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SULLA STRADA
GIUSTA
Estratto gratuito a scopo illustrativo
Copyright © 2015 Francesco Grandis
www.wanderingwil.com
Email: francesco.grandis@wanderingwil.com
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Non c’è niente che possa compensare lacrime come quelle, ver-
sate sul ciglio di una strada, con le auto che passano accanto senza
vederti, senza sentirti.
Era questa la vita che volevo? Era questa la vita che meritavo?
Ogni lacrima era un basta pronunciato a mezza voce.
Non era stato facile chiedere quell’incontro ai miei ma da
troppo tempo stavo annegando in un periodo di sconforto solita-
rio. Il male annidatosi nel mio animo si era nutrito nel tempo e,
fattosi forte, aveva preso le sembianze e le dimensioni di un pro-
blema che non ero più capace di risolvere da solo. Avevo bisogno
del loro consiglio e del loro affetto. Avevo bisogno che mi aiutas-
sero a capire cosa fosse giusto fare.
La radice del mio problema era il mio lavoro. Non stavo più
bene, e avevo già superato da tempo la soglia di sopportazione.
Potevo dimettermi e cercarne un altro ma avevo paura. Potevo,
come mi suggerivano in tanti, cercare di avere pazienza e tenere
duro. O forse potevo discuterne con i miei capi e insieme
avremmo trovato una soluzione. Sì ma quale?
Quelle lacrime improvvise lavarono via gli ultimi dubbi: non
era quella la vita che volevo. La prospettiva di proseguire in questo
modo era la cosa più terrificante a cui potessi pensare. C’era solo
una cosa da fare e ora lo sapevo.
Quando fui calmo a sufficienza riaccesi il motore e ripartii.
I miei genitori arrivarono in anticipo. Mi accolsero molto
preoccupati, notando subito i miei occhi arrossati e lo sguardo
sfuggente.
«Ho appena deciso cosa fare» dissi trattenendo nuove lacrime.
«Mi licenzio. Fanculo il lavoro.»
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VOLI SPAZIALI E COCA COLA DIETETICA
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invenzioni sono state ideate da persone che non avevano voglia
di abbandonare il proprio divano.
Sentivo di dimostrare il mio valore le pochissime volte in cui ci
veniva chiesto di inventare qualcosa. A catturare la mia attenzione
bastava un problema la cui soluzione non fosse già scritta sui libri,
perché una questione aperta per me era una sfida mentale. Ancora
oggi mi diverto tra le domande senza risposta come un bambino
tra i mattoncini lego.
In ogni caso, il mio curriculum non era compromesso. Non te
lo dicono all’università, ma il voto di laurea conta poco in Italia.
Per fare una distinzione alla buona, direi che nel nostro mondo
del lavoro si cercano due tipi di dipendenti: gli esecutori e i crea-
tivi. Gli esecutori seguono gli ordini stabiliti, sono precisi e ordi-
nati, di rado sorprendono ed è questo che li rende preziosi. Sono
i cavalli da tiro dell’umanità, indispensabili, efficienti, resistenti
alla fatica e poco dediti all’uso della fantasia.
Un creativo è fatto di una pasta del tutto diversa. Ha bisogno
di libertà e di spazio di azione. Deve sentirsi premiato per la sua
originalità, la noia e la ripetizione lo frustrano. Se il problema è
divertente, un creativo lavorerà come un mulo per ore, starà sve-
glio di notte, non mangerà, fino ad impallidire di fronte alla luce
del suo monitor, ma alla fine ti sorprenderà con una soluzione
brillante. Il loro grosso problema è che devono continuare a di-
vertirsi altrimenti appassiscono. Questo è il motivo per cui cercai
e trovai lavori che, almeno sulla carta, erano molto eccitanti.
Il primo fu addirittura prima della laurea. A dispetto di tutti i
tirocinanti e stagisti sottopagati di cui l’università era piena, fui
assunto con un contratto a progetto, stipendio regolare e
straordinari pagati, suscitando l’invidia di molti. Un contratto di
quattro mesi, di cui un mese e mezzo in un centro di ricerca
dedicato ai trasporti ferroviari, in pieno deserto del Colorado. Lì
avrei lavorato a bordo di un furgoncino adattato per correre sulle
rotaie, dotato di quattro laser così potenti da essere in grado di
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forare l’acciaio dei binari. Il mio compito era migliorare un
software, programmando in mezzo alle formiche rosse, ai
serpenti a sonagli, alle tarantole e gli americani in pick-up, con
temperature che oscillavano tra i quaranta gradi di giorno e sotto
zero la notte. Disneyland non mi avrebbe offerto maggior
divertimento.
Fui molto deluso quando, una volta laureato, la compagnia si
offrì di riassumermi a tempo indeterminato, assegnandomi però
a un progetto in India, molto meno eccitante. La paga era buona,
ma rifiutai.
Per molti ero stato un folle ma io, confidando nelle mie capa-
cità, mi ero permesso di fare lo schizzinoso. Riguardo poi la que-
stione dell’esser giudicato folle, sarebbe diventato un tema ricor-
rente.
Il campo in cui volevo entrare era qualcosa che sembrava terri-
bilmente elettrizzante: la robotica.
Lavorare con i robot aveva per me un sapore di fantascienza:
navi spaziali pilotate da androidi fatti di silicone e metallo o sexy
principesse da salvare. Dopo tutto, appartengo alla generazione
che è cresciuta con i film di Guerre Stellari e i libri di Asimov.
Animato da un misto di amore per il prossimo e un’abbondante
dose di presunzione, mi immaginavo come una sorta di eroe
dell’umanità. Nella mia fantasia mi sapevo capace di progettare
robot che fossero in grado di sostituire l’uomo nei lavori più pe-
ricolosi o monotoni, lasciandolo così libero di dedicarsi alle sue
occupazioni preferite: l’arte, lo sport, la famiglia. Le mie inven-
zioni avrebbero permesso di esplorare pianeti o di restituire gli
arti a chi li aveva perduti. Le automobili avrebbero guidato in
modo computerizzato ed efficientissimo e gli incidenti stradali sa-
rebbero diventati un lontano ricordo.
Sognavo abbastanza in grande, è vero, ma perché limitare
l’immaginazione? Non c’è niente di più deprimente di un sogno
modesto. La realtà è sufficiente a schiacciare la fantasia.
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Mi dovetti accontentare, infatti, di qualcosa che con i voli spa-
ziali aveva ben poco a che fare. Fui assunto da una piccola azienda
appena nata, composta all’epoca solo dai due fondatori, miei coe-
tanei. Si occupavano per lo più di robot industriali, ossia i bracci
meccanici che vediamo spesso nei video pubblicitari di qualche
casa automobilistica. Afferrano, spostano, verniciano, saldano e
avvitano, sono molto utilizzati nei processi produttivi moderni.
Parliamo di fabbriche non di hangar spaziali.
La faccenda era comunque appetibile. Quel lavoro mi sembrava
un’ottima rampa di lancio per i miei sogni di gloria. La giovane
azienda, inoltre, sembrava farsi vanto di un modo innovativo di
approcciare e risolvere i problemi, in contrasto con il diffuso tra-
dizionalismo della realtà industriale italiana. Amavano i prototipi
e le soluzioni originali. Mi piaceva.
Salii su quella barca convinto che mi avrebbe traghettato verso
nuove ed entusiasmanti avventure ma la realtà risultò essere meno
affascinante di quel che credevo. I miei sogni cozzarono con la
generale arretratezza del settore industriale. I robot che ero chia-
mato a istruire sembravano tecnologia vecchia di vent’anni, e non
escludo che lo fossero davvero.
Non mi persi d’animo e trovai comunque il modo di divertirmi.
Innanzitutto, ero sempre in giro. Lavoravo molto da casa, ma ogni
settimana c’era un posto nuovo in cui andare. Ogni trasferta era
una piccola avventura: arrivavo con la mia valigetta, chiedevo un
tavolo per il mio portatile, mi ficcavo gli auricolari nelle orecchie
e iniziavo a far funzionare le cose. Non di rado cantavo o fischiet-
tavo mentre lavoravo al mio pc suscitando le occhiate divertite
degli operai. Quando me ne andavo, un giorno, una settimana o
un mese dopo, tutto andava alla perfezione. Quasi sempre, al-
meno.
Con i miei capi ci consideravamo i tre moschettieri
dell’innovazione: per ricavarci una nicchia nel mercato ci
concentravamo soprattutto sui progetti di cui nessun’altra azienda
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voleva occuparsi perché troppo complessi o troppo rischiosi.
Giocavamo d’azzardo, e vincevamo. Uno dei nostri motti preferiti
era: “chi dice che una cosa è impossibile da fare non dovrebbe
disturbare chi la sta facendo”.
Condividevamo lo stesso tipo di approccio creativo al mondo
del lavoro ed era per questo che li ammiravo. Pur dovendo fare i
necessari conti con le preoccupazioni di una azienda neonata, non
potevamo resistere al richiamo di problemi che qualcun altro
aveva etichettato come irrisolvibili. Era una specie di sfida pacifica
da cui era impossibile tirarsi indietro.
Uno dei due responsabili, Paolo, non sembrava mai a corto di
energie. Lo ammiravo. Aveva guadagnato in breve tempo il mio
rispetto per le sue idee geniali e per l’aura di autorevolezza da cui
sembrava circondato. Certo, aveva la curiosa abitudine di ingollare
dozzine di lattine di coca cola dietetica al giorno e poteva saltare
senza problemi un sonno ma mai un pasto, però era un buon
capo.
Ricordo ancora con affetto una notte in cui, durante una tirata
solitaria in vista della consegna di un impianto, cancellai per errore
l’ultima versione del software su cui stavo lavorando. Ero molto
stanco e confuso dall’ora tarda.
Preso dal panico, non ero riuscito nemmeno a trovare le copie
di sicurezza. Chiamai Paolo in preda alla disperazione, convinto
che mi avrebbe prima distrutto e poi licenziato. Non fece nulla di
tutto questo. Dopo essersi accertato della situazione, mi disse:
«Prendo la macchina e vengo a darti una mano. Tu intanto cerca
bene le copie, sono sicuro che le hai fatte. Comincia a sistemare,
io arrivo in un’ora.»
Cercai le copie del programma con maggior calma e le trovai,
con mio grande sollievo. Avevo perso solo gli aggiustamenti delle
ultime dodici ore. Ricordavo bene cosa avevo fatto e in un paio di
ore frenetiche assieme a Paolo riportammo tutto allo stato
precedente al mio errore.
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Ce ne andammo dall’impianto a mezzanotte inoltrata. Gli dissi
sinceramente che ero molto sorpreso. Era venuto lì in piena notte,
mi aveva dato una mano a risolvere il casino che avevo combinato,
e in tutto quel tempo mai un rimprovero e neanche una battuta.
«A urlar contro un pneumatico bucato, né lo ripari, né lo gonfi.
Cosa avrei dovuto dirti che non hai già capito da solo? Sono cose
che capitano. Non ho il minimo dubbio che la prossima volta sta-
rai dieci volte più attento.»
Così mi disse, e aveva ragione. Sì, era un buon capo.
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IL MERCATO DELL’INFELICITÀ
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sbiadì, e iniziarono ad apparire le prime crepe sul muro di certezze
che avevo tentato di costruire. Cominciai a farmi domande, quel
tipo di domande che una volta fatte non possono essere ignorate,
perché lasciano un vuoto che solo una risposta può colmare.
Un giorno dovetti mettere mano ad un impianto che conside-
ravo la mia prima creatura meccanica. Si trattava di una piccola
cella automatizzata. Al suo interno un robot molto veloce affer-
rava minuscoli pezzi di plastica e metallo e li assemblava in piccoli
connettori elettrici. Per quanto ne sapevo, tutte le nuove auto di
una famosa casa automobilistica avevano bisogno di due di quei
connettori per il suo reparto elettrico.
Avevo passato settimane su quel robot. Era il primo impianto
che avevo programmato e conoscevo ogni sua funzione come le
mie tasche. Ci ero molto affezionato. Anche l’amministratore de-
legato dell’azienda che lo aveva comprato era soddisfatto. Un
mercato sempre più ingordo di risorse richiedeva, però, una pro-
duzione più veloce. La prima versione del nostro robot costruiva
un connettore ogni nove secondi. Ci chiesero di ridurre il tempo
del ciclo di almeno due secondi, il venti per cento in meno.
Paolo si fidò di me, l’ottimizzazione era la mia specialità. Una
mattina arrivai come sempre con la mia valigetta, sistemai il por-
tatile sul solito tavolo, mi infilai un po’ di musica nelle orecchie e
iniziai. Accorciare di due secondi un processo già molto spinto
era un affare non da poco, ma era questo il genere di sfide che mi
esaltavano. Per stare sotto i nove secondi avevamo già fatto tutte
le cose ordinarie. Per due secondi in meno dovevo cominciare a
fare cose straordinarie.
Usai tutta la fantasia a mia disposizione per limare le traiettorie
dei movimenti e ridurre al minimo i tempi di attesa. Inventai
persino qualche trucchetto per rimediare alle limitazioni del
robot. Alla fine, la mia creatura scalciava come un mulo.
Dovettero ancorarlo a terra con una piastra d’acciaio più spessa e
più larga, affinché non si tirasse dietro il pavimento. Risultato
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finale: sei secondi e mezzo. A voler insistere di più il robot si
sarebbe smontato da solo.
La mia soddisfazione, però, durò poco. Guardavo la macchina
che avevo programmato guizzare e ruotare come una forsennata,
il nastro trasportatore carico di connettori, e gli operai che fatica-
vano a star dietro alla nuova velocità di produzione.
Fu allora che mi feci le prime pericolose domande.
“A chi serve tutto questo? È giusto quello che sto facendo?”
La produzione sarebbe proseguita ventiquattro ore al giorno,
sette giorni alla settimana. Ogni tredici secondi una coppia di con-
nettori. Ogni coppia di connettori, un’automobile. Più di seimila
auto al giorno, duecentomila al mese, due milioni e mezzo l’anno.
“A chi servono tutte queste auto?” mi chiesi.
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polpette, lasagne, dolci e migliaia di altri piatti grazie a quell’ag-
geggio indistruttibile.
Oggi gli elettrodomestici durano due anni e qualche mese al
massimo, giusto il tempo di far scadere la garanzia. Usando com-
ponentistica di qualità gli stessi oggetti potrebbero durare più del
proprietario, costando solo qualche euro in più.
Nuove mode sono create con cadenza annuale per rendere in-
desiderabili gli oggetti e i vestiti celebrati solo un anno prima. Il
progresso tecnologico è diluito nel tempo su centinaia di modelli
diversi, differenziati solo per dettagli senza reale importanza e
proposti sul mercato a pochi mesi uno dall’altro. Tutto è diventato
usa e getta, mentre il pianeta è diventato una pattumiera.
Questo sistema è costretto a speculare tanto sui nostri sogni,
quanto sull’infelicità, sull’insoddisfazione e sull’invidia, perché
queste sono le catene che ci rendono tutti consumatori.
Una persona infelice a causa del proprio aspetto comprerà ve-
stiti e prodotti estetici. Una persona insoddisfatta della propria
salute comprerà farmaci e integratori. Una persona invidiosa dello
status altrui comprerà auto di lusso e gioielli.
Propinandoci un’idea di successo diversa ogni mese, questo si-
stema ci rende tutti infelici. Ci toglie la soddisfazione per quello
che già possediamo e ce la restituisce solo dopo l’acquisto di qual-
cosa di cui non sapevamo di aver bisogno. Crea nuovi vuoti e og-
getti con cui riempirli. Dopo ogni acquisto ci sentiamo appagati e
felici. In realtà siamo solo tornati a sentirci tali e quali a prima che
fosse piantata in noi la radice di quel bisogno inutile.
Abbiamo creato un mondo in cui andare a fare shopping è con-
siderato un passatempo rilassante. Dove è considerato normale
che una ragazza abbia armadi pieni di vestiti e decine di scarpe ma
dica senza vergogna di “non sapere cosa mettersi.”
Per farci sentire brutti ci bombardano con immagini di una bel-
lezza inarrivabile, ma non ci dicono che dietro ad ogni scatto c’è
almeno un team di fotografi, illuministi, truccatori, parrucchieri,
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personal trainer ed esperti di Photoshop. Nella maggior parte dei
casi c’è anche silicone, botulino, liposuzione, lifting.
Questa non è bellezza: è carpenteria.
Per farci sentire malati, piccoli disturbi diventano gravi malat-
tie, e le malattie diventano pandemie. Non è considerato social-
mente accettabile neanche stare a casa con la febbre per qualche
giorno, ad aspettare che il corpo guarisca come ha sempre fatto.
Invece di creare uno stile di vita sano, è meglio prendere una pil-
lola al giorno: una per l’emicrania, una per la pressione, una per la
gastrite.
Questa non è salute ma malattia cronica.
Per farci sentire inadeguati ci sono i macchinoni, le villone, le
mega-feste, le celebrità, il jet-set. È tutto falso. Sono set cinema-
tografici di legno e cartone.
Ci vendono un mondo che non esiste. Viviamo fra valori illu-
sori, di cui l’unico motore è il profitto e a pagarne il prezzo siamo
tutti.
L’uomo potrebbe avere già tecnologia sufficiente per coprire
ogni bisogno fondamentale se solo avesse impiegato in modo più
saggio le sue risorse e la sua intelligenza. Potrebbe appianare le
differenze sociali, ma il mercato esige di mantenere le disugua-
glianze, in modo da guadagnare sugli scontri e le guerre. Sono af-
fari da miliardi.
Potremmo avere energia pulita da decenni ormai, ma chi toglie
le chiavi del pianeta dalle mani delle compagnie petrolifere? Prima
dovremmo vendere e bruciare ogni goccia di petrolio.
L’umanità potrebbe essere cento anni avanti, ma siamo entrati
a testa bassa nel medioevo del puro profitto, illudendoci di essere
nell’età dell’oro. Il mondo ha bisogno di qualità, non di quantità.
Di progresso, non di crescita. Di benessere, non di ricchezza.
Questo sistema non può funzionare e non funzionerà.
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La mia professione era onesta: mi davano problemi da risolvere
e io li risolvevo. Si trattava di meccanica, fisica, informatica. Io
non facevo male a nessuno con i miei robot, eppure collaboravo
indirettamente con questo sistema illogico e tossico. Il mio lavoro
aveva l’obiettivo di aumentare la produzione affinché altre per-
sone potessero incrementare i loro profitti a spese di ingenui po-
veracci. Ero un alleato involontario di un esercito colpevole.
Certo, non tutta la produzione industriale è dannosa o spinta
dal solo profitto. Molte delle cose che possediamo o che co-
struiamo rendono la nostra vita davvero migliore. I tubi per l’ac-
qua corrente, le caldaie per scaldarla, il cibo, le medicine essenziali
e le apparecchiature per l’assistenza medica, le luci elettriche. C’è
molto di buono e di utile in quello che viene fuori dalle fabbriche.
Io non ero contro la produzione industriale a priori, perché
essa è solo uno strumento neutro, non è né buono né cattivo.
Come la scienza, che può mandarci su Marte o costruire armi ato-
miche. A essere malvagio e corrotto non è lo strumento di per sé,
ma l’uso che ne facciamo. Non potevo criticare un sistema in
modo così aspro, e collaborarci con tanta leggerezza.
Di fronte a quella macchina che produceva connettori elettrici
per automobili a ritmi forsennati smisi di pensare al mio lavoro
come a un’eccitante avventura fantascientifica e iniziai a vederlo
come qualcosa di potenzialmente dannoso per l’umanità. Per-
dendo il piacere per quello che facevo, mi disinnamorai dei miei
robot.
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IL CICLO DELLA SALUTE
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condizionata, un paio di piante e magari una bella segretaria con
un tailleur elegante e dalle gambe lunghe. Avevo addirittura
comprato due abiti, raffinati ma abbastanza casual per non
sembrare troppo serioso. Uno l’ho usato una volta, l’altro credo
sia ancora nell’armadio, piegato con le etichette originali. In
compenso ho avuto bisogno di una tuta da lavoro, tappi per le
orecchie di vari tipi e scarpe antiinfortunistiche.
Le fabbriche sono posti davvero terribili e pericolosi per pas-
sare le proprie giornate. Chi non c’è mai stato baserà la propria
impressione su quei filmati che mostrano ogni tanto in televi-
sione: impianti lucidi, operai sorridenti e in divisa, pavimenti pu-
liti. Tutte cazzate. Spente le luci di scena salta fuori lo sporco e
vengono rimosse le protezioni per accelerare la produzione. In
Italia si lavora a rischio dell’incolumità degli operai perché non c’è
nessuna cultura della sicurezza sul lavoro. I controlli sono del
tutto inutili, dato che non sono mai a sorpresa anche quando do-
vrebbero esserlo.
Per obbligo di legge, consegnavamo i nostri robot in gabbie
chiuse da serrature speciali, ma queste protezioni venivano rego-
larmente manomesse dai meccanici non appena lasciavamo l’edi-
ficio. Noi lo sapevamo ma non potevamo farci niente. Avere a che
fare con robot che hanno la forza di afferrare e spostare senza
sforzo pezzi di metallo da 200 chili, significa che anche solo un
passo falso basta per mandare un uomo in ospedale, se non diret-
tamente in una cassa da morto.
In pochi anni di lavoro ho assistito a una quantità di scene da
far rabbrividire. Operai che corrono fra i macchinari in
movimento, solo perché aggirandoli si perde meno tempo.
Meccanici che lavorano dentro impianti in funzione, con il rischio
di disintegrarsi le mani. Tizi che trafficano con il fuoco davanti a
bocchette del gas aperte. Un operaio cinese, addetto a una pressa
poco lontano da dove lavoravo, spostava, per tutto il giorno,
dischi incandescenti di metallo con delle lunghe tenaglie. Ogni
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tanto perdeva la presa facendo cadere il disco che rotolava in giro,
dando fuoco a quello che incontrava.
Tipo i cavi del mio computer.
Nessuno vigila perché a nessuno interessa. “La produzione
deve andare avanti: si è sempre fatto così e non è mai successo
niente.” Dicevano.
Poi un giorno ci scappa il morto, si accendono i riflettori, poli-
tici e giornalisti non parlano d’altro. Improvvisamente tutto torna
pulito e sicuro: “È stato un drammatico incidente, una sfortunata
coincidenza.” Fanculo.
Oltre che sporchi e pericolosi, le fabbriche sono ambienti
molto insalubri: ho perso il conto di quante volte mi sono raffred-
dato o sono tornato a casa con i bronchi ostruiti dopo una gior-
nata passata a lavorare su un robot. Ricordo ancora il freddo che
sentivo in un capannone e che sopportavo solo grazie ad un ope-
raio caritatevole: ogni tanto, veniva a portarmi una cassa piena di
oggetti di metallo incandescenti perché potessi riscaldarmi.
Spesso ero obbligato ad usare i guanti se non volevo rischiare
di perdere l’uso delle dita ma la tastiera del robot era troppo pic-
cola, per questo ero costretto a togliermi prima un guanto e poi
l’altro per poter programmare. Lavoravo nelle posizioni più sco-
mode, con conseguenti problemi alla schiena e alle articolazioni.
Per qualche anno dovetti usare un tutore al polso, indebolito dalle
posizioni innaturali.
Anche le trasferte mi preoccupavano. La maggior parte delle
volte partivo con la mia auto. In pochi anni ho visto talmente tanti
incidenti da bastarmi per una vita intera. Non so come facciano
le persone come rappresentanti o corrieri a stare tutto il giorno
nel traffico, io non ci farò mai l’abitudine. Odio guidare in auto-
strada negli orari di punta, soprattutto la mattina presto: la gente
ha sonno, ha fretta, è nervosa e guida di merda. Un giorno ho
visto il video di un terribile incidente avvenuto nel 2008 in A4,
l’autostrada che collega Milano con Venezia. Un camion aveva
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perso il controllo forse per un guasto meccanico, piegandosi a si-
nistra quasi ad angolo retto. Aveva investito un camioncino, ta-
gliando lo spartitraffico come burro senza nemmeno rallentare,
per finire la sua corsa contro un’auto che viaggiava sull’altra cor-
sia, tutto questo mentre un’altra vettura e un camion gli sfonda-
vano la fiancata. Sette morti.
Feci male a guardare quel video. Per molti mesi, ogni volta che
superavo un camion mi tenevo stretto al volante pensando: “e se
capitasse a me ora?”
Non è un bel guidare.
Quando le distanze erano eccessive, il cliente si occupava del
mio trasporto ed era persino peggio, perché vigeva la regola dello
spendere il meno possibile, almeno in apparenza. Una volta mi
hanno spedito in Polonia in un furgone con altre cinque persone:
quattordici ore all’andata e altrettante al ritorno, tutte pagate come
fosse lavoro normale. Questo per risparmiare cinquanta euro per
un volo aereo che ne durava due. Misteri della miopia aziendale.
Con il tempo le trasferte erano diventate sempre più lunghe e
terribili, e l’entusiasmo iniziale era scemato in fretta. Non le ve-
devo più come le avventure di un eroe solitario, ma piuttosto
come vere seccature. Grazie al progressivo aumento della mie
competenze gli incarichi fuori casa divennero più frequenti e dif-
ficoltosi, i clienti erano sempre meno ragionevoli, il tempo pas-
sava sempre più lentamente e mi mancava tantissimo la vita so-
ciale. L’unico vantaggio era il maggior guadagno. Fuori casa avevo
tutte le spese rimborsate, risparmiando così sui costi della vita, poi
c’erano i bonus per le notti e le inevitabili ore di straordinario,
sempre numerose. Ogni trasferta, insomma, era una piccola mi-
niera d’oro, ma nient’altro.
Solo in rarissime occasioni ero riuscito a fare amicizia con qual-
che persona del luogo, operai, impiegati o dirigenti. In tutte le al-
tre situazioni le mie erano solo conversazioni di circostanza, fatte
per passare il tempo e per annegare con parole futili il pesante
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senso di solitudine. Se mi andava proprio bene, riuscivo a flirtare
con la cameriera di qualche bar ma non mi rimanevano energie
per tentare di essere davvero audace.
Il periodo dal febbraio al marzo 2009 fu particolarmente dan-
noso per la mia salute. Iniziai a riconoscere il paradosso di quello
che stavo facendo della mia vita. Dovevamo avviare un impianto
problematico, pensato di fretta e non testato a sufficienza in fase
di costruzione. Si trovava nella Germania del Nord, vicino al con-
fine con i Paesi Bassi.
Fummo costretti a trasferte continue, andavamo e tornavamo
quasi ogni settimana. Per limitare le spese di viaggio eravamo ob-
bligati a prendere aerei ad orari improponibili e a passare tutti i
weekend fuori casa, azzerando il tempo libero.
Il cliente era un anziano signore tanto dotato di ottimo gusto
in fatto di ristoranti e cibo, quanto di pessimo carattere nelle que-
stioni lavorative. Maniaco del controllo e di natura irosa, con il
suo atteggiamento spesso irragionevole creava una costante at-
mosfera di tensione che rendeva difficoltoso concentrarsi e lavo-
rare in modo efficiente.
L’impianto si trovava all’interno di una stamperia di metallo,
uno dei posti più luridi che abbia mai visto. Ho lavorato per tutto
il tempo tra mucchi di spazzatura e rottami. La cosa più disgustosa
erano i muri segnati dallo sporco. Gli operai ci si strofinavano le
dita per togliere le incrostazioni di grasso sotto le loro unghie. Io
finivo ogni giornata coperto da una spessa patina di polvere e
unto, mi beccai anche delle piccole fastidiose infezioni per l’uso
continuo di tappi per le orecchie.
Gli operai tedeschi facevano i loro turni da otto ore, con due
pause caffè da mezz’ora, e i venerdì se ne tornavano a casa alle
due di pomeriggio. La mia giornata tipo invece era svegliarmi, an-
dare a lavorare, tornare in albergo, cenare, andare a dormire. Molti
pranzi sono stati consumati direttamente davanti al computer, per
non interrompere il ritmo di lavoro.
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Durante il giorno bevevo decine di caffè per stare sveglio, men-
tre ogni sera con un collega finivamo la giornata facendoci servire
tanti liquori, fino ad essere un po’ alticci. Stordirci con l’alcool era
l’unico modo a nostra disposizione per sorridere un po’, rilassarci
e riuscire a dormire. Il giorno dopo, tutto da capo. Così per due
mesi, sabati e domenica inclusi.
Iniziai ad avvertire dolori costanti allo stomaco, senza dubbio
causati tanto dall’alcool e dal caffè quanto dall’eccesso di stress e
dalla pessima alimentazione. Avevo sempre una scatolina di antia-
cido con me e ne prendevo parecchi ogni giorno. Quando le tra-
sferte finirono, tornai a casa stravolto. Per alcuni giorni dovetti
tenere i bicchieri riempiti solo a metà e con entrambe le mani per
non rovesciarne il contenuto. Tremavo come una foglia.
Tra rimborsi per le trasferte e straordinari intascai in due mesi
più di cinquemila euro, ma mi sentivo uno straccio. Arrivò così
un’altra domanda micidiale. “Ne vale la pena?”
In quegli anni facevo parte di una compagnia subacquea. Poco
dopo il ritorno dalla trasferta tedesca ricevetti una telefonata da
Sara, la mia amica che ci lavorava. Andò più o meno così.
«Ciao Francesco, senti, ti interessa una crociera subacquea sul
Mar Rosso a maggio? Dura dieci giorni e…»
«Sì, ok, vengo.»
«Ok, se vuoi pensarci, il costo complessivo è attorno ai duemila
euro.»
«Non mi interessa il costo, prenota. Ho bisogno di rilassarmi.»
Ecco la chiusura del cerchio: avevo guadagnato soldi che non
avevo avuto nemmeno il tempo di spendere e che stavo pagando
con la mia salute. Però potevo permettermi vacanze costose per
riprendermi la salute che avevo perso. La cosa aveva sempre meno
senso, anche perché non funziona. A distanza di anni porto an-
cora appresso quella gastrite, come un monito doloroso a ricor-
darmi che non tutti gli errori sono perdonati.
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PROCURARSI UNA CRISI
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lago turistico, la cui spiaggia era affollata di bionde ragazze in bi-
kini a cui non avevo nemmeno il tempo di avvicinarmi. Guardavo
quelle persone stese al sole, giocare a palla, nuotare o fare wind-
surf, e le invidiavo.
Le invidiavo da morire.
La cosa che mi fece impazzire quella volta fu l’idiozia del pro-
getto. La macchina del nostro cliente era stata progettata ancora
più in fretta e male di quella tedesca. A causa di questo si erano
creati tutta una serie di problemi e ritardi che erano ricaduti, come
sempre, sull’ultimo anello della catena: i programmatori del robot,
cioè noi.
Per ovviare alla pessima progettazione, fui costretto a passare
settimane lì per ripetere sempre le stesse operazioni, ogni giorno.
Operazioni per cui non serviva un briciolo di cervello, solo infi-
nita pazienza. La mia stava terminando.
Già da qualche mese, con sempre maggiore insistenza, avevo
iniziato a chiedere a Paolo di partecipare alle riunioni. Non pre-
tendevo di intervenire, ma se avessi potuto esserci anche solo
come osservatore silenzioso, avrei potuto imparare come si stabi-
liscono le specifiche di un progetto. In fondo la mia competenza
e la mia autonomia erano aumentate molto negli ultimi tempi. Se
fossi stato spostato appena più in alto nella catena decisionale,
avrei potuto aiutare a prevenire errori così grossolani come quello
svizzero. Errori che avrei dovuto comunque correggere io, ma
quando era ormai troppo tardi. Non partecipai mai. Un giorno
cadde la fatidica goccia che fece traboccare il vaso.
Ci fu una mega riunione: i clienti svizzeri iniziavano ad inner-
vosirsi per i continui ritardi. Era necessario trovare una soluzione
per uscire dall’impasse. A mia insaputa, ai piani alti si incontra-
rono clienti, capi, progettisti, installatori, segretari, fornitori. Tutti
erano stati invitati a dire la propria. Solo un ebete era rimasto
fuori, a servirsi della sua laurea e dei suoi anni di esperienza per
fare il lavoro che un qualsiasi altro operaio avrebbe potuto fare
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dopo mezz’ora di corso: io. La stessa persona che nei due mesi
precedenti aveva evidenziato i problemi progettuali. Buona parte
del materiale di discussione della riunione era stato fornito da me!
Quando lo scoprii, non la presi per niente bene.
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le sue giornate davanti al PC a fare male quello che sapeva fare
bene in gioventù, per poi litigare con i trasfertisti. Maniaco del
controllo, si vociferava che avesse l’abitudine di istruire gli elettri-
cisti su come spellare e attaccare i fili elettrici.
Il mio stesso capo, mio coetaneo era un discepolo del credo:
“Se vuoi che una cosa sia fatta bene, devi fartela da solo.” Ogni
giorno era di corsa da una trasferta all’altra, da un cliente all’altro,
incapace di delegare nulla se non le briciole, svuotando nel frat-
tempo dozzine di lattine di coca cola dietetica per tenersi sveglio
e con il cellulare acceso a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Dopo anni di questa vita, la sua naturale infallibilità stava per-
dendo colpi. Il suo motto era, e credo lo sia ancora: “Se hai tutto
sotto controllo, non stai andando abbastanza veloce.”
Guardavo queste persone e molte altre che popolavano le mie
giornate abituali, osservavo i loro valori e le loro vite, e mi chie-
devo: “è questo il futuro che mi aspetta? Anni di lavoro, per poi…
lavorare ancora? Incapace di smettere, di delegare, di mollare la
presa, ormai drogato e assuefatto.”
Io non volevo sposare il mio lavoro. Avevo tante altre passioni
a cui avrei voluto dedicarmi: il sassofono, la recitazione, la pittura.
Mi sarebbe piaciuto imparare altre lingue e viaggiare molto, ma
con la vita che mi si prospettava, ne avrei mai avuto il tempo?
Sapevo che la cosa più giusta sarebbe stata mollare tutto e fare
altro, ma non ero in grado di superare il muro delle mie paure.
Nonostante le remore, ero ancora incatenato all’idea che qualcosa
sarebbe potuta cambiare per il meglio. Non ci speravo, nemmeno
ci volevo sperare, ma non riuscivo a slegarmi da questa prospet-
tiva.
Restare in equilibrio su questa lama sottile non era più tollera-
bile per me. Avevo paura di andare e paura di rimanere. Aspettavo
succedesse qualcosa che mi aiutasse a capire da che parte stare,
qualcosa che decidesse al posto mio, ma non succedeva niente.
Certi giorni sperai addirittura che mi venisse qualche male grave,
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così da essere costretto a decidere per forza. Era un pensiero di
una idiozia colossale, ma questa era la mia incapacità di agire, pa-
ralizzato dal terrore. Dovrei ringraziare il cielo tutti i giorni di non
avermi dato ascolto e di essermela cavata solo con una gastrite.
Le settimane passavano e io stavo sempre peggio.
Un giorno decisi.
Se la soluzione al mio dubbio non arrivava, dovevo andare a
procurarmela io stesso. Non sapevo cosa ne sarebbe stato di me
se avessi lasciato il lavoro, ma potevo sapere cosa ne sarebbe stato
di me se fossi rimasto.
Armato del coraggio di uno studente impreparato all’esame,
presi il mio capo in disparte e gli rivolsi la domanda che mi stava
arrovellando il cervello da settimane.
«Che prospettive mi offri in termini di crescita professionale ed
economica nel futuro prossimo?»
In altre parole: o mi dai più responsabilità o più soldi, o me ne
vado.
Ma volevo davvero più responsabilità? Volevo davvero più
soldi? Sembravo persino disposto a rinunciare ad una delle due,
pur desiderandole entrambe.
Avevo bisogno di vedere un cambiamento in qualsiasi dire-
zione. Ma sarebbe stato davvero un cambiamento in meglio?
Paolo avrebbe potuto offrirmi una maggiore partecipazione
alle fasi di progetto e magari investirmi di una responsabilità più
grande. Avrebbe potuto garantirmi l’assunzione di un giovane
laureato di cui mi avrebbe affidato la formazione oppure asse-
gnarmi la gestione di un progetto o il controllo di un team di svi-
luppo. O il governo del mondo.
Avrebbe anche potuto darmi qualche centinaio di euro in più
al mese, come contentino, e forse mi sarebbe bastato. Forse sarei
rimasto.
Invece mi disse questo, più o meno.
«Francesco, il mondo è appena entrato in una crisi economica,
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se non te ne sei accorto. I clienti sono pochi e non possiamo ri-
schiare su nuovi prototipi. Se vogliamo sopravvivere dobbiamo
vendere copie dei progetti vecchi, tante copie. Non abbiamo per-
sonale per fare tutto: alle riunioni devo andarci io, alle installazioni
devi andarci tu, anche se sono noiose. Per quanto riguarda le re-
sponsabilità, ho paura che ti toccherà fare le stesse cose per i pros-
simi due o tre anni. Per quanto riguarda lo stipendio, soldi per un
aumento non ne abbiamo.»
In altre parole: non cambierà una virgola per tutta la prossima
era geologica. Fu una porta sbattuta in faccia alle mie speranze di
gloria.
Mi son chiesto molte volte perché Paolo non mi avesse pro-
messo anche solo un piccolo cambiamento, non era nemmeno
costretto a mantenere la parola e io sarei rimasto. Ma era pur sem-
pre lo stesso capo che anni prima mi aveva detto che i pneumatici
bucati non si riparano urlandoci dentro. Credo che avesse solo
capito prima di me che fosse meglio lasciarmi andare. Con la sua
risposta mi chiuse tutte le porte davanti, tranne quella che mi
avrebbe condannato senza appello alla noia eterna, all’inutilità del
tempo che scorre senza lasciare traccia. Forse con il tempo ci avrei
fatto l’abitudine, avrei imparato a non soffrire più. Mi sarei addor-
mentato in una vita di cauta sopportazione. Mi sarei semplice-
mente spento.
Era la crisi di cui avevo bisogno. Dovevo affondare del tutto
nel fango, trovare il fondo, per poi trovare la forza di risalire. Mi
mancava solo una piccola spinta verso il basso, e me l’ero cercata
con quella domanda.
E Paolo mi aveva dato la migliore delle risposte possibili.
Non l’ho mai ringraziato per questo. Lo faccio qui.
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LE ISTRUZIONI GENERICHE
Non c’era nessun dubbio: ero infelice. Ero ancora più infelice per-
ché pensavo di non meritarlo. In fondo stavo facendo quello che
mi era stato detto di fare. Esiste tutto un contesto sociale, educa-
tivo, familiare, persino religioso, che spinge ognuno di noi in una
direzione comune: studia, trova un buon lavoro, creati una posi-
zione, fatti una famiglia, metti via dei soldi e poi vai in pensione.
Erano queste le istruzioni, no? Qualcosa però non doveva aver
funzionato. Dovevo aver sbagliato qualcosa, o non avevo capito
bene i vari passaggi.
Non potevo dare la colpa a nessuno della mia infelicità: avevo
seguito quelle istruzioni di mia spontanea volontà. È anche vero
che non ero a conoscenza di nessuna alternativa sensata, e anche
se ce ne fosse stata una, nessuno me ne aveva mai parlato. Mi era
capitato di pensare un paio di volte di fare l’artista di strada, e
girare il mondo mantenendomi suonando il sax per le strade, ma
in fondo mi sembrava più romantico che fattibile.
Così mi ero incamminato sul sentiero comune a quasi ogni ra-
gazzo della mia età. Ho studiato, sono diventato ingegnere e ho
trovato un buon lavoro. Ho messo dei soldi da parte. D’accordo,
forse non avevo ancora completato il percorso che mi avevano
prescritto, ma perché non ero un po’ più felice? Un pochino solo!
Un po’ più sereno almeno, se la felicità era chiedere troppo. Stavo
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facendo tutto quello che mi avevano detto di fare e la mia vita mi
faceva schifo. Perché? Era colpa mia? In cosa stavo sbagliando?
Mi stavo aspettando troppo?
Un giorno mi feci un’altra di quelle domande da cui non si può
tornare indietro. “E se le istruzioni fossero sbagliate”?
Iniziai a riflettere su queste cose sempre più spesso, in alcuni
casi rivolsi queste domande ad amici, a parenti, a perfetti scono-
sciuti. Ero alla ricerca di un punto di vista nuovo che mi facesse
vedere le cose sotto un’ottica migliore, differente. Se ne poteva
parlare per qualche minuto come per ore, ma la risposta alla fine
era sempre, sempre, la stessa.
“Eh, la vita è questa, vecchio mio, è così che va… Devi avere
pazienza, tanta pazienza, e vedrai che le cose si sistemeranno. Ora
non pensare a queste cose, lavora duro, devi conquistarti una
buona posizione, mettere via dei soldi, e poi vedrai che dopo la
pensione potrai stare tranquillo. Avrai tutto il tempo che vuoi per
goderti la vita e fare quello che hai sempre sognato di fare.”
Un attimo di silenzio, prego. Lasciamo decantare queste parole.
Assaporiamole.
Questa era la risposta? Avere pazienza e godermi la vita a set-
tant’anni? E se ci fossi arrivato cieco, sordo e zoppo a set-
tant’anni? O rincoglionito tanto da aver bisogno del pannolone?
O con un cancro che mi lasciasse solo sei mesi di vita?
E se non ci arrivassi affatto, a settant’anni?
Lo chiedo ancora: è veramente questa la risposta alle mie do-
mande? Avere pazienza e godermi la vita dopo la pensione? E
perché non me l’avete detto subito?
Riflettiamoci un attimo. Quando io, ragazzino, ho chiesto al
mondo di adulti che mi circondava cosa avrei dovuto fare del re-
sto della mia vita, mi hanno risposto: studia, lavora, metti via i
soldi, vai in pensione. Quando sono arrivato a metà percorso, e
mi sono accorto che la mia vita faceva schifo, hanno aggiunto che
dovevo avere pazienza per tutto il tragitto, perché il premio finale,
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la felicità, mi sarebbe stato dato solo alla fine.
Io credo che avrebbero dovuto mostrarmi prima e spiegarmi
bene tutte le clausole del contratto, quelle scritte in piccolo. Se
avessi saputo che il mio piacere sarebbe stato così rimandato nel
tempo, forse mi sarei tolto qualche sfizio prima di iniziare a lavo-
rare. Ora capisco perché qualcuno mi diceva ogni tanto: “Cerca
di stare all’università il più a lungo possibile, se puoi, non avere
fretta!”
Questi adulti hanno tradito la mia fiducia e la mia ingenua
buona fede! Questi adulti poi, osserviamoli bene.
Le persone che mi hanno indicato questo percorso non ave-
vano mica ancora raggiunto i settant’anni. Non mi pare nemmeno
che abbiano mai toccato la felicità. Allora, non stanno parlando
per esperienza, ma per sentito dire. Ci stavano credendo anche
loro, sperando che il sistema funzionasse, pur non avendo, la più
pallida idea del come.
Un po’ come le religioni, in fondo: passi una vita a comportarti
bene sperando di andare in paradiso, di avere il tuo stuolo di ver-
gini, o di reincarnarti in qualche essere in alto nella piramide ali-
mentare karmica, ma mica ci è mai tornato qualcuno dall’aldilà a
confermare che il sistema funzioni.
Ma allora di che cazzo stiamo parlando? I settantenni che ho
visto lavorare in fabbrica, ricchi sfondati e incapaci di smettere:
sono quelli che hanno raggiunto la felicità? Dov’è il nonno rugoso
e sorridente che irradia gioia e saggezza, seduto sulla sua sedia a
dondolo a raccontare storie di avventura ai nipotini? Neanche nei
film esistono più quei nonni lì!
Ma allora queste istruzioni che mi hanno dato, per chi sono?
Perché le hanno date uguali anche al mio vicino di casa e al mio
compagno di banco. A dir la verità, le hanno date a ogni ragazzino
del mio quartiere, della mia città, della mia nazione. Le hanno date
uguali a tutti.
Sono istruzioni generiche! Generiche!
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Io sono unico e irripetibile, io sono quello che voleva salvare il
mondo a cavallo del suo unicorno robotico, e ho ricevuto le stesse
istruzioni che hanno ricevuto tutti?
Sono istruzioni generiche! Ma per chi mi avete preso, per un
frullatore? Io non sono un frullatore! Io non sono generico! Nes-
suno di noi è generico! Dove cazzo sono le istruzioni specifiche per
me?
Quando ci si fa una domanda del genere, ci si rende conto che
questo tipo di istruzioni non esistono. Nessuno sa cosa sta fa-
cendo, o perché. Nessuno può spiegarti come arrivare alla felicità,
perché nessuno ha la più pallida idea di come riuscirci. Anche i
cosiddetti adulti, resi esperti dal tempo e dalla vita, hanno seguito
le loro istruzioni generiche perché qualcuno gli aveva spiegato che
era importante farlo, ma quanti, se avessero avuto una seconda
possibilità, avrebbero rifatto le stesse scelte?
Forse era questa la domanda che avrei dovuto fare ad un adulto:
“se tornassi ad essere giovane, rifaresti le stesse scelte, la stessa
vita, ora che sai come procede?” e se mi avesse risposto no, lo
avrei preso a schiaffi.
35
L’UNICA MONETA
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ancora lo stesso ragazzino, pieno di inutili sogni di gloria, ma gli
occhi erano spenti e il corpo flaccido.
Da settimane mi svegliavo ormai senza un sorriso. Il primo
pensiero una volta aperti gli occhi era richiuderli, girarmi dall’altro
lato e tornare a dormire. C’era un mondo ad aspettarmi, fuori dal
tiepido rifugio delle coperte, ma io non volevo vederlo. Non mi
interessava più.
Vivevo in una gabbia che iniziava il lunedì mattina e finiva il
venerdì sera. Odiavo il lunedì perché arrivava troppo presto, e
odiavo il venerdì perché non arrivava mai. E odiavo i fine setti-
mana, perché finivano in un lampo. Due brevissimi giorni in cui
dovevo riposarmi, rilassarmi e divertirmi. Non ci riuscivo mai. Spre-
cavo la mia unica occasione finendo a fare sempre le stesse cose,
negli stessi bar, con le stesse facce attorno. Odiavo cinque giorni
su sette perché non avevo tempo di fare niente, e odiavo gli altri
due perché li passavo ad annoiarmi.
Il tempo passava così, veloce, senza lasciare ricordi, solo tracce.
Avevo forse fretta? In fondo erano passati solo due anni o poco
più. Chiedevo troppo a me stesso? Mi aspettavo progressi troppo
velocemente? Forse sì, ma cosa possedevo oltre al tempo? Nulla.
Non possediamo i nostri vestiti, l’auto, la casa. Quelle sono solo
cose che si possono rompere, perdere, rubare. Le cambiamo per-
ché ci hanno annoiato. Sono solo oggetti di passaggio, che riman-
gono con noi solo per un periodo limitato.
Senza contare che potrebbe arrivare un terremoto a distruggere
tutto. L’unica cosa che davvero possediamo è il tempo. Ognuno
di noi nasce con un capitale. Possiamo credere nel destino, nella
religione, nel caso, in niente, ma possiamo essere tutti certi di al-
cune cose. Primo, quel capitale finirà. Secondo, non sappiamo
quando. Terzo, non esistono investimenti in questa economia per-
ché non ci sono entrate possibili, ci sono solo uscite.
Nella nostre vite preleviamo ad ogni istante un po’ di quel ca-
pitale e lo spendiamo in qualcosa. Prendiamo due ore di tempo e
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le spendiamo per guardare la televisione o leggere un libro. Altre
sette o otto ore e dormiamo. La maggior parte di noi converte
una buona parte del proprio capitale in lavoro, il lavoro in soldi, e
i soldi in oggetti e servizi.
Il presidente dell’Uruguay José Mujica una volta disse una cosa
che dovrebbe far riflettere: un oggetto non viene comprato con i
soldi, ma con il tempo della propria vita necessario per guada-
gnarli. Un cellulare ultima generazione costa come un mese del
nostro stipendio? Bene, lo abbiamo pagato con un mese della no-
stra vita. Lo vale? Solo noi possiamo saperlo, ma è bene ricordare
che quel mese non tornerà più indietro.
Questa moneta vale ancora di più se amiamo la vita, se cer-
chiamo sempre qualcosa di buono anche nel fango, se non ci ar-
rendiamo all’oscurità e proseguiamo, anche se a tentoni, alla ri-
cerca della luce. Io amo la vita, l’ho sempre amata. Forse è l’unica
certezza che sento di avere. Io voglio vivere! Come potevo averne
appena speso due anni in cambio di qualche ruga, un paio di ca-
pelli bianchi, una gastrite, e nemmeno la soddisfazione di fare
qualcosa di buono per me stesso o per il mondo?
Li avevo spesi in modo terribile, sprecati, e solo per avvicinarmi
di qualche passo alla pensione.
Ma che senso ha?
Un dipendente medio in Italia spende per il suo lavoro otto ore
al giorno per cinque giorni a settimana per 48 settimane l’anno,
per circa quarant’anni. Al conto mancano gli straordinari e tutti i
tempi non retribuiti: guidare fino al posto di lavoro, parcheggiare,
le pause pranzo, le telefonate fuori orario, le preoccupazioni tra-
scinate a casa. In cambio di questo, al raggiungimento dell’età
pensionabile,i riceve uno stipendiuccio con cui ricompra il tempo
che altrimenti avrebbe dovuto usare per mantenersi.
Evidentemente questo affare deve sembrare allettante se tutti
lo sottoscrivono, ma a me sembra un furto. Ho visto tanti
vecchietti arzilli e in salute andare ogni giorno in bici, ridere, e in
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generale essere più svegli di tante persone con un quarto dei loro
anni, ma ho visto anche vecchi malmessi e malati, pieni di dolori
e di rimpianti. E ho visto anche tante tombe di persone che non
ci sono nemmeno mai arrivate, alla pensione.
L’investimento è incerto a dir poco, anzi, è quasi sicuramente
in perdita. Auguro a tutti una lunga e felice vita, ma nel 2012 la
speranza di vita media in Italia era di 83 anni, ed era la seconda
più alta nel mondo dopo il Giappone che la superava di pochi
mesi. In pratica si scambia la maggior parte del tempo della nostra
vita giovane e adulta, per avere in cambio vent’anni da anziano,
ben che vada.
Io non sono ferratissimo in economia, ma mi risulta che gli
investimenti si facciano per ricevere degli interessi. Se deposito un
capitale di un certo valore e lo lascio fermo per qualche decennio,
quando lo recupero mi aspetto che abbia un valore maggiore. In
quest’ottica avrebbe forse più senso lavorare quindici, vent’anni
al massimo, ed essere poi mantenuti per il resto della propria vita.
I conti sembrerebbero più onesti. Oppure godersi la giovinezza,
e pagare con la vecchiaia, perché no?
Mi rendo conto che la prospettiva di non avere nulla una volta
raggiunta l’anzianità possa spaventare, ma non dovrebbe far più
paura non vivere affatto? Com’è possibile che un uomo accetti di
comprare dieci o vent’anni di sicurezza economica pagando con
metà della sua gioventù?
A me sembra una pessima idea.
Per provare a spiegare agli altri come mi sentivo, avevo creato
la metafora del negozio di cellulari.
«Questo» dico, e poi ne pago il costo, in contanti.
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Il negoziante intasca i soldi, e mi dice «grazie e arrivederci.»
Ma non mi dà il cellulare.
«Dov’è il mio cellulare?»
«Glielo consegniamo tra quarant’anni. Grazie mille per il suo
acquisto e arrivederci!»
«Prego? Io ho già pagato, voglio il mio cellulare adesso!»
«Ah, certo, ma vede, funziona così. Lei paga adesso, e può ve-
nire a ritirare il suo cellulare tra quarant’anni, così poi avrà tutto il
tempo per goderselo. Fanno tutti così, è la norma.»
«Ma sta scherzando? Tra quarant’anni esisterà la telepatia, che
cazzo me ne faccio nel 2050 di un cellulare comprato nel 2010?
Questo cellulare diventerà obsoleto fra quarant’anni! E poi perché
dovrei pagarlo adesso? Tanto vale che lo pago tra quarant’anni,
così prenderò un modello più nuovo, no?»
«Eh, la vita è questa, vecchio mio, è così che va… Devi avere
pazienza, tanta pazienza, e vedrai che le cose si sistemeranno…»
Ecco cosa succede, dopo quarant’anni di lavoro. Ci scordiamo
che il nostro cellulare lo abbiamo già pagato, e per quanto vecchio,
è lì in giacenza. E forse non ricorderemo nemmeno di averlo ac-
quistato.
La mia paura più grande non era non riuscire a realizzare i miei
sogni, ma dimenticarli. Arrivare ad essere anziano e dire: “Avevo
un sogno, ma… non lo ricordo più.”
D’altra parte, come potevo rinunciare con leggerezza alla strada
che avevo intrapreso, dopo averci investito tanto?
Si sceglie un percorso di studi e un lavoro, poi un giorno ci si
fanno due conti e ci si accorge degli anni che sono passati. E se a
quel punto si capisse di aver preso la strada sbagliata, che si fa? Si
torna indietro? Non è possibile. Andare avanti? Cambiare?
Trovai la risposta, giocando a poker.
C’è stato un periodo in cui con alcuni miei amici ci trovavamo
alla sera e giocavamo a Texas Hold’em, il poker texano che andava
di moda. Nessun vero gioco d’azzardo, era solo una serata tra
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amici, pochi spicci e un paio di birre. Io però ero una schiappa,
non sapevo mai quando e quanto puntare, se lasciare o osare. Gio-
cavo in modo molto timido e piuttosto prevedibile. Pur non es-
sendoci niente in palio, decisi di migliorare la mia strategia di
gioco. Lessi un libro in cui un campione di poker svelava alcuni
dei suoi segreti, uno di questo mi rimase impresso.
L’autore affermava che i vincenti sono tali perché sanno
quando ritirarsi da una mano perdente. Non rimangono attaccati
ai soldi che hanno già gettato sul tavolo, anche se sono molti.
Sanno di averli già persi, e passano la mano per non perderne altri.
Limitano le perdite, e si rifanno alla successiva.
I pivelli invece rimangono attaccati alle carte e alle loro puntate,
e pur di recuperare i soldi già investiti, ne puntano ancora, rilan-
ciano, bluffano e alla fine si fanno trascinare in giochi fallimentari
fino a perdere tutto.
Io stavo facendo la stessa cosa con la mia vita.
Quando avevo scelto di fare ingegneria elettronica la mia aspi-
razione per il futuro era fare l’inventore, e a quell’idea avevo de-
dicato tanti anni tra studio e lavoro. Un brutto giorno mi sono
reso conto di avere in mano delle carte perdenti. Non era lì che
volevo arrivare. Cosa avrei dovuto fare? Puntare altri anni?
Non ci sono bluff vincenti, nella vita. L’unico giocatore che
potevo ingannare ero io. Avevo usato le mie carte convinto che
fossero buone, ci avevo puntato tanti anni, mi ero sbagliato.
Investire altro tempo non mi avrebbe fatto vincere niente, solo
perdere di più. Un giorno non avrei avuto più niente da puntare,
e mi sarei alzato dal tavolo da gioco sconfitto.
“Sono stato sfortunato, ho avuto brutte carte.” Forse.
Ma l’errore più grave sarebbe stato non saper quando mollare.
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LIBERO?
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lavorare ufficialmente dopo tre mesi dalle dimissioni, invece lo
ridusse a uno, il tempo indispensabile per finire un paio di cose.
Gli ultimi giorni avrei anche consumato le ferie che mi
rimanevano per non lasciare sospesi economici. In breve, mi
restavano due stipendi e poco meno di un mese di lavoro. Veloce
e indolore, poi sarei stato finalmente libero.
Libero di fare che?
Già, cosa fare quando si può fare tutto? Non ero più abituato
alla libertà.
Il rischio principale quando si rientra in possesso del proprio
tempo è quello di non sapere come usarlo. Si arriva persino a spre-
carlo, ad annoiarsi, per mancanza di immaginazione. Le ipotesi di
scelta per me plausibili erano due: o mi cercavo un altro lavoro, o
mi concedevo una vacanza, alla fine della quale avrei deciso cosa
fare del resto della mia vita.
La seconda mi sembrava più allettante.
Stabilii così di prendermi una lunga pausa. Non sapevo cosa
fare, però. L’idea di tornare a far parte dello stesso ingranaggio da
cui mi ero appena liberato mi spaventava. Prima o poi avrei do-
vuto trovare un altro modo per mantenermi, e che alternative
c’erano al lavora, metti via dei soldi, vai in pensione? Non le conoscevo.
Non avevo fretta. Avevo dei risparmi, tutti quelli che non avevo
avuto modo di spendere. Grazie a questi potevo aprire una paren-
tesi di tempo in cui occuparmi solo di me, e rimandare di molto
le decisioni e le preoccupazioni per il futuro, non ancora pros-
simo. Finalmente ero libero di dedicarmi ad azioni e pensieri volti
alla rigenerazione del corpo, della mente e dello spirito.
Iniziai rinunciando subito ad una abitudine che mi era dannosa:
smisi di bere caffè per svegliarmi, soprattutto quello doppio o tri-
plo del mattino. Fu una specie di ribellione al mondo degli orari
fissi.
Mi piace il caffè dopo un buon pasto, ma berlo solo per trovare
la lucidità è farsi violenza. Era stato anche l’eccesso di caffè a
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procurarmi la gastrite con cui continuo a combattere a distanza di
anni. Una mente assonnata ha bisogno di riposo, non di eccitanti.
Certo non bastava cambiare qualche abitudine per trovare il
rinnovamento di cui avevo bisogno. Accarezzai allora l’idea di un
lungo viaggio. Il viaggio ha sempre avuto il fascino simbolico
della ricerca, ed io ero proprio alla ricerca di qualcosa. Il viaggio è
conoscenza e cambiamento. A me serviva una vacanza, certo, ma
anche un modo per voltare pagina e ricominciare a scrivere la mia
vita con parole diverse.
Iniziai a parlarne con gli altri in cerca di ispirazione. Nel 99%
dei casi, fu una pessima idea.
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Secondo gli auspici altrui, avrei patito la fame e la miseria. Non
sarei mai più stato riassunto. Anche con il ritorno all’economia
fiorente, quelle dimissioni sarebbero state una macchia sul mio
curriculum che mi avrebbe tenuto lontano da ogni posto di
prestigio. Chi mai avrebbe voluto assumere un irresponsabile che
gettava la spugna proprio nel momento di maggiore difficoltà,
quando era ora di tenere duro? In pratica, la mia vita era finita.
Notavo una certa tendenza all’esagerazione nelle persone che
contestavano la mia scelta. In fondo se l’economia fosse davvero
tornata fiorente, ci sarebbe sempre stato bisogno di qualcuno per
programmare robot, campo in cui me la cavavo piuttosto bene.
Potevo sempre tappare il buco sul mio curriculum con un bel mo-
tivi di salute, non allontanandomi nemmeno troppo dalla verità.
Insomma, di sicuro non sarei morto di fame.
“Ma se tu avessi un mutuo da pagare? E le rate della macchina?
E una famiglia, due bocche da sfamare? Non ti senti un disgra-
ziato a lasciare un lavoro, quando c’è chi fa fatica a tirare fino a
fine mese? E per fare un viaggio, poi…”
Questa è un’altra cosa che non ho mai capito delle critiche al-
trui. Vuoi per fortuna, vuoi per scelte personali, non avevo mutui
da pagare o una famiglia da mantenere. Perché avrei dovuto vivere
come se invece li avessi avuti? Il fatto che altri abbiano certi impe-
dimenti, peraltro tutti derivati da scelte personali, non mi sembrava
un motivo valido per crearmeli. Potevo essere solidale, certo, ma
questo è molto diverso. Crearmi problemi inesistenti non avrebbe
cambiato di una virgola la situazione di chi li aveva per davvero.
Per certi versi, la vedo proprio al contrario: avere una fortuna e
non sfruttarla è un po’ come sputarci sopra.
Ad ogni modo, ero ormai molto lontano dalle considerazioni
esclusivamente economiche. Da tempo avevo inserito il mio
benessere emotivo, mentale e fisico nell’equazione della vita, e
avevo visto che il bilancio non quadrava. I soldi e il lavoro non
potevano essere gli unici valori importanti nella vita di un uomo.
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Sono semplici strumenti che l’uomo adopera nella speranza,
concreta o illusoria, di raggiungere la felicità. Però sono anche
pericolosi, attraenti, e si trasformano in gabbie da cui si rischia di
non uscirne più. Avevo deciso di uscire dalla mia e di cercare
direttamente la fonte della serenità, senza intermediari.
In molti mi diedero dell’incosciente perché rinunciavo ad
un’occupazione, ma io mi sarei sentito molto più incosciente a
rinunciare al benessere e alla salute. Non avevo paura. Una serena
certezza mi faceva compagnia: piuttosto che vivere un solo altro
giorno come esperto di robot, sarei andato volentieri a girare pa-
nini da Mc Donald. Forse il mio era uno stato di follia, ma dopo
la decisione di dimettermi mi sentii meglio di quanto non lo fossi
stato negli ultimi anni.
Mi sentivo leggero.
Credo che questa sensazione fosse evidente anche a chi mi par-
lava. Una volta chiarito che la mia decisione di dimettermi era ir-
revocabile, e che non avevo perso del tutto il senno, qualche voce
si staccò dal coro delle critiche per complimentarsi con me.
“Hai fatto bene. Vorrei avere io il tuo coraggio.”
Ecco l’altra parola chiave: coraggio.
Le poche persone che da principio avevano intravisto la bontà
delle mie azioni, mi elogiavano per quello. Io sorridevo e annuivo
ma, in tutta sincerità, non mi sentivo così coraggioso. Tutt’altro
direi. Non mi ero licenziato né avevo deciso di viaggiare, per co-
raggio. Avevo persino delegato la decisione a Paolo, perché non
ero stato capace di prenderla da solo. Ok, forse ero andato io a
cercare il punto di rottura, ma non so se lo chiamerei coraggio.
Quando mi sono svegliato non riuscendo a ricordare come
avessi passato i due anni precedenti, ho avuto paura. Quando ho
visto i capelli bianchi e i chili in più sulla pancia, ho avuto paura.
Quando ho capito di essere in una gabbia che rubava il mio
tempo, ho avuto paura. Quando ho immaginato di fare quella vita
per altri cinque, dieci, vent’anni, ho avuto paura. Con le mie rate
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della macchina, il mutuo da pagare, due figli da portare a scuola,
televisore al plasma in salotto a guardare il Grande Fratello 40.
Ho avuto paura. Le tende alla finestra, le otturazioni sui denti, il
giardino ben curato. Ho avuto paura. Le ferie ad agosto da chie-
dere al capo. Le promozioni che non arrivano. Le visite dal me-
dico. Gli antiacidi per la gastrite che non passa.
“Come va il polso?” “Eh, male. Sto troppo al computer, ma
come faccio?” Ho avuto paura. Una macchina che mi investe, mi
spezza, gettandomi venti metri più in là, e lasciandomi dieci se-
condi per ripensare alla vita e ricordare di aver avuto un sogno
una volta, mentre il sangue e la vita mi scivolano via. Ho avuto
paura. Oppure una malattia. Una lenta agonia, steso sul letto di
un ospedale, incapace di muovermi, anche solo per gettarmi dalla
finestra e metter fine al dolore.
“Datemi solo cinque minuti di libertà”, avrei urlato, “almeno
sceglierei di andarmene!”. Ma non ho altri cinque minuti. Non li
ho più.
Il tempo è finito ormai, mi guardo indietro, e vedo la mia vita,
a come l’ho sprecata, a cosa potevo fare e non ho fatto. Potevo
essere qualcuno. Potevo anche essere nessuno ma felice. E invece
sono semplicemente nessuno. Tempo scaduto.
Ho avuto paura.
No, non avevo solo paura. Ero terrorizzato.
Certo, potevano dirmi tutte le volte che volevano che c’era bi-
sogno di coraggio per mollare un lavoro sicuro nonostante l’eco-
nomia fragile. Ok, forse ce ne vuole un po’, d’accordo. Ma dico
che ce ne vuole molto di più a rimanere dove si è, quando hai già
visto come andrà a finire.
Non ho fatto il salto perché ho avuto il coraggio di affrontare
l’ignoto, ma perché ho avuto paura di restare in un mondo che
conoscevo fin troppo bene.
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ROUND THE WORLD
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Ero confuso. Tutto il mondo era di fronte a me e io non sapevo
scegliere. Un tipico caso di eccesso di offerta, non ci ero abituato.
La mia tendenza a voler razionalizzare tutto diventava sempre un
peso in questi casi. Vado in panico decisionale anche se devo scegliere
una macchina fotografica. Devo leggere tutti i dettagli, confron-
tare, valutare, ottimizzare. Lo so che non esiste una soluzione per-
fetta, ma faccio di tutto per trovarla.
Allo stesso tempo, tutte le persone che conoscevo volevano
consigliarmi, e questo non faceva che aumentare la confusione
che avevo in testa. Ognuno si sentiva in dovere di dirmi cosa
avrebbe fatto al mio posto. Ma cosa avrei fatto io, al mio posto?
Sentivo un bisogno quasi fisiologico di affermarmi, non tanto
con gli altri quanto con me stesso. Dovevo recuperare l’identità
che avevo perduto in qualche fabbrica del Nord Europa e le ore
di traffico in A4. Dovevo fare qualcosa di soltanto mio, ma cosa?
Un giorno parlai con Nicola, un caro amico dotato di una cu-
riosa passione per tutto ciò che riguarda aeroporti, tessere frequent
flyer e voli aerei. Mi confidai con lui e gli raccontai i dubbi e i pen-
sieri di quei giorni. Gli dissi che se avessi potuto avrei visto tutto
il mondo, ma ovviamente non era possibile.
«Perché ovviamente?» mi interruppe lui. Esistono i biglietti round
the world, se ti interessa. Non costano molto. Fai il giro del
mondo!»
La bocca dello stomaco mi si chiuse all’istante.
Appoggiai il bicchiere.
«Il giro del mondo...»
Soppesai quell’idea per qualche minuto, ma sapevo di aver già
deciso. Il mio corpo aveva reagito prima di me a quell’idea con un
linguaggio che ancora non conoscevo, ma si era fatto capire più
che bene. Quella sensazione di emozione profonda che colpisce
il respiro e la pancia, come quando si è innamorati, non lasciava
spazio a dubbi. Non c’era via di scampo dal quel messaggio, non
c’era alternativa. La mia testa era già partita per quel viaggio, si
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trattava solo di seguirla.
Fu la prima volta che presi una decisione così importante in
quel modo. Evidentemente il buio in cui mi ero ritrovato, proprio
a causa di decisioni prese di testa, aveva risvegliato in me una forza
primitiva.
Qualcuno potrebbe chiamarla intuizione, una facoltà più sofisti-
cata della stessa ragione. A me piace considerarlo una specie di
istinto, invece. Lo stesso che ci fa scappare da un pericolo, che ci
fa ritrarre la mano dal fuoco, o che ci fa pensare: “qui qualcosa
non va.”
È un sensore primordiale, vecchio come il mondo, collegato al
tessuto dell’esistenza con fili che non riconosciamo più, e adibito
da sempre alla custodia della nostra vita. Parla con un linguaggio
grezzo e potente, e ci dice cosa è giusto e cosa è sbagliato per noi
e basta, senza curarsi dell’opinione altrui, delle paure e del senso
comune. Ci dice la verità, che ci piaccia o no. Lo fa con le lacrime o
con una stretta allo stomaco. Non sono consigli, l’istinto non
tenta di convincerti. I suoi sono ordini.
La ragione è più sottile, più fine. È un coltello acuminato, ca-
pace di intagliare la materia dei nostri pensieri nelle trame più leg-
gere e delicate, di creare ingranaggi sofisticati e perfetti, ma nei
momenti critici manca di forza. L’istinto è una clava, brutale,
senza eleganza, che non chiede e non dà spiegazioni.
Incapace ancora una volta di decidere, quell’arma prese il so-
pravvento spingendomi verso quell’avventura. Un colpo di Stato
ai piani alti del mio cervello. Su quel viaggio c’era già scritto il mio
nome. Avrei capito il perché solo al mio ritorno.
Valutai la fattibilità del progetto.
Le maggiori compagnie aeree sono divise in tre grandi alleanze
di cui fanno parte: Skyteam, Star Alliance, e One World. Ognuna
ha la sua versione del biglietto round the world. Si tratta di un pac-
chetto di voli a prezzi molto convenienti, che permette di viag-
giare attorno al globo con tutte le compagnie che ne fanno parte.
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I voli, il cui numero è limitato, vanno prenotati al momento
dell’acquisto. Ci sono molte regole ma il prezzo finale è sconvol-
gente. Nel 2009, sedici voli (con scali) tra Londra, Los Angeles,
Buenos Aires, Santiago del Cile, Isola di Pasqua, Hong Kong,
Bangkok, Tokio, Pechino, Sydney, Auckland, Londra, mi costa-
rono circa 2300 euro.
La parte più difficile fu decidere il percorso. Le regole del bi-
glietto mi imponevano di prenotare subito tutti i voli aerei, ma
come decidere in quale Paese andare, e quanto restarci? Come fa-
cevo a sapere se mi sarebbe piaciuto, se avrei voluto restarci più
tempo, o meno? Mi costrinsi a fare una stima, basandomi anche
sui costi previsti della vita. Quanti calcoli!
Arrivai al progetto finale dopo due intense settimane. Prima di
tutto decisi di andare verso ovest per minimizzare gli effetti del
jet lag. Per andare in quella direzione bastava ritardare il sonno,
mentre per andare verso est bisognava anticiparlo e mi risultava
più difficile.
Scelsi i Paesi in base ad alcuni criteri: sicurezza, costo della vita,
clima al momento del mio passaggio, ma anche seguendo l’attra-
zione istintiva che provavo per loro. Erano i luoghi in cui avevo
sempre desiderato andare, quale momento migliore per farlo?
Alla fine fissai date e destinazioni e comprai il biglietto. Sarei
partito da Londra e la prima destinazione sarebbe stata San Fran-
cisco, da cui volevo iniziare simbolicamente il giro. Per vicissitu-
dini familiari il mio nome arriva proprio dalla città californiana.
Non ci ero mai stato e mi sembrava quindi un ottimo luogo per
iniziare il viaggio di una vita.
Da lì avrei disceso la California per un paio di settimane, fino a
Los Angeles. Sarei ripartito per Buenos Aires, e avrei percorso
l’Argentina via terra fino alla punta estrema della Patagonia, risa-
lendo dal Cile, per raggiungere Santiago dopo due mesi. Cinque
giorni all’Isola di Pasqua, poi un transoceanico per Hong Kong.
Da lì alla Thailandia per un mese, poi venti giorni in Giappone,
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una rapida puntata a Pechino a trovare un amico, la Nuova Ze-
landa e l’Australia, tre settimane ciascuna.
Una specie di maratona, tantissimi posti in poco tempo, ma era
così che lo volevo. All’epoca non potevo di certo essere conside-
rato un viaggiatore, ed ero ancora legato all’idea del vedere il più
possibile tipica del turista abituato alle due settimane di ferie. Mi
sembrava in questo modo ingenuo di riprendermi la vita che
avevo sprecato negli anni precedenti, e forse non avevo nemmeno
tutti i torti. Volevo partecipare al banchetto del mondo sboccon-
cellando in più piatti possibili, per poter decidere quale mi fosse
piaciuto di più e tornarci.
Quando comunicai il mio progetto agli altri, venni considerato
da alcuni un eroe, da altri un folle. Iniziai a farci il callo. I miei
genitori ne furono molto spaventati. Erano preoccupati del mio
benessere e della mia serenità, chiaro, ma erano pur sempre legati
alla scala di valori della loro generazione. Vedevano nella mia pre-
cedente professione una sorta di realizzazione, un risultato del
quale non comprendevano l’esigenza di liberarsi, qualcosa di cui
farsi vanto. Ci avevo messo dieci anni a laurearmi, e dopo nem-
meno tre mollavo tutto? Perché non cercavo semplicemente un
altro lavoro, magari dopo un mesetto di relax in qualche villaggio
turistico esotico all inclusive?
Io però non avevo bisogno di relax, tutt’altro. Io avevo bisogno
di ritrovare qualcosa che avevo perduto, o che forse non avevo
nemmeno mai avuto. La mia crisi interiore non aveva minato solo
il mio rapporto con una professione, ma aveva messo in dubbio
tutto il sistema su cui essa si fondava. Non avevo bisogno di ri-
poso e di cocktail alla frutta con gli ombrellini colorati, o di ani-
matori con indosso il sorriso di ordinanza. Ne avevo le palle piene
di facciate imbiancate messe a nascondere una discarica di realtà
squallide. Avevo dormito a sufficienza, era arrivata l’ora di cor-
rere.
Io volevo la risposta a esigenze diverse: cosa stavo facendo
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della mia vita, e perché? Io volevo la verità, qualunque fosse. Vo-
levo voltare pagina sul libro della mia vita, e cominciarne una
nuova. Il giro del mondo era un viaggio affascinante con un
enorme potere simbolico e un’avventura terribilmente eccitante.
Cosa c’era di meglio, per rimediare a due anni passati a non vivere?
Dopo un mese di animati preparativi, il 10 Novembre 2009
partii dall’aeroporto di Venezia, zaino in spalla, un sorriso da orec-
chio a orecchio, e senza avere la più pallida idea di cosa stessi fa-
cendo.
Le prime tre settimane furono dure. Terminati i primissimi
giorni, in cui andai a trovare prima degli amici a Londra, poi un
amico che studiava a San Francisco, mi ritrovai presto molto spae-
sato. Non ero mai stato in un ostello prima di allora. Inoltre mi
portavo appresso un’innata timidezza che, pur mitigata dalle espe-
rienze del passato, era un grosso ostacolo alla socializzazione. I
ragazzi che ci incontravo sembravano tanto più giovani di me, ma
riuscivano a fare amicizia tra di loro in pochi minuti. La giovane
età non era un limite, ma un vantaggio. Io rimanevo perlopiù in
disparte a osservare le dinamiche, e solo con uno sforzo di vo-
lontà riuscivo ad attaccare bottone con qualcuno.
La grande sfida di quei giorni fu proprio la solitudine.
Mi sentivo solo in molti modi differenti. Non c’era solamente
la mia difficoltà a socializzare, o il fatto che fossi in un altro con-
tinente in compagnia solo del mio zaino. Mi sentivo solo perché
ancora legato al mondo che mi ero appena lasciato alle spalle, e
da questo ricevevo qualche appoggio, ma poca comprensione.
Tra gli amici e i parenti, la convinzione comune era che io avessi
commesso una terribile sciocchezza, e che l’avrei pagata cara: al
mio ritorno avrei patito la miseria, gli amici si sarebbero dimenti-
cati di me, e forse avrebbero dato fuoco alla mia casa, chi lo sa.
Anche coloro che mi ritenevano un eroe per aver sfidato il sistema
malato con il mio gesto, non lo avrebbero fatto al posto mio. Con-
dividevano la mia scelta, ma non l’avrebbero fatta a loro volta.
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“Armiamoci e combattiamo, ma vai pure avanti tu.”
In altre parole, ero solo dall’altra parte dell’oceano, con il mio
zaino, la mia timidezza e la mia decisione.
Una decisione pesantissima che dovevo sostenere sulle mie sole
spalle. Non avevo più a disposizione un impianto sociale tradizio-
nale che portasse con me il peso di una vita vissuta secondo le
convenzioni riconosciute. Non avevo più la sicurezza di apparte-
nere ad un gruppo, che segue una direzione che gli è stata indicata
ma di cui ne ignora il senso. La vita era diventata solo mia e con
essa tutto il peso. Non è stato facile.
Arrivai a Buenos Aires terrorizzato. In California almeno non
avevo problemi a comunicare, perché con l’inglese me la cavavo a
sufficienza. In Argentina invece potevo esibire al massimo un vo-
cabolario di dieci parole in spagnolo. In più c’era la questione si-
curezza: pur avendo scelto di entrare in Sudamerica proprio dal
Paese che viene considerato il più europeo, e quindi più sicuro ai
miei occhi, la sua capitale ha la fama di città pericolosa, piena di
malviventi pronti a puntarti addosso un coltello o una pistola per
derubarti di tutto.
In realtà, le cose andarono molto meglio del previsto. Scoprii
che gli argentini possiedono una attitudine a socializzare molto
più marcata dei miei connazionali, soprattutto quelli del nord.
Provano inoltre per il nostro Paese un amore viscerale, a causa
delle grandi correnti di immigrazione del passato. La maggior
parte degli argentini ha un parente non troppo lontano che arriva
o vive ancora in Italia, per cui noi italiani siamo considerati ospiti
graditissimi.
Mi resi conto che, nonostante la mia ignoranza della lingua, con
una parola in spagnolo, una in inglese, una in italiano e un sorriso,
il più delle volte riuscivo a cavarmela. Certo, all'inizio non intrat-
tenevo grandi conversazioni, ma erano sufficienti per uscire la
sera a bere e ballare, riuscendo a farmi anche qualche bella risata.
La maggior parte delle battute e degli scherzi erano ancora al di là
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della mia comprensione, ma questo sembrava suscitare ancor di
più l’ilarità dei miei gioviali compagni di tavola.
Iniziai a sciogliermi. La situazione, pur difficile, era vantag-
giosa. Mi trovavo nella rara possibilità di imparare una lingua, di
cambiare una parte del mio carattere e di crescere, circondato da
persone che provavano simpatia per il mio impaccio. Ora o mai
più, mi dissi.
Affrontai la mia timidezza con la forza di volontà, a testa bassa,
costringendomi ad agire sempre più spesso. Iniziai ad attaccare
bottone con maggior facilità, e a riconoscere negli occhi di chi
incontravo in ostello il mio stesso desiderio di avere compagnia.
Mi resi conto che non tutti gli altri viaggiatori erano disinvolti
e socievoli come pensavo, anche tra i più giovani serpeggiava qual-
che ostacolo simile al mio.
Non era così difficile, in fondo. Bastava sedersi nella sala co-
mune, guardarsi intorno, e cercare lo sguardo di chi non era im-
pegnato a leggere o a fissare il cellulare. A quel punto un saluto o
una domanda qualsiasi, come “avete qualche escursione in pro-
gramma per oggi?” o “Dove hai preso quel sushi?” era tutto
quello che serviva per rompere il ghiaccio. In ostello i convenevoli
non sono necessari, e nemmeno richiesti. La gente sta due giorni,
poi se ne va. Non c’è tempo per cincischiare in saluti, o in “ma
poi cosa penserà di me?”. Il tempo corre, e sprecarlo è un reato.
La gente arriva da tutte le parti del mondo, chi se ne frega se è
vestita o se parla in modo stravagante? Siamo in viaggio proprio
per non vedere sempre le solite facce e seguire le stesse abitudini.
Una brutta figura dura al massimo lo spazio di un pomeriggio, e
viene presto dimenticata. Si sopravvive. Iniziai ad amare l’atmo-
sfera internazionale e l’energia giovane degli ostelli, e mi sentii
stupido ad averli scoperti così tardi.
I primissimi giorni il mio dramma era stato il giorno dei saluti.
Magari ero riuscito dopo molti sforzi a fare amicizia con
qualcuno, ma arrivava sempre il momento di separarci, e io
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dovevo ricominciare da capo, ripiombando nella solitudine. Dopo
qualche settimana avevo ormai capito che per ogni “arrivederci,
buon viaggio” c’era sempre un “ehilà, ben arrivato” pronto dietro
l’angolo. Il popolo dei viaggiatori da ostello, i turisti con lo zaino,
erano una corrente sempre in movimento: bastava saltarci dentro,
e godersi il flusso di energia e di novità.
Dopo poco più di un mese la mia timidezza era finalmente
scomparsa, battuta.
Forse la mia scelta non era stata così sbagliata, dopo tutto.
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