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Allora dissi agli ufficiali presenti che quella era mia sorella e chiesi loro di
celebrare i riti funebri secondo la regola militare, e tornai a combattere
perché c’erano pochi soldati sul campo. Infatti l’incidente mi incoraggiò
ancora di più a combattere sino alla fine. E quel giorno conquistammo
tutta la zona (ib.).
L’eroe del film è rappresentato come un asceta, non attraverso l’uso del
termine, ma attraverso il comportamento. Benché sia in età da matrimo-
nio, non vi sono tracce di una fidanzata (…). Non pensa ad avere dei fi-
gli. Vivendo nel gruppo delle black tigers sembra essersi dedicato solo al
sacro scopo [della liberazione del Tamil Eelam].
il modello ideale della donna della guerriglia è per le LTTE quello che ri-
manda a un’immagine di purezza e verginità (…). Le donne sono de-
scritte come pure, virtuose. Si suppone che a dare loro forza siano la ca-
stità e il fatto che hanno sacrificato la loro vita sociale (cit. in Schrijvers
1999, p. 316).
Puoi essere un combattente che hai perduto tuo fratello, provi lo stesso
dolore [di un civile che ha perduto il fratello], ma non lo dimostri perché
sei un combattente. In televisione abbiamo visto che durante un’esercita-
zione è morta una ragazza [una combattente], molti in divisa piangevano,
ma scendevano [soltanto] le lacrime, non lo dimostravano in quel modo
[come i civili].
“Avevo due fratelli” – dice Jesse – “Entrambi sono morti nel movimento.
Mio fratello minore è morto tre giorni fa”. Mi porge un ritaglio di gior-
nale, un necrologio. La sua calma è simile a quella mostrata dai miei pa-
renti maschi di fronte alla morte. “Mi dispiace” – dico – “Non sei addo-
lorato?”. “No. Il mio cuore è chiuso, bloccato come questo fucile”.
Come si evince dalle ultime frasi del colloquio, non solo a quella
dei commilitoni, ma anche alla propria morte il combattente viene ad-
destrato a guardare con distacco. Racconta la madre di una
Maaveerar: “Quando una volta venne a casa [Darshini] disse: ‘Io va-
do alla guerra. Se muoio non devi piangere per me. Devi mettermi
una ghirlanda e mi farai felice’”.
Benché risulti formulata in modo coerente rispetto al tono emoti-
vo previsto per la relazione con i genitori, la richiesta di Darshini alla
madre – “non devi piangere per me” – suona in un certo senso para-
dossale. Il pianto delle madri in occasione delle cerimonie del 27 no-
vembre dedicate ai Maaveerar, infatti, non rappresenta soltanto una
manifestazione socialmente accettata di espressione del dolore di
fronte alla morte: esso è uno dei tasselli indispensabili della composi-
zione del rituale commemorativo. Le donne affrante riverse sulle tom-
be dei figli sono le protagoniste indiscusse delle immagini ufficiali del-
le celebrazioni organizzate dalle LTTE, ed è proprio grazie ai video e
alle fotografie delle madri in lacrime, diffuse anche attraverso inter-
net, che le Tigri possono mostrare al mondo le sofferenze inflitte ai ci-
vili dall’esercito governativo.
L’oppari è una performance delle emozioni delle donne. A dire il vero du-
rante il funerale alcuni parenti uomini esprimono apertamente la loro sof-
ferenza, ma in interviste effettuate successivamente rilevo che queste ma-
nifestazioni sono rifiutate e disprezzate in quanto esibizioni di “debolez-
za” pubbliche e inappropriate (…). Il figlio del defunto mi spiega: “Al fu-
nerale devo essere forte. Un uomo non deve mostrare emozioni o tristez-
za, neppure al funerale del proprio padre. Le donne piangono ai funera-
li perché sono deboli. Ma un uomo non deve mostrare debolezza in pub-
blico”. Poi ammette: “Quando sono solo, allora forse posso esprimere la
mia tristezza e piangere” (Greene 1999).
Tu vivi vicina alla morte. Può arrivare oggi o domani. Davvero non hai paura?
Se avessi paura, avrei forse abbracciato la lotta? Io sono esattamente co-
me un uomo. Comunque siano i combattenti uomini (annaankal, lett.
“fratelli maggiori”), noi siamo come loro. Se fossimo a casa, vivremmo
rinchiuse. Ma ora noi siamo come gli uomini, così non abbiamo paura
(Trawick 1997, p. 171).
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