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COMUNICAZIONE. Filosofia e semiotica. La nozione di comunicazione (dal lat. tardo e medievale communicatio, [latto di] mettere in comune con altri, di trasmettere a) ha unampia circolazione nel dibattito filosofico-linguistico contemporaneo. Diversamente che in altre aree disciplinari, essa non di norma utilizzata per caratterizzare lessenza n la funzione dominante del linguaggio (alla quale concorrono nozioni quali cognizione, espressione, interpretazione ecc.), ma per riferirsi alla sua dimensione pragmatica, coinvolgente due o pi soggetti (umani, animali non umani, in certi casi anche automi), in un processo semiotico regolato da codici. Da tale punto di vista la c. va distinta (Prieto 1966) dalla semplice significazione, ovvero dallattribuzione di senso a un evento percettivo qualsivoglia, da parte di un interprete, in assenza di unintenzionalit comunicativa altrui. In quanto strettamente connessa a un sistema di relazioni sociali, e agli effetti istituzionali svolti dal linguaggio (verbale o non verbale), la prassi comunicativa insiste sul territorio tradizionalmente coperto dalla retorica. Si parla inoltre (in analogia con la competenza linguistica, caratterizza del parlante la che, secondo spontanea competenza N. Chomsky, delle regole conoscenza nativo) di

grammaticali del proprio linguaggio storico-naturale da parte comunicativa (espressione coniata da D. Hymes) per riferirsi alla conoscenza delle regole di utilizzazione appropriata di enunciati e testi linguistici in situazioni e/o contesti culturalmente determinati.

La ricerca filosofica sulla c., partendo da un ormai consolidato patrimonio di riflessioni classiche che ne ha sedimentato il nocciolo teorico e terminologico di base, e continuando a formarne limplicita sponda, si muove allintersezione fra discipline diverse, dalla linguistica alla psicologia (soprattutto di orientamento cognitivo; v. oltre: COMUNICAZIONE: Psicologia), dalla teoria matematica dellinformazione alletnografia e alla filosofia della mente. In questo complesso intreccio, essa identifica un proprio spazio riconducendo la problematica comunicativa oltre la dimensione strumentale e utilitaristica del linguaggio, cercando di coglierne linerenza ai dispositivi generali della conoscenza e agli assetti biocognitivi delle specie. Sembra possibile identificare quattro modelli principali del processo comunicativo, corrispondenti ad altrettanti percorsi, sovente fra loro alternativi, della filosofia del linguaggio degli ultimi decenni. Il primo in ordine cronologico il circuito della parole formulato nel Cours de linguistique gnrale di F. de Saussure (1916, 19222), modello di origine linguistica inserito nel circuito filosofico tramite la rilettura esegetico-critica del pensiero saussuriano avvenuta negli anni Cinquanta-Sessanta del 20 sec. (R. Godel, R. Engler, T. De Mauro): il processo della c. ha un risvolto fisico-acustico e uno psichico, corrispondente allarticolazione del sapere linguistico in un sistema astratto, condiviso dai parlanti, la langue, e in (potenzialmente) infiniti atti linguistici individuali (o parole), i cui componenti fonici e semantici si ripartiscono nelle classi, arbitrariamente al determinate e da al ogni lingua, corrispondenti significante significato.

Larbitrariet radicale dei sistemi linguistici, mentre

rappresenta il modo in cui le diverse lingue giungono a strutturare la nebulosa del pensiero e del suono prelinguistici, chiarendo dunque la loro funzione formativa (nel senso gi di K.W. von Humboldt) e conoscitiva, garantisce daltra parte della loro interna storicit, irriducibile a un banale convenzionalismo semiotico (il che escluderebbe limputazione di platonismo variamente avanzata al Saussure); conseguentemente, tempo e massa parlante risultano fattori non esterni, ma costitutivi della dinamica linguistica, e il rapporto fra individuale e sociale nel linguaggio (corrispondente al rapporto parole/langue) assume carattere dialettico: parlanti e ascoltatori sono sempre necessariamente ben pi che fruitori di un codice, e al funzionamento del sistema di classificazione che fonda la reciproca comprensione connaturato un principio di indeterminatezza, quanto a dire di adattabilit al concreto della situazione comunicativa, nel tempo e nello spazio. La diffusione di una lettura vulgata del Saussure nellambito dello Strutturalismo chiuso del ontologica, europeo sistema anzich (carattere linguistico, meramente presuntivamente contrapposizione

metodologica, fra sincronia e diacronia ecc.) ha contribuito al diffondersi di altri modelli apparentemente estranei a quella lezione. E il caso del cosiddetto modello lineare della c., elaborato da G.A. Miller (1951) e successivamente da R. Jakobson (1956) a partire dalla teoria matematica dellinformazione formulata nel noto schema di C.E. Shannon e W. Weaver (1949). Ogni processo comunicativo importa la presenza di sei partner (mittente, messaggio, ricevente, codice, canale, contesto), relazionati in modo che quel messaggio (un qualsiasi testo) che il mittente codifica

tramite un linguaggio x, utilizzando il mezzo fisico richiesto dal codice (per es., il mezzo fonico-uditivo nel caso della verbalit, il mezzo grafico-visivo nel caso della scrittura ecc.) e tenendo conto di un sistema di circostanze esterne (contesto), viene positivamente decodificato dal ricevente, purch vi sia condivisione del codice e pi o meno completa condivisione del contesto. A tale schema ideale Jakobson associa la teoria delle funzioni del linguaggio, basata sullidea che in ogni evento comunicativo, pur essendo compresenti i sei partner, uno di questi di volta in volta assuma una posizione di salienza: si ha quindi, a seconda dei casi, una prevalente funzione emotiva (mittente), conativa (ricevente), ftica (canale), referenziale (contesto), metalinguistica (codice) e poetica (messaggio). Lo schema jakobsoniano ha avuto amplissimo risalto, e costituisce spesso lo standard con cui si aprono i trattati di comunicazione. Esso presenta infatti una larga estensibilit a linguaggi diversi, che ha aiutato il costituirsi di un approccio integrato ai fenomeni comunicativi, bilanciato fra livello teorico-descrittivo e applicazioni alle pratiche della c. di massa (giornalismo, radio, televisione). Al successo interdisciplinare del modello hanno fatto riscontro, allincirca dalla met degli anni Settanta del 20 sec., opposizioni crescenti insorte al convergere di prospettive teoriche diverse: la semiotica interpretativa di derivazione peirceana, la psicologia e la linguistica cognitiva, la metaforologia. E stata rilevata la fallacia della nozione di codifica/decodifica, la quale implica una concezione banalmente strumentalista del linguaggio verbale, dipendente a sua volta sia da una visione statica, ingegneristica del concetto di codice, sia da una semplicistica equiparazione (a ruoli invertiti) delle funzioni

di emittenza e ricezione. In particolare, il carattere articolato e stratificato di ogni codice linguistico (non riducibile al caso dei codici artificiali) emerso dallanalisi delle variet di accessi cognitivi dei parlanti, condizionati da variabili di ordine sia idiosincratico, sia storico e sociale (incluse possibili situazioni di bi- e multinguismo); inoltre il ruolo non meramente ricettivo-passivo del ricevente risultato dalle ricerche intorno alla complessit del capire, di estrazione sia psicologico-linguistica (da L.S. Vygotskij alla psicologia cognitiva), sia semiotica (la teoria del lettore cooperante di U. Eco), sia fenomenologico-ermeneutica (la teoria della ricezione di W. Iser e della cosiddetta Scuola di Costanza). Tuttavia parti del pensiero elaborato da Jakobson, in particolare la teoria della funzione poetica, contenevano anticorpi contro la sua diffusa semplificazione sociologicomediale, in un senso (quello della creativit del ricevente) che lasciava preludere a temi del dibattito successivo. Il terzo modello della c. nasce nellarea della filosofia analitica, con lo sviluppo di una terza branca della filosofia del linguaggio la pragmatica (pragmatics), accanto alla sintattica e alla semantica (secondo la celebre tripartizione proposta da Ch. Morris nel 1938) , con lo scopo di indagare il rapporto del linguaggio con i suoi utenti, e sul presupposto che il significato, oggetto della semantica, sia indagabile separatamente dallutilizzazione empirica delle parole. A questa impostazione si giunge sulla scorta della scuola oxoniense di J.L. Austin (How to do things with words si intitola il libro che nel 1962 rese note le sue lezioni) e, in misura minore, di quella cantabrigense di Wittgenstein, che nelle Ricerche filosofiche (1953) aveva teorizzato la molteplicit e la centralit epistemica delluso linguistico. Il

problema della c. si ripresenta in questa tradizione come articolazione di una teoria del linguaggio ordinario, nelle sue componenti illocutive (intese cio a realizzare azioni mediante il linguaggio, sovente mediante luso di specifiche risorse linguistiche, per es., verbi come promettere, giurare, dichiarare, e simili) e perlocutive (che, cio, condizionano e influenzano i partner comunicativi). Le distinzioni di Austin (anticipate per certi versi da G. Frege) sarebbero state integrate da P. Grice in una teoria dei principi regolativi della conversazione (le cosiddette massime della quantit, della qualit, della relazione e del modo) che formerebbero lorizzonte implicito entro cui i parlanti comunicano (anche quando vogliano distorcerne o negarne la logica); e successivamente da una precisa tipologia di atti comunicativi cui si ricondurrebbero le forme istituzionali di comportamento linguistico. La teoria degli speech acts (Searle 1969) si distacca da Wittgenstein nel momento in cui suggerisce che vi sia un numero chiuso, tendenzialmente universale di giochi linguistici, caratterizzabili come atti rappresentativi (impegno del parlante alleffettivo darsi di qualcosa), direttivi (tentativi di indurre lascoltatore a fare qualcosa), commissivi (con i quali il parlante si impegna ad assumere una condotta futura), espressivi (esprimenti lo stato psicologico del parlante verso le circostanze specificate nel contenuto proposizionale), dichiarativi (finalizzati a sostenere la corrispondenza fra contenuto proposizionale e realt). In tale forma la teoria ha raggiunto il suo stadio maturo e ha esercitato un influsso imponente sui dibattiti pragmatici, sovente intersecando aree disciplinari e branche di ricerca diverse ma correlate, quali la linguistica testuale e

la sociolinguistica, la neoretorica, la psicologia della comunicazione. Allapproccio alla c. della filosofia del linguaggio ordinario sottesa, come in genere nelle dottrine di area analitica, una visione tendenzialmente strumentalista del linguaggio, che, se da una parte le demarca dalla tradizione saussuriana e strutturalista (anche nella versione postkantiana di E. Cassirer), dallaltra non esclude notevoli sviluppi teorici che la conducono oltre quel limite originario. Lo studio griciano delle implicature conversazionali (di cui le massime citate sono lespressione diretta) porta con s unattenzione privilegiata a quanto nella c., pur restando implicito, forma lorizzonte di senso dei parlanti: le loro presupposizioni (approfondite in chiave logica da R. Stalnaker e in chiave linguistica da O. Ducrot), le loro svariate inferenze (onde evidenti intersezioni con problematiche logiche ma anche semiotiche, soprattutto in prospettiva peirceana). (nel senso, Analogamente, le teorie di Searle si integrano con la tematica filosofico-mentalista dellIntenzionalit inaugurato da F. Brentano, del direzionamento verso il mondo dei nostri stati o contenuti mentali), andando cos al di l dellintenzionalismo (con la i minuscola) delle dottrine convenzionaliste. Non sorprende pi di tanto, dunque, la torsione in senso antianalitico e neotrascendentalista che la Speech acts theory ha subito in area tedesca, a opera di autori come K.O. Apel (che si propone di valorizzare in senso kantiano, con Searle ma contro Searle, la nozione di atto comunicativo) e soprattutto come J. Habermas, con la sua idea di una pragmatica universale che assuma la forma di una teoria complessiva dellagire comunicativo (Habermas

1981), con forti implicazioni etiche e nella prospettiva di una grammatica a suo modo politica della comunicazione. Un quarto modello, proposto da D. Sperber e D. Wilson nel 1986, e successivamente sviluppato e riarticolato (Sperber, Wilson 19952, 2004), muove decisamente dallo studio delle operazioni cognitive dei parlanti, subordinando a esse (anche dal punto di vista filogenetico) le pratiche comunicative. Il punto di partenza dei due autori una serrata critica del modello Shannon-Weaver e in particolare del concetto di codifica/decodifica. Come insegna Grice, il significato strettamente linguistico dei messaggi (sentence meaning) soltanto un input per la ricostruzione, da parte del soggetto umano, della reale intenzione di senso dellaltro (speakers meaning), identificata mediante inferenze che scelgono fra le varie possibilit di interpretazione quella pertinente al contesto (la relevance dunque il principioguida del processo). Il contesto, lungi dal ridursi a un insieme di circostanze materiali esterne ai parlanti, in effetti costruito dai parlanti stessi in base al loro sapere reciproco. In fasi successive della ricerca, il risvolto cognitivo del processo di c. stato approfondito mediante il ricorso alle nozioni di Intenzionalit e di teoria della mente, desunti dal coevo dibattito in filosofia della mente e in zoosemiotica cognitiva (D. Premack, A.M. Leslie). Loperazione di scelta delle pertinenze da cui dipende lesito della c. viene collegata al possesso da parte della specie umana di una sviluppatissima capacit di metarappresentazione (ovvero della capacit di attribuire alle altre creature stati mentali), presente a livelli rudimentali anche in altre specie animali: questa capacit fonderebbe le inferenze, e ne guiderebbe il funzionamento secondo principi di economia e minimo

sforzo; ogni processo inferenziale si ferma, infatti, non appena si sia raggiunto un senso che appaia il pi pertinente nel contesto dato. Alla luce di tale impostazione, un input pertinente per un individuo quando la sua elaborazione, in un contesto di assunzioni disponibili, produce un effetto cognitivo positivo. Un effetto cognitivo positivo una differenza degna di nota introdotta in una rappresentazione individuale del mondo per esempio, una conclusione vera (Sperber, Wilson 2004, p. 608). Rilevanti sono le conseguenze di tutto ci sia per la teoria linguistica, sia per la filosofia della mente. Per un verso, infatti, la c. non sarebbe che un campo di applicazione fra altri delle capacit metarappresentazionali, le quali caratterizzerebbero la cognizione umana prima e indipendentemente dal linguaggio; per un altro verso, il dispositivo inferenza-pertinenza risulterebbe svincolato dallo stesso principio griceano di cooperazione, come da ogni convenzione squisitamente comunicativa, per caratterizzarsi come un modulo cognitivo specifico. Inoltre, se la capacit di comunicare in armonia con quanto evidenziato negli ultimi cinquantanni dalla etologia comparata e dalla zoosemiotica appare facilmente estendibile a numerose specie animali, dalle api agli scimpanz, la ricerca delle peculiarit dellindividuo andrebbe invece riferita a una superiore architettura e organizzazione delle forme conoscitive. In questo quadro torna dattualit il dibattito inaugurato da J.A. Fodor intorno al carattere informazionalmente incapsulato di sezioni importanti dellapparato cognitivo (accanto a processi cognitivi centrali relativamente indifferenziati). Sperber e Wilson si collocano fra coloro che ritengono possibile ampliare e quasi generalizzare il modello modulare

fodoriano, sostenendo che la ricerca della migliore pertinenza comunicativa, sorretta dal principio di economia cognitiva, pu dipendere da un modulo dedicato il quale automaticamente calcolerebbe e soppeserebbe unipotesi intorno allo speakers meaning sulla base degli input linguistici e non linguistici disponibili. E interessante osservare, prescindendo dalle articolazioni interne delle differenti teorie presentate, come un elemento costante dellanalisi filosofica della c. sia la ricerca intorno alla presenza e alle modalit di intervento della soggettivit umana nellattivit linguistica. A questo obiettivo guardano, con strumenti diversi e spesso senza reciproca permeabilit, la scuola postsaussuriana, che afferma il carattere interno della comunit parlante rispetto alla lingua e insiste sulla conseguente indeterminatezza (quanto a dire non autonomia calcolistica, storicit) del significato; la lettura di Jakobson dei processi di connotazione a carico della funzione poetica del linguaggio; lenfasi di Grice sulle dinamiche inferenziali sottese alla conversazione, indipendentemente e al di l delle pure e semplici convenzioni comunicative; la critica di Sperber e di Wilson alla dottrina del codice, che conduce a una focalizzazione delle peculiarit cognitive umane impegnate nella prassi comunicativa. Anche la teoria degli atti linguistici, nelle suggestive combinazioni che lhanno contraddistinta con letnografia della c. e la semiotica sociale (Hymes, M. Halliday e altri) appare, da tale punto di vista, orientata nella stessa direzione. Permangono tuttavia profondi dissensi fra le scuole quanto alla complessiva teoria del linguaggio da sottoscrivere (Ferretti, Gambarara 2005): se, cio, la critica alla riduzione sociologica della c. vada svolta sul presupposto (humboldtiano e saussuriano, ma anche

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cassireriano) della centralit cognitiva del linguaggio; o se invece la c. (e il linguaggio in genere) vada ridotta, sulle orme di Chomsky e del Cognitivismo, alla dimensione di un modulo, subordinato a una pi complessiva architettura mentale specie-specifica.
BIBL.: F. de Saussure, Cours de linguistique gnrale, Paris 19222; trad. it., Bari 1967; C.E. Shannon, W. Weaver W., The mathematical theory of communication, Urbana 1949; trad. it., Milano 1971; R. Jakobson, Fundamentals of language, The Hague 1956; trad. it. Saggi di linguistica generale, Milano 1966; L.J. Prieto, Messages et signaux, Paris 1966; trad. it. Lineamenti di semiologia: messaggi e segnali, Bari 1971; J.R. Searle, Speech acts: an essay in the philosophy of language, London 1969; trad. it., Torino 1976; H. Hymes, Foundations in sociolinguistics: an ethnographic approach, Philadephia 1974; trad. it., Bologna 1980; Gli atti linguistici: aspetti e problemi di filosofia del linguaggio, a cura di M. Sbis, Milano 1978; J. Habermas, Theorie des Kommunikativen Handelns, Frankfurt a. M. 1981; trad. it, Bologna 1986; D. Sperber, D. Wilson, Relevance. Communication and cognition, Oxford 1986, 19952; trad. it., La pertinenza, Milano 1993; P. Grice, Studies in the way of words, Cambridge 1989; trad. it. Logica e conversazione: saggi su intenzione, significato e comunicazione, Bologna 1993; C. Bianchi, Pragmatica del linguaggio, Roma-Bari 2003; D. Sperber, D. Wilson, Relevance Theory, in Handbook of pragmatics, ed. L.R. Horn, G.L. Word, Oxford 2004, pp. 607-632; Comunicazione e scienza cognitiva, a cura di F. Ferretti, D. Gambarara, Roma-Bari 2005. STEFANO GENSINI

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