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PAULUS online – International magazine on Saint Paul / Anno II n.

20 - Maggio 2010

L’Apostolo afferma di “completare in sé le sofferenze di Gesù”. Come?

PAOLO E LA SINDONE
di Nicola Summo

Possediamo nel Lenzuolo sindonico un’impressionante immagine di ciò che Cristo ha subito nel suo
corpo per la salvezza del mondo. Ma dalle Lettere paoline sappiamo che anche l’Apostolo è stato
associato alle sofferenze del suo Signore. Basti una breve rassegna di citazioni. Ai cristiani di
Corinto san Paolo scrive: «Io ritenni di non sapere altro se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io
venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione» (1Cor 2,1-3). Agli stessi
fedeli: «Ritengo che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte»
(1Cor 4,9). E ancora: «...la tribolazione che c’è capitata in Asia ci ha colpito oltre misura, di là delle
nostre forze, sì da dubitare anche della vita. Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di
morte» (2Cor 1,8-9). Più oltre: «Siamo tribolati da ogni parte, perseguitati, colpiti, ma non uccisi,
portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù» (2Cor 4,8-10). «Da quando siamo
giunti in Macedonia, la nostra carne non ha avuto sollievo alcuno, ma da ogni parte siamo tribolati»
(2Cor 7,5). Di più ancora, nella lunga elencazione delle sofferenze patite in 2Corinzi 11,23-28:
«Sono ministri di Cristo [i miei persecutori]? io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto
di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte». Infine,
l’identificazione con il Crocifisso stesso, scrivendo ai Galati: «Sono stato crocifisso con Cristo»
(Gal 2,20).

Corpo fisico e corpo mistico


In modo sorprendente, nella Lettera ai Colossesi, Paolo afferma: «Sono lieto delle sofferenze che
sopporto per voi, e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del

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suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). La vocazione stessa di san Paolo comprende, quindi, una
parte di tribolazioni, come d’altra parte aveva detto il Signore stesso ad Anania: «Egli è per me uno
strumento eletto [...] e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,15-16). Paolo
avverte che quel Cristo dal volto
sfigurato dalla sofferenza è così
perché porta su di sé la sofferenza del
mondo. E non può, allora, che fare
propria la sua passione in un
orientamento di amore e di offerta
generosa. La passione di Cristo,
applicata alla vita di ciascun credente,
d’altra parte, implica che le sofferenze
– patrimonio di ogni uomo, credente o
no – vengano vissute non come una
maledizione da consumarsi nella
propria solitudine esistenziale, ma
accettate per amore, condivise nella
comunione con il proprio Signore.
Talvolta addirittura accolte con gioia.
Lo conferma anche san Pietro, che
invita tutti i cristiani a rallegrarsi
quando hanno parte alle sofferenze di
Cristo (cfr. 1Pt 3,13). Tutto questo
acquista senso e produce fecondità
nella prospettiva della risurrezione:
«Certa è questa parola: se moriamo
con lui, vivremo anche con lui» (2Tm
2,11). La comunione nelle sofferenze
è un anticipo della comunione nella
vita piena. Così Paolo, tanto
nell’esempio della sua testimonianza,
quanto nell’elaborazione del suo
pensiero (che da questa esperienza
nasce e su di essa si fonda), ci
dimostra che il cristianesimo è
possibile solo nella misura in cui si
attinge al mistero della Pasqua. È in
questo evento, infatti, che la ragione e
la fede possono conoscere Gesù Cristo nella sua interezza divino-umana. Paolo non si attarda a
darci il ritratto fisico di Gesù – egli, d’altra parte, non ha conosciuto Cristo “secondo la carne”
(2Cor 5,16) – né a redigere una cronaca dei fatti. Gli preme scendere nelle profondità del mistero di
un Dio crocifisso, reso “spettacolo” dell’amore agli occhi del mondo e davanti agli angeli (cfr. 1Cor
4,9). Mistero dell’amore che trionfa sulla morte. Mistero di quel corpo crocifisso e risorto, ora vivo
e reale nell’umanità redenta, nel corpo mistico che è la Chiesa, corpo che soffre e continuamente
risorge. Per mezzo dello Spirito Santo (Rm 1,4; 8,9), egli unisce intimamente a sé i suoi fedeli,
generando una creatura nuova (cfr. Gal 6,14-15), un corpo nuovo. Un corpo mistico: con
quest’espressione intendiamo l’unione strettissima tra Cristo e i fedeli sul piano “verticale”, di tutti i
fedeli tra loro sul piano “orizzontale”. In questo corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti, che
attraverso i sacramenti si uniscono in modo reale al Crocifisso risorto. Per questo la Chiesa, nata dal
costato di Cristo, è mandata ad annunciare il suo Signore crocifisso. Infatti, «senza effusione del
sangue, non c’è remissione di peccato» (Eb 9,22): solo nelle sue piaghe gloriose siamo guariti,

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redenti, salvati.

La Sindone, duplice specchio


Perché Gesù ci ha lasciato la sua
immagine sulla Sindone? Il Crocifisso, lì
impresso con orme di sangue, testimonia
che «Cristo è lo stesso, ieri, oggi e nei
secoli» (Eb 13,8). Sacrificato sulla croce,
«Gesù resta per sempre e possiede un
sacerdozio che non tramonta mai» (7,24)
quale «mediatore di una nuova
Alleanza» (8,6) che ci procura «una
redenzione eterna» (9,11). Cristo
continua quest’oggi il suo ministero di
redenzione e la Sindone ne è
testimonianza. Lo “spettacolo” che essa
ci offre è giudicato dalla sapienza del
mondo come superstizione o
mistificazione (cfr. 1Cor 1,22-24), ma è
salvezza per chi è chiamato a
condividere la sua sofferenza in questo
Corpo mistico. Colui che soffre è il
Cristo, reso perfetto dalla sua esperienza
di sofferenza (Eb 5,8-9), dallo stato
d’animo con cui l’ha affrontata e accolta:
«Egli offrì preghiere e suppliche con
forti grida e lacrime a colui che poteva
liberarlo da morte e fu esaudito per la sua
pietà». Non è la sofferenza in se stessa a
produrre qualcosa di buono né la si può
umanamente desiderare; al contrario, la sofferenza è entrata nel mondo a causa del peccato (Sap
2,24). Ma proprio per questo la redenzione dal peccato non può eludere il dramma del dolore: la
sofferenza – vissuta dal Figlio di Dio in completa obbedienza, abbandono fiducioso e continua
preghiera al proprio Padre – non è più un’assurdità o uno scandalo metafisico, ma un misterioso
strumento di grazia e di riscatto. Perciò Giovanni Paolo II, contemplando a Torino questa reliquia
benedetta il 24 maggio 1998, poté affermare che «la Sindone è specchio del Vangelo» e allo stesso
tempo che in essa «si riflette l’immagine della sofferenza umana».
Cirillo di Gerusalemme così esortava quanti si stavano accostando alla fede cristiana: «Noi
dobbiamo impararlo: tutto ciò che il Cristo ha subito, Lui l’ha sopportato per noi e per la nostra
salvezza, realmente e non in apparenza; e noi allora diventiamo partecipi delle sue sofferenze»
(Catechesi Mistagogiche II, 7). E Paolo, prima di lui: «Se, infatti, siamo stati completamente uniti a
lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione» (Rm 6,5). Il corpus
paulinum è talmente pervaso e unificato dall’esperienza della morte/risurrezione, che costituisce
un’unica fonte vitale con la parola di Cristo per l’oggi della Chiesa. L’immagine sindonica e la
narrazione evangelica e paolina ci rimandano all’identica e sobria verità, quasi che l’Apostolo – e
con lui ogni cristiano che «perde la vita a causa del Vangelo» (Mc 8,35) – fosse rispecchiato in
questo lenzuolo. Lo sguardo credente contempla nella Sindone di Torino la memoria e l’immagine
viva del volto crocifisso e glorioso di Cristo. E in essa si riconosce, in essa scorge la sua identità più
profonda, a cui lo chiama – da sempre – il suo battesimo.

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