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DELEUZE
cosa è intensa, più precisamente essa è in rapporto con l’essere. L’intensità della cosa
è il suo rapporto con l’essere. Tutto ciò è sostenibile? Vediamo quale controsenso
riusciamo ad evitare seguendo questa via. Se v’è qualcosa che la formula “La potenza
è l’essenza stessa” non vuole dire, se c’è qualcosa che questa formula non intende
dire, questo qualcosa è: “Ciò che ciascuno vuole è il potere”. Si vede qui ciò che ci
dice Spinoza, e dopo di lui Nietzsche: ciò che le cose vogliono è la potenza. Il potere
non ha niente a che fare con la potenza. Tutto ciò non significa che la potenza sia
l’oggetto della volontà. Vorrei perciò tentare di dimostrare perché è così importante
questa radicale conversione dove le cose non sono più definite da un’essenza
qualitativa (uomo = animale razionale), ma sono definite da una potenza
quantificabile. Sono ancora lontano dal sapere che cosa sia questa potenza
quantificabile ma tento di arrivarci passando per questi spunti sparsi … nei quali,
cosa è importante, praticamente? Praticamente molte cose cambiano se mi interesso
a ciò che qualcosa può, a ciò che la cosa può. Si tratta di qualcosa di assolutamente
differente dal pensiero di coloro che si interessano a quale sia l’essenza della cosa. È
proprio tutt’altra maniera di essere nel mondo. Intendo quindi mostrare tutto ciò
analizzando un momento preciso della storia del pensiero. C’è stato un momento
molto importante, o una tradizione altrettanto importante dove però è difficile
orientarsi. È la storia che concerne quello che noi abbiamo chiamato diritto naturale.
E questa storia concernente il diritto naturale, oggi, ci sembra parecchio antiquata,
la si tratta come una teoria sopravvissuta fino a Rousseau, ma oggigiorno nessuno se
ne interessa teoreticamente. Si passa oltre rispetto a molte cose e si passa oltre al
perché in tanti si batterono sul piano teorico, si passa oltre rispetto a tutto ciò che è
importante in una questione storica. Ora vedrete perché invece noi siamo adesso
veramente nel cuore del problema. La teoria del diritto naturale è stata un punto di
raccolta per la maggior parte delle tradizioni dell’antichità e il punto di confronto
del cristianesimo con, appunto, la tradizione antica. Per questa concezione classica
del diritto naturale abbiamo alcuni fondamentali rappresentanti: innanzitutto
Cicerone che, per così dire, già nell’antichità raccoglieva le tradizioni dell’antichità
(platonismo, aristotelismo, stoicismo). Egli preparò una sorta di presentazione del
diritto naturale dell’antichità destinata ad avere una grande importanza. Fu da
Cicerone che i filosofi ed i giuristi cristiani attinsero per mettere punto il loro
adattamento del diritto naturale al cristianesimo (ricordiamo, a tal riguardo,
soprattutto San Tommaso, e cioè il secondo grande rappresentante del diritto
naturale pre – moderno). Dunque riscontriamo una specie di linea storica che
possiamo chiamare, per comodità, la linea del diritto naturale classico, una linea che
va dall’antichità al cristianesimo. Ora, cosa intendevano tutti questi autori per diritto
naturale? All’incirca direi così: ciò che in tutte queste concezioni costituisce il
nocciolo del diritto naturale (la sua essenza) è ben espresso in alcune proposizioni
fondamentali e classiche. In particolare vorrei che voi ricordaste quattro
proposizioni – pilastro che stanno alla base del diritto naturale classico. Prima
proposizione: una cosa si definisce per la sua essenza. Il diritto naturale è quindi ciò
che è conforme all’essenza di qualche cosa. L’essenza dell’uomo è l’animalità
razionale e ciò definisce il suo diritto naturale. Per di più, essere razionale è la legge
della sua natura. Qui interviene la legge di natura. Quindi, riferimento alle essenze.
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Seconda proposizione: il diritto naturale non può “rinviare” (questo punto è molto
marcato nella maggior parte degli autori dell’antichità), ossia il diritto naturale non
rinvia ad uno stato di cose che si suppone abbia preceduto la società. Lo stato di
natura non è nient’altro che lo stato di cose conforme all’essenza delle cose stesse in
una società buona. Buona sarà quella società dove l’uomo può realizzare la sua
essenza. Quindi lo stato di natura non è qualcosa di precedente rispetto alla società,
è bensì lo stato di cose conforme all’essenza nella migliore società possibile, cioè la
più atta a realizzare l’essenza. Ecco la seconda proposizione del diritto naturale
classico. Terza proposizione: ciò che viene per primo è il dovere. Si hanno dei diritti
solo in quanto si hanno di doveri. Si tratta di qualcosa di politicamente molto
pratico. In effetti, che cos’è il dovere? C’è un concetto ciceroniano che è proprio della
romanità: l’idea del dovere funzionale. Il termine officium, e cioè i doveri legati a
delle funzioni. Non a caso uno dei più importanti libri di Cicerone concernenti il
diritto naturale si intitola De officiis e tratta appunto dei doveri funzionali. Quale
sarà allora il primo dovere connesso all’esistenza? Il dovere è l’insieme delle precise
condizioni sotto le quali il singolo può meglio realizzare l’essenza, cioè vivere
conformemente alla propria essenza, nella migliore società possibile. Quarta
proposizione: da essa discende una regola pratica che avrà una grande importanza
politica; la si potrebbe riassumere sotto il titolo: la competenza del saggio. Chi è il
saggio? È qualcuno che è spiccatamente competente nella ricerche che concernono
l’essenza, e in tutto ciò che ne deriva. Il saggio è colui che sa quale è l’essenza di
qualcosa. Siamo dunque di fronte a di un principio di competenza del saggio perché è
compito del saggio dirci quale è la nostra essenza, quale è la migliore società, cioè la
società più atta a realizzare l’essenza, e quali sono i nostri doveri funzionali, i nostri
officia, cioè sotto quali condizioni noi potremo realizzare l’essenza. Tutto ciò è fra le
competenze del saggio. Alla domanda ”Cosa pretende di fare il saggio classico?”
bisogna rispondere che egli pretende di determinare l’essenza, e da ciò discendono
tutti i tipi di compiti pratici (ecco dove nascono le pretese politiche dei saggi).
Dunque, se riassumo questa concezione classica del diritto naturale, di colpo potete
comprendere perché il cristianesimo sarà molto interessato da questo antico
concetto del diritto naturale. Andrà infatti ad integrarlo all’interno di ciò che
chiamerà la teologia naturale, ne farà una della sue parti fondamentali. Le quattro
proposizioni si conciliano immediatamente con il cristianesimo. Prima proposizione:
le cose si definiscono e definiscono i loro diritti in funzione della loro essenza.
Seconda proposizione: la legge di natura non è pre – sociale, essa risiede piuttosto
nella migliore società possibile. Terza proposizione: i doveri precedono i diritti,
perché i doveri sono le condizioni sotto le quali è possibile realizzare l’essenza.
Quarta proposizione: allora, esiste la competenza di qualcuno di superiore, sia esso la
chiesa, il principe o il saggio. Esiste un sapere intorno alle essenze. Quindi l’uomo
che conosce le essenze sarà atto a dirci come dobbiamo condurre la nostra vita.
Condursi nella vita sarà giustificabile da un sapere, di fronte al quale chi non sa non
può permettersi di dire se il singolo caso sia bene o sia male … avremo dunque la
figura dell’uomo buono inteso come uomo di Dio o uomo saggio, e quest’uomo sarà
caratterizzato dalla competenza. Ricordatevi bene queste quattro proposizioni.
Immaginate una specie di colpo di tuono, un tale arriva e dice: “No, no, no, in un
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vista concettuale. Cosa significa? Nessuno nasce sociale. Sociali si diventa, soltanto.
Il problema della politica sarà quindi: come agire affinché gli uomini diventino
sociali, sapendo che nessuno nasce sociale? Ciò vuol dire che non si può pensare la
società che come un prodotto del divenire. Il diritto sarà quindi l’operare del
divenire sociale. Parimenti, nessuno nasce razionale. È per questa ragione che certi
autori si opposero fortemente a un tema cristiano molto caro al cristianesimo: la
cosiddetta tradizione (nel senso letterale di “trasmissione”) adamica. La tradizione
adamica è la dottrina secondo la quale Adamo sarebbe stato perfetto prima di
peccare. Il primo uomo era perfetto e solo il peccato gli fece perdere la perfezione.
Questa tradizione adamica è filosoficamente importante: il diritto naturale cristiano
si concilia assai bene con essa. Adamo, prima del peccato, è l’uomo conforme
all’essenza, è razionale. È il peccato, e cioè le avventure dell’esistenza, che gli fa
perdere l’essenza, ossia la sua perfezione originaria. Tutto ciò è conforme alla
dottrina classica del diritto naturale. Così come nessuno nasce sociale, nessuno nasce
razionale. Essere razionali è sullo stesso piano dell’essere sociali, si tratta di un
divenire. Il problema dell’etica sarà quindi – forse – come agire affinché l’uomo
diventi ragionevole, ma certamente non sarà quello di come fare affinché una
presunta essenza ragionevole dell’uomo si realizzi. Fra le due possibili prospettive
intercorre una differenza molto grande perché si tratta proprio di direzioni opposte.
La seconda proposizione di Hobbes allora sarà: lo stato di natura è pre – sociale, cioè
l’uomo non nasce sociale, lo diventa. Terza proposizione: se ciò che è primo è lo
stato di natura, o se ciò che è primo è il diritto, è così poiché nello stato di natura
tutto ciò che posso rientra nel mio diritto. Da allora ciò che risulta primo è il diritto.
E da allora il doveri non saranno che delle obbligazioni secondarie tendenti a
limitare i diritti al fine di rendere possibile un divenire sociale dell’uomo. Bisognerà
limitare i diritti affinché l’uomo diventi sociale, ma ciò che precede è il diritto. Il
dovere è relativo al diritto mentre nella teoria classica del diritto naturale troviamo
proprio il contrario di tutto ciò: il diritto era relativo al dovere (ciò che era primo era
l’officium). Quarta proposizione: se il mio diritto è la mia potenza, se i diritti sono
precedenti rispetto ai doveri, se i doveri sono solamente l’operazione con la quale dei
diritti sono portati a limitarsi affinché gli uomini divengano sociali, qualunque tipo
di domanda ulteriore viene messa in parentesi. Perché gli uomini dovrebbero
diventare sociali? V’è un interesse in ciò? Questi sono esempi di domande che non
venivano affatto poste. Dal punto di vista del diritto sociale, aveva parlato Hobbes, e
Spinoza riprenderà tutto ciò, ma dal punto di vista del diritto naturale l’uomo più
razionale del mondo e il pazzo più completo si equivalgono, in senso stretto. Perché
c’è un’uguaglianza assoluta tra il saggio ed il pazzo? È qualcosa di bizzarro, un
mondo molto barocco. Il punto di vista del diritto naturale è: il mio diritto è uguale
alla mia potenza, il pazzo è colui che fa ciò che è in suo potere, esattamente come
l’uomo razionale è colui che si comporta nella medesima maniera, quindi non v’è –
sempre dal punto di vista del diritto naturale – alcuna differenza tra l’uomo
ragionevole e il pazzo. Perché? Perché ciascuno fa tutto ciò che può. L’identità fra
diritto è potenza assicura l’uguaglianza e l’identità di tutti gli esseri sulla scala
quantitativa. Certamente, ci sarà una differenza tra il razionale ed il folle, ma nella
società civile, nello stato sociale, non certo dal punto di vista del diritto naturale.
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Tutti questi nuovi autori sono sul punto di minare, di scalzare il principio della
competenza del saggio o della competenza di qualcuno di superiore. E ciò,
politicamente, è molto importante. Nessuno è competente per me. Ecco la grande
idee che andrà ad animare l’Etica come anti – sistema del giudizio. Nessuno può
essere competente per me. Cosa vuol dire ciò? Bisognerà ricomprendere tutto alla
luce di questa frase. Ci sono delle vendette, c’è anche una scoperta piena di
meraviglia: nessuno sa per me. Cercate di sentire ciò che può esservi di grande in
queste proposizioni. Avete appreso dai manuali che, a partire da un certo momento,
sono comparse delle teorie celebri sotto il nome di contratto sociale. Le teorie del
contratto sociale ci sono state presentate più o meno così: “Alcuni hanno pensato che
l’instaurazione della società non potesse avere che un principio, quello del consenso”.
E ci viene anche detto che tutto ciò è ben oltrepassato per via del fatto che non si ha
consentito ad essere nella società. È questa la domanda più propria? Evidentemente
no. In effetti, tutta questa nuova teoria del diritto naturale (diritto naturale =
potenza; i diritti precedono i doveri) giunge a qualcosa: non c’è nessuna competenza
del saggio, nessuno è competente per me. Allora, se la società si forma, ciò non potrà
accadere, in una maniera o in un’altra, che tramite il consenso di coloro che vi
partecipano, e non perché il saggio può mostrarmi qual è la miglior maniera di
realizzare l’essenza. Ora, evidentemente, la sostituzione di un principio di consenso
al principio di competenza ha, per la sfera politica, una importanza fondamentale.
Nelle posizioni del diritto naturale classico (Cicerone e San Tommaso) abbiamo lo
sviluppo giuridico di una visione morale del mondo, e nell’altro caso, la prospettiva
che ha il suo atto di nascita in Hobbes, troviamo lo sviluppo di una concezione
giuridica dell’etica: gli esseri si definiscono per la loro potenza. Se ho aperto questa
lunga parentesi, è per mostrare che la formula: “Gli esseri si definiscono per la loro
potenza e non per una essenza”, avrà delle conseguenze giuridiche e politiche che già
riusciamo a presentire. Spinoza riprende per intero la concezione del diritto naturale
di Hobbes. Cambierà degli elementi relativamente importanti e non avrà le stesse
vedute politiche di Hobbes. Ma sul tema del diritto naturale dichiara egli stesso di
ritenersi un discepolo di Hobbes. In Hobbes aveva trovato la conferma giuridica di
un’idea che si era formato altrove, un’idea secondo la quale l’essenza delle cose non
era nient’altro che la loro potenza. Ecco cosa lo interessava precipuamente nella
nuova idea di diritto naturale. Devo ancora aggiungere, per essere storicamente
onesto, che sarebbe possibile cercare, già nell’antichità, una corrente – in verità un
poco in ombra – dove si formò una concezione del diritto naturale messo in relazione
con la potenza. Ma questa corrente sarà soffocata. Possiamo trovarne le tracce in
certi sofisti e in certi cinici. Ma la sua esplosione moderna giungerà solo con Hobbes
e Spinoza. Per il momento, ho giusto precisato quel che può voler dire l’esistenza
distinta di un punto di vista quantitativo, ciò significa che le esistenze non si
definiscono per una essenza, ma per una potenza, ed esse hanno più o meno potenza,
e il diritto sarà relativo alla potenza di ciascuna di queste esistenze. Il diritto di
ciascuno sarà la potenza di ciascuno … possedere più o meno potenza. C’è dunque
una scala quantitativa di esseri, dal punto di vista della potenza. Bisognerà ora
passare ad un secondo tema, e cioè la polarità qualitativa dei modi dell’esistenza, e
vedere se uno discende dall’altro. L’insieme ci darà forse un principio di visione
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dell’immanenza più completa. Perché? Vedete bene sino a che punto questo mondo
dell’immanenza è differente dal mondo dei valori morali come precedentemente li ho
definiti (i valori morali sono proprio questa specie di tensione tra l’essenza da
realizzare e la realizzazione dell’essenza). Posso quindi affermare che il valore è
esattamente l’essenza presa come fine. Questo è il mondo morale. Il perseguimento
di un mondo morale – e qui è Kant a parlare – è dove una supposta essenza umana
viene presa come fine, in una specie di atto puro. L’Etica non è niente di tutto ciò,
siamo in presenza di due mondi completamente differenti. Cosa poteva dire Spinoza
a chi pensava ad un mondo morale? Niente. Ora si tratta di mostrare tutto ciò in
concreto. In una morale, troviamo sempre la seguente operazione: si fa qualcosa, si
dice qualche cosa, lo si giudica. Questo è il sistema del giudizio. La morale è il
sistema del giudizio; anzi, del doppio giudizio: giudicate voi stessi e venite giudicati.
Coloro che hanno il gusto della morale sono coloro che hanno il gusto del giudizio.
Giudicare implica sempre un’istanza superiore all’essere, implica sempre qualcosa di
superiore a un’ontologia. Ciò implica sempre l’uno piuttosto che l’essere, il Bene che
fa essere e che fa agire, il Bene superiore all’essere, l’uno. Il valore esprime questa
istanza superiore all’essere. Dunque i valori sono l’elemento fondamentale del
sistema del giudizio. Quindi dovete sempre riferirvi ad un’istanza superiore all’essere
per poter giudicare. In un’etica, tutto è completamente differente: lì voi non
giudicate. In una certa maniera, dite: qualunque cosa facciate non avrete mai ciò che
meritate. Qualcuno dice o fa qualcosa, ma non rapporteremo ciò a dei valori. Vi state
chiedendo come ciò sia possibile? In altre parole, rapportate la cosa o il detto ai modi
di esistenza che implica, che sviluppa in sé stesso. Come bisogna essere per poter
predicare ciò? Quale maniera di essere ciò implica? Cercate i modi di esistenza
sviluppati, e non i valori trascendenti. Ecco l’operazione dell’immanenza … Il punto
di vista di un’etica è: di cosa sei capace? Che cosa puoi? Ritorna questa specie di
grido di Spinoza: che cosa può un corpo? Non si sa mai in anticipo che cosa può un
corpo. Non si sa mai come si organizzano e come sono sviluppati i modi d’esistenza
in qualcuno. Spinoza spiega assai bene che il nostro proprio corpo non è mai un
corpo qualunque, ma è ciò che noi possiamo, proprio noi. La mia ipotesi consiste nel
sostenere che il discorso dell’etica ha due caratteri: ci dice che gli enti possiedono
una distinzione quantitativa secondo il più ed il meno e, d’altra parte, ci dice anche
che i modi di esistenza hanno una polarità qualitativa … all’ingrosso, ci sono due
modi di esistenza. Quali? Quando ci viene suggerito che, tra me e voi, tra due
persone, tra una persona ed un animale, tra un animale ed una cosa, eticamente –
cioè ontologicamente – non c’è che una distinzione quantitativa, di quale quantità si
tratta? Quando ci viene suggerito che ciò che costituisce la nostra più profonda
singolarità è qualcosa di quantitativo, cosa può significare tutto ciò? Fichte e
Schelling hanno sviluppato una teoria dell’individuazione molto interessante che
viene riassunta sotto il nome di individuazione quantitativa. Se le cose vengono
individuate quantitativamente, tutto è ancora un po’ vago. Quale quantità? Si tratta
di definire le persone, le cose, gli animali quant’altro secondo ciò che ciascuno può.
Le persone, le cose, gli animali si distinguono per ciò che possono, o meglio per il
fatto di non potere le stesse cose. Che cosa posso? Mai un moralista definirebbe
l’uomo secondo ciò che può, un moralista definisce l’uomo per ciò che è, per ciò che è
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cosa devi in virtù della tua essenza …”, si tratta bensì di ciò che puoi, tu, in virtù
della tua potenza. Ecco dunque che la potenza costituisce la scala quantitativa degli
esseri. È la quantità di potenza che distingue un esistente da un altro esistente.
Spinoza afferma assai di sovente che l’essenza è la potenza. Abbiamo ormai compreso
quale fosse il “colpo di stato” filosofico che tentò di realizzare. 3. È curioso che da un
certo punto in poi la filosofia, fino alla fine del XVII secolo, finalmente ci parli tutto
il tempo di Dio. E dopo tutto, Spinoza, ebreo scomunicato, non è l’ultimo a parlarci
di Dio. Il primo libro della sua grande opera, l’Etica, si intitola “Dio”. In tutti,
Descartes, Malebranche, Leibniz, si ha l’impressione che il confine tra la teologia e la
filosofia sia estremamente vago. Perché la filosofia si è così tanto compromessa con
Dio? E perché lo ha fatto fino all’impulso rivoluzionario dei filosofi del XVIII
secolo? Si è trattato di un compromesso o meglio di qualcosa di un po’ più puro? Si
potrebbe dire che il pensiero, fino alla fine del XVII secolo, dovette tenere gran
conto delle esigenze della Chiesa, e che perciò fu forzato a trattare molti temi
religiosi. Ma ci rendiamo conto che questa è una spiegazione un po’ troppo
semplicistica; si potrebbe ugualmente dire che, fino a quest’epoca, il pensiero ebbe la
sua sorte in qualche misura legata a quella del sentimento religioso. Mi concedo
un’analogia con la pittura proprio perché è indubbio che essa sia pervasa dalle
raffigurazioni di Dio. La mia domanda è: è sufficiente dire che in quest’epoca il
compromesso era inevitabile? Ci sono due risposte possibili. La prima è che sì, si
trattava di un compromesso inevitabile per quel tempo (una risposta che rinvia alle
condizioni dell’arte di allora). Oppure si potrebbe dire, un po’ più positivamente, che
è perché c’è un sentimento religioso al quale il pittore, e molto di più la sua pittura,
non possono sfuggire. Nemmeno il filosofo e la filosofia possono sfuggirgli. Tutto
ciò è sufficiente? Non potremmo fare altre ipotesi, sapendo che la pittura di
quell’epoca aveva tanto bisogno di Dio che il divino, lungi dall’essere una costrizione
per il pittore, è il luogo della sua massima emancipazione. L’artista, in altri termini,
“con” Dio può fare non importa che cosa, può fare ciò che non potrebbe fare con
l’umanità, con le creature. Tutto ciò è così manifesto che Dio viene investito
direttamente dalla pittura, da una specie di flusso di pittura, e che, a questo livello, la
pittura trova una specie di libertà per il suo compito, una libertà che essa non aveva
mai trovato altrimenti. Non è una questione di pittori pii e di pittori empi: la
maniera con cui la pittura investe il divino è tale da non essere niente se non
modalità pittorica, e dove la pittura trova nient’altro che le condizioni della sua
emancipazione radicale. Porto alcuni esempi: El Greco, ad esempio, non poteva
ottenere la sua creazione che a partire dalle figure del cristianesimo. È vero che, a un
certo livello, erano delle costrizioni che si esercitavano su di lui, ma è altrettanto
vero che ad un altro livello l’artista è colui che trasforma gli ostacoli in mezzi
(questa sarebbe una buona definizione di artista, definizione presa da quella
bergsoniana del vivente come ciò che trasforma gli ostacoli in mezzi, appunto).
Certamente ci furono delle costrizioni della Chiesa che si esercitarono sul pittore, ma
vi fu anche la trasformazione delle costrizioni in mezzi di creazione. Quei pittori si
servirono di Dio per ottenere una liberazione delle forme, per spingere le forme sino
ad un punto dove le forme non hanno più niente a che vedere con un’illustrazione.
Le forme si liberano delle catene. Si lanciano in una specie di Sabba, una danza assai
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pura, la linee e i colori perdono ogni necessità di essere verosimili, di essere esatti, di
assomigliare a qualche cosa. Ecco il grande affrancamento delle linee e dei colori che
viene fatto sotto l’apparenza della subordinazione della pittura alle esigenze del
cristianesimo. Altro esempio: Una creazione del mondo. L’Antico Testamento servì
ai pittori per una specie di liberazione dei movimenti, delle forme, delle linee e dei
colori; tanto che, in un certo senso, l’ateismo non è mai stato qualcosa di esterno alla
religione: l’ateismo è l’artistica potenza che lavora la religione. Con Dio tutto è
permesso. Ho la netta sensazione che con la filosofia sia stata esattamente la stessa
cosa, e che se i filosofi ci hanno parlato così tanto di Dio – e potevano benissimo
essere cristiani o credenti –, ciò non è stato senza un’intensa “ironia”. Non era una
“ironia” dell’incredulità, ma era una gioia circa il lavoro che essi erano sul punto di
fare. Così come dicevo che Dio e Cristo sono stati per la pittura una straordinaria
occasione di liberare le linee, i colori ed i movimenti dalle costrizioni della
rassomiglianza, così per la filosofia Dio e il tema di Dio sono stati l’insostituibile
occasione di liberare ciò che è l’oggetto della creazione in filosofia, cioè i concetti,
dalle costrizioni che erano state loro imposte … e cioè la semplice rappresentazione
delle cose. È al livello di Dio che il concetto è liberato perché non ha più per scopo il
rappresentare qualcosa; diviene in quel momento il segno di una presenza. Per
parlare analogicamente: esso prende delle linee, dei colori, dei movimenti che non
avrebbe mai avuto senza questo movimento fatto a partire da Dio. È vero che i
filosofi subirono le costrizioni della teologia, ma in delle condizioni tali che, di
questa costrizione, essi fecero un mezzo di creazione fantastica, una liberazione del
concetto senza che nessuno sospettasse niente. È forse questo il caso di Spinoza?. Sin
dal principio, Spinoza si mise nelle condizioni nelle quali ciò che diciamo non aveva
più nulla da rappresentare; ed ecco che ciò che Spinoza chiamerà Dio, nel primo libro
dell’Etica, sarà la cosa più strana del mondo. Sarà il concetto in quanto riunisce
l’insieme di tutte queste possibilità … Attraverso il concetto filosofico di Dio, si fa –
e non lo si poteva fare se non a questo livello – la più strana creazione della filosofia
come sistema di concetti. Ciò che i pittori, ciò che i filosofi hanno fatto subire a Dio
rappresenta, o la pittura come passione, o la filosofia come passione. I pittori fanno
subire al corpo di Cristo una nuova passione: lo manipolano, lo contorcono … La
prospettiva è liberata da ogni costrizione a presentare alcunché, ed è la stessa cosa
per i filosofi. Prendo l’esempio di Leibniz. Leibniz ricomincia la creazione del mondo.
Egli si domanda come mai Dio crea il mondo; riprende il problema classico: qual è il
ruolo dell’intelletto e della volontà divini nella creazione del mondo? Supponiamo
che Leibniz ci racconti così: Dio ha un intelletto, chiaramente un intelletto infinito.
Esso non assomiglia al nostro. La parola “intelletto” sarebbe essa stessa equivoca.
Non avrebbe, a rigore, senso poiché, rispetto a noi, l’intelletto infinito non è
assolutamente la stessa cosa che il nostro intelletto, che è un intelletto finito.
Nell’intelletto infinito, cosa avviene? Prima che Dio crei il mondo, c’è un intelletto,
ma non c’è null’altro, il mondo non c’è. No, dice Leibniz, ci sono bensì delle
possibilità. Ci sono delle possibilità nell’intelletto di Dio, e tutte queste possibilità
tendono all’esistenza. Ecco che l’essenza è, per Leibniz, una tendenza all’esistenza,
una possibilità che tende all’esistenza. Tutte queste possibilità possiedono da subito
la loro quantità di perfezione. L’intelletto di Dio diventa come una specie di sviluppo
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della sostanza, che possiede tutti gli attributi, essi esistono negli attributi della
sostanza. Essi sono “presi” negli attributi. Tutte le conseguenze appaiono
immediatamente. Non vi è alcuna gerarchia fra gli attributi di Dio, della sostanza.
Perché? Se la sostanza possiede ugualmente tutti gli attributi, non c’è gerarchia tra
gli attributi, uno non vale più di un altro. In altri termini, se il pensiero è un
attributo di Dio e se l’estensione è un attributo di Dio o della sostanza, tra il
pensiero e l’estensione non vi sarà alcuna gerarchia. Tutti gli attributi avranno lo
stesso valore in quanto sono attributi della sostanza (siamo ancora nell’astratto).
Questa è la figura speculativa dell’immanenza. Questo è ciò che Spinoza chiamerà
Dio. Chiama così Dio perché è l’assolutamente infinito. Cosa rappresenta ciò? È
qualcosa di curioso. Si può vivere in un mondo così fatto? Ne traggo due
conseguenze. Prima conseguenza: Spinoza osò fare ciò che molti avevano avuto
voglia di fare, ossia liberare completamente la causa immanente da ogni
subordinazione ad altri processi di causalità. Non vi è che una causa, ed essa è
immanente. Ciò ha un’influenza sulla pratica. Spinoza non intitola il suo libro
Ontologia, è troppo scaltro in tutto, egli lo intitola Etica. Questa è una maniera di
dire che, quale che sia l’importanza delle mie proposizioni speculative, voi non
potrete giudicarle che al livello dell’etica che esse sviluppano o implicano. Egli libera
completamente la causa immanente con la quale i giudei, i cristiani, gli eretici
avevano giocato non poco fino ad allora, ma all’interno di sequenze molto precise di
concetti. Spinoza la strappa ad ogni sequenza e fa un “colpo di stato” al livello dei
concetti. Non c’è più sequenza. Avendo estratto la causalità immanente dalla
sequenza delle grandi cause, delle cause prime, avendo appiattito tutto su di una
sostanza assolutamente infinita che comprende ogni cosa come suoi modi, che
possiede tutti gli attributi, egli ha sostituito alla sequenza un vero e proprio piano di
immanenza. Si tratta di una rivoluzione concettuale di eccezionale portata: in
Spinoza tutto si muove come su di un piano fisso. Uno straordinario piano fisso che
non sarà del tutto un piano di immobilità poiché tutte le cose si muoveranno – e per
Spinoza non conta che il movimento delle cose – su questo piano fisso. Egli inventa
un piano fisso. La proposizione speculativa di Spinoza è questa: togliere il concetto
dallo stato delle variazioni di sequenze e proiettare tutto su un piano fisso che è
quello dell’immanenza. Ciò implica una tecnica straordinaria. Vivere su di un piano
fisso comporta anche un certo stile di vita. Non vivo più secondo delle sequenze
variabili. Allora, che cosa sarà vivere su un piano fisso? Sarà Spinoza che mola le sue
lenti, che ha abbandonato tutto, la sua eredità, la sua religione, ogni forma di
realizzazione sociale. Non ha fatto nulla e prima ancora di aver scritto qualcosa lo si
ingiuria, lo si denuncia. Spinoza è l’ateo, è l’abominevole. Praticamente non può
pubblicare. Scrive delle lettere. Egli non voleva essere un professore. Nel Trattato
Politico concepisce l’essere professori come un impiego di beneficenza: addirittura,
bisognerebbe pagare per insegnare. I professori insegnerebbero a rischio e pericolo
della loro reputazione e delle loro fortuna. Si avrebbero così dei veri professori
pubblici. Spinoza era in rapporti con un gruppo di corrispondenti, inviava loro
l’Etica man mano che la scriveva, e costoro tentavano di spiegarsi i testi di Spinoza,
perciò scrivevano Spinoza, il quale rispondeva. Erano persone assai intelligenti.
Questa corrispondenza fu ed è essenziale. Egli ha il suo piccolo gruppo di amici.
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