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COS’E’ LA GIUSTIZIA?
LA GIUSTIZIA
1) LA NATURA
2) LA GIUSTIZIA
LA GIUSTIZIA
Difficoltà di definire ciò che è giusto e ciò
che non lo è.
Esiste una giustizia assoluta, valida per
tutti?
La ‘giustizia’ non si sottrae alla pluralità
dei punti di vista.
CRITERI ASSOLUTI DI GIUSTIZIA
Giustizia retributiva
È l’idea del contrappasso o della legge biblica “occhio per
occhio”. La giustizia distribuisce pene e premi e si fonda
sulla vendetta o sulla riconoscenza. Nella giustizia
retributiva si riconosce il “darwinismo sociale” di
Spencer.
ALLA RICERCA DI UNA
POSSIBILE CONCLUSIONE
NO:
Se rimaniamo dalla parte degli inermi e
degli innocenti.
LA CONTRADDIZIONE
CONTEMPORANEA
EMOZIONE
RAGIONE
SENTIMENTO COLLETTIVO
Cos’e’ la giustizia?
E’ LA PERCEZIONE DI UN SENTIMENTO
CHE RIFLETTE NON LA GIUSTIZIA MA IL
RIFIUTO DELL’INGIUSTIZIA
RAZIONALMENTE, IL MALE E’
GIUSTIFICABILE
IL DILEMMA
Per Zagrebelsky:
La ricerca di giustizia, o meglio la rivolta
all’ingiustizia, necessita di passione, di
sentimento. Ma anche di razionalità.
IL MINIMO DI CIO’ CHE POSSIAMO FARE
E’ RISPONDERE ALLA DOMANDA SUPREMA
IN QUESTO MODO: non sono disposto a
sacrificare un innocente neppure di fronte
al più sublime degli ideali.
L’INGHILTERRA TRA IL
XII E XIII SECOLO
L’Inghilterra è una monarchia feudale
Il Re esercita la sua attività in quanto ‘unto dal Signore’. Il suo
compito è guidare il popolo verso la ‘salvezza’. Non esercita poteri
sacramentali ma con il vescovo condivide il magistero della
predicazione. Con la Chiesa, che lo ha investito della sua carica,
mantiene un forte legame.
Infatti, il Re si sente in diritto di nominare i suoi vescovi e gli abati
soggetti alla sua influenza, vigila sull’ortodossia dei sudditi, convoca
e presiede i concili, ecc.
La Chiesa, dal suo canto, esige delle garanzie: la spada che affida al
Re serve a difendere il Regno e quindi la Chiesa, il clero con i suoi
beni e i poveri.
IL REGNO D’INGHILTERRA
Dopo la scomparsa dell’impero romano, l’Inghilterra è
terra di invasioni: angli e sassoni che scacciano i Celti
verso l’attuale Galles.
Nei secoli successivi si verifica l’espansione del
cristianesimo e l’unificazione politica del regno.
Nel 1066, dopo una serie di battaglie, viene incoronato
re il normanno Guglielmo di Normandia e l'antica
popolazione di stirpe anglosassone fu espropriata dalla
classe dirigente di origine normanna che deteneva i
principali uffici civili ed ecclesiastici.
IL REGNO D’INGHILTERRA
Nella prima metà dell’XII secolo si estingue la dinastia di
Guglielmo e il trono passa a Enrico II che da inizio alla
dinastia del Plantageneti e ad un forte scontro con la
Chiesa romana sulla quale il re voleva estendere la
propria autorità. (uccisione dell’arcivescovo di
Canterbury, Tommaso Becket).
Ad Enrico II succede Riccardo I (cuor di leone)
impegnatissimo nelle crociate e quasi sempre assente
dall’Inghilterra.
Riccardo I si impegna in una guerra con la Francia
(Filippo II) per la difesa dei feudi inglesi in terra
francese.
Il sistema giudiziario
(1154 - 1189)
Vorrei iniziare questo mio intervento sui rapporti tra common law e civil law nell’ottica
del giudice civile italiano rammentando un episodio occorsomi diversi anni fa. Invitato
a Londra a tenere un intervento sul tema dell’etica giudiziaria nell’ambito di un
seminario organizzato dal Lord Chancellor’s Department e dall’Institut des Hautes
Etudes sur la Justice di Parigi ritenni opportuno riferire in quella sede di un’esperienza
vissuta nell’ambito della formation initiale impartita dalla Scuola Nazionale della
Magistratura francese a Bordeaux ai giovani colleghi. Spiegai che a costoro veniva
insegnato il difficile mestiere di magistrato anche tramite la simulazione di alcuni casi
fittizi, in cui venivano chiamati, a turno, a svolgere il ruolo di giudice, parti ed
avvocati. Ma la cosa più interessante, notai, era che, al termine di ognuno di quei
jeux de rôle, si apriva tra i giovani auditeurs de justice una discussione sul
comportamento tenuto da quel «giudice». Dissi che si trattava di un buon esempio,
poiché i giudici dovevano, sin dall’inizio della loro carriera, abituarsi all’idea di essere
a loro volta giudicati.
Terminato il seminario, un alto magistrato inglese presente all’incontro, prendendomi
bonariamente a braccetto, mi disse di non aver condiviso quella mia affermazione,
poiché «when we sit as judges, only God is above us». Quella frase mi cadde
addosso come un fulmine, fornendomi in un attimo la percezione della distanza
abissale che separa i giudici che siedono sulle opposte sponde del canale della
Manica.
Il fatto è che – malgrado la sostanziale identità della funzione di giudicare – la figura
del giudice nei sistemi di common law è qualcosa di ontologicamente diverso da
quella del magistrato, così come lo intendiamo noi. L’uso del termine è da evitarsi,
perché indica in inglese quella vastissima schiera di giudici non professionali, sovente
non particolarmente qualificati (o per nulla qualificati) sul piano tecnico, su cui grava,
in realtà, gran parte del lavoro giudiziario e con i quali noi magistrati professionali di
civil law potremmo forse, invece, utilmente confrontarci. Tanto per fare un esempio,
il sito web ufficiale del governo degli Stati uniti non esita ad ammettere che le Trial
courts of limited jurisdiction, costituite da giudici non professionali e che sovente
«are not required to have any formal legal training» sono quelle che in realtà
«handle the bulk of litigation in the United States each year and constitute
about 90 percent of all courts». La situazione non è sostanzialmente diversa in
Gran Bretagna e negli altri Paesi di common law. A ciò s’aggiunga che questi
cosiddetti ‘giudici’ sono assistiti da schiere di law clerks e segretari semplicemente
impensabili da parte di chi, come il giudice italiano, non può fare i conti se non con la
propria disperata solitudine.
Di sicuro, altrettanto non può dirsi per la selezione dei giudici di common law,
rimessa vuoi nelle mani dell’elettorato, vuoi del legislativo, vuoi (e più spesso ancora)
del potere esecutivo. In ogni caso, l’immagine di «terzietà» che il giudice dovrebbe
trasmettere appare sovente, specie negli U.S.A., appannata dal «vizio d’origine»
legato alla nomina politica. Si noti che persino il già citato sito web ufficiale del
governo degli Stati uniti non esita ad ammettere candidamente che il sistema elettivo
dei giudici statali nuoce notevolmente alla loro immagine, rilevando come, anche nei
casi in cui si cerchi di presentare un candidato come nonpartisan, finisce che «the
political parties endorse individual judicial candidates and contribute to
their campaigns so that the candidates acquire identification with one
political party or another».
Il che naturalmente non significa che l’idea dell’indipendenza del potere giudiziario sia
estranea alla cultura d’oltre Oceano. Basti pensare al fatto che già la dichiarazione
d’indipendenza del 1776 appare chiaramente ispirata ai principi enunciati da
Montesquieu. E’ nota poi l’influenza esercitata, alla fine del XVIII secolo, da James
Madison, un altro strenuo assertore della teoria della separation of powers, il quale, a
differenza di Montesquieu, riconosce che il vero problema, nelle relazioni tra i tre
poteri, consiste nella naturale tendenza che ciascuno di essi ha ad invadere le sfere di
competenza altrui. Madison ha anche il merito di avere compreso e lucidamente
espresso che una semplice demarcazione sulla carta («a mere demarkation on
parchment») dei limiti costituzionali dei tre poteri dello Stato «non è sufficiente a
garantire una tirannica concentrazione di tutti i poteri nelle stesse mani». Ma il
sistema statunitense (come del resto gli altri sistemi di common law) non ha saputo
poi elaborare strutture organizzative del potere giudiziario in grado di evolversi in veri
e propri organismi d’autogoverno della magistratura. Le ragioni sono le più varie e
sono strettamente legate a vari fattori, tra cui il modo di reclutamento e forse anche
l’età dei candidati e la loro estrazione sociale e professionale. Sta di fatto che quelle
strutture germogliate nell’esperienza continentale europea (occidentale) su di un
tronco della struttura burocratica napoleonica, hanno saputo trasformarsi da semplici
strumenti consultivi in veri e propri organi d’autogoverno del potere giudiziario, in
grado d’assicurare un livello tendenzialmente piuttosto elevato d’indipendenza, sia
esterna che interna, dei giudici e talora anche dei pubblici ministeri.
Meno influenzata, di fatto, da criteri politici rispetto a quanto accade negli Stati Uniti,
la scelta dei giudici in Gran Bretagna è comunque effettuata dal Secretary of State for
Constitutional Affairs and Lord Chancellor e dal relativo Department for Constitutional
Affairs (cioè dal Ministero della giustizia), in maniera sostanzialmente discrezionale,
sulla base di criteri che per lungo tempo sono rimasti avvolti da una nebbia più fitta
di quella del Tamigi
Un luogo comune piuttosto diffuso (e che, sciaguratamente, sta prendendo
piede anche presso di noi) vuole che l’elezione diretta dei giudici o la loro nomina da
parte del legislativo o dell’esecutivo sia il sistema in astratto preferibile, in quanto in
grado di fornire il più alto grado di legittimazione possibile. Ebbene, proprio i dati
ufficiali squadernati ed illustrati dal già ricordato sito ufficiale del governo
statunitense sembrano convincere dell’esatto contrario. Nonostante qualche rara
eccezione, i giudici federali provengono esclusivamente dalle middle and upper-
middle classes e meno del 2% dei giudici distrettuali sono donne. Le minoranze
razziali, ammette lo stesso sito ufficiale della Casa Bianca, «sono sottorappresentante
sia in numero assoluto che in percentuale rispetto alla popolazione totale». Per ciò
che attiene poi alle simpatie politiche, circa il 90% dei giudici distrettuali sono dello
stesso partito politico del presidente che li ha nominati ed il 60% di essi può vantare
(se così si può dire per un giudice) un passato di attivo impegno in un partito politico.
E la musica non cambia di molto se si considera il livello degli giudici statali, dove,
verso la metà degli anni Novanta, solo il 14% del totale (ivi compresi i magistrates)
erano donne e solo il 6% erano «either African American, Hispanic, or Asian
American» (il che, detto per inciso, non fa molto onore ad un Paese che vuole
presentarsi come un melting pot di etnie e di culture diverse).