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Francesco Lamendola OGNI UOMO UN VIANDANTE CON LA DOPPIA CITTADINANZA

Fin da quando viene al mondo, ogni essere umano si trova a vivere contemporaneamente su due distinti piani di realt: quello del relativo e quello dell'assoluto. possibile che molti di noi non se ne rendano neppure conto e che ad altri, pur avendo passato una intera vita fra i libri delle pi diverse specializzazioni, sia semplicemente sfuggito un simile "dettaglio", dal quale dipende - n pi n meno - la nostra possibilit di essere delle persone realizzate e, forse, felici. Ma questa una legge che vale per tutti gli esseri umani, buoni e cattivi, sapienti e ignoranti: l'unica cosa che li differenzia il grado di consapevolezza che possiedono nei confronti di essa. Si tratta di una legge paradossale. In sintesi, e per andare dritti all'essenziale della questione, ciascun essere umano al tempo stesso cittadino di questo mondo e cittadino, o aspirante cittadino, o potenziale cittadino, dell'altro mondo: dell'assoluto, dell'eterno, della dimora dell'Essere. Una condizione paradossale, che fa dell'uomo una creatura anfibia: con branchie per respirare nell'acqua dello stagno terrestre, ma anche con polmoni, o almeno con embrioni di polmoni, atti respirare l'aria libera del cielo sopra la terra. Con i piedi piantati quaggi, ma con la nostalgia delle altezze nello sguardo. Essere consapevoli della nostra natura anfibia e della nostra destinazione finale , dicevamo, l'elemento che fa la differenza tra vita autentica e vita inautentica, tra felicit e infelicit. Quest'ultima affermazione pu suonare particolarmente impegnativa, per non dire oscura. Qualcuno potrebbe chiedere: che c'entra la felicit con la consapevolezza della doppia cittadinanza? Non vero, al contrario - anche ammettendo le premesse - che si vive una vita pi felice quanto pi si ignorano le laceranti contraddizioni che l'attraversano? E non abbiamo appena detto che la doppia cittadinanza dell'essere umano lo pone in una condizione paradossale? Ma facciamo un passo alla volta. Secondo Aristotele, ogni attivit umana fatta in vista di un fine che appare buono e desiderabile, per cui il fine e il bene coincidono. Le attivit umane hanno fini molteplici, ma con un comune denominatore: che tutte - alcune direttamente, altre indirettamente tendono al bene. Per esempio si desidera la ricchezza non come bene in s, ma come mezzo di benessere; mentre il piacere desiderato in s stesso. Dunque ciascun bene parziale non che una via per raggiungere il bene sommo: l'unico, cio, che non viene ricercato in vista di un bene ulteriore, ma che, al contrario, il termine ultimo di ogni nostro desiderio. Per Aristotele, il bene sommo la felicit, che consiste nella realizzazione della natura propria dell'essere umano. E la natura propria dell'essere umano vivere la propria vita secondo ragione: cos come la natura propria della pianta la vita vegetativa e la natura propria dell'animale quella sensitiva. Ciascuno felice realizzando al meglio la propria natura: l'artigiano lo costruendo oggetti perfetti; l'architetto, realizzando edifici belli e solidi; l'uomo, in generale, felice se vive secondo ragione, che l'elemento caratteristico della sua natura. Se vi riesce, egli realizza la virt: perch la virt l'accordo della vita umana con la natura razionale che ne l'essenza specifica. Pi precisamente, esistono diversi gradi di virt e quindi diversi gradi di felicit: la felicit pi alta consiste nel conseguimento della virt pi alta, che il possesso delle virt dianoetiche (o intellettive), che sono quelle, appunto, proprie dell'anima razionale: scienza, arte, saggezza, intelligenza, sapienza. Per limitarci alla saggezza e alla sapienza (che per Platone coincidevano), per Aristotele la saggezza la capacit, guidata dalla ragione, di fare un uso idoneo dei beni umani;
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mentre la sapienza la capacit di avere scienza e intelligenza delle cose pi alte e divine, dunque concerne ci che extra-umano, universale. Nell' Etica Nicomachea, infatti (X, 7, 1177 b), egli afferma che "L'uomo non deve, come alcuni dicono, conoscere in quanto uomo le cose umane, in quanto mortale le cose mortali, ma deve rendersi, per quanto possibile, immortale e far di tutto per vivere secondo quanto c' in lui di pi alto: se pure ci poco di quantit, per potenza e valore supera tutte le altre cose." Ora possiamo tornare al discorso della doppia cittadinanza. L'essere umano, la persona, unico tra gli altri esseri viventi, non ha una natura data una volta per tutte, come lo sono la natura vegetativa per la pianta e quella sensitiva per l'animale; egli pu andare oltre i suoi stessi limiti fisici e puntare alle potenzialit pi alte della sua anima, realizzando la virt nel possesso della sapienza. Oppure pu anche non farlo n darsene pensiero: e pu limitarsi a vivacchiare al di sotto, anche molto al di sotto, delle sue potenzialit spirituali, e trascinando un'esistenza simile a quella del bruto. Ma se far quest'ultima scelta, tradir la sua natura: diciamo meglio: tradir le possibilit pi alte della sua natura; dunque, tradir il suo fine. L'uomo soltanto, infatti, possiede - propriamente parlando - un fine; gli altri esseri hanno una natura pre-definita, e la loro esistenza coincide con la loro essenza, senza residui. Un cipresso un cipresso e una tigre una tigre: nel momento in cui il seme di cipresso si schiude e il cucciolo di tigre esce dal grembo materno, la loro natura realizzata. Anche il loro fine realizzato, se vogliamo parlare di fini; ma ci sembra che il concetto di fine implichi quello di movimento dello spirito, pertanto di scelta e, prima ancora, di libert. Per essere tigre, la tigre non deve compiere alcun movimento interiore; mentre l'uomo, per essere tale, deve compiere un movimento ben preciso: deve trascendere la sua anima vegetativa e sensitiva e deve proiettarsi verso la vita razionale, ossia verso la virt. La tigre non pu essere virtuosa o viziosa (e nemmeno il cipresso); l'uomo s: perch l'uomo ha la facolt di scegliere quello che vuole essere. Deve, cio, scegliersi: e, per scegliersi, deve prima riconoscersi. Un animale o una pianta non si devono riconoscere, perch sono quello che sono e non potrebbero essere diversamente da quello che sono. L'uomo pu essere virtuoso, realizzando le sue pi alte potenzialit razionali e spirituali; e, sforzandosi di esserlo sempre pi, finir per trascendere - parzialmente - la sua stessa natura. Diverr simile a un Dio. Il santo, l'asceta sono gi cittadini dell'altro mondo, mentre il loro corpo ancora quaggi. Ma, pur essendo quaggi, il loro stesso corpo comincia a emanciparsi dalla tirannia della materia: pu vivere indefinitamente senza mangiare; pu sospendere indefinitamente il respiro e il battito cardiaco; pu lievitare nell'aria, senza peso; pu essere presente contemporaneamente in luoghi diversi (mediante la separazione del corpo astrale); pu conoscere il passato e il futuro; pu leggere nel cuore e nella mente degli altri esseri umani; pu ammansire le bestie feroci emanando onde di benevolenza, al punto che orsi e pantere vengono ad accucciarsi ai suoi piedi come cani e gatti assolutamente pacifici. Certo, sono casi rari, eccezionali; ma esistono. Si farebbe male a leggere le vite dei santi, specialmente del Medioevo, partendo dal pregiudizio che certi miracoli sono divenuti tali solo grazie alla credulit dei contemporanei. No, quei fenomeni sono possibili: centinaia di persone potevano vedere san Giuseppe da Copertino quando, assorto in preghiera, si alzava letteralmente da terra. San Giovanni Bosco poteva far fiorire un giardino in pieno inverno, e Sant'Antonio da Padova celebrare messa in un luogo diverso da quello in cui gli altri frati lo vedevano perfettamente. Anche fuori della cultura cristiana si registrano tali fenomeni: nell'induismo, nel buddismo, nelle culture mesoamericane, fra i popoli di religione sciamanica dell'Asia centro-settentrionale, dell'Africa, dell'Oceania. Vi sono poi dei teologi, sulla scia di Rudolf Bultmann, il "demitizzatore", e, pi recentemente, di Hans Kng, il "razionalista", che propongono di spogliare il Nuovo Testamento del miracoloso. Certo, lo si pu fare. Si pu benissimo pensare che Ges non camminasse veramente sulle acque, n che potesse sfamare cinquemila persone con pochi pani e qualche pesce.
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Ma il fatto che tali fenomeni esistono: li abbiamo visti, anche nell'incredula modernit. In India, ancor oggi, sono quasi comuni: e lo erano anche in Occidente, prima dell'avvento del paradigma scientista del XVII secolo, che ha appannato la nostra capacit di vedere e di giudicare serenamente. Oggi siamo ostacolati da un pregiudizio materialistico, per cui non vogliamo vedere neanche quel che abbiamo sotto gli occhi, se smentisce i dogmi dello scientismo imperante; ci vergogniamo, abbiamo paura di fare una figura ridicola, ci lasciamo ricattare dal terrorismo ideologico degli zelanti poliziotti dell'Inquisizione scientista. La nostra timidezza li ha resi sempre pi baldanzosi, sempre pi petulanti, sempre pi aggressivi. Se siamo cittadini di due mondi, vuol dire che dobbiamo essere in grado di riconoscere la nostra patria vera e di formulare una gerarchia di priorit, nella nostra vita, che sia conforme a tale riconoscimento. Vuol dire anche che dobbiamo giungere a un modus vivendi con la nostra patria seconda, tale da permetterci di vivere una vita piena e soddisfacente, che non veda sacrificato nulla di ci che, nella nostra natura, essenziale, ma anzi che lo potenzi quanto pi possibile. Infatti, una legge fondamentale della filosofia - e anche della vita - ci indica chiaramente che il superiore comprende l'inferiore, e che il pi perfetto comprende il meno perfetto. Pertanto, riconoscere la nostra vera patria nella dimora dell'Essere, che non quaggi, non significa relegarsi, in questa vita, nella condizione di esuli in patria; e neanche permettere che qualcuno abbia il diritto di accusarci di diserzione dai doveri di questo mondo, come facevano i pagani del tardo Impero Romano con i cristiani che, agostinianamente, aspiravano al reintegro nella Citt di Dio. Si pu essere buoni cittadini di questo mondo, pur riconoscendo la nostra vera paria in quell' altro mondo; si pu vivere armoniosamente quaggi, pur sentendo fortissimo il richiamo delle altezze. chiaro che, in pratica, vi saranno momenti di oscurit e di contraddizione, nei quali il nostro doppio ruolo sembrer entrare in conflitto con se stesso. Pure, forse ci avviene non tanto per la presa di coscienza, franca e leale, della nostra doppia cittadinanza, ma, al contrario, per il tentativo che sovente facciamo - a volte conscio, a volte inconscio - di negare tale condizione esistenziale, cio di negare la nostra stessa natura. La nostra natura, lo abbiamo detto, non data e non univoca: dobbiamo, in un certo senso, realizzarla da noi stessi - oppure no. Negare questa possibilit, questo rischio, questo aut-aut la causa principale delle disarmonie, delle contraddizioni e delle sofferenze che caratterizzano la nostra vita. Riconoscerlo, al contrario, un potente fattore di unificazione, di composizione delle antinomie, di raggiungimento del nostro equilibrio spirituale. Per essere ancora pi chiari: se noi riconosciamo chiaramente che la nostra vera patria l'Essere, e che verso di esso dobbiamo metterci in cammino come fa il viandante sulle strade polverose, allora e solo allora riusciremo a cogliere, gustare e godere tutte quelle piccole-grandi cose dell'esistenza ordinaria, la cui somma costituisce quello che, nel nostro linguaggio approssimativo di ogni giorno, generalmente chiamiamo la felicit. Per fare un esempio: solo chi ha compreso che la montagna una scala verso il cielo, pu stupirsi e commuoversi fino alle lacrime davanti allo spettacolo di un piccolo fiore che schiude i suoi petali nel sole del mattino. Chi vede nella montagna solo una massa di rocce e minerali, o un trampolino verso il successo e la gloria agonistica, non sapr vedere la bellezza e non sapr godere delle piccole cose; al contrario, sar portato a deturpare la bellezza (con rifiuti, chiodi piantati nelle pareti, flora e fauna turbate e spaventate) e attraverser le alte e terse regioni del silenzio, dell'armonia, della contemplazione, circondato da un alone plumbeo di passioni negative: ambizione, orgoglio, avidit, narcisismo. Il vero realismo l'utopia; il modo migliore per essere felici ammettere francamente la nostra indigenza, la nostra povert. E alzare gli occhi verso le cime donde scaturiscono quelle sorgenti che possono spegnere la nostra sete, calmare la nostra inquietudine, riaprire i nostri occhi allo stupore e i nostri cuori alla gratitudine.

Francesco Lamendola
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