100; Cass., 19 aprile 2003, n. 6378, in Dir. Prat. Lav., 2008, 30, pag. 1759; Cass. 5
marzo 2003, n. 3245 in Mass. Giur. Lav., 2003, pag. 367; Cass. 20 novembre 2000, n. 14964, in Notiz. Giur. Lav.,
2001, pag. 343.
6
della fattispecie concreta, compreso fra queste il comportamento del datore di lavoro” ( 13); in

altre parole, quando incide sul regolare funzionamento dell’organizzazione produttiva del

lavoro, così come nel caso di sopravvenuta “inidoneità professionale” del lavoratore a seguito

del mutamento dell’organizzazione aziendale (14).

3. A fronte di un quadro giurisprudenziale assestato in linea di principio, ma complesso nelle

sue applicazioni concrete, con riguardo ai licenziamenti per ragioni soggettive ancor più che

per ragioni oggettive, il legislatore è inizialmente intervenuto per porre limiti al sindacato

giudiziale ed introdurre termini brevi di decadenza per agire in giudizio. Ciò ha fatto con la

legge n. 183 del 2010 (c.d. Collegato lavoro), che secondo alcuni settori della dottrina avrebbe

effettuato un vero e proprio attacco alla giurisdizione statale pubblica (15) ed al principio di

inderogabilità (16).

13
() Così Cass. 5 marzo 2003, n. 3250, in Riv. It. Dir. Lav., 2003, II, pag. 689, nt. di ICHINO e CAVALLARO. Invero,
secondo la giurisprudenza, “lo scarso rendimento del lavoratore può essere addotto, a seconda delle circostanze,
come giustificato motivo oggettivo di licenziamento, oppure come giustificato motivo soggettivo, quando esso
sia l’effetto di un inadempimento degli obblighi contrattuali” (così Cass. 5 marzo 2003, n. 3250, cit.): con la
conseguenza che, nel primo caso, il licenziamento sarà basato soprattutto su “un giudizio sul dato oggettivo dei
risultati raggiunti o sulla oggettiva inadeguatezza del lavoratore ai compiti a lui assegnati” (Trib. Genova, 23
settembre 2014, n. 911, in Guida Lav., 2015, 7, pag. 39), id est su circostanze tali da rendere “la prestazione
lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile per il datore di lavoro” (Cass. 4 settembre 2014, n.
18678, in Foro It., 2014, I, 3474, e in Lav. Giur., 2015, pag. 40, nt. di GRAGNOLI) o, più in generale, su un
“comportamento oggettivamente incompatibile con il regolare funzionamento dell’organizzazione aziendale”
(Cass. 25 luglio 2003, n. 11556, in Riv. It. Dir. Lav., 2004, II, 142, nt. di ICHINO); nel secondo caso, occorrerà,
per contro, porre l’accento su una “mancanza disciplinare o inadempimento contrattuale del lavoratore” (Cass.
25 luglio 2003, n. 11556, cit.) e il datore di lavoro sarà “onerato della dimostrazione di un notevole
inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, quale fatto complesso alla cui valutazione deve
concorrere anche l’apprezzamento degli aspetti concreti del fatto addebitato” (Cass. 16 luglio 2013, n. 17371, in
Diritto & Giustizia online, 2013, 17 luglio; cfr. anche Cass. 17 settembre 2009, n. 20050, in Guida Dir., 2009,
46, pag. 47). In dottrina cfr. F. Pantano, Il rendimento e la valutazione del lavoratore subordinato nell’impresa,
Padova, 2012.
14
() Cass. 17 luglio 2002, n. 10356, in Orient. Giur. Lav., 2003, I, pag. 935.
15
() Cfr., in particolare, O. MAZZOTTA, La giustizia del lavoro nella visione del “collegato”: la disciplina dei
licenziamenti, in M. CINELLI, G. FERRARO (a cura di), Il contenzioso del lavoro nella legge 4 novembre 2010, n.
183, Torino, 2011, pag. XXVIII.
16
() Cfr. in particolare F. AMATO, S. MATTONE, Il “collegato lavoro”: ancora una legge per la riduzione dei
diritti, in F. AMATO, S. MATTONE (a cura di), La controriforma della giustizia del lavoro, Milano, 2011, pagg. 14-
15.
7
Tuttavia, come si è già tentato di rilevare in altra sede ( 17), i timori appena esposti

potevano ritenersi circoscritti. In particolare, per quanto concerne l’esclusione di ogni

sindacato di merito, sembra si possa sostenere che l’ultima parte del primo comma dell’art. 30

abbia il solo significato di vietare al giudice di controllare l’opportunità sociale e la razionalità

tecnica delle scelte imprenditoriali, oltre che le finalità perseguite dal datore di lavoro, a meno

che non ne emerga la pretestuosità, la discriminatorietà o la natura fraudolenta. In altre parole,

a ben vedere il legislatore non fa altro che avallare l’orientamento prevalente in

giurisprudenza, a scapito di quello minoritario in precedenza ricordato, secondo una tecnica

legislativa già utilizzata in altre occasioni (ad es., art. 29, d. lgs. n. 276/2003).

Da un lato, invero, il divieto di un sindacato giudiziale di merito non dovrebbe incidere

sulla configurazione del licenziamento quale extrema ratio, in quanto tale concezione non

comporta l’onere per il datore di lavoro di perseguire un determinato fine, ma introduce un

ulteriore limite esterno alla cui sussistenza è subordinato l’esercizio del potere di recedere dal

rapporto di lavoro: un limite, per di più, in qualche modo deducibile tanto dal principio di

effettività delle ragioni che giustificano il licenziamento, quanto dai “principi generali

dell’ordinamento” in conformità ai quali il controllo giudiziale è tenuto a svolgersi.

D’altro lato, il riferimento a tali principi non sembra in grado di superare il suddetto divieto

di controllo di merito sino a mettere in discussione le scelte imprenditoriali in quanto

tecnicamente irragionevoli, ovvero socialmente inopportune, a meno che non ne emerga la

pretestuosità, la discriminatorietà o la natura fraudolenta e fermi restando i casi in cui il

legislatore abbia espressamente disposto in senso contrario (ad es., artt. 10, comma 3, l. n.

68/1999 e 42, d. lgs. n. 81/2008), imponendo al datore di lavoro l’adozione di una “decisione

che comporti un sacrificio proporzionato dell’efficienza economica” (18).

17
() Cfr. C. ZOLI, La legge n. 183 del 2010: le novità in materia di licenziamento, in Arg. Dir. Lav., 2011, pagg.
837-838.
18
() Così L. NOGLER, in Aa.Vv., Opinioni sul “collegato lavoro”, in Dir. Lav. Rel. Ind., 2011, pag. 130.
8
In definitiva, la conclusione appena esposta si impone se si vuol ritenere che alla norma

debba essere attribuito qualche, pur modesto, significato, anche se a ben vedere nella sostanza

non incide, come rilevato, sulla ricostruzione del concetto di giustificato motivo oggettivo (19).

4. Se nella sostanza di per sé non ha affievolito le tutele dei lavoratori, la legge n. 183 del

2010 si segnala comunque per inaugurare una stagione che vede progressivamente e

rapidamente ridursi le garanzie dei lavoratori in ordine ai licenziamenti. Ciò in un contesto in

cui le modifiche introdotte in materia vengono inserite in un più ampio disegno di

innovazione del mercato del lavoro: la riduzione della flessibilità in entrata dovrebbe in

qualche modo essere bilanciata da un’accresciuta flessibilità in uscita, a sua volta fronteggiata

da un’adeguata revisione degli ammortizzatori sociali.

Una prima possibilità è in qualche modo anticipata dall’art. 8, l. n. 148 del 2011, che

consente ai contratti di prossimità di intervenire sulle “conseguenze del recesso dal rapporto

di lavoro” per perseguire le finalità indicate dal primo comma.

Ma in rapida successione prima la riforma Monti-Fornero, poi la riforma Renzi-Poletti

intervengono in modo incisivo e radicale sui meccanismi sanzionatori, sia pur con

caratteristiche, risultati ed impatto diversi.

Innanzitutto la legge n. 92 del 2012, in special modo nella parte relativa ai licenziamenti,

si rivela straordinariamente complessa ed ambigua ( 20) cosicché i risultati cui sono pervenuti e

sono destinati a pervenire gli interpreti, se non proprio antitetici, sono molto distanti da quelli

sperati. Tali caratteristiche della legge, imputabili alla necessità di conciliare opzioni di

politica del diritto opposte che il Governo Monti ha dovuto fronteggiare per sopravvivere,

hanno creato un’incertezza maggiore di prima. Anziché una semplificazione normativa la


19
() Cfr. C. ZOLI, La legge n. 183 del 2010, op. cit., pag. 838.
20
() Cfr. in tal senso R. RIVERSO, Alla ricerca del fatto nel licenziamento disciplinare, in AA. VV., Il dibattito
sulla riforma italiana del mercato del lavoro, CSDLE “Massimo D’Antona, 5 novembre 2012. Per un recente
commento v. G. SANTORO PASSARELLI, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Arg. Dir. Lav.,
2015, pag. 58 e segg.
9
riforma ha prodotto l’esatto contrario. Il legislatore non ha avuto il coraggio di riscrivere le

“regole di comportamento”, ovvero di intervenire sulle causali del licenziamento, ma ha

inciso soltanto sulle “regole sanzionatorie” ed a tal fine ha graduato le forme di tutela in

relazione alla tipologia di recesso. Ma lo ha fatto procedendo ad un’articolazione esasperata

delle norme, utilizzando concetti elastici e lasciando irrisolte questioni fondamentali. Ha

accentuato, di conseguenza, l’incertezza sul significato delle disposizioni emanate ed

accresciuto in modo esponenziale quella discrezionalità giudiziale che aveva, al contrario,

cercato di contenere solo due anni prima col c.d. Collegato Lavoro (l. n. 183/2010), con tutti i

limiti che ne derivano in termini di effettività e di successo dell’operazione legislativa (21).

Col nuovo art. 18 st. lav. il legislatore ha graduato il sistema sanzionatorio prevedendo

meccanismi di tutela diversi a seconda dei vizi e del disvalore ad essi riconosciuto, mentre in

precedenza era garantita in ogni caso la reintegra nel posto di lavoro.

In particolare, se si limita l’indagine ai licenziamenti per ragioni economico-

organizzative, la legge n. 92/2012, da un lato, ha introdotto soltanto per essi un tentativo

preventivo obbligatorio di conciliazione destinato a deflazionare il contenzioso giudiziale

favorendo il raggiungimento di una soluzione transattiva in una sede protetta.

Dall’altro, non ha modificato la nozione di giustificato motivo oggettivo, ma ha introdotto

un meccanismo a “doppia fase” (22), anzi a ben vedere a potenziale tripla fase, che impone al

giudice di valutare eventualmente, su domanda di parte, se il licenziamento è discriminatorio

o illecito; poi se esso è giustificato (“ingiustificatezza semplice”); infine, in caso contrario

(cioè se non è illecito, ma risulta ingiustificato), se sussistono almeno quei presupposti minimi

che possono indurlo a disporre la semplice sanzione indennitaria, anziché la reintegra sia pur

ad effetti risarcitori limitati (“ingiustificatezza qualificata”). Ne consegue che l’insussistenza

21
() Cfr. S. NADALET, La certezza del diritto nella riforma del mercato del lavoro, in Lav. Dir., 2013, 59 e segg.
22
() Così A. MARESCA, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art. 18
statuto dei lavoratori, in Riv. It. Dir. Lav., 2012, I, pag. 441.
10
del giustificato motivo oggettivo non può coincidere con “la manifesta insussistenza del fatto

posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”, cosicché è necessario

individuare un ambito di applicazione ragionevole e non eccessivamente circoscritto per

entrambe le forme di tutela, al di là della “problematica asimmetria tra disposizione

sostanziale e sanzionatoria” (23).

Relativamente all’espressione “manifesta insussistenza del fatto posto a base del

licenziamento per giustificato motivo oggettivo”, sembra, innanzitutto, che debba essere

evitata l’equiparazione con l’espressione, pur simile, utilizzata con riguardo al licenziamento

per ragioni soggettive. Senza entrare nel dibattito sul significato e sulla portata che può

assumere nell’ambito del 4° comma dell’art. 18 st. lav., si deve escludere che nel 7° comma il

“fatto” posto dalla legge a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia il fatto

“giuridico”, poiché, in caso contrario, il giudice sarebbe chiamato a valutare due volte lo

stesso fatto (24) ed in sostanza si annullerebbe “la distinzione, posta dall’art. 18, comma 7, tra

le due categorie, fatto posto a base del licenziamento ed estremi del giustificato motivo” (25).

In secondo luogo, proprio la considerazione appena esposta induce inevitabilmente a

confermare la tesi secondo cui il “fatto” cui fa riferimento il nuovo art. 18, comma 7, st. lav.

non coincide col fatto giuridico, ovvero col presupposto stesso del giustificato motivo

oggettivo, bensì col fatto materiale, cioè con le circostanze tecnico-organizzative comunicate

al lavoratore (o, in caso di omessa motivazione, indicate in giudizio nella memoria di

costituzione26) sulle quali si fonda il licenziamento.


23
() Così C. PONTERIO, Il licenziamento per motivi economici, op. cit., pag. 75.
24
() Cfr. M. PERSIANI, Il fatto rilevante per la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, in Arg.
Dir. Lav., 2013, pag. 6.
25
() Così C. PONTERIO, op. cit., pag. 79.
26
Sul punto v. C. PISANI, L’ingiustificatezza qualificata del licenziamento: convincimento del giudice e onere
della prova, in Mass. Giur. Lav., 2012, pag. 742. Secondo O. Mazzotta, I molti nodi irrisolti del nuovo art. 18 st.
lav., in M. Cinelli, G. Ferraro, O. Mazzotta, Il nuovo mercato del lavoro. Dalla riforma Fornero alla legge di
stabilità 2013, Torino, 2013, pag. 239, invece, in relazione al caso dell’omessa motivazione si consuma una
“grave contraddizione” della legge n. 92 del 2012 poiché, nonostante sia stato introdotto l’onere di motivazione
contestuale del licenziamento (art. 2, comma 2, l. n. 604 del 1966), la violazione del requisito di motivazione
“non determina la sanzione dell’inefficacia/inesistenza del medesimo, ma solo una reazione risarcitoria (da sei a
dodici mensilità: v. art. 18, comma 6)”. Al contrario F. Carinci, Il licenziamento inefficace per la riforma
11
E’ evidente, pertanto, che la differenza fra ingiustificatezza semplice e qualificata non può

risultare meramente quantitativa. Per l’ingiustificatezza qualificata non è sufficiente la

mancanza di uno qualsiasi dei suddetti presupposti del giustificato motivo oggettivo. Al

contrario, la manifesta insussistenza dei fatti sui quali si fonda il licenziamento, al di là della

problematica rilevanza dell’aggettivo “manifesta” (27), deve attenere alla modifica

organizzativa in senso stretto ed al nesso di causalità con la ragione addotta dal datore di

lavoro, alla luce del confronto operato dal giudice tra i fatti concreti e quelli posti a base del

licenziamento (28). Ciò può verificarsi, ad esempio, quando il posto di lavoro non sia stato in

realtà soppresso perché il lavoratore licenziato è stato sostituito da altro lavoratore nelle stesse

mansioni prima o dopo il licenziamento. Lo stesso dicasi quando manchi il nesso causale ( 29),

come laddove venga licenziato un lavoratore adibito ad un reparto diverso da quello

riorganizzato o soppresso. Ma alla stessa conclusione si può pervenire qualora le ragioni

addotte non siano reali o definitive (ad es. la perdita di una commessa, la riduzione

Fornero, in Lav. Giur., 2012, pag. 871 osserva che, “se il datore non si costituisce o si costituisce senza offrire
alcuna motivazione, sì da rinunciare a qualsiasi possibilità di prova”, il giudice pronuncerà “sentenza di
annullamento del licenziamento, con conseguente condanna alla reintegra ai sensi del comma 4”.
27
() Al riguardo, all’indomani della riforma la dottrina ha diffusamente sottolineato come quell’aggettivo non
avesse senso: così si è sottolineato che un “fatto” o sussiste o non sussiste (cfr. F. CARINCI, Complimenti Dottor
Frankenstein: il disegno di legge governativo in materia di riforma del mercato del lavoro, in Lav. Giur., 2012,
pag. 548; A. MARESCA, Il nuovo regime sanzionatorio, op. cit., pag. 443, secondo cui non si può prospettare
l’ipotesi della “scelta organizzativa parziale”); ancora, che l’ipotesi della manifesta insussistenza è di difficile
realizzazione (così P. ALLEVA, Punti critici della riforma del mercato del lavoro in tema di flessibilità in entrata
e in uscita, in www.dirittisocialiecittadinanza.org, pag. 6 ss.) o che si tratta di una categoria “declinabile” in
troppi modi per poter essere razionalizzata dai giudici (cfr. M. MAGNANI, La riforma del mercato del lavoro, in
AA. VV., Il dibattito sulla riforma italiana del mercato del lavoro, op. cit., pag. 6). Al contrario A. VALLEBONA,
La riforma del lavoro 2012, Torino, 2012, pagg. 58-59 sostiene che “manifesta significa evidente”, cosicché
“nell’ipotesi di ingiustificatezza del licenziamento per motivo oggettivo la tutela reale è un’extrema ratio,
affidata ad un duplice concorrente vaglio giudiziale, da effettuare con lealtà e fedeltà alla ratio della riforma”.
Per P. ICHINO, La riforma dei licenziamenti e i diritti fondamentali dei lavoratori, in L. NOGLER, L. CORAZZA (a
cura di), Risistemare il diritto del lavoro. Liber amicorum Marcello Pedrazzoli, Milano, 2012, spec. pag. 809 e
segg. l’espressione “manifesta insussistenza” “serve a delimitare i casi eccezionali” in cui appare evidente
l’insussistenza del motivo economico-organizzativo, “distinguendola da quelli incomparabilmente più numerosi”
in cui ci si può attendere una qualche perdita in conseguenza della prosecuzione del rapporto di lavoro, “ma il
giudice solitamente non ha gli strumenti necessari per sovrapporre alla valutazione dell’imprenditore una propria
valutazione più attendibile”.
28
() Cfr. M. MARAZZA, L’art. 18, nuovo testo, dello Statuto dei lavoratori, in Arg. Dir. Lav., 2012, pag. 626.
29
() Sul punto cfr. anche C. CESTER, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, in
Arg. Dir. Lav., 2012, pag. 574.
12
dell’attività produttiva o dell’attività del reparto cui il lavoratore è addetto, la perdita di

bilancio, la completa chiusura o la cessazione dell’attività di un reparto).

Nel caso, invece, di omesso repêchage la tutela reintegratoria potrebbe operare quando

esso risulti talmente ingiustificato (ad es. perché il licenziamento si accompagna

all’assunzione di altro lavoratore per mansioni identiche in altro settore) da far emergere la

pretestuosità stessa del licenziamento (30).

Analoga soluzione può essere accolta qualora la scelta del lavoratore da licenziare risulti

totalmente irragionevole, in particolare quando manchi lo stesso nesso di causalità con le

ragioni addotte. La conclusione è certamente difforme da quella che il legislatore ha adottato

con riguardo ai licenziamenti collettivi, per i quali ha previsto che la violazione dei criteri di

scelta comporta l’applicabilità della reintegra (art. 1, comma 46, l. n. 92/2012), ma sembra

comunque coerente alla formula usata dal nuovo art. 18, comma 7, st. lav., come riconosciuto

da alcune pronunce di merito (31).

Con riferimento al licenziamento per fatti oggettivi concernenti la persona del lavoratore

la reintegra con risarcimento attenuato trova applicazione nel solo caso dei licenziamenti

intimati “per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore”,

così come nella diversa fattispecie del “licenziamento intimato in violazione dell’articolo

2110, comma 2, c.c.”, ovvero per mancato superamento del periodo di comporto (art. 18,

30
() Nel caso in cui, per contro, la scelta datoriale non si riveli pretestuosa o persino arbitraria, il mancato
assolvimento dell’obbligo di repêchage dovrebbe condurre all’applicazione della cd. tutela indennitaria forte. E’
questa la posizione assunta dalla giurisprudenza prevalente: cfr. Trib. Genova, 14 dicembre 2013, in Arg. Dir.
Lav., 2014, pag. 798 e segg., nt. di A. BIAGIOTTI; Trib. Varese, 04 settembre 2013, in Foro It., 2013, I, 3333;
Trib. Roma, 8 agosto 2013, in Riv. It. Dir. Lav., 2014, II, pag. 167 e segg., nt. di C. DI CARLUCCIO; Trib. Milano,
28 novembre 2012, in Dir. Rel. Ind., 2013, pag. 152 e segg., nt. di G. SANTORO PASSARELLI; Trib. Milano, 20
novembre 2012, in Mass. Giur. Lav., 2013, pag. 39 e segg., nt. di A. VALLEBONA; Trib. Milano, 5 novembre
2012, in Riv. It. Dir. Lav., 2013, II, pag. 654 e segg., nt. di C. ZOLI; contra Trib. Reggio Calabria, 3 giugno 2013,
in Mass. Giur. Lav., 2014, pag. 229 e segg., nt. di A. VALLEBONA; Trib. Roma, 7 maggio 2013; Trib. Milano, 23
febbraio 2013.
31
() Tra le pronunce rese in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimati dopo l’entrata in
vigore della l. n. 92/2012, applica la tutela indennitaria Trib. Latina, ord., 3 agosto 2014, inedita.
13
comma 7, l. n. 300/1970), di cui da tempo peraltro si esclude la riconducibilità al giustificato

motivo oggettivo (32).

Diversamente nelle altre ipotesi in cui vengono in rilievo vicende oggettive del lavoratore,

ma sia escluso che ricorrano gli estremi del giustificato motivo, sempre che non “accerti la

manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo

oggettivo” (così sempre il 7° comma dell’art. 18, l. n. 300/1970), il giudice dovrebbe optare

per un’”indennità risarcitoria” da 12 a 24 mensilità. Il tutto a seguito di una valutazione che

presenta margini di discrezionalità in ordine alla sanzione da applicare certamente non

inferiori a quelli prospettabili relativamente alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo

consistente nella soppressione di un posto di lavoro.

5. Il percorso ormai avviato di riduzione delle tutele a fronte dei licenziamenti illegittimi

prosegue a grande velocità per i lavoratori assunti a far data dal 7 marzo 2015 con

l’emanazione del d. lgs. 4 marzo 2015, n. 23. Come tre anni prima, il disegno riformatore non

può essere valutato estrapolandone un solo segmento, se si considera che, in continuità con la

legge n. 92 del 2012, il legislatore tenta di combinare un ulteriore incremento della flessibilità

in uscita con una chiara opzione economica e normativa a favore del lavoro subordinato a

tempo indeterminato e con l’impegno ad una revisione degli ammortizzatori sociali da tempo

attesa; peraltro, al riguardo non si può trascurare l’aumento anche della flessibilità in entrata

se si considera l’ampia ed innovativa libertà riconosciuta alle imprese di assumere con

contratto a termine incontrando soltanto limiti di carattere quantitativo e di durata, addirittura

32
() Cfr. in tal senso, fra le tante, Cass., 7 febbraio 2011, n. 2971, in Not. Giurisp. Lav., 2011, pag. 202, secondo
cui “la disciplina dell’art. 2110, comma 2, c.c. prevale sia sulla disciplina codicistica della risoluzione del
contratto per impossibilità parziale sopravvenuta della prestazione (artt. 1256, comma 2, c.c.; art. 1464 c.c.), sia
sulla disciplina del licenziamento individuale ex l. n. 604 del 1966”. Per una ricostruzione del dibattito dottrinale
e giurisprudenziale sul punto cfr. M. NOVELLA, Il licenziamento del lavoratore malato, in Dir. Rel. Ind., 2012,
pag. 514 e segg.
14
meramente eventuali nel caso di ricorso alla somministrazione di lavoro (cfr. legge n. 78 del

2014) (33).

Anche la riforma Renzi-Poletti non incide sui presupposti giustificativi del licenziamento

e persegue obiettivi in parte simili. Ma lo fa con ben altra determinazione ed incisività.

Da un lato, infatti riduce fortemente l’applicabilità della reintegra, eliminandola del tutto

per i “licenziamenti economici” (art. 1, comma 7, lett. c), legge n. 183 del 2014).

Dall’altro, in questo caso ben diversamente dalla legge n. 92 del 2012, si propone di

circoscrivere tanto la discrezionalità del giudice, quanto il contenzioso giudiziale. Nella prima

direzione muove l’introduzione di un apparato sanzionatorio che predetermina l’importo

dell’indennità dovuta in caso di licenziamento illegittimo, cosicché alla valutazione del

giudice resta affidato il solo controllo della legittimità del licenziamento. Nella seconda

spinge innanzitutto la previsione della possibilità per il datore di formulare al prestatore di

lavoro una proposta economica conciliativa esente da imposta, che in termini di importo netto

è molto vicina a quanto quest’ultimo può ottenere con una sentenza favorevole: si tratta di

un’eventualità che può essere perseguita dopo il licenziamento per qualunque tipo di recesso,

anche per ragioni soggettive, e che sostituisce in qualche modo il tentativo preventivo di

conciliazione di cui all’art. 7, legge n. 604 del 1966, come novellato dalla riforma Fornero,

ma che rispetto a quest’ultimo presenta ben diversa valenza in termini di ricerca di soluzioni

alternative al licenziamento, pur non precluse anche dopo il recesso. Il tutto in una logica ed

in un contesto di accelerazione dei tempi (anche se non necessariamente degli effetti) del

licenziamento, che passa dalla riduzione del valore delle procedure preventive individuali e

persino sindacali, se si considera l’applicazione della tutela indennitaria anche ai

licenziamenti per riduzione di personale in caso di violazione della procedura di cui all’art. 4,

33
() Cfr. F. CARINCI, G. ZILIO GRANDI (a cura di), La politica del lavoro del Governo Renzi. Atto I, Adapt Labour
Studies E-Book Series, n. 30/2014.
15
legge n. 223 del 1991 (in questo caso analogamente a quanto disposto dall’art. 1, comma 46,

l. n. 92 del 2012).

In secondo luogo, la mancata applicabilità del rito sommario previsto dalla riforma Monti-

Fornero, unita all’inammissibilità del ricorso in via d’urgenza di cui all’art. 700 c.p.c.,

esperibile soltanto nel caso in cui sia prospettabile la reintegra nel posto di lavoro, possono

favorire una volta di più una soluzione conciliativa che garantisca al lavoratore una somma

certa in tempi rapidi.

In definitiva l’opzione compiuta dal legislatore è volta ad assecondare in tutto e per tutto

l’esigenza dei datori di lavoro di effettuare una scelta certa ed efficiente secondo un modello

che ha trovato compiuta formulazione teorica in due noti rapporti redatti per il Governo

francese nel biennio 2003-2004 da alcuni famosi economisti 34: un modello dal quale il

legislatore italiano si distacca soltanto nella misura in cui estende tale soluzione anche ai

licenziamenti per ragioni soggettive e lascia alle parti la scelta di raggiungere un accordo

anziché precludere la possibilità di agire in giudizio. Si tratta di un’opzione quanto mai

opportuna che dovrebbe limitare i comportamenti strumentali del datore di lavoro di ricorrere

pretestuosamente a licenziamenti per motivi disciplinari per evitare di pagare la c.d. layoff tax

o, al contrario, di adottare licenziamenti oggettivi per non correre il rischio della reintegra del

lavoratore, pur sempre assicurata nel caso della “insussistenza del fatto materiale contestato al

lavoratore” (art. 3, comma 2, d. lgs. n. 23/2015).


34
Cfr. O. BLANCHARD, J. TIROLE, Protection de l’emploi et procédures de licenciement, Rapport du Conseil
d’Analyse Economique, n. 44, La documentation française, Paris, 2003; P. CAHUC, F. KRAMRZ, De la Précarité
à la Mobilité: Vers une Sécurité Sociale Professionnelle, Rapport du Conseil d’Analyse Economique, La
documentation française, Paris, 2004. Per Blanchard e Tirole il diritto del lavoro, e più precisamente la sua
applicazione giudiziale, costituisce un fattore d’incertezza, e conseguentemente, d’indebito turbamento del
calcolo d’anticipazione razionale degli agenti economici. In questa prospettiva la critica degli economisti non
colpisce tanto l’eccesso di tutela assicurato dalla norma giuridica di marca protettiva (la c.d. rigidità del mercato
del lavoro); essa si dirige, piuttosto, nei confronti del giudice, le cui modalità d’intervento sono tali da non
rendere prevedibile, con sufficiente grado di certezza, le conseguenze di una determinata scelta economico-
organizzativa assunta dall’impresa, a partire dalle conseguenze di un licenziamento. Bersaglio della critica è,
dunque, l’imprevedibilità, incarnata dal giudice del lavoro, le cui aleatorie decisioni, soprattutto in materia di
licenziamento per motivi economici, sarebbero alla base della ritrosia dei datori di lavoro ad assumere nuovo
personale. Cfr. F. Martelloni, Securizzazione delle scelte datoriali, in M. Pedrazzoli, Lessico giuslavoristico, 2,
Bologna, 2010, pag. 132 seg.
16
6. Se si considera che il d. lgs. n. 23 del 2015 non sembra lasciare spazio alcuno alla

reintegra, a differenza di quanto previsto per i licenziamenti per ragioni soggettive dall’art. 3,

comma 1, e che le eventuali violazioni del requisito di motivazione comportano l’applicazione

di una mera indennità dimezzata rispetto al caso della sussistenza di vizi di carattere

sostanziale, si dovrebbe concludere che per i licenziamenti per ragioni oggettive i giochi

possono ritenersi fatti e che pochi dubbi sono prospettabili in ordine al regime di tutela

applicabile.

Tuttavia, alcune considerazioni devono essere svolte con riguardo ad entrambe le

fattispecie di giustificato motivo oggettivo.

Innanzitutto, relativamente alle ragioni concernenti la persona del lavoratore

oggettivamente considerata, il legislatore ha previsto la reintegrazione con risarcimento pieno,

quindi una soluzione migliorativa per i lavoratori rispetto a quanto disposto dalla legge n. 92

del 2012, nell’ipotesi di “difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità

fisica o psichica del lavoratore anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della

legge 12 marzo 1999, n. 68”.

Si pongono, al riguardo, due ordini di problemi. Da un lato, si tratta di valutare la

costituzionalità di tale previsione, nella misura in cui la legge delega n. 183 del 2014, all’art.

1, comma 7, lett. c) ha escluso la possibilità della reintegrazione per i “licenziamenti

economici”. Per la prima volta, in effetti, una tale espressione ricorre nel linguaggio

prescrittivo del legislatore, anziché in quello descrittivo della dottrina. Se essa coincide con la

nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e di licenziamento collettivo

l’incostituzionalità per eccesso di delega non può essere esclusa. Per pervenire ad una diversa

conclusione si dovrebbe, al contrario, ritenere che il motivo consistente nella disabilità fisica o

psichica del lavoratore non rientri nella nozione di licenziamento economico.

17
D’altro lato, lo stesso potrebbe a quel punto sostenersi anche per tutti i casi di

licenziamento per ragioni relative alla persona del lavoratore oggettivamente considerata.

Tuttavia, se si considera che costituisce ormai un’eccezione, la tutela reale non può essere

applicata in mancanza di previsione espressa, al di fuori del caso menzionato.

7. In secondo luogo, anche passando ad esaminare le ragioni inerenti l’organizzazione del

lavoro, non va trascurato che ogni normativa si inserisce in un sistema e deve essere

interpretata in conformità ad esso. In particolare, benché a fronte di un licenziamento adottato

per giustificato motivo oggettivo di cui il datore di lavoro non riesca a dimostrare la

sussistenza sia prevista una tutela meramente indennitaria o obbligatoria - ciò persino nel caso

in cui il datore di lavoro non fornisca con l’atto scritto di recesso la motivazione dello stesso

per poi cercare di darne la prova in giudizio (sul punto v. infra) -, si deve comunque rilevare

che un tale licenziamento deve essere ontologicamente oggettivo e non può trasformarsi in

una sorta di recesso ad nutum.

In altre parole, è necessario distinguere tra la motivazione formale, la cui mancanza è

sanzionata dal legislatore con un’indennità dimezzata (art. 4, d. lgs. n. 23/2015), e la

giustificazione sostanziale, la cui insussistenza è sanzionata sì con un’indennità (art. 3,

comma 1, d. lgs. n. 23/2015), ma a condizione che il licenziamento non si riveli nullo o del

tutto arbitrario quando non addirittura illecito.

Da un lato, la reintegra nel posto di lavoro continua a trovare applicazione nei “casi di

nullità espressamente previsti dalla legge” (art. 2, comma 1, d. lgs. n. 23/2015), ovvero per

ragioni di matrimonio (art. 35, d. lgs. n. 198/2006), in violazione delle norme sulla tutela della

maternità o paternità (art. 54, d. lgs. n. 151/2001), allorquando il licenziamento è adottato a

causa del trasferimento d’azienda in violazione dell’art. 2112, comma 4, c.c., o per il rifiuto

del lavoratore di accettare la trasformazione del proprio rapporto da full time a part-time (art.

18
3, comma 9, d. lgs. n. 61/2000), come pure nel caso di licenziamento intimato durante il

periodo di comporto per malattia o infortunio, senza che quest’ultimo sia superato, in

violazione della regola di irrecedibilità sancita dall’art. 2110, comma 2, c.c.. In tale ipotesi,

invero, non si rientra nell’ambito del giustificato motivo oggettivo ( 35), bensì ricorre la diversa

fattispecie disciplinata dalla norma richiamata, il cui carattere imperativo non può essere

messo in discussione.

Dall’altro lato, l’ordinamento giuridico, non soltanto italiano, ma anche dell’Unione

Europea (36), impone che il licenziamento sia adottato in presenza di ragioni oggettive reali e

serie. In particolare la Corte costituzionale ha da tempo riconosciuto al lavoratore la “garanzia

costituzionale al … diritto di non subire un licenziamento arbitrario” ( 37): un’affermazione

largamente ripresa dalla Suprema Corte, allorquando ha sancito che il potere di licenziare non

può essere “affidato ad un arbitrio del titolare, tale da potersi risolvere in una violazione di

norme imperative o di principi costituzionali”. “Più specificatamente, nella materia relativa ai

poteri imprenditoriali di gestione dell’impresa, la giurisprudenza afferma spesso che

l’esercizio libero di essi è garantito a livello costituzionale (art. 41 Cost.) ed è perciò

insindacabile nel merito, ma poiché la libertà è sempre sottomessa alla legge, l’esercizio del

potere ben può essere censurato dal giudice quante volte si ponga in contrasto con

l’ordinamento legale non solo direttamente, ma anche attraverso l’elusione delle norme, ossia

l’abuso del diritto (cfr. Cass. 9 giugno 1993 n. 6408, 17 gennaio 1998 n. 402, 18 novembre

1998 n. 11634, 2 gennaio 2001 n. 27, 9 luglio 2001 n. 9310) … L’atto di recesso del datore

35
() V. retro testo e nt. 31. Cfr. altresì M. MARAZZA, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel Jobs Act (un
commento provvisorio, dallo schema al decreto), in WP CSDLE “Massimo D’Antona”. IT – 236/2015, pag. 21,
il quale ritiene applicabile la reintegra in tale fattispecie in quanto “appare ragionevole sostenere che per questa
particolare tipologia di recesso la motivazione sia comunque riconducibile all’inidoneità fisica o psichica del
lavoratore”. Contra C. PISANI, in R. PESSI, C. PISANI, G. PROIA, A. VALLEBONA, Jobs Act e licenziamento,
Torino, 2015, pag. 24 esclude l’applicabilità della reintegra in questo caso.
36
() Cfr. art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ai cui sensi “Ogni lavoratore ha il diritto
alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e
prassi nazionali”.
37
() Corte Cost. 4 dicembre 2000, n. 541, in Giur. Cost., 2000, pag. 6; cfr. già Corte Cost. 18 luglio 1989, n. 427,
in Foro It., 1989, I, 2685, nt. di DE LUCA.
19
dal rapporto di lavoro, in quanto atto unilaterale di volontà negoziale, è viziato, se l’agente vi

si sia determinato esclusivamente per un motivo illecito (artt. 1345 e 1324 cod. civ.), tale

dovendosi ritenere il motivo contrario a norme imperative (art. 1418, primo e secondo

comma, cod. civ.), come ad es. quello mosso da ragioni di credo politico o di fede religiosa

(art. 4 l. n. 604 del 1966) (Cass. 6 novembre 1976 n. 4061) o da intento di rappresaglia (Cass.

14 febbraio 1983 n. 1114) o dalla partecipazione del lavoratore ad attività sindacali (art. 15 l.

n. 300 del 1970) (Cass. 2 aprile 1990 n. 2642 e vedi ancora, con specifico riferimento al

licenziamento intimato in periodo di prova, Cass. 17 giugno 1982 n. 3699; Cass. 28 aprile

1995 n. 4747)” (38).

In definitiva, diventa ancor più rilevante che in passato la questione della eventuale natura

illecita del licenziamento. In particolare nel caso di totale ed assoluta mancanza di uno

qualunque dei presupposti costitutivi del giustificato motivo oggettivo, qualora siano

formulate allegazioni e specifica domanda in tal senso dal lavoratore il giudice non può

omettere di indagare se la vera ragione del licenziamento sia diversa da quella oggettiva e

trarne le possibili conseguenze in termini di applicabilità della tutela reintegratoria ai sensi

dell’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 23/2015. Non si vuole in tal modo sostenere che in ogni caso di

“manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo

oggettivo” (per richiamare la formula in presenza della quale l’art. 18, comma 7, l. n.

300/1970 ritiene ancora applicabile la tutela reintegratoria) quest’ultimo sia illecito. Tuttavia,

se il posto che il datore di lavoro sostiene di avere soppresso non viene meno in quanto il

lavoratore licenziato viene sostituito da un altro di professionalità analoga e costo simile, il

38
() Cass. S.U. 2 agosto 2002, n. 11633, in Foro It., 2002, I, 3000. Richiama tale pronuncia e ricostruisce con
esauriente motivazione la nullità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo per violazione degli artt.
1343 e 1345 cod. civ. Trib. Trento, ord., 9 aprile 2015, inedita, Est. Flaim, secondo cui peraltro “lo scopo tipico
del recesso (la sua causa astratta) consiste non già nella mera estinzione del rapporto di lavoro, ma nel suo
scioglimento in presenza di ragioni o tecnico-produttivo-organizzative (oggettive) o disciplinari (soggettive)”.
Sul punto per una diversa posizione v. infra testo e note 40-43.
20
licenziamento non può essere considerato oggettivo anche se è stato qualificato come tale dal

datore di lavoro.

Di conseguenza, il lavoratore ha anzitutto la possibilità di prospettare che il licenziamento

sia discriminatorio o imputabile ad un motivo illecito determinante.

Sul punto è da tempo consolidato in giurisprudenza l’orientamento secondo cui, da un

lato, il licenziamento, in particolare per ritorsione, è considerato nullo “quando il motivo

ritorsivo, come tale illecito, sia stato l’unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato

disposto dell’art. 1418 c.c., comma 2, artt. 1345 e 1324 c.c.”; dall’altro, “l’onere della prova

dell’esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la

volontà negoziale grava sul lavoratore che deduce ciò in giudizio”, a tal fine potendosi

fondare la decisione “sulla utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non

secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a

giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole”39. Si tratta di una conclusione

alla quale è possibile pervenire anche quando il fatto giustificativo del licenziamento, pur

sussistente, sia stato realizzato ad arte, cioè per dare legittimità formale all’atto ritorsivo o

discriminatorio.

Ma non si deve trascurare che la tutela reale trova applicazione anche quando il

licenziamento “è riconducibile agli altri casi di nullità previsti dalla legge”, tra i quali

debbono annoverarsi l’illiceità della causa e la frode alla legge.

Pertanto, in primo luogo, considerata l’ormai prevalente concezione concreta della causa

del contratto40 - e degli atti unilaterali stante il disposto dell’art. 1324 c.c. -, la quale riconosce

ampia rilevanza ai motivi che penetrano nella causa del singolo negozio, l’ambito di

applicazione dell’art. 1345 c.c. risulta circoscritto ai soli moventi che restino effettivamente

39
() Così Trib. Milano, ord., 5 novembre 2012, cit..
40
() Cfr. G.B. FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, pag. 252, che parla di
“funzione economico-individuale del contratto”, nonché C.M. BIANCA, Il contratto, in Diritto civile, 3, Milano
1991, pag. 425, che si rifà alla “ragione concreta del contratto”.
21
estranei al negozio, per i quali ben si comprendono e giustificano i rigorosi limiti posti dalla

norma codicistica41. Tuttavia, nel caso del licenziamento ritorsivo, si può ritenere che il

movente vendicativo penetri nella causa del negozio in quanto costituisce lo scopo specifico

dell’atto di recesso42, dando origine ad un licenziamento nullo per illiceità della causa

(concreta) ex art. 1343 c.c, che non prevede il requisito della esclusività43.

In secondo luogo, per dare rilevanza alle reali ragioni ulteriori, cioè a quelle recondite e

comunque non espresse che hanno indotto il datore a recedere dal contratto di lavoro, si è

fatto riferimento anche alla frode alla legge qualificando come illecita la causa del negozio di

licenziamento quando lo stesso «costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma

imperativa»44. E’ il caso del giustificato motivo oggettivo costruito ad arte, cioè quale mero

pretesto per espellere un lavoratore indesiderato. In tale ipotesi, oggetto di valutazione

giudiziale non possono essere il solo atto di licenziamento e le modifiche organizzative

comunicate al lavoratore, bensì l’intera operazione economica all’interno della quale l’atto

espulsivo si colloca e ne costituisce una semplice componente. In altri termini, l’accertamento

giudiziale non può limitarsi a valutare la legittimità dell’atto, ma deve necessariamente

accertare se la modifica organizzativa, rectius il fatto materiale, oltre a risultare effettiva

risponda a concrete esigenze organizzative e non si riveli, invece, un mero pretesto per

41
() Secondo V. ROPPO, Il contratto, Milano, 2001, pag. 413, detti limiti, e in particolare quello della esclusività,
con i quali il legislatore circonda di una evidente cautela la rilevanza del motivo illecito, trovano comunemente
giustificazione in una tutela dell’affidamento e della certezza dei traffici, ritenuta prevalente rispetto alla
repressione dell’illecito movente contrattuale.
42
() Sulla distinzione tra causa del singolo negozio e causa del tipo negoziale, nonché fra intento soggettivo e
scopo tipico dell’atto negoziale, v. G. BOLEGO, Autonomia negoziale e frode alla legge nel diritto del lavoro,
Padova, 2011, pag. 34, il quale osserva che “ogni singolo negozio possiede una propria causa, che trae origine
dallo scopo tipico previsto dal legislatore, ma si concretizza attraverso l’obiettivizzazione dello scopo specifico
voluto” dal datore di lavoro.
43
() Sul punto v. G. PASSAGNOLI, Il contratto illecito, in G. VETTORI (a cura di), vol. II, Regolamento, in Trattato
del contratto diretto da V. ROPPO, Milano, 2006, pag. 473 e segg.; M. NUZZO, Negozio illecito, in Enc. Giur.
Treccani, XX, Roma, 1990, pag. 5 e segg.
44
() Tale impostazione, già proposta da G. PERA, I licenziamenti nell’interesse dell’impresa, in AA. VV. I
licenziamenti nell’interesse dell’impresa, Atti AIDLASS, Giuffré, 1969, pag. 32, è stata rilanciata da L. NOGLER,
La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento, op. cit., pag. 610; C. ZOLI, I
licenziamenti per ragioni organizzative, op. cit., pag. 51; G. BOLEGO, Autonomia negoziale e frode alla legge,
op. cit., pag. 207 ss.; E. PASQUALETTO, I licenziamenti nulli, in C. CESTER (a cura di), I licenziamenti dopo la
legge n. 92 del 2012, Padova, 2013, pag. 104.
22
confezionare un atto di licenziamento formalmente legittimo, o comunque semplicemente

ingiustificato, ma in realtà illecito in quanto elusivo di norme imperative, quali sono quelle

antidiscriminatorie.

Lo stesso ragionamento può essere esteso più semplicemente all’elusione dell’art. 3,

comma 2, d. lgs. n. 23/2015, ovvero alla norma che prevede la reintegra nel posto di lavoro

nel caso di “licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia

direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al

lavoratore”. In altre parole, il licenziamento dichiarato oggettivo dal datore di lavoro, ma che

emerga non essere ontologicamente tale, potrà essere riqualificato in termini di atto elusivo di

una norma imperativa quale l’art. 3, comma 2, d. lgs. n. 23/2015, ovvero dei vincoli legali che

impongono la reintegra qualora il fatto oggetto di contestazione non sussista, con conseguente

applicabilità del regime di protezione di cui alla norma elusa. Viene, infatti, in rilievo nella

specie una disposizione che tutela interessi generali riconducibili al vertice della gerarchia dei

valori protetti dall’ordinamento giuridico45, anche costituzionale (art. 4) e non soltanto

italiano, tra i quali va annoverata la protezione del lavoratore contro i licenziamenti arbitrari,

come in precedenza ricordato46.

Del resto, se si considera che nel nostro ordinamento il recesso ad nutum non può trovare

cittadinanza al di fuori delle ipotesi eccezionali espressamente previste dal legislatore, qualora

emerga che, al di là del nomen iuris, il licenziamento non ha natura oggettiva, si deve

ammettere che si è in presenza di un licenziamento per ragioni soggettive 47: una conclusione

45
Sul punto v. E. RUSSO, Norma imperativa, norma cogente, norma inderogabile, norma dispositiva, norma
suppletiva, in Riv. Dir. Civ., 2001, pag. 583, secondo il quale “il concetto di norma imperativa comprende quella
di norma cogente aggiungendo un plus” rinvenibile nella tutela costituzionale del bene protetto, nonché P.
Tullini, Indisponibilità dei diritti dei lavoratori: dalla tecnica al principio e ritorno, in Dir. Lav. Rel. Ind.,2008,
pag. 481; M. Novella, L’inderogabilità nel diritto del lavoro. Norme imperative e autonomia individuale,
Milano, 2009, pag. 55 e segg. sulla distinzione tra norme imperative e norme ordinative.
46
Sul punto v. retro, testo e nt. 36-38.
47
Ad analoga conclusione perviene M. MARAZZA, Il regime sanzionatorio …., op. cit., pag. 25, allorquando
afferma che “l’assoluta carenza di motivazione, semmai, potrà essere oggetto di valutazione al fine di accertare
la riconducibilità del licenziamento a motivi disciplinari o, peggio, discriminatori”.
23
che appare agevolmente sostenibile se il lavoratore prova di aver in precedenza ricevuto

rimproveri o addirittura contestazioni, ma che si rivela in generale ammissibile anche senza

tale dimostrazione, dato che tra le ragioni soggettive e quelle oggettive tertium non datur,

cosicché, mancando le seconde, entrano in gioco necessariamente le prime.

Alla conseguenza della reintegra il datore non sembra possa sottrarsi neppure dimostrando

in giudizio che il prestatore di lavoro ha commesso addebiti sanzionabili in sede disciplinare,

persino qualora essi siano fondati o comunque non appaiano tali da comportare in generale

l’applicazione della tutela reale. Infatti, da un lato, si potrebbe sostenere che la contestazione

disciplinare, e la possibilità di difendersi che essa comporta per il lavoratore, rappresenti

elemento costitutivo del potere disciplinare e condizione di legittimità dell’atto di recesso.

Dall’altro, in ogni caso, l’art. 3, comma 2, d. lgs. n. 23/2015 collega la reintegra, tra l’altro,

proprio alla mancata contestazione di un fatto48, oltre che all’insussistenza sul piano

“materiale” che dovesse emergere in giudizio di tale fatto: essa, in definitiva, si atteggia a
48
Sull’analoga previsione dell’art. 18, comma 6, l. n. 300/1970, come riformato dalla l. n. 92 del 2012, sono
state avanzate due ricostruzioni nettamente contrapposte sia in dottrina che in giurisprudenza. Da un lato,
aderendo al dato letterale della norma e rifacendosi all’intentio legis, si è affermato che qualunque tipo di
violazione od omissione della procedura disciplinare comporta l’applicazione delle conseguenze di tipo
indennitario dimidiato di cui al 6° comma. Al riguardo cfr., in dottrina, C. Pisani, Il licenziamento inefficace per
vizio di forma, in Giur. It., 2014, V, c. 441; Id. Le conseguenze dei vizi procedimentali del licenziamento
disciplinare dopo la legge n. 92 del 2012, in Arg. Dir. Lav., 2013, pag. 264; M. Tremolada Il licenziamento
disciplinare nell'art. 18 St. Lav. per la riforma Fornero, in Lav. Giur., 2012, pag. 873; A. Vallebona,
L'ingiustificatezza qualificata del licenziamento: fattispecie e oneri probatori, in Dir. Rel. Ind., 2012, pag. 621
ss.; A. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo …, op. cit., pag. 435. In
giurisprudenza v. Trib. Biella 17 settembre 2013; Trib. Varese, ord., 21 gennaio 2014, n. 18/2014; Trib. Milano,
ord., 20 novembre 2012, n. 3/2013; Trib. Roma, ord., 19 marzo 2014; Trib.. Monza, ord., 13 febbraio 2014.
D’altro lato, si è rilevato che una lettura quale quella appena esposta rimetterebbe, in definitiva, ad una mera
scelta di convenienza del datore di lavoro l’espletamento della procedura disciplinare, con grave vulnus al diritto
di difesa del lavoratore (V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in Riv. It.
Dir. Lav., 2012, I, pag. 539 e segg.), suscitando fondati dubbi sulla legittimità costituzionale della norma ai sensi
dell'art. 24 Cost. (v. in proposito P. Alleva, Proposta di emendamenti al ddl sul mercato del lavoro, in particolare
in tema di flessibilità in uscita, in www.dirittisocialiecittadinanza.org). Sulla base di tale fondamentale rilievo si
è suggerita un'interpretazione correttiva della norma, assimilando la mancata contestazione disciplinare al caso
dell'inesistenza del fatto contestato: cfr. M. Marazza, L'art. 18, nuovo testo, dello Statuto dei lavoratori, op. cit.,
pag. 621. V. analogamente M.T. Carinci, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi: modelli europei e flexicurity
«all'italiana» a confronto, in Dir. Lav. Rel. Ind, 2012, pag. 27; M. Barbieri-D. Dalfino, Il licenziamento
individuale nell'interpretazione della legge Fornero, Bari, 2013, pag. 105 e segg.; A. Palladini, La nuova
disciplina in tema di licenziamenti, in Riv. It. Dir. Lav.., 2012, I, pag. 676; F.Carinci, L'articolo 18 dopo la legge
n. 92 del 2012. Ripensando il “nuovo” articolo 18 dello statuto dei lavoratori, in Dir. Rel. Ind., 2013, pag. 287.
In giurisprudenza v. in tal senso Trib. Milano, ord., 24 aprile 2013, n. 4017; Trib. Milano, ord., 14 aprile, 2015;
Trib. Trento, ord., 29 gennaio 2013; Trib. Ancona, ord., 26 novembre 2012; Trib. Milano, ord., 14 aprile 2015,
Est. Dossi, inedita.
24
norma speciale rispetto all’art. 4, d. lgs. n. 23/2015, la quale sanziona con un’indennità

dimidiata le violazioni della procedura disciplinare evidentemente diverse dalla assoluta

omissione della contestazione del fatto.

Nel caso in cui, invece, il datore di lavoro ometta di indicare la motivazione, ma in

giudizio riesca a dimostrare che la ragione, fondata o meno, del licenziamento è oggettiva, si

tratta di verificare se la fattispecie sia riconducibile a quella della “violazione del requisito di

motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966”, per la quale l’art. 4,

d. lgs. n. 23 del 2015 prevede la sola tutela indennitaria, per di più dimidiata (analogamente a

quanto dispone l’art. 18, comma 7, l. n. 300/1970), oppure se vada tenuta distinta e comporti

l’inefficacia dell’atto di recesso e quindi la reintegra di diritto comune: una soluzione,

quest’ultima, tutt’altro che peregrina, ma che sembra contrastare con la lettera e con la ratio

della norma.

In conclusione, alla luce delle osservazioni appena svolte si può sostenere che il recesso

per ragioni “realmente” oggettive, anche se non giustificate, del datore dal contratto a tutele

crescenti non consente al prestatore di lavoro di ottenere la reintegra, a meno che non gli sia

stata convenzionalmente riconosciuta la possibilità di fruirne. Tuttavia, il rispetto del principio

di effettività che caratterizza l’intero diritto del lavoro e l’applicabilità della tutela reale ai casi

di nullità previsti dalla legge, ivi compresi quelli per illiceità del motivo o della causa e della

frode alla legge, dovrebbero indurre il datore di lavoro a non ricorrere a tale tipo di

licenziamento quando le vere ragioni, non necessariamente illecite, siano altre. Ciò senza che

sia possibile eliminare del tutto la discrezionalità dei giudici, cui non possono non essere

affidati in ultima battuta il rispetto e la tenuta dei vincoli di sistema.

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