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No one should ever work. Workers of the world... relax! Nessuno dovrebbe mai lavorare.

Il lavoro la fonte di quasi tutte le miserie del mondo. Quasi tutti i mali che si possono enumerare traggono origine dal lavoro o dal fa tto che si vive in un mondo finalizzato al lavoro. Questo non significa che si debba porre fine ad ogni attivit produttiva. Ci vuol dire invece creare un nuovo stile di vita fondato sul gioco; in altre par ole, compiere una rivoluzione ludica. Nel termine "gioco" includo anche i concet ti di festa, creativit, socialit, convivialit, e forse anche arte. Per quanto i giochi a carattere infantile siano di per s apprezzabili, i giochi p ossibili sono molti di pi. Propongo un'avventura collettiva nella felicit generali zzata, in un'esuberanza libera e interdipendente. Il gioco non un'attivit passiva . Indubbiamente noi tutti necessitiamo di dedicare tempo alla pigrizia e all'ina ttivit assolute molto pi di quanto facciamo ora, e ci senza doversi preoccupare del reddito e dell'occupazione; ma anche vero che, una volta superato lo stato di p rostrazione determinato dal lavoro, pressoch ognuno desidererebbe svolgere una vi ta attiva. L'oblomivismo e lo stakanovismo sono due facce di una stessa moneta f alsa. La vita totalmente incompatibile con la realt attuale. E allora tanto peggio per la "realt", questo buco nero che succhia la residua vitalit da quel poco che ancor a distingue la nostra vita nella semplice sopravvivenza. strano o forse non tant o che tutte le vecchie ideologie appaiano conservatrici, e ci proprio in quanto tu tte danno credito al lavoro. Per alcune di esse, come il marxismo, e la maggior parte delle varianti dell'anarchismo, la loro fede nel lavoro appare tanto pi sal da in quanto non vi molto d'altro cui esse prestino fede. I progressisti dicono che dovremmo abolire le discriminazioni sul lavoro. Io dic o che dovremmo abolire il lavoro. I conservatori appoggiano le leggi sul diritto al lavoro. Allo stesso modo dell'ostinato genero di Karl Marx, Paul Lafargue, i o sostengo il diritto alla pigrizia.. La sinistra a favore della piena occupazio ne. Come i surrealisti a parte il fatto che sto parlando seriamente io sono a fav ore della piena disoccupazione. I trotkisti diffondono l'idea di una rivoluzione permanente. Io quella di una baldoria permanente. Ma se tutti gli ideologi, cos come accade, sono a favore del lavoro e non solo perch hanno in mente di far fare ad altri la parte di esso che loro compete tuttavia sono stranamente riluttanti ad ammetterlo. Continuano a disquisire all'infinito su salari, orari, condizion i di lavoro, sfruttamento, produttivit e profitto. Parleranno volentieri di qualu nque argomento tranne che del lavoro stesso. Questi esperti, che sempre si offro no di pensare per noi, raramente ci renderanno partecipi delle loro conclusioni riguardo al lavoro, e ci malgrado il rilievo che esso assume nella vita di noi tu tti. Fra di loro arzigogolano sui dettagli. Sindacati ed imprenditori concordano sul fatto che sia necessario vendere tempo della nostra vita in cambio della so pravvivenza, bench poi contrattino sul prezzo. I marxisti pensano che dovremmo es sere diretti dai burocrati. I "libertari" da uomini d'affari. Le femministe non si pongono il problema di quale forma debba assumere la subordinazione, purch i d irigenti siano donne. Chiaramente questi mercanti di ideologie mostrano un notev ole disaccordo su come dividersi le spoglie del potere. Ma ancora pi chiaro che n essuno di loro ha nulla da obiettare sul potere in quanto tale, e che tutti cost oro vogliono che noi si continui a lavorare. Forse vi state chiedendo se stia schermando o parlando seriamente. L'uno e l'alt ro. Essere ludici non significa essere incongruenti. Il gioco non necessariament e un'attivit frivola, ancorch l'essere frivoli non significhi essere superficiali; molte volte necessario prendere seriamente ci che appare frivolo. Vorrei che la vita fosse un gioco, ma che la posta in gioco fosse alta. Vorrei continuare a gi ocare per sempre. L'alternativa al lavoro non solo l'ozio. Essere ludici non essere QUAALUDIC. Seb bene ritenga molto apprezzabile il piacere del sonnecchiare, questo non mai cos a ppagante come quando fa da pausa rispetto ad altri piaceri e distrazioni. E non sto nemmeno esaltando quella valvola di sfogo comandata a tempo chiamata "tempo

libero": lungi da me. Il tempo libero un non-lavoro, che esiste in funzione del lavoro. Il tempo libero tempo impiegato a ristabilirsi dagli effetti del lavoro, non altro che il tentativo frenetico e frustrante di dimenticare il lavoro. Mol ta gente torna dalle vacanze talmente spossata, che non vede l'ora di tornare al lavoro per potersi finalmente riposare. La principale differenza tra il lavoro e il tempo libero che al lavoro in fin dei conti sei pagato per la tua alienazio ne e per il logoramento dei tuoi nervi. Non sto proponendo astratti giochi di parole. Quando affermo che voglio abolire il lavoro, intendo dire esattamente quello che sto dicendo, ma ora voglio chiari re la questione definendone i termini in modo non emotivo. La mia definizione mi nima di lavoro quella di lavoro forzato, cio, produzione obbligatoria. Entrambi g li elementi sono essenziali. Il lavoro produzione imposta attraverso strumenti e conomici e politici, cio col metodo del bastone e della carota. (La carota la con tinuazione del bastone con altri mezzi). Ma non ogni produzione lavoro. Il lavor o non mai un'attivit fine a se stessa, ma sempre svolto in vista di una certa pro duzione o risultato che il lavoratore (o, pi spesso, qualcun altro) trae da esso. Questo ci che il lavoro necessariamente rappresenta. Definirlo significa disprez zarlo. Ma il lavoro di solito molto peggio di quanto esprima la sua definizione. La dinamica del dominio intrinseca al lavoro lo spinge nel corso del tempo lung o un percorso evolutivo. Nelle societ avanzate basate sul lavoro, e quindi in tut te le societ industriali, sia capitalistiche che "comuniste", il lavoro invariabi lmente acquisisce ulteriori connotati che ne accentuano il carattere ripugnante. Di solito e questo e ancor pi vero nei paesi "comunisti" che in quelli capitalist i, in quanto in essi lo Stato praticamente l'unico datore di lavoro e ognuno lav oratore dipendente il lavoro lavoro subordinato, vale a dire lavoro salariato, c i che significa vendersi a rate. Cos il 95% degli americani che lavorano, lavora p er qualcun altro (o qualcos 'altro). In Russia, a Cuba, in Jugoslavia, o in qual siasi altra situazione del genere a cui si voglia far riferimento, la percentual e corrispondente si avvicina al 100%. Solo le fortezze contadine sotto assedio c ostituite dai Paesi agricoli del Terzo Mondo cio Messico, India, Brasile, Turchia d ifenderanno ancora per qualche tempo l'esistenza di forti concentrazioni di agri coltori che perpetuano la condizione tradizionale, comune alla maggior parte dei lavoratori negli ultimi millenni, cio il pagamento di tasse (= riscatto) allo St ato o dell'affitto a proprietari terrieri parassitari, in cambio della semplice possibilit di vivere in pace. Ma ora anche un patto cos brutale comincia ad appari re accettabile. Ora tutti i lavoratori dell'industria (e negli uffici) sono sala riati e sottoposti ad un tipo di sorveglianza che ne assicura il servilismo. Ma il lavoro moderno implica conseguenze ancora peggiori . La gente non lavora i n senso proprio, ma svolge delle "mansioni". Ognuno svolge continuamente una sol a mansione produttiva in forma coercitiva. Anche nel caso in cui il lavoro prese nta un certo interesse intrinseco (carattere sempre meno presente in molte occup azioni) la monotonia derivante da tale coercizione all'esclusivit elimina il suo potenziale ludico. Una "mansione" che, qualora venisse svolta per il piacere che ne deriva, impegnerebbe le energie di alcune persone per un lasso di tempo ragi onevolmente limitato, si tramuta invece in un peso per coloro che la devono svol gere per 40 ore la settimana, senza poter dire nulla su come dovrebbe essere svo lta, e questo per il profitto dei proprietari, i quali non contribuiscono affatt o al progetto, e senza nessuna opportunit di dividere i compiti e di distribuire il lavoro fra quelli che effettivamente lo devono compiere. Questa la realt del m ondo del lavoro: un mondo di confusione burocratica, di molestie e discriminazio ni sessuali, di capi ottusi che sfruttano e tiranneggiano i loro subordinati i q uali - secondo ogni criterio razionale - sarebbero in realt nella posizione di de cidere da soli. Ma nel mondo reale il capitalismo subordina l'aumento razionale della produttivit e del surplus alla propria esigenza di tenere sotto controllo l 'organizzazione della produzione. Il senso di degradazione che molti lavoratori sperimentano sul lavoro deriva da un insieme di prevaricazioni, le quali possono essere riassunte nel termine "dis ciplina". Nell'analisi di Foucault esso risulta essere abbastanza semplice. La d isciplina consiste nell'insieme di quei sistemi di controllo totalitari che veng ono applicati sul posto di lavoro - sorveglianza, lavoro ripetitivo, imposizione

di ritmi di lavoro, quote di produzione, cartellini da timbrare all'entrata e a ll'uscita-. La disciplina ci che la fabbrica, l'ufficio e il negozio condividono con la prigione, la scuola e il manicomio. Storicamente questo sistema risulta e ssere qualcosa di originale e terrificante. Un tale risultato va al di l delle po ssibilit di demoniaci dittatori del passato quali Nerone, Gengis Khan, o Ivan il Terribile. Nonostante le loro peggiori intenzioni, essi non disponevano di macch ine atte a un controllo dei loro sudditi cos capillare quanto quello attuato dai despoti moderni. La disciplina un diabolico modo di controllo tipicamente modern o, un corpo estraneo prima d'ora mai visto, e che deve essere espulso alla prima occasione. Tale la natura del "lavoro". Mentre il gioco esattamente il suo opposto. Il gioc o sempre deliberato. Ci che altrimenti sarebbe gioco si tramuta in lavoro quando diviene un'attivit coercitiva. Questo lampante. Bernie de Koven ha definito il gi oco come la "sospensione della consequenzialit". Tale definizione inaccettabile s e implica che il gioco non sia un'attivit conseguente. La questione non se il gio co sia privo di conseguenze. Affermare ci significa svilire il gioco. Il fatto ch e le conseguenze, quando ci sono, hanno il carattere della gratuit. Il giocare e il donare sono attivit fortemente correlate, sono aspetti comportamentali e trans azionali relativi ad uno stesso impulso, l'istinto del gioco. Condividono lo ste sso aristocratico disprezzo per i risultati. Il giocatore vuole ottenere qualcos a dal gioco; questo il motivo che lo spinge a giocare. Ma la ricompensa essenzia le sta nell'esperire quella stessa attivit, qualunque essa sia. Uno studioso del gioco altrimenti avvertito, qual stato Johan Huizinga (Homo ludens), definisce i l gioco come un'attivit retta da regole. Per quanto io nutra rispetto per l'erudi zione di Huizinga, respingo energicamente una tale limitazione. Esistono, vero, numerosi e ottimi giochi (scacchi, baseball, monopoli, bridge) che seguono regol e ben precise. Tuttavia, l'attivit ludica comprende molto pi che il gioco normato. La conversazione, il sesso, il ballo, i viaggi - queste attivit non seguono rego le ma sono sicuramente dei giochi, se mai ne esiste qualcuno -. E delle regole c i si pu prender gioco facilmente, come di qualsiasi altra cosa. Il lavoro si fa beffe della libert. La linea ufficiale che a tutti sono riconosci uti dei diritti, e che viviamo in una democrazia. Ma esistono individui meno for tunati che non sono cos liberi come noi e vivono in Stati di Polizia. Costoro son o delle vittime costrette ad eseguire continuamente ordini senza discussioni, pe r quanto essi possano essere arbitrari. Le autorit li sorvegliano strettamente. I burocrati controllano anche i pi piccoli dettagli della loro vita quotidiana. I funzionari che li comandano a bacchetta, rispondono solo ai diretti superiori, s iano essi pubblici o privati. Il dissenso e la disobbedienza vengono entrambi re pressi. Gli informatori riferiscono regolarmente alle autorit. Ovviamente tutto c i rappresenta una situazione terrificante. E cos , sebbene questa non sia altro che la descrizione di un moderno luogo di lav oro. I progressisti, i conservatori e i libertari che si lamentano del totalitar ismo sono falsi e ipocriti. C pi libert in una dittatura modernamente destalinizzata di quanta ve n in America in un ordinario luogo di lavoro. In un ufficio o in una fabbrica trovi lo stesso genere di gerarchia o di disciplina proprio di una pri gione o di un monastero infatti, come Foucault ed altri hanno dimostrato, prigio ni e fabbriche nascono all incirca nello stesso periodo, e i loro gestori consapev olmente si scambiano fra loro le tecniche di controllo. Il lavoratore uno schiav o part-time. il datore di lavoro decide quando bisogna comparire sul luogo di la voro e quando bisogna andarsene, e cosa si deve fare in quel lasso di tempo. Tu dice quanto lavoro devi fare e a che ritmo. Ha la facolt di spingere il suo contr ollo fino ad estremi umilianti, stabilendo, se lo desidera, quali vestiti devi i ndossare e quanto spesso puoi recarti al gabinetto. Con poche eccezioni pu licenz iarti per una ragione qualsiasi, o anche per nessuna. Pu spiarti facendo uso di i nformatori ed ispettori, compila un dossier per ogni impiegato. L atto di ribatter e viene chiamato "disobbedienza", proprio come se il lavoratore fosse un bambino impertinente. Egli non solo pu licenziarti, ma pu anche farti perdere il diritto dei sussidio di disoccupazione. Senza necessariamente avallare un tale atteggiam

ento in rapporto ai bambini stessi, degno di nota che a scuola e a casa essi ric evono lo stesso trattamento, giustificato nel loro caso da una supposta immaturi t. E che cosa fa venire in mente tutto ci riguardo i loro genitori o i loro insegn anti in quanto lavoratori? Per decenni, e per la maggior parte delle loro vite, l umiliante sistema di domini o che ho descritto regola pi della met del tempo che la maggior parte delle donne e la stragrande maggioranza degli uomini passano in stato di veglia. In rapporto a certi scopi, non troppo fuorviante chiamare il nostro sistema democrazia, opp ure capitalismo, o meglio ancora industrialismo, ma i termini pi appropriati sare bbero fascismo e oligarchia d ufficio. Chiunque dica che certe persone sono "liber e" mente o uno sciocco. Tu sei quello che fai: se fai un lavoro stupido, noioso, monotono, hai buone probabilit di diventare stupido, noioso e monotono. Il lavor o la migliore spiegazione per il cretinismo servile da cui siamo circondati, anc or pi dei pur potenti meccanismi di istupidimento rappresentati dalla televisione e dal sistema di istruzione. Gente irreggimentata per tutta la vita, sospinta a l lavoro dalla scuola, rinchiusa nella famiglia all inizio della loro vita e in un a casa di cura alla fine, non pu che essere assuefatta alla gerarchia e mentalmen te schiava. Ogni attitudine all autonomia risulta talmente atrofizzata che la paur a della libert tra le fobie che in loro appaiono razionalmente fondate. L addestram ento alle dedizione verso il lavoro ha luogo nelle loro famiglie di provenienza, ma anche nell ambito della politica, della cultura, e in ogni altro campo di atti vit, riproducendo cos il sistema in pi di una maniera. Una volta che la vitalit dell a gente sia stata loro sottratta nell ambito del lavoro, molto probabile che costo ro si sottometteranno alla gerarchia e agli specialisti in rapporto ad ogni altr a attivit. Ci sono abituati. Siamo cos immersi nel mondo del lavoro che non possiamo renderci completamente co nto di quanto esso determini la nostra esistenza. Dobbiamo cos affidarci ad osser vatori esterni, prodotto di altre epoche e di altre culture, se vogliamo essere in grado di percepire pericoli e il carattere patologico della nostra presente c ondizione. Nel nostro passato vi fu un epoca in cui "l etica del lavoro" sarebbe sta ta comprensibile, e forse Weber era sulla strada giusta quando colleg la sua scom parsa all avvento di una nuova religione, il calvinismo, poich se tale etica fosse comparsa oggi invece di 4 secoli fa sarebbe stata appropriatamente e immediatame nte riconosciuta come il prodotto di una scelta. Comunque stiano le cose, possia mo solo far ricorso alla saggezza degli antichi se vogliamo collocare il lavoro in una prospettiva storica. Gli antichi considerano il lavoro per ci che effettiv amente , ed il loro punto di vista prevalse, nonostante le eccentricit calviniste, fino a quando le loro idee non vennero cancellate dall industrialismo, ma non pri ma di ricevere l approvazione dei suoi stessi profeti. Ammettiamo per un momento la falsit della tesi secondo la quale il lavoro riduce l uomo ad una condizione di insensata sottomissione. Ammettiamo pure, a dispetto d i ogni plausibile visione della psicologia umana e dell ideologia degli imbonitori , che il lavoro non abbia alcun effetto sulla formazione del carattere. E conven iamo ancora che il lavoro non sia cos noioso, faticoso e umiliante come ben tutti sappiano esso sia nella realt. Anche se cos fosse, la realt del lavoro mostrerebbe ancora quanto siano derisorie tutte le prospettive a carattere umanistico e dem ocraticistico ad esso connesse, e ci proprio in quanto esso usurpa una parte cos r ilevante del nostro tempo. Socrate disse che i lavoratori manuali diventano dei cattivi amici e pessimi cittadini, e ci in quanto non dispongono del tempo necess ario all adempimento dei doveri inerenti all amicizia e alla cittadinanza. Aveva per fettamente ragione. A causa del lavoro, qualunque cosa facciamo, la facciamo gua rdando l orologio. Ci che "libero" nel cosiddetto tempo libero, nient altro che un in sieme di attivit paralavorative che oltre tutto non costano nulla al padrone. Inf atti, il tempo libero dedicato soprattutto a prepararsi al lavoro, a tornare dal lavoro, a riposarsi dal lavoro. Il tempo libero un eufemismo che allude al part icolare carattere del lavoro come fattore di produzione, costituito dal fatto ch e esso non solo provvede a sue spese al proprio trasporto al e dal posto di lavo ro, ma si assume l onere principale per quanto concerne la propria manutenzione e la relativa messa a punto. Il carbone e l acciaio questo non lo fanno. Il tornio e la macchina da scrivere neppure. Mentre i lavoratori s. Nessuna meraviglia se Ed

ward G. Robinson in uno dei suoi film di gangster proclama: "Il lavoro per gli i mbecilli!". Sia Platone che Senofonte attribuiscono a Socrate ed ovviamente siamo d accordo co n lui una profonda consapevolezza circa gli effetti distruttivi del lavoro sul l avoratore, sia in quanto cittadino che come essere umano. Erodoto considerava il disprezzo per il lavoro come un tratto caratteristico della Grecia classica al culmine della sua fioritura. Traendo dalla civilt romana un solo esempio, osservi amo che Cicerone affermava: "Chiunque offra il suo lavoro in cambio di denaro ve nde se stesso, e pone s medesimo nel novero degli schivi". Oggigiorno una tale fr anchezza molto rara, ma le attuali societ primitive, quelle che noi guardiamo dal l alto in basso, ci mandano messaggi che hanno influenzato gli antropologi occiden tali. I Kapauku della Nuova Guinea occidentale, secondo Posposil, hanno una conc ezione equilibrata della vita, e coerentemente ad essa lavorano solo a giorni al terni, essendo il giorno del riposo destinato "a riguadagnare il potere perduto e la salute". I nostri antenati, ancora alla fine del XVIII secolo, quando gi si erano inoltrati lungo il cammino che porta alla nostra triste situazione attuale , almeno erano consapevoli di ci che noi abbiamo dimenticato, cio del lato oscuro dell industrializzazione. La loro osservanza riguardo il "Santo Luned" cio la pratic a de facto della settimana di cinque giorni 150-200 anni prima della sua instaur azione per legge era la disperazione dei primi proprietari di industria. Fu nece ssario molto tempo prima che essi accettassero la tirannia della sirena, strumen to che precede l orologio a sveglia. Infatti, fu necessario per un paio di generaz ioni sostituire gli adulti maschi con donne abituate all obbedienza, e bambini che potevano essere plasmati secondo le necessit della produzione industriale. Perfi no i contadini sfruttati nell ancien regme riuscivano a strappare una considerevole quantit di tempo ai proprietari terrieri. Secondo Lafaegue, un quarto del calend ario dei contadini francesi era dedicato alle domeniche e ad altre festivit, e le cifre, desunte da Chaynov relative a villeggi della Russia zarista, che arduo q ualificare come societ progressista, mostrano analogamente che i contadini dedica vano al riposo un quarto o un quinto dei loro giorni. In rapporto al livello di produttivit siamo ovviamente molto indietro rispetto a queste societ arretrate. I mugiki sfruttati sarebbero molto stupiti del fatto che vi sia ancora qualcuno di noi che lavori. E noi dovremmo condividere tale stupore. Comunque, al fine di comprendere pienamente la profondit del deterioramento della nostra condizione consideriamo ora la vita dell umanit primitiva, senza stato e pr opriet, quando conducevano un errabonda esistenza come cacciatori e raccoglitori. H obbes presume che la loro vita fosse pericolosa, brutale e breve. Anche altri so stengono che allora la vita fosse una lotta continua e disperata per la sopravvi venza, una guerra contro una Natura ostile, con la morte e ogni genere di sventu re in agguato per i meno fortunati, o per chiunque si fosse rivelato inadatto al la sfida posta dalla lotta per l esistenza. In realt tale idea rappresenta nient altr o che una proiezione del timore diffuso nell Inghilterra di Hobbes ai tempi della Guerra Civile, e proprio di comunit non abituate a fare a meno dell autorit, riguard o un possibile crollo della struttura dello Stato. I connazionali di Hobbes avev ano gi incontrato forme alternative di societ che mostravano altri modi di vita pa rticolarmente nel Nord America ma queste erano gi troppo lontane dalla loro esper ienza per essere comprensibili. (I ceti inferiori, pi alle condizioni degli India ni, potevano comprendere meglio questo modo di esistenza e spesso ne furono attr atti: durante tutto il XVII secolo i coloni inglesi abbandonarono il loro mondo unendosi alle trib indiane, oppure quando vennero catturati in guerra, rifiutaron o di tornare. Mentre gli indiani non si rifugiavano presso gli insediamenti dei bianchi, non pi di quanto i tedeschi saltassero il muro di Berlino da ovest verso est). Il darwinismo, nella versione "della sopravvivenza del pi adatto" cio quell a di Thomas Huxley costituisce pi una fedele immagine della condizioni economiche dell Inghilterra vittoriana di quanto fosse della selezione naturale, come l anarch ico Kropotkin dimostr nel suo libro Il Mutuo Appoggio, un fattore dell evoluzione. (Kropotkin fu uno scienziato un geografo che ebbe modo, del tutto involontariame nte, di sperimentare a fondo il lavoro dei compi quando venne esiliato in Siberi a: sapeva di cosa stava parlando). Come la maggior parte delle teorie sociali po litiche, ci che Hobbes e i suoi successori hanno raccontato appare null altro che q

ualcosa di simile ad una autobiografia non autorizzata. L antropologo Marshall Sah lins, studiando i dati disponibili sugli attuali cacciatori-raccoglitori, confut il mito hobbesiano in un articolo intitolato "L originaria societ dell abbondanza". I nfatti, essi lavorano molto meno di noi, ed difficile distinguere il loro lavoro da ci che noi chiamiamo gioco. Sahlins conclude che "cacciatori e raccoglitori l avorano meno di noi; la ricerca di cibo, invece di essere un compito continuo, u n attivit saltuaria mentre dispongono di molto tempo da dedicare al riposo, e la qu antit di tempo da dedicare al riposo, e la quantit di tempo consacrata al sonno da ciascun individuo nel corso di un anno molto maggiore che in qualsiasi altro ti po di societ". Essi "lavorano" in media quattro ore al giorno, presumendo che si possa ancora chiamare lavoro tale attivit. Il loro "lavoro" cos come esso ci appar e, un lavoro altamente qualificato che coinvolge tutte le loro capacit fisiche ed intellettuali; un lavoro non qualificato su larga scala, dice Sahlins, impossib ile eccetto che nell industrialismo. Pertanto, tale attivit adeguata alla definizio ne di gioco data da Friedrich Schiller, secondo la quale esso costituisce l unico ambito in cui l uomo pu realizzare completamente la sua umanit, "mettendo in gioco" entrambi i lati della sua duplice natura, cio intelletto e passione. Cos egli afferma: "l animale lavora quando la privazione diventa l impulso fondamenta le della sua attivit e gioca quando l impulso fondamentale proviene dalla pienezza delle sue forze, quando una vitalit sovrabbondante diviene il proprio stimolo all a ttivit". (Una versione moderna di tale concezione ma dubbio che abbia carattere e volutivo data dalla contrapposizione che Abraham Maslov postula tra motivazione da "deprivazione" e motivazione da "crescita"). In rapporto alla produzione, gio co e libert sono coestensivi. Anche Marx, che (nonostante tutte le sue buone inte nzioni) appartiene al pantheon dei produttivisti, osserva che: "Di fatto il regn o della libert comincia soltanto l dove cessa il lavoro determinato dalla necessit e finalit esterna". Infatti, non giunge mai del tutto a definire questa felice co ndizione per quella che , cio come abolizione del lavoro sarebbe piuttosto anomalo , del resto essere a favore dei lavoratori ma contro il lavoro mentre noi possia mo permettercelo. L aspirazione ad andare indietro, o avanti, verso una vita senza lavoro evidente i n ogni seria storia sociale o culturale dell Europa pre-industriale, tra cui Engla nd in transition di M. Dorothy George e Popular culture in early modern Europe d i Peter Burke. Risulta pertinente anche il saggio di Daniel Bell "Il lavoro e le sue insoddisfazioni", che costituisce, a quanto ne so, il primo scritto che si diffonda con tale ampiezza sulla "rivolta contro il lavoro", saggio che, quando venga rettamente interpretato, incrina fortemente il generale compiacimento che circonda il volume in cui esso compare, cio, The End of Ideology. N i critici n gli elogiatori hanno notato che la tesi di Bell sulla fine delle ideologie segnalav a non la fine dei movimenti sociali ma l inizio di una nuova fase, per la quale no n esistono mappe, libera e non conforme ad alcuna ideologia. Fu Seymour Lipset ( in Political man), e non Bell di certo, ad annunciare nello stesso periodo che: "I problemi fondamentali della rivoluzione industriale sono stati risolti", e ci solo pochi anni prima che l insoddisfazione, fosse essa post-modena o meta-industr iale, manifestata dagli studenti del suo college inducesse Lipset ad abbandonare l UC di Berkley per la situazione relativamente (e temporaneamente) pi tranquilla che gli offriva Harvard. Cos come rileva Bell, in La ricchezza delle nazioni, Adam Smith, nonostante tutto il suo entusiasmo per il mercato e la divisione del lavoro, era pi consapevole ( ed anche pi onesto) riguardo il lato sgradevole del lavoro di Ayn Rand, gli econo misti di Chicago, o qualche altro moderno epigono di Smith. Smith osserva: "Le d oti intellettuali della maggior parte degli uomini sono necessariamente determin ate dalle loro occupazioni ordinarie. Un uomo la cui vita trascorre nello svolgi mento di qualche semplice operazione ( ) non ha occasione di esercitare la sua int elligenza ( ). Generalmente diventa stupido e ignorante come solo un uomo pu divent arlo". Qui, in queste poche aspre parole, compiutamente espressa la mia critica del lavoro. Bell, scrivendo nel 19756, cio nell Et dell Oro dell imbecillit eisenhowerian a e dell autocompiacimento americano, gi avvertiva il malessere disorganizzato, e n on organizzabile, cos come si sarebbe poi manifestato nel 1970; quel malessere ch e nessuna tendenza politica era in grado di sfruttare; quello che veniva riconos

ciuto nel rapporto redatto dalla HEW "Working America"; quello stesso malessere che non si prestava ad essere recuperato e cos veniva ignorato. Tale problema cos tituito dalla rivolta contro il lavoro. Esso non compare negli scritti di alcun economista del laissez faire Milton Friedman, Murray Rothbard, Richard Posner poi ch, per esprimersi come gli eroi di Star Trek, "non quadra". Se queste obiezioni, informate all amore della libert, non riescono a persuadere gl i umanisti a compiere una svolta utilitaristica o anche paternalistica, vene son o altre delle quali non possono non tener conto. Possiamo affermare, prendendo a prestito il titolo del libro, che il lavoro un rischio per la tua salute. Infat ti il lavoro un assassinio di massa, cio un genocidio. Direttamente o indirettame nte il lavoro uccider la maggior parte delle persone che legge queste righe. Tra i 14.000 e i 25.000 lavoratori vengono uccisi ogni anno in questo paese dal loro lavoro. Oltre 2 milioni rimangono invalidi. I feriti ammontano a 20-25 milioni ogni anno. E queste cifre si basano su di una stima molto cauta di quello che co stituisce un danno causato da attivit lavorative, cio non viene incluso mezzo mili one di casi di malattie professionali che insorgono ogni anno. Ho avuto tra le m ani un testo di medicina del lavoro spesso 1.200 pagine. Anche questo tocca a ma la pena la superficie del problema. Le statistiche disponibili comprendono i cas i pi evidenti, come i 100.000 minatori che contraggono la silicosi, dei quali 4.0 00 muoiono ogni anno, cio una percentuale di decessi che risulta, ad esempio, pi e levata di quella dell AIDS, malattia cui i media prestano cos tanta attenzione. Tut to ci riflette l assunto non dichiarato secondo il quale i pervertiti afflitti dall A IDS dovrebbero controllare la loro depravazione, mentre coloro che estraggono il carbone svolgono un attivit sacrosanta e fuori discussione. Quello che le statisti che non lasciano trapelare il fatto che il lavoro abbrevia il tempo di vita a 10 milioni di persone, ci che, d altra parte, il significato proprio del termine omic idio. Ci riferiamo a quei dirigenti che si ammazzano di lavoro all et di 50 anni, c i riferiamo a tutti i dipendenti. Anche se non si rimane uccisi o mutilati mentre si effettivamente al lavoro, ci p u tranquillamente accaderci mentre ci rechiamo al lavoro, o stiamo tornando dal l avoro, oppure mentre lo stiamo cercando, o tentiamo di dimenticarlo. La maggior parte delle vittime di incidenti d auto stavano svolgendo una di queste attivit leg ate al lavoro, oppure vennero travolte da qualcuno impegnato in esse. A questo c omputo dei cadaveri, pur cos ampliato, occorre aggiungere le vittime dell inquiname nto industriale, del traffico automobilistico, dell alcolismo indotto dal lavoro e del consumo di droga. Anche il cancro e le malattie cardiocircolatorie sono dei mali moderni, e normalmente sono attribuibili, direttamente o indirettamente, a l lavoro. Il lavoro, dunque, istituzionalizza l omicidio come modo di vita. La gente pensava che i cambogiani fossero pazzi dal momento che si sterminavano fra loro in quel modo, ma noi siamo poi molto diversi? In fondo il regime di Pol-Pot, per quanto in modo confuso, si poneva nella prospettiva di una societ egualitaria. Noi ster miniamo la gente in ecatombi esprimibili in numeri di 6 cifre (come minimo) per vedere Big Mac e Cadillac ai superstiti. I nostri 40 o 50 mila morti, che regist riamo annualmente sulle nostre autostrade sono vittime, non martiri. Muoiono per nulla o piuttosto, muoiono per il lavoro. Ma il lavoro nulla, e non vale la pen a di morire per esso. Cattive notizie per i progressisti: in un contesto che si presenta come una ques tione di vita o di morte i palliativi di tipo normativo sono inutili. A livello federale, all Occupational Safety and Health Administration venne affidata la vigi lanza per quanto concerne il problema centrale, cio la sicurezza sul posto di lav oro. Ma anche prima che Reagan e la Corte Suprema ne paralizzassero l attivit, la O SHA era gi una farsa. Nonostante i precedenti (e confronto agli standard attuali) generosi livelli di finanziamento dell era Carter, ci si poteva aspettare mediame nte un ispezione casuale ad un posto di lavoro, da parte di un funzionario dell OSHA , una volta ogni 46 anni. Affidare il controllo dell economia dello stato non una soluzione. Semmai, il lavo ro pi pericoloso in uno stato socialista che altrove. Migliaia di lavoratori russ i sono stati uccisi o feriti durante la costruzione della metropolitana a Mosca. Voci pervenute attorno ad incidenti verificatesi nell Unione Sovietica e passati

sotto silenzio, fanno sembrare Times Beach e Three Mile Island semplici esercita zioni di allarme aereo per le scuole elementari. D altro canto, la deregulation, o ra di moda, non serve molto, anzi probabilmente peggiora la situazione. Fra le a ltre cose, anche dal punto di vista della salute e della sicurezza, il lavoro mo strava il suo lato peggiore proprio nel periodo in cui l economia pi si avvicinava al modello laizzer-faire. Storici come Eugene Genovese, analogamente a quanto af fermavano gli apologeti della schiavit prima della guerra di secessione, hanno so stenuto in maniera persuasiva la tesi secondo la quale i salariati degli stati d el Nord America e dell Europa stavano peggio degli schiavi nelle piantagioni del s ud. chiaro che nessun mutamento di rapporti tra burocrati e uomini d affari pu camb iare qualcosa per quanto concerne la produzione. L imposizione di misure coercitiv e, o anche solo l applicazione che in teoria l OSHA potrebbe imporre della piuttosto vaga normativa vigente, comporterebbe probabilmente il blocco dell economia. Chia ramente i funzionari competenti se ne rendono conto, poich finora non hanno nemme no tentato di diventare pi severi coi trasgressori. Quello che ho detto finora probabilmente non susciter grandi opposizioni. Molti l avoratori sono stufi del lavoro. Si manifestano forti e crescenti tassi di assen teismo, dimissioni, furti e sabotaggi compiuti da dipendenti, scioperi spontanei e soprattutto frodi sul lavoro. Ci pu significare che vi un movimento verso il fu turo cosciente e non solo viscerale del lavoro. Eppure, l idea prevalente universa lmente diffusa sia tra i padroni e i loro agenti, che tra i lavoratori stessi, c he il lavoro sia inevitabile e necessario. Non sono d accordo. possibile fin d ora abolire il lavoro e sostituirlo, nella misur a in cui sia finalizzato a scopi utili, con una molteplicit di attivit libere e di nuovo genere. Al fine di abolire il lavoro necessario procedere lungo due direz ioni, una quantitativa e l altra qualitativa. Per quanto riguarda il lato quantita tivo, dobbiamo decurtare massicciamente la quantit complessiva di lavoro che nece ssario effettuare. A tutt oggi la maggior parte del lavoro inutile, o peggio che i nutile, e noi semplicemente dobbiamo liberarcene. D altra parte e penso che qui si a il punto cruciale di tutta la questione e il nuovo punto di partenza per il mo vimento rivoluzionario dobbiamo analizzare il lavoro utile rimasto e trasformato in una piacevole variet di passatempi simili, al tempo stesso, sia gioco che ad attivit produttiva, cio indistinguibili da altri passatempi salvo che per essi si d il caso che generino un prodotto finale utile. Di sicuro ci che non li renderebb e per questo meno allettanti di altri divertimenti. Da questo momento tutte le b arriere artificiali derivanti da rapporti di potere e di propriet potrebbe venir meno. La creazione potrebbe diventare ricreazione. E potrebbe cessare ogni diffi denza gli uni verso gli altri. La mia ipotesi non che la maggior parte del lavoro sia recuperabile in questo mo do. Ma che, in tal caso, per la maggior parte di esso non varrebbe nemmeno la pe na di tentarne il recupero. Infatti, solo una piccola, e sempre decrescente, par te del lavoro sociale serve a fini che siano realmente utili, e non connessi all a difesa e riproduzione dell attuale sistema di lavoro, e delle sue sovrastrutture giuridiche e politiche. Vent anni fa, Paul e Percival Goodman stimavano che il so lo 5% del lavoro svolto e presumibilmente questa cifra, se esatta, sarebbe ora p erfino inferiore sarebbe sufficiente a soddisfare i nostri bisogni minimali per il cibo, il vestiario e l abitazione. La loro era solo una timida congettura ma la questione principale abbastanza chiara: direttamente o indirettamente, la maggi or parte del lavoro viene svolto a fini produttivi attinenti la circolazione del le merci e il controllo sociale. In un batter d occhio potremmo liberare dal lavor o 10 milioni di commessi, militari, manager, poliziotti, agenti di borsa, preti, banchieri, avvocati, insegnanti, proprietari, addetti alla sicurezza, pubblicit ari, e tutti quelli che lavorano per loro. Si verificherebbe una reazione a cate na per cui ogni volta che viene disattivato qualche pezzo grosso, vengono libera ti anche i suoi scagnozzi e tirapiedi. In tal modo l economia implorerebbe. Il 40% della forza lavoro costituita da colletti bianchi, e la maggior parte di loro s volge un lavoro trai pi noiosi ed idioti che si possano immaginare. Industrie int ere, assicurazioni, banche e agenzie immobiliari, ad esempio, sono costituite da nient altro che da un inutile afflusso di cartaccia. Non un caso che il "settore terziario", cio il settore dei servizi, si stia ampliando, mentre il "settore sec

ondario" (l industria) sia stagnante, mentre il "settore primario" (l agricoltura) s ia sul punto si scomparire. Poich il lavoro non necessario se non per coloro ai q uali esso assicura il potere, i lavoratori vengono trasferiti da occupazioni rel ativamente utili ad altre relativamente meno utili, proprio in quanto ci costitui sce una misura finalizzata a garantire l ordine pubblico. Qualsiasi cosa meglio ch e il far niente. Questo il motivo per cui tu non puoi semplicemente andare a cas a quando il lavoro finito prima del tempo. Vogliono il tuo tempo, e in misura su fficiente da farti loro, anche se della maggior parte di quel tempo non sanno ch e farsene. Altrimenti perch la settimana lavorativa media non scesa che di qualch e minuto negli ultimi 50 anni? E ora passiamo ad applicare la nostra mannaia anche al lavoro produttivo stesso. Non pi produzioni belliche, energia nucleare, prodotti alimentari scadenti, deod oranti per l igiene intima femminile, e soprattutto chiuso ogni discorso riguardo l industria automobilistica. Una Stanley Steamer o una Model-T d occasione possono a ndare bene, mentre l autoerotismo da cui dipendono lazzaretti come Detroit e Los A ngeles fuori questione. E subito, senza neanche muovere un dito, abbiamo virtual mente risolto la crisi energetica, la crisi ambientale ed equilibrato altri inso lubili problemi sociali. Infine, dobbiamo abolire ci che rappresenta di gran lunga la pi di diffusa occupaz ione, quella con l oratorio prolungato, il compenso pi basso, e che comporta alcuni dei compiti pi noiosi che sia dato vedere. Mi riferisco alle nostre casalinghe, quelle che svolgono i lavoro domestici e allevano bambini. Con l abolizione del la voro salariato e con il raggiungimento del pieno dis-impegno, viene scardinata l a divisione sessuale del lavoro. La famiglia nucleare cos come la conosciamo cost ituisce un inevitabile adattamento alla divisione del lavoro imposta dal moderno lavoro salariato. Che ci piaccia o meno, cos stanno le cose, da uno o due secoli a questa parte, risulta pi razionale, dal punto di vista economico, che l uomo si guadagni lo stipendio, che la donna svolga quel lavoro di merda costituito dal c ostruire per lui un rifugio in questo mondo senza cuore, e che il bambino venga avviato verso quei campi di concentramento per i giovani chiamati "scuole"; e qu esto in primo luogo per allontanarli dalle braccia materne pur mantenendo ancora un certo controllo familiare, ma incidentalmente anche per acquisire quella con suetudine all obbedienza e alla puntualit cos necessaria ai lavoratori. Se vuoi libe rarti dal patriarcato, devi sbarazzarti della famiglia nucleare, il cui lavoro " sommerso" non pagato, secondo quanto affermava Ivan Illich, rende possibile il s istema di lavoro che ne rende necessaria l esistenza. Parte integrale di questa st rategia pacifica la abolizione dell infanzia e la chiusura delle scuole. In questo paese ci sono pi studenti a tempo pieno che lavoratori a tempo pieno. Abbiamo bi sogno che i bambini diventino insegnanti, e non studenti. Essi possono dare un g rosso contributo alla rivoluzione ludica perch meglio degli adulti sanno come si gioca. Adulti e bambini non sono identici ma potrebbero diventare uguali attrave rso l interdipendenza. Solo il gioco pu colmare il gap generazionale. Finora non ho nemmeno accennato alla possibilit di ridurre il poco lavoro rimanen te tramite l automazione e la cibernetica. Tutti gli scienziati, gli ingegneri, i tecnici liberarti dal fastidioso impegno costituito dalla ricerca a fini bellici , o indirizzata a pianificare l obsolescenza delle merci, potrebbero applicarsi al piacevole compito di progettare dispositivi atti ad eliminare la fatica, la noi a, e il pericolo da lavori come l attivit estrattiva nelle miniere. Senza dubbio tr overebbero altri progetti con cui dilettarsi. Forse istituiranno un sistema inte grato di comunicazione multimediale esteso a tutto il mondo, oppure fonderanno c olonie nello spazio cosmico. Forse. Per quanto mi riguarda non sono un maniaco d ella tecnologia. Non vorrei vivere in un paradiso fatto di pulsanti. Non desider o robot schiavi che fanno tutto; voglio farmi le mie cose da solo. Credo che esi sta spazio per una tecnologia che faccia risparmiare fatica, ma uno spazio modes to. Le testimonianze storiche e preistoriche non sono incoraggianti. Quanto la t ecnologia produttiva si evolse da quella propria dei cacciatori-produttori a que lla agricola ed industriale, il lavoro aument mentre l abilit individuale e la capac it di determinare la propria vita diminuirono. L ulteriore evoluzione dell industrial izzazione accentu quella che Harry Braveman chiama la degradazione del lavoro. Gl i osservatori pi avvertiti sono sempre stati consapevoli di tale fenomeno. John S

tuart Mill scrisse che tutte le invenzioni che finora sono state escogitate per risparmiare fatica non hanno mai fatto risparmiare effettivamente un solo attimo di lavoro. Karl Marx scrisse che: "Sarebbe possibile scrivere una storia delle invenzioni, a partire dal 1830, con il fine esclusivo di fornire al capitale arm i contro le rivolte della classe lavoratrice". I tecnofili entusiasti quali Sain t Simon, Comte, Lenin, B.F. Skinner hanno mostrato altres di essere granitiche pe rsonalit autoritarie; vale a dire, dei tecnocrati. Siamo oltremodo scettici rigua rdo alla promesse dei mistici dei computer. Costoro lavorano come cani; probabil e che, se avranno via libera, lo stesso accada per tutti gli altri. Ma se posson o offrire qualche particolare contributo pi direttamente subordinabile a fini uma ni che la corsa all alta tecnologia, diamo pure loro ascolto. Ci che essenzialmente vorrei vedere realizzato la trasformazione del lavoro in gi oco. Il primo passo sar cancellare le nozioni di "mansione" e "occupazione". Anch e per quelle attivit che presentano gi ora qualche contenuto ludico, accade che ne perdano la maggior parte dal momento che esse vengono ridotte ad attivit imposte a certi individui, e solo a loro, mentre ne vengono esclusi gli altri. Non stra no che i braccianti agricoli si affatichino penosamente nei campi mentre i loro padroni, che vivono in ambienti dotati di aria condizionata, ogni week-end stian o in casa e qui si dilettino con lavori di giardinaggio? Sotto un sistema di fes ta permanente, saremo testimoni della nascita di una nuova Et dell Oro del grande d ilettantismo, evento che oscurer l et rinascimentale. Non esisteranno pi lavori ma co se da fare e persone per farle. Il segreto per volgere il lavoro in gioco, come gi dimostr Charles Fourier, sta ne ll organizzare utili traendo profitto da qualsiasi cosa diversi individui in tempi diversi di fatto gi amino fare. Al fine di rendere possibile per gli individui f are le cose che amerebbero fare, sufficiente eliminare l irrazionalit e le deformaz ioni che minano queste attivit nel momento in cui vengono ridotte a lavoro. Ad es empio, mi piacerebbe impegnarmi un po (non troppo) nell insegnamento, ma non voglio avere un ruolo autoritario con gli studenti, e non desidero fare il leccapiedi di qualche patetico pedante per ottenere un incarico. In secondo luogo, vi sono cose che gli uomini amano fare di tanto in tanto, ma n on troppo a lungo, e di certo non per sempre. Pu essere gradevole fare il mestier e di baby-sitter per qualche ora, in quanto cos si pu condividere la compagnia dei piccoli, ma non cos a lungo come i loro genitori. I genitori, nondimeno, danno g radevole valore al tempo di libert che in tal modo viene loro dato disponibile, m entre diventano ansiosi se rimangono lontani dalla loro prole troppo a lungo. So no queste differenze tra gli individui quelle che rendono possibile una vita di libero gioco. Lo stesso principio pu essere applicato in molti altri campi di att ivit, e soprattutto in quelle a carattere primario. Cos molte persone si divertono a cucinare quando lo possono fare davvero a loro piacere, ma non quando, per la voro, devono alimentare corpi umani. Terzo a parit di condizioni alcune cose che sono sgradevoli se fatte soli o in un ambiente spiacevole, oppure agli ordini di un padrone, diventano piacevoli, alm eno per qualche tempo, se tali circostanze vengono modificate. Probabilmente que sto vero, in qualche misura, per tutti i lavori. La gente pu dispiegare la propri a ingegnosit altrimenti sprecata trasformando in una gara, nel miglior modo possi bile, il meno allettante dei lavori di fatica. Attivit che interessano alcune per sone non sempre interessano tutti; ma tutti, almeno potenzialmente, posseggono u na certa variet di interessi ed un certo interesse per la variet. Secondo la nota massima: "Ogni cosa almeno una volta". Fourier fu maestro nell escogitare modi in cui le inclinazioni pi aberranti e perverse potessero trasformarsi in attivit util i in una societ post-civilizzata, quella che egli denomin Armonia. Pensava che l imp eratore Nerone avrebbe lavorato molto bene se da bambino avesse potuto soddisfar e la sua propensione verso gli spargimenti di sangue in un macello. I bambini pi piccoli, che notoriamente amano voltarsi nel sudiciume, potrebbero essere organi zzati in "Piccole Orde" che pulirebbero le latrine e svuoterebbero i contenitori della spazzatura, con l assegnazione di medaglie ai migliori. Non voglio proporre in concreto proprio questi specifici esempi, ma il principio che li fonda penso dia il senso preciso di una delle dimensioni di ogni radicale trasformazione ri voluzionaria. Occorre tener presente che non dobbiamo prendere il lavoro tale qu

ale come si presenta oggi e abbinarlo alle persone adatte, alcune delle quali po trebbero anche essere dei pervertiti. Se la tecnologia pu avere un ruolo in tutto ci, sar pi quello di aprire nuovi orizzonti alla ri/creazione, che di automatizzar e il lavoro cancellandolo completamente. In una certa misura vogliamo tornare al l artigianato, attivit che William Morris considerava il probabile ed auspicabile e sito della rivoluzione comunista. L arte verr recuperata dalle mani degli snob e li berata dall ambiente dei collezionisti, abolita come categoria specialistica rivol ta ad un pubblico elitario, e i suoi contenuti estetici e creativi restituiti al la pienezza della vita cui furono sottratti dal lavoro. Vi da riflettere sul fat to che i vasi attici di cui tessiamo le lodi, e che esponiamo nei musei, nella l oro epoca vennero usati per conservare le olive. Dubito che i nostri manufatti c omuni avranno una sorte cos gloriosa in futuro, se mai ne avranno una. Il fatto c he non esiste qualcosa di simile al progresso nel mondo del lavoro. Semmai propr io il contrario. Non dovremmo esitare a prendere dal passato quello che ci pu off rire: gli uomini del passato sicuramente non ci perdono nulla, mentre noi ne ven iamo arricchiti. La reinvenzione della vita quotidiana significa andare al di l dei margini delle nostre mappe. Ed vero che, in merito, esiste una corrente di pensiero molto pi su ggestiva di quanto la gente possa immaginare. Oltre a Fourier e a Morris e anche a qualche allusione, qua e l, di Marx ci sono gli scritti di Kropotkin, degli an arcosindacalisti Pataud e Pouget, di vecchi anarcocomunisti (Berkman) e di nuovi (Bookchin). La Communitas dei fratelli Goodman esemplare nell illustrare quale fo rma consegue da una data funzione (scopo), e c qualcosa da recuperare dagli stessi confusi apologeti della tecnologia alternativa/appropriata/intermedia/convivial e come Schumacher e specialmente Illich, una volta disattivate le loro macchine fumogene. I situazionisti come Vaneigem nel Trattato del saper vivere ad uso del le giovani generazioni, e l antologia dell Internazionale Situazionista sono tanto im placabilmente lucidi quanto esilaranti, anche se non superano mai completamente la contraddizione consistente nel sostenere da una parte il potere dei consigli operai e dall altra l abolizione del lavoro. Tuttavia, la loro incongruenza preferib ile a tutte le versioni del sinistrismo ancora in circolazione, i cui adepti app aiono come gli ultimi difensori del lavoro, ci evidentemente in quanto se non esi stesse il lavoro non vi sarebbero lavoratori, e in assenza di lavoratori, chi ma i potrebbe organizzare la sinistra? Pertanto gli abolizionisti si trovano in tale prospettiva ad essere nettamente s oli. Nessuno pu dire quello che potrebbe risultare dalla liberazione del potere c reativo, ora frustrato, dal lavoro. Pu accadere di tutto. L estenuante dibattito de l problema dell opposizione tra necessit e libert, con i suoi risvolti teologici, si risolve praticamente da s una volta che la produzione di valore d uso sia coestens iva all applicarsi di una piacevole attivit ludica. La vita diventer un gioco, o piuttosto una molteplicit di giochi, ma non come acca de ora un gioco a somma zero. Un intesa ottimale sul piano sessuale il paradigma d i un gioco produttivo. I partecipanti esaltano il piacere l uno dell altro, non vien e assegnato alcun punteggio, e ognuno vince. Pi dai, pi ottieni. Nella vita ludica , il meglio del sesso verr integrato nella parte migliore della vita quotidiana. Il gioco generalizzato porta all erotizzazione della vita. Il sesso, a sua volta, pu diventare meno urgente e disperato, pi giocoso. Se giochiamo bene le nostre car te, possiamo prendere dalla vita molto di pi di quanto ci mettiamo; ma solo se gi ochiamo per davvero. Nessuno dovrebbe mai lavorare. Lavoratori del mondo rilassatevi. No one should ever work. Work is the source of nearly all the misery in the world. Almost any evil you'd care to name comes from working or from living in a world designed for work. In order to stop suffering, we have to stop working. That doesn't mean we have to stop doing things. It does mean creating a new way of life based on play; in other words, a ludic conviviality, commensality, and m aybe even art. There is more to play than child's play, as worthy as that is. I call for a collective adventure in generalized joy and freely interdependent exu

berance. Play isn't passive. Doubtless we all need a lot more time for sheer slo th and slack than we ever enjoy now, regardless of income or occupation, but onc e recovered from employment-induced exhaustion nearly all of us want to act. Obl omovism and Stakhanovism are two sides of the same debased coin. The ludic life is totally incompatible with existing reality. So much the worse for "reality," the gravity hole that sucks the vitality from the little in life that still distinguishes it from mere survival. Curiously -- or maybe not -- all the old ideologies are conservative because they believe in work. Some of them, like Marxism and most brands of anarchism, believe in work all the more fiercel y because they believe in so little else. Liberals say we should end employment discrimination. I say we should end employ ment. Conservatives support right-to-work laws. Following Karl Marx's wayward so n-in-law Paul Lafargue I support the right to be lazy. Leftists favor full emplo yment. Like the surrealists -- except that I'm not kidding -- I favor full unemp loyment. Trotskyists agitate for permanent revolution. I agitate for permanent r evelry. But if all the ideologues (as they do) advocate work -- and not only bec ause they plan to make other people do theirs -- they are strangely reluctant to say so. They will carry on endlessly about wages, hours, working conditions, ex ploitation, productivity, profitability. They'll gladly talk about anything but work itself. These experts who offer to do our thinking for us rarely share thei r conclusions about work, for all its saliency in the lives of all of us. Among themselves they quibble over the details. Unions and management agree that we ou ght to sell the time of our lives in exchange for survival, although they haggle over the price. Marxists think we should be bossed by bureaucrats. Libertarians think we should be bossed by businessmen. Feminists don't care which form bossi ng takes so long as the bosses are women. Clearly these ideology-mongers have se rious differences over how to divvy up the spoils of power. Just as clearly, non e of them have any objection to power as such and all of them want to keep us wo rking. You may be wondering if I'm joking or serious. I'm joking and serious. To be lud ic is not to be ludicrous. Play doesn't have to be frivolous, although frivolity isn't triviality: very often we ought to take frivolity seriously. I'd like lif e to be a game -- but a game with high stakes. I want to play for keeps. The alternative to work isn't just idleness. To be ludic is not to be quaaludic. As much as I treasure the pleasure of torpor, it's never more rewarding than wh en it punctuates other pleasures and pastimes. Nor am I promoting the managed ti me-disciplined safety-valve called "leisure"; far from it. Leisure is nonwork fo r the sake of work. Leisure is the time spent recovering from work and in the fr enzied but hopeless attempt to forget about work. Many people return from vacati on so beat that they look forward to returning to work so they can rest up. The main difference between work and leisure is that work at least you get paid for your alienation and enervation. I am not playing definitional games with anybody. When I say I want to abolish w ork, I mean just what I say, but I want to say what I mean by defining my terms in non-idiosyncratic ways. My minimum definition of work is forced labor, that i s, compulsory production. Both elements are essential. Work is production enforc ed by economic or political means, by the carrot or the stick. (The carrot is ju st the stick by other means.) But not all creation is work. Work is never done f or its own sake, it's done on account of some product or output that the worker (or, more often, somebody else) gets out of it. This is what work necessarily is . To define it is to despise it. But work is usually even worse than its definit ion decrees. The dynamic of domination intrinsic to work tends over time toward elaboration. In advanced work-riddled societies, including all industrial societ ies whether capitalist of "Communist," work invariably acquires other attributes which accentuate its obnoxiousness.

Usually -- and this is even more true in "Communist" than capitalist countries, where the state is almost the only employer and everyone is an employee -- work is employment, i. e., wage-labor, which means selling yourself on the installmen t plan. Thus 95% of Americans who work, work for somebody (or something) else. I n the USSR or Cuba or Yugoslavia or any other alternative model which might be a dduced, the corresponding figure approaches 100%. Only the embattled Third World peasant bastions -- Mexico, India, Brazil, Turkey -- temporarily shelter signif icant concentrations of agriculturists who perpetuate the traditional arrangemen t of most laborers in the last several millenia, the payment of taxes (= ransom) to the state or rent to parasitic landlords in return for being otherwise left alone. Even this raw deal is beginning to look good. All industrial (and office) workers are employees and under the sort of surveillance which ensures servilit y. But modern work has worse implications. People don't just work, they have "jobs. " One person does one productive task all the time on an or-else basis. Even if the task has a quantum of intrinsic interest (as increasingly many jobs don't) t he monotony of its obligatory exclusivity drains its ludic potential. A "job" th at might engage the energies of some people, for a reasonably limited time, for the fun of it, is just a burden on those who have to do it for forty hours a wee k with no say in how it should be done, for the profit of owners who contribute nothing to the project, and with no opportunity for sharing tasks or spreading t he work among those who actually have to do it. This is the real world of work: a world of bureaucratic blundering, of sexual harassment and discrimination, of bonehead bosses exploiting and scapegoating their subordinates who -- by any rat ional-technical criteria -- should be calling the shots. But capitalism in the r eal world subordinates the rational maximization of productivity and profit to t he exigencies of organizational control. The degradation which most workers experience on the job is the sum of assorted indignities which can be denominated as "discipline." Foucault has complexified this phenomenon but it is simple enough. Discipline consists of the totality of totalitarian controls at the workplace -- surveillance, rotework, imposed work t empos, production quotas, punching -in and -out, etc. Discipline is what the fac tory and the office and the store share with the prison and the school and the m ental hospital. It is something historically original and horrible. It was beyon d the capacities of such demonic dictators of yore as Nero and Genghis Khan and Ivan the Terrible. For all their bad intentions they just didn't have the machin ery to control their subjects as thoroughly as modern despots do. Discipline is the distinctively diabolical modern mode of control, it is an innovative intrusi on which must be interdicted at the earliest opportunity. Such is "work." Play is just the opposite. Play is always voluntary. What might otherwise be play is work if it's forced. This is axiomatic. Bernie de Koven has defined play as the "suspension of consequences." This is unacceptable if it im plies that play is inconsequential. The point is not that play is without conseq uences. This is to demean play. The point is that the consequences, if any, are gratuitous. Playing and giving are closely related, they are the behavioral and transactional facets of the same impulse, the play-instinct. They share an arist ocratic disdain for results. The player gets something out of playing; that's wh y he plays. But the core reward is the experience of the activity itself (whatev er it is). Some otherwise attentive students of play, like Johan Huizinga (Homo Ludens), define it as game-playing or following rules. I respect Huizinga's erud ition but emphatically reject his constraints. There are many good games (chess, baseball, Monopoly, bridge) which are rule-governed but there is much more to p lay than game-playing. Conversation, sex, dancing, travel -- these practices are n't rule-governed but they are surely play if anything is. And rules can be play ed with at least as readily as anything else.

Work makes a mockery of freedom. The official line is that we all have rights an d live in a democracy. Other unfortunates who aren't free like we are have to li ve in police states. These victims obey orders or-else, no matter how arbitrary. The authorities keep them under regular surveillance. State bureaucrats control even the smaller details of everyday life. The officials who push them around a re answerable only to higher-ups, public or private. Either way, dissent and dis obedience are punished. Informers report regularly to the authorities. All this is supposed to be a very bad thing. And so it is, although it is nothing but a description of the modern workplace. The liberals and conservatives and libertarians who lament totalitarianism are p honies and hypocrites. There is more freedom in any moderately deStalinized dict atorship than there is in the ordinary American workplace. You find the same sor t of hierarchy and discipline in an office or factory as you do in a prison or m onastery. In fact, as Foucault and others have shown, prisons and factories came in at about the same time, and their operators consciously borrowed from each o ther's control techniques. A worker is a part time slave. The boss says when to show up, when to leave, and what to do in the meantime. He tells you how much wo rk to do and how fast. He is free to carry his control to humiliating extremes, regulating, if he feels like it, the clothes you wear or how often you go to the bathroom. With a few exceptions he can fire you for any reason, or no reason. H e has you spied on by snitches and supervisors, he amasses a dossier on every em ployee. Talking back is called "insubordination," just as if a worker is a naugh ty child, and it not only gets you fired, it disqualifies you for unemployment c ompensation. Without necessarily endorsing it for them either, it is noteworthy that children at home and in school receive much the same treatment, justified i n their case by their supposed immaturity. What does this say about their parent s and teachers who work? The demeaning system of domination I've described rules over half the waking hou rs of a majority of women and the vast majority of men for decades, for most of their lifespans. For certain purposes it's not too misleading to call our system democracy or capitalism or -- better still -- industrialism, but its real names are factory fascism and office oligarchy. Anybody who says these people are "fr ee" is lying or stupid. You are what you do. If you do boring, stupid monotonous work, chances are you'll end up boring, stupid and monotonous. Work is a much b etter explanation for the creeping cretinization all around us than even such si gnificant moronizing mechanisms as television and education. People who are regi mented all their lives, handed off to work from school and bracketed by the fami ly in the beginning and the nursing home at the end, are habituated to heirarchy and psychologically enslaved. Their aptitude for autonomy is so atrophied that their fear of freedom is among their few rationally grounded phobias. Their obed ience training at work carries over into the families they start, thus reproduci ng the system in more ways than one, and into politics, culture and everything e lse. Once you drain the vitality from people at work, they'll likely submit to h eirarchy and expertise in everything. They're used to it. We are so close to the world of work that we can't see what it does to us. We ha ve to rely on outside observers from other times or other cultures to appreciate the extremity and the pathology of our present position. There was a time in ou r own past when the "work ethic" would have been incomprehensible, and perhaps W eber was on to something when he tied its appearance to a religion, Calvinism, w hich if it emerged today instead of four centuries ago would immediately and app ropriately be labeled a cult. Be that as it may, we have only to draw upon the w isdom of antiquity to put work in perspective. The ancients saw work for what it is, and their view prevailed, the Calvinist cranks notwithstanding, until overt hrown by industrialism -- but not before receiving the endorsement of its prophe ts. Let's pretend for a moment that work doesn't turn people into stultified submiss

ives. Let's pretend, in defiance of any plausible psychology and the ideology of its boosters, that it has no effect on the formation of character. And let's pr etend that work isn't as boring and tiring and humiliating as we all know it rea lly is. Even then, work would still make a mockery of all humanistic and democra tic aspirations, just because it usurps so much of our time. Socrates said that manual laborers make bad friends and bad citizens because they have no time to f ulfill the responsibilities of friendship and citizenship. He was right. Because of work, no matter what we do we keep looking at our watches. The only thing "f ree" about so-called free time is that it doesn't cost the boss anything. Free t ime is mostly devoted to getting ready for work, going to work, returning from w ork, and recovering from work. Free time is a euphemism for the peculiar way lab or as a factor of production not only transports itself at its own expense to an d from the workplace but assumes primary responsibility for its own maintenance and repair. Coal and steel don't do that. Lathes and typewriters don't do that. But workers do. No wonder Edward G. Robinson in one of his gangster movies excla imed, "Work is for saps!" Both Plato and Xenophon attribute to Socrates and obviously share with him an aw areness of the destructive effects of work on the worker as a citizen and a huma n being. Herodotus identified contempt for work as an attribute of the classical Greeks at the zenith of their culture. To take only one Roman example, Cicero s aid that "whoever gives his labor for money sells himself and puts himself in th e rank of slaves." His candor is now rare, but contemporary primitive societies which we are wont to look down upon have provided spokesmen who have enlightened Western anthropologists. The Kapauku of West Irian, according to Posposil, have a conception of balance in life and accordingly work only every other day, the day of rest designed "to regain the lost power and health." Our ancestors, even as late as the eighteenth century when they were far along the path to our prese nt predicament, at least were aware of what we have forgotten, the underside of industrialization. Their religious devotion to "St. Monday" -- thus establishing a de facto five-day week 150-200 years before its legal consecration -- was the despair of the earliest factory owners. They took a long time in submitting to the tyranny of the bell, predecessor of the time clock. In fact it was necessary for a generation or two to replace adult males with women accustomed to obedien ce and children who could be molded to fit industrial needs. Even the exploited peasants of the ancient regime wrested substantial time back from their landlord 's work. According to Lafargue, a fourth of the French peasants' calendar was de voted to Sundays and holidays, and Chayanov's figures from villages in Czarist R ussia -- hardly a progressive society -- likewise show a fourth or fifth of peas ants' days devoted to repose. Controlling for productivity, we are obviously far behind these backward societies. The exploited muzhiks would wonder why any of us are working at all. So should we. To grasp the full enormity of our deterioration, however, consider the earliest condition of humanity, without government or property, when we wandered as hunte r-gatherers. Hobbes surmised that life was then nasty, brutish and short. Others assume that life was a desperate unremitting struggle for subsistence, a war wa ged against a harsh Nature with death and disaster awaiting the unlucky or anyon e who was unequal to the challenge of the struggle for existence. Actually, that was all a projection of fears for the collapse of government authority over com munities unaccustomed to doing without it, like the England of Hobbes during the Civil War. Hobbes' compatriots had already encountered alternative forms of soc iety which illustrated other ways of life -- in North America, particularly -- b ut already these were too remote from their experience to be understandable. (Th e lower orders, closer to the condition of the Indians, understood it better and often found it attractive. Throughout the seventeenth century, English settlers defected to Indian tribes or, captured in war, refused to return. But the India ns no more defected to white settlements than Germans climb the Berlin Wall from the west.) The "survival of the fittest" version -- the Thomas Huxley version - of Darwinism was a better account of economic conditions in Victorian England

than it was of natural selection, as the anarchist Kropotkin showed in his book Mutual Aid, A Factor of Evolution. (Kropotkin was a scientist -- a geographer -who'd had ample involuntary opportunity for fieldwork whilst exiled in Siberia: he knew what he was talking about.) Like most social and political theory, the story Hobbes and his successors told was really unacknowledged autobiography. The anthropologist Marshall Sahlins, surveying the data on contemporary hunter-g atherers, exploded the Hobbesian myth in an article entitled "The Original Afflu ent Society." They work a lot less than we do, and their work is hard to disting uish from what we regard as play. Sahlins concluded that "hunters and gatherers work less than we do; and rather than a continuous travail, the food quest is in termittent, leisure abundant, and there is a greater amount of sleep in the dayt ime per capita per year than in any other condition of society." They worked an average of four hours a day, assuming they were "working" at all. Their "labor," as it appears to us, was skilled labor which exercised their physical and intel lectual capacities; unskilled labor on any large scale, as Sahlins says, is impo ssible except under industrialism. Thus it satisfied Friedrich Schiller's defini tion of play, the only occasion on which man realizes his complete humanity by g iving full "play" to both sides of his twofold nature, thinking and feeling. As he put it: "The animal works when deprivation is the mainspring of its activity, and it plays when the fullness of its strength is this mainspring, when superab undant life is its own stimulus to activity." (A modern version -- dubiously dev elopmental -- is Abraham Maslow's counterposition of "deficiency" and "growth" m otivation.) Play and freedom are, as regards production, coextensive. Even Marx, who belongs (for all his good intentions) in the productivist pantheon, observe d that "the realm of freedom does not commence until the point is passed where l abor under the compulsion of necessity and external utility is required." He nev er could quite bring himself to identify this happy circumstance as what it is, the abolition of work -- it's rather anomalous, after all, to be pro-worker and anti-work -- but we can. The aspiration to go backwards or forwards to a life without work is evident in every serious social or cultural history of pre-industrial Europe, among them M. Dorothy George's England In Transition and Peter Burke's Popular Culture in Ear ly Modern Europe. Also pertinent is Daniel Bell's essay, "Work and its Disconten ts," the first text, I believe, to refer to the "revolt against work" in so many words and, had it been understood, an important correction to the complacency o rdinarily associated with the volume in which it was collected, The End of Ideol ogy. Neither critics nor celebrants have noticed that Bell's end-of-ideology the sis signaled not the end of social unrest but the beginning of a new, uncharted phase unconstrained and uninformed by ideology. It was Seymour Lipset (in Politi cal Man), not Bell, who announced at the same time that "the fundamental problem s of the Industrial Revolution have been solved," only a few years before the po st- or meta-industrial discontents of college students drove Lipset from UC Berk eley to the relative (and temporary) tranquility of Harvard. As Bell notes, Adam Smith in The Wealth of Nations, for all his enthusiasm for t he market and the division of labor, was more alert to (and more honest about) t he seamy side of work than Ayn Rand or the Chicago economists or any of Smith's modern epigones. As Smith observed: "The understandings of the greater part of m en are necessarily formed by their ordinary employments. The man whose life is s pent in performing a few simple operations... has no occasion to exert his under standing... He generally becomes as stupid and ignorant as it is possible for a human creature to become." Here, in a few blunt words, is my critique of work. B ell, writing in 1956, the Golden Age of Eisenhower imbecility and American selfsatisfaction, identified the unorganized, unorganizable malaise of the 1970's an d since, the one no political tendency is able to harness, the one identified in HEW's report Work in America, the one which cannot be exploited and so is ignor ed. That problem is the revolt against work. It does not figure in any text by a ny laissez-faire economist -- Milton Friedman, Murray Rothbard, Richard Posner -

- because, in their terms, as they used to say on Star Trek, "it does not comput e." If these objections, informed by the love of liberty, fail to persuade humanists of a utilitarian or even paternalist turn, there are others which they cannot d isregard. Work is hazardous to your health, to borrow a book title. In fact, wor k is mass murder or genocide. Directly or indirectly, work will kill most of the people who read these words. Between 14,000 and 25,000 workers are killed annua lly in this country on the job. Over two million are disabled. Twenty to twentyfive million are injured every year. And these figures are based on a very conse rvative estimation of what constitutes a work-related injury. Thus they don't co unt the half million cases of occupational disease every year. I looked at one m edical textbook on occupational diseases which was 1,200 pages long. Even this b arely scratches the surface. The available statistics count the obvious cases li ke the 100,000 miners who have black lung disease, of whom 4,000 die every year, a much higher fatality rate than for AIDS, for instance, which gets so much med ia attention. This reflects the unvoiced assumption that AIDS afflicts perverts who could control their depravity whereas coal-mining is a sacrosanct activity b eyond question. What the statistics don't show is that tens of millions of peopl e have heir lifespans shortened by work -- which is all that homicide means, aft er all. Consider the doctors who work themselves to death in their 50's. Conside r all the other workaholics. Even if you aren't killed or crippled while actually working, you very well migh t be while going to work, coming from work, looking for work, or trying to forge t about work. The vast majority of victims of the automobile are either doing on e of these work-obligatory activities or else fall afoul of those who do them. T o this augmented body-count must be added the victims of auto-industrial polluti on and work-induced alcoholism and drug addiction. Both cancer and heart disease are modern afflictions normally traceable, directly, or indirectly, to work. Work, then, institutionalizes homicide as a way of life. People think the Cambod ians were crazy for exterminating themselves, but are we any different? The Pol Pot regime at least had a vision, however blurred, of an egalitarian society. We kill people in the six-figure range (at least) in order to sell Big Macs and Ca dillacs to the survivors. Our forty or fifty thousand annual highway fatalities are victims, not martyrs. They died for nothing -- or rather, they died for work . But work is nothing to die for. Bad news for liberals: regulatory tinkering is useless in this life-and-death co ntext. The federal Occupational Safety and Health Administration was designed to police the core part of the problem, workplace safety. Even before Reagan and t he Supreme Court stifled it, OSHA was a farce. At previous and (by current stand ards) generous Carter-era funding levels, a workplace could expect a random visi t from an OSHA inspector once every 46 years. State control of the economy is no solution. Work is, if anything, more dangerou s in the state-socialist countries than it is here. Thousands of Russian workers were killed or injured building the Moscow subway. Stories reverberate about co vered-up Soviet nuclear disasters which make Times Beach and Three-Mile Island l ook like elementary-school air-raid drills. On the other hand, deregulation, cur rently fashionable, won't help and will probably hurt. From a health and safety standpoint, among others, work was at its worst in the days when the economy mos t closely approximated laissez-faire. Historians like Eugene Genovese have argued persuasively that -- as antebellum s lavery apologists insisted -- factory wage-workers in the Northern American stat es and in Europe were worse off than Southern plantation slaves. No rearrangemen t of relations among bureaucrats and businessmen seems to make much difference a t the point of production. Serious enforcement of even the rather vague standard

s enforceable in theory by OSHA would probably bring the economy to a standstill . The enforcers apparently appreciate this, since they don't even try to crack d own on most malefactors. What I've said so far ought not to be controversial. Many workers are fed up wit h work. There are high and rising rates of absenteeism, turnover, employee theft and sabotage, wildcat strikes, and overall goldbricking on the job. There may b e some movement toward a conscious and not just visceral rejection of work. And yet the prevalent feeling, universal among bosses and their agents and also wide spread among workers themselves is that work itself is inevitable and necessary. I disagree. It is now possible to abolish work and replace it, insofar as it ser ves useful purposes, with a multitude of new kinds of free activities. To abolis h work requires going at it from two directions, quantitative and qualitative. O n the one hand, on the quantitative side, we have to cut down massively on the a mount of work being done. At present most work is useless or worse and we should simply get rid of it. On the other hand -- and I think this is the crux of the matter and the revolutionary new departure -- we have to take what useful work r emains and transform it into a pleasing variety of game-like and craft-like past imes, indistinguishable from other pleasurable pastimes, except that they happen to yield useful end-products. Surely that shouldn't make them less enticing to do. Then all the artificial barriers of power and property could come down. Crea tion could become recreation. And we could all stop being afraid of each other. I don't suggest that most work is salvageable in this way. But then most work is n't worth trying to save. Only a small and diminishing fraction of work serves a ny useful purpose independent of the defense and reproduction of the work-system and its political and legal appendages. Twenty years ago, Paul and Percival Goo dman estimated that just five percent of the work then being done -- presumably the figure, if accurate, is lower now -- would satisfy our minimal needs for foo d, clothing, and shelter. Theirs was only an educated guess but the main point i s quite clear: directly or indirectly, most work serves the unproductive purpose s of commerce or social control. Right off the bat we can liberate tens of milli ons of salesmen, soldiers, managers, cops, stockbrokers, clergymen, bankers, law yers, teachers, landlords, security guards, ad-men and everyone who works for th em. There is a snowball effect since every time you idle some bigshot you libera te his flunkeys and underlings also. Thus the economy implodes. Forty percent of the workforce are white-collar workers, most of whom have some of the most tedious and idiotic jobs ever concocted. Entire industries, insuranc e and banking and real estate for instance, consist of nothing but useless paper -shuffling. It is no accident that the "tertiary sector," the service sector, is growing while the "secondary sector" (industry) stagnates and the "primary sect or" (agriculture) nearly disappears. Because work is unnecessary except to those whose power it secures, workers are shifted from relatively useful to relativel y useless occupations as a measure to assure public order. Anything is better th an nothing. That's why you can't go home just because you finish early. They wan t your time, enough of it to make you theirs, even if they have no use for most of it. Otherwise why hasn't the average work week gone down by more than a few m inutes in the past fifty years? Next we can take a meat-cleaver to production work itself. No more war productio n, nuclear power, junk food, feminine hygiene deodorant -- and above all, no mor e auto industry to speak of. An occasional Stanley Steamer or Model-T might be a ll right, but the auto-eroticism on which such pestholes as Detroit and Los Ange les depend on is out of the question. Already, without even trying, we've virtua lly solved the energy crisis, the environmental crisis and assorted other insolu ble social problems. Finally, we must do away with far and away the largest occupation, the one with

the longest hours, the lowest pay and some of the most tedious tasks around. I r efer to housewives doing housework and child-rearing. By abolishing wage-labor a nd achieving full unemployment we undermine the sexual division of labor. The nu clear family as we know it is an inevitable adaptation to the division of labor imposed by modern wage-work. Like it or not, as things have been for the last ce ntury or two it is economically rational for the man to bring home the bacon, fo r the woman to do the shitwork to provide him with a haven in a heartless world, and for the children to be marched off to youth concentration camps called "sch ools," primarily to keep them out of Mom's hair but still under control, but inc identally to acquire the habits of obedience and punctuality so necessary for wo rkers. If you would be rid of patriarchy, get rid of the nuclear family whose un paid "shadow work," as Ivan Illich says, makes possible the work-system that mak es it necessary. Bound up with this no-nukes strategy is the abolition of childh ood and the closing of the schools. There are more full-time students than fulltime workers in this country. We need children as teachers, not students. They h ave a lot to contribute to the ludic revolution because they're better at playin g than grown-ups are. Adults and children are not identical but they will become equal through interdependence. Only play can bridge the generation gap. I haven't as yet even mentioned the possibility of cutting way down on the littl e work that remains by automating and cybernizing it. All the scientists and eng ineers and technicians freed from bothering with war research and planned obsole scence would have a good time devising means to eliminate fatigue and tedium and danger from activities like mining. Undoubtedly they'll find other projects to amuse themselves with. Perhaps they'll set up world-wide all-inclusive multi-med ia communications systems or found space colonies. Perhaps. I myself am no gadge t freak. I wouldn't care to live in a pushbutton paradise. I don't want robot sl aves to do everything; I want to do things myself. There is, I think, a place fo r labor-saving technology, but a modest place. The historical and pre-historical record is not encouraging. When productive technology went from hunting-gatheri ng to agriculture and on to industry, work increased while skills and self-deter mination diminished. The further evolution of industrialism has accentuated what Harry Braverman called the degradation of work. Intelligent observers have alwa ys been aware of this. John Stuart Mill wrote that all the labor-saving inventio ns ever devised haven't saved a moment's labor. Karl Marx wrote that "it would b e possible to write a history of the inventions, made since 1830, for the sole p urpose of supplying capital with weapons against the revolts of the working clas s." The enthusiastic technophiles -- Saint-Simon, Comte, Lenin, B. F. Skinner -have always been unabashed authoritarians also; which is to say, technocrats. W e should be more than sceptical about the promises of the computer mystics. They work like dogs; chances are, if they have their way, so will the rest of us. Bu t if they have any particularized contributions more readily subordinated to hum an purposes than the run of high tech, let's give them a hearing. What I really want to see is work turned into play. A first step is to discard t he notions of a "job" and an "occupation." Even activities that already have som e ludic content lose most of it by being reduced to jobs which certain people, a nd only those people are forced to do to the exclusion of all else. Is it not od d that farm workers toil painfully in the fields while their air-conditioned mas ters go home every weekend and putter about in their gardens? Under a system of permanent revelry, we will witness the Golden Age of the dilettante which will p ut the Renaissance to shame. There won't be any more jobs, just things to do and people to do them. The secret of turning work into play, as Charles Fourier demonstrated, is to arr ange useful activities to take advantage of whatever it is that various people a t various times in fact enjoy doing. To make it possible for some people to do t he things they could enjoy it will be enough just to eradicate the irrationaliti es and distortions which afflict these activities when they are reduced to work. I, for instance, would enjoy doing some (not too much) teaching, but I don't wa

nt coerced students and I don't care to suck up to pathetic pedants for tenure. Second, there are some things that people like to do from time to time, but not for too long, and certainly not all the time. You might enjoy baby-sitting for a few hours in order to share the company of kids, but not as much as their paren ts do. The parents meanwhile, profoundly appreciate the time to themselves that you free up for them, although they'd get fretful if parted from their progeny f or too long. These differences among individuals are what make a life of free pl ay possible. The same principle applies to many other areas of activity, especia lly the primal ones. Thus many people enjoy cooking when they can practice it se riously at their leisure, but not when they're just fueling up human bodies for work. Third -- other things being equal -- some things that are unsatisfying if done b y yourself or in unpleasant surroundings or at the orders of an overlord are enj oyable, at least for a while, if these circumstances are changed. This is probab ly true, to some extent, of all work. People deploy their otherwise wasted ingen uity to make a game of the least inviting drudge-jobs as best they can. Activiti es that appeal to some people don't always appeal to all others, but everyone at least potentially has a variety of interests and an interest in variety. As the saying goes, "anything once." Fourier was the master at speculating how aberran t and perverse penchants could be put to use in post-civilized society, what he called Harmony. He thought the Emperor Nero would have turned out all right if a s a child he could have indulged his taste for bloodshed by working in a slaught erhouse. Small children who notoriously relish wallowing in filth could be organ ized in "Little Hordes" to clean toilets and empty the garbage, with medals awar ded to the outstanding. I am not arguing for these precise examples but for the underlying principle, which I think makes perfect sense as one dimension of an o verall revolutionary transformation. Bear in mind that we don't have to take tod ay's work just as we find it and match it up with the proper people, some of who m would have to be perverse indeed. If technology has a role in all this it is l ess to automate work out of existence than to open up new realms for re/creation . To some extent we may want to return to handicrafts, which William Morris cons idered a probable and desirable upshot of communist revolution. Art would be tak en back from the snobs and collectors, abolished as a specialized department cat ering to an elite audience, and its qualities of beauty and creation restored to integral life from which they were stolen by work. It's a sobering thought that the grecian urns we write odes about and showcase in museums were used in their own time to store olive oil. I doubt our everyday artifacts will fare as well i n the future, if there is one. The point is that there's no such thing as progre ss in the world of work; if anything it's just the opposite. We shouldn't hesita te to pilfer the past for what it has to offer, the ancients lose nothing yet we are enriched. The reinvention of daily life means marching off the edge of our maps. There is, it is true, more suggestive speculation than most people suspect. Besides Fouri er and Morris -- and even a hint, here and there, in Marx -- there are the writi ngs of Kropotkin, the syndicalists Pataud and Pouget, anarcho-communists old (Be rkman) and new (Bookchin). The Goodman brothers' Communitas is exemplary for ill ustrating what forms follow from given functions (purposes), and there is someth ing to be gleaned from the often hazy heralds of alternative/appropriate/interme diate/convivial technology, like Schumacher and especially Illich, once you disc onnect their fog machines. The situationists -- as represented by Vaneigem's Rev olution of Daily Life and in the Situationist International Anthology -- are so ruthlessly lucid as to be exhilarating, even if they never did quite square the endorsement of the rule of the worker's councils with the abolition of work. Bet ter their incongruity, though than any extant version of leftism, whose devotees look to be the last champions of work, for if there were no work there would be no workers, and without workers, who would the left have to organize?

So the abolitionists would be largely on their own. No one can say what would re sult from unleashing the creative power stultified by work. Anything can happen. The tiresome debater's problem of freedom vs. necessity, with its theological o vertones, resolves itself practically once the production of use-values is coext ensive with the consumption of delightful play-activity. Life will become a game, or rather many games, but not -- as it is now - -- a ze ro/sum game. An optimal sexual encounter is the paradigm of productive play, The participants potentiate each other's pleasures, nobody keeps score, and everybo dy wins. The more you give, the more you get. In the ludic life, the best of sex will diffuse into the better part of daily life. Generalized play leads to the libidinization of life. Sex, in turn, can become less urgent and desperate, more playful. If we play our cards right, we can all get more out of life than we pu t into it; but only if we play for keeps. No one should ever work. Workers of the world... relax!

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