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Aprirsi un varco nel mondo (da “Famiglia oggi”, 1998)

di Luisa Muraro
(docente di Filosofia presso l’Università di Verona)

Il nuovo "c’è altro"


Vorrei dunque spiegare come una donna possa essere femminista senza identificarsi con il
femminismo e dovendo perfino combatterlo. E vorrei far capire come questa scissione non sia
schizofrenica ma costituisca, al contrario, una risorsa d’intelligenza politica. Risorsa che si traduce
nel dire, semplicemente: "c’è altro". Ossia: questo mi risulta, questo penso e voglio, questo credo e
desidero, questa sono io, ma c’è altro. Intendo l’altro sesso, ovviamente, ma anche l’altra donna,
senza escludere quello che di me si nasconde a me, e intendo il mondo senza escludere quello che
non è di questo mondo, poiché l’altro non sta alle nostre ripartizioni di questo e quello, io e non io,
immanente e trascendente.

Il pensiero della differenza – non quello neutromaschile messo in circolazione dalla filosofia
ufficiale, ma quello che, prima d’essere pensiero, è stato da sempre pratica di vita femminile,
interrogata poi dalla ricerca femminista – si radica in questo dire e sentire che c’è altro. Il pensiero
della differenza a me ha insegnato, in primo luogo, la relazione con l’altro che è donna. Mi ha
insegnato la necessità di questa relazione per ritrovare me stessa. Di che necessità parli? Una
necessità di ordine simbolico, rispondo. Se la mediazione che mi fa passare in altro (il Virgilio di
Dante, che poi diventa Beatrice, per intenderci) non mi viene dal riferimento a un’altra donna, se
non ci fosse, cioè, autorità femminile nella mia vita, ritornerei a essere una donna perduta. Non nel
senso patriarcale della donna di strada, priva cioè della cornice di una casa e di una famiglia sue, ma
nel senso di una che non si ritrova nel suo corpo né si riconosce negli specchi dell’identità sociale,
donna perduta in una o tante immagini sociali prive di rapporto con la sua interiorità muta.

Mi piacerebbe avere lo spazio per raccontare questa perdizione che, ogni tanto, mi attirava con tale
violenza da far fallire bruscamente ogni mio sensato programma d’integrazione sociale. E faceva,
nelle mie orecchie, da dentro, uno strepito spaventoso che mi ha fatto capire subito e perfettamente
la parola fracaso dello spagnolo, per dire fallimento, scacco, insuccesso. Era, quella perdizione,
l’effetto congiunto di uno sguardo maschile che ci accomunava («sono tutte uguali») per poi
eleggerne una di speciale, e di una corrispondente volontà femminile di distinguersi come speciale
sopra il comune delle donne.

Sto parlando dell’esperienza di una donna. Non si deve infatti ignorare che una donna dice e sente
che c’è altro differentemente dall’uomo. La ragione di ciò credo che sia nella speciale relazione
della donna con la madre: relazione della figlia con la donna che le è madre e dell’essere donna con
il diventare (o non diventare) madre.

Il proprio di un soggetto è di fare segno. Pensate, per esempio, a quando c’è una frana o crolla un
edificio, e tutti i sensi dei generosi soccorritori sono tesi a cogliere i segni di vita di chi potrebbe
trovarsi sotto le rovine. Lo stesso si può dire della madre che ha appena partorito in posizione
sdraiata e aspetta allo spasimo il grido della sua a lei invisibile creatura: sono viva, sono nata!
Similmente, la differenza sessuale in noi fa segno, ma è un segno difficile, caricato dei significati
più disparati, a seconda delle civiltà, dei contesti, dei tempi.

Non si deve dimenticare che la sessuazione è una "scelta" fatta dalla vita molto prima d’essere
umana, e che a noi s’impone con la cieca prepotenza dei fatti elementari della vita, riscattabile
soltanto dalla libertà umana, e, per chi pensa che questa non basti, da una grazia celeste. Questo può
spiegare il fatto che la differenza dei sessi sia, storicamente, un segno fra i più controversi della
condizione umana, al limite della confusione diabolica, confusione che i venti secoli della filosofia
occidentale, con il loro pesante carico di misoginia, non hanno contribuito affatto a dissipare.

Differenza asimmetrica

Che segno fa la differenza sessuale, che cosa significa, alla luce della libertà? Che c’è altro,
semplicemente. Dal cuore stesso della vita essa ci fa dire, a donne e uomini, che c’è altro e ci scava
dentro, con la forza del desiderio e dell’amore, il passaggio in altro. Ma ce lo fa dire, a donne e
uomini, in maniera differente; la differenza, infatti, si significa più nelle donne che negli uomini.
Detto in altre parole, fra i due sessi non c’è simmetria ed è proprio questa asimmetria che, rendendo
impossibile la mitica complementarità vagheggiata dai filosofi antichi, fa il segno umano della
differenza. Con la pratica dell’insegnamento ho imparato a riconoscere il lampo d’intelligenza che
si accende negli studenti quando afferrano – i ragazzi, le studentesse infatti la sapevano già – che la
differenza sessuale non è la differenza dell’altro sesso da sé, ma la differenza di sé da sé medesimi a
causa che c’è altro.

Rendiamoci conto, d’altra parte, che a causa del divenire e del linguaggio, la realtà per noi è presa
tutta nella storicità, dal cesso a Dio (meno oscenamente si dice: «dalle stalle alle stelle»). La cosa
straordinaria è che, nonostante questa presa cui nulla si sottrae, nonostante il recinto della nostra
finitezza, c’è qualcosa che fa un buco nella siepe, qualcosa che certuni considerano un dono celeste
e che ha tanti nomi (nel femminismo lo abbiamo chiamato, di preferenza, desiderio; nella tradizione
cristiana si chiama amore), nessuno dei quali, a rigore, può escludere l’altro. Per rendere questa idea
ho coniato una formula che dice che tutto è storia, ma la storia non è tutto.

Il patriarcato è arrivato alla fine, e questo, probabilmente, nel mondo intero, nonostante i segnali
contrastanti. Lo schema gerarchico dei sessi, primo e secondo, è caduto. Il femminismo è arrivato
felicemente in porto. Vorremmo fare salti di gioia, ma ci trattiene il pensiero che il patriarcato non
era solo dominio, era anche una civiltà con un suo ordine simbolico, e la sua fine (evidente a
cominciare dal Sessantotto) porta nuove possibilità e nuovi problemi.

Chi ha occhi per vedere si accorge che la nostra società è percorsa da un filo di felicità che le viene
dalla presenza di donne più libere di muoversi, più istruite, più autonome, più intraprendenti.
L’eccellenza femminile non è più la prerogativa di qualche donna "eccezionale", ma una qualità
riconosciuta comunemente e volentieri a molte da molti. «Per fortuna che è femmina», recitava uno
slogan sindacale mettendo in parole un nascente pregiudizio sociale favorevole al sesso femminile,
dopo secoli e secoli di misoginia

A questa rivoluzione ha contribuito una somma di circostanze fra le quali è giusto mettere al primo
posto l’amore femminile della libertà. Vi ha contribuito anche il capitalismo che, con la sua nota
spregiudicatezza, si è messo a guardare alle donne come a una risorsa, sia per la loro volontà di
stare sul mercato del lavoro e di starci in maniera più flessibile degli uomini, sia per le capacità
lavorative che esse vi portano, fra cui la buona disposizione a stabilire e intrattenere relazioni.

Questa crescente valorizzazione del sesso femminile si accompagna però a un fantasma vecchio
quanto ovvio e trito, ma tutt’altro che innocente, quello di una rotazione fra i sessi per cui le donne
si preparano a prendere il posto che prima era degli uomini, e viceversa. Ne darò due esempi. Un
settimanale inglese, volendo, giustamente, segnalare che il sesso maschile si trova, oggi, in
difficoltà più di quello femminile, e questo in maniera evidente soprattutto nelle classi popolari e fra
i giovani, si riferisce agli uomini chiamandoli tomorrow’s second sex («il secondo sesso di domani»,
in The Economist, September 28th 1996). Nel febbraio di quest’anno donne e uomini, cattolici, di
Bruxelles si sono riuniti per riflettere insieme sul rapporto fra i sessi e il titolo del convegno era:
L’Eglise aujourd’hui des hommes, demain des femmes? («La Chiesa oggi degli uomini, domani
delle donne?»).

Il desiderio femminile, per quello che posso testimoniare di me e di quelle che conosco, è contrario
a una simile prospettiva che gli sbarra la strada più di quanto non abbia potuto fare il dominio
patriarcale. Ma la prospettiva di un rovesciamento puro e semplice dei rapporti fra i due sessi è
rafforzata dalla valorizzazione fallica del sesso femminile. Il fallo, come noto, è l’emblema della
virilità e, quindi, in un certo tipo di cultura, di tutto quello che è affermativo, volitivo, potente,
vincente. La fine del patriarcato non mette fine a questa associazione, anzi, la libera da tutta una
serie di vecchi vincoli.

C’è una figura della psicoanalisi, la ragazza-fallo, che sta diventando una specie di proposta
ideologica fatta alle giovani donne, invitate a fare e a essere quello che di più valente e virile un
uomo può immaginare per sé. Lo mostra bene il cinema americano più recente, con quella scoperta
ingenuità che, insieme alla maestria nel linguaggio delle immagini, fa la forza del suo messaggio.
Tutto questo, però, ci porta fatalmente alla ripetizione: i posti cambiano ma il gioco è sempre lo
stesso.

Della rivoluzione femminista la storia registrerebbe unicamente il guadagno che ne viene


all’economia di mercato. Nella lotta per impedire questa deriva verso la ripetizione io constato che
le pensatrici femministe della differenza sono sole. Dopo aver lungamente lavorato per superare,
nella pratica e nel linguaggio, il separatismo femminista, queste pensatrici si scontrano infatti con
un separatismo di segno opposto e più potente, quello del ceto intellettuale maschile, caratterizzato
da un’omosessualità mentale che sembra arrivare direttamente dai tempi del Simposio di Platone.
Esse trovano riconoscimenti, ma non ascolto né interlocuzione, a causa di un certo autismo che
affetta spesso e volentieri il sesso maschile, rinforzato dal narcisismo tipico del ceto intellettuale.

Parlo in maniera estrema per riassumere chiaramente la situazione, consapevole di non essere
giusta. Vi sono, infatti, pensatori attenti e aperti al discorso della differenza.

Il problema principale, da parte maschile, è diventare consapevoli della posta in gioco. Non si tratta
più di risolvere la questione femminile, perché è già stata risolta. Non si tratta – non si è mai
trattato, veramente – dello "specifico" femminile, poiché la differenza femminile è un nome della
differenza che affetta ogni essere umano nella sua creaturalità. Né si tratta di dare soddisfazione alle
aspettative delle donne, perché a questo mondo non c’è nessuno che possa dare soddisfazione alle
aspettative di un essere umano, donna o uomo che sia. Si tratta di rompere la centratura del mondo
intorno all’uomo, e di mettere fine alla sua presunta autosufficienza e alla ripetizione disastrosa dei
suoi rilanci, per decentrarlo e aprirlo al passaggio in altro. Detto alla buona, si tratta di aprire un
buco nella siepe o, forse, di scoprire che c’era già.

Luisa Muraro

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